Ciad. L’ultimo dei saheliani


La sua posizione geografica e un territorio in gran parte desertico ne fanno un paese tra i più poveri del mondo. I gruppi armati e l’instabilità politica degli ultimi anni hanno aggravato la situazione. La crisi climatica fa aumentare la fame e i conflitti intercomunitari. Se la capitale resiste, l’interno del paese è abbandonato a se stesso.

La stagione delle piogge è alle porte. O almeno dovrebbe. In Ciad, come in gran parte dell’Africa, non ci sono più le stagioni di una volta. E non è una banale frase fatta. I cambiamenti climatici, in regioni fragili come quella del Sahel e in paesi aridi come il Ciad, dove ogni goccia d’acqua è preziosissima, hanno stravolto tutto: piove molto meno o piove troppo violentemente; non piove quando dovrebbe o si scatenano diluvi che devastano campi e allagano villaggi. Insomma, non si tratta solo dell’innalzamento delle temperature, dell’avanzata del deserto e della siccità che attanagliano questa regione, ma anche di eventi meteorologici estremi che si accaniscono contro territori e popolazioni già molto poveri ed estremamente vulnerabili. Che lo diventano ancora di più.

Il Ciad è l’emblema di tutto questo: qui i fattori ambientali e climatici – che hanno portato anche alla quasi scomparsa del Lago Ciad, un tempo uno dei bacini idrici più vasti dell’Africa – si intrecciano a situazioni conflittuali dovute alla presenza di gruppi terroristici e ribelli, agli scontri sempre più frequenti tra pastori e agricoltori, a un contesto di instabilità politica e a una grandissima povertà e insicurezza alimentare. Una crisi complessa e prolungata di cui, oggi, ne pagano le conseguenze intere popolazioni. Nel bacino del lago sono più di 24 milioni le persone a rischio fame e quasi tre milioni gli sfollati, secondo quanto emerso dalla terza Conferenza su questa regione, che si è tenuta a fine gennaio a Niamey, in Niger, e che ha delineato un quadro drammatico, che rigurada anche i paesi limitrofi.

La fame si diffonde

Il Ciad, in particolare, sta vivendo una situazione catastrofica in termini di sicurezza alimentare: è uno dei paesi africani in cui la fame è a livelli allarmanti, insieme a Repubblica democratica del Congo, Centrafrica, Madagascar e ai paesi del Corno d’Africa. Per non parlare del Sudan, che lo scorso 15 aprile è sprofondato nuovamente nel conflitto civile, con inevitabili ripercussioni anche al di qua della frontiera ciadiana, dove, dopo un mese di guerra, si erano già riversati oltre 60mila profughi che sono andati ad aggiungersi a quelli fuggiti negli anni scorsi dal conflitto in Darfur.

Anche il Ciad, tuttavia, si regge su un equilibrio molto delicato e instabile. L’uccisione del presidente Idriss Déby, il 20 aprile 2021 – ufficialmente mentre guidava un’offensiva contro i ribelli del Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad (Fact) – ha aperto una nuova fase politica, tanto opaca quanto quella che lo aveva visto protagonista (indiscusso e controverso) per ben trent’anni. Le redini del potere sono state immediatamente trasferite – per «successione dinastica», secondo gli oppositori – al figlio Mahamat Deby Itno, nominato a capo del Consiglio militare di transizione (Cmt), che avrebbe dovuto portare, nel giro di 18 mesi, alle elezioni e a un governo civile. Per farlo, è stata creata una piattaforma di dialogo nazionale che si è tenuta da agosto a ottobre 2022 con risultati piuttosto deludenti e inconcludenti, e con l’unica certezza che la transizione sarebbe stata prolungata di altri 24 mesi, guidata sempre da Déby junior.

Anche la Chiesa cattolica, che era stata associata al dialogo, ha deciso di sospendere la sua partecipazione, nel settembre dello scorso anno, ritenendo che mancasse una reale volontà di ascolto reciproco e di inclusività. Per la Chiesa, «il dialogo, che è al tempo stesso politico e sociale, deve mettere insieme gli attori politici e quelli della società civile, molti dei quali sono stati esclusi». Ovvero, gran parte dell’opposizione, diverse espressioni del tessuto sociale e alcuni gruppi armati.

Proteste popolari

Il senso di frustrazione, soprattutto di molti giovani, è sfociato nell’ottobre del 2022 in numerose manifestazioni e proteste sia nella capitale N’Djamena che in altre città del Paese.

Un movimento popolare brutalmente represso dalle forze di sicurezza, che hanno provocato una cinquantina di morti e più di trecento feriti.

Nel frattempo circa 400 ribelli sono stati condannati, lo scorso marzo, al carcere a vita per l’uccisione di Idris Déby, dopo un processo nella prigione di Klessoum, vicino alla capitale, durato circa un mese e a porte chiuse. L’accusa parla di «atti di terrorismo, arruolamento di bambini e attentato alla vita del capo dello Stato», ma la condanna assomiglia molto a un regolamento di conti specialmente con il Fact, uno dei gruppi più attivi e minacciosi presenti nel nord del Paese, dove è implicato anche nello sfruttamento delle miniere d’oro.

La capitale e l’interno

Oggi la situazione è apparentemente calma. E non è solo il caldo soffocante, con le temperature che si aggirano attorno ai cinquanta gradi, che azzerano ogni tipo di iniziativa, facendo sembrare città e villaggi, nelle ore centrali della giornata, dei luoghi fantasma. La capitale N’Djamena è costantemente «blindata» dalle forze di sicurezza ciadiane.

A scoraggiare possibili attacchi e incursioni è anche la presenza di considerevoli contingenti stranieri, in primis, quello francese che, «cacciato» dal resto del Sahel, ha consolidato in Ciad un’importante presenza militare per controllare – dal cuore dell’Africa e al crocevia tra mondo arabo musulmano e regione subsahariana – anche quello che succede tutt’intorno.

Fuori da N’Djamena, però, il Paese sembra abbandonato a se stesso. Strutture e infrastrutture sono quasi inesistenti o ridotte in uno stato pietoso, comprese le due strade principali, quella che costeggia il fiume Logone al confine con il Camerun e che scende verso sud, e quella che taglia il Paese da ovest a est: due assi viari strategici che, per lunghi tratti, sono impraticabili a causa delle enormi buche che obbligano a percorrere piste sabbiose ai lati.

Per non parlare dei sistemi educativo e sanitario. Nel Paese, solo un quarto della popolazione è scolarizzato e appena il 14% delle donne. Gli unici ospedali degni di questo nome sono nella capitale, mentre nella maggior parte dei dispensari c’è a malapena personale infermieristico. Più del 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
E i prezzi di cibo, carburante, beni di prima necessità continuano a crescere, anche in conseguenza della guerra in Ucraina.

Il Paese è sull’orlo del fallimento a causa del debito estero e si piazza al penultimo posto (seguito solo dal Sud Sudan) nell’indice dello sviluppo umano dell’Undp. Quanto a vulnerabilità climatica – ovvero alla capacità di resistere e di reagire all’impatto del clima – è il peggiore al mondo.

Equilibri precari

Ad aggravare la situazione contribuiscono anche le molte fratture interne e le tante situazioni potenzialmente esplosive. Sono, infatti, presenti – e a volte si intrecciano – diversi livelli di conflitto. Fino dagli anni Novanta, il Nord del Paese è stato interessato da varie ondate di ribellioni da parte di gruppi che spesso mantengono basi logistiche in Libia. A partire dalla 2015, sono stati soprattutto i terroristi nigeriani di Boko Haram a rendersi responsabili di attacchi, violenze, saccheggi e rapimenti in tutto il bacino del Lago Ciad, coinvolgendo anche il sud est del Niger, l’estremo nord del Camerun e, appunto, il nord ovest del Ciad, fino ad arrivare a colpire, a metà del 2015, persino la capitale N’Djamena. Alla fine del 2019, invece, sono state le regioni del Sila e dell’Ouaddai al confine con il Sudan e quella del Tibesti alla frontiera con il Niger a essere interessate da scontri tra gruppi etnici rivali. Ancora oggi la presenza di formazioni terroristiche islamiste rappresenta una sciagura per la popolazione e mette a dura prova l’esercito che è attivamente impegnato anche nella lotta antiterrorismo nell’ambito del G5 Sahel (coalizione regionale di lotta al terrorismo, composto da Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, ndr).

Ma un altro livello di scontro, sempre più diffuso e preoccupante, è quello tra pastori e agricoltori in diverse regioni del Paese, esacerbato dai cambiamenti climatici che rendono sempre più difficile l’accesso all’acqua e ai pascoli. Le violenze intercomunitarie stanno provocando moltissimi morti, feriti e sfollati.

La voce dei vescovi

Una situazione sempre più drammatica, su cui sono intervenuti recentemente anche i vescovi ciadiani che hanno chiesto di non strumentalizzare le rivalità etniche e soprattutto religiose per mettere le comunità una contro l’altra. È un tema estremamente delicato e critico, anche perché in Ciad – come in tutto il Sahel – le popolazioni nomadi dedite alla pastorizia sono generalmente musulmane, mentre gli agricoltori sono cristiani o seguaci delle religioni tradizionali. Secondo molti, tuttavia, compreso il vescovo Martin Waïngué Bani di Doba, nel sud del Paese, non è solo una questione di cambiamenti climatici e di strumentalizzazioni politiche: «C’è stato – dice – un cambiamento nel modo di praticare l’allevamento. Tradizionalmente, le popolazioni vi si dedicavano per la loro sopravvivenza. Ma oggi parliamo di nuovi pastori, a cui facoltosi impiegati statali e ufficiali dell’esercito affidano il loro bestiame». Si tratta di migliaia di vacche e di cammelli che, ancora oggi, non rappresentano solo – o non tanto – una fonte di nutrimento, ma sono simbolo di patrimonio e prestigio, un bene in cui investono uomini di potere e alti quadri dell’esercito. Sono proprio loro a fornire le armi ai pastori, i quali si sentono così «autorizzati» a invadere e devastare impunemente i campi degli agricoltori, che, a loro volta, tendono a farsi giustizia da sé.

Le notizie di scontri sono quotidiane in diverse regioni del Paese, nelle quali le spirali di vendette e ritorsioni provocano spesso più morti dei gruppi jihadisti.

Secondo il vescovo di Doba, questi conflitti intercomunitari vengono presentati come religiosi, ma è solo un modo per non affrontare il problema alla radice. A fine aprile, la questione è stata esaminata anche dal primo ministro Saleh Kebzabo, che ha convocato una riunione interministeriale in seguito alla quale il ministro dell’Amministrazione territoriale è stato incaricato di creare un comitato con lo scopo di organizzare degli incontri «per arginare tali ricorrenti conflitti».

Lo scorso 18 maggio, in seguito all’ennesimo massacro nella provincia del Logone orientale, nel sud del Paese, anche l’Unione dei movimenti e delle associazioni dei laici della Chiesa cattolica (Umalect) ha diffuso un comunicato per chiedere «l’immediata cessazione dei massacri e una migliore sicurezza per le popolazioni in tutto il territorio».

Infine, si combatte anche per il controllo delle risorse, soprattutto oro e uranio nel Nord del Paese, tra diversi gruppi armati che si contendono il controllo della regione, tra cui il Fact. E si combatte per il potere tra vari clan dell’etnia zagahwa, quella a cui appartiene la famiglia Déby, che non manca di profonde divisioni al suo interno. Il tutto avviene in un contesto di diffusa corruzione, scarsa libertà di stampa e scarso ricambio politico, violazione dei diritti umani e un sistema giudiziario precario.

Migrazione disperazione

In una situazione segnata da così tante criticità e spesso da violenze, le popolazioni del Ciad si dibattono tra mille difficoltà con il poco, anzi pochissimo, che hanno. La povertà è talmente diffusa e spesso estrema che si fatica a capire come le famiglie riescano a sopravvivere. Molti giovani non vedono altra alternativa che recarsi nel vicino Camerun, dove vengono sfruttati per i lavori più umili, faticosi e pericolosi. Le donne, costrette esse stesse a lavori pesanti oltre che alla cura dei figli e della casa, percorrono ogni giorno molti chilometri per trovare un po’ d’acqua, magari scavando nell’alveo disseccato di piccoli ruscelli. Tutti mostrano un’incredibile capacità di resistenza e resilienza. E sono straordinariamente aperti all’accoglienza: nonostante le difficoltà e le miserie, l’ospite è sempre sacro, sia che si tratti del viaggiatore di passaggio che dei profughi in fuga dai Paesi limitrofi, in particolare, in queste ultime settimane, quelli provenienti dal Sudan.

Anna Pozzi


Oltre un milione i profughi di altri paesi in Ciad

In arrivo gente in fuga dal Sudan

Il Ciad è un paese di 18,5 milioni di abitanti, tra i più poveri al mondo. Fra le molte sfide che deve affrontare c’è anche quella di una presenza molto significativa di sfollati e profughi. I primi fuggono soprattutto dai conflitti interni o sono costretti a lasciare le loro case e villaggi a causa delle ricorrenti e devastanti inondazioni. Quanto ai profughi, provengono dai Paesi vicini, essi stessi interessati da situazioni di conflitto o instabilità. Secondo l’Alto commissariato Onu per i profughi (Unhcr), già prima della crisi in Sudan, scoppiata lo scorso 15 aprile, erano più di un milione, tra cui 580mila rifugiati provenienti soprattutto dalla Repubblica Centrafricana e dal Camerun, oltre che dalla precedente guerra in Darfur.

Lo scoppio di nuove ostilità nel vicino Sudan tra l’esercito governativo e i paramilitari delle Rapid Support Forces (Rsf), ha provocato un nuovo massiccio spostamento di popolazione dentro e fuori il Paese. Nel giro di poche settimane centinaia di migliaia di persone si sono riversate in Egitto, Repubblica Centrafricana e Ciad. In quest’ultimo, sono oltre 60mila quelle che hanno passato il confine dopo il primo mese di conflitto. Secondo l’Unhcr, «quasi il 90 per cento è composto da minori e donne, tra queste molte di loro sono incinte. Un quinto dei bambini tra i 6 e i 9 mesi sottoposti a screening è risultato gravemente malnutrito».

Anche fratel Fabio Mussi, missionario del Pime in Ciad e responsabile dei progetti sociali del vicariato di Mongo, che si è recato sul posto, testimonia di una situazione disperata: «Le persone sono accampate in campi di fortuna sotto misere tende in attesa degli aiuti umanitari. Aiuti che faticano ad arrivare perché si tratta di zone remote che diventano inaccessibili non appena inizia la stagione delle piogge».

Fratel Mussi si è già attivato insieme alla Caritas di Mongo per far arrivare cibo e beni di prima necessità e ha inviato due camion per realizzare dei pozzi e garantire acqua potabile prima che le piogge rendano le strade impraticabili.

Anna Pozzi

 

Il Ciad in cifre

  • Superficie: 1.284.00 km2 (4,3 volte l’Italia)
  • Popolazione: 18,5 milioni (2022)
  • Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 190/191 (2021)
  • Pil procapite annuo [PPP$]: 1.364.
    (PPP$: dollari in parità di potere d’acquisto, tiene conto dei livelli dei prezzi nel paese).

 

 




MCO. Il bilancio sociale, per conoscersi meglio


Lo scorso mese Missioni Consolata Onlus ha pubblicato il bilancio sociale 2022. Anche quest’anno, redigerlo è stata un’occasione per conoscere e far conoscere meglio il nostro lavoro, per migliorare la comunicazione interna e per soffermarsi su alcuni progetti significativi.

Il 2022 è stato un anno positivo per Missioni Consolata Onlus, che ha registrato un aumento di donazioni ricevute intorno al 6%. Lo si può leggere nel bilancio sociale 2022, pubblicato sul sito di Mco a fine giugno.

Scuola e sanità prima di tutto

La distribuzione delle donazioni per ambito di intervento ricalca abbastanza quella dei due anni precedenti, con le iniziative per sanità e istruzione a rappresentare da sole quasi il 40% del totale. Caratterizzata dal lavoro
dei quattro grandi ospedali (Ikonda e Makiungu in Tanzania, Wamba in Kenya e Neisu in Rd Congo) e dei due centri di salute (Dianra e Marandallah in Costa d’Avorio) in Africa, la sanità ha ricevuto 854mila euro (22,7% del totale), mentre l’istruzione – dall’asilo all’università – ha ottenuto quasi 657mila euro (17,5%).

Intorno al 3% si collocano poi le attività con i popoli indigeni, gli interventi che mirano a creare sviluppo economico e le iniziative che garantiscono alle comunità locali l’accesso a fonti d’acqua pulita e affidabile.

Questi tre ambiti hanno raccolto rispettivamente 124mila, 118mila e 117mila euro, mentre la formazione professionale, cioè quelle attività formative che forniscono competenze a persone che si trovano ormai al di fuori di un percorso scolastico – corsi di sartoria, informatica di base, gastronomia, e simili – hanno ottenuto 28mila euro, lo 0,8%.

Emergenze quotidiane

Una voce consistente è certamente quella che raggruppa ambiti non riconducibili a quelli già menzionati e che ha ottenuto un sostegno complessivo di 534mila euro, il 15% del totale.

All’interno di questa voce, il 2022 ha visto un robusto sostegno alle attività a carattere religioso, fra cui la costruzione o ristrutturazione di chiese, la copertura dei costi di formazione dei nuovi missionari nei seminari, la fondazione di una nuova missione, la formazione permanente dei missionari di ogni età. La maggiore novità del 2022 all’interno di questo gruppo di ambiti è invece la realizzazione di interventi di emergenza in sostegno ai rifugiati ucraini, prima solo in Polonia poi anche in Ucraina.

Le spese di amministrazione e funzionamento  della Onlus sono state pari al 12,5% del totale (469mila euro)

Il sostegno generico è stato di 314mila euro, l’8,4%. Si tratta, in quest’ultima voce, di un tipo di aiuto che è difficile ricondurre alla logica dei progetti o, comunque, degli interventi strutturati e organizzati, perché sostiene quella parte del lavoro dei missionari che consiste nell’assistenza immediata a persone che affrontano una difficoltà improvvisa e temporanea: un (o, più spesso, una) capofamiglia che perde il lavoro, un malato che non può pagare le cure mediche e tantomeno i farmaci necessari, un contadino o un pastore che ha perso tutto a causa della siccità o di razziatori. Piccole e grandi emergenze quotidiane che le persone affrontano anche bussando alla porta della missione per chiedere aiuto e, quasi sempre, cercando di ricambiare appena è loro possibile.

Congo, progetti salute

Ospedale di Neysu, Congo RD (AfMC)

La Repubblica democratica del Congo è, fra i Paesi di missione, il secondo per offerte ricevute: quasi 532mila euro, dopo i 955mila della Tanzania. È anche il paese in cui si sono svolti tre dei sei progetti in evidenza, interventi significativi che nel bilancio sociale illustrano ciascun ambito di intervento.

Il progetto dell’ambito salute è in realtà un insieme di interventi che si sono svolti all’ospedale di Neisu, nella provincia dell’Alto Uélé, Congo orientale. Hanno interessato la cardiologia, la maternità e l’ortopedia, oltre al trasporto di operatori e pazienti.

«La cardiologia è completa», confermava a maggio da Neisu il responsabile dell’ospedale, Ivo Lazzaroni, laico missionario della Consolata. «Facciamo una trentina di elettrocardiogrammi al mese mentre gli esami eco-doppler per ora sono meno e quasi solo per pazienti che vengono da Isiro», il capoluogo, 70 chilometri più a ovest: «Il costo dell’esame, 25mila franchi congolesi (circa 12 euro), dissuade tante persone dei villaggi qui in foresta».

Ma la sensibilizzazione dei pazienti sul ruolo della prevenzione nelle malattie del sistema cardiovascolare, che la dottoressa e le due infermiere formate a Kinshasa affiancano al lavoro di diagnosi e cura, sta iniziando a dare frutti: «Qui si usa tanto olio di palma e sale, per cui le ipertensioni sono frequenti. Le persone, però, stanno iniziando a capire: lo vediamo anche dal fatto che sempre più spesso decidono di comprare i farmaci per le malattie cardiovascolari che vengono loro prescritti, anche se hanno un costo elevato per il livello di reddito locale».

La maternità ha poi ricevuto una seconda incubatrice, «perché la precedente non funzionava più e non è stato possibile ripararla. È una grazia di Dio: ci sono dei bambini nati prematuri o sottopeso che ne hanno davvero bisogno». Ivo sta attivandosi per procurarne un’altra, perché quella attuale deve a volte ospitare più di un bambino.

Infine, la formazione in chirurgia ortopedica e traumatologia, che un medico e un infermiere dell’ospedale stanno seguendo a Kinshasa, permetterà di trattare con più efficacia i pazienti con fratture. «Molti di loro», dice Ivo, «se le procurano cadendo dalle palme, dove salgono a raccogliere i frutti per produrre l’olio. Se si rompe un ramo, o si incontra un serpente, si possono fare cadute disastrose. Se riescono a sopravvivere, i pazienti si trovano con fratture scomposte che non solo devono essere operate, ma richiedono mesi di fisioterapia». Il costo totale di questi interventi, che include anche l’acquisto di sei piccole moto per il personale sanitario dei centri periferici e per il trasporto dei pazienti, è stato di circa 44mila euro.

Baayanga, bambini pigmei a scuola (AfMC/Flavio Pante)

Scuola a Bayenga, mattonelle a Kinshasa

Sempre in Congo, padre Flavio Pante sta avviando la costruzione di una scuola a Bayenga, 140 chilometri circa a sud est di Isiro. Qui i Missionari della Consolata lavorano dagli anni Novanta con i Pigmei bambuti, per favorirne il dialogo, storicamente difficile, con la popolazione di etnia bantu e accompagnarne il percorso di ricerca di un modo di vita che rispetti la loro cultura e il loro legame con la foresta ma, allo stesso tempo, non li escluda dalla partecipazione alla vita della società congolese, fatta più di sedentarietà e di agricoltura che di nomadismo e caccia.

«Non sono uno da grandi progetti», scherzava in una lettera padre Flavio lo scorso maggio, «vado avanti con quello che ho, secondo la realtà del posto e i suoi tempi». Con l’aiuto di familiari, donatori privati, enti ecclesiali e organizzazioni amiche, padre Pante ha raccolto 9mila euro con cui costruirà nove classi che possono contenere fino a 80 allievi l’una, «limite posto dal regolamento scolastico del Congo. Ora più della metà del totale degli allievi è ospitato in un’altra scuola con orari a turni, ma stanno stretti e vivono diversi disagi». Le aule saranno in legno con tetti di lamiera e pareti in fango, rivestite di cemento per riparare le classi da vento e pioggia. «Sempre se il cemento sarà accessibile», precisa padre Flavio: perché «la situazione del Kivu», dove sono in corso violenti scontri fra l’esercito congolese e i ribelli del gruppo M23@, «porta per noi grosse difficoltà negli approvvigionamenti e un grande aumento nei prezzi».

A Kinshasa, nel quartiere di Mont Ngafula, padre César Balayulu ha infine realizzato con 2mila euro un microprogetto di recupero delle bottiglie di plastica, che vengono sciolte per produrre mattonelle da pavimentazione. «L’idea mi è venuta guardando un’iniziativa simile portata avanti dai gesuiti non lontano dalla nostra missione», spiegava a maggio padre César. «Vista la quantità enorme di bottiglie disperse nell’ambiente a Kinshasa, ho deciso di coinvolgere trenta persone fra giovani e donne della zona e cominciare». Questo potrebbe essere un progetto pilota, da ampliare almeno con l’acquisto di un apposito forno elettrico chiuso, per ridurre al minimo le esalazioni derivanti dallo scioglimento della plastica, spiega César. «I risultati sono incoraggianti: i torrenti d’acqua che si formavano nella zona intorno alla parrocchia con le violente piogge tropicali, prima scavavano il terreno. Da quando abbiamo messo il pavé fatto con la plastica delle bottiglie, l’erosione si è molto ridotta». Non solo, aggiungeva padre David Bambilikpinga Moke, superiore regionale del Congo: «Non trovando più le bottiglie a ostruire canali e fossi, durante le piogge, l’acqua defluisce più facilmente verso il fiume».

Distribuzione di cibo donato dai Missionari della Consolata in Polonia ai Frati Francescani Albertini di Zaporizia (AfMC/Luca Bovio)

La Polonia e l’emergenza Ucraina

Sin dai primi giorni di marzo 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina e la fuga di milioni di persone nei paesi limitrofi, i Missionari della Consolata in Polonia hanno cominciato a organizzare l’accoglienza per i profughi, in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita in Łomianki vicino a Varsavia e la Caritas. Nei mesi successivi sono poi cominciate anche le missioni per portare aiuti in territorio ucraino. Padre Luca Bovio, missionario della Consolata in Polonia, ha partecipato a queste missioni insieme a don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la Conferenza episcopale polacca: grazie anche ai 51mila euro raccolti da Mco, padre Luca, don Leszek e le tante persone che hanno collaborato con loro, sono riusciti a portare cibo, prodotti per l’igiene, generatori nelle città di Kijew, Charnichow, Karkiw, Dniepr, Zaporiza, Kherson, Mikolaj, Odessa, Leopoli@.

A maggio scorso padre Luca Bovio, confermava il persistere della situazione di emergenza, specialmente nelle zone prossime al fronte. «Non ci sono più spostamenti di persone verso la Polonia, ma continuano quelli interni all’Ucraina, anche perché il governo invita le persone che vivono vicine alle zone di scontri a spostarsi». Non tutti, però, raccolgono l’invito, perché non se la sentono di lasciare i luoghi dove sono nati e cresciuti, ma anche perché la primavera è tempo della semina, e mancarla significa trovarsi senza provviste il prossimo inverno. «Così, in occasione di un viaggio nei pressi del fronte mi è capitato di assistere a scene quasi surreali, con i missili russi che cadevano a 500 metri da me mentre, a due chilometri nella direzione opposta, un contadino arava la terra sul suo trattore». Non ci sono lati positivi nella guerra, conclude padre Luca, ma la solidarietà che è emersa in questi mesi con la mobilitazione di così tante persone fra Polonia, Italia, Usa, Canada, aiuta tanto e dà speranza.

Bambini a colazione nel Baixo Cotingo ( AfMC/foto Francesco Bruno)

Acqua e popoli indigeni

Fra i progetti per garantire alle comunità l’accesso all’acqua c’è lo scavo di un pozzo artesiano che si sta svolgendo a Baixo Cotingo, nella Terra indigena Raposa Serra do Sol (stato di Roraima, Brasile), dove la siccità degli ultimi anni priva la comunità di Camará dell’acqua durante l’estate, mentre d’inverno il sistema di canali che porta l’acqua a valle dalle montagne vicine è spesso bloccato da foglie e detriti.

«Il pozzo artesiano è già stato perforato a una profondità di 64 metri», scriveva a maggio padre Jean-Claude Bafutanga, missionario della Consolata, «e ha fornito acqua sufficiente per l’intera comunità indigena di Camará, che ora può bere e utilizzare acqua pulita e potabile, non contaminata dal mercurio usato nell’estrazione mineraria illegale ancora in corso nella zona»@.

Il lavoro con i popoli indigeni del Venezuela, infine, continua ad accompagnare i Warao nell’affrontare le tante difficoltà legate alla più generale situazione del Paese@ e alla particolare condizione di emarginazione delle comunità indigene (cfr. articolo pag 10).

«Lo Stato venezuelano ha praticamente abbandonato le scuole delle comunità che vivono nella zona del reticolo di canali e corsi d’acqua minori (caños) del fiume Orinoco», scriveva lo scorso aprile padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata nella missione di Nabasanuka e responsabile del progetto. Andare a scuola in queste zone è già peraltro molto complicato: «A causa delle grandi distanze, che devono essere coperte in curiara (canoa), insegnanti e bambini sono spesso assenti dalle lezioni».

A questo si aggiungono le difficoltà economiche di molte famiglie, costrette a rivolgersi alla missione per avere vestiti usati; e la mancanza di igiene combinata con l’assenza di strutture sanitarie adeguate e farmaci in grado di contrastare la diffusione di malattie come amebiasi e altri parassiti intestinali, infezioni della pelle, delle vie respiratorie, delle vie urinarie, micosi.

Il progetto Dignità per il popolo warao, si concentra su tre linee strategiche: alfabetizzazione, attività generatrici di reddito e salute. Finanziato da donatori privati con 5mila euro nel 2022, cerca di sopperire alle mancanze del sistema educativo con la distribuzione di materiale scolastico e la trasmissione del sapere tradizionale dagli anziani ai bambini. Fornisce inoltre formazione a 80 donne in tecniche sartoriali e sensibilizzazione su temi igienico sanitari per promuovere la prevenzione e la conoscenza delle piante officinali.

Chiara Giovetti

 




Scuola, ancora un sogno per troppi bambini


L’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 4 non sarà raggiunto entro il 2030. Questa è la conclusione a cui si giunge consultando i più recenti dati Unesco. La pandemia ha rallentato l’impegno per assicurare la scuola a tutti, ma di fatto il calo era già in atto.

Secondo le più recenti stime delle Nazioni Unite@, sono 244 milioni i bambini e ragazzi di età compresa fra i 6 e i 18 anni che non vanno a scuola. Il numero più alto di questi, circa 98 milioni, è in Africa subsahariana, mentre altri 85 milioni vivono in Asia centrale e meridionale. I quattro Paesi con i dati più negativi sono Pakistan e Nigeria, ciascuno con circa 20 milioni di bambini e adolescenti non scolarizzati, seguiti dall’Etiopia, con 10,5 milioni, e dalla Repubblica democratica del Congo, con 6 milioni.

Rispetto ai cicli di studi, la mancata scolarizzazione interessa 67 milioni di bambini della primaria (di età fra i 6 e gli 11 anni), 56 milioni della secondaria di primo grado (12-14 anni) e 121 milioni della secondaria di secondo grado (15-17 anni).

La prima scuola operata dai missionari della Consolata a Tuthu, Kenya, nel 1902 (AfMC/Filippo Perlo).

La situazione è senza dubbio migliorata rispetto all’inizio del millennio, quando i bambini che non andavano a scuola erano oltre 400 milioni, ma gli studi più recenti dell’Unesco@ rilevano che, di questo passo, nel 2030 ci saranno ancora 84 milioni di bambini e ragazzi non scolarizzati, il 5% del totale. Lo studio, che si basa sui dati forniti dagli Stati e sugli indici di riferimento che essi si sono dati in modo volontario per misurare il loro avvicinamento agli obiettivi, riporta anche che meno di due bambini su tre finiranno la primaria e raggiungeranno il livello minimo di competenze nella lettura: in altre parole, 300 milioni di bambini non sapranno leggere come dovrebbero alla fine del ciclo primario di studi. Secondo questi dati, è chiaro che l’umanità mancherà il quarto obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che mirava a «garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti».

Covid, collasso nascosto ma enorme

La pandemia da Covid-19 ha avuto un ruolo sia nel rallentare i progressi sia nell’impedire la raccolta dei dati per monitorarli. Secondo un rapporto della Banca mondiale di febbraio scorso@, nei paesi a basso e medio reddito, 1,3 miliardi di bambini hanno perso almeno sei mesi di scuola, 960 milioni hanno saltato almeno un anno intero e 711 milioni un anno e mezzo o più.

Le scuole sono state chiuse più a lungo in America Latina, nei Caraibi e in Asia meridionale, ma ci sono state notevoli variazioni nella durata della chiusura da un Paese all’altro all’interno della stessa subregione. Ad esempio, tra aprile 2020 e marzo 2022 le scuole sono state chiuse per 61 giorni in Tanzania, ma per 448 giorni in Uganda; per 107 giorni in Marocco, ma 326 giorni in Arabia Saudita; e 47 giorni in Vietnam, ma 510 giorni nelle Filippine.

Una volta entrata in vigore la chiusura delle scuole, quasi tutti i sistemi educativi sono passati alla didattica a distanza; ma, a livello globale, più di due terzi dei bambini di età compresa tra 3 e 17 anni (1,3 miliardi di persone) non hanno internet a casa.

Effetti da valutare

Arvaiheer, Mongolia (AfMC)

L’impatto sull’istruzione del Covid-19 e delle restrizioni collegate richiederà ancora anni per essere completamente valutato; tuttavia, avverte la Banca mondiale nel rapporto, alcuni danni sono già evidenti. Oltre a riportare 70 milioni di persone sotto la soglia della povertà, la pandemia ha determinato un collasso tanto nascosto quanto enorme nel capitale umano delle persone più giovani, colpendole in un momento cruciale del loro sviluppo. Milioni di bambini non hanno ricevuto adeguata assistenza sanitaria, ad esempio mancando gli appuntamenti per le vaccinazioni più importanti.

Hanno poi dovuto affrontare maggiore stress negli ambienti e contesti che sarebbero deputati alla loro cura, subendo a volte anche abusi domestici e vedendo peggiorare la loro nutrizione. Tutto questo ha comportato una diminuzione nel rendimento scolastico e un rallentamento dello sviluppo sociale ed emotivo: un mese di chiusura si è tradotto in un mese di conoscenze perdute, in alcuni casi anche di più, come è successo nel Bangladesh, dove 14 mesi e mezzo di chiusure si sono tradotti in 26 mesi di apprendimento perso.

Per dare una misura concreta di questi dati, il rapporto cita l’esempio di una bambina di 10 anni che all’inizio della pandemia sapeva fare somme e sottrazioni e avrebbe poi dovuto imparare moltiplicazioni e divisioni. A causa dei mesi di scuola persi, non solo non ha imparato queste nuove abilità, ma ha anche dimenticato come si somma e sottrae.

È difficile prevedere come questa mancata formazione, se non recuperata, si ripercuoterà sulle vite dei bambini; tuttavia, basandosi sull’analisi degli effetti di precedenti eventi catastrofici, la Banca mondiale stima che i ritardi nell’apprendimento, una volta che questi bambini entreranno nel mercato del lavoro, potrebbero tradursi per loro in redditi fino a un quarto più bassi di quanto sarebbero stati in assenza della pandemia.

Scuola per bambini yanomami al Catrimani, Roraima (AfMC/foto C. Giovetti)

Non solo pandemia

Eppure, dicono ancora le stime dell’Unesco@, i progressi verso l’obiettivo 4 erano già rallentati prima della pandemia, e questo soprattutto riguardo agli adolescenti. Utilizzando un modello che combina i dati amministrativi forniti dagli Stati con indagini a campione presso i nuclei familiari, l’agenzia Onu conclude che la riduzione dell’abbandono scolastico fra i ragazzi della scuola secondaria inferiore (più o meno le medie italiane) è stata del 9% nel primo decennio di questo secolo e solo del 2% dal 2010 al 2020.

L’Africa subsahariana non è solo la regione con il più alto numero di bambini non scolarizzati, ma anche l’unica regione in cui questo dato è in crescita. Dal 2009 la quota di bambini che non fre­quenta la scuola è aumentata di 20 milioni, raggiungendo i 98 mi­lioni nel 2021, e sfiora i 100 mi­lioni nelle proiezioni per il 2023.

La disparità di genere è quasi scomparsa a livello globale e, anzi, rispetto al dato della mancata scolarizzazione ora le proporzioni sono invertite: 125 milioni di bambini non vanno a scuola, a fronte di 118 milioni di bambine.

Ma gli ostacoli verso il raggiungimento dell’obiettivo di sviluppo sostenibile sull’istruzione continuano a essere molti, ad esempio i disastri legati al clima, che nel 2021 hanno causato 23,7 milioni di sfollati. Gli studi sull’accesso all’istruzione per gli sfollati a causa del clima, lamenta l’Unesco, sono ancora molto pochi e rendono queste persone una categoria invisibile@, nonostante affrontino difficoltà molto simili a quelle dei rifugiati.

Lo scorso aprile, per i paesi a basso e medio reddito, il deficit di finanziamento per raggiungere l’obiettivo 4 era di poco meno di 100 miliardi di dollari. Anche ipotizzando che i Paesi donatori onorassero la promessa di destinare all’aiuto allo sviluppo lo 0,7% del Pil e dessero priorità agli interventi nell’ambito dell’istruzione, due terzi di questo deficit resterebbero comunque scoperti. Per questo, ha precisato la vicedirettrice dell’Unesco, Stefania Giannini, è necessario lavorare con le realtà fiscali dei vari Paesi@.

Chiara Giovetti


Come cooperavamo

Mgololo, giugno 1973

Mgololo si trova nella Tanzania centromeridionale, quasi al confine fra le regioni di Iringa e Morogoro, e nel giugno del 1973 era una delle ventotto missioni della diocesi di Iringa. Ci lavorava padre Francesco Cravero, nato nel 1923 a Cavallermaggiore, Cuneo, e fondatore nel 1968 della missione di Mgololo. La scuola, come dice l’«Appello dal fronte»@ qui sopra, era una sua idea fissa. «Le lavagnette e i gessetti sono giunti sin qui prima del mio arrivo», scriveva nell’articolo che accompagnava l’appello, ed erano anche «nate alcune scuolette: un capannone, o il più delle volte un albero frondoso sotto il quale si teneva la lezione. Il maestro era un giovanotto munito di licenza elementare». Con il tempo, le scuole cappelle e altre strutture di fortuna si erano moltiplicate e, constatava il missionario, occorreva «fare un passo avanti».

Al momento dell’appello, padre Cravero aveva già messo in piedi due aule scolastiche grazie alla collaborazione di un gruppo di Torino e l’attività didattica si svolgeva da quattro anni. Ma lo spazio era insufficiente: occorrevano al più presto altre aule, per evitare che i ragazzi della quarta elementare fossero costretti ad abbandonare gli studi. Per l’ampliamento, scriveva il missionario, «è sufficiente presentare un piccolo progetto, assicurare la decisa volontà di cooperazione da parte della popolazione e il governo darà il suo benestare, inviando sul posto un maestro diplomato».

La popolazione avrebbe collaborato procurando le travi per il tetto e la legna per la cottura dei mattoni, mentre ai suoi benefattori il missionario chiedeva tre milioni di lire per costruire tre aule e una casa per gli insegnanti.

«Nel Tanzania di oggi», scriveva, «l’indirizzo programmatico dell’Ujamaa, che vuole fondare la vita del villaggio […] sulla corresponsabilità fattiva di tutti i membri, non può non concordare con il missionario che, mediante la scuola, si fa promotore del progresso comunitario. La scuola non sarà del missionario, come avveniva nel passato, ma del villaggio, ed i primi responsabili saranno i genitori degli allievi e tutta la comunità».

La scuola di Makungu a Mgololo, riporta padre Erasto Mgalama dalla Tanzania, fu poi ceduta dai missionari della Consolata al governo tanzaniano ed esiste ancora. È ora in costruzione un altro edificio, che sorge dove prima c’era quello eretto da padre Cravero, che era in cattive condizioni e purtroppo non è stato possibile ristrutturare per conservare la memoria storica: si è preferito demolirlo e costruirne uno nuovo. La scuola ha 569 studenti, che agli esami risultano sempre fra i migliori della zona.

Chi.Gio.

Mgololo 2023


20 giugno: Giornata mondiale dei rifugiati

Dei 20,7 milioni di rifugiati seguiti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), 7,9 milioni sono bambini in età scolare. Di questi, quasi la metà non va a scuola.

Due terzi dei rifugiati vengono da cinque Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. Oltre otto rifugiati su dieci sono ospitati da Paesi a basso e medio reddito, e in tre casi su quattro si tratta di Paesi confinanti con quello dai quali i rifugiati sono fuggiti.

Al 25 aprile 2023 il numero stimato di singoli rifugiati che sono fuggiti dall’Ucraina dal 24 febbraio 2022 ed erano presenti nei Paesi europei, era pari a poco meno di 8,2 milioni.

Considerando anche i 53,2 milioni di sfollati interni nel mondo, i 4,6 milioni di richiedenti asilo (cioè coloro che stanno aspettando una risposta alla loro richiesta di essere riconosciuti come rifugiati) e i 4,4 milioni di sfollati venezuelani, il totale delle persone che hanno dovuto lasciare le loro case superava alla fine del 2021 gli 89 milioni. Le cause dell’allontanamento sono persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico@. Questo 20 giugno sarà la 22a giornata mondiale dei rifugiati, che fu celebrata per la prima volta nel 2001, anno del 50o anniversario della Convenzione sullo statuto dei rifugiati, o Convenzione di Ginevra del 1951@.

Chi.Gio.

Il mondo visto dala scuola di Iguachanya, Tanzania (AfMC)




Sommario rivista di Giugno 2023

La rivista di giugno è online dal 12 giugno


Editoriale

Fare bene il bene (facendo informazione)

È per me un grande onore, ma anche una grande responsabilità, assumere il ruolo di direttore editoriale della rivista Missioni Consolata. Una pubblicazione che ha 125 anni di vita e ha avuto 12 direttori a cominciare dal canonico Giacomo Camisassa. Se, da un lato, il beato Allamano diceva ai suoi missionari «Fate bene il bene, senza fare rumore», ovvero fatelo, ma senza vantarvi o farvi pubblicità, dall’altro, fin da subito, aveva intuito l’importanza della comunicazione e dell’informazione, fondando la rivista «La Consolata», già nel 1899. Questa, da periodico che raccontava le attività del santuario di Torino, è diventata il mezzo per far conoscere le missioni, non appena i primi quattro missionari sono partiti nel maggio del 1902. […]

Personalmente, mi prefiggo di continuare nel solco dei 12 direttori che mi hanno preceduto e, allo stesso tempo, di aprire lo sguardo a mezzi di comunicazione diversificati, per assicurare che le storie e il messaggio di MC viaggino sempre più lontano e raggiungano più persone possibile. In un cambiamento di epoca, anche una pubblicazione come la nostra deve attrezzarsi.

Dossier

La grande Avventura. 110 anni di storia della Consolata in Etiopia

La Consolata in Etiopia: 1913, atto primo: I commercianti della Provvidenza

L’Etiopia è un sogno di Giuseppe Allamano, che fin dagli inizi, vede nel cardinal Massaia un’ispirazione. Ma le difficoltà sono tante, e i suoi primi missionari partono per il Kenya nel 1902. Dieci anni dopo ci riprova, e la sua tenacia, unita alla scelta delle persone giuste, porta all’apertura di alcune missioni in un territorio ostile. Inizia così una storia appassionante che sarà influenzata dai futuri eventi mondiali.

Fino dalla fondazione dell’Istituto Missioni Consolata il beato Giuseppe Allamano pensa di mandare i suoi in Etiopia, a continuare l’opera del cardinale Guglielmo Massaia (1809-1889), che è stato missionario cappuccino nella regione dei Galla (sud ovest). Le difficoltà a entrare in quel Paese, però, fanno sì che i primi quattro partano per il Kenya nel 1902.

Ma il sogno dell’Etiopia resta vivo, così, dieci anni dopo, il fondatore inizia una intensa opera diplomatica, aiutato da Giacomo Camisassa e da monsignor Filippo Perlo (responsabile del gruppo in Kenya), che porta alla creazione della prefettura del Kaffa il 28 gennaio 1913 (area etiopica nel sud ovest) da parte di Propaganda Fide (l’organo della Curia romana preposto alle missioni). La nuova prefettura confina a sud con il Kenya, dove la Consolata è presente. A guidarla è scelto padre Gaudenzio Barlassina, da dieci anni missionario, proprio in quel Paese.

Articoli

I cittadini cubani e l’arte di sopravvivere
Fare a pugni con la quotidianità

Foto Valentina Tamborra.

Non è mai stata facile la vita nell’isola caraibica. Oggi la profonda crisi economica (con l’immancabile embargo) l’ha resa ancora più dura. E le soluzioni non paiono dietro l’angolo.

«Il tramonto di Cuba, irripetibile, specialmente all’Avana, dove il sole va a cadere come un’immensa palla nel mare, nel profumo del sale, della vita, del tropico». Sono le parole con cui lo scrittore Reinaldo Arenas (1943-1990, fu un avversario del governo castrista, ndr) racconta l’amore e la struggente malinconia che, per tutta la vita, lo legheranno alla sua amata Cuba, anche quando ormai sarà emigrato in America in cerca di una vita migliore.

Incontro con padre Luigi Inverardi
(Argentina) Meno populismo, più lavoro e responsabilità

Padre Luigi Inverardi. Foto Paolo Moiola.

Per anni ha operato negli Stati Uniti, in Venezuela e in Argentina, con un breve ma interessante intermezzo a Cuba. Ha visto democrazie e autocrazie, ricchezza e povertà. Le Americhe sono il suo cruccio ma anche il suo pane e per questo, a dispetto dell’età, padre Luigi – oggi in Italia per cure mediche – vuole tornarci.

È un classe 1936. Dunque, l’età c’è, ma lo spirito e l’intraprendenza sono molto più giovani di quanto non dica il dato anagrafico. Padre Luigi Inverardi, bresciano, Missionario della Consolata dal 1970, ha attraversato le Americhe da Nord a Sud: Stati Uniti, Venezuela, Argentina. «Sono stato alcuni mesi anche a Cuba», precisa prima di raccontarsi in un simpatico mix d’italiano e spagnolo. Lo incontriamo a Torino, ma è nelle Americhe che vuole tornare. «Però, vorrei trascorrere in Italia gli ultimi anni», chiosa con naturalezza.

I migranti e l’Europa.
Per terra e per mare

Foto Csaba Segesvari – AFP.

Muri, forze di polizia, norme di legge non bastano a fermarli: la forza della disperazione li spinge a proseguire, nonostante tutto. Maurizio Pagliassotti è stato sulle rotte dei migranti e li ha raccontati in due libri, crudi. Come crudo e irrisolto è il fenomeno migratorio.

In cerca di pane e futuro. Sono migranti tunisini, nigeriani, siriani, egiziani, afghani, pachistani, bengalesi. Da un paio di mesi, in seguito al ritorno della guerra in Sudan, ci sono anche molti cittadini di quel paese africano.

Certosa missionaria.
In alto e in profondità

Tra le realtà belle dei Missionari della Consolata in Europa c’è n’è una speciale: la Certosa di Pesio. Un luogo di preghiera nato 850 anni fa e abitato fino al 1802 da monaci certosini. Da quasi novant’anni è parte del patrimonio dei figli del beato Allamano: casa di spiritualità che irradia il Vangelo nel mondo.

Quando l’istituto dei Missionari della Consolata è nato nel 1901, la Certosa di Santa Maria, più nota come Certosa di Pesio, aveva già 728 anni.

Posta a 859 metri di altitudine nell’alta Valle Pesio, sulle Alpi Marittime in provincia di Cuneo, non distante dal confine francese, per diversi secoli era stata il punto di riferimento spirituale e materiale per l’intera valle.

Cinquant’anni di relazioni Italia Vietnam
Stabilità e crescita

Le relazioni con l’Italia risalgono ai primi missionari. Ma l’amicizia è stata rinnovata durante la Guerra contro gli Usa. E poi si è sviluppata sui piani economico e culturale. Ce ne parla la console a Torino.

Civiltà quadrimillenaria, «paese del mito», il Vietnam è rimasto nel cuore e nelle coscienze di più di una generazione di italiani che, al tempo dell’invasione Usa, sono scesi nelle piazze e hanno manifestato per l’indipendenza di quel piccolo, lontano Paese aggredito dalla maggior potenza militare del mondo. Al Vietnam del resto, tutti noi siamo debitori perché il suo popolo ci ha insegnato che «indipendenza e libertà non sono mai merci barattabili».

Da «La Consolata»,
anno I, N. 12, dicembre 1899
«La fotografia della Consolata»

Dal bollettino del santuario condividiamo – nello stile originale – il racconto di come sia stata realizzata la prima «esatta riproduzione» del quadro della Madonna tanto amata a Torino e poi considerata fondatrice dei missionari e missionarie che da lei prendono il nome.

Coll’animo pieno di gioia diamo ai nostri lettori la bella notizia, e la stampiamo in capo al periodico: ben presto, fra una quindicina di giorni al più, i divoti di Maria potranno contemplare, ammirare, possedere la vera fotografia della Madonna della Consolata.

Rubriche

Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Verso i capitoli generali

Carissimi Missionari, Missionarie e Laici Missionari della Consolata,
[mentre leggete sono in svolgimento] i Capitoli generali dei due Istituti, che [sono iniziati] l’8 maggio 2023 a Nepi (Vt) per le Missionarie e il 22 maggio 2023 a Roma per i Missionari.

Inaugurato «CAM – Cultures and Mission»

Presso la Casa Madre dei Missionari della Consolata di Torino, il 19 aprile 2023 si è inaugurato il nuovo Polo culturale «Cam – Cultures and Mission», uno spazio dedicato al dialogo e alla conoscenza delle civiltà e dei popoli attraverso un allestimento multimediale e l’esposizione di oggetti e testimonianze provenienti dagli oltre 120 anni di presenza missionaria nel mondo (cfr. MC aprile 2023).

Si tratta di un dono che l’Istituto Missioni Consolata vuole offrire alla città di Torino (e non solo, ndr), come spazio di dialogo e di confronto sulle tematiche dei diritti, della pace, della giustizia, della salvaguardia del creato.

Camminatori di speranza

Raab: una donna sorprendente

Anche se le donne citate nella Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, non sono moltissime, spesso però ricoprono un ruolo molto significativo o sono destinatarie di una particolare attenzione da parte dell’autore. Quattro di loro, come abbiamo già scritto nella puntata di aprile, vengono anche inserite dall’evangelista Matteo, a sorpresa, nella genealogia di Gesù (Mt 1,1-16).

Nel mese di aprile ci eravamo lasciati affascinare in particolare, tra quelle quattro donne, da Tamar. Almeno un’altra, tuttavia, merita di essere approfondita meglio, anche perché è normalmente poco conosciuta.

Il suo nome è Raab (o Racab, a seconda di come si decide di traslitterare una consonante ebraica che nella nostra lingua non esiste), e la sua presenza in una genealogia così importante non può non stupirci. Raab, infatti, è una prostituta e abita a Gerico al tempo della conquista dell’antica città da parte degli israeliti guidati da Giosuè, e non è, quindi, ebrea.

Libertà religiosa

(Photo by Luis TATO / AFP)

Nigeria. Perseguitati, uccisi, ignorati

Da anni in Nigeria, soprattutto dove vige la Sharia, le milizie di Boko Haram, gli estremisti fulani e, sempre più, generici predoni, compiono violenze, stragi, rapimenti. Spesso contro le comunità cristiane. Centinaia di migliaia di sfollati interni vivono nella paura. Tutto nell’indifferenza della comunità internazionale.

Il gruppo di pastori fulani, popolazione nomade di fede islamica, è arrivato nella notte da diverse direzioni. È entrato nel campo per sfollati gestito da padre Remigius Ihyula nello Stato di Benue, nel centro nord della Nigeria, e ha sparato all’impazzata: 38 morti e 51 feriti. Tra loro diversi cristiani.

È successo lo scorso aprile, durante la Settimana santa: «Un sabato santo nero», afferma il religioso che dirige la sezione di Benue della Commissione per la giustizia, lo sviluppo e la pace (Jdpc), organizzazione cattolica nigeriana che cerca di rendere meno difficile la vita delle persone scacciate dalle loro terre.

E la chiamano economia

In molti paesi, Italia inclusa, le piogge sono diminuite in maniera drammatica a causa dei cambiamenti climatici. Foto Roman Grac-Pixabay.

La fine dell’acqua

Consumi eccessivi, inquinamento, cambiamenti climatici. L’acqua è una risorsa sempre più scarsa. Già oggi, oltre due miliardi di persone non ne dispongono a sufficienza. Senza immediati cambi di direzione la situazione è destinata ad aggravarsi.

Fino a ieri ci preoccupavamo per la fine del petrolio, oggi ci preoccupiamo per la fine dell’acqua. Con una differenza: i servizi resi dal petrolio possono essere sostituiti da altre risorse, quelli forniti dall’acqua sono unici.

Secondo il World resources institut (wri.org),17 nazioni, ospitanti un quarto della popolazione mondiale, si trovano in una condizione di altissimo livello di stress idrico, in quanto agricoltura, industria e abitazioni assorbono ogni anno più dell’80% dell’acqua disponibile. Fra essi la Tunisia, la Turchia, perfino la Spagna. Altri 40 paesi, che ospitano un altro terzo della popolazione mondiale, sono ad alto livello di stress idrico, in quanto consumano più del 40% delle loro disponibilità di acqua. Fra essi anche l’Italia, gli Stati Uniti, l’Australia, la Cina, l’India. In conclusione, metà della popolazione mondiale vive una severa scarsità d’acqua per almeno una parte dell’anno.

Perdenti special

Padre Giuseppe Ambrosoli dichiarato beato
Un missionario medico per amore

Dopo due anni di attesa e rinvii a causa della pandemia, il missionario comboniano è stato finalmente riconosciuto beato il 20 novembre scorso, durante una celebrazione eucaristica nella sua missione di Kalongo, nel nord dell’Uganda.

Il suo nome compare ora nella schiera di Santi e di Beati che la Chiesa già venera.

Medico missionario comboniano, spese la sua vita a servizio degli ultimi facendosi interprete del Mandatum novum conferito da Nostro Signore agli Apostoli duemila anni fa. Fonte inesauribile di idee e di iniziative, padre Giuseppe Ambrosoli (1923-1987), oltre che interlocutore mai banale e generoso di spunti e suggestioni, non temeva di parlare della morte, ma lottava per tenerla lontana dai suoi pazienti, sfidando ogni sorta di malattia. Per lui la medicina era un modo concreto per rendere intelligibile la Buona Notizia e, da questo punto di vista, la testimonianza da lui manifestata in sala operatoria o in corsia era, a dir poco, strabordante.

Cooperando

Scuola, ancora un sogno per troppi bambini

L’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 4 non sarà raggiunto entro il 2030. Questa è la conclusione a cui si giunge consultando i più recenti dati Unesco. La pandemia ha rallentato l’impegno per assicurare la scuola a tutti, ma di fatto il calo era già in atto.

Secondo le più recenti stime delle Nazioni Unite@, sono 244 milioni i bambini e ragazzi di età compresa fra i 6 e i 18 anni che non vanno a scuola. Il numero più alto di questi, circa 98 milioni, è in Africa subsahariana, mentre altri 85 milioni vivono in Asia centrale e meridionale. I quattro Paesi con i dati più negativi sono Pakistan e Nigeria, ciascuno con circa 20 milioni di bambini e adolescenti non scolarizzati, seguiti dall’Etiopia, con 10,5 milioni, e dalla Repubblica democratica del Congo, con 6 milioni.

Allamano

Giuseppe Allamano e la guerra

Un libro di recente pubblicazione, dal titolo «Un’enciclica sulla pace in Ucraina», (Terra santa edizioni, 2022) raccoglie gli appelli accorati e gli inviti alla pace rivolti da papa Francesco nell’ultimo anno ai responsabili delle nazioni e a tutta l’umanità. Il testo richiama tutti, particolarmente i cristiani, a essere donne e uomini di pace, a supplicare il Dio della pace, dell’amore e della speranza affinché illumini i governanti e questi si impegnino a fare cessare la guerra nel cuore dell’Europa e in ogni altra parte del mondo. Più volte il Papa si chiede a quante tragedie l’umanità deve ancora assistere prima che si convinca che ogni guerra è soltanto una strada di morte e che attraverso di essa si hanno soltanto vinti e vittime e nessun vincitore.

Librarsi

L’attualità di un pensatore cristiano e nonviolento – Atomica e nonviolenza

Lanza Del Vasto, scrittore, artista e attivista, morto nel 1981 ma molto attuale, fu tra i primi a denunciare i pericoli dell’atomica. Nel nostro tempo l’umanità si trova di fronte a un bivio: la via irrazionale della guerra, quella efficace della nonviolenza.

È stato di recente pubblicato, per le Edizioni La Meridiana, Le due potenze. L’atomica e la nonviolenza, un agile libro che raccoglie due testi di Lanza Del Vasto, tra i primi a denunciare i pericoli dell’atomica.Librarsi

 




Sud Sudan. È il tempo dei fatti


Dopo il Congo, papa Francesco è andato in Sud Sudan, insieme all’incaricato della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields, e all’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. Un viaggio progettato da tempo, ma che era stato rimandato per motivi di sicurezza.  Monsignor Carlassare, comboniano, vescovo di Rumbek, ci racconta le sue impressioni.

Monsignor Christian Carlassare, missionario comboniano, classe 1977, lavora in Sud Sudan dal 2005. È stato nominato vescovo di Rumbek da papa Francesco nel marzo 2021. Il 25 aprile dello stesso anno ha subito un attentato nel quale è stato ferito alle gambe. Ha potuto ricevere l’ordinazione vescovile solo un anno più tardi.

A Rumbek succede a monsignor Cesare Mazzolari, anche lui comboniano, molto amato dalla gente, deceduto nel 2011.

Monica Moser in Sud Sudan. Archvio M. Moser.

Monsignor Carlassare ci parli della sua diocesi di Rumbek. Quali sono le principali difficoltà, ma anche le sfide e i segni di speranza?

«La diocesi di Rumbek ha le stesse le stesse ferite che il Paese ha sofferto a causa della guerra e del conflitto che si è protratto anche dopo l’indipendenza (2011). La violenza ha marcato profondamente le relazioni sociali di questo Paese durante decenni, e non è facile essere fermento di cambiamento neanche per la Chiesa. Ci si aspetterebbe, infatti, che la Chiesa fosse una comunità di fede che sia lievito per la massa. Anche Gesù, in un momento di frustrazione, aveva raccomandato ai discepoli di guardarsi dal lievito dei farisei.

Ecco, anche la comunità cristiana, piccola e fragile, vive le sue contraddizioni che sono spesso le stesse della gente: la fatica nel dialogo e nella comunione, specie quando ci sono interessi di gruppo in conflitto con altri; l’accettazione supina dell’idea che “vince il più forte”, alla quale tutti si accodano, la paura di programmare il futuro preferendo vivere alla giornata.

In particolare, la Chiesa in Sud Sudan vive la sfida della nuova evangelizzazione, nel senso che, pur avendo sentito parlare di Gesù Cristo, in verità molta gente non ne conosce l’insegnamento, o lo conosce solo superficialmente, senza aver fatto esperienza concreta di Lui e di vita cristiana.

Oltre ad alcune idee, c’è bisogno di più prassi insomma. Mentre invece la gente rimane prevalentemente legata alle proprie categorie culturali e non si lascia facilmente interrogare dal Vangelo.

La Chiesa viene spesso vista più come un’agenzia umanitaria che parla di Dio, piuttosto che come una comuità di fede che propone una trasformazione della società dal suo interno.

L’aspetto più positivo è che la Chiesa in Sud Sudan, come nel resto dell’Africa, non è ferma, ma in cammino. È in divenire. E il futuro appare molto più luminoso del passato.

C’è speranza insomma. Una speranza riposta in comunità cristiane formate in gran parte da giovani. Le nostre assemblee domenicali sono frequentate per il 90% da giovani sotto i vent’anni. Si capisce allora che le comunità cristiane non possono essere molto stabili, non sono poggiate sulle forti fondamenta dell’esperienza e saggezza della vita adulta. Allo stesso tempo, però, la presenza di tanti giovani che cercano nella Chiesa identità, dignità e opportunità, ci fa scommettere nel futuro».

monsignor Christian Carlassare in Sud Sudan durante la visita del papa. Archivio C. Carlassare

Missione istruzione

«La popolazione della nostra diocesi arriva a un milione e duecentomila persone. Calcoliamo che solo duecentomila sono cattoliche. Il territorio è grande quanto il Nord Italia, ma le missioni-parrocchie sono solo sedici. Ogni parrocchia copre un territorio vastissimo con molte cappelle (fino a quaranta), e queste sono tutte seguite da agenti pastorali laici e catechisti.

La diocesi conta quasi trecento catechisti, che non sono semplici insegnanti di catechismo, ma vere e proprie guide delle comunità cristiane.  Abbiamo nove preti diocesani, venti preti religiosi e sette fratelli di sei istituti missionari, oltre a trentadue suore di nove istituti religiosi. C’è molta ricchezza di carismi e creatività, e di questo sono molto contento e orgoglioso.

Tra le altre cose, la diocesi è molto impegnata nel campo dell’istruzione a partire dalle scuole dell’infanzia e primarie fino alle scuole secondarie e università. È da ricordare che in Sud Sudan solo il 20% dei bambini in età scolastica ha accesso a una scuola primaria. E solo il 6% a una scuola secondaria.

L’analfabetismo regna ancora sovrano. Inoltre, le bambine non godono delle stesse opportunità dei loro coetanei maschi. Molte bambine non riescono a finire la scuola primaria, spesso anche a causa di matrimoni combinati, e solo l’1% accede alle scuole superiori. Quindi, oltre ai programmi di istruzione ordinari, abbiamo anche centri di apprendimento accelerato per adulti, con lo scopo principale di valorizzare la donna e chi non ha potuto frequentare la scuola in età scolastica.

Ultimamente stiamo cercando di introdurre anche scuole dedicate all’insegnamento di arti e mestieri, sia con corsi professionali che tecnici. Abbiamo anche centri di formazione per maestri e un corso all’università per preparare insegnanti per le scuole superiori.

C’è il desiderio forte di favorire la formazione integrale delle persone perché attraverso l’istruzione possano esprimere la propria identità e dignità».

In sintesi, qual è la situazione attuale del Paese? Secondo lei, la visita di papa Francesco con il moderatore generale della Chiesa presbiteriana scozzese Greenshields e l’arcivescovo anglicano Welby, ha dato un reale impulso al processo di pace?

«In generale direi che ci troviamo davanti a un Paese non solo povero, ma profondamente impoverito dal conflitto interno che si è protratto dal 2013 al 2019, e dallo stato di continua insicurezza e instabilità in cui versa. Un Paese dove le istituzioni sono fragili e non sempre dalla parte della popolazione, soprattutto la più vulnerabile.

La visita a inizio febbraio è stata un momento di grande gioia per tutto il Paese. Secondo la cultura tradizionale, l’arrivo di una persona così importante porta sempre una benedizione. È difficile dire se porterà frutti duraturi di riconciliazione e pace in Sud Sudan, ma di certo papa Francesco ha fatto la sua parte e ha contribuito rendendo tutti più consapevoli che il dono della pace prende forma laddove si è camminato insieme su una via di pace, con passi concreti di ascolto e non violenza.

L’effetto immediato della visita è apparso nelle parole del presidente che ha annunciato la ripresa del dialogo con quelle opposizioni che non sono al governo, dialogo facilitato dalla Comunità di sant’Egidio.

Le speranze però sono più grandi: poter testimoniare il ritorno di rifugiati e sfollati nei loro territori, il disarmo e la fine di ingiustizie e violenze in tutto il Paese, l’unificazione e limitazione dell’esercito, la fine della corruzione e del nepotismo, l’accesso ai servizi (istruzione, sanità), l’uso appropriato delle risorse per una ripresa economica, il processo di unificazione del Paese che superi divisioni etniche, il processo democratico e le elezioni».

monsignor Christian Carlassare in Sud Sudan durante la visita del papa. Archivio C. Carlassare

C’è qualche aspetto della visita del Papa che l’ha colpita in modo particolare?

«Direi la grande semplicità di papa Francesco e, allo stesso tempo, la fermezza delle sue parole: basta violenze, basta sangue. Basta promesse, è il tempo dei fatti. E poi le parole di solidarietà verso i piccoli e i deboli: pensiamo agli sfollati e rifugiati, soprattutto donne e bambini, vittime di violenza e abusi.

Papa Francesco ha spesso detto la parola “insieme”. Insieme si è più forti.

Ma il ricordo personale più bello è quello dell’incontro di papa Francesco con i giovani del pellegrinaggio (si veda domanda successiva, ndr). Un fuori programma: è uscito dall’incontro con i preti e i religiosi e ci ha incontrati sulla gradinata davanti la cattedrale. Lì ci ha detto: “Grazie della vostra testimonianza, continuate a camminare sulla via della pace, contribuirete a chiudere il capitolo dello scontro e scrivere un nuovo capitolo nella storia del Sud Sudan, quello dell’incontro”».

Ci parli del pellegrinaggio tra Rumbek e Juba: come è venuta l’idea, con quali obiettivi e a che cosa è servito?

«Eravamo un gruppo di 84 persone, tra cui una sessantina di giovani. L’idea è nata dal desiderio di dare la possibilità di incontrare il Papa a quante più persone possibile. Da Rumbek solo un piccolo numero avrebbe potuto partecipare viaggiando con i mezzi. Perciò abbiamo pensato di andare a piedi.

Poi ci siamo scoperti in comunione con papa Francesco che veniva da pellegrino di pace: un cammino che, prima di tutto, dovremo essere capaci di fare noi. E chi meglio dei giovani può fare appello alla pace, visto che proprio loro che sono stati spietatamente manipolati e strumentalizzati per combattere in nome di altri che, invece, hanno guadagnato poltrone e potere sulla loro pelle.

Il pellegrinaggio è stato un’esperienza molto bella di comunione e solidarietà che ha poi anche ispirato l’assemblea diocesana intitolata: “Camminando insieme come famiglia di Dio”. Lungo il cammino abbiamo incontrato nove comunità locali che ci hanno accolto.

Oltre alla preghiera, i giovani avevano preparato un teatro della pace nel quale raccontare storie di conflitto concluse in fraternità. Ogni comunità locale ci ha sorpreso con la sua accoglienza e comunione, tanto che ci siamo accorti che non marciavamo per noi stessi, ma per tutti i costruttori di pace presenti nel Paese.

All’arrivo a Juba ci siamo trovati immersi in un bagno di folla che era uscita per strada ad accoglierci. Lì abbiamo capito che con il nostro semplice gesto e impegno, avevamo ispirato tutta la nazione».

Marco Bello


Il viaggio di una studentessa di ingegneria

Ero partita per fare la tesi…

Monica ha fatto un’esperienza importante. È stata un mese nel paese più povero del mondo, scoprendovi una grande ricchezza. È stata accolta, ha insegnato e ha molto imparato. In queste pagine ci racconta quei giorni.

Monica Moser in Sud Sudan. Archvio M. Moser.

Sono una studentessa di ingegneria matematica al Politecnico di Torino. A gennaio sono partita per il Sud Sudan per scrivere la mia tesi sulla didattica della matematica in Africa subsahariana, con il sostegno del Politecnico e della Fondazione Cesar (fondazionecesar.org).

Dopo alcune esperienze di insegnamento in Italia, volevo scoprire come coinvolgere ragazze e ragazzi nello studio di materie scientifiche in un Paese che,  dal punto di vista educativo, soffre a causa dei conflitti. Il Sud Sudan è da decenni uno dei Paesi più poveri al mondo, segnato da conflitti armati e disordini politici che hanno avuto un impatto devastante sull’istruzione e sulla formazione delle future generazioni, creando un circolo vizioso di povertà e mancanza di opportunità.

Nonostante ciò, il popolo sudsudanese ha dimostrato una grande resilienza e determinazione, cercando di costruire un futuro migliore per sé stesso e per le proprie comunità.

Sono partita dall’Italia con uno zaino carico di vestiti e di emozione, consapevole che sarebbe stata un’esperienza di vita. Una volta arrivata a Rumbek, ho incontrato padre Christian, Vescovo della diocesi e testimone di una Chiesa a servizio del popolo sudsudanese. Assieme a lui ho visitato la Mazzolari secondary school, dove sono rimasta particolarmente colpita dal numero di bambini e ragazzi presenti in una sola classe, e la Catholic university of South Sudan, a Rumbek.

Successivamente, mi sono spostata alla Loreto girls secondary school dove ho iniziato la mia esperienza di insegnamento.

Ho notato immediatamente la gioia delle persone incontrate nel dare il benvenuto a un nuovo arrivato: dopo pochi giorni di scuola, tutte le ragazze conoscevano il mio nome e correvano a salutarmi appena mi vedevano uscire dalla stanza. È impressionante vedere la forza e il coraggio che queste giovani donne dimostrano quotidianamente, poiché per loro continuare gli studi a 16 anni nel Sud Sudan significa lottare contro la tradizione e spesso anche contro la propria famiglia. Tuttavia, queste ragazze persistono nel loro desiderio di istruzione e, nonostante le difficoltà che incontrano, sono determinate a costruire un futuro migliore per se stesse e per la loro comunità.

Un pellegrinaggio unico

Dopo aver trascorso dieci giorni con le studentesse, ho avuto l’onore di essere invitata a partecipare a un pellegrinaggio di pace dalla città di Rumbek a Juba, la capitale. Si trattava di camminare 20 km al giorno per accogliere l’arrivo del Papa in Sud Sudan. Questa esperienza mi ha permesso di parlare con le ragazze dell’importanza della matematica nella vita di tutti i giorni.

In un gruppo di sessanta giovani, abbiamo affrontato ogni momento insieme: i risvegli alle 5 del mattino, il caldo soffocante dei 40 gradi a mezzogiorno e l’entusiasmo dei giovani delle parrocchie nelle quali passavamo, che ci accoglievano correndo. Non è stato sempre facile, soprattutto dormire per terra dopo ore di cammino, ma la forza e la gioia di fare qualcosa di unico per il Sud Sudan mi hanno fatto superare le difficoltà.

Durante il pellegrinaggio di pace, ho avuto l’opportunità di discutere con le giovani studentesse del sistema scolastico del Sud Sudan, dove la mancanza di infrastrutture e di insegnanti qualificati rappresenta una sfida costante per l’accesso all’istruzione.

Nonostante queste difficoltà, ho potuto sperimentare in prima persona la determinazione dei giovani a perseguire i loro sogni e a costruire un futuro migliore per se stessi e per la loro comunità.

Il viaggio mi ha anche permesso di conoscere meglio la realtà quotidiana della popolazione locale e di vedere come la sua grande forza di volontà e resilienza l’aiuti a superare le difficoltà. Ogni piccolo successo rappresenta un passo avanti nella costruzione di un futuro migliore per l’intera comunità.

Inoltre, ho avuto modo di apprezzare la grande ospitalità del popolo sudsudanese, che non ha esitato ad accogliermi a braccia aperte e a condividere con me la propria cultura e tradizioni.

Giovani per la pace

Tramite il pellegrinaggio abbiamo voluto dare una testimonianza di pace e di dialogo a tutte le comunità che incontravamo, una pace tanto desiderata e attesa da tutti i giovani sudsudanesi, indispensabile per migliorare il sistema educativo e le prospettive del Paese.

I giovani per primi sono stati portatori di un messaggio di comunione grazie a una novena di preghiera e riflessione sul camminare insieme.

In ogni parrocchia abbiamo partecipato alla messa con l’intera comunità, e i ragazzi hanno messo in scena una recita sulla pace concreta che può nascere anche tra tribù diverse.

Una volta arrivati a Juba, siamo stati sorpresi dalla notizia che papa Francesco avrebbe incontrato il nostro gruppo. Questo incontro è stato un’esperienza indimenticabile per tutti noi, e ci ha regalato una grande emozione, ma, soprattutto, ha trasmesso un messaggio di speranza e fiducia, dimostrando ai ragazzi che tutto è possibile nella vita.

La matematica è divertente

Monica Moser in Sud Sudan. Archvio M. Moser.

Dopo l’esperienza del pellegrinaggio di pace, sono tornata a Rumbek e ho avuto l’opportunità di insegnare ai professori della primaria di Loreto e di trascorrere una settimana presso la All Saints Alp school di Cueibet.

Sapevo che la matematica non era la materia preferita degli studenti, ma ho cercato di trasmettere loro l’idea che può essere divertente e affascinante. È stato gratificante vedere i ragazzi interessati ed entusiasti, e mi sono divertita a mettermi in gioco con loro e con i loro insegnanti.

Durante il mio mese in Sud Sudan, ho visto la realtà di un Paese che lotta per l’istruzione e il progresso, e allo stesso tempo ho visto la forza e la determinazione della sua gente. Questa esperienza mi ha insegnato molto, soprattutto sull’importanza dell’educazione e sulla sua capacità di cambiare la vita delle persone.

I miei sforzi per promuovere la matematica e le materie scientifiche hanno anche avuto un impatto sulle attitudini degli studenti riguardo i ruoli di genere nei campi Stem (sigla in inglese: scienza, tecnologia, ingegneria, matematica, ndr). Essere una giovane donna impegnata nel campo scientifico ha ispirato molte ragazze con cui ho lavorato, inclusa una studentessa del secondo anno alla Loreto girls secondary school che mi ha scritto una lettera per esprimere la sua gratitudine: «Ho il sogno di diventare un’ingegnera civile. È stato così sorprendente per me quando ti ho sentita parlare di questo, perché non avevo mai visto una donna che fa l’ingegnere».

Inoltre, questa esperienza mi ha mostrato l’importanza del dialogo interculturale e della cooperazione tra diverse comunità. L’incontro con il Papa e il pellegrinaggio di pace sono stati momenti intensi di condivisione e unione tra persone di culture e religioni diverse, dimostrando che la pace è possibile se si lavora insieme.

In conclusione, il mio viaggio in Sud Sudan è stata un’esperienza unica e indimenticabile, che mi ha arricchito a livello personale e professionale.

Ringrazio il Politecnico di Torino e la Fondazione Cesar per avermi dato questa opportunità, e tutte le persone che ho incontrato in Sud Sudan per avermi accolto a braccia aperte e per aver condiviso con me la loro cultura e la loro vita quotidiana.

Monica Moser

Monica Moser in Sud Sudan. Archvio M. Moser.


IL SUD SUDAN SU MC

Marco Bello, Quasi amici… (in nome del petrolio), ottobre 2018.
Marco Bello, Sud Sudan: la speranza sottile, maggio 2017.
Marco Bello, Guardandosi in cagnesco, agosto-settembre 2016.




Nord Kivu senza pace


Nell’est del secondo paese africano per superficie, tra i più ricchi di risorse, imperversano gruppi armati sostenuti da paesi confinanti. Gli stessi sono alleati della Rdc a livello regionale. Le contraddizioni sono forti. Come pure non si spiega la presenza della missione Onu per la pace che in 23 anni non ha dato risultati. Ce ne parla un attivista per i diritti umani di Goma.

Nell’est della Repubblica democratica del Congo, da circa un anno la milizia M23, sostenuta dal Rwanda, sta causando grandi spostamenti di popolazione. Secondo il sito umanitario Reliefweb, al 31 gennaio 2023, gli attori umanitari e statali hanno stimato in almeno 602mila unità il numero di persone sfollate a causa della guerra nei territori di Rutshuru, Nyiragongo, Masisi, Walikale, Lubero e nella città di Goma (capitale del Nord Kivu). Nel marzo 2023, il numero di sfollati solo intorno alla città di Goma è stimato in circa 200mila.

Julienne, residente a Goma nel quartiere di Ndosho, descrive la loro situazione: «Abbiamo sofferto nella Rdc orientale per molto tempo. Ho visitato alcuni campi di sfollati. Non hanno riparo dalla pioggia, né servizi igienici, né bidoni della spazzatura, né cibo o vestiti. Alcuni hanno preso il colera. Una volta arrivati a Goma, alcuni vengono accolti in famiglie allargate, ma non hanno mezzi per sopravvivere sul lungo termine. Sperano di tornare nel loro territorio dove hanno lasciato tutto. A Goma sono aumentati i prezzi dei prodotti alimentari al mercato. Le strade sono chiuse, la guerra ha bloccato tutte le aree da cui proviene il cibo. I negozi non hanno più nulla da vendere».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Kanyaruchinya. Pascal Martin 2022.

M23 alla ribalta

Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, i ribelli dell’M23 hanno paralizzato le strade principali che collegano Goma al resto della provincia.

In quella zona, a una trentina di chilometri dalla città, sono stati dispiegati i soldati burundesi presenti nella Rdc come membri della forza militare della Comunità dell’Africa orientale (Eac). Con base a Mubambiro, le truppe burundesi si sono unite a un contingente dell’esercito keniano, di circa mille uomini, schierati a Goma e dintorni dal novembre 2022.

Sempre a marzo, molto più a nord, nel territorio di Beni, anch’esso nella provincia del Nord Kivu, più di quaranta persone sono morte in un nuovo attacco attribuito ai ribelli dell’Adf (Allied democratic forces), affiliati al gruppo Stato islamico. L’Adf ha origine da ribelli ugandesi, in prevalenza musulmani, che sono arrivati nell’est della Rdc a metà degli anni ‘90 e sono accusati del massacro di migliaia di civili.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni Don Bosco. Pascal Martin 2023.

La voce dei diritti

Abbiamo intervistato Christophe Mutaka, attivista per i diritti umani e direttore del gruppo Martin Luther King a Goma.

Signor Mutaka, può riassumere il lavoro del gruppo Martin Luther King?

«Organizziamo le nostre attività con pochi mezzi. Realizziamo un lavoro di monitoraggio, che ci aiuta a sapere cosa avviene sul campo in modo che, in futuro, coloro che compiono gravi e massicce violazioni dei diritti umani, compresi crimini di guerra e crimini contro l’umanità, e persino atti di genocidio, non sfuggano alla giustizia internazionale.

Negli ultimi mesi, il gruppo Martin Luther King, al fine di evitare che la situazione degenerasse in atti di violenza etnica, ha fatto sensibilizzazione affinché le persone distinguano chiaramente e non confondano coloro che sono al fronte o sul campo di battaglia con le popolazioni civili che non sono responsabili di ciò che accade, indipendentemente dalla loro origine etnica.

Ma continuiamo anche a monitorare ciò che avviene in prima linea affinché gli autori di crimini di guerra, massacri e atti di genocidio siano identificati.

Sono un esempio i massacri di Kishishe e Bambu nel territorio di Rutshuru. Atti che non potranno rimanere impuniti perché i loro autori sono noti e identificati. La documentazione raccolta consentirà alle generazioni future di chiederne conto. Nella parte settentrionale della provincia del Kivu, le persone sono state massacrate per più di un decennio. Molte di esse appartengono alla comunità nande nel territorio di Beni.

Per quanto riguarda gli sfollati, ovvero persone che hanno lasciato i loro villaggi d’origine temendo per la propria vita e che si sono trovate in pericolo a causa dei disordini, anche nel loro caso gli autori delle violazioni dei diritti umani che hanno subito potrebbero essere perseguiti».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni a Mugunga. Pascal Martin 2022.

Perché e quando l’M23 ha ripreso i suoi attacchi nella parte orientale della Rdc?

«La ripresa degli attacchi, in particolare quelli dell’M23, risale al marzo 2022. Affermano di averli ripresi perché la comunità tutsi (etnia presente in Congo, Rwanda e Burundi, ndr) è minacciata. Ma non è vero: essi si trovano nel governo a livello nazionale, sono presenti nell’Assemblea nazionale, nel Senato, nelle aziende statali e parastatali, nelle aziende private strategiche, nell’esercito e nei servizi di sicurezza. È quindi inaccettabile che si descrivano come una minoranza minacciata o schiacciata del paese. I tutsi hanno tra i membri della loro comunità ministri, generali, alti ufficiali dell’esercito.

L’argomento della minaccia non regge. Come prova, i banyamulenge (tutsi congolesi, ndr) che l’M23 dovrebbe difendere, hanno dichiarato che preferiscono risolvere le loro questioni da soli, con gli altri congolesi.

Il secondo argomento è il rientro nelle loro terre dei rifugiati tutsi che sono ancora nei campi in Rwanda e Congo. Qui nessuno è contrario al loro ritorno, ma sarebbe necessario identificarli in anticipo, conoscere il loro luogo di origine e sapere da quale villaggio provengono. La contraddizione è che quando l’M23 attacca il Congo, crea insicurezza nelle loro zone di origine. Inoltre, c’è il timore che, nella confusione, approfittino del ritorno dei rifugiati per fare arrivare ruandesi non di origine congolese, che quindi non possono indicare il loro villaggio di provenienza.

Infine, questi gruppi richiedono di essere integrati nell’esercito. Anche questo non sta in piedi. Molti ufficiali tutsi, maggiori, colonnelli e caporali sono già nell’esercito, mentre la legge congolese proibisce il reclutamento collettivo di ribelli. Ognuno si fa arruolare individualmente.

Queste argomentazioni ci sembrano quindi infondate e noi pensiamo che le ragioni della ripresa delle ostilità siano altre.

In Rdc vivono circa 450 gruppi etnici che sono ciascuno una minoranza rispetto al resto. La minoranza tutsi non è la più piccola comunità del Paese. Ci sono gruppi etnici più piccoli dei tutsi che non usano questi argomenti di discriminazione. La tutela delle minoranze è garantita dalla Costituzione. Inoltre, non è corretto usare le armi per rivendicare diritti.

Occorre dunque operare una netta distinzione tra coloro che hanno preso le armi contro la Repubblica democratica del Congo (ad esempio l’M23) e i civili che non hanno nulla a che fare con il conflitto armato».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni a Mugunga. Pascal Martin 2022.

La Rdc fa parte della Comunità dell’Africa dell’Est (sigla inglese, Eac), come il Rwanda che però sostiene l’M23. Questa posizione non è contraddittoria?

«Rispetto all’impegno dell’Eac, ci sono cose che non si comprendono. Ad esempio, come sia possibile che la Rdc rimanga suo membro mentre un altro la attacca, e come mai gli altri membri non prendano posizione. Come società civile, avremmo trovato normale che la Rdc si ritirasse dall’Eac, perché non possiamo rimanere membri di una unione che mantiene un silenzio colpevole di fronte all’aggressione di uno dei suoi membri. Anche l’impegno delle truppe Eac a fianco delle Fardc (Forze armate della Rdc) è difficile da capire. Come le truppe burundesi abbiano attraversato il Rwanda per venire a combattere l’M23 in Congo è qualcosa che non possiamo comprendere. Tuttavia, il Rwanda è membro dell’Eac.

Quindi c’è un gioco di menzogne in questa alleanza, e questo spiega perché ci sono state manifestazioni qui a Goma per chiedere alla Rdc di lasciare l’Eac. Una volta fatto questo, il nostro Paese sarà in grado di cercare sostegno militare o di altro tipo da qualsiasi altro paese del mondo».

Alcuni capi di stato hanno recentemente visitato la Rdc. Possiamo ricordare la visita del sovrano belga, re Filippo, del presidente francese, Emmanuel Macron e del presidente dell’Angola, João Lourenço. Ma anche la visita di papa Francesco. Questo balletto diplomatico ha cambiato qualcosa sul terreno?

«A parte il Papa, le altre autorità che ha citato hanno un’agenda nascosta, che include interessi sulla guerra che si svolge nella Rdc. È quindi normale che il loro passaggio non possa cambiare molto sul terreno.

La Francia, ad esempio, in quanto membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dovrebbe essere in grado di influenzare i suoi membri per fermare la guerra in Congo. Ma, poiché ci sono altri interessi, le visite non hanno cambiato la situazione.

Neppure la popolazione congolese ha capito il significato di queste visite.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Kanyaruchinya. Pascal Martin 2022.

La visita del Papa, invece, è ben diversa. È stata un campanello d’allarme per la popolazione congolese in generale. Nel suo messaggio, Francesco ha detto ad alta voce ciò che tutti stanno sussurrando: ha parlato del coinvolgimento occidentale nella crisi che ha lacerato la Rdc per più di due decenni. Quando il Papa chiede di “togliere le mani dalla Rdc e dall’Africa”, denuncia queste ingerenze esterne.

Come in Burkina Faso, che non ha avuto una guerra prima che i suoi minerali fossero scoperti, o il Nord del Mali, dove sono state scoperte risorse naturali. Tutte risorse di interesse per l’Occidente, e quindi portatrici di guerre. Il commercio di armi è anch’esso un grande business.

Nessuno combatterà per la Rdc, a parte noi congolesi. Le autorità devono capire che gli unici amici del Congo sono i congolesi stessi. Tutte queste missioni esterne vengono nel Paese per interessi personali e non per quelli della Rdc e del suo popolo.

Ad esempio, la missione delle Nazioni Unite è qui da più di 20 anni, la più grande missione di pace delle Nazioni Unite nel mondo. Ma la pace è arrivata? C’è la guerra con scontri continui a soli 30 km da Goma. E i caschi blu dell’Onu sono sul posto.

Capiamo quindi, che tutte queste missioni, che si tratti dell’Eac o delle Nazioni Unite, non sono venute per il Congo, ma per qualcos’altro.

Dobbiamo identificare chi, nel nostro Paese, sostiene la guerra e chi la sostiene al di fuori del Paese. Sarà quindi necessario attaccare gli interessi di coloro che fomentano la guerra, in modo che capiscano che non vale la pena avere le risorse della Rdc passando dalla finestra, ma devono passare dalla porta. Ovvero ottenere le risorse dai congolesi stessi.

Se i paesi occidentali, le multinazionali vogliono sfruttare le risorse naturali del nostro territorio, stabiliscano una partnership alla pari con il Congo, invece di massacrare l’intera popolazione solo perché abbiamo minerali».

In questo anno elettorale, quali sono le correnti di opposizione che possono presentare un’alternativa e canalizzare le aspirazioni del popolo?

«In quest’anno elettorale la posta in gioco è alta. Non dimentichiamo che alcuni politici a caccia di poltrone vogliono approfittare di questa situazione di guerra per posizionarsi e ottenere il sostegno di alcuni Stati occidentali.

Abbiamo anche le nostre responsabilità come congolesi. Siamo in parte responsabili delle nostre disgrazie perché siamo noi che votiamo per le persone che governano il paese. Accettiamo cose inaccettabili e quindi dobbiamo anche lavorare molto sulla governance. Il buon governo consentirà di evitare ingiustizie e di organizzare un’equa redistribuzione delle risorse a livello della popolazione. Se le risorse andranno a beneficio del paese e saranno ben gestite, le persone vivranno in condizioni soddisfacenti.

L’anno elettorale viene osservato con molto interesse anche fuori del paese».

Quali leader democratici emergono per proporre alternative alla popolazione?

«Ci sono leader che hanno una visione diversa della Rdc e un’idea affinché la popolazione possa beneficiare delle risorse del Paese. Ma chi li sostiene? Dovremo sostenere questi leader in modo che possano cambiare qualcosa nel Paese. Sfortunatamente non hanno ancora mobilitato la massa. I congolesi si stanno mobilitando e combattendo per la loro patria, attraverso marce pacifiche, scioperi, giorni di blocco delle città, nonostante tutti i rischi che corrono durante questi eventi.

La popolazione congolese non si lascia abbattere. Resiste in maniera nonviolenta.

Chi sogna la balcanizzazione del Congo si sbaglia: se noi siamo umiliati oggi, domani non umilieranno i nostri figli e nipoti. Perché sono essi che stanno vivendo le disgrazie del popolo congolese: rimanere senza acqua, cibo, elettricità in un paese così ricco è una contraddizione. Un giorno tireremo fuori questo paese da questa vergogna a livello globale».

Quale segno di speranza vede in tutto ciò che il Congo sta attraversando oggi?

«I congolesi stanno combattendo contro diversi paesi contemporaneamente: Rwanda, Uganda e diversi paesi occidentali (Francia, Gran Bretagna e altri).

C’è un barlume di speranza se a livello di società civile continuiamo a sensibilizzare la popolazione affinché tutti capiscano che il futuro del Congo è nelle mani dei congolesi e soprattutto dei giovani. Il futuro dell’Africa è nelle mani degli africani. Non possiamo svendere la nostra dignità e la nostra sovranità. È una consapevolezza che deve aumentare.

Inoltre, è necessario esercitare pressioni sui nostri leader per una sana gestione degli affari pubblici. La liberazione del popolo passa anche attraverso questo. Altrimenti, continueremo a cadere nella miseria e a essere considerati come subumani usati da coloro che ne hanno bisogno. Dobbiamo anche lavorare sull’educazione civica degli elettori, in modo che le autorità che gestiranno questo paese possano essere degne di questo compito. Che lavorino per il benessere della popolazione.

C’è anche l’advocacy. Non lavoreremo da soli. Ci sono persone che vogliono sostenere il Congo, che si chiedono perché il popolo congolese sia schiacciato. Dobbiamo andare da queste persone per spiegare cosa sta succedendo e attivare una diplomazia che possa far capire la causa congolese al mondo.

Perché abbiamo visto paesi mobilitarsi per i terremoti mentre poco o per nulla è stato fatto a favore del nostro Paese? La causa congolese deve essere resa nota all’estero. Il popolo congolese non ha solo bisogno di aiuti umanitari, ma soprattutto di porre fine alle ostilità. In modo che tutti possano tornare a casa, nel loro territorio, e riprendere le loro attività».

Pascal Martin*

*Nato e cresciuto a Goma in una famiglia di volontari, ha poi lavorato per oltre 20 anni come cooperante in Africa, tra Congo Rd, Burundi, Madagascar e altri paesi. Ha già scritto per MC.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Rusayo. Pascal Martin 2023.

 




Gocce di speranza


I Missionari della Consolata sono arrivati nel 2018 a Luacano, diocesi di Luena nella provincia di Moxico. Proprio nella regione dove, sedici anni prima, aveva avuto i suoi momenti conclusivi la guerra civile che ha stravolto la vita del paese dal 1975 al 2002 lasciando pesanti distruzioni e numerosi campi minati.

Luacano si trova 220 km a est di Luena (anche Lwena, ndr), capoluogo della provincia di Moxico, a 1.300 km da Luanda, capitale dell’Angola, e ad appena 100 km dai confini con il Congo Rd. La cittadina è stata fondata nel 1931. Moxico, con i suoi nove comuni, compreso Luacano, ha un’estensione territoriale di 223.023 km2 (circa dieci volte la Lombardia, con un decimo della sua popolazione, ndr). È la provincia dove si sono combattute le ultime fasi della guerra civile. Nel comune di Luacano, dove i Missionari della Consolata sono arrivati nel 2018, oltre a provocare innumerevoli morti, la guerra ha portato la distruzione di infrastrutture, scuole, case e chiese, e ha causato un massiccio esodo di popolazione che ha lasciato il territorio senza insegnanti, infermieri, medici, artigiani e tecnici.

Secondo l’ultimo censimento, nel 2014 Luacano aveva 21.447 abitanti. Considerando un tasso di natalità annuo intorno al 7%, e le difficoltà di registrazione e le incertezze dei documenti, oggi si stima ci siano circa 40mila abitanti. Le principali attività economiche sono la pesca e la coltivazione della manioca. La popolazione è composta da due gruppi etnolinguistici: i Tchokwe e i Luvale, che hanno un profondo patrimonio culturale. Di particolare rilievo sono i «mukanda», i riti di circoncisione per l’iniziazione dei «wali» (giovani), riti che però non comportano la mutilazione genitale femminile.

Le nostre comunità

La parrocchia santa Maria Mãe de Deus di Luacano è nella diocesi di Luena. A servirla siamo in due Missionari della Consolata: insieme a me, lavora padre Bernard Maina Wambui. Ha sette centri sparsi su un’area di 13.573 km2 (grande come la Campania, ndr). Il primo centro è Calomba dove c’è una piccola comunità di cattolici. Sono in tre, tra i quali l’unica donna catechista, la signora Victorina Tumba (Soba), che non sa né leggere né scrivere.

Il secondo è la comunità di Caifuche che vede crescere il numero di fedeli di giorno in giorno. Lì, non c’è ancora un responsabile della comunità che, per ora, è guidata da una piccola commissione di fedeli. Gli incontri di preghiera o la celebrazione della messa avvengono sotto un albero di mango.

Il terzo è la comunità di Lituta. Questa soffre per il fatto che la maggior parte dei suoi membri è analfabeta e molto attaccata alla religione tradizionale.

Il quarto centro è la comunità di Cazanguissa. È quella meglio organizzata di tutta la parrocchia, perché le responsabilità sono condivise, e così riesce anche ad aiutare due comunità vicine (Sambololo e Cualendende). I pochi giovani collaborano nelle attività pratiche e animano il coro. Esiste un gruppo di 48 catecumeni di diverse età che, con il nostro aiuto, è attualmente suddiviso secondo le varie tappe del cammino di iniziazione cristiana. La comunità però non è in grado di autofinanziarsi, in quanto i suoi membri non hanno risorse economiche da condividere, possono offrire solo servizi e lavori concreti.

Il quinto è quello del Lago Dilolo che è stata senza la messa per dieci anni fino all’anno scorso. La vita della comunità è guidata da un piccolo consiglio locale. La maggior parte dei fedeli non è battezzata e per questo abbiamo organizzato insieme un piano di formazione e catechesi.

Il sesto centro è la comunità di Caxita che è quella più lontana da Luacano (200 km). È una comunità vivace guidata da tre catechisti che hanno costruito una cappella in legno ed erba. Questa comunità ha il potenziale per diventare una chiesa forte, ma la sua distanza e le strade dissestate costituiscono una grande sfida per noi.

Il settimo è la comunità parrocchiale di Luacano dove c’è la celebrazione quotidiana della messa, l’adorazione eucaristica settimanale, la disponibilità al sacramento della riconciliazione due volte alla settimana, oltre all’accompagnamento di gruppi e movimenti. Anche il catechismo viene insegnato su base settimanale.

La comunità è divisa in diversi gruppi: bambini, giovani, uomini e donne. Sperimenta anche l’incostanza nella partecipazione a causa del grande movimento di persone verso altre località (Luau e Luena) alla ricerca di pascoli più verdi.

È da notare che i bambini e i giovani sono una parte importante della popolazione e un gran numero di loro non sa né scrivere né leggere, il che rende molto difficile trasmettere qualsiasi formazione religiosa o sociale.

La cappella di Tchinyama a 60 km sud dalla nostra presenza IMC a Luacano Angola

Programma di eradicazione dell’analfabetismo

Per capire meglio la situazione di Luacano, dobbiamo vedere come va in generale il sistema educativo in Angola. Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Istruzione per l’anno 2019@, quasi il 25% della popolazione angolana è analfabeta. Tuttavia, la realtà sul campo è molto varia e non corrisponde alle statistiche ufficiali.

Secondo il servizio della televisione pubblica dell’Angola (Tpa) del 26 marzo 2019, nella provincia di Cuanza Norte, che dista solo 211 km dalla capitale, oltre il 90% degli studenti di prima media non sa né leggere né scrivere. Se quella provincia così vicina a Luanda è in queste condizioni, possiamo immaginare la situazione scolastica in comuni remoti come Luacano.

Infatti, il tasso reale di analfabetismo, secondo le organizzazioni non governative, è del 45-55%, ovvero 13 milioni di angolani dai 15 anni in su@.

Il rapporto Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) sull’Angola degli anni 2014-2018 mostra un tasso del 47% di angolani tra i 5 e i 23 anni che non frequentano la scuola e, tra questi, il 16% non l’ha mai frequentata.

Va notato che in province come Lunda Norte, oltre l’85% della popolazione adulta è analfabeta.

La causa principale di questa drammatica situazione è la lunga guerra civile durata più di 25 anni fino al 2002. Ma, dopo l’accordo di pace, nel paese è emerso un pessimo sistema educativo: scuole senza strutture, senza materiale didattico, e con insegnanti senza un’adeguata preparazione.

Stando così le così, noi missionari della Consolata abbiamo intrapreso un programma di alfabetizzazione in cui educhiamo la gente del posto a leggere e scrivere. Durante la settimana i nostri giovani si incontrano nel pomeriggio per corsi di alfabetizzazione che coinvolgono anche la sensibilizzazione vocazionale. Infatti, da questa attività sono uscite cinque ragazze che studiano in diverse case di suore e cinque giovani entrati nel seminario minore.

visita pastorale alla cappella di san Paolo in Lituta alla distanza di 67km dalla sede parrocchiale

Maternità precoce

Purtroppo è frequente incontrare ragazze di appena 12 anni incinte o sposate. La maggior parte viene da noi chiedendo aiuto, ma con i mezzi limitati che abbiamo possiamo solo incoraggiarle a rimanere positive, mentre nel profondo di noi siamo turbati.

Un pomeriggio, mentre stavo camminando nel villaggio di nome bairro Morango, le nuvole hanno iniziato ad addensarsi e presto ho sentito le prime gocce di pioggia sulla fronte. Mi sono riparato velocemente nella casa più vicina, una capanna dal tetto di erba secca. Entrando, mi sono stupito che nella sua semplicità quella casa fosse in grado di ospitare ben quattordici bambini. Tra di essi c’era una ragazza di 13 anni che allattava un bambino nato da appena due settimane. Il resto dei suoi fratelli non era mai entrato in una scuola. Nessuno sapeva pronunciare una parola portoghese, tutti parlavano solo luvale. Non c’era niente da offrire allo sconosciuto appena entrato in casa: nessuna sedia, niente acqua e, con sorpresa, non c’era nemmeno un piccolo segno dell’imminente pasto per l’intera famiglia.

Più avanti, nella settimana, li abbiamo inclusi nel programma alimentare, ma ancora una volta la sfida principale è l’incapacità di finanziare un programma umanitario così nobile.

Salute

Nel comune di Luacano c’è una struttura sanitaria, ma purtroppo mancano i medici, e il loro laboratorio non ha le attrezzature per far fronte al crescente numero di malattie.

Qui la malaria è comune a causa dei prolungati periodi di piogge e della mancanza di un buon sistema di drenaggio e di fognature. La mancanza di conoscenza dell’igiene di base contribuisce anche a diverse malattie. La maggior parte dei cittadini soffre costantemente di diarrea e vomito. L’assenza di acqua potabile è la causa della maggior parte delle malattie. Per questo, nonostante le nostre ristrettezze economiche, abbiamo contribuito a scavare numerosi pozzi per migliorare il benessere della nostra gente.

In questa situazione ci sono persone che hanno optato per l’assistenza domiciliare, cioè le cure tradizionali.

Il comune di Luacano non ha obitori. All’ospedale comunale e al centro di maternità infantile non c’è mai stata una camera mortuaria, così, quando qualcuno muore, il funerale si fa entro il giorno seguente, prima che il corpo inizi la decomposizione.

Trasporti

La distanza tra Luena, sede della diocesi e capitale della provincia, e Luacano, è un’altra delle difficoltà che tutti hanno. L’unica via di comunicazione esistente è la ferrovia, mentre la strada è in condizioni impossibili. Sono solo 220 km, ma con il treno ci vogliono cinque ore. I treni sono disponibili cinque giorni alla settimana (lunedì, martedì, mercoledì, giovedì e sabato).

Se invece si decide di utilizzare la strada, uno lo fa a suo rischio e pericolo. Le strade hanno due caratteristiche principali: sono molto sabbiose durante il periodo secco e diventano un pantano durante la stagione delle piogge.

Tornando al treno, vale la pena sottolineare alcune sue caratteristiche che lo rendono unico: è un treno con motore alimentato a diesel; c’è un continuo movimento di persone da una carrozza all’altra; ogni stazione in cui si ferma diventa un mercato all’aperto dove si comprano prodotti alimentari (principalmente limoni, pesce ecc.) e dove un gran numero di bambini cercano di venderti di tutto, anche quando ci sono condizioni meteorologiche avverse.

Questa unicità è enfatizzata anche da una natura bellissima e lussureggiante lungo la linea ferroviaria.

Stando così le cose continuiamo a dialogare con le autorità locali affinché intervengano sul mantenimento delle poche infrastrutture di questo meraviglioso paese. Abbiamo con loro ottime relazioni che ci permettono anche di godere di una buona sicurezza, specialmente in previsione di offrire ai nostri amici la possibilità di visitare la missione.

La nostra casa

La nostra casa si trova in un quartiere costruito dal governo locale dopo la guerra. Era stata donata al vescovo di Luena, dom Tirso Blanco (defunto il 22/02/2022).

È una casa semplice con i servizi essenziali e dotata di pannelli solari. A poca distanza c’è un’altra casa conosciuta localmente come la «casa del vescovo», che gli era stata donata dallo stesso comune come sua dimora per le sue le visite pastorali. Questa casa è più ampia ed è a disposizione degli ospiti. Per l’acqua è stato scavato un pozzo che serve egregiamente per le nostre necessità e per quelle dei fedeli quando vengono alla chiesa.

Siamo in un rapporto molto positivo e cordiale con i nostri vicini, bella gente che ha un cuore grande nella propria semplicità e che fa anche buona guardia alla casa quando noi siamo lontani per visitare i centri.

Manioca, cibo di base

La popolazione locale è sempre vissuta dipendendo dalle piogge stagionali e, nella stagione secca, dalle acque raccolte negli stagni naturali. I continui drastici cambiamenti climatici hanno rotto questo equilibrio ed è stato necessario scavare nuovi pozzi per rispondere ai bisogni della gente.

L’alimentazione dipende per il 90% dalla manioca. Foglie di manioca come verdure, steli di manioca come legna da ardere e tuberi di manioca come pasto principale. Con una dieta così limitata, ci sono molti casi di sindrome da insufficienza alimentare soprattutto nei bambini piccoli. L’unica volta che c’è un cambiamento di menù è quando viene cucinato un pesce essiccato della stagione precedente.

Per cambiare questa realtà stiamo iniziando a introdurre altre colture stagionali intercambiabili, come il mais e i fagioli che maturano in un tempo più breve della manioca, la quale impiega un anno intero prima di essere pronta per il consumo.

Sfide

A Luacano bisogna imparare a vivere senza internet, visto che la rete mobile è debole e instabile. In compenso il contatto con la gente del posto è sempre pieno, a ogni ora del giorno.

Anche la nostra mobilità è limitata perché durante la stagione delle piogge (da settembre a marzo) siamo costretti a fermarci nella sede centrale a causa dell’acqua che rende le «strade» impossibili anche con un potente fuoristrada.

Per fare le spese poi, non possiamo contare sull’unico negozio locale. Esso vende i prodotti a un prezzo tre o quattro volte più alto che in città, così bisogna percorrere i 220 km che ci separano da Luena con il treno che parte il pomeriggio alle tre, pernottare in città, comprare il necessario e poi prendere un altro treno per ritornare a casa il giorno dopo alle quattro del mattino. Sono qui a Luacano da meno di un anno. Non era certo nelle mie previsioni essere inviato in un posto così remoto e impegnativo. Ma è una bella sfida per la mia passione missionaria. Ringrazio di cuore tutti quelli che ci sono vicini con la loro preghiera e il loro sostegno.

Martin Mbai Ndumia


Angola

  • 1.246.700 km² di superfice (23° del mondo per estensione)
  • 25.789.024 abitanti nel 2014
  • 35.928.000 abitanti al 23/03/2023, h 15, secondo l’United nations world population prospect.

Paese situato nell’Africa sudoccidentale. Sotto influenza portoghese dal XV secolo, colonia fino al 1951, poi provincia d’oltremare e infine indipendente dal Portogallo l’11 novembre 1975 dopo un’aspra guerra.
Al momento dell’indipendenza il Paese era diviso, da una parte il Movimento popolare di liberazione dell’Angola (Mpla), fondato nel 1956 e appoggiato dall’Urss, dall’altra l’Unione Nazionale per l’Indipendenza totale dell’Angola (Unita) e il Fronte di liberazione nazionale dell’Angola (Flna), più vicini agli Stati Uniti. In gioco c’erano non solo contrasti etnici e interni, ma anche il controllo delle ricche risorse (petrolio e diamanti in particolare) del Paese. Iniziò così la guerra civile che sarebbe durata fino al 2002.

La guerra ha devastato le infrastrutture e danneggiato gravemente la pubblica amministrazione, l’economia e le istituzioni religiose.

È importante notare che i 27 anni di guerra civile in Angola hanno lasciato milioni di famiglie alla fame, altre sono state costrette a fuggire dalle loro case nei paesi vicini, Congo e Zambia, e oltre 100mila bambini sono stati separati dalle loro famiglie.

Quando i combattimenti sono terminati nel 2002, mine antiuomo ed esplosivi erano disseminati ovunque in campi,
villaggi e città, e hanno continuato a uccidere e ferire migliaia di persone. Le vittime delle mine antiuomo non ricevono alcun sostegno dal governo.

M.M.N.


LA RELIGIONE

La popolazione dell’Angola è prevalentemente cristiana. Non esistono statistiche accurate sull’argomento. La maggioranza è cattolica, circa il 20% è protestante di varie denominazioni e gli altri aderiscono a credenze tradizionali. Solo una piccola percentuale (forse il 2%) aderisce all’Islam o ad altre religioni. I cattolici sono più numerosi nella regione costiera occidentale densamente popolata. La Chiesa cattolica continua a svolgere un ruolo importante nel fornire istruzione al popolo dell’Angola. Il Paese ha attualmente cinque arcidiocesi e 19 diocesi: Huambo (diocesi di Huambo, Benguela, Kwito-Bié), Luanda (Luanda, Cabinda, Caxito, Mbanza Congo, Sumbe, Viana), Lubango (Lubango, Menongue, Ondjiva, Namibe), Malanje (Malanje, Ndalatando, Uije) e Saurimo (Saurimo, Dundo, Lwena). La nostra diocesi, Lwena, dopo la morte del salesiano dom Tirso Blanco il 22/02/2022, è in attesa della nomina di un nuovo vescovo Si stima che il 47% della popolazione angolana, soprattutto nelle aree rurali, pratichi varie forme di religioni indigene. Anche molte persone che professano il cristianesimo, si trovano ancora attaccate ad aspetti delle pratiche e delle credenze religiose tradizionali.

M.M.N.


Archivio MC




Sommario MC Maggio 2023

La rivista è online dal 14 maggio.


Editoriale

Cuore e verità

Le cifre parlano: 58 giornalisti uccisi nel 2022, 48 scomparsi, 65 trattenuti in ostaggio, 533 incarcerati, di cui 110 in Cina, 47 in Iran, e 169 giornalisti fermati, arrestati, inda­gati o sotto processo in Russia dall’inizio della guerra. Quasi quasi fare il giornalista è più pericoloso che fare il missionario. Un «mestiere», quest’ultimo, che ha il suo bel numero di vittime, come ricordato il 24 marzo scorso nella «giornata dei martiri»: 18 nel 2022, 22 l’anno prima, 20 nel 2020, con il record di ben 40 nel 2018, senza contare quelli «scomparsi», come padre Paolo Dall’Oglio in Siria nel luglio 2013.

Il 3 maggio ricorre la «giornata mondiale della libertà di stampa» proclamata dall’Onu, e il 21 la «giornata mondiale delle comunicazioni sociali», celebrata dalla Chiesa ne mondo, per la quale papa Francesco ha proposto il tema «Parlare col cuore. Secondo verità nella carità (Ef 4,15)».


Dossier

Parola di re

Marocco: successi e debolezze.
Viaggio nel paese maghrebino.
Dio, nazione, re

Nonostante i progressi e la presenza di un islam relati­vamente moderato, il Marocco rimane un paese con gravi problemi sociali e strutturali. Tra cui un’agricoltura molto arretrata, un elevato tasso di disoccupazione giovanile e una dinamica politica limitata. Tutte le decisioni essenziali rimangono nelle mani di una sola persona, re Mohammed VI.


Articoli

Il Papa in Sud Sudan.
È il tempo dei fatti

Dopo il Congo, papa Francesco è andato in Sud Sudan, insieme all’incaricato della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields, e all’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. Un viaggio progettato da tempo, ma che era stato rimandato per motivi di sicurezza. Monsignor Carlassare, comboniano, vescovo di Rumbek, ci racconta le sue impressioni.

(Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Dadaab. Il campo profughi più grande d’Africa.
La città dei tendoni

Da 32 anni è una città fatta di ripari di fortuna, in mezzo al deserto. Ci abitano 350mila persone, e gli arrivi continuano. Intanto la guerra in Europa ha dirottato in Ucraina parte delle risorse. Alcune Ong e agenzie Onu continuano a dare assistenza a una popolazione (di rifugiati) che non può farcela da sola.

Il gruppo «donne di parola» si racconta in un libro
Donne che scrivono la storia

Cosa accade quando le vicende della gente comune si incontrano con la grande Storia? Ce lo illustrano le autrici de «Le storie siamo noi». Una preziosa operazione di riscatto della memoria e della tradizione orale, in cui emerge il ruolo di avanguardia delle donne, protagoniste spesso dimenticate.

Popoli indigeni e missionari
Mai fare tabula rasa

Un missionario racconta come è cambiata la propria percezione delle popolazioni autoctone. Un nuovo atteggiamento che ha dato buoni frutti. Per esempio, con il popolo dei Nasa, in Colombia, nella regione del Cauca, dove l’Imc è presente da quasi quarant’anni.

L’ecocolonialismo della transizione energetica
Idrogeno in Amazzonia

Una centrale elettrica a idrogeno nel cuore della foresta pluviale guianese. In nome della transizione energetica si rischia di devastare l’ambiente e uccidere l’identità originaria dei popoli indigeni.

 

Una guerra d’occupazione: il dramma degli sfollati
Nord Kivu senza pace

Nell’est del secondo paese africano per superficie, tra i più ricchi di risorse, imperversano gruppi armati sostenuti da paesi confinanti. Gli stessi sono alleati della Rdc a livello regionale. Le contraddizioni sono forti. Come pure non si spiega la presenza della missione Onu per la pace che in 23 anni non ha dato risultati. Ce ne parla un attivista per i diritti umani di Goma.

Luacano, ricostruire dalle macerie della guerra
Gocce di speranza

I Missionari della Consolata sono arrivati nel 2018 a Luacano, diocesi di Luena nella provincia di Moxico. Proprio nella regione dove, sedici anni prima, aveva avuto i suoi momenti conclusivi la guerra civile che ha stravolto la vita del paese dal 1975 al 2002 lasciando pesanti distruzioni e numerosi campi minati.

 


Rubriche

Noi e Voi

Nonviolenza e guerra in Ucraina

Pubblichiamo lo scambio di mail tra un nostro lettore e Pasquale Pugliese, autore dell’arti­colo «La guerra dei sonnambuli» uscito su MC di gennaio. Ringraziamo i due per averlo condiviso con noi e i nostri lettori.

Sudafricano con i sudafricani

L’annuncio della scomparsa, il 14 marzo 2023, di padre Rocco Marra ha portato una grande nube di tristezza su molti, sia missionari che laici nella delegazione (il gruppo dei 25 missionari della Consolata, ndr) del Sudafrica/eSwatini.

Una rivista che parli a tutti

Scrivo queste righe a lei perché da sempre, non da oggi, ho apprezzato lo spessore educativo della rivista. […] In conclusione, MC ha uno spessore di contenuto morale educativo molto elevato.

Nell’agenda di Gianni

La sua rubrica esordì su MC nel dicembre del 2015 con un titolo azzeccatissimo: «Persone che cono­sco». Perché Gianni Minà, scomparso lo scorso 27 marzo, conosceva tutti, ma proprio tutti. Famosa al riguardo è rimasta la battuta di Massimo Troisi: «Invidio quest’uomo per la sua agendina telefonica», disse l’attore napoletano.

E la chiamano economia

Popolazione e ambiente

In questa seconda puntata dedicata al tema demografico, affrontiamo le relazioni tra crescita della popola­zione e impatti sull’ambiente. Con una evidenza: i poveri hanno molti più figli, ma la loro responsabilità sulla crisi ecologica è inferiore a quella dei ricchi.

Camminatori di speranza /5

Mosè, in faccia a Dio

Ci sono personaggi biblici che ci costringono a spiegare chi sono, per quale motivo sono importanti e dove andarli a rintracciare. Altri, invece, sono molto conosciuti e si ergono in tutta la loro maestosità spaventandoci quasi per quanto sono solenni e centrali. Tra questi spicca senza dubbio Mosè, colui che parlava faccia a faccia con Dio come con un amico (Es 33,11), colui che può riassumere in sé tutta la legge («Mosè e i profeti» è una sintesi dell’Antico Testamento utilizzata dallo stesso Gesù in Lc 16,29).

Cooperando

Freddy, un ciclone lungo un mese

Il ciclone Freddy ha colpito Malawi, Mozambico e Madagascar tra febbraio e marzo, e ha causato centinaia di vittime, travolto case e inondato campi. Ma ha anche distrutto centri sanitari e sistemi idrici in paesi che già erano in grande difficoltà a causa di un’epidemia di colera.

Amico

Un gemito inesprimibile

Com’è possibile sperare ancora, Signore? Ci guardiamo attorno e vediamo l’intera creazione che geme e soffre le doglie del parto. E insieme a essa, gemiamo anche noi (Rm 8). Cosa sperare ancora, in questo tempo che pare uccidere il futuro? Su questa Terra scossa da crisi ambientali, pandemie, conflitti armati, disastri naturali, carestie di umanità?

Possiamo attenderci ancora la salvezza? Una qualsiasi salvezza?
Il mondo attende la rivelazione dei figli di Dio. Ma cosa riveleranno?
Ci salveranno dalla morte? Saranno in grado di guarire le ferite che da troppo tempo aspettano di essere rimarginate? Oppure ci chiederanno di rassegnarci, in attesa dell’aldilà?

Librarsi

Un libro sulla filiera dei container
Le frontiere del mondo

Ogni giorno, 400 milioni di container attraversano il globo. Carichi di tutte le merci lecite (come ananas, o scarpe) e illecite (come droghe, o armi), per essi non esistono frontiere. Se si vuole capirne qualcosa, si trovano muri, filo spinato e, a volte, militari armati.




Malaria: meglio, ma non basta


Il 25 aprile è la giornata mondiale della malaria, malattia che, nei primi due mesi del 2023, ha già provocato la morte di circa 65mila persone. La pandemia da Covid-19 ha peggiorato le cose ma, anche dopo il ritorno dei servizi sanitari alla normalità, il mondo rischia di mancare l’obiettivo che si era dato per il 2030: ridurre i casi di malaria dagli attuali 60 a 6 ogni mille persone a rischio.

Secondo l’ultimo rapporto sulla malaria dell’Organizzazione mondiale della sanità, i decessi causati da questa malattia nel mondo non sono aumentati nell’ultimo anno considerato (2021): sono anzi diminuiti a circa 619mila, contro i 624mila del 2020@.

Il risultato non era scontato, perché la pandemia da Covid-19 ha determinato fra il 2020 e il 2021 l’interruzione di servizi di diagnosi, cura e prevenzione contro l’infezione, facendo tornare i decessi ai livelli del 2012, e interrompendo così un ventennio di decremento quasi ininterrotto che aveva visto il suo dato migliore nel 2018, anno in cui morirono per questa malattia poco meno di 567mila persone.

I casi di malaria, si legge ancora nel rapporto, sono continuati ad aumentare tra il 2020 e il 2021, anche se a un ritmo molto più lento rispetto al 2019-2020 e si sono attestati a circa 247 milioni nel 2021, rispetto ai 245 milioni nel 2020 e ai 232 milioni nel 2019.

Quasi la metà delle infezioni sono avvenute in soli quattro paesi: Nigeria (26,6%), Repubblica democratica del Congo (12,3%), Uganda (5,1%) e Mozambico (4,1%). Sempre quattro paesi hanno avuto poco più della metà delle morti per malaria a livello globale: ogni cento decessi, 31 sono avvenuti in Nigeria, 13 in Congo Rd, 4 in Tanzania e altrettanti in Niger.

Dei decessi globali fra i bambini di età inferiore ai 5 anni, 2 su 5 sono avvenuti in Nigeria.

A causare la malaria è un parassita trasmesso attraverso la puntura di zanzare del genere Anopheles (vedi box sul fondo). Un motivo di preoccupazione che il rapporto Oms segnala è la diffusione anche in Africa, negli ultimi dieci anni, della Anopheles stephensi, zanzara capace di adattarsi e diffondersi nei contesti urbani. Originaria dell’Asia meridionale e della penisola arabica, è in grado di trasmettere sia i parassiti P. falciparum che P. vivax e ed è resistente a molti degli insetticidi utilizzati nella prevenzione della malaria.

da www.paginemediche.it

Covid e cambiamento climatico

Secondo il rapporto dell’Oms, le interruzioni dei servizi essenziali contro la malaria durante la pandemia di Covid-19 hanno riguardato soprattutto la distribuzione delle zanzariere trattate con insetticida e il numero di diagnosi e di trattamenti della malattia.

Nel 2020, nei 46 paesi nei quali erano state pianificate campagne di distribuzione, i sistemi sanitari nazionali e i loro partner sono riusciti a distribuire solo poco più di 200 milioni di reti protettive contro i 270 milioni previsti.
In Congo Rd, Eritrea e India, la percentuale non ha raggiunto il 60%; in Kenya non ha superato il 2%, mentre Costa d’Avorio e eSwatini non hanno effettuato alcuna distribuzione.

Nel 2021, i paesi che avevano in programma tali distribuzioni erano 43 e le zanzariere da distribuire 171 milioni. Ne sono state distribuite 128 milioni, cioè solo tre quarti: otto paesi non hanno raggiunto il 60% (Benin, Eritrea, Indonesia, Nigeria, Isole Salomone, Thailandia, Uganda e Vanuatu) e sette paesi (Botswana, Repubblica Centrafricana, Ciad, Haiti, India, Pakistan e Sierra Leone) non hanno distribuito nessuna delle zanzariere previste.

Quanto alle mancate diagnosi, se nel 2018 e 2019 i test effettuati nei paesi dove la malaria è endemica erano stati rispettivamente 392 e 450 milioni, nel 2020 sono diminuiti a 398 milioni e nel 2021 si sono fermanti a 435.

Il calo registrato nel 2020, precisa il rapporto, è stato dovuto principalmente al minor numero di test effettuati nella regione africana (10,5 milioni in meno) e nella regione del sud est asiatico (38 milioni in meno, di cui 37 milioni in India).

Un altro elemento di preoccupazione, rileva il rapporto, è l’effetto potenziale del cambiamento climatico sulla diffusione della malattia. «Nonostante le incertezze su come inciderà sulla malaria, è certo che il cambiamento climatico avrà un effetto sulla distribuzione geografica e sull’intensità e stagionalità delle malattie trasportate da un vettore», come appunto le zanzare.

Lo scorso febbraio, il New York Times riportava uno studio realizzato dagli studiosi del «Centro per le scienze della salute globale e della sicurezza» dell’Università di Georgetown, negli Stati Uniti, secondo il quale «nel secolo scorso le zanzare che trasmettono la malaria nell’Africa subsahariana si sono spostate ad altitudini più elevate di circa 6,5 metri all’anno e si sono allontanate dall’Equatore di 4,7 chilometri all’anno»@.

Un ecologo dell’università della California a Los Angeles, intervistato nell’articolo, ha sottolineato l’importanza di raccogliere dati per capire esattamente come e quanto velocemente le zanzare e altri animali portatori di malattie si stiano muovendo nel mondo. Ci si aspetta che i climi più caldi siano vantaggiosi per le zanzare perché esse, così come i parassiti che trasportano si riproducono più velocemente a temperature più elevate.

© Yofre Morales – disinfestazione contro malaria

Malaria e anemia, la banca del sangue di Dianra

La malaria porta con sé diverse complicanze, che sono più gravi nei bambini e neonati, nelle donne incinte e nelle persone anziane. Fra queste c’è l’ipoglicemia, una riduzione patologica dei livelli di glucosio nel sangue, che dà sintomi come sudorazione, tremori, debolezza e, quando è grave, anche confusione, convulsioni e coma@.

C’è poi l’anemia che si manifesta perché il parassita invade i globuli rossi per riprodursi e ne provoca la distruzione. Nei casi di anemia grave, spiega il dottor Stéphane Gnanago – medico del centro di salute Joseph Allamano gestito dai Missionari della Consolata a Dianra, in Costa d’Avorio – la distruzione dei globuli rossi determina un ridotto «apporto di ossigeno agli organi e ai muscoli e può portare a insufficienza respiratoria, collasso cardiocircolatorio e arresto cardiaco». In contesti come quello di Dianra, uno dei motivi dell’aggravarsi degli effetti della malaria, come l’anemia, è la reazione tardiva da parte dei pazienti: «Le famiglie portano i bambini al centro di salute solo all’ultimo minuto», spiega il dottor Gnanago, «dopo aver tentato di curarli con rimedi tradizionali. E quando arrivano qui, i bambini sono già in condizioni gravi».

Il programma nazionale di lotta alla malaria in Costa d’Avorio, commenta padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata responsabile del centro di salute di Dianra, fornisce test e trattamenti per la malaria in modo gratuito. Ma se i pazienti aspettano troppo prima di andare al centro, le terapie di base non sono più sufficienti. Per questo, continua padre Matteo, «avere a disposizione le sacche di sangue e poter effettuare trasfusioni ci permette di salvare vite: delle 579 sacche di sangue di cui il nostro centro ha potuto disporre nel 2022, solo 9 sono state usate per le donne ricoverate in maternità mentre 570 sono andate ai pazienti del dispensario. Di queste, 556 sono state usate per curare bambini in anemia severa: un’enormità».

© AfMC / Dianrà, Costa D’Avorio

Neisu, ordinaria emergenza

Nel 2021 l’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Repubblica democratica del Congo, ha effettuato 2.778 test per la malaria, una media di oltre 7 al giorno. La malattia è risultata la prima voce fra le patologie diagnosticate sia in consultazione esterna – 2.482 casi su 4.885 pazienti, il 50,8% dei pazienti visitati – che in medicina interna: 220 pazienti ricoverati su 1.139, il 19%, dati 2021.

In pediatria, la malaria grave e la malaria grave anemica sono di gran lunga la principale causa di ricovero, con, rispettivamente, 732 casi (il 34%) e 520 (24%) su 2.155 bambini ospedalizzati. Su 30 bambini deceduti in pediatria nel 2021, per due la causa è stata la malaria grave e per 15 la malaria anemica grave. Circa tre donne su dieci fra quelle accolte in maternità avevano la malaria.

«L’ospedale», spiega il responsabile Ivo Lazzaroni, missionario laico della Consolata, «è integrato nella sanità pubblica congolese dal 2007, e aderisce ai programmi di prevenzione del sistema sanitario nazionale.

Ogni mese, i 12 infermieri titolari degli altrettanti centri di salute sul territorio vanno a Isiro, capoluogo della provincia dell’Alto Uélé, consegnano i dati sulla malaria e sulle altre patologie monitorate ai funzionari della zona di salute (zone de santé, in francese, articolazione territoriale del Ssn congolese, ndr) e ricevono zanzariere e farmaci (ad esempio il Coartem, a base di artemisina) da portare a Neisu per l’ospedale e i centri».

Le zanzariere sono destinate alle donne incinte, che le ricevono nel corso delle formazioni loro offerte durante le consultazioni prenatali, in cui le ostetriche spiegano alle donne che questi oggetti «non devono venire regalati ai bambini per farci le reti delle porte di calcio», scherza Ivo, «ma sono fondamentali per la loro salute».

E queste formazioni purtroppo non bastano: «Anche noi – spiega Ivo – siamo alle prese, come Matteo, con famiglie che vengono molto tardi a portare i bambini in anemia severa. Purtroppo non abbiamo l’autorizzazione dalla zone de santé a fare le trasfusioni direttamente nei centri e posti periferici, quindi le donne devono portare il bambino all’ospedale. Ma le distanze sono grandi: il nostro centre de santé più lontano è a oltre 60 chilometri dall’ospedale e non è facile per queste madri trovare un passaggio in moto per venire di corsa. Per questo accade a volte che il bambino muoia nel tragitto o poco dopo l’arrivo in ospedale».

Ikonda, restare comunque in guardia

«Qui nella regione di Njombe la malaria non è endemica», spiega padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, in Tanzania. «I pochi pazienti che abbiamo affetti da questa malattia vengono dalle zone calde, soprattutto da Mbeya e Morogoro. L’anno scorso abbiamo fatto il test a 4.660 pazienti e solo 134 sono risultati positivi», meno del 3%. «Ora che ci troviamo nella stagione delle piogge», continua padre Marco, «solo il mese scorso abbiamo avuto 14 casi: è una malattia molto legata a fattori climatici».

Non essendo Njombe una regione endemica, spesso il problema viene sottovalutato: «Si pensa prima ad altre malattie, poi, se la febbre non passa, si considera anche l’ipotesi di malaria. A volte invece non ci si fida dei test e, in presenza di sintomi compatibili vengono somministrate le terapie. Di recente abbiamo avuto un paziente con una patologia polmonare proveniente da questa regione. All’inizio non si è pensato alla malaria, poi invece è risultato positivo. Ora è guarito».

© AfMC – prelievo di sangue per test malaria al Catrimani, Roraima, Brasile

Aumento dei casi in Amazzonia

La malaria è fra le malattie protagoniste anche del peggioramento delle condizioni di vita del popolo indigeno yanomami, che vive nell’Amazzonia brasiliana e con il quale i Missionari della Consolata lavorano da metà degli anni Sessanta. Durante un’intervista con un’emittente televisiva brasiliana@ padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata che lavora nella missione di Catrimani, nella Terra indigena yanomami da quindici anni, ha ricordato che «nel 2022 si sono registrati 21mila casi di malaria fra gli indigeni yanomami, e l’anno prima erano circa 20mila. Ma nel 2013-2014 i casi erano duemila: sono decuplicati. E alla malaria vanno aggiunte le malattie respiratorie e gastrointestinali».

Fattori responsabili di questa emergenza sanitaria, così definita lo scorso 20 gennaio dal nuovo governo basiliano guidato da
Inacio Lula da Silva, sono l’invasione delle terre indigene da parte dei cercatori d’oro e la corruzione, che ha distratto le risorse finanziarie destinate ai servizi sanitari per le terre indigene: entrambi fenomeni favoriti dal disinteresse e dall’aperta ostilità del governo di Jair Bolsonaro nei confronti delle comunità originarie dell’Amazzonia brasiliana.

Chiara Giovetti

© AfMC / Trasfusioni di sangue a bambini affetti da conseguenze della malaria


Che cos’è la malaria e come la affrontiamo

La malaria è una malattia umana febbrile acuta causata dal parassita Plasmodium che viene trasmesso attraverso le punture delle zanzare femmine infette del genere Anopheles. Due delle cinque specie di plasmodi responsabili della malaria sono particolarmente pericolose: Plasmodium falciparum, il parassita che causa più morti e anche il più diffuso nel continente africano, e Plasmodium vivax, la specie dominante nella maggior parte dei paesi al di fuori dell’Africa subsahariana.

I primi sintomi – febbre, mal di testa e brividi – di solito compaiono da 10 a 15 giorni dopo la puntura infetta; possono essere lievi e per questo difficili da riconoscere. Senza trattamento, la malaria da P. falciparum può progredire in malattia grave o perfino causare la morte entro 24 ore.

La diagnosi avviene con l’individuazione al microscopio dei parassiti nel sangue del paziente (la cosiddetta goccia spessa) oppure, ove il microscopio non sia disponibile, attraverso test antigenici rapidi, che individuano appunto un antigene, cioè una sostanza estranea al nostro organismo – in questo caso una specifica proteina – prodotta dal parassita nel nostro sangue.

La prevenzione avviene attraverso la profilassi comportamentale, che mira a evitare il contatto con la zanzara vettore del parassita e che si basa sull’utilizzo di zanzariere trattate con insetticida e di insetticidi da spruzzare negli ambienti. C’è poi la profilassi con farmaci antimalarici, che prevede l’assunzione di un ciclo completo di questi farmaci nei momenti di maggiore esposizione al rischio di contrarre la malattia, che si sia o meno già infetti.

Infine, dall’ottobre 2021, l’Oms ha anche raccomandato l’uso del vaccino contro la malaria Rts, S/AS01 per i bambini nelle aree con trasmissione da moderata ad alta della malaria da P. falciparum. La prima parte della sperimentazione di fase 3 (2009-2014) del vaccino ha mostrato una diminuzione di oltre la metà dei casi di malaria nel primo anno dopo la vaccinazione e una riduzione del 40% nei 4 anni successivi. Nella seconda parte della sperimentazione di fase 3 (2017-2020) i partecipanti hanno ricevuto il vaccino appena prima del picco della stagione della malaria: la sua efficacia nel prevenire la malattia è stata intorno al 75%.

Il miglior trattamento disponibile indicato dall’Oms, in particolare per la malaria da P. falciparum, è la terapia combinata a base di artemisinina (Act). Altri principi attivi usati sono la clorochina, la meflochina e numerosi altri di cui l’Oms tiene una lista aggiornata nella quale indica anche quali sono consigliati nelle diverse regioni del mondo.

I motivi di preoccupazione relativi alla malaria – resistenze delle zanzare agli insetticidi e del parassita ai principi attivi nelle terapie, mutazioni genetiche nel parassita che inficiano l’affidabilità dei test e la diffusione delle zanzare Anopheles in zone in cui non erano presenti – sono monitorati dall’Oms e consultabili nella «mappa delle minacce»@.

Chi.Gio.

Fonte: Oms

 

 




Otto miliardi


Questa è la soglia superata dalla popolazione mondiale lo scorso novembre. Un dato che va interpretato visto che nei paesi occidentali il numero si sta contraendo, mentre in quelli africani sta aumentando. Con importanti ricadute a tutti i livelli.

Non si conosce se si sia trattato di un nastro rosa o celeste, né su quale porta sia stato appeso, ma le Nazioni Unite sostengono che il 18 novembre 2022, da qualche parte nel mondo, c’è stata una nuova nascita che ha portato la popolazione globale oltre la soglia degli otto miliardi.

La popolazione cresce quando le nascite superano le morti, ma questo risultato può essere ottenuto attraverso una varietà di combinazioni che condizionano fortemente l’età media dei cittadini. Ad esempio, dove l’alto tasso di natalità convive con un alto tasso di mortalità degli adulti, la crescita della popolazione è caratterizzata da un’età media bassa: la popolazione è più giovane (come accade in gran parte dei paesi africani). Se, al contrario, la crescita è caratterizzata da una bassa natalità che si accompagna a una mortalità altrettanto bassa degli adulti, è probabile una prevalenza di popolazione adulta e anziana (come accade, ad esempio, in Italia).

Queste differenze si fanno sentire sul piano economico perché l’età condiziona la capacità di lavoro e, quindi, di produzione.

Storia della popolazione

Nel mondo, la popolazione ha cominciato a crescere in maniera significativa nel 1800 a partire dall’Europa.

Oltre a un’alta natalità (una media di 4 figli per donna feconda), varie altre ragioni hanno contribuito al fenomeno: una migliore alimentazione, città più pulite grazie alla costruzione di sistemi fognari più moderni, scoperte mediche e farmaceutiche che hanno iniziato a limitare la mortalità infantile e adulta. Si calcola che, fra il 1800 e il 1850, la popolazione europea sia passata da 187 a 266 milioni di abitanti, un aumento del 42% che ha fatto parlare di rivoluzione demografica. La crescita demografica, però, non è stata accompagnata da un’uguale crescita di posti di lavoro. Di conseguenza, sono stati tantissimi coloro che hanno scelto di cercare miglior fortuna all’estero. In totale, si stima che, fra il 1800 e il 1930, i migranti europei siano stati 60 milioni, soprattutto verso le Americhe e l’Oceania.

Intorno al 1910 la popolazione europea o di origine europea (includendo Stati Uniti, Canada, Oceania e anche paesi latino-americani di forte immigrazione, come l’Argentina) rappresentava più di un terzo di quella mondiale (contro il 20 per cento di un secolo prima), e cresceva più rapidamente di quella del resto del mondo. Ma poi la corsa è rallentata e, pur con un breve sussulto negli anni Sessanta (conosciuto come «baby boom»), il numero di nascite per donne feconde (tasso di fertilità) è sceso sotto il due: un livello cioè che porta la popolazione a contrarsi.

Nel frattempo, la popolazione stava cominciando a crescere nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo: pratiche come la bollitura dell’acqua, le vaccinazioni e le disinfestazioni con il Ddt nelle regioni malariche, riducevano la mortalità, mentre la natalità rimaneva a livelli sostenuti. Basti dire che nel 1950, in Rwanda, Kenya, Filippine, la media di figli per donna fertile era superiore a sette, mentre in Cina e India era attorno a sei. Fatto sta che, fra il 1950 e il 1987, la popolazione mondiale è raddoppiata passando da 2,5 a 5 miliardi di individui. Un raddoppio in 37 anni non si era mai visto nella storia dell’umanità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Eberhard Grossgasteiger – Unsplash.

Il caso Cina

Dopo il 1987 la popolazione mondiale ha continuato a crescere, ma non allo stesso ritmo perché il tasso di natalità si è ridotto quasi ovunque. A ogni latitudine, ma per ragioni diverse: dove per il diverso ruolo sociale conquistato dalle donne; dove per la maggiore istruzione che ha permesso a esse di avere un maggiore controllo del proprio corpo; dove per la promozione massiccia di anticoncezionali; dove, ad esempio in India, per l’istituzione di premi per tutti coloro che accettavano di sottoporsi a sterilizzazione; dove per il divieto alle coppie di oltrepassare un determinato numero di figli.

Quest’ultima pratica è stata assunta in particolare in Cina nel 1980 quando Deng Xiaoping ha proibito alle coppie di avere più di un figlio. Chi trasgrediva la regola rischiava di perdere il posto di lavoro e di pagare multe esorbitanti. Si poteva addirittura arrivare all’assurdo che il secondo o il terzo figlio non potesse essere registrato all’anagrafe condannando i malcapitati a non avere nessun riconoscimento sociale.

Nel 2015 la regola del figlio unico è stata tolta tornando a quella di due figli che era in vigore durante gli anni Settanta. Poi, nel maggio 2021, è stato addirittura introdotto il permesso di avere fino a tre figli. Troppo tardi. Nel 2022 la popolazione cinese è calata di circa 850mila persone. Secondo le Nazioni Unite, se dovesse persistere la tendenza alla perdita di popolazione, la Cina passerebbe dagli attuali 1,4 miliardi di abitanti a 1,2 nel 2050 e scenderebbe sotto il miliardo entro il 2075. Stando così le cose, già nel corso di questo 2023, l’India dovrebbe sorpassare Pechino come nazione più popolosa del pianeta. Nel frattempo, la Cina è diventato il paese con il più alto numero di anziani: nel 2019 le persone oltre sessanta anni erano 254 milioni; nel 2040  si prevede che saranno 402, il 28% dell’intera popolazione. Con gravi ripercussioni per il sistema economico: la riduzione del numero di persone in età lavorativa potrebbe provocare un calo della produzione, un aumento del costo del lavoro e una crescita vertiginosa della spesa sanitaria e sociale per l’assistenza ai più anziani.

Il caso africano

A livello mondiale il tasso medio di fertilità è di 2,4 figli per donna fertile, appena sopra il 2,1, detto «tasso di conservazione», perché considerato il livello minimo utile a impedire alla popolazione di contrarsi. Ma moltissime nazioni sono ormai sotto questa soglia. In Italia, ad esempio, siamo a 1,24, in Spagna a 1,23, in Corea del Sud addirittura a 0,85. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione di 61 nazioni si ridurrà di almeno l’1% fra il 2022 e il 2050.

Gli unici paesi in controtendenza sono quelli più poveri, soprattutto dell’Africa, continente con un tasso medio di fertilità di 4,3, lo stesso che avevamo in Europa nel 1800.

Secondo i dati della Banca mondiale, relativi al 2020, il primato spetta al Niger con 6,9 nascite per donna fertile. Seguono la Somalia con 6,4, la Repubblica Democratica del Congo con 6,2, il Mali con 6, l’Angola con 5,4, la Nigeria con 5,3. In conclusione, l’Africa subsahariana è l’area del mondo con il più alto tasso di crescita demografica, tanto da aspettarsi un raddoppio entro il 2040, passando da 1,1 a 2,1 miliardi di persone.

Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a raggiungere 10,4 miliardi nel 2100, poi dovrebbe stabilizzarsi o addirittura diminuire. Ma continuare a trattare il tema della popolazione mondiale come un tutt’uno non ci dà il vero quadro della situazione. In effetti in tema di popolazione il mondo va diviso in tre fasce: quella a rapida crescita demografica, quella a modesta crescita, quella a crescita zero o negativa. Ognuna di esse presenta i propri problemi e le proprie specificità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Sam Chen – Pixabay.

Paesi in denatalità

Nel 2021 si sono contati una quarantina di paesi con crescita negativa, guidati dalla Lituania che ha subito una riduzione demografica dell’1,19%. Fra essi compare anche l’Italia che nel 2021 ha avuto un calo complessivo di residenti dello 0,3% rispetto al 2020. Già nel 2008 il Parlamento europeo aveva lanciato grida di allarme precisando che la denatalità avrebbe voluto dire invecchiamento della popolazione, meno persone al lavoro e quindi meno soldi per sanità e previdenza sociale a causa delle minori entrate fiscali.

Nel 2021 gli over 65 in Italia erano 13,9 milioni e rappresentavano il 23,5% della popolazione totale. Nel 2050 la loro quota è attesa al 34,9%, e c’è chi trema pensando alle difficoltà che ci attendono. Una popolazione di vecchi non può badare a se stessa: senza un’adeguata base di giovani disposta a farsene carico è destinata a soccombere sotto il peso degli enormi bisogni economici, sociali, sanitari, assistenziali.

Nella situazione opposta si trova l’Africa con tre quarti della popolazione al di sotto dei 35 anni, 900 milioni di individui. Quasi metà di loro, 35% dei residenti, è in età da lavoro collocandosi fra i 15 e i 35 anni. E, tuttavia, un terzo dei giovani africani è disoccupato e un altro terzo sottoccupato. Solo il 17% ha un lavoro salariato regolare, ed è lontana la prospettiva che questa quota possa crescere. Ogni anno in Africa il mercato del lavoro vede l’ingresso di 10-12 milioni di nuovi giovani, ma l’offerta di nuovi posti non supera i 3 milioni. Di questo passo, avverte la Banca per lo sviluppo africano, nel 2025 i giovani africani senza alcuna prospettiva di lavoro saranno 263 milioni. Situazione destinata ad aggravarsi considerato che, nel 2050, le persone fra i 15 e i 35 anni in Africa sono attese a 850 milioni. In conclusione, l’unica prospettiva di vita per molti giovani africani è la migrazione, principalmente dalle campagne verso le città e dai paesi africani a più bassa capacità produttiva verso quelli a maggiore capacità produttiva. Già oggi 19 milioni di africani si trovano in un paese del continente diverso da quello di nascita. Ma altri 17 milioni si trovano in continenti diversi dall’Africa.

Il ruolo delle migrazioni

Considerato che il mondo è formato da aree con una penuria di giovani e altre con un eccesso,  sarebbe interesse di tutti un riequilibrio attraverso una maggiore libertà di movimento delle persone. I paesi che stanno invecchiando potrebbero ringiovanirsi e i paesi con molti giovani potrebbero migliorare la propria economia tramite le rimesse degli emigranti. Ma in Europa, e in particolare in Italia, solo pochi hanno messo a fuoco che questa è la strada da battere. Fra essi Tito Boeri che, da presidente dell’Inps, non ha perso occasione per ricordarci il ruolo insostituibile dei migranti: senza i due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che pagano le tasse e versano i contributi, il sistema previdenziale italiano non ce la farebbe. Chi invece sembra non averlo capito è la politica che pure avrebbe il compito di individuare i problemi e trovare le soluzioni. Il fatto è che i fenomeni si mettono in moto da soli, e quando la politica li intercetta, spesso succede che invece di gestirli in un’ottica di bene comune li cavalca per fini elettorali. Paradossi della democrazia.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

Siamo in otto miliardi. Foto di Humberto Chavez – Unsplash.