Giuseppe Frizzi. Il «minatore» umile e appassionato


La malattia ha portato via senza preavviso un altro missionario del Mozambico. Un bergamasco semplice, che ha amato il popolo a cui è stato mandato, i Macua Xirima (o Scirima), con tutto il suo cuore e, ancor più, con tutta la sua intelligenza.

Ho conosciuto padre Giuseppe Frizzi, missionario della Consolata, ventuno anni fa in Mozambico, a Maúa, nella provincia del Niassa. Maúa è stata la mia prima – e fino a oggi unica – esperienza di missione ad extra. Viverla al fianco di un missionario dello spessore umano, spirituale e apostolico di padre Frizzi ha costituito per me una vera benedizione e una straordinaria opportunità di trasformazione e crescita nella mia vocazione di missionaria della Consolata. Da allora, pur essendo stata chiamata ben presto ad altri servizi fuori dal Mozambico, ho sempre seguito da vicino, con viva partecipazione, profondo interesse e ammirazione, il suo percorso missionario e il suo instancabile impegno pastorale e di ricerca sul fronte etnografico, etnologico, linguistico ma soprattutto teologico e missionario.

Chiesa di San Luca a Maua

Maúa, più che un luogo

Vorrei spendere una parola sul contesto di Maúa, partendo da quanto ho vissuto durante la mia permanenza là e nei successivi contatti fino ad oggi, nell’intento anche di situare quanto cercherò di esprimere circa la mia esperienza con, e di, una persona eccezionale come «padre Frizzi» (come era da tutti chiamato).

Arrivata a Maúa nell’anno 2000, mi inserisco nell’équipe missionaria della parrocchia di san Luca. L’équipe è formata da padri, fratelli e suore, tutti missionari e missionarie della Consolata. Padre Frizzi è il parroco. L’équipe ha la sua sede in Maúa, ma serve decine e decine di comunità cristiane sparse nel distretto omonimo e in altri confinanti facenti capo alla parrocchia di san Luca, che in quegli anni attende pure ad altre tre parrocchie a loro volta suddivise in decine di comunità cristiane animate da ministri laici.

La popolazione del distretto di Maúa e di quelli limitrofi è per la stragrande maggioranza di etnia Macua Xirima. È una etnia bantu caratterizzata da una cosmovisione, un’antropologia e una teologia assolutamente originali e affascinanti, radicate nella percezione della femminilità e della maternità come assi portanti dell’universo, percezione che si traduce anche in una particolare struttura sociale matriarcale, matrilineare e matrilocale e in una spiritualità dalle chiare connotazioni femminili e materne.

Evangelizzazione inculturata

La linea pastorale scelta dall’équipe missionaria, in accordo con la diocesi, è caratterizzata da un’attenzione particolare all’evangelizzazione inculturata. Arrivare a Maúa significa venire a contatto con una sensibilità pastorale segnata in modo particolare dalla percezione del cammino che Dio ha già percorso col popolo Macua Xirima, dal rispetto di questo cammino e da una proposta evangelica chiara e dialogica. Tale proposta, mentre offre necessariamente un salto di qualità nella relazione con Dio e tra le persone, gode di valorizzare, approfondire e lasciarsi istruire dal tesoro dell’esperienza che il popolo ha vissuto con Dio nella storia, espressa dalla religione tradizionale e dalla cultura in generale.

In questo contesto pastorale si inserisce il Centro studi Macua Xirima (in portoghese: Centro investigações Macua Xirima – Cimx) iniziato da padre Giuseppe che ne è il direttore, unendo questa sua attività a quella di parroco fino alla fine dell’anno 2020.

Durante la mia permanenza a Maúa, ho avuto l’opportunità di collaborare con padre Frizzi al Cimx oltre che nella pastorale. Poiché il Cimx ha un ruolo fondamentale nello splendido percorso missionario che lo Spirito ha suscitato e guidato a Maúa e dintorni, è opportuno spendere qualche parola per illustrarne l’origine, la natura e le caratteristiche.

Il Centro Studi

Arrivato in Mozambico nel 1975, dopo il dottorato in teologia biblica e una breve permanenza in Portogallo e in Inghilterra, negli anni 1979-1986 padre Frizzi si trova nella missione di Cuamba, circa 150 km a Sud di Maúa. Sono gli anni difficili del governo di ispirazione marxista, della nazionalizzazione delle missioni, della guerra civile. Padre Frizzi, come gli altri missionari e missionarie, è sottoposto a limitazioni della libertà di movimento da parte delle istituzioni di governo. Utilizza questo periodo per lo studio della lingua macua e l’organizzazione di materiale etnografico e linguistico già raccolto da missionari e missionarie negli anni precedenti. Nel 1982, egli pubblica la prima edizione del messale festivo in lingua macua xirima, il Masu a Muluku.

Con il trasferimento a Maúa, presso la parrocchia di san Luca, nel 1987 padre Frizzi inizia la raccolta più sistematica del materiale etnografico, coadiuvato da un gruppo di collaboratori locali. Nasce così, senza fare rumore e quasi inosservato, il Centro investigações Macua Xirima (Cimx). In un certo senso, il Cimx è un po’ il cuore della parrocchia di san Luca e del percorso missionario in quel contesto.

In quel contesto si è creato un po’ per volta un clima umano fatto di calore, fiducia e reciprocità nel quale fluisce un autentico e fecondo dialogo. A quel clima contribuisconono tutti gli aspetti del lavoro impostato dal padre: la famigliarità con il materiale tradizionale, l’allenamento progressivo a verbalizzarne le tematiche, lo sforzo di tradurre la Parola di Dio in lingua xirima, attraverso discussioni appassionate e a volte infuocate sulla scelta dei vocaboli ma anche sul significato delle parole. Ma poi anche il confronto costante tra persone diverse nei gruppi di traduzione, elaborazione e revisione dei testi. Ultimo, ma non meno importante, anche il rapporto quotidiano tra padre Frizzi, gli altri missionari, le missionarie e i collaboratori del Centro, corroborato da una storia vissuta assieme per lunghi anni, anche nei momenti duri della guerra, dell’incertezza e della disperazione.

Centro di umanità

In questo clima umano ho la grazia di essere accolta e di goderne le potenzialità e i frutti. Anche molti ricercatori, studenti, missionari e missionarie di varie nazionalità, esperienze e appartenenze religiose, possono abbeverarsi lungo gli anni al pozzo inesauribile e ricchissimo di Maúa. Qui apprezzano il patrimonio scientifico e spirituale depositato nel materiale raccolto e soprattutto nei cuori dei collaboratori locali del Centro, lasciandosi coinvolgere e trasfigurare dallo Spirito che fluisce, con soavità e abbondanza, in questa appassionante esperienza missionaria. Godono dell’accoglienza semplice, amabile, familiare dei missionari e delle missionarie della Consolata, scoprendo, con meraviglia e gratitudine, la grandezza umilissima e riservata, la sapienza profonda e disarmante, la fiamma ardente e dolce, la luce limpida e discreta che traspariva dalla persona di padre Frizzi, sempre pronto ad ascoltare, condividere, dialogare, accompagnare alla scoperta dei tesori che Dio semina e fa crescere nella persona e nel popolo.

I Frammenti

L’ultima pubblicazione di padre Frizzi e del Cimx ha visto la luce alla fine del 2020. Si tratta di un’opera originalissima, densa e sostanziosa: Fragmentos e segmentos da biosofia e biosfera xirima (Frammenti e segmenti della biosofia e biosfera xirima). Essa rappresenta un nuovo frutto maturo di oltre quarant’anni di esperienza missionaria tra il popolo Macua Xirima. Scrive l’autore nell’introduzione a questa sua opera: «La pubblicazione dei “Frammenti e segmenti della biosofia e biosfera xirima” presuppone la lettura attenta del volume Murima ni ewani exirima – Biosofia e biosfera xirima, pubblicato nel 2008, perché vuole esserne la continuazione e il complemento esemplificato. È un’altra, forse l’ultima, tappa importante del lungo cammino iniziato nell’anno 1937, con l’arrivo dei primi missionari e missionarie della Consolata nel Sud del Niassa. Capire e parlare la lingua xirima era condizione necessaria per comunicare e evangelizzare. Alcuni missionari non solo si sforzarono di parlare la lingua xirima, ma si dedicarono alla ricerca filologica attraverso l’elaborazione di grammatiche e dizionari, penetrando nella struttura della lingua e contribuendo alla conoscenza della stessa. Col tempo, comparvero i primi lavori di ricerca e di traduzione in campo liturgico, catechetico e biblico. […] Nutro la certezza che anche questi Frammenti e segmenti potranno favorire il consolidamento delle radici culturali xirima perché diventino in futuro capaci di innalzare antenne aperte alla pluralità linguistica e culturale a livello locale, nazionale e mondiale».

Minatore cronico

Padre Frizzi, come un appassionato ricercatore di pietre preziose, un «minatore cronico», come lui amava definirsi, ha sondato e scavato con amore e riverenza il terreno umano e spirituale dei Macua Xirima, accogliendo e raccogliendo i tesori che ne emergevano. Ha sperimentato con gioia che il primo atto missionario è il raccogliere più che il seminare, mietendo ciò che Dio ha seminato e fatto crescere nel cuore della persona e del popolo lungo il suo cammino storico e spirituale.

Ha vissuto la beatitudine del missionario evangelizzato da coloro che evangelizza, nella dinamica di un fecondo, intenso e coinvolgente scambio di doni.

Ha varcato la porta della Luce tornando a Colui che lo ha inviato e consegnando a Lui il raccolto straordinario, sovrabbondante, di una vita di appassionata ricerca e di profonda unione con Dio, vissuta nella gioia evangelica e nella gratitudine più genuina anche in mezzo a vicende molto dolorose e drammatiche. Nella semplicità, sobrietà ed essenzialità, ha imparato a distinguere ciò che è importante da ciò che è effimero, nell’impegno convinto e fervoroso a costruire sempre ponti di comunione, ad aprire strade di congiunzione, a tessere legami di vera fraternità.

La tomba di un Buono

I funerali di padre Frizzi si sono svolti il 3 novembre 2021 nella chiesa di Nzinje a Lichinga e poi è stato sepolto nel cimitero del santuario della Consolata di Massangulo. Il suo corpo è stato accolto nel grembo fertile della terra rossa del Niassa. La sua vita è ora pienamente trasfigurata dalla luce lieta e avvolgente dell’abbraccio di Dio Padre e Madre, ardentemente desiderato, cercato, trovato, amato, annunciato, celebrato lungo la sua intensissima vita.

Un proverbio macua recita: Pixa murima nlitti nawe khannìxa. La fossa in cui si seppellisce la persona buona/mite/trasparente/santa (=pixa murima) non è profonda.

Molti anni fa, chiedendo ai collaboratori del Cimx di Maúa qualche delucidazione circa questo proverbio, mi venne spiegato che nessuno ha piacere né fretta di separarsi dal pixa murima, ossia da chi è buono/mite/trasparente/santo. Per questo, quando egli muore, si fa fatica a scavargli la fossa e chi comincia a farlo perde in fretta l’energia in seguito al dispiacere. Perciò la fossa non riesce a essere profonda. Inoltre, non è necessario seppellirlo molto in profondità, anzi, meglio lasciargli la possibilità di uscire senza troppa difficoltà dalla tomba, se volesse, per tornare nel mondo dei vivi, ove sarebbe sempre più che benvenuto.

suor Simona Brambilla, Mc

Sepoltura e tomba nel cimitero della Consolata a Massangulo

 


Breve biografia

 

Padre Giuseppe Frizzi nasce a Suisio (Bg) il 14 maggio 1943. Entrato giovanissimo tra i Missionari della Consolata, emette la prima professione religiosa nel 1963 e nel 1969 viene ordinato sacerdote a Roma.
Dopo i primi studi di filosofia e teologia a Roma, nel 1973 consegue il dottorato in teologia biblica presso la Westfälische Wilhelms Universität di Münster (Germania) con una tesi su Mandare/inviare in Luca – Atti.
Padre Frizzi viene inviato in Mozambico nel 1975 e vi rimarrà fino alla morte. Per molti anni è parroco della parrocchia di san Luca a Maúa e direttore del Centro studi Macua Xirima della diocesi di Lichinga, situato nella stessa parrocchia. Lì coniuga in modo ammirevole e armonico un intenso e gioioso impegno pastorale, anche nel periodo drammatico della guerra civile, con un inesauribile dinamismo di preghiera, riflessione, studio, dialogo a vari livelli. Matura una lunga e profonda esperienza nel campo della evangelizzazione inculturata, della ricerca etnografica, linguistica, antropologica culturale e missiologica, che sfocia anche in molte pubblicazioni.

Nel 2009, padre Frizzi viene insignito della laurea Honoris causa in missiologia da parte della Pontificia Università Urbaniana in Roma. Dopo una brevissima malattia, padre Frizzi torna alla Casa del Padre il 30 ottobre 2021, proprio ai vespri della memoria liturgica della Beata Irene Stefani, missionaria della Consolata, alla quale era spiritualmente legatissimo e per la cui causa di beatificazione aveva dato il suo fondamentale contributo.

S.B.

IL CIMX:
un centro di ricerca e incontro interculturale

Il Centro investigações Macua Xirima, fin dagli inizi, ha perseguito diverse piste di ricerca:

  • catechesi, bibbia e liturgia (1);
  • lingua, educazione, cultura (2);
  • scultura, pittura, architettura (3).

Il Cimx, fino a questo momento, è stato un organismo flessibile e di tipo familiare con la sua sede principale in alcuni locali della parrocchia di Maúa, che conservano lo stile semplice e sobrio dell’ambiente in cui sono inseriti. In questi locali, alcuni computer costituivano gli strumenti di lavoro dei collaboratori addetti a ricevere e archiviare il materiale proveniente dai ricercatori sul campo.

Questi erano persone di Maúa e dintorni che, in accordo con padre Frizzi, si recavano nelle varie comunità locali partecipando a riti, conversando con gli anziani, i saggi e i terapeuti tradizionali, e raccogliendo così materiale orale che registravano su audiocassette oppure trascrivevano su quaderni. Il materiale veniva consegnato al padre che ne prendeva visione e operava una prima selezione eliminando le ripetizioni. Vieniva quindi archiviato in formato cartaceo e digitale con rispettiva traduzione in portoghese.

Il Cimx è stato pure la sede della commissione locale per la traduzione della Bibbia in lingua macua xirima: lavoro durato una decina d’anni, che ha visto coinvolti padre Frizzi e una decina di collaboratori locali, uomini e donne, animatori di comunità cristiane.

Ancora, il Cimx è stato sede delle commissioni per l’elaborazione e revisione di varie pubblicazioni xirima in campo linguistico, catechetico, liturgico ed educativo.

Al Cimx hanno fatto riferimento vari artisti, pittori e scultori della Scuola d’arte san Pietro Claver, che operano in diverse località del distretto di Maúa e limitrofi.

Siamo fiduciosi che possa continuare nella sua missione.

S.B.

1 Segnaliamo le seguenti pubblicazioni che fanno capo al Centro:

  • il Catechismo degli adulti e dei bambini (1986); il Messale festivo – Masu a Muluku, seconda e terza edizione (1986 e 1999);
  • l’edizione ampliata e illustrata del libro di canti e preghiere – Mavekelo ni Itxipo (1986 e riedi­zione nel 2003);
  • il Nuovo Testamento – Watana wa nanano e il Libro dei salmi – Masalimu (1998);
  • la vita di Gesù illustrata – Yesu Atata ni Namuku, nell’edizione italiano/macua (2000), portoghese/macua (2002) e inglese/macua (2007);
  • La Bibbia in lingua xirima – Bibliya Exirima (2002).

2 Segnaliamo le seguenti pubblicazioni che fanno capo al Centro:

  • Mwana Mutthu Owo! (2002), un’antologia illustrata bilingue di racconti e proverbi tradizionali, ora in uso nelle scuole;
  • il Dicionário Xirima-Português e Português-Xirima (2005);
  • Murima ni Ewani Exirima – Biosofia e Biosfera Xirima (2008), una presentazione monumentale della cosmologia xirima attraverso testi tradizionali di proverbi, rac­conti, miti e riti;
  • Fragmentos e Segmentos da Biosofia e Biosfera Xirima (2020), una compilazione di temi significativi della cultura xirima, esplorati dall’autore attraverso la raccolta di testi rilevanti per la cosmovisione del popolo (approccio etnografico), l’analisi degli stessi (approccio etnologico) e il confronto con temi biblici e cristiani (approccio teologico – dialogo interreli­gioso).

3 La Scuola d’arte san Pietro Claver è parte integrante del Cimx. Ad essa si ri­fanno artisti locali che nel campo della scultura e della pittura sanno dare un contributo originale, espressione della loro cultura. In particolare, i crocifissi lignei scolpiti da questi artisti sono apprezzati in Mozambico e all’estero. Le illustrazioni delle pubblicazioni del Cimx sono tutte opere di artisti locali. Anche l’architettura delle nuove chiese e i lavori di recupero ed abbellimento delle vecchie chiese dopo la restituzione alla diocesi da parte dello stato, nella zona di Maúa e dintorni, si sono avvalsi di vari elementi culturali e dell’uso creativo di materiale locale.

Disegni Makua Sirima a matita sull’argomento della Beata Irene.

Il disegno Macua Xirima a matita, di Afonso Murupala, sull’argomento della Beata Irene, presentato a Roma durante l’incontro IMC, MC e LMC nel 13° Capitolo generale IMC, è un esempio dell’arte sviluppata nel Cimx. Questo il significato:

  • Suor Irene è una missionaria conosciuta in tutto il mondo per il suo casco coloniale. L’artista trasforma il casco coloniale e ne fa un cappello parigino, tanto elegante da attirare l’ammirazione dei due soldatini.
  • L’elegante e simpatico cappello, insieme alle ali del grande Spirito, adombrano l’immenso cuore materno della Nyaatha (madre di mi­sericordia) keniana e della Pwiyamwene (madre del popolo) mozambicana.


Grazie padre Frizzi,  fratello nostro

La perdita così repentina di una persona come padre Frizzi lascia in chi lo ha conosciuto da vicino un grande vuoto e dolore assieme a una viva,  immensa, profondissima gratitudine per aver avuto il privilegio, la grazia e l’onore di averlo incontrato e di aver condiviso con lui un tratto di cammino. A nome mio personale e dell’istituto delle Missionarie della Consolata desidero esprimere il nostro sentito e commosso grazie al carissimo padre Giuseppe Frizzi, fratello nostro.

Sì, padre Frizzi, proprio questo termine ha caratterizzato e cadenzato la tua presenza tra noi Missionarie della Consolata: fratello. Quante sorelle, dopo averti incontrato, mi hanno espresso questo commento: «Padre Frizzi è proprio un fratello». Ti abbiamo sentito e ti sentiamo così. Profondamente, autenticamente, inconfondibilmente fratello. Ti abbiamo visto avvicinarti a noi in tanti modi e occasioni, sempre col tuo fare rispettosissimo e umile, col tuo sguardo attento e discreto, col tuo sorriso timido, genuino e disarmante, col tuo cuore sensibilissimo e disponibile, ardente e mite, con la tua mente vulcanica, lucida, acuta e penetrante, con la tua parola sobria, stimolante e soave, con il tuo spirito libero, trasparente, effervescente e delicatissimo, capace di elevarsi ad altezze impensabili e di inabissarsi nelle profondità più recondite del Mistero di Dio e delle creature.

Ti abbiamo visto varcare la soglia di tante nostre comunità, e dei nostri cuori, con somma discrezione e altrettanta premurosa vicinanza: in ogni incontro con le Sorelle nelle varie assemblee, momenti di formazione comunitaria, Esercizi spirituali e altre piccole e grandi occasioni che ti abbiamo chiesto di condividere con noi, in Mozambico, in Kenya, in Tanzania, in Guinea Bissau, in Italia, in Brasile, in Bolivia. Con gioiosa e pronta disponibilità sei venuto, in punta di piedi, sei entrato in sintonia col nostro cammino, lo hai respirato, lo hai fatto in qualche modo tuo, benedetto e illuminato con la tua presenza, sempre umile, semplice, calda, dolce e affidabile, salda e tenera.

Missionario spigolatore

Quante volte, durante questi nostri incontri, ci hai parlato della missione, aiutandoci a leggere, specialmente attraverso il Vangelo di Luca, le coordinate di un cammino missionario consolatino all’insegna del dialogo, del tessere ponti, del divenire, come amavi chiamare te stesso, «cronici minatori», cioè persone che scavano, che vanno in profondità in se stesse e nel contatto con l’altro, rintracciando tesori nascosti, intercettando il movimento dello Spirito che danza in ogni cuore e in ogni popolo, cogliendo con stupore, gioia e gratitudine, il cammino di Dio nel cuore della persona e della cultura, dove il Signore, come amavi dire «è di casa e a casa».

Ci hai segnato la via di una missione nel segno dell’umiltà di chi si china a spigolare nel campo, raccogliendo quanto Dio ha già operato, mentre getta il seme del kerigma che feconda il terreno umano.

Missionario con lo zaino

L’ultima volta che ci hai fatto dono della tua presenza è stata in agosto 2021, a Nairobi, per un’importante assemblea a livello di Africa. Lì ci dicevi, tra l’altro:

«La missione non è subito seminare, ma mietere, mietitura, messe. Il Seminatore è Dio, gli inviati i mietitori. Il seme della mietitura è di Dio oppure Dio stesso, i mietitori lo raccolgono nel loro zaino. La messe è immensa, i mietitori sono pochi. La vocazione dell’inviato è speciale, singolare, rarissima…».

Ti piaceva tanto la metafora dello zaino, e commentando il Vangelo di Luca sottolineavi che noi missionari e missionarie siamo chiamati a partire e arrivare presso il popolo a cui siamo inviati con lo zaino vuoto, per lasciarcelo riempire dai tesori che Dio vorrà donarci nel contatto con l’esperienza spirituale di quel popolo, entrando con rispetto e gratitudine nella sua casa vitale.

Anche in quest’ultima occasione, a Nairobi lo scorso agosto, come spesso facevi, sei tornato sulla dimensione del ritorno dalla missione, ricordandoci che l’inviato sempre ritorna al Mittente, e vi ritorna con lo zaino pieno. Commentavi così il brano evangelico del ritorno dei discepoli dalla missione (Lc 10,17-24):

«Mietendo dalla messe di Dio già arata e coltivata, gli inviati non possono ritornare se non con lo zaino pieno di meraviglie di Dio, conosciuto di casa e a casa là dove sono stati inviati. Insomma, inviati a mietere ritornano da mietitori con il cuore che trabocca di gioia […]. Gesù invita l’inviato a deporre lo zaino, a svuotarlo per riempirlo di contenuti definitivi e non più transitori legati alla dinamica della missione, ma ora legati all’estasi finale della missione, all’estasi trinitaria, nella quale l’inviato ritorna al Mittente e si immerge in Lui in simbiosi e osmosi estatica e instatica, in profonda conoscenza e adorazione del mistero trinitario, ‘beatificato’ e trasfigurato».

Il tronco – fonte battesimale della chiesa di Nipepe dove è avvenuto il miracolo della Beata Irene

Beata Irene

Carissimo Fratello nostro, è così che ora ti sentiamo e vediamo: per lunghi anni hai riempito lo zaino del tuo cuore e del cuore di molti e molte spigolando nel campo missionario che Dio ti ha donato, tra il popolo Macua.

Hai intercettato la danza dello Spirito nell’anima profonda di questo amatissimo popolo, mietendo e seminando Vangelo; hai gioito e ci hai fatto gioire delle meraviglie che Dio aveva seminato e fatto crescere nel suo campo che è lo spirito della persona e della cultura, hai restituito a noi che ti abbiamo conosciuto i frutti splendidi che hai raccolto.

E tutto questo non lo  hai fatto da solo. Lo hai fatto coltivando un’esperienza profonda di Dio, lo hai fatto in comunione con tanti fratelli e sorelle con cui hai tessuto relazioni di autentico scambio di doni, lo hai vissuto in compagnia di una Sorella straordinaria: la beata Irene, che ti ha stimolato, illuminato, ispirato in tutto il tuo cammino missionario, fino a raggiungerti nell’ora del ritorno e a volerti con sé per celebrare in Cielo la sua Festa, il 30 ottobre scorso. Lì, nel Cielo, accompagnato per mano da Irene, hai portato, Fratello, il tuo zaino pieno, per restituirlo tutto a Dio e in Lui immergerti, assaporando ora in pienezza l’abbraccio dell’Amore tenerissimo e forte della Trinità, in lei beatificato e trasfigurato.

Celebrazione del funerale di padre Giuseppe Frizzi nel Santuario della Consolata di Massangulo.

Grazie, Fratello nostro! Dal grembo di Dio Madre, dove ora dimori, continua a sorriderci, animarci, accompagnarci, benedirci, ispirarci. Amen, alleluia.

suor Simona Brambilla, Mc


Da archivio MC

 

 




2021, un anno di progetti, nonostante la pandemia

 


Dopo il 2020, anche il 2021 è stato un anno difficile a causa del persistere della pandemia di Covid-19, che ha colpito in modo particolare tutti quei paesi che non hanno né le infrastrutture né i mezzi per adeguate campagne vaccinali.



20 Natali di solidarietà

Missioni Consolata Onlus è il braccio operativo del Missionari  della Consolata in Italia per sostenere i progetti dei loro confratelli  nei tre continenti dove annunciano il Vangelo con opere e parole.

È grazie all’aiuto generoso di voi, amici e benefattori, persone normali, che conoscete la fatica del vivere e del guadagnarsi il pane quotidiano se in centovent’anni (di cui 20 con la nostra Onlus) siamo riusciti  a realizzare scuole, ospedali, dispensari, centri per bambini abbandonati e donne vittime di violenza; se abbiamo «vestito gli ignudi, dato da mangiare agli affamati, consolato i prigionieri, dato l’acqua agli assetati, accolto gli stranieri», difeso la vita e l’ambiente, formato leader e quanto altro la creatività dell’amore è stata capace di inventare; se abbiamo fatto nascere  comunità cristiane vivaci e gioiose, costruito cappelle e chiese.

Grazie – Thank you – Asante sana – Ace olen – Akiba – Sobodi  – Matondo – šukran – Merci – Gracias – Obrigado.

Le sfide davanti a noi sono ancora tante, aggravate dalla pandemia,  dal cambiamento climatico e dall’irresponsabile attitudine dei potenti che non hanno occhi né cuore per i più poveri e i più indifesi.
Con il vostro aiuto potremo continuare a essere testimoni e servitori della misericordia di Dio e della tenerezza della nostra Consolata.
In queste pagine vi presentiamo solo alcuni dei progetti in corso. Ogni anno Mco pubblica il suo bilancio sociale sul sito missioniconsolataonlus.it nel quale sono presentati tutti i progetti e i conti relativi al periodo.

Per dare il vostro contributo trovate le informazioni necessarie
cliccando qui.

Vedi 20 Natali di solidarietà sul sito della Onlus



I Missionari della Consolata, che vivono in molte di quelle nazioni, per rispondere alle tante situazioni di difficoltà che il Covid-19 ha determinato, hanno avviato diversi progetti in favore delle fasce più fragili della popolazione.

Quella del Messico è una realtà molto dura per le donne. Padre Ramón Lázaro Esnaola, che da circa due anni lavora a San Antonio Juanacaxtle, stato di Jalisco, ne racconta le difficoltà e i drammi nei resoconti che condivide con confratelli e amici: «In questi mesi ho incontrato persone in situazioni davvero difficili: un’adolescente abbandonata quando aveva due anni alla quale la pandemia ora ha portato via anche la madre adottiva; una giovane donna a cui i cartelli del narcotraffico hanno ucciso il marito e di cui ora non sa nemmeno dove sia il corpo; tante donne, ragazze, bambine che subiscono maltrattamenti e abusi da parte padri, patrigni, compagni occasionali delle madri, parenti. E tante che il marito abbandona per un’altra e che si trovano sole, in condizioni economiche precarie, a crescere figli senza un compagno che le aiuti».

La violenza sulle donne è uno degli aspetti della violenza che permea di sé tutta la società messicana, dove gli omicidi sono 36mila all’anno, 29 ogni 100mila abitanti@. Per avere un metro di paragone, secondo i dati Istat, l’Italia nel 2019 ha avuto 315 omicidi, pari a 0,53 ogni 100mila abitanti@. In un simile contesto, è chiaro che «la violenza in tutte le sue espressioni – sui minori, familiare, di genere, giovanile, istituzionale … – è il nostro pane quotidiano», continua padre Ramón. «Ci sono giorni in cui, di fronte a certe storie, ci si sente davvero sobrepasados, sopraffatti. Poi, però, ci ricordiamo del motivo per cui siamo qui: per stare vicini alle persone, consolare e seminare speranza, e ritroviamo la forza per costruire il Regno».

Per sostenere padre Ramón e i suoi confratelli in Messico nello sforzo di offrire un’alternativa alle donne vittime di traumi, lutti e violenza, gli Amici Missioni Consolata avevano dedicato la mostra di solidarietà e la connessa raccolta fondi dell’8 dicembre 2020 al progetto Promuovi la vita difendi la donna@. Il progetto che padre Ramón ha seguito e realizzato in collaborazione con Mati, un’associazione locale di psicologi, ha avuto un costo di circa 16.498 euro, ha interessato circa 500 famiglie ed è quasi concluso, ma le attività della Casa Hogar Florecitas Madre Naty e di Mati continueranno a raggiungere decine di donne in condizioni di vulnerabilità.

Casa Hogar Florecitas Madre Naty

Acqua e allevamento per la Tanzania

Alla fine del 2020, i missionari della Consolata in Tanzania, in uno dei villaggi dalla missione di Pawaga, nella municipalità di Itudundu, Iringa, hanno realizzato un piccolo impianto idrico che serve 108 famiglie, una scuola e un dispensario. Fondi donati da privati, pari a circa 7.800 euro, hanno permesso di acquistare una pompa alimentata da un impianto fotovoltaico per connettere una fonte d’acqua con quaranta punti di distribuzione nel villaggio, in modo da garantire a tutte le famiglie di potersi procurare l’acqua senza dover percorrere chilometri a piedi. Il contributo degli abitanti del villaggio è consistito in venti giornate di lavoro volontario per installare la pompa e i tubi, montare i pannelli solari e piantumare alberi nel mezzo ettaro di terra che circonda la fonte d’acqua. Ora le oltre 750 persone del villaggio possono contare su un punto di distribuzione di acqua a meno di un chilometro dalla propria abitazione, in più la scuola primaria e il dispensario hanno impianti idrici adeguati.

Un altro progetto è a Kimbiji, nella diocesi di Dar es Salaam, dove, grazie al sostegno di Caritas italiana, si è avviata una piccola attività di allevamento generatrice di reddito per alcuni giovani per i quali la pandemia ha reso ancora più complicato trovare lavoro. La Banca Mondiale riporta che nel 2020 circa mezzo milione di tanzaniani è sceso sotto la soglia di povertà a causa delle restrizioni e delle conseguenze della diffusione del virus@. A Kimbiji, ora, diciassette giovani sono direttamente coinvolti nell’avvio di un allevamento di suini. A beneficiare della formazione fornita nell’ambito del progetto sulle tecniche di allevamento suino saranno fino a sessantacinque persone.

Una banca del sangue a Dianra

Al centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa D’Avorio, è in corso un progetto, sostenuto da un donatore privato e seguito da padre Matteo Pettinari, che si concentra sulla formazione del personale, sul miglioramento dei servizi del dispensario, come il trasporto dei pazienti, e sul sostegno delle attività legate alla salute infantile. Ma la parte del progetto che aggiunge al centro di salute un servizio fondamentale è quella della banca del sangue e delle trasfusioni. Avviata lo scorso settembre – dopo che ad agosto era arrivato il frigo per la conservazione delle sacche di sangue ed era stata completata la necessaria formazione del personale del centro -, la banca del sangue ha un ruolo fondamentale nel contrastare patologie, come l’anemia infantile strettamente legata alla malaria che è endemica nella zona.

Prima di questo intervento, spiegava nel progetto padre Matteo, era necessario andare nei centri trasfusionali più vicini, dai 30 ai 200 km di distanza su strade spesso impraticabili. «Ora, dal 14 settembre, data della prima trasfusione, a oggi», scriveva padre Matteo il 27 ottobre, «abbiamo già utilizzato 50 sacche di sangue: di queste, tre per trasfusioni a donne nel reparto maternità, le altre 47 sono tutte andate a bambini fra 0 e 5 anni».

Trasfusioni nel centr osanitario di Dianra

Progetti ancora aperti

In Mongolia si è concluso l’intervento che mirava a dotare il centro per i bambini di Chingiltei, nella periferia della capitale Ulan Bator, di uno spazio giochi con campo sportivo. Il centro è attivo dal 2017 e offre attività creative, ludiche e sportive, oltre al doposcuola per una trentina di bambini. Ora è pronto per tornare in funzione – la pandemia ne aveva imposto la chiusura – e per farlo deve acquistare materiale scolastico, identificare i bambini in condizioni di maggiore vulnerabilità per offrire loro borse di studio, e stipendiare il personale docente. Connesso con il lavoro del centro c’è anche un programma di sostegno per le famiglie più in difficoltà, alle quali vengono forniti beni di prima necessità.

veduta di Chingiltei, alla periferia della capitale Ulan Bator, Mongolia

Un posto sicuro per studentesse

Inhangoma è una missione che dista circa 30 chilometri da Mutarara, una cittadina di 60mila abitanti nella provincia di Tete, Nord del Mozambico. Ha un centro educativo che comprende una scuola secondaria frequentata da 1.250 alunni fra la ottava e la dodicesima classe. Gli studentati maschile e femminile, dove alloggiano gli allievi provenienti da zone lontane, sono sotto la responsabilità del ministero della Pubblica istruzione, ma la struttura per le studentesse è in uno stato fatiscente. Così, la mancanza di un alloggio sicuro e di condizioni igieniche adeguate scoraggia le ragazze che spesso abbandonano la scuola, in un contesto dove sono pochi gli studenti che arrivano alla fine del ciclo secondario. Il Mozambico ha un tasso di completamento della scuola secondaria inferiore al 24%, venti punti in meno della media dell’Africa subsahariana@.

«Da un po’ di tempo», spiega monsignor Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata e vescovo di Tete, «la diocesi ha ricevuto la richiesta di farsi carico di questo studentato femminile, a cominciare dal rifacimento del tetto fino alla tinteggiatura dei muri, dalla sostituzione di porte e finestre danneggiate, all’approntamento di servizi igienici adeguati». Questo primo intervento, per il quale monsignor Antunes ha chiesto sostegno a Missioni Consolata Onlus (Mco), ha un costo pari a circa 7.300 euro e offrirà un’ospitalità dignitosa e sicura a 45 ragazze che potranno così continuare i propri studi senza paure.

La scuola di Cantagalo

Una biblioteca per la scuola in terra indigena

La scuola indigena Shiminiyosi si trova nella comunità di Cantagalo nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Amazzonia brasiliana. È nata, come altre scuole indigene, in reazione all’imposizione da parte dello stato brasiliano di un sistema educativo che non tiene in considerazione le peculiarità storiche, linguistiche, ambientali e culturali dei popoli indigeni e tenta di omologarli alla cultura dominante.

Padre Joseph Mugerwa, che si occupa in particolare delle attività della comunità di Cantagalo, dove si trova la scuola, scrive:

«Nel dicembre 1988, le famiglie e le comunità di questa zona decisero, di propria iniziativa, di creare una scuola che fosse anche un luogo di valorizzazione della cultura indigena. Furono le famiglie degli studenti di allora e la comunità stesse, accompagnate dai missionari, che scelsero un luogo adatto e costruirono questa scuola, che oggi accoglie 120 alunni delle elementari. Su richiesta dei leader locali, la scuola è stata riconosciuta e approvata dal decreto del dipartimento dell’Istruzione dello stato di Roraima, ha un corpo docente di sedici insegnanti e il numero di studenti è in continua crescita».

Ma nonostante il riconoscimento ufficiale, la scuola non ha ricevuto alcun sostegno dallo stato per migliorare le proprie strutture. «Le piogge del 2019 hanno distrutto il tetto: con il progetto che presentiamo a Mco, dal costo di 9.749 euro, chiediamo assistenza per sistemare la struttura», precisa padre Joseph, «e per creare una biblioteca per gli studenti».

Lo stato dei bagni della scuola di Cantagalo

Oujda, al servizio dei migranti

Dal novembre 2020 i Missionari della Consolata sono attivi in Marocco, nella città di Oujda a 15 km dal confine con l’Algeria@.

Dal 26 settembre 2021 hanno la responsabilità piena della parrocchia di Saint Louis.

Qui sotto trovate i dettagli di questa nuova avventura missionaria che gli Amici Missioni Consolata vogliono sostenere con le loro iniziative di dicembre, in alternativa a quello che, prima del Covid-19, era la mostra dell’Immacolata.

Chiara Giovetti


 



Aiuto migranti Oujda | per dettagli clicca sul link qui sotto

Missione AMO, quattro ruote per servire

Padre Edwin di fronte alla chiesa di Saint Louis a Oujda

«Quattro ruote per… »

Gli Amici Missioni Consolata (Amc) si impegnano ad aiutare la «Missione Amo» provvedendo un mezzo essenziale per il servizio: un furgone multiuso, un Renault express intens, dal costo pari a 16.500 euro.

Il furgone verrà utilizzato per

  • recuperare i migranti che giungono nella zona malati, affamati ed esausti, e portarli al Centro di accoglienza della parrocchia, ai centri sanitari o al pronto soccorso per le cure necessarie;
  • trasportare e distribuire prodotti alimentari, per l’igiene o di protezione individuale, sia per il fabbisogno del Centro che per individui in necessità in varie parti della città;
  • accompagnare i migranti ai centri di formazione professionale e ogni altro bisogno prevedibile o imprevedibile.

***

È possibile sostenere questo progetto visitando il «Punto missioni Consolata» di fronte al Santuario della Consolata a Torino o inviando offerte per «AMC progetto 4 ruote per servire» utilizzando i dati trovati a questo link.

 

 




Una vita per la Missione


Uno dei sogni di ogni missionario è quello di morire in terra di missione ed essere sepolto all’ombra del baobab, in mezzo al popolo che ha tanto amato. Non è stata la sorte di padre Franco Gioda. La sua gente in Mozambico non ha potuto accompagnare nel suo ultimo viaggio il corpo di colui che ha servito la missione con un ardore eccezionale.

Tutta la vita di padre Franco è stata intessuta di missione: da quando lasciò il seminario diocesano di Torino per diventare missionario della Consolata.

Intessuti di missione furono gli anni trascorsi in Italia, per la formazione, l’animazione, la direzione. Ma molto più intensi furono quelli vissuti in Mozambico.

Nel Niassa

La sua prima missione fu nel Niassa, durante la lunga e dolorosa guerra di indipendenza. Quando tutti vivevano in allerta, per timore di imboscate o assalti, padre Franco non tralasciava di visitare le comunità dei cristiani nei villaggi lontani. In bicicletta o a piedi, su sentieri impervi, con il sole o la pioggia, giornate e giornate di cammino per incontrare le piccole comunità, pregare, celebrare, dare coraggio e speranza: «Dio non vi abbandona, io sono qui nel suo nome».

Più di una volta fu sorpreso da attacchi di guerriglieri, sparatorie e saccheggi. E i cristiani lo nascondevano affinché non lo scoprissero. E quando l’assalto finiva, tutti, cristiani e no, lo salutavano e lo ringraziavano: «Dio ci ha protetti dalla morte, perché tu eri qui con noi! Ma, padre, perché sei venuto fin qua?». E lui: «Sono qui per Lui!», diceva alzando un crocifisso.

«Giovane» a Fingoé

«Lui» è stato la ragione della vita missionaria di padre Franco. In questi ultimi anni, superati i settanta, ma sentendosi ancora un giovanotto, ha fondato con altri due confratelli la missione di Fingoé, nella diocesi di Tete. Fingoé è il capoluogo di una regione vasta 30mila Km2, come Piemonte e Liguria insieme. Dal 1974 era rimasta senza nessuna presenza missionaria in assoluto. E padre Franco, quotidianamente, prima in macchina, poi in moto, e poi a piedi, secondo le possibilità che le cosiddette strade permettevano, visitava i villaggi. Incontrando qualcuno, chiedeva: «Amico, sai se qualcuno qui è cristiano?». «Mi sembra che nella famiglia che vive in quella casa là, qualcuno sia cristiano, ma non sono sicuro, perché qui non abbiamo missionari. Anch’io ho studiato con i padri, ma tanti anni fa». E padre Franco: «Non ti piacerebbe incontrarti con altri e insieme conoscere Dio e Gesù?», e così, iniziava con 4-5-10 persone. Passava poi in un altro villaggio, e un altro, e un altro. Decine di villaggi che oggi sono piccole e grandi comunità cristiane nel vasto territorio che forma la missione di Fingoé.

I capisaldi

Padre Franco credeva nell’importanza della «presenza» e, a costo di non avere un solo giorno di respiro, visitava continuamente tutte le comunità, anche le più piccole. I sentieri, le scarpate, le salite, la pioggia non spaventavano il «giovane» padre Franco. Lui – Gesù – doveva essere conosciuto e amato da tutti.

Con orgoglio padre Franco mostrava la mappa dei suoi villaggi. Non c’è ancora una carta geografica che li segnali, ma lui li aveva tutti identificati, con nome, abitanti, distanze, catecumeni, cristiani. La mappa del tesoro, le sue comunità.

L’altro caposaldo della sua missione era la formazione dei catechisti a cui dedicava tempo ed energie. Ecco allora il centro catechistico da lui fondato a Uncanha dove non bastava che i catechisti conoscessero la Bibbia, ma dovevano essere uomini e donne di Dio, capaci di testimoniare con la vita il Vangelo che predicavano e poi di ardere di vero spirito missionario per andare a evangelizzare le comunità.

A Fingoé, padre Franco ha vissuto la missione «che aveva sempre sognato», come lui stesso ha detto, dove si è sentito ringiovanito potendo dare tutto se stesso per i fratelli in nome del Vangelo.

A San Paolo di Tete

Quando è stato destinato alla città di Tete per dar vita alla nuova missione di San Paolo, ha accettato a malincuore, per obbedienza. La sua gente di Fingoé gli mancava. Quando però si è reso conto che San Paolo non era solo la periferia della città, ma anche una grande regione tra i fiumi Zambesi e Luenha, che pochi missionari negli anni avevano visitato, si è animato, e a 80 anni gli si sono aperti nuovi orizzonti. Con un gruppo di giovani e alcuni anziani e anziane, due volte alla settimana si è inoltrato in quella regione lasciando l’auto da qualche parte, e poi camminando fino ad arrivare a un villaggio, e là chiedere: «Amico, sai se…».

Ventidue nuove comunità sono sorte in questi ultimi due anni. Comunità che hanno già costruito le proprie cappelle, segno della presenza del Signore e della fede di un popolo umile e credente.

Il 17 ottobre scorso è morto un missionario che davvero ha annunciato un Nome, un Mistero, un Senso, una Vita: il Signore Gesù. Lui, Colui che nobilita, affratella, rende le persone migliori.

Lui, accolga il suo missionario tra le sue braccia, e gli faccia vedere la bellezza del Volto che a tutti ha annunciato.

Sandro Faedi

Il fuoco della Missione

Padre Franco ha servito con dedizione e amore molte comunità cristiane nel Niassa. Ha servito la Chiesa con passione. Durante la guerra civile ha percorso migliaia di chilometri in bicicletta per portare la Parola di Dio, l’Eucaristia e la consolazione alle comunità cristiane sparse nella regione. Ha subito imboscate, ha sofferto fame e sete, ha soccorso feriti, ha seppellito morti. Non aveva paura, ha sempre avuto fiducia nella protezione dall’Alto.

Nel 2012, all’età di 74 anni, ha accettato di accompagnare il vescovo Ignacio Saure a Tete. Il suo cuore missionario lo ha portato a visitare le comunità cristiane abbandonate di Marávia e Zumbo.

Nel 2014, all’età di 76 anni, ha iniziato la parrocchia di Fingoé. Si è dedicato con competenza pastorale e grande sacrificio all’animazione e alla creazione di comunità cristiane nelle missioni di Uncanha e Zumbo. Nel 2018 ha fondato il Centro catechistico di Uncanha per la formazione dei catechisti (vedi lettera di padre Carlo Biella).

Nel 2019 ha accettato la sfida di andare a lavorare nella città di Tete. Ha restaurato la parrocchia di San Paolo e l’ha trasformata in una parrocchia viva e missionaria. Ha fondato la parrocchia di Matambo. Ha visitato tutti i villaggi. Ha aperto nuove comunità, formato catechisti. Si è dato completamente fino alla fine, senza mezze misure. Ardeva nel suo cuore il fuoco della carità e la passione per la missione. Sempre disponibile a tutto e a tutti.

Accogliamo la sua scomparsa fisica e lasciamoci ispirare dalla sua vita, dal suo lavoro e, soprattutto, dalla sua viva testimonianza di fede, di simpatia e di bontà.

Ha amato e servito la Chiesa in tutto dando una testimonianza viva di fede e di missione. Viveva totalmente per Dio e per gli altri.

Il sacerdote è soprattutto l’uomo della carità; è padre più per gli altri che per se stesso. Durante la sua vita sacerdotale padre Franco si è ispirato a questa regola di vita e l’ha incarnata nella sua azione.

Avendo compiuto la sua missione accanto ai suoi fratelli, è stato chiamato a vivere nella gloria del Signore. Ora, gli sia dato di partecipare all’eternità riservata a coloro che sulla terra sono stati amici di Dio e hanno fatto la sua volontà.

Diamantino Antunes
Vescovo di Tete

Brevi note biografiche

Franco Gioda nasce a Poirino (To) il 17/07/1938.  Entra tra i Missionari della Consolata ed emette la prima professione dopo il noviziato in Certosa di Pesio il 02/10/1959.
È ordinato sacerdote a Torino dal cardinal Maurilio Fossati il 30/03/1963. Dopo aver servito prima nel seminario di Benevagienna (Cn) e poi di Biadene (Tv), passa per due anni nel seminario di Ermesinde in Portogallo. Nel 1970 parte per il Mozambico dove è viceparroco prima a Maica e poi a Nipepe, nel Niassa. Sono gli anni della guerra di indipendenza della Frelimo contro i portoghesi.

Richiamato in Italia a fine 1973, lavora per dieci anni come animatore missionario in varie case, e nel 1983 riesce a tornare nel suo amato Mozambico, dove, fino al 2000, alterna il servizio di parroco a quello di superiore (1990-1996) del gruppo dei missionari in quel paese. Sono i tempi duri della guerra civile tra Frelimo e Renamo (1981-1994).

Nel 2000 rientra in Italia. Dopo un periodo trascorso come animatore in Certosa di Pesio, serve per sei anni come superiore della regione, fino al 2008, quando va a Martina Franca (Ta). Nel 2011 torna nuovamente in Mozambico. Vive i suoi ultimi anni nella diocesi di Tete, prima con il vescovo Ignácio Saure e poi con monsignor Diamantino Antunes.

Rientrato in Italia per cure nel 2021, ha raggiunto la meta del suo camminare il 17 ottobre 2021, ad Alpignano (To). È sepolto nel Cimitero monumentale di Torino.

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L’Amazonia secondo Salgado


Il famoso fotografo brasiliano non è soltanto un grande artista. Nel suo lavoro infonde, infatti, anche un forte impegno sociale e ambientalista. Iniziando dall’Amazzonia sotto assedio.

Il fotografo brasiliano Sebastião Salgado è uno dei più apprezzati maestri della fotografia contemporanea mondiale. Da circa quattro decenni la sua arte ci mostra luoghi splendidi e grandi atrocità umane. Nato nel 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, Salgado ha visitato più di 130 paesi con la sua macchina fotografica, spinto da un forte impegno sociale e ambientalista. Aveva lasciato il Brasile durante la dittatura stabilendosi a Parigi. Tutto iniziò nel 1973 con un reportage sulla siccità del Sahel, seguito da uno sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa. Nel 1974 documentò la rivoluzione in Portogallo e la guerra coloniale in Angola e nel Mozambico; nel 1994 il genocidio del Ruanda. Il suo impegno ambientalista si è concretizzato con la fondazione dell’Istituto Terra (institutoterra.org) nel
Minas Gerais, con l’obiettivo di ripiantare quattro milioni di alberi in terre nelle quali l’ecosistema era stato devastato, recuperando oltre 1.500 ettari di «mata atlantica». L’evoluzione del progetto ha comportato la nascita del «Centro per l’educazione e il restauro ambientale» (Cera) che propone un approccio ecosostenibile come unica via per salvare la Terra.

Dopo le ricerche «Exodus. In cammino sulle strade delle migrazioni» e «Genesis», quest’ultima che testimonia la maestosa bellezza delle regioni più remote del pianeta, Salgado ha intrapreso una serie di viaggi per immortalare l’incredibile ricchezza e varietà della foresta amazzonica brasiliana e i modi di vita dei suoi popoli. Da tutto ciò è nata la mostra «Amazônia», allestita al «Maxxi-Museo nazionale delle arti del secolo XXI» (maxxi.art) di Roma fino al 13 febbraio 2022 come unica tappa italiana. Ne è curatrice Lélia Wanick Salgado, compagna di viaggio e di vita del fotografo.

Sciamano Yanomami dialoga con gli spiriti prima della salita al monte Pico da Neblina, stato di Amazonas, Brasile, 2014. Foto Sebastião Salgado / Contrasto.

La foresta e i guardiani

«Amazônia» è una spettacolare esposizione di circa duecento fotografie, rigorosamente in bianco e nero, grazie alle quali possiamo esplorare alcuni angoli di questo ecosistema unico ma in grave pericolo e conoscere dodici popolazioni indigene brasiliane.

Dal 2013 al 2019, non senza difficoltà, Sebastião e Lélia hanno viaggiato all’interno dell’Amazzonia brasiliana che occupa parte del Nord Ovest del paese e rappresenta un insostituibile patrimonio di tutta l’umanità. Hanno effettuato 48 spedizioni raggiungendo anche territori ove vivono popoli indigeni isolati. Salgado ha fotografato la selva, i fiumi, le montagne, per testimoniare l’incredibile diversità naturale della immensa foresta pluviale amazzonica e le modalità di vita degli indigeni brasiliani. Si è fermato nei loro territori per settimane, documentando gli Yanomami, gli Asháninka, gli Yawanawá, i Suruwahá, gli Zo’é, i Kuikuro, i Waurá, i Kamayurá, i Marubo, gli Awá, i Macuxi e i Korubo. Ha voluto fotografare non le ferite, ma la bellezza di questi luoghi dimostrando che, nelle aree dove vivono i popoli indigeni, la foresta non ha subito quasi nessun danno.

La mostra è divisa in due parti: nella prima, le fotografie sono organizzate per ambientazione paesaggistica con sezioni che vanno dalla foresta vista dall’alto, alle tempeste tropicali e alle isole nella corrente, il più grande arcipelago di acqua dolce al mondo, conosciuto come arcipelago di Anavilhanas, caratterizzato da isole dalle forme più disparate che emergono dalle acque del Rio Negro.

Accanto a filmati e video, le immagini rivelano un labirinto di tortuosi affluenti che alimentano fiumi giganteschi, montagne che raggiungono 3mila metri come il monte sacro Roraima, cieli intensi e carichi di nuvole ove si creano veri e propri «fiumi volanti». Questi ultimi rappresentano una delle caratteristiche più straordinarie e allo stesso tempo meno conosciute della foresta pluviale, ovvero la grande quantità di acqua che si innalza verso l’atmosfera. Di quella umidità ha bisogno l’intero pianeta.

Nella seconda parte incontriamo fotografie dei popoli indigeni: gli intensi legami familiari, la caccia e la pesca, la preparazione e la condivisione dei pasti, l’importanza dei capi spirituali, le danze, i rituali, il rapporto con la terra. I filmati permettono di ascoltarne le voci, di conoscere la filosofia e la ricchezza delle loro culture. La mostra si sviluppa in spazi che ricordano le «ocas», tipiche abitazioni indigene, evocando gli insediamenti nel cuore della foresta. In questo viaggio si è accompagnati da una sinfonia creata appositamente dal compositore francese Jean-Michel Jarre. E ancora, ritroviamo una sala con paesaggi boschivi, le cui immagini scorrono accompagnate dal suono del poema sinfonico «Erosão ou a origem do rio Amazonas» di Heitor Villa Lobos. In un’altra sala sono esposti ritratti di donne e uomini indigeni con una musica composta da Rodolfo Stroeter del gruppo Pau Brasil.

Etica ed estetica costituiscono la forza di immagini che invitano a riflettere su un mondo minacciato, sul problema ambientale che mai come oggi si è fatto urgente, sulla necessità di proteggere ciò che resta della foresta amazzonica e dei suoi popoli. Sebastião e Lélia Salgado sperano di stimolare il pensiero e l’azione a difesa di questo inestimabile patrimonio dell’umanità e dei suoi popoli. Vogliono sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di una immensa terra ferita da deforestazioni abnormi, di uomini e donne che difendono le loro terre e resistono da 500 anni: sono loro i guardiani della foresta, i veri difensori dell’ecosistema amazzonico. Da essi abbiamo molto da imparare.

È compito di ognuno

Nella prefazione di Amazônia (Contrasto, ed. Kochen), la guida che accompagna la mostra, il fotografo scrive: «Sin dal momento della sua ideazione, con Amazônia volevo ricreare un ambiente in cui il visitatore si sentisse avvolto dalla foresta e potesse immergersi sia nella sua vegetazione rigogliosa, sia nella quotidianità delle popolazioni native. Grazie all’impenetrabilità della foresta, per interi secoli alcuni gruppi etnici sono riusciti a preservare il loro tradizionale stile di vita. Oggi, però, questi stessi gruppi e la foresta in cui vivono sono seriamente minacciati. Queste immagini vogliono essere la testimonianza di ciò che resta, prima che possa scomparire. Affinché la vita e la natura possano sottrarsi a ulteriori episodi di distruzione e depredazione, spetta a ogni singolo essere umano del pianeta prendere parte alla sua tutela».

Antonella Rita Roscilli

Sebastião Salgado con la moglie Lélia Wanick Salgado. Foto Instituto Terra, Minas Gerais, Brasil.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Banche armate

Gentile redazione,
è da parecchi anni che leggiamo con interesse la vostra rivista, contenente articoli molto interessanti e scritti in modo chiaro e comprensibile a tutti. Nelle vostre pagine affrontate problemi attuali e scottanti. Ci aprite una finestra sul mondo che purtroppo gli altri organi di informazione non ci danno.

Una cosa sola ci lascia un po’ perplessi e ci induce a farvi questo appunto: la scelta delle banche a cui vi appoggiate per i versamenti e le donazioni. Si tratta della banca Intesa San Paolo e di Unicredit Banca. Leggendo anche altre riviste missionarie ed informandoci un po’ sulla questione siamo venuti a conoscenza che i due istituti sopracitati sono ai primi posti nella lista delle «banche armate», ossia delle banche che utilizzano parte dei loro soldi per finanziare la produzione e la commercializzazione di armamenti (vedi legge 185/1990 sulla trasparenza ed il controllo del commercio italiano di armamenti). Ci parrebbe una scelta migliore, per una rivista come la vostra, affidarsi ad altre banche, in particolare a Banca Etica.

Confidando nel fatto che questa nostra lettera vi faccia riflettere sulla questione, vi auguriamo buon lavoro e lunga vita alla vostra bella rivista.

Fabio Vigolo e Gaianigo  R. Patrizia
Cornedo Vicentino, 15/09/2021

Cari Fabio e Patrizia,
grazie di averci scritto. Il disagio che voi provate è anche il nostro. Non vi so dire quante volte in questi anni di servizio a MC abbiamo discusso la questione, bloccati però da problemi oggettivi di gestione e servizi. Ma oggi, finalmente, sono in condizione di dirvi che da questo mese siamo con Banca Etica, di cui, tra l’altro, siamo diventati soci. Trovate i dati cliccando qui..

È un passo che desideravamo da tempo, ed era dovuto anche a tanti nostri missionari che hanno lavorato o lavorano in «contesti armati», tra i quali ricordo padre Guerrino Prandelli, saltato su una mina in Mozambico nel 1972, e i nostri confratelli da pochi anni a Luacano, in Angola, una vastissima area ancora infestata dalle mine della lunga guerra civile. Senza dimenticare quelli che stanno ricostruendo il tessuto sociale e religioso dei 30mila km2 delle missioni di Fingoé e Uncanha in Mozambico, dove per anni guerriglia e controguerriglia hanno distrutto ogni cosa.

Troppi fucili circolano anche nel Nord del Kenya, come ci ricorda mons. Virgilio Pante di Maralal. Per non parlare di Colombia e Messico, dove i nostri missionari operano attivamente per la pace; delle bande armate del Congo Rd che rapinano le materie prime in zone dove i nostri missionari hanno dovuto abbandonare le missioni ai confini con il Sudan per la totale insicurezza. Senza dimenticare la guerra in atto in Etiopia. E questi non sono che effetti marginali di una corsa agli armamenti che sta esplodendo nonostante l’aumento della consapevolezza a livello di base e i continui appelli di papa Francesco.

Purtroppo, passare a Banca Etica non basta a risolvere il problema degli armamenti, che sono finanziati anche attraverso i più insospettabili canali di un mondo finanziario che è fuori dal controllo dei governi e anche dell’Onu. Ma siamo lieti di poter fare questo passo e desideriamo che Banca Etica possa crescere e offrire tutti quei servizi che sono necessari a organizzazioni umanitarie e non profit come la nostra.

 

Strade impensate

Caro padre Gigi,
ho letto l’editoriale «Come un seme» del mese di ottobre e prima di tutto mi congratulo per il traguardo del cinquantesimo di vita missionaria. Condivido in gran parte le riflessioni che esprimi e che suggeriscono come l’incontro tra il nostro spirito, spesso disorientato, e lo Spirito che ha doni infiniti ci incammini lungo strade impensate in cui ci si imbatte in imprevisti spesso sorprendenti che segnalano l’azione invisibile e creativa di tale Spirito, senza escludere anche la fantasia del nostro pensare ed agire. Credo che la fede abbia a che fare spesso con la paradossalità come avviene leggendo tanti episodi della Sacra Scrittura come, ad esempio, quelli di Anna, madre di Samuele, Elisabetta e Maria, tutte donne che diventano madri in modo inspiegabile rispetto ai canoni della natura. Un saluto riconoscente!

Milva Capoia
01/10/2021

Commemorazione di padre Lugi Graiff nel 40° dell’uccisione – la mostra in piazza

Ricordando padre Zizoti

Il 22 agosto 2021 la comunità di Romeno, in provincia di Trento, ha ricordato il compaesano padre Luigi Graiff, missionario della Consolata, assassinato nel 1981 in Kenya. Ricorre infatti quest’anno il 100° anniversario della nascita e il 40° della morte del nostro concittadino.

La ricorrenza, nonostante le difficoltà indotte dalla pandemia di Covid-19 e con le dovute precauzioni anticontagio, ha visto la partecipazione di numerose persone e autorità e la presenza dei molti nipoti e pronipoti del missionario martire della carità.

La cerimonia di ricordo è stata tenuta nella chiesa parrocchiale di Romeno, dove lui è stato battezzato e dove ha celebrato la prima Messa. L’arcivescovo di Trento, mons. Lauro Tisi, ha presieduto la concelebrazione con altri dieci sacerdoti, fra i quali il parroco don Carlo Crepaz e i confratelli missionari padre Claudio Fattor (compaesano), padre Mario Lacchin, che è stato missionario in Kenya con padre Luigi, e padre Gigi Anataloni (direttore di MC), e altri sacerdoti della zona. Presente in streaming anche il missionario di Romeno padre Aldo Giuliani in collegamento dalle Montagne del Sogno in Kenya, non lontano dal Lago Turkana.

Dopo la messa, il sindaco di Romeno Luca Fattor, nipote del compianto padre Ettore Fattor già missionario della Consolata in Brasile, ha illustrato la figura di padre Graiff e poi padre Gigi ha delineato le ragioni e il contesto storico e sociale che hanno portato l’Istituto della Consolata nel Nord del Kenya e ha sottolineanto il particolare stile missionario di amore per i poveri vissuto fino in fondo da padre Luigi su ispirazione del fondatore, il beato Giuseppe Allamano.

Nell’occasione, il gruppo missionario di Romeno, promotore dell’evento, ha allestito un percorso illustrativo composto da 12 poster, per raccontare con foto e testi la vita e l’opera di padre Luigi Graiff. I pannelli dei poster sono stati messi a disposizione dell’arcivescovo per essere esposti nelle varie comunità del Trentino. I poster sono stati riprodotti, insieme ad altri articoli relativi alla figura di Padre Luigi, in un opuscolo distribuito ai presenti, e che porta il titolo: Padre Zizoti raccontato dai suoi compaesani (padre Aldo Giuliani, sen. dr. Candido Rosati, maestra Rita Zucali).

Dott. Andrea Graiff, nipote

Ringrazio la comunità di Romeno, così ricca di missionari – Camillo Calliari (baba Camillo) in Tanzania, Claudio Fattor in Brasile e oggi in Italia, Aldo Giuliani a Sererit in Kenya, Ettore Fattor Luigi in Brasile +2013 – per il dono di questa commemorazione che mi ha fatto riscoprire un missionario dal cuore grande e generoso.
(vedi MC ottobre 2021)

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Uncanha, vita nuova

Carissimi,
a tutti voi un caro saluto e l’augurio di ogni bene in questo nuovo Natale, mentre un altro anno volge al termine, carico di momenti belli e meno belli, ma tutti sono parte della nostra vita, della nostra storia e sono pieni della speranza che ci è data da quel Gesù che ha cambiato il modo di vedere le cose e gli avvenimenti: il cristiano non può prescindere da questo, anche quando costa.

Mi trovo in una zona isolata del Mozambico, dove i Missionari della Consolata avevano cominciato l’evangelizzazione quasi 100 anni fa, nel 1926, poco prima della morte del Fondatore. Pochi anni dopo, per motivi di forza maggiore, avevano lasciato quei luoghi, pur rimanendo nel Niassa, al Nord del Mozambico. Attualmente sono nella missione parrocchia di Uncanha, nell’altipiano di Marávia (Diocesi di Tete). Una realtà bella e verde, anche se per 6-7 mesi all’anno non si vede una goccia di pioggia e il paesaggio cambia e i suoi colori passano dalle tonalità verdi a quelle gialle e nere dei tempi secchi e degli incendi. La gente è Bantu dell’etnia Massenga, anche se non mancano altre lingue e etnie soprattutto verso il fiume Zambezi.

Per diverse ragioni (politiche, belliche, ideologiche, vocazionali, economiche, di isolamento e salute) quella che era una delle prime zone evangelizzate, non ha mai avuto la fortuna di una pastorale continuativa. Nonostante decadi di isolamento e assistenza spirituale saltuaria (una visita all’anno), è rimasto un germoglio che, grazie al lavoro arduo e in condizioni difficili di alcuni missionari, ha dato vita a una Chiesa in crescita. I Missionari della Consolata sono ritornati in zona nel 2013 e a Uncanha nel 2018, con padre Franco Gioda (vedi a pag. 58) che più di tutti ha dato un impulso missionario. Noi cerchiamo di continuare nel piccolo il cammino intrapreso.

Qui tutto parla di missione, si vive la missione con tutte le difficoltà che porta con sé, perché iniziare, seminare il Vangelo, non è sempre facile. Cosa dici? In quale lingua? Con quali idee? Con quale zaino o valigia? Con che stile?

A fine settembre sono andato a visitare la zona di Chawalo; ero già stato nel 2019 a Nhansunga, ma le altre comunità avevano visto un prete solo nel 2016. Purtroppo quelli di Mpembe non erano stati avvisati e così dovranno aspettare un altro anno, ma, sorpresa, ho trovato una nuova comunità, Jemussi, che il catechista Francisco aveva iniziato facendo oltre 20 km a piedi in una zona di savana e sabbia. Le difficoltà alla frontiera con lo Zambia, il viaggio in 10 nella vecchia Corolla per 60 km oltrefrontiera, le due ore a piedi ormai alla luce del telefonino, il passaggio del fiume in canoa al buio per rientrare in Mozambico, non erano niente al confronto della gioia dei cristiani, catecumeni e simpatizzanti nel vedersi visitati e soprattutto con la bellezza di vedere nascere piccoli segni di speranza in queste nuove comunità che accolgono l’Emmanuele, il Dio con noi, che ci visita. È Natale. Francisco è stato formato per un anno con la sua famiglia nel centro catechistico; è giovane e con buono spirito missionario. Gli abbiamo lasciato i soldi per comprare una bicicletta. Se lo merita e se lo meritano i catecumeni che aspettano la sua visita.

Quest’anno al centro catechistico di Uncanha verrà una famiglia proprio da Chawalo, quella di Nixon. Senza di loro, il nostro sarebbe un correre a vuoto. Quell’antiquum ministerium, rispolverato ultimamente anche in un documento di papa Francesco, è fondamentale ed è per questo che ad Uncanha, con padre Gioda, avevamo iniziato per i catechisti un corso annuale, familiare e in lingua locale, che portiamo ancora avanti, finché ci sarà possibile. Grazie anche a voi. Ciao, Buon Natale e Buon 2022.

padre Carlo Biella
Uncanha, Mozambico

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IMC Venezuela 50: tra indigeni, afrodiscendenti e periferie

Alla fine del 1970, padre Giovanni Vespertini visita il Venezuela per valutarvi una nuova apertura dei Missionari della Consolata. Con il successivo arrivo di diversi confratelli, la presenza dell’Istituto nel paese si estende. A fine 2021, mentre si chiude l’anno di celebrazioni per i suoi 50 anni in Venezuela, l’Imc è presente a Barlovento (Panaquire, El Clavo, Tapipa e Caucagua), nell’arcidiocesi e città di Barquisimeto, a Tucupita (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

  1. Popoli indigeni, afro e periferie
  2. La scelta degli indigeni della Guajíra
  3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
  4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
  5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
  6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Popoli indigeni, afro e periferie

È il 13 dicembre 1970: attraversato il ponte internazionale Simón Bolívar di Cúcuta, frontiera tra Colombia e Venezuela, padre Giovanni Vespertini accelera puntando verso Nord. A Caracas lo attende un colloquio con il cardinale José Humberto Quintero Parra, arcivescovo della capitale.

È il primo missionario della Consolata a calpestare il suolo venezuelano. Dopo aver lavorato per 10 anni in Mozambico, è sbarcato in Colombia dove ha esercitato il suo apostolato missionario a Puerto Leguízamo, Armero e Bogotá.

In Colombia i Missionari della Consolata sono presenti dal 1947. Padre Vespertini, vedendo i buoni frutti di vita cristiana che stanno maturando nel paese, pensa che sia giunto il momento di misurarsi con nuove sfide.

I tempi sono favorevoli per la creazione di piccoli gruppi di missionari in paesi nei quali l’Istituto non è ancora presente. Il missionario trevigiano pensa che il Venezuela abbia le condizioni per crearne uno.

La Quebrada e le altre

Nel paese, l’80% del clero è straniero, e per l’85% è composto da religiosi. Padre Vespertini ottiene dalla direzione generale il mandato di esplorare la possibilità di espandere la presenza dei Missionari della Consolata in Venezuela prospettando un fruttuoso lavoro di promozione vocazionale. Visita, quindi, diverse diocesi, tra cui Valencia, Puerto Cabello, San Cristobal, Trujillo. I vescovi lo ricevono con entusiasmo e gli offrono parrocchie vecchie, nuove e future, ma, per il momento, si tratta più che altro di buone intenzioni che, spesso, non rispondono al progetto di animazione missionaria e vocazionale dell’Imc.

Così, in attesa di proposte valide, padre Vespertini accetta di prendersi cura della parrocchia La Quebrada, nella diocesi di Trujillo, in una zona delle Ande ritenuta propizia per le vocazioni.

Successivamente, l’offerta da parte dei vescovi di altre parrocchie favorisce l’arrivo in Venezuela di altri missionari finché il 28 settembre 1974, padre Mario Bianchi, superiore generale, istituisce ufficialmente il «gruppo Venezuela». Pochi giorni dopo arriva dalla Spagna padre Francesco Babbini con la nomina di capogruppo.

Cantiere in costruzione

Nel 1976 il gruppo prende diverse decisioni che avranno un certo peso nel futuro dell’Imc nel paese. Decide di aprire una casa a Caracas allo scopo di accogliere i padri destinati all’animazione missionaria in Venezuela e gli eventuali candidati venezuelani a entrare nella famiglia della Consolata. La casa, nel quartiere La Pastora, diventerà sede della delegazione. Oltre all’apertura a Caracas, i missionari decidono di aprire anche nel Vicariato di Machiques, zona della Guajíra. Inoltre, risponde positivamente alla richiesta di collaborazione da parte delle Pom (Pontificie opere missionarie) per l’organizzazione dell’ufficio e delle sue iniziative.

Mano a mano che i Missionari della Consolata aumentano di numero, assumono nuovi campi di lavoro. Nel 1977 l’Istituto è presente in quattro centri: Caracas, dove è iniziato il seminario maggiore con sei giovani venezuelani, Trujillo con le parrocchie di La Quebrada e La Puerta, San Cristobal con la parrocchia di Zorca, e nella Guajíra, tra gli indigeni.

Nel 1978 si pone come priorità la promozione vocazionale, l’animazione missionaria e la formazione dei seminaristi venezuelani, soprattutto in vista della missione tra gli indigeni della Guajíra. Viene assunta la parrocchia di Los Castores, offerta dal vescovo di Los Teques, sulle pendici delle Ande costiere, a 30 Km a Ovest di Caracas.

Qui viene spostato il seminario con padre Sandro Faedi come formatore, mentre i padri Francesco Babbini e Alberto Minora vengono destinati al lavoro apostolico tra gli indigeni della Guajíra.

Una missione che si apre

Alle scelte fatte nel primo decennio di presenza nel paese che hanno dato al gruppo la sua fisionomia specifica, ne seguiranno altre, anche particolarmente coraggiose. Nel 1986, ad esempio, i Missionari della Consolata decidono di dedicarsi alla popolazione degli afrodiscendenti di Barlovento. Nel 1999, poi, scelgono di stabilire una loro presenza nella baraccopoli di Carapita, periferia urbana della capitale Caracas. Nel 2007, alcuni anni dopo aver lasciato la Guajíra e il lavoro con gli indigeni di quelle terre, tornano a lavorare con i popoli originari, questa volta con i Warao a Nabasanuka e Tucupita, sulla foce del fiume Orinoco. Infine, con l’esodo degli indigeni Warao verso il Brasile, i Missionari della Consolata danno vita, nel 2018, a un’équipe itinerante, per accompagnare pastoralmente questo popolo emarginato e costretto all’emigrazione.

Sergio Frassetto


Quattro scelte

Stefano Camerlengo, superior generale dei missionari della Consolata, scrive ai confratelli in Venezuela.

«Nel formularvi gli auguri miei e dell’Istituto per questo vostro giubileo – scrive padre Stefano Camerlengo -, vi inviterei a fare memoria di quanto è stato realizzato dai confratelli che vi hanno preceduto […]».

Egli poi sintetizza il cammino fatto dalla delegazione in quattro scelte ancora oggi valide e urgenti: «Il servizio alle popolazioni indigene; la presenza tra gli afroamericani; l’inserimento nelle periferie urbane; l’animazione missionaria della chiesa locale e la cura delle vocazioni».

Ricordando la dedizione dei missionari che mossero i primi passi in Venezuela negli anni Settanta, infine, il superiore generale dell’Imc ringrazia i confratelli che ancora oggi lavorano nel paese, «per il generoso impegno missionario che continuate a offrire, in un momento tanto critico della vita del paese. In questo modo continuate a scrivere altre belle pagine di servizio missionario per le quali – sono sicuro – il nostro beato Fondatore e i missionari che vi hanno preceduto gioiranno dal Cielo».

S.F.


Il primo

Giovanni Vespertini, classe 1916, originario di Vedelago (Tv), diventò missionario nel 1942. Nel ’44 fu arruolato come cappellano militare. Alla fine della guerra fu dato per morto e si celebrarono messe in suffragio, ma un giorno riapparve vivo e vegeto. Alto, magro, pelle bruciata dal sole, intelligente e risoluto, dal 1948 al 1958 fu missionario in Mozambico e, successivamente, in Colombia. Alla fine del 1970 andò in Venezuela dove si insediò come parroco di La Quebrada, un paesotto sulle Ande della diocesi di Trujillo. Vi rimase per 14 anni.

Fu sempre esigente con i suoi cristiani perché li voleva tutti d’un pezzo e non ammetteva compromessi. Nello stesso tempo era spassoso nelle relazioni personali ottenendo una partecipazione «bulgara» alla vita della chiesa. Padre Giovanni non conosceva la paura e non esitò mai di fronte al lavoro che gli veniva richiesto per il bene della gente, e questa lo seguiva volentieri apprezzando la sua coerenza e il suo amore fatto di gesti concreti, soprattutto verso i poveri. Tornato in Italia per una breve vacanza, morì d’improvviso il 17 marzo 1984.
I missionari lo considerano l’iniziatore della loro presenza in Venezuela.
A La Quebrada aveva preparato la sua tomba che rimase vuota. A distanza di anni i suoi cristiani hanno richiesto il ritorno dei suoi resti mortali, segno che quel missionario è rimasto nel loro cuore.


Lo stratega

Francesco Babbini, nato nel 1932 a Montepetra di Sogliano Rubicone (Fc), divenne missionario della Consolata nel 1960. Lavorò sei anni in Italia e otto in Spagna nel settore dell’animazione missionaria e vocazionale. Nel 1974 venne destinato come capogruppo in Venezuela. Vulcanico nelle idee e realizzazioni, fu il vero artefice dello sviluppo dell’Imc nel paese.

In pochi anni organizzò il lavoro apostolico dei missionari estendendo la presenza dell’Istituto in tre diocesi. Diede inizio alla missione tra gli indigeni guajíros, aprì il seminario per giovani venezuelani, collaborò all’organizzazione delle Pom del Venezuela e viaggiò molto facendo conoscere la Consolata in numerose diocesi.

Nel 1980, concluso il suo mandato di capogruppo, andò a lavorare in Guajíra tra gli indigeni. Lì diede il meglio di sé come apostolo della carità verso tutti, specialmente i più poveri. Lo sostenevano la sua grande fede, l’amore alla Chiesa e la convinzione che servire il prossimo era amare Gesù in persona.

Nel 1982 venne richiamato in Italia per l’animazione missionaria, e fu molto attivo in Puglia. Il 19 marzo 1984, morì per infarto cardiaco. Aveva 52 anni. La missione di Guarero, in Guajíra, ha dedicato al suo nome l’oratorio parrocchiale e la strada che porta alla chiesa.

S.F.




IMC Venezuela 50: l’animazione missionaria


I Missionari della Consolata, fin dal loro arrivo in Venezuela, hanno messo tra le loro priorità l’animazione missionaria e vocazionale della chiesa locale. Da questo proposito sono nati l’inserimento nelle Pom, l’apertura del seminario filosofico e la nascita di Jovenmisión.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

 


L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Chiesa ad gentes

L’obiettivo principale dell’arrivo dei Missionari della Consolata in Venezuela fin dall’inizio fu l’animazione missionaria e la promozione vocazionale. Il Capitolo generale del 1969 lanciò l’Istituto in questa linea: animare le giovani chiese all’evangelizzazione. Padre Giovanni Vespertini, a fine del 1970, stabilendosi a Trujillo, regione delle Ande venezuelane, una delle più religiose del Venezuela, aveva visto la possibilità di animare all’ad gentes la vita religiosa e sacerdotale della chiesa locale.

Le prime tappe

La destinazione di padre Luigi Crespi alla stessa zona fu pensata in questa prospettiva. Arrivato dalla Spagna, dove svolgeva lo stesso ministero, nel 1972, iniziò ad animare la diocesi di Trujillo nella città di Valera.

Nel 1974 arrivò padre Francesco Babbini come responsabile del Gruppo Imc Venezuela. Egli lanciò l’animazione a 360 gradi.

Viaggiando in autobus, senza ancora conoscere il paese, di notte o di giorno, con la sua valigetta piena di dépliant, il proiettore e i documentari di padre Gabriele Soldati, fermandosi nelle diocesi, nei seminari, nelle parrocchie, nelle scuole, in poco tempo fece conoscere i Missionari della Consolata nel paese. Divenne amico del nunzio apostolico e raggiunse i vicariati del Caroní e di Machiques, offrendo alla chiesa locale la possibilità di una nostra presenza tra le popolazioni indigene a loro affidate. Si sarebbe optato poi per Machiques, nella regione della Guajíra.

A Caracas padre Francesco Babbini offrì la sua esperienza alle Pom (Pontificie opere missionarie), delle quali divenne un valido collaboratore. Nella capitale aprì anche il seminario propedeutico e filosofico della Consolata nel 1977.

Jovenmisión e Cajumi

Da sempre la presenza dei missionari nelle diocesi fu presenza pastorale e di animazione missionaria. Nelle diocesi di Trujillo, San Cristobal, Los Teques e Barquisimeto, i missionari furono anche i direttori diocesani delle Pom. A Barquisimeto, in particolare, oltre alla pastorale nelle due parrocchie del Buen Pastor e del Ujano, i missionari crearono il Cam (Centro di animazione missionaria) dove si offriva (e si continua a offrire) formazione alla missione a livello locale e nazionale.

In Venezuela l’Imc fu e rimane l’unico istituto missionario specificamente ad gentes. Quindi con una responsabilità non indifferente nell’animare la chiesa locale alla missione.

Nel 1986 il direttore nazionale delle Pom chiese un missionario della Consolata per svolgere il compito di segretario nazionale della pontificia Opera di San Pietro Apostolo e di responsabile per l’animazione missionaria della gioventù. Padre Nelson Lachance, canadese, assunse l’incarico ed ebbe l’illuminazione di fondare «Jovenmisión» (Missione giovane): non un movimento, ma un servizio ai gruppi giovanili ecclesiali.

Nel 1988 realizzò il primo «Cajumi» (Campo Giovanile Missionario), a Santa Rosa de Ocopí, nella regione di Anzoátegui, con la partecipazione di giovani venezuelani e di altri provenienti da altre nazioni latinoamericane. Furono organizzate giornate di riflessione, catechesi e preghiera.

Una gioventù missionaria entusiasta

Come successore di padre Lachance, fu nominato chi scrive. Con l’aiuto della suora teresina Marta Cecília Ramírez Marin e di alcuni giovani, strutturai la neonata Jovenmisión su tre dimensioni: spiritualità, formazione e missione.

I punti salienti del programma annuale, a livello nazionale erano (come sono ancora adesso): la Pasqua giovanile missionaria, dal lunedì santo alla domenica di Pasqua; la Scuola di leader missionari in due tappe, ciascuna di otto giorni, per la formazione alla missione; il campo giovanile missionario – Cajumi – di 25 giorni in una zona poco evangelizzata. Dal 1989 ad oggi, l’esperienza del Cajumi non è mai stata interrotta. Un anno particolare fu il 1997, quando nei mesi di luglio e agosto si realizzarono contemporaneamente 27 Cajumi in tutto il Venezuela.

I frutti

Quali sono stati i frutti del lavoro di animazione svolto dall’Imc in Venezuela?

Noi abbiamo visto questo: è cresciuta la coscienza missionaria nelle parrocchie, nei movimenti apostolici, tra i giovani e i bambini. Nei tempi forti dell’anno liturgico e nel mese di agosto, i cristiani si fanno evangelizzatori nei villaggi e nei paesi privi di assistenza religiosa. La Giornata missionaria mondiale, è diventata il «Mese missionario», e la colletta per le missioni molto più significativa e consistente, sia nelle parrocchie che nelle scuole cattoliche. In questo mese è diventata tradizione la «Camminata giovanile missionaria» che, cambiando percorso ogni anno, diventa, ancora oggi, nel 2021, momento di testimonianza e animazione di strada dei giovani con i Missionari della Consolata.

Giovani e ragazzi optano per la vita religiosa, sacerdotale e missionaria. Anche per la Consolata. Un esempio è padre Lisandro Rivas, primo missionario della Consolata venezuelano, dopo aver lavorato in Kenya, è stato superiore della Delegazione Imc del Venezuela, formatore nel seminario teologico di Bogotà (Colombia) e attualmente lavora per la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli come rettore del Collegio S. Paolo, in Roma, dove sacerdoti da tutto il mondo studiano nelle Università pontificie.

Nel 1993 una coppia di giovani sposi partì per il Congo RD, lavorando per tre anni e mezzo nella missione di Neisu, facendo molto bene. Furono i primi laici missionari della Consolata del Venezuela. Negli anni successivi altri avrebbero seguito il loro esempio. Una giovane, appena laureata, partì per la missione di Tencua (vicariato di Puerto Ayacucho) lavorando per quattro anni con le missionarie della Consolata in piena selva amazzonica. Fu poi raggiunta e sostituita da un’altra giovane dedicata alla formazione ed educazione degli indigeni Yecuana.

Il giovane avvocato Adrián Enrique Gelves partì per il vicariato di Puerto Ayacucho, dove svolse il compito di responsabile per i diritti umani degli indigeni per quattro anni. Dopo il matrimonio, continua ancora oggi a svolgere lo stesso servizio mentre la sua sposa è responsabile della Caritas del vicariato. Una giovane laureata in Educazione li ha raggiunti, e qui rimane tuttora, sposata con un indigeno.

Un giovane seminarista teologo ricevette dal cardinale arcivescovo di Caracas il permesso per studiare al pontificio Collegio urbano di Roma per prepararsi per la missione. Per tre anni svolse il suo ministero come aggregato alla Consolata nella diocesi di Lichinga in Mozambico, e oggi è il direttore nazionale delle Pom in Venezuela. Dopo di lui, un altro sacerdote diocesano si aggergò all’Imc e rimase in Mozambico per quattro anni.

Nel 2014, la Cev (Conferenza episcopale venezuelana) assunse una missione in Mozambico, e da allora ha inviato due sacerdoti fidei donum e sei laici. La missione di Manje è tra le più dinamiche della diocesi di Tete.

I frutti continuano a maturare anche a distanza di tempo come il cammino sinodale, lanciato dalla Cev nel mese di aprile di quest’anno, quando, con la partecipazione di tutti i membri della chiesa in Venezuela, si è iniziato a riflettere, dialogare e promuovere l’impegno ad essere «una parrocchia missionaria, in uscita per i nuovi tempi». Lo scopo è generare la trasformazione pastorale che la Chiesa sogna e di cui parla papa Francesco, una Chiesa in uscita, ospedale da campo, che raggiunge tutti, anche nelle periferie.

Sandro Faedi


In quindici al lavoro

Fedeli al proprio carisma, i Missionari della Consolata in Venezuela vogliono continuare a essere presenza significativa.

Cinquant’anni di presenza Imc in Venezuela, cinquant’anni di pagine missionarie scritte con entusiasmo e sudore dai missionari che si sono succeduti in questa terra benedetta da Dio, con tanti doni, eppure immersa in una grande tribolazione, segnata da povertà, ingiustizia, violenza e morte.

In questa realtà essi continuano a seminare il campo di Dio lavorando in trincea tra immense difficoltà e a costo di grandi sacrifici personali. Attualmente sono quindici: a Barlovento, tra gli afrodiscendenti (Caucagua, Panaquire, El Clavo, Tapipa); nell’archidiocesi e città di Barquisimeto, con il Centro di animazione missionaria (Cam); nel vicariato di Tucupita, tra gli indigeni warao (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas con la sede della delegazione, il seminario propedeutico e filosofico, e la parrocchia di Carapita nella periferia della città.

In conclusione, di questo dossier lasciamo loro la parola per fare nostro il loro appello a pregare per il Venezuela. (S.F.)

Consolazione e liberazione

[Pregate per il Venezuela] affinché possa uscire da questa situazione difficile, e perché noi missionari siamo segno di consolazione in mezzo a tanta sofferenza e dolore. In questo contesto viviamo il nostro carisma di consolazione/liberazione, e ogni giorno che passa ci convinciamo sempre più che siamo dove il Signore ci vuole.

Nel suo intervento durante il nostro XIII Capitolo generale, papa Francesco ci ha detto parole che ci infondono grande forza e speranza: «Vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice. Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori» (4 giugno 2017).

Siamo anche convinti che il beato Giuseppe Allamano sia al nostro fianco e che, grazie all’opera di ciascuno di noi, cammini con il nostro popolo. Traiamo forza anche dalle parole di Gesù, che soffre con la gente e ci incoraggia a continuare a condividere la nostra vita con un popolo che, sebbene rischi di morire di fame, non esita a spezzare il pane quotidiano con chi ne ha ancora meno.

Affermiamo ancora una volta che questa è l’ora della consolazione, l’ora di rimanere e camminare spalla a spalla con persone che, nonostante tutto, continuano a sognare un domani migliore.

Affidando il nostro essere missionari e la nostra azione all’intercessione della Consolata nostra madre, del beato Fondatore e del nostro patrono, san Oscar Arnulfo Romero, vi salutiamo con gioia.

I Missionari della Consolata della Delegazione Venezuela


Hanno scritto questo dossier:

�Sergio Frassetto
Missionario della Consolata in Venezuela dal 1978 al 1993, autore di «Sognatori nel deserto», Emi, 1995. Oggi a Torino.

�Sandro Faedi
Missionario della Consolata oggi in Mozambico.

�Andrés García Fernández
Missionario della Consolata oggi in Venezuela.

�Jaime Carlos Patias
Missionario della Consolata oggi membro della direzione Generale.

�Foto del dossier: Archivio Fotografico MC




Come un seme

Scrivo alla vigilia del mio cinquantesimo di vita missionaria. Un’occasione per chiedere perdono, ringraziare e pregare. Chiedere perdono per affidare il passato e le mie fragilità alla misericordia di Dio, ringraziare per le persone incontrate e amate in questi anni e per il tempo presente che è ogni giorno un dono inedito, pregare per guardare avanti e continuare il cammino fidandomi di Gesù e della Consolata.
Cinquant’anni fa, John Lennon cantava la sua Imagine, eravamo nel pieno del post Concilio, il ‘68 pulsava ancora nei cuori, e i missionari della Consolata vivevano una vivace e coraggiosa stagione di evangelizzazione. In Roraima (Brasile), dopo l’uccisione di padre Giovanni Calleri nel novembre ‘68, nasceva la missione del Catrimani riempiendo i sogni dei giovani come me. In Mozambico era il momento della guerra di indipendenza e i nostri confratelli pagavano la loro vicinanza alla gente con espulsioni, sequestri e anche uccisioni (come quella di padre Guerino Prandelli nel 1972). Indimenticabile l’appassionata testimonianza di padre Celio Regoli, appena espulso da quel paese perché critico verso i colonialisti. Nel 1971 l’Istituto tornava in Etiopia, il primo amore, trent’anni dopo che i suoi missionari erano stati imprigionati e cacciati dagli inglesi. Cominciava anche la nuova avventura missionaria in Venezuela e in Sudafrica, mentre padre Noè Cereda apriva le porte dello Zaire (oggi Rd Congo), uscito da poco da una terribile guerra.
La missione faceva davvero sognare. In quel contesto, con una quindicina di compagni, il 12 settembre, dicemmo il nostro sì al «prima santi, poi missionari» dell’Allamano. Avevamo negli occhi e nel cuore le montagne e i deserti del Marsabit, le immense foreste dei Pigmei dell’Ituri in Zaire, le distese con i grandi fiumi del Caquetà in Colombia, gli Yanomami di Roraima, senza dimenticare gli altri paesi dove l’Istituto era presente dai primi anni del Novecento.
Cinquant’anni dopo, viene da domandarsi se sia il caso di celebrare questo giubileo, e non solo perché con il Covid-19 è più difficile trovarsi insieme a far festa. Da una parte, in questi anni, abbiamo assistito alla miracolosa esplosione di vitalità delle Chiese di quello che un tempo si chiamava «Terzo mondo», non più «La terza chiesa alle porte» (come scriveva Walbert Bühlmann nel 1975), ma parte viva e vitale della Chiesa universale, con un papa argentino e vescovi e cardinali nativi di ogni angolo del mondo. Dall’altra, l’Europa, che un tempo si vantava delle sue origini cristiane, sta diventando sempre più scristianizzata e fiera delle sue nuove «idolatrie»: benessere, progresso, individualismo, successo e popolarità, nazionalismi… ben difesi da sempre nuovi muri. Le chiese sono vuote o in vendita, i conventi e le case religiose chiudono una dopo l’altra, i seminari sono semideserti, giovani preti e religiosi e suore dal Sud del mondo riempiono a stento i vuoti. Mentre i vecchi credenti vanno in cielo, i loro figli e nipoti sono convinti che si può vivere benissimo anche senza Dio. Viene da domandarsi: quale futuro ci sarà per un’Europa sempre più vecchia, inquinata e chiusa in se stessa?
Scrivo questo perché pentito di essere missionario? Per niente. E credo di poterlo dire con tutti i miei confratelli. Abbiamo sicuramente fatto errori nella nostra fragilità, ma l’amore che abbiamo condiviso non è stato buttato al vento. La missione ci ha coinvolto in una splendida avventura. Nella ricerca continua di Colui per il quale abbiamo giocato la vita, abbiamo incontrato persone, non numeri. E queste persone ci hanno aiutato ad amarLo ancora di più, a scoprirlo presente là dove meno ce l’aspettavamo. Ci hanno fatto capire che non sono le costruzioni che contano, neanche le più belle chiese, ma tutti quei piccoli gesti che portano gioia, pace, riconciliazione, rispetto, tenerezza, che rompono la solitudine, fanno cantare il cuore, ridonano voglia di vivere e sperare, e costruiscono famiglia e comunità. Chi è amato è capace di sperare contro ogni speranza, anche in tempi di Covid e talebani.
In questi giorni provati dalla pandemia, i piccoli gesti d’amore di tante persone si stanno rivelando più tenaci e capaci di visione della tracotanza dei super ricchi, della violenza dei mafiosi, delle promesse dei politici e del fondamentalismo dei fanatici. Sono la garanzia che il piccolo «seme di senape» continua a crescere e ci mostrerà sorprese. A noi sta di continuare ad accogliere la sfida della missione, che percorre vie sempre nuove e chiama a «prendere il largo», attraversando il mare infido della crisi, fidandoci di Lui.

Gigi Anataloni




Altrove in ogni dove

testo di Ugo Pozzoli |


Prima puntata di una serie di riflessioni e racconti di esperienze sul campo per inquadrare la missione nel vecchio continente. Dallo spunto del messaggio del papa per la giornata missionaria, mettiamo i primi tasselli.

«Tutto in Cristo ci ricorda che il mondo in cui viviamo e il suo bisogno di redenzione non gli sono estranei e ci chiama anche a sentirci parte attiva di questa missione». Così scrive papa Francesco nel messaggio per la Giornata missionaria mondiale in programma il 24 ottobre.

«Il mondo in cui viviamo» è il contesto nel quale ci troviamo, l’ambiente dove siamo chiamati a vivere la nostra fede come persone e comunità cristiane.

«Nessuno è estraneo – continua Francesco -, nessuno può sentirsi estraneo o lontano a questo amore di compassione», amore che avvicina, tocca, chiama, convoca, sana, perdona, riconcilia… salva.

Tutti chiamati a essere «altrove e in ogni dove», dove l’altrove è uno spazio diverso dal nostro, da quello che occupiamo, dal metro quadrato dei nostri bisogni, delle nostre certezze, del nostro io ingombrante. L’ogni dove è dappertutto, ogni spazio conosciuto e non, al di là di oceani e deserti o anche solo dietro l’angolo, magari dentro di noi.

L’altrove è lontano

Facciamo fatica ad accogliere l’idea che «altrove e in ogni dove» può essere anche qui in Europa. Questo, del resto, è anche abbastanza comprensibile, per esempio, per un Istituto come il nostro, nato in Italia all’inizio del XX secolo (1901), in un tempo di piena espansione missionaria (e coloniale), quando la terra di origine era considerata «solo» una «base logistica» di missioni concepite per altri continenti.

«Siamo per i pagani», recitava il mantra del buon missionario animato dallo spirito di quel tempo. Siamo per i non cristiani, per andare in Kenya, Etiopia, Tanzania, Mozambico; poi in America: Brasile, Argentina, Colombia; infine, in Asia. In Europa si rimaneva per servizi specifici in favore dell’Istituto, e si ritornava, obtorto collo, per dare una mano in quella che prima era chiamata «propaganda» e poi «animazione» missionaria, l’attività che aveva lo scopo di sensibilizzare le nostre Chiese alla missione, raccogliendo fondi e suscitando vocazioni, per continuare il lavoro ad gentes da un’altra parte, qualunque essa fosse.

L’altrove è qui

Oggi non è più così. Stiamo vivendo un tempo che non è soltanto un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento di epoca.

È sufficiente guardare le nostre chiese vuote e le strade piene di gente di ogni provenienza per capire che i crocicchi dove il Signore ci invia a chiamare partecipanti al banchetto del Regno (Mt 22, 9) possono essere gli incroci dei quartieri delle nostre città europee. Sentirsi chiamati e inviati ad annunciare il nome di Cristo a chi non lo ha mai sentito pronunciare non implica obbligatoriamente dei grandi spostamenti. Quegli «estremi confini» che rappresentano l’orizzonte del mandato missionario, risultano essere a volte fisicamente vicini. Eppure, non per questo più facili da raggiungere.

La missione è un dono ricevuto che a nostra volta offriamo, è il dono della fede, aperto alla speranza e reso autentico nell’amore. È il frutto di un’esperienza di incontro con il Signore, un incontro talmente profondo e significativo che cambia la vita e stimola alla condivisione, a far parte con altri della ricchezza ricevuta.

Oggi più che mai, anche in Europa, questo dono aspetta di essere scambiato.

Non possiamo tacere

«Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» è il titolo del messaggio che il papa rivolge quest’anno alla cristianità in occasione di questa domenica speciale dedicata alla missione. È una citazione dal libro degli Atti degli Apostoli (At 4,20), il libro della missione tanto caro a Francesco, «Cosa, però, abbiamo visto e ascoltato? O per meglio dire, abbiamo visto e ascoltato qualcosa?».

Vedere e ascoltare sono verbi fondamentali per chiunque voglia imbarcarsi nell’avventura di essere discepolo missionario del Vangelo.

Ma vedere e ascoltare che cosa? Innanzitutto, la realtà. Vivere con attenzione per poter cogliere i segni dei tempi: leggere la vita che scorre nelle vene di questo nostro continente, e non leggerla soltanto attraverso le pagine di un libro.

Il missionario è persona che si cala nel contesto e incontra la cultura del suo tempo nel luogo nel quale essa esiste e si esprime: nelle persone.

La missione nasce da un incontro, si perfeziona nel dialogo e si concretizza in un abbraccio.

Eppure, lo sappiamo bene, si possono vivere un tempo e un luogo senza realmente vederli e sentirli. Anche oggi, anche qui, nel mondo dove, come dice Francesco nel suo messaggio, la pandemia ha evidenziato e amplificato il dolore, la solitudine, la povertà e le ingiustizie di cui tanti già soffrivano, si può vivere senza rendersi conto di ciò che chiama la nostra presenza e, se non ce ne rendiamo conto, neppure ce ne facciamo carico.

La pandemia colpisce in particolare le persone più vulnerabili, che restano indietro e rischiano di diventare invisibili e il cui grido rimane muto.

L’esperienza di vedere e ascoltare l’uomo non può prescindere, per il missionario, dall’esperienza del vedere e ascoltare il Maestro, Gesù.  L’incontro con l’uomo è in stretta connessione con ciò che abbiamo visto e ascoltato nell’incontro con Lui, con ciò che abbiamo appreso e che non possiamo tenere per noi stessi. Non possiamo tacere l’amore che ci sospinge. E siamo chiamati a condividerlo lì dove ci troviamo, facendo nostre le ansie, le gioie, le paure, i sogni delle persone che quotidianamente incontriamo.

YARA NARDI /ITALIAN RED CROSS – salvando un migrante in mare

Sognare l’Europa

Proprio i sogni, ci ricorda ancora papa Francesco, sono importanti, e lui ne ha riservati parecchi anche per l’Europa. Nel messaggio pronunciato il 6 maggio 2016, in occasione del conferimento del premio Carlomagno, il papa si è rivolto alla terra dei suoi avi (l’Europa appunto) confidandole i sogni che nutre per lei. Merita riportarli qui, perché ognuno di essi rappresenta un possibile impegno missionario verso una terra che ha bisogno di sentire nuovamente scorrere nelle sue vene aperte il flusso inarrestabile del Vangelo: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, “un costante cammino di umanizzazione”, cui servono “memoria, coraggio, sana e umana utopia”. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo.

Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».

Sognare missione Europa

Nei prossimi mesi, a partire da questo, MC vi porterà a spasso per il nostro vecchio continente, facendovi percorrere le strade intasate di un quartiere multietnico di una grande città del Nord Italia, partecipare alla vita che si svolge quotidianamente fra i palazzoni della periferia di Lisbona, esplorare le rotte mediterranee della miseria e della speranza che uniscono il Nord Africa con la Spagna. Vi farà incontrare persone, consacrate e non, che vivono la loro missionarietà senza farsi troppi scrupoli sul dove e il perché, ma semplicemente, come dice ancora Francesco nel suo messaggio, «lasciano fiorire il miracolo della gratuità, del dono gratuito in sé» e vivono la loro vocazione come restituzione di quanto hanno ricevuto, confidando che il sogno possa, al risveglio, trasformarsi in realtà.

Ugo Pozzoli

 * Regione Europa IMC

Senzatetto – Lisbona, Portogallo




Vangelo senza quarantene


Vescovi in mezzo alla pandemia

Cinque missionari della Consolata raccontano la loro lotta contro il Covid-19. Da un punto di osservazione (e partecipazione) particolare: quello del vescovo. Cinque Chiese locali in cinque paesi tra Africa, Asia e America Latina. Cinque esperienze accomunate dallo spirito missionario, quello che va in cerca dei lontani e degli ultimi, anche in tempi di confinamento.

I vescovi missionari della Consolata oggi sono dodici. Tutti al servizio di Chiese presenti in territori poveri e a volte dilaniati dai conflitti, comunità colpite duramente anche dalla pandemia di Covid-19.

Nati in otto paesi diversi tra Europa, Africa e America Latina, hanno dai 47 ai 79 anni e operano in Brasile, Colombia, Eswatini, Kenya, Mongolia e Mozambico.

Dall’Africa alla Mongolia all’America Latina, il Covid-19 non ha risparmiato nessun paese e nessuna classe sociale, ma i primi a rimanere senza ossigeno sono stati, come sempre, i più poveri, gli esclusi, compresi quelli che nemmeno hanno potuto capire di cosa stessero morendo e sono rimasti fuori dalle statistiche per mancanza di tamponi, perché nel loro paese c’è un solo medico ogni 10mila persone.

Cinque di questi vescovi raccontano ai lettori di MC come stanno affrontando l’emergenza sanitaria nelle Chiese che servono. Monsignor Giorgio in Mongolia, mons. Joaquín in Colombia, mons. Diamantino in Mozambico, mons. José Luis in Eswatini e mons. Giovanni in Brasile.

Ciò che accomuna i loro episcopati è lo stile missionario, declinato in modo originale in ciascuna delle Chiese particolari nelle quali hanno operato e operano. L’annuncio a tutti, soprattutto a chi non ha ancora conosciuto Cristo, la scelta degli ultimi, la consolazione, la promozione della pace, il dialogo interreligioso, l’amore per Maria Consolata sono tra i pilastri della loro azione pastorale, anche in mezzo alla pandemia.

Sono volti di una chiesa che partecipa alla sofferenza e alla speranza del suo popolo.

Luca Lorusso

Grafico di Kreativezone


Confinati nelle steppe

Mongolia: Monsignor Giorgio Marengo

È diventato vescovo della giovanissima chiesa mongola nel mezzo della pandemia. Con tutti i luoghi di culto chiusi, dopo più di un anno, monsignor Marengo non ha ancora potuto celebrare l’eucaristia con il suo popolo. Ma la vicinanza ai mongoli, sia cristiani che non, è sempre viva.

La nomina a vescovo di Ulaan Baatar è arrivata a padre Giorgio Marengo il 2 aprile 2020, mentre era parroco della missione di Arvahieer, un piccolo centro rurale della Mongolia.

In quei giorni, le immagini della fila di camion militari che trasportavano le bare delle vittime bergamasche del Covid-19, facevano il giro del mondo. Il 27 marzo in Italia si era registrato il numero più alto di morti nella prima ondata, 919 in 24 ore, superato solo dai 993 del 3 dicembre successivo. La Mongolia sperimentava le chiusure anti-Covid già da febbraio, benché mancassero molti mesi al 29 dicembre, quando si sarebbe registrato il primo morto per Covid anche lì.

A causa delle chiusure, monsignor Giorgio non ha potuto essere ordinato vescovo in Mongolia e ha dovuto aspettare quattro mesi dopo la nomina. L’ordinazione è avvenuta l’8 agosto 2020 nella sua Torino, al santuario della Consolata.

È successore di mons. Wenceslao Selga Padilla, vescovo filippino della congregazione del Cuore immacolato di Maria, morto nel 2018, che, assieme ad alcuni confratelli, aveva rifondato la chiesa in Mongolia dal 1992, dopo 70 anni di comunismo. La Prefettura apostolica comprende l’intero territorio della Mongolia, 1,566 milioni di Km2 (quasi cinque volte l’Italia) nei quali vivono tre milioni di abitanti, e 1.300 cattolici. I sacerdoti sono 24, tutti, tranne uno che è locale, sono missionari stranieri. C’è un diacono che aspetta da due anni, a causa del Covid, di diventare prete, e 35 suore, anch’esse straniere.

A oggi, mons. Marengo non ha potuto ancora celebrare l’eucaristia con il suo popolo.

Monsignor Marengo, lei è diventato vescovo l’8 agosto 2020 nel bel mezzo della pandemia.

«La mia vita è cambiata in un anno strano. Molte delle cose legate al diventare vescovo, io le ho vissute fuori dagli schemi. Ad esempio: quando vieni nominato vescovo, entro 90 giorni devi essere consacrato. Ecco, per me non è stato possibile, perché in Mongolia non poteva venire nessuno, il paese era chiuso. Un altro esempio è la nomina: di solito vi è coinvolta molta gente, compreso il nunzio… per me, invece, eravamo quattro gatti, e tutto è stato fatto in sordina.

L’ho presa come un’indicazione di metodo, che poi è quello allamaniano di non fare rumore.

Oggi la Mongolia è ancora isolata e i luoghi di culto sono tutti chiusi da un anno e mezzo.

All’inizio, ho vissuto la pandemia in campagna, ad Arvahieer, come parroco. Quando è arrivato il momento di dare pubblicamente la notizia della mia nomina, sono andato in corriera a Ulaan Baatar. In quei giorni l’Italia era il paese più colpito dal coronavirus. Quando sono arrivato in capitale, è entrata la polizia nella corriera e, dato che io ero l’unico straniero, mi hanno chiesto di dove fossi. Quando ho risposto che ero italiano si sono spaventati tutti. Allora l’autista, che mi conosce, ha subito detto: “No no, lui vive qua, non era in Italia in queste settimane”».

Torino, consacrazione vescovile di Mons. Giorgio Marengo Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia

La chiusura ha riguardato solo le riunioni religiose, o tutti?

«A ondate è stata ridotta, fino a essere cancellata, anche la vita sociale in generale: le attività, i cinema, i teatri, ecc.

A intermittenza, le altre attività sono riprese, quella religiosa no. Non solo i luoghi di culto cristiani, ma tutti, anche i monasteri buddisti. Per noi cristiani è fondamentale recarci di persona in chiesa, per la celebrazione dei sacramenti, soprattutto l’eucaristia. È dunque un grande sacrificio quello che ci viene chiesto».

Ci fa una cronaca del Covid nel paese?

«Quando in Italia c’era il Festival di Sanremo, nel 2020, in Mongolia eravamo già chiusi.

Appena sono arrivate le prime notizie da Wuhan, il governo ha chiuso il confine con la Cina e ha bloccato tutte le comunicazioni interne.

In Mongolia sono molto bravi perché sono abituati a epidemie periodiche, per esempio alla peste bubbonica trasmessa dalle marmotte e dai roditori. Ogni anno d’estate ci sono dei luoghi in cui scoppia un focolaio, e allora chiudono tutto.

Per il Covid sono stati tempestivi, e sono riusciti a stare tranquilli per diversi mesi.

A marzo 2020 c’è stato il primo caso di un positivo: era un francese, lavoratore di una multinazionale. All’inizio è stato molto male, ma poi è guarito, e questa guarigione è stata vissuta dal paese come una vittoria. Si è diffusa un po’ l’illusione che la Mongolia fosse esente dalla pandemia. In effetti, i casi sono stati molto pochi per diversi mesi, fino all’autunno del 2020.

L’11 novembre è iniziato il primo lockdown serio, fino a Natale. Non si poteva uscire di casa. In quei mesi i mongoli hanno capito che non erano indenni neanche loro.

Con l’anno nuovo è iniziata la campagna vaccinale di massa. Questa primavera è stato un susseguirsi di lockdown e parziali riaperture.

Oggi (ad agosto, ndr) i casi sono molti e ci sono ancora decessi quotidiani, con picchi di 10 persone al giorno*».

Quali nuovi problemi e nuove opportunità ha portato la pandemia al paese?

«Nei momenti di chiusura sono emerse con più forza le grandi tensioni già presenti nella popolazione. Quelle che sfociano in piaghe sociali come l’alcolismo, che infatti ha avuto un boom.

La famiglia si sta sgretolando in Mongolia. Molte famiglie si sono trovate all’improvviso a stare “recluse” insieme nei pochi metri quadri della loro gher o appartamento, e sono venute fuori molte situazioni difficili, soprattutto laddove l’unità familiare era già minacciata dall’assenza di uno dei genitori, solitamente il padre. In generale, è balzata all’occhio di tutti la carenza del sistema sanitario. In un paese che sta crescendo, la sanità pubblica dovrebbe essere una priorità.

Il popolo mongolo, però, si compatta molto bene in caso di emergenza. Il sentimento di unità nazionale è molto forte, e si è visto chiaramente con la pandemia. Ad esempio, nessuno si lamenta della mascherina.

Sono anche emersi casi di eroismo civile: quando scarseggiavano ambulanze e autisti e lo stato ha chiesto aiuto alla popolazione, molta gente, anche con la propria macchina, si è offerta.

Come Chiesa abbiamo innanzitutto cercato di soccorrere le persone più in difficoltà, organizzando distribuzioni di generi di prima necessità. In questo, molti amici italiani sono stati di grande aiuto, rispondendo con generosità ai nostri appelli. Poi, trovandoci chiusi in casa, abbiamo potuto riflettere maggiormente sulle nostre attività, provando a intraprendere un discernimento. Da questo lavoro è nato, ad esempio, un progetto di catechesi in piccoli gruppi che possa andare avanti anche in caso di lockdown, perché le riunioni fino a cinque persone sono concesse. Una catechesi slegata dagli schemi del classico catechismo parrocchiale, quello fatto dall’autunno alla primavera, con la pausa estiva. Ci siamo inventati qualcosa di più adattabile.

E poi c’è tutto il discorso dei media: ancora adesso facciamo la trasmissione online della messa sul canale FB della prefettura apostolica della Mongolia. Anche le parrocchie la fanno. E i catechisti hanno iniziato a far circolare materiale sui social per sostenere i fedeli».

Qual è la peculiarità dell’essere un vescovo missionario della Consolata? Qual è il «valore aggiunto» che lei e i suoi confratelli vescovi offrite alle diocesi che guidate? E cosa offre il vostro essere vescovi all’Istituto?

«Alle chiese particolari i vescovi della Consolata offrono il loro essere missionari, quella spinta che va in ricerca non solo di chi è già cristiano, ma anche di chi è ancora fuori dal gregge cattolico. Penso anche alla nostra impostazione sacerdotale basata sulla spiritualità del beato Allamano, e quindi sui pilastri dell’eucaristia, della vita mariana e del fare bene il bene senza rumore. Sottolineerei soprattutto la dimensione della ricerca dell’annuncio. Cosa che magari in altri contesti, se il vescovo non viene da un’esperienza missionaria, può essere meno presente. Quindi un’attenzione particolare agli ultimi, e a quelli che, semplicemente, non sono cristiani, un atteggiamento di dialogo, una volontà di creare ponti nella società.

Per l’Imc avere dei vescovi tra i suoi missionari penso possa voler dire avere sott’occhio la situazione delle Chiese particolari da una prospettiva un po’ più ampia. Sono un po’ come delle voci che portano dentro l’Istituto tutta la Chiesa».

Il motto del suo episcopato è un versetto del salmo 34: «Guardate a Lui e sarete raggianti». In che modo ha vissuto questa esortazione nel suo primo anno da vescovo?

«Intanto mi sono piacevolmente stupito di come questo salmo ritorni molto spesso nella liturgia feriale. Ogni tanto nella messa quotidiana salta fuori questo “guardate a Lui e sarete raggianti”. Puntare lo sguardo del cuore verso il Signore penso sia la priorità del vescovo missionario.

Cerco, con tutta la mia povertà, di attaccarmi a questa Parola per viverla. La sproporzione fra le esigenze e le sfide della chiesa, e la mia povertà personale, mi mette con le spalle al muro, e mi rende più consapevole che la luce viene da Cristo. Se veramente guardiamo tutti a Lui, questa luce poi si espande nelle nostre realtà.

Poi c’è questa particolarità: “Guardate a lui e sarete raggianti” può essere tradotto anche con “guardate a lui e sarete luminosi”, oppure “illuminati”. Ecco, per noi l’illuminazione viene come pura grazia, non è il raggiungimento di un’intuizione nostra, è la luce di Cristo che ci raggiunge. L’illuminazione è anche il concetto centrale del buddismo. Quindi per me il versetto del salmo 34 ha anche il gusto del dialogo interreligioso.

Ho una grande stima dell’illuminazione come cammino di perfezionamento proposto dal buddismo, e nello stesso tempo sono felice di essere cristiano perché so che la luce viene e, semplicemente, noi la dobbiamo accogliere, e che arriva per chiunque, non è una cosa riservata a pochi intimi, ma è la proposta cristiana per tutti».

Luca Lorusso

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mongolia sono stati 236mila, 780 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 968, uno ogni 3.127 abitanti (in Italia uno ogni 470).


Scuola, sanità e narcos

Colombia: Monsignor Joaquín Humberto Pinzón Güiza

Monsignor Pinzón è il primo vescovo del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano. In un territorio «remoto», dove i confini sono percepiti come idee astratte, il Covid ha portato la durezza del confinamento, e la coscienza di essere uno spazio marginale per lo stato centrale. La pandemia ha evidenziato la carenza di sanità e scuola, ma anche il potere del narcotraffico e dei gruppi di guerriglieri. Nonostante questo, la resilienza e la speranza del popolo rimangono intatte.

Il nostro Vicariato di Puerto Leguizamo-Solano, costituito nel 2013, si trova nel Sud dell’Amazzonia colombiana. Comprende un territorio di 56mila km2 in cui convergono le comunità di tre dipartimenti colombiani: Sud di Putumayo, Sud di Caquetá e Nord dell’Amazzonia. La sua popolazione è di circa 59mila abitanti, di cui 49mila cattolici. Ci sono tredici sacerdoti, di cui 12 religiosi e uno diocesano, e 12 suore per 5 parrocchie. Uno dei suoi tratti peculiari è il suo carattere di confine (tra Colombia, Perù ed Ecuador), che consente lo sviluppo di dinamiche di scambio a tutti i livelli.

Frontiere immaginarie, frontiere reali

Quando papa Francesco dice che «tutto è connesso», ci aiuta a prendere coscienza che le dinamiche vitali che si generano sul pianeta riguardano tutti noi che lo abitiamo.

Essa è una verità ancora più evidente in questo tempo di pandemia da Covid-19. Chi avrebbe immaginato che il coronavirus, avendo avuto origine in terre lontane, avrebbe colpito anche questo angolo di mondo? Questo «luogo remoto», come è considerato da molti.

Possiamo dire che la pandemia non solo ha raggiunto il nostro territorio, ma ci ha anche colpito in modi sorprendenti e inaspettati*.

In questo spazio di vita colombiano dove i confini politici degli stati spesso sono più realtà immaginarie che effettive, dove le frontiere non entrano nella mentalità delle persone e dei popoli, ci è stato imposto un confinamento duro.

Improvvisamente le nostre interazioni e i nostri movimenti sono stati limitati.

Abbiamo capito che nonostante l’Amazzonia sia ampia, possono verificarsi condizioni che impongono limiti al movimento e alle relazioni.

Ora i confini nazionali e internazionali stavano entrando in vigore e in vita. Sì, la sfocatura e la relatività dei confini erano fortemente diluite davanti al nostro sguardo attonito e impotente.

Ora il fiume che ci ha sempre unito, non solo ci separava, ma sollevava nazionalismi che non aiutano nella ricerca di soluzioni ai problemi comuni che affrontiamo come persone, popoli e paesi.

Ora reciprocità e armonia lasciavano il posto all’isolamento e alle tensioni personali e comunitarie, locali, nazionali e internazionali.

Mons Pinzon con suor Gabriella Bono

Territorio trascurato: salute, scuola, fame

Il Covid-19 non solo ha messo in evidenza le differenze tra i paesi, ma ha anche e soprattutto rivelato le differenze all’interno del nostro paese. Abbiamo capito che quando veniamo chiamati «abitanti lontani» c’è qualcosa di vero, poiché in questo tempo di pandemia si è manifestato in modo chiaro lo storico abbandono dei luoghi periferici della Colombia da parte dello stato.

È così che il nostro territorio si rivela, pur con tutto il suo splendore, come territorio marginale, territorio di remota, vera frontiera. I servizi sanitari sono carenti: non esistono né le infrastrutture né il personale sufficiente, tanto meno le attrezzature e le forniture necessarie. Se la pandemia ha aiutato in qualcosa, l’ha fatto nell’evidenziare la precarietà del sistema sanitario.

Anche i servizi educativi sono stati travolti. Si è pensato di poter offrire un’educazione virtuale ai nostri bambini e ragazzi, ma qui, al di là dei cartelloni pubblicitari che affermano: «Leguizamo vive digitale», non c’è un servizio internet all’altezza. Non esistono apparecchiature informatiche che possano consentire ai ragazzi di connettersi. Se queste carenze sono state vissute nei centri urbani, che dire dei villaggi e delle comunità più remote?

È stato un fenomeno che ha esacerbato i problemi già esistenti di un sistema educativo di bassissima qualità, con molti limiti materiali e umani; un sistema che sopravvive grazie agli enormi sforzi degli insegnanti.

Purtroppo, tra i ragazzi c’è una grande diserzione della scuola: molti, demotivati dal fatto di non avere i mezzi per studiare, hanno iniziato a lavorare in fattorie, miniere o coltivazioni illecite.

Il confinamento ha portato anche la fame a coloro che vivono alla giornata (soprattutto nei centri abitati). A riguardo di questo, apprezziamo molto la generosità che è nata per soccorrere tante famiglie in difficoltà. Il valore della solidarietà è stato visibile.

Tarapaca, Colombia. Nov. 12, 2020. Aiuto a una famiglia in necessità. Credit: UE / ECHO / Nadège Mazars

Il traffico di droga non si ferma

Una realtà che non ha subito il confinamento è stata quella del traffico di droga. Anche durante la pandemia hanno continuato a esistere la coltivazione, la lavorazione e la commercializzazione delle droghe. È un fenomeno che rafforza un altro problema drammatico: la violenza.

Senza dubbio, quest’altra pandemia, quella della violenza, ha generato più morti del Covid-19, soprattutto tra i giovani.

Le coltivazioni illecite hanno la capacità di incoraggiare le nuove generazioni a entrare nel mondo del guadagno facile, di difondere quella che viene definita «narco mentalità», quella di chi vuole arricchirsi in fretta e con poco sforzo.

Tutto questo sta generando disgregazione familiare e sociale, sia nelle comunità contadine che in quelle indigene.

La guerriglia

Un’altra realtà, legata a quella della droga, che non ha vissuto il confinamento, è quella bellica. Essa ha continuato a seguire il suo corso «normale», uccidendo e provocando danni.

Gli effetti del processo di pace che si sta portando avanti con i guerriglieri delle Farc, li abbiamo sentiti nella fase di attuazione, quando il gruppo di insorti ha deciso di consegnare le armi. Abbiamo vissuto un periodo di armonia nel territorio e abbiamo potuto sperimentare una certa tranquillità. Ma è stato qualcosa di effimero, come ci ha detto un contadino: «Tanta felicità non può essere così duratura».

Ebbene, purtroppo, il processo di pace non ha previsto come fare per mantenere il controllo e garantire l’ordine nei territori precedentemente in mano alle Farc. Le istituzioni non sono state in grado di arrivare in quei territori. E i territori strategici per la loro collocazione geografica, come il nostro, sono diventati oggetto di contesa da parte di diversi attori, come i dissidenti delle Farc e i gruppi legati al narcotraffico (senza specifica identificazione), tutti motivati dal profitto che le economie illegali portano, e tutti generatori di paura, ansia, caos e morte.

La nostra gente vive consapevole che non c’è alternativa al resistere, e al resistere con saggezza e prudenza, come sa fare da decenni. È la stessa strategia che mette in atto per affrontare il Covid.

Fare del Covid un’opportunità per la vita

Le devastazioni della pandemia da Covid-19 e le altre pandemie che abbiamo descritto, fanno percepire alle persone la fragilità della vita, nonostante sia un dono così prezioso. La malattia, così come la violenza, non hanno remore a colpirci con forza. Ciò che risalta di più in questa lotta è la resilienza delle persone che guardano al futuro con speranza.

Scendendo dal fiume Caquetá sul deslizador, mezzo di trasporto fluviale di questi territori, ho assistito a una conversazione tra alcune persone. Mi ha colpito la frase di una donna: «A che ci è servito tutto questo, se non impariamo niente? Continuiamo come prima».

La verità è che, per molti, tutto quello che hanno vissuto in questo tempo di pandemia, è stato solo una parentesi da chiudere al più presto per tornare alla «vita normale». Ma c’è anche chi crede che questa esperienza ci abbia aiutato in qualcosa, soprattutto a pensare e ripensare il nostro stile di vita politico, economico e sociale.

La pandemia ha messo in luce lo splendore e la fragilità della vita, e la precarietà dei nostri servizi educativi e sanitari. Ecco perché l’imperativo che ne traiamo è quello di valorizzare la vita al di là di ogni altra realtà e di lottare per essa, individualmente e collettivamente.

L’incertezza è ciò che caratterizza il futuro del nostro territorio. Il destino della guerra e del traffico di droga è incerto; incerta la situazione di abbandono da parte dello stato, e la condizione dei servizi educativi e sanitari. Sì, tutto è incerto, e qualsiasi previsione sarà sempre inscritta nell’orizzonte delle probabilità, delle utopie che a volte si trasformano in chimere. Tuttavia noi, come Chiesa, crediamo che la situazione che stiamo vivendo sia uno spazio propizio per sviluppare una spiritualità che ci permetta di affrontare le difficoltà, per rafforzare le spiritualità dei popoli e, al loro interno, proporre la spiritualità della cura, della riconciliazione, della comunione e dell’accompagnamento.

Qui è urgente sognare, progettare e realizzare propositi evangelici che formino e alimentino la vita dei credenti come popolo e come discepoli.

Essere famiglia umana

La coscienza di essere un’unica famiglia umana si rafforza nella fraternità e nell’amicizia sociale.

Nel nostro Vicariato sarà urgente la formazione della coscienza comunitaria, e il rispetto della vita in tutte le sue manifestazioni.

Qui siamo sollecitati a capire che siamo tutti sulla stessa barca e che i problemi di alcuni riguardano tutti, come ha sottolineato papa Francesco. È necessario dare corpo all’utopia della fratellanza, quella tra gli uomini e quella tra l’uomo e la natura. A tal fine, cercheremo di fare delle nostre comunità spazi di vita e di comunione, spazi di trasmissione e coltivazione dei valori di un’umanità solidale.

I motivi per credere sono tanti, tanto da fare della resistenza la nostra forza e da trasformare la paura in speranza.

Joaquín Humberto Pinzón Güiza

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Colombia, su una popolazione di 48,6 milioni di persone, sono stati 4,9 milioni, 1.011 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 125.331, uno ogni 387 abitanti (in Italia uno ogni 470).

Casa distrutta dal ciclone Idai a Tete


Se non bastassero cicloni e terrorismo

Mozambico: Monsignor Diamantino Guapo Antunes

Successore del suo confratello, monsignor Ignazio Saure, divenuto arcivescovo di Nampula, mons. Diamantino è vescovo di Tete dal 12 maggio 2019. È il quinto da quando la diocesi è stata eretta nel 1962. Il Covid, in Mozambico, come in molti altri paesi, ha reso ancora più evidente l’insufficienza della sanità pubblica, e il bisogno di vicinanza e di gesti di consolazione.

La diocesi di Tete conta circa tre milioni di abitanti sparsi in un’area di 100mila Km2 (un terzo dell’Italia). I cattolici sono 750mila. Ci sono 35 parrocchie, 65 sacerdoti, tra cui 17 diocesani e gli altri missionari. I Missionari della Consolata sono sette, incluso il vescovo, responsabili di quattro missioni e un centro di formazione per catechisti.

Il territorio è molto vario, c’è una zona fertile molto popolata (altipiano di Angonia), e una zona secca e arida (lungo il rio Zambesi). Centro propulsore di tutta la regione è la città di Tete.

Le popolazioni appartengono alla stessa etnia bantu, ma sono differenti per lingua e tradizioni. Le principali lingue sono: cinyungwe (40%), cichewa (35%) e cisena (15%) e altre (10%).

La gente vive di agricoltura e, quando può, di commercio informale con bancarelle lungo la strada. Si vive a contatto con le popolazioni dello Zambia, Zimbabwe e Malawi. Il territorio di Tete è ricco di miniere di carbone e ha una delle più grandi centrali idroelettriche dell’Africa, la diga di Cabora Bassa sul fiume Zambezi.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Storia della diocesi

Possiamo dividere la storia dell’evangelizzazione nell’attuale diocesi di Tete in due periodi. Il primo fu iniziato nel 1562 da gesuiti e domenicani che rimasero nella zona fino alla loro espulsione nel 1910. Il secondo iniziò nel 1942, e fu un periodo di penetrazione e consolidamento della Chiesa nel vasto territorio. Esso portò alla creazione della diocesi nel 1962. L’opera di evangelizzazione continua a essere svolta dai gesuiti, dai Missionari d’Africa, dai Padri di Burgos, dai Missionari Comboniani e della Consolata, a diretto contatto con la popolazione, nel lavoro quotidiano e nell’assistenza sanitaria, con notevoli frutti.

La situazione pandemica

Il primo caso di infezione con il nuovo coronavirus in Mozambico è stato confermato il 22 marzo 2020. Si trattava di un uomo di 75 anni tornato dal Regno Unito. Nel 2020 i casi di infezione sono stati pochi, ma con l’allentamento di alcune misure di prevenzione alla fine dell’anno, e l’arrivo dei turisti sudafricani, i casi sono aumentati notevolmente*.

Il Mozambico a inizio agosto era il paese africano con il maggiore tasso di positività, il 16,7%. Le misure del governo si sono fatte più severe. Le scuole sono state chiuse in alcune città, i luoghi di culto pure, c’è il coprifuoco dalle 21 alle 4. Mercati chiusi la domenica. Funerali limitati.

Gli operatori sanitari sono vaccinati, ma la campagna di vaccinazione è lenta. L’intento è di estenderla a tutto il paese entro la fine del 2021.

I nuovi problemi

Il Covid-19 è arrivato in Mozambico in un momento di grande difficoltà. Eravamo nel mezzo della gestione dell’emergenza legata ai cicloni Idai e Kenneth, che avevano distrutto nel 2019 case, centri di salute e ospedali, oltre ad aver causato 600 morti e molti dispersi. Inoltre il terrorismo islamista nella provincia di Cabo Delgado era (ed è) un altro grave problema.

La pandemia ha avuto un grande impatto sull’economia e sulla società, in particolare sul turismo e l’esportazione di materie prime. Il 60% degli stabilimenti turistici ha chiuso. La caduta dei prezzi di materie prime, come carbone e gas, ha pregiudicato gli investimenti esteri, facendo perdere altri posti di lavoro ed entrate statali.

Le piccole imprese hanno immensa difficoltà a mantenere i propri impegni fiscali, divenendo un problema per il paese già abbastanza indebitato.

L’impossibilità dell’insegnamento in presenza ha avuto un profondo impatto sul settore educativo. Lo stesso possiamo dire in campo religioso con la sospensione delle celebrazioni pubbliche e delle altre attività pastorali.

Senza accesso a redditi o sussidi di disoccupazione, con un risparmio piccolo o nullo, e in uno scenario di aumento dei prezzi, la popolazione più povera di Tete, soprattutto urbana, è oggi vulnerabile alla fame. La povertà e l’insicurezza alimentare aumentano l’insicurezza pubblica e urbana, e la piccola criminalità.

Infine, si è ridotta la risposta dei servizi sanitari di trattamento e prevenzione di altre malattie comuni come malaria, tubercolosi, Hiv-Aids.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

La risposta della diocesi di Tete

La provincia di Tete è una delle più colpite dalla pandemia. Essa è, infatti, un corridoio di passaggio per i vicini Malawi, Zambia e Zimbabwe.

La diocesi ha cercato di mantenere viva la speranza tra la gente e di essere una presenza di consolazione e aiuto. Il vescovo ha visitato le missioni ed è stato in contatto con le comunità. Ha chiesto ai missionari di stare ancora più vicini ai fedeli, anche visitando le famiglie.

Siamo a stretto contatto con il ministero della Sanità a livello provinciale, partecipiamo ai tavoli tecnici per organizzare una risposta al coronavirus che metta al primo posto la prevenzione.

Nella Provincia di Tete c’è meno di un medico ogni 10mila abitanti (in Italia ce n’è uno ogni 247, ndr) e le strutture sanitarie sono poche e a volte prive di medicinali. Per questo la prevenzione e la formazione sono la chiave.

Gli agenti di pastorale si sono impegnati anche per diffondere messaggi di sensibilizzazione sul coronavirus, lavorando in piccoli gruppi per rispettare il distanziamento sociale. Abbiamo prodotto spot che sono trasmessi dalla neonata radio diocesana. Gli spot vengono diffusi in dialetti differenti, per arrivare a tutti. Alcuni missionari hanno montato degli amplificatori sulle macchine che girano per barrio e villaggi diffondendo le stesse raccomandazioni.

Diamantino Guapo Antunes

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mozambico, su una popolazione di 28,8 milioni di persone, sono stati 148mila, 51 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.881, uno ogni 15mila abitanti (in Italia uno ogni 470).


Una chiesa piccolo ma pronta

Eswatini: Monsignor José Luís Gerardo Ponce de León

Dal 2014 è vescovo dell’unica diocesi del piccolo Regno di Eswatini. Monsignor Ponce de León descrive una chiesa viva in un paese che, pur pacifico, ha manifestato negli ultimi mesi diverse tensioni, e palesato problemi sanitari, scolastici, economici e sociali rafforzati dal Covid.

Il Regno di Eswatini si trova tra Sudafrica e Mozambico. Il paese, che fino al 2018 si chiamava Swaziland, ha di recente fatto notizia a causa delle violenze dello scorso luglio. Conosciuta come una nazione pacifica, in pochi giorni ha visto la morte di una cinquantina di persone, il ferimento di altre centinaia, e la distruzione di molti negozi.

La diocesi di Manzini è l’unica del paese e, così, io sono l’unico vescovo cattolico. Su una superficie di 17mila km2 (come il Lazio, ndr) vivono 1,4 milioni di abitanti dei quali il 5% cattolici. Arrivato nel 2012 come «amministratore apostolico» dopo la morte di mons. Louis Ncamiso Ndlovu dell’Ordine dei servi di Maria, nel gennaio del 2014 sono diventato il suo quinto vescovo.

La piccola presenza cattolica, in questa nazione a maggioranza cristiana, è ben conosciuta, anche grazie al nostro servizio nel campo della salute (un ospedale, sette cliniche, un ospizio), dell’educazione (sessanta scuole) e della promozione di giustizia e pace (traffico di persone, rifugiati) coordinati dalla Caritas Eswatini.

Proteggere la popolazione

Non appena il presidente del Consiglio ha dichiarato, lo scorso marzo 2020, lo stato di emergenza, la nostra diocesi ha preso due iniziative. La prima è stata quella di interrompere la celebrazione delle funzioni religiose in tutte le parrocchie (17) e le comunità (un centinaio). La rapidità della decisione ha colto di sorpresa molti che hanno così capito la gravità della pandemia. La seconda è stata quella di identificare, insieme alla Caritas, le aree di intervento urgente. Ne abbiamo identificate sei: salute, cibo, acqua, rifugiati, comunicazione, casa.

Salute. Abbiamo fornito l’ospedale, i centri di salute e l’ospizio dei dispositivi di protezione individuale. La Conferenza episcopale italiana ci ha aiutati.

Cibo. La mancanza lavoro e la riduzione degli stipendi hanno inciso sulle famiglie. Le scuole, poi, nel nostro paese, sono una delle principali fonti di nutrimento per i bambini. Con le scuole chiuse, non ne potevano più beneficiare. Per questo, attraverso le nostre parrocchie, stiamo fornendo pacchi alimentari ai poveri della zona.

Acqua. Il messaggio «Lavati le mani» è stato uno dei primi che tutti abbiamo ricevuto e predicato. La domanda qui era: «Come fai quando l’acqua non c’è?». Abbiamo quindi offerto ad alcune famiglie una cisterna e delle grondaie per raccogliere l’acqua piovana. Avere un serbatoio consente anche di acquistare acqua da conservare per i tempi meno piovosi.

Informazione. Come in altri paesi, il governo ha utilizzato radio e Tv per informare sul virus. Con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che c’erano famiglie nelle zone rurali che non avevano nemmeno una radio. Pertanto è stato fatto un elenco di 500 famiglie cui fornirle. Le radio hanno aiutato anche i bambini che hanno potuto ascoltare i programmi radiofonici di insegnamento.

Case con due stanze. Questo programma è iniziato in diocesi molti anni fa grazie al supporto di Home Plan (Olanda). Il Covid-19 lo ha reso più urgente. Il distanziamento è essenziale nella lotta al virus, ma per alcune famiglie che vivono affollate in case di una sola stanza è un lusso.

Rifugiati. Ogni anno visitiamo il Centro per i rifugiati sostenendo le famiglie con pacchi alimentari. La metà dei rifugiati sono bambini. Quest’anno la richiesta del Centro è stata di fornire loro articoli da toeletta e materassi.

Cinquantesimo di padre Massa

Vicinanza social, ma non solo social

Come in altre nazioni, il Covid, oltre a creare dei nuovi problemi, ha portato allo scoperto quelli che già esistevamo ma stavano nascosti, come la mancanza di cibo e di acqua. Ne ha anche accentuati diversi, come la difficoltà delle famiglie di pagare la scuola: quando i giovani hanno potuto tornarci, tanti ci hanno chiesto una mano. La Chiesa cattolica qui è conosciuta come una chiesa al servizio di tutti, e il vescovo, in qualche modo, padre di tutti. Chiunque ne ha bisogno viene a trovarmi e, anche se non possiamo aiutare ogni volta, apprezzano di essere ascoltati.

Da sempre la diocesi ha saputo rispondere alle sfide sociali. Il Covid però ha portato nuove sfide come quella di accompagnare la fede dei cattolici che non potevano più andare in chiesa. La messa qui non è un’abitudine. Celebrare insieme è un elemento forte della nostra spiritualità.

Abbiamo allora preparato dei file audio da inviare via WhatsApp: preghiere e riflessioni sulle letture proposte dai preti della diocesi. Abbiamo anche offerto la messa della domenica su YouTube e, nella settimana santa, «le sette parole».

Con la pagina Facebook della diocesi sappiamo di aver raggiunto tanti.

Le sfide non finiscono

Al momento di scrivere questo articolo Eswatini si trova ad affrontare la terza ondata del Covid*, e soltanto il 10% della popolazione ha ricevuto le due dosi del vaccino. I numeri di coloro che possono entrare in chiesa è limitato. Chi vuole prepararsi per i sacramenti (battesimo degli adulti, comunione, cresima) non può farlo.

Per di più viviamo un tempo di violenza. Sembra che la calma sia tornata, ma è dovuta soltanto alla presenza dei soldati per le strade.

Un’altra sfida che rimane è quella della vicinanza a coloro che sono stati colpiti dal Covid. C’è bisogno di aiuto a livello spirituale e psicologico. Chi è stato contagiato e ha sentito la morte alle porte, chi ha visto i famigliari soffrire o morire a casa (una donna ne ha persi sette in due mesi), è rimasto con delle ferite non guarite.

Le chiese sono sempre il punto di riferimento più importante nei momenti difficili, e, allo stesso tempo, sono le prime a dover chiudere le porte…

Abbiamo bisogno, come diocesi, di ritrovarci (preti, religiose e laici) per riflettere su come essere chiesa in questo momento. La terza ondata probabilmente non sarà l’ultima e rischiamo di mancare di creatività, quella che ci porta lo Spirito, per continuare a testimoniare il Risorto.

José Luís Gerardo Ponce de León

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi registrati in Eswatini, su una popolazione di 1,5 milioni, erano 44mila, 302 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.158, uno ogni 1.267 abitanti (in Italia uno ogni 470).


È tempo di prendersi cura

Brasile: Monsignor Giovanni Crippa

Fin dall’inizio dell’emergenza Covid, dal marzo 2020, la Chiesa brasiliana si è spesa per soccorrere la popolazione, in particolare i poveri. Anche nella diocesi di Estância, dove monsignor Crippa è stato vescovo dal 2014 fino ad agosto, la pandemia ha colpito duro, ma la risposta della Chiesa è stata, ed è, forte e creativa.

La diocesi di Estância è stata eretta da papa Giovanni XXIII nel 1960. Il suo territorio fu il primo in Sergipe (Nord Est del Brasile, ndr) a essere toccato dall’azione missionaria dei Gesuiti (1575).

Situata nella parte centro meridionale dello stato di Sergipe, la diocesi ha una superficie di 6.650 km2 e una popolazione di 509.675 abitanti, di cui, secondo il censimento del 2010, il 50,56% vive in aree urbane e il 76,85% si dichiara cattolico.

La popolazione è il risultato dell’incrocio di indios, neri (ex schiavi) e bianchi figli dei colonizzatori, particolarmente dal Portogallo.

Abbiamo 28 parrocchie e 617 comunità, 41 sacerdoti, tutti diocesani, 22 seminaristi, 8 istituti religiosi femminili, con 52 religiose in 12 comunità.

Le frequenti situazioni di violenza, disoccupazione, illegalità e aggressione all’ambiente richiamano l’attenzione della diocesi, la quale risponde con progetti di formazione e di promozione umana, giustizia e salvaguardia del creato.

La realtà pandemica in Brasile

Tutti nel mondo stiamo vivendo un momento molto difficile a causa della pandemia. Un tempo che tocca la vita delle comunità nei suoi aspetti pastorali, liturgici, spirituali, sociali ed economici.

Il Brasile è uno dei paesi più colpiti, e fin da subito la Chiesa brasiliana si è mobilitata. Già il 15 marzo 2020, infatti, la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha diffuso un messaggio chiedendo l’osservanza delle indicazioni sanitarie per contrastare la diffusione del virus.

La pandemia, inoltre, ha aggravato la crisi politica già in atto da tempo nel paese. Il 30 aprile 2020, il Consiglio pastorale episcopale della Cnbb ha approvato una nota in cui dichiarava il proprio impegno per un «Patto per la vita e il Brasile», firmato con altre importanti entità brasiliane. Allo stesso modo, ha invitato la società e le autorità pubbliche a unirsi per prevenire e combattere la più grave crisi sanitaria degli ultimi tempi.

Ordinazione episcopale del vescovo Giovanni Crippa

In quello stesso mese di aprile 2020 la Cnbb e la Cáritas brasileira hanno avviato l’iniziativa «É Tempo de cuidar» (È tempo di prendersi cura) con l’obiettivo di promuovere la solidarietà a favore delle famiglie bisognose, prive di cibo, lavoro, casa e accesso alle cure mediche.

Un anno dopo, nella 58ª Assemblea generale della Cnbb dell’aprile 2021, è stata nuovamente discussa la realtà pandemica in Brasile, e si è deciso di proseguire con la campagna. L’iniziativa «É Tempo de cuidar» incoraggia anche il supporto spirituale, psicologico e religioso per chi ha vissuto il lutto a causa della pandemia.

Con il tema «Ogni vita è importante», la Cnbb ha poi organizzato il 19 giugno 2021 una giornata di sensibilizzazione e preghiera in memoria degli oltre 500mila morti per Covid-19. Per entrare in sintonia con la Cnbb e il popolo brasiliano, nello stesso giorno, alle ore 15, tutte le campane delle chiese hanno suonato assieme.

Il 9 luglio 2021, ancora una volta, la Cnbb ha alzato la voce per difendere le vite minacciate, i diritti violati e per sostenere il ripristino della giustizia, cosciente che la società democratica brasiliana sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia.

La tragica perdita di oltre mezzo milione di vite, fra le quali un grande numero di sacerdoti e alcuni vescovi, è purtroppo aggravata dal sospetto di illeciti e corruzione compiuti nella lotta alla pandemia. Il grande numero di contagiati* ha rivelato la precarietà del sistema ospedaliero brasiliano, nonché il rifiuto degli orientamenti della scienza da parte dell’attuale governo, particolarmente del presidente Jair Messias Bolsonaro.

Gli effetti nella diocesi

Anche la diocesi di Estância ha dovuto prendere decisioni che hanno segnato la vita delle comunità. Dal 18 marzo 2020, infatti, si è entrati in una sorta di quarantena generale: rapporti sociali ridotti al minimo, distanza di sicurezza tra le persone, manifestazioni di affetto da evitare, confinamento in casa, rinuncia a tutte le attività che comportano assembramenti, comprese le celebrazioni eucaristiche pubbliche.

La pandemia ci ha chiesto di essere più umili: con una maggiore coscienza dei nostri limiti e di non essere né onnipotenti né autosufficienti.

In questo tempo siamo chiamati a ricostruire la speranza, promuovere la solidarietà e incentivare la preghiera. È un tempo che ci ha chiesto una vita di austerità, sobrietà e semplicità.

Tutte le comunità hanno dato una testimonianza evangelica di solidarietà raccogliendo donazioni per i bisogni dei più poveri che bussano sempre più numerosi alle porte delle nostre chiese.

Se le porte delle nostre chiese sono rimaste «chiuse» per un certo tempo, la Chiesa ha però continuato la sua azione evangelizzatrice.

Le sfide in tempi di Covid

La condizione inedita in cui viviamo suscita molti interrogativi e, soprattutto, richiede un discernimento spirituale su ciò che il Signore vuole comunicarci in questo momento di tribolazione.

La pastorale ha bisogno in questo momento di reinventarsi, di usare la creatività. Le Linee generali per l’azione evangelizzatrice della Chiesa in Brasile (Dgae 2019-2023), sono strutturate sulla Comunità ecclesiale missionaria presentata con l’immagine della «casa». Una casa con le porte aperte per entrare (l’importanza dell’accoglienza) e anche per uscire (in missione).

La situazione che stiamo vivendo ci chiede di essere audaci cercando Gesù fuori dalle nostre case. Gesù non può essere ridotto al tempio. Le chiese dalle «porte ancora semi chiuse» ci provocano e ci sfidano a fare delle nostre case uno spazio per costruire la Chiesa domestica.

La Chiesa, anche attraverso i social media, ha davanti a sé la grande sfida di andare nelle periferie geografiche ed esistenziali e risvegliare tanti fratelli e sorelle alla vita di fede comunitaria.

La pandemia ha colpito tutti, anche se con impatti diversi. In questo momento, la Chiesa deve essere un «ospedale da campo» per sanare le ferite, offrire consolazione e speranza. Le situazioni di miseria, perdita del lavoro, vulnerabilità al contagio, interpellano la Chiesa a collaborare per il bene comune con le autorità pubbliche, a superare l’assistenzialismo e ad aiutare le persone a essere soggetti della propria storia.

Forse l’attuale «stato di emergenza» è un indicatore e anche un acceleratore del nuovo volto della Chiesa che Gesù vuole per questo nuovo tempo, che non può e non deve tornare indietro.

Giovanni Crippa**

* Al 7 settembre, i casi registrati in Brasile, su una popolazione di 207,6 milioni, erano 20,9 milioni, 1.006 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 584mila, uno ogni 355 abitanti (in Italia uno ogni 470).

** Pochi giorni dopo aver scritto queste righe, monsignor Giovanni Crippa, l’11 agosto, è stato nominato dal papa vescovo di Ilhéus, diocesi 600 km più a Sud.


Attuali vescovi IMC:

  1. Luis Augusto Castro Quiroga nato l’8/4/1942 a Santa Fe de Bogotá (Colombia). OE: 29/11/1986 a Santa Fe de Bogotá.
  2. Virgilio Pante nato il 16/3/1946 a Lamon, (Italia). OE: 6/10/2001 a Maralal.
  3. Anthony Ireri Mukobo nato il 23/9/1949 a Mufu – Kyeni (Kenya). OE: 18/3/2000 a Nairobi.
  4. Elio Rama nato il 28/10/1953 a Tucunduva (Brasile). OE: 30/12/2012 a São Paulo.
  5. Peter Kihara Kariuki nato il 6/2/1954 a Thunguri – Othaya (Kenya). OE: 11/9/1999 a Murang’a.
  6. Francisco Javier Múnera Correa nato il 21/10/1956 a Copacabana (Colombia). OE: 11/2/1999 a Santa Fe de Bogotá.
  7. Giovanni Crippa nato il 6/10/1958 a Besana in Brianza (Italia). OE: 13/5/2012 a Feira de Santana.
  8. Inácio Saure nato il 2/3/1960 a Balama (Mozambico). OE: 22/5/2011 a Maputo.
  9. José Luis Gerardo Ponce de León nato l’8/5/1961 a Buenos Aires (Argentina). OE: 18/4/2009 a Mtubatuba.
  10. Diamantino Guapo Antunes nato il 30/11/1966 a Albergaria dos Doze (Portogallo). OE: 12/05/2019 a Tete.
  11. Joaquín Humberto Pinzón Güiza nato il 3/7/1969 a Velez (Colombia). OE: 20/4/2013 a Bogotá.
  12. Giorgio Marengo nato il 07/06/1974 a Cuneo (Italia). OE: 8/8/2020 a Torino.

Hanno contribuito al dossier:

  • Monsignor Giorgio Marengo Vescovo di Ulaan Baatar, Mongolia, dall’8/8/2020.
  • Mons. Joaquín Humberto Pinzón Vescovo di Puerto Leguízamo-Solano, Colombia, dal 20/4/2013.
  • Mons. Diamantino Guapo Antunes Vescovo di Tete, Mozambico, dal 12/5/2019.
  • Mons. José Luís Gerardo Ponce de León Vescovo di Ingwavuma, Sudafrica, dal 18/4/2009; poi vescovo di Manzini, Regno di Eswatini, dal 26/1/2014.
  • Mons. Giovanni Crippa Vescovo ausiliare di São Salvador da Bahia, Brasile, dal 13/5/2012; poi vescovo di Estância, Sergipe, Brasile, dal 9/7/2014; ora vescovo di Ilhéus, Bahia, Brasile, dal 9/10/2021.
  •  Luca Lorusso Giornalista redazione MC che ha curato il dossier