IMC Venezuela 50: nelle periferie urbane

Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale. La città di Caracas sorge al fondo di una valle, ed è circondata da baraccopoli, chiamate «barrios» o «barriadas»: terreno favorevole per i politici di turno che soffiano sul fuoco dell’emarginazione e della povertà.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Nei «barrios» di Caracas

Periferia esistenziale

Santiago de León de los Carácas (San Giacomo di León dei Carácas), così era stata battezzata dagli spagnoli questa terra abitata dagli indigeni carácas. La città, che oggi conta circa due milioni di abitanti, si distende al fondo di una valle a forma di Y, circondata da cerros (montagne) scoscese e franose. A chi viene da fuori, scendendo dalle pendici delle Ande della costa, e guardando dall’alto, la città appare trapuntata di palazzi e grattacieli, strade, piazze e giardini. Una moderna metropoli sudamericana.

Attraversandola, invece, percorrendo l’Autopista dell’Est che scorre al fondo della valle lungo tutto l’asse longitudinale della città, la visione ravvicinata è radicalmente diversa: ciò che colpisce l’occhio non sono i palazzi, ma le barriadas o rencherias, come vengono chiamate qui, ossia le baraccopoli cresciute lungo le dorsali dei cerros, inerpicandosi fino a raggiungerne la cima.

Sono le grandi periferie della capitale, i «quartieri popolari» come eufemisticamente vengono chiamati nei documenti ufficiali, veri e propri alveari umani formatisi nei decenni, al tempo delle vacche grasse in Venezuela.

Promesse (non mantenute) di Caracas

Dopo la caduta della dittatura militare nel 1958 e l’inizio della democrazia, le grandi città venezuelane hanno sperimentato una crescita demografica senza precedenti. Le speranze generate soprattutto dalle royalties del petrolio gestito dagli americani, hanno spinto la gente ad abbandonare le campagne aride e povere e a stabilirsi negli spazi liberi sui cerros, attratti dall’illusione di un lavoro redditizio e di un benessere immediato. È stato un fenomeno socioculturale importante che ha portato alla nascita dei barrios.

Molti, cercando fortuna, sono giunti anche da altri paesi come Colombia, Ecuador e Perù. Altri sono venuti da Cuba e dalle numerose isole dei Caraibi. Lo stesso dicasi di tanti italiani emigrati in Venezuela cercando un riscatto dalla povertà del loro paese d’origine.

La capitale, tuttavia, non ha risposto alle speranze della gente. La maggioranza delle persone migrate non ha incontrato quella «fortuna» che inseguiva. Poco a poco si è andato formando un esercito di gente disoccupata, sfruttata, delusa, frustrata e arrabbiata.

Il populismo di Chávez e Maduro

Proprio da queste periferie, il 27 febbraio 1989 sono scese le folle degli arrabbiati che hanno inscenato il famoso «Caracazo», una vasta manifestazione di protesta con saccheggi e devastazioni, che si è estesa anche ad altre città e che il presidente Carlos Andrés Pérez ha soffocato nel sangue con l’esercito lasciando sul terreno migliaia di morti. Ed è soffiando sul malcontento che ribolliva nelle barriadas che Hugo Chávez, il 4 febbraio 1992, ha tentato il colpo di stato contro Carlos Andés Pérez fallendo e finendo in prigione. Due anni dopo, il nuovo presidente, Rafael Caldera, lo ha liberato e, nella seguente tornata elettorale, il 6 dicembre 1998, Chávez è diventato presidente del Venezuela per la prima volta.

Qui, nelle barriadas, Chávez prima e, dopo la sua morte per cancro, Maduro poi hanno costruito lo zoccolo duro del loro potere alimentandolo con la borsa di viveri quindicinale, i medici cubani che, non avendo altro, distribuiscono la stessa pillola per ogni malattia, i concerti di salsa e merengue ad ogni angolo di quartiere, le magliette colorate con la faccia del «comandante». E molte altre trovate degne del populismo più bieco.

I missionari nel barrio

I Missionari della Consolata che negli anni Settanta muovevano i primi passi in Venezuela, attraversando la città, non potevano non osservare con curiosità mista a timore quegli alveari di mattoni, lamiere e cartone che dal bordo delle strade si innalzavano fin quasi a nascondere il cielo.

Quando hanno deciso di stabilire una loro presenza anche lì, tra i poveri e gli emarginati urbani, era il 2000. E da allora continuano a lavorarvi per portare consolazione.

Sergio Frassetto


Carapita

Salita al barrio

Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale.

Percorrendo l’autostrada dell’Est, ai piedi delle baraccopoli di Caracas, un pensiero si affaccia nella mente dei missionari: ci sarà una chiesa in mezzo a quel formicaio umano? Chi può essere quel prete che ha il coraggio di spingersi in una simile realtà? Magari, noi. Ma il pensiero viene subito scacciato come una tentazione.

Con il passare degli anni, tuttavia, ci si abitua a tutto, e anche le barriadas diventano famigliari nello scenario urbano.

Ad azzardare i primi passi nel barrio di Carapita è padre Sandro Faedi, negli anni Novanta, accompagnando i seminaristi diocesani, dei quali è insegnante di liturgia e morale, a fare apostolato.

Successivamente, vi si spinge anche padre Andrea Bignotti, superiore delegato.

Lo invita suor Juanena che, durante la settimana, lavora presso un anzianato frequentato da padre Andrea e, nel weekend, fa apostolato in una delle cappelle del barrio.

Primi passi a Carapita

Parroco di Carapita è padre Andrés, sacerdote fidei donum belga. Sono alcuni giovani della sua parrocchia, membri del gruppo Joven misión delle Pom (Pontificie opere missionarie), a invitare i seminaristi nel loro barrio e nella loro chiesa. Ne nasce un’amicizia che sfocia in una collaborazione stabile di padre Andrea Bignotti e dei seminaristi con la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna di Carapita.

È proprio da questa collaborazione che, a poco a poco, matura l’idea di assumere la responsabilità pastorale della parrocchia.

Un discernimento fatto con attenzione

Il progetto emerge durante la visita canonica in Venezuela del superiore generale dei Missionari della Consolata padre Pietro Trabucco nel 1998. «Pensando ad un ulteriore incremento di missionari – scriverà -, si sta ipotizzando la possibilità di assumere una parrocchia nella zona periferica di Caracas, dove maggiore è la povertà della gente e il bisogno di un servizio missionario».

Quella di stabilire una nuova presenza in questa difficile periferia non è una scelta facile, e la comunità Imc nel paese ne è consapevole: «La nostra capacità di consolazione e liberazione è messa alla prova dalla situazione generale di povertà, marginalità, disoccupazione, disintegrazione famigliare, mancanza di sicurezza sociale, violenza, droga e prostituzione che condiziona un po’ tutte le nostre comunità, […] a questo bisogna aggiungere la situazione complessa di Patarata [una delle cappelle della parrocchia di El Ujano, nella città di Barquisimeto, nella quale i Missionari della Consolata lavoravano già dagli anni Ottanta] e di Carapita, comunità molto eterogenee e con gruppi umani di immigrati che hanno perso le loro radici culturali e che devono lottare per sopravvivere in una realtà a loro ostile», scriveranno i missionari negli atti della Conferenza della Delegazione Venezuela Imc celebrata a settembre del 2000.

Lo stesso arcivescovo di Caracas Antonio Ignacio Velasco García rimane sorpreso della disponibilità espressa dai missionari. «Ricordo che quando sono andato a parlare con l’arcivescovo di Caracas circa la possibilità di assumerci un impegno pastorale nella capitale, egli ci proponeva altre opzioni – scrive padre Agustin Barboza, superiore delegato nel 2000 -, ma noi abbiamo insistito per Carapita perché sentivamo che questa rispondeva meglio al nostro carisma; ed egli, ridendo, disse: “Questa vostra opzione vi fa onore perché Carapita è la parrocchia più difficile e chi va a Carapita certamente non sta cercando di fare carriera ecclesiastica”».

I missionari si sentono motivati dalle opzioni della Chiesa latinoamericana che a Puebla (1979) ha chiesto alle chiese locali di dare priorità nell’evangelizzazione, tra le altre, alle grandi periferie urbane che «vivono in una situazione di fede precaria, esposti all’influsso delle sette e di ideologie che non rispettano la loro identità, confondendo e provocando divisioni» (Puebla 366).

La priorità, del resto, è ribadita anche dal X Capitolo Generale dell’Istituto Imc tenutosi nel 1999, il quale, nel contesto del mondo attuale, vede realizzato l’essere missionari ad gentes anche nell’opzione per «le povertà urbane» nelle quali si trovano «i nuovi poveri, emarginati in tutto» (X CG 47).

Missionari delle periferie

Il 5 settembre 2000 i Missionari della Consolata assumono la responsabilità pastorale della parrocchia di Carapita durante una celebrazione eucaristica presieduta da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas. Lo accompagnano padre Manolo Collado, superiore delegato, padre Carlos José Osorio, nominato amministratore parrocchiale, i seminaristi Imc di filosofia e i fedeli della parrocchia.

È un passo fondamentale che, dopo l’apertura agli indigeni e agli afrodiscendenti, caratterizza l’opera dei missionari in Venezuela come rivolta anche alle «grandi periferie esistenziali del mondo», espressione che si udirà in tutta la Chiesa, solo nel 2013, quando il cardinale
di Buenos Aires, Mario Bergoglio, diverrà papa Francesco.

Sergio Frassetto


Vita nelle barriadas

Missione nei vicoli dell’alveare

Il lavoro di evangelizzazione e di cura pastorale nella parrocchia di Carapita è immenso. La popolazione del territorio conta 100mila abitanti, dei quali molti in condizioni di vita critiche. I Missionari della Consolata, ispirandosi alle indicazioni della chiesa latinoamericana, danno vita a una pastorale fatta di corresponsabilità dei laici e vicinanza ai poveri.

«Carapita è un alveare umano abbarbicato su una montagna franosa che fa da corona alla zona occidentale della città. Qui, più di 100mila persone vivono addossate le une alle altre in casupole di mattoni, lamiere e cartone», scrivono nel 2000 i missionari stabilitisi da poco nella realtà della baraccopoli. «È una situazione di totale emarginazione dove, non senza difficoltà, stiamo cercando di ambientarci. Qui vivono gli esclusi della società; qui si rifugia la criminalità rendendo pericolosa la convivenza umana. La maggioranza della popolazione è composta da lavoratori e da famiglie più o meno costituite; molte le persone dedite al commercio informale e ai lavori saltuari, ma per tutti, soprattutto per i giovani, la disoccupazione rimane il dramma principale e il terreno più propizio alla delinquenza finalizzata al guadagno facile.

Carapita è un mondo brulicante di umanità che si muove, lavora, canta, balla, litiga, minaccia, urla, batte, rompe, si lamenta, soffre… dal mattino alla sera e anche di notte, senza sosta. E, nonostante tanta precarietà, qui c’è gente generosa, buona, collaboratrice, che desidera essere aiutata a vivere ed esprimere la sua fede».

Ecclesiasticamente, il territorio è stato eretto a parrocchia dell’arcidiocesi di Caracas nel 1990. Il terreno su cui sorge il salone che fa da chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Gioacchino e Anna, era stato occupato nelle «invasioni» del 1984.

«La nostra comunità – proseguono i missionari – è costituita da tre confratelli. Ci aiutano un diacono permanente che vive e lavora in una delle cappelle della parrocchia, e tre comunità religiose femminili: las Misioneras de Cristo Jesús, las Hermanitas de los Pobres de Maiquetía e le Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta».

Oltre alla chiesa parrocchiale, esistono altre tre costruzioni che fungono da cappelle: La Gruta, Bicentenario e Santa Eduvige. Attorno a queste strutture si sono organizzate piccole comunità cristiane.

«Inoltre i nostri seminaristi – concludono -, con il loro formatore e alcuni laici del barrio, stanno iniziando un lavoro di incontro e amicizia con la gente. Sembriamo in tanti, ma in realtà siamo molto pochi dato che la popolazione che dobbiamo attendere si aggira attorno ai 100mila abitanti. Di tutta questa marea umana possiamo curare solo una piccola minoranza che non va oltre il 3%. Il lavoro da fare è enorme».

Tra pendenze e spazi risicati

Tra i problemi che i missionari devono affrontare fin dall’inizio c’è la mancanza di mezzi di trasporto: solo i veicoli a doppia trazione possono superare la pendenza vertiginosa dei vicoli del barrio. In più, il fatto di avere un veicolo proprio, vuol dire esporsi al pericolo delle bande che derubano e uccidono per molto meno. Così bisogna adattarsi ai «carritos por puesto», le jeep private che trasportano la gente su e giù per la montagna, che partono quando sono piene e arrivano quando possono.

Un altro problema è la mancanza di spazi adeguati a realizzare le attività parrocchiali. I missionari, quindi, lottano per accaparrarsi centimetro dopo centimetro lo spazio sufficiente per costruire, con l’aiuto dei tanti benefattori, un centro parrocchiale. Quando verrà ultimato nel corso del 2021, esso servirà da abitazione per i missionari e da struttura nella quale si svolgeranno la maggior parte delle attività formative, sociali e culturali della parrocchia.

Parrocchia missionaria

Il lavoro di evangelizzazione in questo contesto così vasto ed eterogeneo è molto complesso: è una vera sfida, sotto tutti i punti di vista.

I missionari, dopo aver analizzato la realtà, scelgono alcune priorità sulle quali concentrare le loro forze: la formazione delle Cebs (le comunità ecclesiali di base), per cercare di raggiungere le persone totalmente slegate dalla Chiesa; la pastorale della gioventù, dato che sono molti i giovani che vivono immersi nel mondo della droga e della violenza; la formazione di ministri laici, date le molteplici necessità; la pastorale più specificamente missionaria che include un lavoro sulla giustizia e la pace; la formazione sulla liturgia e la sua organizzazione.

Sono scelte perfettamente in linea con le opzioni della chiesa latinoamericana emerse a Puebla, Santo Domingo e, in seguito, ad Aparecida: «Sentiamo la necessità di creare una nuova forma di “fare” pastorale e di organizzare la parrocchia partendo da una pastorale più aperta, flessibile e missionaria» (Puebla 649; Santo Domingo 257), «promovendo le comunità ecclesiali di base e la formazione ministeriale dei laici» (Puebla 804-805; Santo Domingo 94-103).

Di qui lo sforzo di coinvolgere tutte le forze vive della parrocchia nell’elaborazione ed esecuzione del programma pastorale. Come aggiunge il Documento di Aparecida: «La conversione pastorale delle nostre comunità esige che si passi da una pastorale di mera conservazione a una pastorale decisamente missionaria» (DA 370), concludendo che «i laici devono partecipare al discernimento, alle decisioni, alla pianificazione e all’esecuzione» (DA 371). Bisogna, dunque, avere «un atteggiamento di apertura, dialogo e disponibilità per promuovere la corresponsabilità e la partecipazione effettiva di tutti i fedeli nella vita delle comunità cristiane» (DA 368).

Organizzare una parrocchia immensa

I settori della parrocchia di Carapita, inizialmente cinque, con il tempo diventano sette, incluso quello della chiesa parrocchiale. Ogni settore rappresenta una comunità di base molto attiva, ciascuno ha la propria cappella (tra cui una dedicata anche alla Consolata), ogni cappella ha un responsabile e un consiglio pastorale con una propria giunta direttiva.

I coordinatori delle comunità e delle diverse pastorali formano il consiglio pastorale parrocchiale che, a sua volta, ha una giunta direttiva, guidata dal piano pastorale generale che contempla tutte le dimensioni della vita della parrocchia.

In ogni settore vengono portati avanti i vari aspetti della pastorale, suddivisa in 10 ambiti, tra cui catechesi, giovani, famiglia, donne, pastorale sociale, missione.

Sono presenti anche vari movimenti ecclesiali: «La Legione di Maria», «Luis Variara», «Ho sete» e «Lacci di amore mariano».

Come indica il Documento di Aparecida: «I maggiori sforzi delle parrocchie, in questo inizio del terzo millennio, devono tendere nella convocazione e formazione di laici missionari. Solo attraverso la loro moltiplicazione potremo rispondere alle esigenze missionarie del momento attuale» (DA 174). «A questo scopo – aggiungono i missionari in un altro documento-, a Carapita si cerca di diffondere la coscienza missionaria tra i fedeli. Un primo frutto è stato la nascita del gruppo missionario che […] va di casa in casa, nei settori più appartati del barrio, per evangelizzare le famiglie. Questo lavoro ha permesso la nascita di una nuova cappella, in un settore lontano, finora dimenticato dal lavoro pastorale. La cappella, intitolata alla Consolata, è stata benedetta il 15 giugno 2002, da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas, che si è complimentato con i Missionari della Consolata per il lavoro che stanno portando avanti».

Il grande impegno è quello di fare della parrocchia una «Comunità di comunità, evangelizzata ed evangelizzatrice, discepola e missionaria».

La «olla solidaria»

Fedeli al loro carisma, i missionari cercano di integrare l’evangelizzazione con la promozione umana. Il beato Giuseppe Allamano diceva: «Ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra». Il Documento di Aparecida aggiunge: «Il ricco magistero sociale della Chiesa ci indica che non possiamo concepire un’offerta di vita in Cristo senza un dinamismo di liberazione integrale, di umanizzazione, di riconciliazione e di inserzione sociale» (DA 359).

L’instabilità politica e sociale del Venezuela del 2021 crea squilibri nella popolazione a tutti i livelli e costituisce una sfida alla missione della Chiesa. La crisi è più evidente nei servizi e nella mancanza di mezzi economici per acquistare i generi di prima necessità.

L’87% della popolazione vive in povertà  e, di questi, il 25% in povertà estrema. La maggior parte delle famiglie non riesce a sopravvivere con un solo salario minimo e molti si vedono costretti a frugare nella spazzatura per racimolare qualcosa da mangiare.

Come mezzo per alleggerire le difficoltà della popolazione più bisognosa, ogni domenica, dopo la messa, un gruppo di volontari della parrocchia prepara «la olla solidaria» (la pentola solidale): una grande pentola di zuppa che viene servita a circa 300 persone. Gli ingredienti sono provvisti dalla Caritas, da La Confraternidad e dall’Università Cattolica Andrés Bello (Ucab). Non mancano le donazioni private e la solidarietà di molta gente che condivide quel poco che ha. Così, in questo tempo di crisi, i cristiani di Carapita vivono con più fervore il comandamento dell’amore.

Nello stesso tempo, dal lunedì al venerdì, più di 300 bambini ricevono cibo nell’ambito del progetto «Fundación techo», nei locali della parrocchia, dove, tra l’altro, si svolgono la catechesi, i corsi di taglio e cucito per le donne, il doposcuola per i ragazzi, i corsi di musica, e si organizzano «giornate mediche» per tutti, in particolare per bambini e anziani.

Nella grande periferia esistenziale di Carapita, la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna si caratterizza per il servizio gratuito e totale a favore dei più deboli e diventa centro di incontri, di collaborazione e di comunione tra persone, gruppi e istituzioni. Il famoso «ospedale da campo» tanto caro a papa Francesco.

Un parroco psicoteraperuta

D’altra parte padre Rodrick Tumaini Minja, parroco di Carapita, laureato nel 2018 in psicoterapia, presta la sua collaborazione come parte del team interdisciplinare che si occupa del recupero e riabilitazione dei tossicodipendenti che vivono in strada e che chiedono assistenza alla Casa di accoglienza situata nel barrio di San Andrés; un progetto in cui lavorano tre congregazioni di religiose: Compacionistas, Missionarie di Cristo Gesù e Piccole Suore dei Poveri di Maiquetía.

«La nostra – dice il missionario – vuole essere, quella che il card. Baltazar Porras, amministratore apostolico della diocesi di Caracas, chiama “pastorale di speranza” e che l’Allamano chiamava “consolazione”: consolare la gente nella sua afflizione per i tempi difficili che sta vivendo».

Padre Jaime Patias, consigliere generale Imc, in occasione di una sua visita alla parrocchia, effettuata nell’estate del 2019 con il Consiglio Continentale dei Missionari della Consolata in America, scrive: «Ho potuto palpare da vicino lo sforzo grandioso e la dedizione dei missionari che lavorano in Venezuela, così come la vicinanza e l’affetto della gente. La situazione di crisi continua a colpire i più poveri e bisognosi. In comunione con loro, ringrazio Dio per la dedizione dei nostri missionari e missionarie e per la solidarietà di tutti con il popolo venezuelano, in particolare verso i migranti».

Sergio Frassetto

 




IMC Venezuela 50: la missione alla foce dell’Orinoco

I missionari e le missionarie della Consolata iniziano, insieme, la missione a Nabasanuka il giorno della Consolata del 2006. Dopo otto anni da quando hanno lasciato la Guajíra, affidano a lei l’opera di evangelizzazione di un altro popolo indigeno, quello dei Warao.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

 


La missione alla foce dell’Orinoco

Nabasanuka, porto dei Warao

La curiara (canoa) solca veloce le acque del fiume che, pigro, scorre tra ali di maestosa foresta tropicale mentre uccelli, come usciti dalla tavolozza di qualche pittore naïf, intonano il loro concerto mattutino osservando incuriositi il passaggio di alcuni naviganti, «turisti per caso».

Siamo nello stato Delta Amacuro, un paradiso di acque, animali e piante creato dalla foce dell’Orinoco, il fiume più grande del Venezuela che, avvicinandosi all’Atlantico, per una lunghezza di 200 km, crea in una fitta ragnatela di canali, lagune e zone palustri che si intrecciano tra loro.

La barca, partita col buio, sette ore fa dalla città di Tucupita, sta per giungere alla meta: Nabasanuka, la casa del popolo warao.

Diciotto anni dopo la Guajíra

È il 20 febbraio 2006, quattro giorni dopo la festa del beato Giuseppe Allamano. I missionari e le missionarie della Consolata iniziano il loro lavoro apostolico a Nabasanuka, affidandosi al fondatore e alla Consolata, chiedendo di poter essere presenza di consolazione in mezzo ai Warao.

Prende forma così un sogno coltivato a lungo dai missionari in Venezuela. Dopo aver lasciato la Guajíra nel 1998, essi non hanno mai rinunciato alla speranza di tornare a lavorare tra gli indigeni per esprimere pienamente e al meglio il loro carisma missionario.

È stato proprio inseguendo questo sogno che, nel duemila, durante la V Conferenza della Delegazione, essi hanno deciso di iniziare una nuova presenza fra i popoli indigeni, possibilmente in collaborazione con le missionarie della Consolata. L’anno successivo, i Consigli generali dei due istituti hanno approvato la decisione che nel 2004 è poi sfociata nella scelta del vicariato di Tucupita, degli indigeni warao.

Nel 2005 due équipe di padri e suore, hanno raggiunto la missione di Nabasanuka in tempi diversi e, durante varie settimane, hanno realizzato un primo approccio con l’ambiente e la popolazione locale. L’obiettivo era di conoscere la realtà e di fare l’esperienza del vivere in équipe: era, infatti, la prima volta che padri e suore lavoravano insieme vivendo sotto lo stesso tetto.

Missionari e missionarie insieme

Il 20 febbraio 2006 i padri Josiah K’Okal e Vilson Jochem giungono a Nabasanuka e iniziano una presenza stabile. Tuttavia, come è stato programmato, l’inizio ufficiale della loro missione insieme alle missionarie della Consolata nel vicariato di Tucupita avviene il 20 giugno 2006, festa della Consolata. La messa solenne è presieduta dal Vicario apostolico, mons. Felipe González, accompagnato da tutti i Missionari della Consolata e dai Cappuccini. Durante la celebrazione sono presentati alla comunità i missionari e le loro consorelle, le suore Carla Pianca, Luigina Goffi, Rosemary Kabbis e Ivana Cavallo che da oggi condivideranno la vita dei Warao a Nabasanuka.

Coinvolgere i laici

L’alto numero di comunità, le notevoli distanze e la difficoltà delle vie di comunicazione, rende impossibile visitarle con frequenza. Per questo, nel loro programma pastorale, i missionari decidono di dare la priorità alla formazione di animatori e di catechisti capaci di coltivare la vita cristiana nei loro villaggi anche in assenza del missionario. L’iniziativa parte fin da subito nelle comunità di Nabasanuka, Bononia e Araguabasi: si radunano una quarantina tra uomini e donne che, in futuro, rappresenteranno i pilastri dell’evangelizzazione nella parrocchia.

Per venire incontro ai costi dei viaggi, la missione crea un piccolo fondo che, grazie alla Provvidenza, non si esaurirà per molto.

P. Juan Carlos Greco con parte della comunità di Janabasaida

Il Vangelo si incultura

Nell’ottobre del 2007 si tiene un’assemblea allargata degli agenti di pastorale, laici e religiosi, che lavorano nelle diverse comunità del vicariato nel quale, tra l’altro, si è deciso di creare una équipe di Pastorale indigena con l’obiettivo di costruire una chiesa inculturata, con un’identità propria, dove l’esperienza di fede sia espressione del mondo warao, della sua cultura e lingua, delle sue tradizioni e valori.

Da questo obiettivo nasce un piano di pastorale suddiviso in otto ambiti principali: la religiosità, la spiritualità e l’inculturazione; la promozione della cultura warao e l’assunzione dei valori presenti in essa; la lotta contro la povertà e l’impegno per uno sviluppo solidale; la democrazia partecipativa; la difesa della terra e dell’ambiente; lo sviluppo umano tramite la salute e l’educazione; l’appartenenza e l’integrazione nazionale e internazionale; la promozione e la difesa dei diritti umani.

Nel 2008, i missionari e le missionarie, alla luce di questo piano, e rispondendo alle attese della comunità, redigono il loro primo progetto apostolico nel quale l’evangelizzazione viene definita come «inculturazione del Vangelo a partire dalla spiritualità e religiosità tradizionale dei Warao, preservando, promuovendo e difendendo la loro identità culturale e i loro diritti come nativi del Delta Amacuro».

Percorrendo questa strada, i missionari scoprono nel mondo spirituale warao molti semi del Vangelo che attendono solo di giungere a maturazione. Bella, per esempio, è l’espressione che gli indigeni usano per indicare il Regno di Dio: «Dioso a Janoko», che letteralmente vuol dire «la casa di Dio». Non c’è immagine migliore per definire l’opera dei missionari: fare di questo popolo una casa dove ci si accoglie e si collabora fraternamente.

Promozione umana

Percorrendo i canali del delta, fermandosi a ogni attracco di barche, entrando in questa o quella palafitta, i missionari possono constatare che, al di là della facciata da cartolina, vi è una realtà di povertà e di abbandono, di fame e di malattie endemiche che lasciano sgomenti: bambini denutriti, ragazzi non scolarizzati, anziani abbandonati a se stessi e senza cure mediche.

In tutta la regione (15mila km2, un territorio più grande del Trentino Alto Adige) c’è un solo dispensario, con un medico residente che, volontariamente, si prende cura di questa gente.

Per quanto riguarda l’educazione, in tutto il territorio ci sono due scuole secondarie. Ciò significa che la stragrande maggioranza dei giovani termina solo il ciclo della scuola elementare. Inoltre, l’insegnamento non eccelle per serietà e rendimento, a causa della mancanza di maestri professionalmente qualificati.

Questa situazione spinge i missionari a impegnarsi come insegnanti nel liceo di Nabasanuka dove confluiscono studenti provenienti da una quindicina di comunità. Un impegno in più nel già gravoso lavoro di evangelizzazione, ma anche un’opportunità per conoscere i giovani e accompagnarli nella loro crescita umana, culturale e religiosa.

Va ricordato che il popolo warao è sempre stato nomade, migrando da un luogo all’altro in cerca di migliori condizioni di vita. Per fermare la migrazione e migliorare la qualità della vita delle persone, l’équipe missionaria porta avanti progetti in ambito sanitario come giornate mediche nelle comunità, distribuzione di medicine e forniture sanitarie, e un programma di assistenza medica e alimentare per chi convive con Aids e tubercolosi. «Molti, purtroppo, sono morti aspettando un mezzo di trasporto», esclama un missionario. Ecco perché la missione cerca anche di aiutare con ambulanze fluviali e terrestri per trasferire i malati in città.

Altri progetti riguardano il settore dell’istruzione con borse di studio per studenti, il «Computer Center» (una sala computer a uso comunitario), con l’equipaggiamento necessario per studiare via internet, e la fornitura di materiale scolastico (quaderni, matite, divise).

La generosità fa sbizzarrire la fantasia. Così nascono progetti di micro auto sostenibilità per accedere all’energia solare, per l’acquisto di reti e accessori utili per la pesca, sementi per piantare, tessuti per i corsi di taglio e cucito per le donne.

Sergio Frassetto


I Warao

Warao è un termine che significa «Gente di canoa» e indica un popolo indigeno che conta circa 50mila persone. I Warao costituiscono il secondo gruppo etnico più numeroso in Venezuela dopo i Wayú.

Vivono su palafitte costruite ai margini dei fiumi, formando piccoli villaggi di famiglie unite fra loro da forti legami di collaborazione e solidarietà. Il più anziano del gruppo, chiamato «aidamo», svolge la funzione di autorità della comunità.

I Warao si dedicano alla pesca e alla caccia di sussistenza. Dove è possibile, in piccole radure (conuchi) coltivano l’ocumo, una pianta erbacea che produce tubercoli commestibili che rappresentano il «pane» del Warao. Esercitano un artigianato vario e di grande qualità: amache, ceste, utensili, ecc.

Giungendo a Nabasanuka come ospiti e pellegrini, i missionari hanno potuto sperimentare la sorprendente ricchezza umana e sociale di questo popolo. Infatti, sono stati accolti non come stranieri, ma come «daje» (fratello maggiore) o «daka» (fratello minore).

La parrocchia di Nabasanuka, dedicata a Maria «Divina Pastora de Araguaimujo», sorge nel centro abitato principale nel quale vivono circa 800 persone.

Il resto della popolazione è suddiviso in una sessantina di piccole comunità, alcune già evangelizzate, altre con una vita cristiana embrionale, altre che attendono ancora il primo annuncio del Vangelo.

La prima sfida che i missionari hanno affrontato con i Warao, è stata l’apprendimento della lingua indigena, allo scopo di intessere relazioni e di conoscere la cultura. Nello stesso tempo, hanno cominciato a visitare le comunità raggiungendole sulle curiaras via acqua.

Uno dei problemi più grossi della zona sono proprio le comunicazioni e i trasporti: il posto più vicino nel quale rifornirsi di benzina è Tucupita, a sette ore di curiara. Per raggiungerlo con barche vecchie e malandate, succede di rimanere in panne nelle acque dell’Orinoco.

Da qualche anno è stata acquistata una nuova barca, regalata da amici e battezzata La Consolata. Ora i missionari girano per le terre dei Warao con più speditezza. (S.F.)


Una giornata tra i Warao

Padre Andrés García Fernández, spagnolo, ha al suo attivo un’invidiabile esperienza missionaria. Ha lavorato tre anni in Costa d’Avorio fra gli immigrati, cinque in Spagna, nel campo dell’animazione missionaria, tredici in Congo RD fra i pigmei e dal 2019 è tra i Warao del Delta Amacuro.

Arrivando in Venezuela tra i Warao, la sfida è stata quella di entrare nell’anima di questo popolo, conoscerne la cultura, la lingua, l’organizzazione, e scoprirne la relazione con la natura e la trascendenza. Cercare di capire dove Dio lo conduce, e accompagnarlo in questo processo.

La classe politica sta litigando, lotta per il potere, cercando di abbattere l’avversario. Mentre va avanti questa lotta, quelli che soffrono sono i poveri, la gente umile.

I popoli indigeni stanno soffrendo molto per quello che viene chiamato «El Amo» (l’Arco minerario dell’Orinoco), le cui ricchezze del sottosuolo (oro, coltan e altro) sono appetite dal governo attuale, dalla guerriglia colombiana (le Farc e altri gruppi) e anche dall’opposizione.

La selva viene depredata e distrutta con tutte le conseguenze che la devastazione ambientale comporta per coloro che la abitano. Nel delta l’acqua arriva di colore quasi nero. Nel periodo di crescita del fiume arriva tutto il mercurio con cui si lava l’oro, il cianuro e altri veleni. I pesci galleggiano morti, l’acqua ha l’aspetto della spuma e noi la beviamo e ci laviamo con essa. E le malattie proliferano sotto forma di piaghe, diarrea, febbre, soprattutto nei bambini.

La gente soffre per mancanza di potere d’acquisto: il governo non paga con denaro effettivo, ma dà un numero che indica una somma, ma se non c’è elettricità per tutta una settimana, come capita spesso, non si può ritirare dalla banca il proprio «numero» per andare comprare quello che serve. La gente soffre per mancanza dei servizi essenziali, degli alimenti di base, delle medicine. E il fatto di aver chiuso la porta agli aiuti che vengono dall’estero peggiora la situazione. La gente si dispera.

Quando ho chiesto a un Warao scappato in Brasile: «Perché te ne sei andato dal Venezuela?», mi ha risposto: «Mi è morto il primo figlio, è morto il secondo e non ho voluto che morisse anche il terzo».

Giorno dopo giorno

Ciononostante, la missione è appassionante, e condividere il trascorrere dei giorni con la gente è bello. Chiedo a Dio di non abituarmi mai a questa realtà. Vivendo nel seno della foresta pluviale, è bello alzarsi al mattino e vedere tutta la ricchezza della natura: quei fiumi, quegli alberi, quei paesaggi, i bambini, il modo di vivere della gente, la cultura.

In genere cerco di alzarmi alle quattro del mattino per pregare, perché, a partire dalle sei, quando celebriamo la messa, fino alle 8 o 10 di sera non riesco più a sedermi.

Dopo la preghiera preparo un po’ di colazione, a volte per due giorni in modo che mi duri di più, e poi faccio il bucato e riordino la casa.

Dopo l’eucaristia inizia a venire la gente con le proprie necessità: c’è chi viene a chiedere una medicina, chi cerca cibo o altro.

Con un gruppo di collaboratori organizziamo gli incontri per i giovani, il programma di alfabetizzazione dei bambini e quello per la formazione delle donne.

Una volta preparato il materiale, usciamo con la lancia e navighiamo per i vari canali alla volta delle comunità. Nella nostra parrocchia ce ne sono una sessantina che cerchiamo di visitare ogni mese. Lascio un gruppetto di collaboratori nella prima, un altro gruppetto nella seconda e, mentre essi svolgono l’attività programmata, io vado alla seguente. Quando ho finito la formazione e l’eucaristia, faccio il percorso inverso: torno alla seconda comunità dove il gruppetto ha già terminato la formazione, celebro l’eucaristia e poi, insieme, torniamo alla prima.
In questo modo cerchiamo di visitarne due o tre ogni giorno. Le accompagniamo e le formiamo
in questo modo.

Trascorro poi il pomeriggio in casa, giocando con i bambini, ricevendo la gente, visitando gli infermi e parlando con i giovani che chiedono una speranza (cosa facciamo, dove andiamo, dove possiamo trovare lavoro?).

 

I Warao non esistono senza il delta

Ci sono anche i maestri che hanno bisogno di imparare come insegnare. La maggioranza di loro ha frequentato solo la scuola secondaria e non ha avuto altra preparazione. Devono imparare a fare un programma pedagogico, a trasmettere i contenuti, ecc.

È appassionante anche seminare speranza e aiutare le persone a organizzarsi, a sognare, e a sognare un ritorno di tutti quei Warao che se ne sono andati, sognare di tornare a essere il popolo che erano, ma più organizzato, con più coscienza di quello che sono.

Questo discorso vale per il delta dell’Orinoco, ma anche per tutta l’umanità.

Io, spesso, dico loro: «Il delta con tutta la sua biodiversità non esisterebbe senza i Warao, senza la vostra maniera di essere e di vivere». Anche i Warao senza il delta, pur sopravvivendo, non vivrebbero più come Warao. Hanno bisogno del loro ambiente per continuare a essere come sono stati finora.

Dio dietro ogni cosa

Una cosa bella è vedere come il Warao chiede permesso all’albero per tagliarlo e fare la sua
curiara, vedere come chiede permesso alla natura per tagliare alcuni alberi per fare il suo orto dove produrre l’ocumo, o come chiedono permesso all’acqua quando vanno a pescare o a navigare.

È importante scoprire come per essi c’è una vita, c’è un dio della vita, che sta dietro a tutta la natura e che sostiene l’esistenza di ciascuno, di ogni essere e di ogni persona.

Allora la mia quotidianità è scoprire e accompagnare tutto questo, non solo condividendo il poco che ho, ma anche i loro sogni, le difficoltà, gli ideali e il ritmo di Dio nelle loro anime.

Verso le ore 20 mi chiudo in casa, solo con nostro Signore, ricapitolando la giornata, rendendo grazie e programmando il giorno dopo. In questo modo il giorno trascorre pieno di gente e scoprendo in essa la presenza di Dio.

Andrés García Fernández


Dalle sponde del fiume alla città

Con gli indigeni a Tucupita

Alla ricerca di migliori condizioni di vita, chi può o chi è costretto dalla povertà, abbandona la sponda del fiume e raggiunge la città. Sradicati dalla comunità, i Warao si ritrovano soli in un ambiente ostile che non sa offrire loro altro che marginalità e povertà ancora più profonda di quella lasciata nella terra nativa.

La «transumanza» è una caratteristica dei popoli indigeni. Da sempre i Warao la praticano realizzando una stretta interconnessione con Tucupita e altre città dentro e fuori i confini del Venezuela. Nel corso degli anni, ampi strati di popolazione indigena si sono trasferiti nel capoluogo della regione in cerca di migliori condizioni di vita. Tuttavia, vivendo la marginalità, dispersi nella grande città e senza punti di riferimento sicuri come la famiglia e il clan, facilmente perdono la loro identità e i loro valori.

Allo scopo di accompagnare anche i Warao migranti nel loro cammino umano e spirituale, i missionari, fin dal loro arrivo a Nabasanuka, concepiscono una loro presenza nella città di Tucupita.

Pastorale indigena urbana

Il progetto di stabilire una presenza a Tucupita si realizza nel marzo 2009, quando padre Zachariah Kariuki, missionario della Consolata keniano, si trasferisce nella città e assume la responsabilità del lavoro pastorale con i Warao emigrati lì, facendo base nella parrocchia di san Giuseppe.

A Tucupita i missionari diventano così fattore di incontro e comunione per gli indigeni, contribuendo, con diverse iniziative, a promuovere in essi il senso di appartenenza, tassello fondamentale per una presa di coscienza della propria identità e dignità.

Uno dei progetti sviluppati è quello dei due corsi di taglio, cucito e sartoria per 50 donne all’anno. Il corso fornisce loro le conoscenze necessarie a realizzare manufatti sartoriali per le loro famiglie e per la vendita, e quindi generare reddito.

Risiedendo a Tucupita, i Missionari della Consolata possono anche offrire un servizio diretto in favore del vicariato Delta Amacuro. Così, padre Zachariah (che nel 2018 tornerà in Kenya e verrà sostituito da padre Silvanus Ngugi) svolge le funzioni di vicario generale del vescovo, direttore delle Pontificie opere missionarie e responsabile, dal 2016, della nuova vicaria denominata «Dani Consolata» dedicata al servizio degli indigeni.

Avere una parrocchia in Tucupita, poi, rappresenta un vero e proprio punto di approdo per chi arriva dalla missione dopo sette ore di curiara. Qui i missionari possono mangiare, riposare e appoggiarsi per le mille faccende da sbrigare prima di ripartire per Nabasanuka.

E così, a Tucupita come a Nabasanuka, nel cemento della città come nelle acque dell’Orinoco, i Missionari della Consolata, nonostante il loro numero ristretto a causa della difficoltà a ottenere dal governo i permessi, lavorano uniti alla costruzione del Regno di Dio tra i Warao.

Sergio Frassetto


Verso il Brasile

Le tragiche condizioni socio economiche del Venezuela hanno costretto milioni di cittadini a emigrare nei paesi vicini. Tra loro, migliaia sono Warao. I missionari continuano a seguirli anche in Brasile.

Sommerso da una profonda crisi politica, economica e sociale, il Venezuela sta vivendo una situazione drammatica. La popolazione soffre per la carenza di cibo, medicine, trasporti, alloggi, lavoro, servizi di base come ospedali, scuole, acqua, elettricità. Le condizioni di vita peggiorano ogni giorno, mettendo a rischio molte vite.

Si stima che oltre il 50% della popolazione viva in condizioni di estrema povertà, al punto che alla fine del 2020, una famiglia di cinque persone avrebbe dovuto guadagnare 98 salari minimi per acquistare beni di prima necessità. Questa situazione ha causato enormi migrazioni nei paesi vicini, in particolare in Colombia e Brasile.

Secondo le statistiche ufficiali, sono oltre 5 milioni i venezuelani che hanno lasciato il regime di Maduro in cerca di migliori condizioni di vita.

I Warao a Pacaraima e Boa Vista

Anche molti indigeni warao del Delta Amacuro sono stati costretti a lasciare il paese. Si sono stabiliti inizialmente a Pacaraima, una città dello stato brasiliano di Roraima appena oltre il confine con il Venezuela, ma molti si sono poi spinti all’interno dello stato di Roraima, in città come Boa Vista, e in altri stati, come a Manaus, in Amazonas.

Sopravvivono con le donazioni di enti privati e di beneficenza. Molti hanno portato con sé prodotti di artigianato dal Venezuela e lavorano come venditori ambulanti. Alcuni vorrebbero restare a vivere in Brasile e vanno alla ricerca di lavoro, ma senza successo, anche perché privi di documenti di identità.

La situazione di precarietà aumenta la loro vulnerabilità, i rischi di sfruttamento, l’uso di droghe, la fame e le malattie.

Missionari itineranti

Per i Missionari della Consolata in Venezuela, il futuro di queste comunità indigene è motivo di grande preoccupazione. La Direzione generale dell’Istituto, venendo incontro a questa situazione, a maggio del 2018, ha approvato la creazione di un’équipe missionaria itinerante per accompagnare proprio gli immigrati e rifugiati venezuelani a Pacaraima e Boa Vista.

Il team è composto da tre missionari, uno dei quali lavora con i Warao a Tucupita.

Le sfide da affrontare giorno per giorno riguardano tutti i settori: documentazione, salute, sicurezza, trasporti, educazione, lavoro e integrazione. Oltre a queste sfide e all’assistenza religiosa, i missionari si dedicano in modo speciale all’alimentazione dei bambini fra i quali si riscontrano molti casi di denutrizione. A loro vengono offerti due pasti a settimana accompagnati da formazione umana, culturale e igienica. (S.F.)

 




IMC Venezuela 50: l’animazione missionaria


I Missionari della Consolata, fin dal loro arrivo in Venezuela, hanno messo tra le loro priorità l’animazione missionaria e vocazionale della chiesa locale. Da questo proposito sono nati l’inserimento nelle Pom, l’apertura del seminario filosofico e la nascita di Jovenmisión.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

 


L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Chiesa ad gentes

L’obiettivo principale dell’arrivo dei Missionari della Consolata in Venezuela fin dall’inizio fu l’animazione missionaria e la promozione vocazionale. Il Capitolo generale del 1969 lanciò l’Istituto in questa linea: animare le giovani chiese all’evangelizzazione. Padre Giovanni Vespertini, a fine del 1970, stabilendosi a Trujillo, regione delle Ande venezuelane, una delle più religiose del Venezuela, aveva visto la possibilità di animare all’ad gentes la vita religiosa e sacerdotale della chiesa locale.

Le prime tappe

La destinazione di padre Luigi Crespi alla stessa zona fu pensata in questa prospettiva. Arrivato dalla Spagna, dove svolgeva lo stesso ministero, nel 1972, iniziò ad animare la diocesi di Trujillo nella città di Valera.

Nel 1974 arrivò padre Francesco Babbini come responsabile del Gruppo Imc Venezuela. Egli lanciò l’animazione a 360 gradi.

Viaggiando in autobus, senza ancora conoscere il paese, di notte o di giorno, con la sua valigetta piena di dépliant, il proiettore e i documentari di padre Gabriele Soldati, fermandosi nelle diocesi, nei seminari, nelle parrocchie, nelle scuole, in poco tempo fece conoscere i Missionari della Consolata nel paese. Divenne amico del nunzio apostolico e raggiunse i vicariati del Caroní e di Machiques, offrendo alla chiesa locale la possibilità di una nostra presenza tra le popolazioni indigene a loro affidate. Si sarebbe optato poi per Machiques, nella regione della Guajíra.

A Caracas padre Francesco Babbini offrì la sua esperienza alle Pom (Pontificie opere missionarie), delle quali divenne un valido collaboratore. Nella capitale aprì anche il seminario propedeutico e filosofico della Consolata nel 1977.

Jovenmisión e Cajumi

Da sempre la presenza dei missionari nelle diocesi fu presenza pastorale e di animazione missionaria. Nelle diocesi di Trujillo, San Cristobal, Los Teques e Barquisimeto, i missionari furono anche i direttori diocesani delle Pom. A Barquisimeto, in particolare, oltre alla pastorale nelle due parrocchie del Buen Pastor e del Ujano, i missionari crearono il Cam (Centro di animazione missionaria) dove si offriva (e si continua a offrire) formazione alla missione a livello locale e nazionale.

In Venezuela l’Imc fu e rimane l’unico istituto missionario specificamente ad gentes. Quindi con una responsabilità non indifferente nell’animare la chiesa locale alla missione.

Nel 1986 il direttore nazionale delle Pom chiese un missionario della Consolata per svolgere il compito di segretario nazionale della pontificia Opera di San Pietro Apostolo e di responsabile per l’animazione missionaria della gioventù. Padre Nelson Lachance, canadese, assunse l’incarico ed ebbe l’illuminazione di fondare «Jovenmisión» (Missione giovane): non un movimento, ma un servizio ai gruppi giovanili ecclesiali.

Nel 1988 realizzò il primo «Cajumi» (Campo Giovanile Missionario), a Santa Rosa de Ocopí, nella regione di Anzoátegui, con la partecipazione di giovani venezuelani e di altri provenienti da altre nazioni latinoamericane. Furono organizzate giornate di riflessione, catechesi e preghiera.

Una gioventù missionaria entusiasta

Come successore di padre Lachance, fu nominato chi scrive. Con l’aiuto della suora teresina Marta Cecília Ramírez Marin e di alcuni giovani, strutturai la neonata Jovenmisión su tre dimensioni: spiritualità, formazione e missione.

I punti salienti del programma annuale, a livello nazionale erano (come sono ancora adesso): la Pasqua giovanile missionaria, dal lunedì santo alla domenica di Pasqua; la Scuola di leader missionari in due tappe, ciascuna di otto giorni, per la formazione alla missione; il campo giovanile missionario – Cajumi – di 25 giorni in una zona poco evangelizzata. Dal 1989 ad oggi, l’esperienza del Cajumi non è mai stata interrotta. Un anno particolare fu il 1997, quando nei mesi di luglio e agosto si realizzarono contemporaneamente 27 Cajumi in tutto il Venezuela.

I frutti

Quali sono stati i frutti del lavoro di animazione svolto dall’Imc in Venezuela?

Noi abbiamo visto questo: è cresciuta la coscienza missionaria nelle parrocchie, nei movimenti apostolici, tra i giovani e i bambini. Nei tempi forti dell’anno liturgico e nel mese di agosto, i cristiani si fanno evangelizzatori nei villaggi e nei paesi privi di assistenza religiosa. La Giornata missionaria mondiale, è diventata il «Mese missionario», e la colletta per le missioni molto più significativa e consistente, sia nelle parrocchie che nelle scuole cattoliche. In questo mese è diventata tradizione la «Camminata giovanile missionaria» che, cambiando percorso ogni anno, diventa, ancora oggi, nel 2021, momento di testimonianza e animazione di strada dei giovani con i Missionari della Consolata.

Giovani e ragazzi optano per la vita religiosa, sacerdotale e missionaria. Anche per la Consolata. Un esempio è padre Lisandro Rivas, primo missionario della Consolata venezuelano, dopo aver lavorato in Kenya, è stato superiore della Delegazione Imc del Venezuela, formatore nel seminario teologico di Bogotà (Colombia) e attualmente lavora per la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli come rettore del Collegio S. Paolo, in Roma, dove sacerdoti da tutto il mondo studiano nelle Università pontificie.

Nel 1993 una coppia di giovani sposi partì per il Congo RD, lavorando per tre anni e mezzo nella missione di Neisu, facendo molto bene. Furono i primi laici missionari della Consolata del Venezuela. Negli anni successivi altri avrebbero seguito il loro esempio. Una giovane, appena laureata, partì per la missione di Tencua (vicariato di Puerto Ayacucho) lavorando per quattro anni con le missionarie della Consolata in piena selva amazzonica. Fu poi raggiunta e sostituita da un’altra giovane dedicata alla formazione ed educazione degli indigeni Yecuana.

Il giovane avvocato Adrián Enrique Gelves partì per il vicariato di Puerto Ayacucho, dove svolse il compito di responsabile per i diritti umani degli indigeni per quattro anni. Dopo il matrimonio, continua ancora oggi a svolgere lo stesso servizio mentre la sua sposa è responsabile della Caritas del vicariato. Una giovane laureata in Educazione li ha raggiunti, e qui rimane tuttora, sposata con un indigeno.

Un giovane seminarista teologo ricevette dal cardinale arcivescovo di Caracas il permesso per studiare al pontificio Collegio urbano di Roma per prepararsi per la missione. Per tre anni svolse il suo ministero come aggregato alla Consolata nella diocesi di Lichinga in Mozambico, e oggi è il direttore nazionale delle Pom in Venezuela. Dopo di lui, un altro sacerdote diocesano si aggergò all’Imc e rimase in Mozambico per quattro anni.

Nel 2014, la Cev (Conferenza episcopale venezuelana) assunse una missione in Mozambico, e da allora ha inviato due sacerdoti fidei donum e sei laici. La missione di Manje è tra le più dinamiche della diocesi di Tete.

I frutti continuano a maturare anche a distanza di tempo come il cammino sinodale, lanciato dalla Cev nel mese di aprile di quest’anno, quando, con la partecipazione di tutti i membri della chiesa in Venezuela, si è iniziato a riflettere, dialogare e promuovere l’impegno ad essere «una parrocchia missionaria, in uscita per i nuovi tempi». Lo scopo è generare la trasformazione pastorale che la Chiesa sogna e di cui parla papa Francesco, una Chiesa in uscita, ospedale da campo, che raggiunge tutti, anche nelle periferie.

Sandro Faedi


In quindici al lavoro

Fedeli al proprio carisma, i Missionari della Consolata in Venezuela vogliono continuare a essere presenza significativa.

Cinquant’anni di presenza Imc in Venezuela, cinquant’anni di pagine missionarie scritte con entusiasmo e sudore dai missionari che si sono succeduti in questa terra benedetta da Dio, con tanti doni, eppure immersa in una grande tribolazione, segnata da povertà, ingiustizia, violenza e morte.

In questa realtà essi continuano a seminare il campo di Dio lavorando in trincea tra immense difficoltà e a costo di grandi sacrifici personali. Attualmente sono quindici: a Barlovento, tra gli afrodiscendenti (Caucagua, Panaquire, El Clavo, Tapipa); nell’archidiocesi e città di Barquisimeto, con il Centro di animazione missionaria (Cam); nel vicariato di Tucupita, tra gli indigeni warao (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas con la sede della delegazione, il seminario propedeutico e filosofico, e la parrocchia di Carapita nella periferia della città.

In conclusione, di questo dossier lasciamo loro la parola per fare nostro il loro appello a pregare per il Venezuela. (S.F.)

Consolazione e liberazione

[Pregate per il Venezuela] affinché possa uscire da questa situazione difficile, e perché noi missionari siamo segno di consolazione in mezzo a tanta sofferenza e dolore. In questo contesto viviamo il nostro carisma di consolazione/liberazione, e ogni giorno che passa ci convinciamo sempre più che siamo dove il Signore ci vuole.

Nel suo intervento durante il nostro XIII Capitolo generale, papa Francesco ci ha detto parole che ci infondono grande forza e speranza: «Vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice. Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori» (4 giugno 2017).

Siamo anche convinti che il beato Giuseppe Allamano sia al nostro fianco e che, grazie all’opera di ciascuno di noi, cammini con il nostro popolo. Traiamo forza anche dalle parole di Gesù, che soffre con la gente e ci incoraggia a continuare a condividere la nostra vita con un popolo che, sebbene rischi di morire di fame, non esita a spezzare il pane quotidiano con chi ne ha ancora meno.

Affermiamo ancora una volta che questa è l’ora della consolazione, l’ora di rimanere e camminare spalla a spalla con persone che, nonostante tutto, continuano a sognare un domani migliore.

Affidando il nostro essere missionari e la nostra azione all’intercessione della Consolata nostra madre, del beato Fondatore e del nostro patrono, san Oscar Arnulfo Romero, vi salutiamo con gioia.

I Missionari della Consolata della Delegazione Venezuela


Hanno scritto questo dossier:

�Sergio Frassetto
Missionario della Consolata in Venezuela dal 1978 al 1993, autore di «Sognatori nel deserto», Emi, 1995. Oggi a Torino.

�Sandro Faedi
Missionario della Consolata oggi in Mozambico.

�Andrés García Fernández
Missionario della Consolata oggi in Venezuela.

�Jaime Carlos Patias
Missionario della Consolata oggi membro della direzione Generale.

�Foto del dossier: Archivio Fotografico MC




Come un seme

Scrivo alla vigilia del mio cinquantesimo di vita missionaria. Un’occasione per chiedere perdono, ringraziare e pregare. Chiedere perdono per affidare il passato e le mie fragilità alla misericordia di Dio, ringraziare per le persone incontrate e amate in questi anni e per il tempo presente che è ogni giorno un dono inedito, pregare per guardare avanti e continuare il cammino fidandomi di Gesù e della Consolata.
Cinquant’anni fa, John Lennon cantava la sua Imagine, eravamo nel pieno del post Concilio, il ‘68 pulsava ancora nei cuori, e i missionari della Consolata vivevano una vivace e coraggiosa stagione di evangelizzazione. In Roraima (Brasile), dopo l’uccisione di padre Giovanni Calleri nel novembre ‘68, nasceva la missione del Catrimani riempiendo i sogni dei giovani come me. In Mozambico era il momento della guerra di indipendenza e i nostri confratelli pagavano la loro vicinanza alla gente con espulsioni, sequestri e anche uccisioni (come quella di padre Guerino Prandelli nel 1972). Indimenticabile l’appassionata testimonianza di padre Celio Regoli, appena espulso da quel paese perché critico verso i colonialisti. Nel 1971 l’Istituto tornava in Etiopia, il primo amore, trent’anni dopo che i suoi missionari erano stati imprigionati e cacciati dagli inglesi. Cominciava anche la nuova avventura missionaria in Venezuela e in Sudafrica, mentre padre Noè Cereda apriva le porte dello Zaire (oggi Rd Congo), uscito da poco da una terribile guerra.
La missione faceva davvero sognare. In quel contesto, con una quindicina di compagni, il 12 settembre, dicemmo il nostro sì al «prima santi, poi missionari» dell’Allamano. Avevamo negli occhi e nel cuore le montagne e i deserti del Marsabit, le immense foreste dei Pigmei dell’Ituri in Zaire, le distese con i grandi fiumi del Caquetà in Colombia, gli Yanomami di Roraima, senza dimenticare gli altri paesi dove l’Istituto era presente dai primi anni del Novecento.
Cinquant’anni dopo, viene da domandarsi se sia il caso di celebrare questo giubileo, e non solo perché con il Covid-19 è più difficile trovarsi insieme a far festa. Da una parte, in questi anni, abbiamo assistito alla miracolosa esplosione di vitalità delle Chiese di quello che un tempo si chiamava «Terzo mondo», non più «La terza chiesa alle porte» (come scriveva Walbert Bühlmann nel 1975), ma parte viva e vitale della Chiesa universale, con un papa argentino e vescovi e cardinali nativi di ogni angolo del mondo. Dall’altra, l’Europa, che un tempo si vantava delle sue origini cristiane, sta diventando sempre più scristianizzata e fiera delle sue nuove «idolatrie»: benessere, progresso, individualismo, successo e popolarità, nazionalismi… ben difesi da sempre nuovi muri. Le chiese sono vuote o in vendita, i conventi e le case religiose chiudono una dopo l’altra, i seminari sono semideserti, giovani preti e religiosi e suore dal Sud del mondo riempiono a stento i vuoti. Mentre i vecchi credenti vanno in cielo, i loro figli e nipoti sono convinti che si può vivere benissimo anche senza Dio. Viene da domandarsi: quale futuro ci sarà per un’Europa sempre più vecchia, inquinata e chiusa in se stessa?
Scrivo questo perché pentito di essere missionario? Per niente. E credo di poterlo dire con tutti i miei confratelli. Abbiamo sicuramente fatto errori nella nostra fragilità, ma l’amore che abbiamo condiviso non è stato buttato al vento. La missione ci ha coinvolto in una splendida avventura. Nella ricerca continua di Colui per il quale abbiamo giocato la vita, abbiamo incontrato persone, non numeri. E queste persone ci hanno aiutato ad amarLo ancora di più, a scoprirlo presente là dove meno ce l’aspettavamo. Ci hanno fatto capire che non sono le costruzioni che contano, neanche le più belle chiese, ma tutti quei piccoli gesti che portano gioia, pace, riconciliazione, rispetto, tenerezza, che rompono la solitudine, fanno cantare il cuore, ridonano voglia di vivere e sperare, e costruiscono famiglia e comunità. Chi è amato è capace di sperare contro ogni speranza, anche in tempi di Covid e talebani.
In questi giorni provati dalla pandemia, i piccoli gesti d’amore di tante persone si stanno rivelando più tenaci e capaci di visione della tracotanza dei super ricchi, della violenza dei mafiosi, delle promesse dei politici e del fondamentalismo dei fanatici. Sono la garanzia che il piccolo «seme di senape» continua a crescere e ci mostrerà sorprese. A noi sta di continuare ad accogliere la sfida della missione, che percorre vie sempre nuove e chiama a «prendere il largo», attraversando il mare infido della crisi, fidandoci di Lui.

Gigi Anataloni




Altrove in ogni dove

testo di Ugo Pozzoli |


Prima puntata di una serie di riflessioni e racconti di esperienze sul campo per inquadrare la missione nel vecchio continente. Dallo spunto del messaggio del papa per la giornata missionaria, mettiamo i primi tasselli.

«Tutto in Cristo ci ricorda che il mondo in cui viviamo e il suo bisogno di redenzione non gli sono estranei e ci chiama anche a sentirci parte attiva di questa missione». Così scrive papa Francesco nel messaggio per la Giornata missionaria mondiale in programma il 24 ottobre.

«Il mondo in cui viviamo» è il contesto nel quale ci troviamo, l’ambiente dove siamo chiamati a vivere la nostra fede come persone e comunità cristiane.

«Nessuno è estraneo – continua Francesco -, nessuno può sentirsi estraneo o lontano a questo amore di compassione», amore che avvicina, tocca, chiama, convoca, sana, perdona, riconcilia… salva.

Tutti chiamati a essere «altrove e in ogni dove», dove l’altrove è uno spazio diverso dal nostro, da quello che occupiamo, dal metro quadrato dei nostri bisogni, delle nostre certezze, del nostro io ingombrante. L’ogni dove è dappertutto, ogni spazio conosciuto e non, al di là di oceani e deserti o anche solo dietro l’angolo, magari dentro di noi.

L’altrove è lontano

Facciamo fatica ad accogliere l’idea che «altrove e in ogni dove» può essere anche qui in Europa. Questo, del resto, è anche abbastanza comprensibile, per esempio, per un Istituto come il nostro, nato in Italia all’inizio del XX secolo (1901), in un tempo di piena espansione missionaria (e coloniale), quando la terra di origine era considerata «solo» una «base logistica» di missioni concepite per altri continenti.

«Siamo per i pagani», recitava il mantra del buon missionario animato dallo spirito di quel tempo. Siamo per i non cristiani, per andare in Kenya, Etiopia, Tanzania, Mozambico; poi in America: Brasile, Argentina, Colombia; infine, in Asia. In Europa si rimaneva per servizi specifici in favore dell’Istituto, e si ritornava, obtorto collo, per dare una mano in quella che prima era chiamata «propaganda» e poi «animazione» missionaria, l’attività che aveva lo scopo di sensibilizzare le nostre Chiese alla missione, raccogliendo fondi e suscitando vocazioni, per continuare il lavoro ad gentes da un’altra parte, qualunque essa fosse.

L’altrove è qui

Oggi non è più così. Stiamo vivendo un tempo che non è soltanto un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento di epoca.

È sufficiente guardare le nostre chiese vuote e le strade piene di gente di ogni provenienza per capire che i crocicchi dove il Signore ci invia a chiamare partecipanti al banchetto del Regno (Mt 22, 9) possono essere gli incroci dei quartieri delle nostre città europee. Sentirsi chiamati e inviati ad annunciare il nome di Cristo a chi non lo ha mai sentito pronunciare non implica obbligatoriamente dei grandi spostamenti. Quegli «estremi confini» che rappresentano l’orizzonte del mandato missionario, risultano essere a volte fisicamente vicini. Eppure, non per questo più facili da raggiungere.

La missione è un dono ricevuto che a nostra volta offriamo, è il dono della fede, aperto alla speranza e reso autentico nell’amore. È il frutto di un’esperienza di incontro con il Signore, un incontro talmente profondo e significativo che cambia la vita e stimola alla condivisione, a far parte con altri della ricchezza ricevuta.

Oggi più che mai, anche in Europa, questo dono aspetta di essere scambiato.

Non possiamo tacere

«Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» è il titolo del messaggio che il papa rivolge quest’anno alla cristianità in occasione di questa domenica speciale dedicata alla missione. È una citazione dal libro degli Atti degli Apostoli (At 4,20), il libro della missione tanto caro a Francesco, «Cosa, però, abbiamo visto e ascoltato? O per meglio dire, abbiamo visto e ascoltato qualcosa?».

Vedere e ascoltare sono verbi fondamentali per chiunque voglia imbarcarsi nell’avventura di essere discepolo missionario del Vangelo.

Ma vedere e ascoltare che cosa? Innanzitutto, la realtà. Vivere con attenzione per poter cogliere i segni dei tempi: leggere la vita che scorre nelle vene di questo nostro continente, e non leggerla soltanto attraverso le pagine di un libro.

Il missionario è persona che si cala nel contesto e incontra la cultura del suo tempo nel luogo nel quale essa esiste e si esprime: nelle persone.

La missione nasce da un incontro, si perfeziona nel dialogo e si concretizza in un abbraccio.

Eppure, lo sappiamo bene, si possono vivere un tempo e un luogo senza realmente vederli e sentirli. Anche oggi, anche qui, nel mondo dove, come dice Francesco nel suo messaggio, la pandemia ha evidenziato e amplificato il dolore, la solitudine, la povertà e le ingiustizie di cui tanti già soffrivano, si può vivere senza rendersi conto di ciò che chiama la nostra presenza e, se non ce ne rendiamo conto, neppure ce ne facciamo carico.

La pandemia colpisce in particolare le persone più vulnerabili, che restano indietro e rischiano di diventare invisibili e il cui grido rimane muto.

L’esperienza di vedere e ascoltare l’uomo non può prescindere, per il missionario, dall’esperienza del vedere e ascoltare il Maestro, Gesù.  L’incontro con l’uomo è in stretta connessione con ciò che abbiamo visto e ascoltato nell’incontro con Lui, con ciò che abbiamo appreso e che non possiamo tenere per noi stessi. Non possiamo tacere l’amore che ci sospinge. E siamo chiamati a condividerlo lì dove ci troviamo, facendo nostre le ansie, le gioie, le paure, i sogni delle persone che quotidianamente incontriamo.

YARA NARDI /ITALIAN RED CROSS – salvando un migrante in mare

Sognare l’Europa

Proprio i sogni, ci ricorda ancora papa Francesco, sono importanti, e lui ne ha riservati parecchi anche per l’Europa. Nel messaggio pronunciato il 6 maggio 2016, in occasione del conferimento del premio Carlomagno, il papa si è rivolto alla terra dei suoi avi (l’Europa appunto) confidandole i sogni che nutre per lei. Merita riportarli qui, perché ognuno di essi rappresenta un possibile impegno missionario verso una terra che ha bisogno di sentire nuovamente scorrere nelle sue vene aperte il flusso inarrestabile del Vangelo: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, “un costante cammino di umanizzazione”, cui servono “memoria, coraggio, sana e umana utopia”. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo.

Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».

Sognare missione Europa

Nei prossimi mesi, a partire da questo, MC vi porterà a spasso per il nostro vecchio continente, facendovi percorrere le strade intasate di un quartiere multietnico di una grande città del Nord Italia, partecipare alla vita che si svolge quotidianamente fra i palazzoni della periferia di Lisbona, esplorare le rotte mediterranee della miseria e della speranza che uniscono il Nord Africa con la Spagna. Vi farà incontrare persone, consacrate e non, che vivono la loro missionarietà senza farsi troppi scrupoli sul dove e il perché, ma semplicemente, come dice ancora Francesco nel suo messaggio, «lasciano fiorire il miracolo della gratuità, del dono gratuito in sé» e vivono la loro vocazione come restituzione di quanto hanno ricevuto, confidando che il sogno possa, al risveglio, trasformarsi in realtà.

Ugo Pozzoli

 * Regione Europa IMC

Senzatetto – Lisbona, Portogallo




Vangelo senza quarantene


Vescovi in mezzo alla pandemia

Cinque missionari della Consolata raccontano la loro lotta contro il Covid-19. Da un punto di osservazione (e partecipazione) particolare: quello del vescovo. Cinque Chiese locali in cinque paesi tra Africa, Asia e America Latina. Cinque esperienze accomunate dallo spirito missionario, quello che va in cerca dei lontani e degli ultimi, anche in tempi di confinamento.

I vescovi missionari della Consolata oggi sono dodici. Tutti al servizio di Chiese presenti in territori poveri e a volte dilaniati dai conflitti, comunità colpite duramente anche dalla pandemia di Covid-19.

Nati in otto paesi diversi tra Europa, Africa e America Latina, hanno dai 47 ai 79 anni e operano in Brasile, Colombia, Eswatini, Kenya, Mongolia e Mozambico.

Dall’Africa alla Mongolia all’America Latina, il Covid-19 non ha risparmiato nessun paese e nessuna classe sociale, ma i primi a rimanere senza ossigeno sono stati, come sempre, i più poveri, gli esclusi, compresi quelli che nemmeno hanno potuto capire di cosa stessero morendo e sono rimasti fuori dalle statistiche per mancanza di tamponi, perché nel loro paese c’è un solo medico ogni 10mila persone.

Cinque di questi vescovi raccontano ai lettori di MC come stanno affrontando l’emergenza sanitaria nelle Chiese che servono. Monsignor Giorgio in Mongolia, mons. Joaquín in Colombia, mons. Diamantino in Mozambico, mons. José Luis in Eswatini e mons. Giovanni in Brasile.

Ciò che accomuna i loro episcopati è lo stile missionario, declinato in modo originale in ciascuna delle Chiese particolari nelle quali hanno operato e operano. L’annuncio a tutti, soprattutto a chi non ha ancora conosciuto Cristo, la scelta degli ultimi, la consolazione, la promozione della pace, il dialogo interreligioso, l’amore per Maria Consolata sono tra i pilastri della loro azione pastorale, anche in mezzo alla pandemia.

Sono volti di una chiesa che partecipa alla sofferenza e alla speranza del suo popolo.

Luca Lorusso

Grafico di Kreativezone


Confinati nelle steppe

Mongolia: Monsignor Giorgio Marengo

È diventato vescovo della giovanissima chiesa mongola nel mezzo della pandemia. Con tutti i luoghi di culto chiusi, dopo più di un anno, monsignor Marengo non ha ancora potuto celebrare l’eucaristia con il suo popolo. Ma la vicinanza ai mongoli, sia cristiani che non, è sempre viva.

La nomina a vescovo di Ulaan Baatar è arrivata a padre Giorgio Marengo il 2 aprile 2020, mentre era parroco della missione di Arvahieer, un piccolo centro rurale della Mongolia.

In quei giorni, le immagini della fila di camion militari che trasportavano le bare delle vittime bergamasche del Covid-19, facevano il giro del mondo. Il 27 marzo in Italia si era registrato il numero più alto di morti nella prima ondata, 919 in 24 ore, superato solo dai 993 del 3 dicembre successivo. La Mongolia sperimentava le chiusure anti-Covid già da febbraio, benché mancassero molti mesi al 29 dicembre, quando si sarebbe registrato il primo morto per Covid anche lì.

A causa delle chiusure, monsignor Giorgio non ha potuto essere ordinato vescovo in Mongolia e ha dovuto aspettare quattro mesi dopo la nomina. L’ordinazione è avvenuta l’8 agosto 2020 nella sua Torino, al santuario della Consolata.

È successore di mons. Wenceslao Selga Padilla, vescovo filippino della congregazione del Cuore immacolato di Maria, morto nel 2018, che, assieme ad alcuni confratelli, aveva rifondato la chiesa in Mongolia dal 1992, dopo 70 anni di comunismo. La Prefettura apostolica comprende l’intero territorio della Mongolia, 1,566 milioni di Km2 (quasi cinque volte l’Italia) nei quali vivono tre milioni di abitanti, e 1.300 cattolici. I sacerdoti sono 24, tutti, tranne uno che è locale, sono missionari stranieri. C’è un diacono che aspetta da due anni, a causa del Covid, di diventare prete, e 35 suore, anch’esse straniere.

A oggi, mons. Marengo non ha potuto ancora celebrare l’eucaristia con il suo popolo.

Monsignor Marengo, lei è diventato vescovo l’8 agosto 2020 nel bel mezzo della pandemia.

«La mia vita è cambiata in un anno strano. Molte delle cose legate al diventare vescovo, io le ho vissute fuori dagli schemi. Ad esempio: quando vieni nominato vescovo, entro 90 giorni devi essere consacrato. Ecco, per me non è stato possibile, perché in Mongolia non poteva venire nessuno, il paese era chiuso. Un altro esempio è la nomina: di solito vi è coinvolta molta gente, compreso il nunzio… per me, invece, eravamo quattro gatti, e tutto è stato fatto in sordina.

L’ho presa come un’indicazione di metodo, che poi è quello allamaniano di non fare rumore.

Oggi la Mongolia è ancora isolata e i luoghi di culto sono tutti chiusi da un anno e mezzo.

All’inizio, ho vissuto la pandemia in campagna, ad Arvahieer, come parroco. Quando è arrivato il momento di dare pubblicamente la notizia della mia nomina, sono andato in corriera a Ulaan Baatar. In quei giorni l’Italia era il paese più colpito dal coronavirus. Quando sono arrivato in capitale, è entrata la polizia nella corriera e, dato che io ero l’unico straniero, mi hanno chiesto di dove fossi. Quando ho risposto che ero italiano si sono spaventati tutti. Allora l’autista, che mi conosce, ha subito detto: “No no, lui vive qua, non era in Italia in queste settimane”».

Torino, consacrazione vescovile di Mons. Giorgio Marengo Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia

La chiusura ha riguardato solo le riunioni religiose, o tutti?

«A ondate è stata ridotta, fino a essere cancellata, anche la vita sociale in generale: le attività, i cinema, i teatri, ecc.

A intermittenza, le altre attività sono riprese, quella religiosa no. Non solo i luoghi di culto cristiani, ma tutti, anche i monasteri buddisti. Per noi cristiani è fondamentale recarci di persona in chiesa, per la celebrazione dei sacramenti, soprattutto l’eucaristia. È dunque un grande sacrificio quello che ci viene chiesto».

Ci fa una cronaca del Covid nel paese?

«Quando in Italia c’era il Festival di Sanremo, nel 2020, in Mongolia eravamo già chiusi.

Appena sono arrivate le prime notizie da Wuhan, il governo ha chiuso il confine con la Cina e ha bloccato tutte le comunicazioni interne.

In Mongolia sono molto bravi perché sono abituati a epidemie periodiche, per esempio alla peste bubbonica trasmessa dalle marmotte e dai roditori. Ogni anno d’estate ci sono dei luoghi in cui scoppia un focolaio, e allora chiudono tutto.

Per il Covid sono stati tempestivi, e sono riusciti a stare tranquilli per diversi mesi.

A marzo 2020 c’è stato il primo caso di un positivo: era un francese, lavoratore di una multinazionale. All’inizio è stato molto male, ma poi è guarito, e questa guarigione è stata vissuta dal paese come una vittoria. Si è diffusa un po’ l’illusione che la Mongolia fosse esente dalla pandemia. In effetti, i casi sono stati molto pochi per diversi mesi, fino all’autunno del 2020.

L’11 novembre è iniziato il primo lockdown serio, fino a Natale. Non si poteva uscire di casa. In quei mesi i mongoli hanno capito che non erano indenni neanche loro.

Con l’anno nuovo è iniziata la campagna vaccinale di massa. Questa primavera è stato un susseguirsi di lockdown e parziali riaperture.

Oggi (ad agosto, ndr) i casi sono molti e ci sono ancora decessi quotidiani, con picchi di 10 persone al giorno*».

Quali nuovi problemi e nuove opportunità ha portato la pandemia al paese?

«Nei momenti di chiusura sono emerse con più forza le grandi tensioni già presenti nella popolazione. Quelle che sfociano in piaghe sociali come l’alcolismo, che infatti ha avuto un boom.

La famiglia si sta sgretolando in Mongolia. Molte famiglie si sono trovate all’improvviso a stare “recluse” insieme nei pochi metri quadri della loro gher o appartamento, e sono venute fuori molte situazioni difficili, soprattutto laddove l’unità familiare era già minacciata dall’assenza di uno dei genitori, solitamente il padre. In generale, è balzata all’occhio di tutti la carenza del sistema sanitario. In un paese che sta crescendo, la sanità pubblica dovrebbe essere una priorità.

Il popolo mongolo, però, si compatta molto bene in caso di emergenza. Il sentimento di unità nazionale è molto forte, e si è visto chiaramente con la pandemia. Ad esempio, nessuno si lamenta della mascherina.

Sono anche emersi casi di eroismo civile: quando scarseggiavano ambulanze e autisti e lo stato ha chiesto aiuto alla popolazione, molta gente, anche con la propria macchina, si è offerta.

Come Chiesa abbiamo innanzitutto cercato di soccorrere le persone più in difficoltà, organizzando distribuzioni di generi di prima necessità. In questo, molti amici italiani sono stati di grande aiuto, rispondendo con generosità ai nostri appelli. Poi, trovandoci chiusi in casa, abbiamo potuto riflettere maggiormente sulle nostre attività, provando a intraprendere un discernimento. Da questo lavoro è nato, ad esempio, un progetto di catechesi in piccoli gruppi che possa andare avanti anche in caso di lockdown, perché le riunioni fino a cinque persone sono concesse. Una catechesi slegata dagli schemi del classico catechismo parrocchiale, quello fatto dall’autunno alla primavera, con la pausa estiva. Ci siamo inventati qualcosa di più adattabile.

E poi c’è tutto il discorso dei media: ancora adesso facciamo la trasmissione online della messa sul canale FB della prefettura apostolica della Mongolia. Anche le parrocchie la fanno. E i catechisti hanno iniziato a far circolare materiale sui social per sostenere i fedeli».

Qual è la peculiarità dell’essere un vescovo missionario della Consolata? Qual è il «valore aggiunto» che lei e i suoi confratelli vescovi offrite alle diocesi che guidate? E cosa offre il vostro essere vescovi all’Istituto?

«Alle chiese particolari i vescovi della Consolata offrono il loro essere missionari, quella spinta che va in ricerca non solo di chi è già cristiano, ma anche di chi è ancora fuori dal gregge cattolico. Penso anche alla nostra impostazione sacerdotale basata sulla spiritualità del beato Allamano, e quindi sui pilastri dell’eucaristia, della vita mariana e del fare bene il bene senza rumore. Sottolineerei soprattutto la dimensione della ricerca dell’annuncio. Cosa che magari in altri contesti, se il vescovo non viene da un’esperienza missionaria, può essere meno presente. Quindi un’attenzione particolare agli ultimi, e a quelli che, semplicemente, non sono cristiani, un atteggiamento di dialogo, una volontà di creare ponti nella società.

Per l’Imc avere dei vescovi tra i suoi missionari penso possa voler dire avere sott’occhio la situazione delle Chiese particolari da una prospettiva un po’ più ampia. Sono un po’ come delle voci che portano dentro l’Istituto tutta la Chiesa».

Il motto del suo episcopato è un versetto del salmo 34: «Guardate a Lui e sarete raggianti». In che modo ha vissuto questa esortazione nel suo primo anno da vescovo?

«Intanto mi sono piacevolmente stupito di come questo salmo ritorni molto spesso nella liturgia feriale. Ogni tanto nella messa quotidiana salta fuori questo “guardate a Lui e sarete raggianti”. Puntare lo sguardo del cuore verso il Signore penso sia la priorità del vescovo missionario.

Cerco, con tutta la mia povertà, di attaccarmi a questa Parola per viverla. La sproporzione fra le esigenze e le sfide della chiesa, e la mia povertà personale, mi mette con le spalle al muro, e mi rende più consapevole che la luce viene da Cristo. Se veramente guardiamo tutti a Lui, questa luce poi si espande nelle nostre realtà.

Poi c’è questa particolarità: “Guardate a lui e sarete raggianti” può essere tradotto anche con “guardate a lui e sarete luminosi”, oppure “illuminati”. Ecco, per noi l’illuminazione viene come pura grazia, non è il raggiungimento di un’intuizione nostra, è la luce di Cristo che ci raggiunge. L’illuminazione è anche il concetto centrale del buddismo. Quindi per me il versetto del salmo 34 ha anche il gusto del dialogo interreligioso.

Ho una grande stima dell’illuminazione come cammino di perfezionamento proposto dal buddismo, e nello stesso tempo sono felice di essere cristiano perché so che la luce viene e, semplicemente, noi la dobbiamo accogliere, e che arriva per chiunque, non è una cosa riservata a pochi intimi, ma è la proposta cristiana per tutti».

Luca Lorusso

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mongolia sono stati 236mila, 780 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 968, uno ogni 3.127 abitanti (in Italia uno ogni 470).


Scuola, sanità e narcos

Colombia: Monsignor Joaquín Humberto Pinzón Güiza

Monsignor Pinzón è il primo vescovo del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano. In un territorio «remoto», dove i confini sono percepiti come idee astratte, il Covid ha portato la durezza del confinamento, e la coscienza di essere uno spazio marginale per lo stato centrale. La pandemia ha evidenziato la carenza di sanità e scuola, ma anche il potere del narcotraffico e dei gruppi di guerriglieri. Nonostante questo, la resilienza e la speranza del popolo rimangono intatte.

Il nostro Vicariato di Puerto Leguizamo-Solano, costituito nel 2013, si trova nel Sud dell’Amazzonia colombiana. Comprende un territorio di 56mila km2 in cui convergono le comunità di tre dipartimenti colombiani: Sud di Putumayo, Sud di Caquetá e Nord dell’Amazzonia. La sua popolazione è di circa 59mila abitanti, di cui 49mila cattolici. Ci sono tredici sacerdoti, di cui 12 religiosi e uno diocesano, e 12 suore per 5 parrocchie. Uno dei suoi tratti peculiari è il suo carattere di confine (tra Colombia, Perù ed Ecuador), che consente lo sviluppo di dinamiche di scambio a tutti i livelli.

Frontiere immaginarie, frontiere reali

Quando papa Francesco dice che «tutto è connesso», ci aiuta a prendere coscienza che le dinamiche vitali che si generano sul pianeta riguardano tutti noi che lo abitiamo.

Essa è una verità ancora più evidente in questo tempo di pandemia da Covid-19. Chi avrebbe immaginato che il coronavirus, avendo avuto origine in terre lontane, avrebbe colpito anche questo angolo di mondo? Questo «luogo remoto», come è considerato da molti.

Possiamo dire che la pandemia non solo ha raggiunto il nostro territorio, ma ci ha anche colpito in modi sorprendenti e inaspettati*.

In questo spazio di vita colombiano dove i confini politici degli stati spesso sono più realtà immaginarie che effettive, dove le frontiere non entrano nella mentalità delle persone e dei popoli, ci è stato imposto un confinamento duro.

Improvvisamente le nostre interazioni e i nostri movimenti sono stati limitati.

Abbiamo capito che nonostante l’Amazzonia sia ampia, possono verificarsi condizioni che impongono limiti al movimento e alle relazioni.

Ora i confini nazionali e internazionali stavano entrando in vigore e in vita. Sì, la sfocatura e la relatività dei confini erano fortemente diluite davanti al nostro sguardo attonito e impotente.

Ora il fiume che ci ha sempre unito, non solo ci separava, ma sollevava nazionalismi che non aiutano nella ricerca di soluzioni ai problemi comuni che affrontiamo come persone, popoli e paesi.

Ora reciprocità e armonia lasciavano il posto all’isolamento e alle tensioni personali e comunitarie, locali, nazionali e internazionali.

Mons Pinzon con suor Gabriella Bono

Territorio trascurato: salute, scuola, fame

Il Covid-19 non solo ha messo in evidenza le differenze tra i paesi, ma ha anche e soprattutto rivelato le differenze all’interno del nostro paese. Abbiamo capito che quando veniamo chiamati «abitanti lontani» c’è qualcosa di vero, poiché in questo tempo di pandemia si è manifestato in modo chiaro lo storico abbandono dei luoghi periferici della Colombia da parte dello stato.

È così che il nostro territorio si rivela, pur con tutto il suo splendore, come territorio marginale, territorio di remota, vera frontiera. I servizi sanitari sono carenti: non esistono né le infrastrutture né il personale sufficiente, tanto meno le attrezzature e le forniture necessarie. Se la pandemia ha aiutato in qualcosa, l’ha fatto nell’evidenziare la precarietà del sistema sanitario.

Anche i servizi educativi sono stati travolti. Si è pensato di poter offrire un’educazione virtuale ai nostri bambini e ragazzi, ma qui, al di là dei cartelloni pubblicitari che affermano: «Leguizamo vive digitale», non c’è un servizio internet all’altezza. Non esistono apparecchiature informatiche che possano consentire ai ragazzi di connettersi. Se queste carenze sono state vissute nei centri urbani, che dire dei villaggi e delle comunità più remote?

È stato un fenomeno che ha esacerbato i problemi già esistenti di un sistema educativo di bassissima qualità, con molti limiti materiali e umani; un sistema che sopravvive grazie agli enormi sforzi degli insegnanti.

Purtroppo, tra i ragazzi c’è una grande diserzione della scuola: molti, demotivati dal fatto di non avere i mezzi per studiare, hanno iniziato a lavorare in fattorie, miniere o coltivazioni illecite.

Il confinamento ha portato anche la fame a coloro che vivono alla giornata (soprattutto nei centri abitati). A riguardo di questo, apprezziamo molto la generosità che è nata per soccorrere tante famiglie in difficoltà. Il valore della solidarietà è stato visibile.

Tarapaca, Colombia. Nov. 12, 2020. Aiuto a una famiglia in necessità. Credit: UE / ECHO / Nadège Mazars

Il traffico di droga non si ferma

Una realtà che non ha subito il confinamento è stata quella del traffico di droga. Anche durante la pandemia hanno continuato a esistere la coltivazione, la lavorazione e la commercializzazione delle droghe. È un fenomeno che rafforza un altro problema drammatico: la violenza.

Senza dubbio, quest’altra pandemia, quella della violenza, ha generato più morti del Covid-19, soprattutto tra i giovani.

Le coltivazioni illecite hanno la capacità di incoraggiare le nuove generazioni a entrare nel mondo del guadagno facile, di difondere quella che viene definita «narco mentalità», quella di chi vuole arricchirsi in fretta e con poco sforzo.

Tutto questo sta generando disgregazione familiare e sociale, sia nelle comunità contadine che in quelle indigene.

La guerriglia

Un’altra realtà, legata a quella della droga, che non ha vissuto il confinamento, è quella bellica. Essa ha continuato a seguire il suo corso «normale», uccidendo e provocando danni.

Gli effetti del processo di pace che si sta portando avanti con i guerriglieri delle Farc, li abbiamo sentiti nella fase di attuazione, quando il gruppo di insorti ha deciso di consegnare le armi. Abbiamo vissuto un periodo di armonia nel territorio e abbiamo potuto sperimentare una certa tranquillità. Ma è stato qualcosa di effimero, come ci ha detto un contadino: «Tanta felicità non può essere così duratura».

Ebbene, purtroppo, il processo di pace non ha previsto come fare per mantenere il controllo e garantire l’ordine nei territori precedentemente in mano alle Farc. Le istituzioni non sono state in grado di arrivare in quei territori. E i territori strategici per la loro collocazione geografica, come il nostro, sono diventati oggetto di contesa da parte di diversi attori, come i dissidenti delle Farc e i gruppi legati al narcotraffico (senza specifica identificazione), tutti motivati dal profitto che le economie illegali portano, e tutti generatori di paura, ansia, caos e morte.

La nostra gente vive consapevole che non c’è alternativa al resistere, e al resistere con saggezza e prudenza, come sa fare da decenni. È la stessa strategia che mette in atto per affrontare il Covid.

Fare del Covid un’opportunità per la vita

Le devastazioni della pandemia da Covid-19 e le altre pandemie che abbiamo descritto, fanno percepire alle persone la fragilità della vita, nonostante sia un dono così prezioso. La malattia, così come la violenza, non hanno remore a colpirci con forza. Ciò che risalta di più in questa lotta è la resilienza delle persone che guardano al futuro con speranza.

Scendendo dal fiume Caquetá sul deslizador, mezzo di trasporto fluviale di questi territori, ho assistito a una conversazione tra alcune persone. Mi ha colpito la frase di una donna: «A che ci è servito tutto questo, se non impariamo niente? Continuiamo come prima».

La verità è che, per molti, tutto quello che hanno vissuto in questo tempo di pandemia, è stato solo una parentesi da chiudere al più presto per tornare alla «vita normale». Ma c’è anche chi crede che questa esperienza ci abbia aiutato in qualcosa, soprattutto a pensare e ripensare il nostro stile di vita politico, economico e sociale.

La pandemia ha messo in luce lo splendore e la fragilità della vita, e la precarietà dei nostri servizi educativi e sanitari. Ecco perché l’imperativo che ne traiamo è quello di valorizzare la vita al di là di ogni altra realtà e di lottare per essa, individualmente e collettivamente.

L’incertezza è ciò che caratterizza il futuro del nostro territorio. Il destino della guerra e del traffico di droga è incerto; incerta la situazione di abbandono da parte dello stato, e la condizione dei servizi educativi e sanitari. Sì, tutto è incerto, e qualsiasi previsione sarà sempre inscritta nell’orizzonte delle probabilità, delle utopie che a volte si trasformano in chimere. Tuttavia noi, come Chiesa, crediamo che la situazione che stiamo vivendo sia uno spazio propizio per sviluppare una spiritualità che ci permetta di affrontare le difficoltà, per rafforzare le spiritualità dei popoli e, al loro interno, proporre la spiritualità della cura, della riconciliazione, della comunione e dell’accompagnamento.

Qui è urgente sognare, progettare e realizzare propositi evangelici che formino e alimentino la vita dei credenti come popolo e come discepoli.

Essere famiglia umana

La coscienza di essere un’unica famiglia umana si rafforza nella fraternità e nell’amicizia sociale.

Nel nostro Vicariato sarà urgente la formazione della coscienza comunitaria, e il rispetto della vita in tutte le sue manifestazioni.

Qui siamo sollecitati a capire che siamo tutti sulla stessa barca e che i problemi di alcuni riguardano tutti, come ha sottolineato papa Francesco. È necessario dare corpo all’utopia della fratellanza, quella tra gli uomini e quella tra l’uomo e la natura. A tal fine, cercheremo di fare delle nostre comunità spazi di vita e di comunione, spazi di trasmissione e coltivazione dei valori di un’umanità solidale.

I motivi per credere sono tanti, tanto da fare della resistenza la nostra forza e da trasformare la paura in speranza.

Joaquín Humberto Pinzón Güiza

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Colombia, su una popolazione di 48,6 milioni di persone, sono stati 4,9 milioni, 1.011 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 125.331, uno ogni 387 abitanti (in Italia uno ogni 470).

Casa distrutta dal ciclone Idai a Tete


Se non bastassero cicloni e terrorismo

Mozambico: Monsignor Diamantino Guapo Antunes

Successore del suo confratello, monsignor Ignazio Saure, divenuto arcivescovo di Nampula, mons. Diamantino è vescovo di Tete dal 12 maggio 2019. È il quinto da quando la diocesi è stata eretta nel 1962. Il Covid, in Mozambico, come in molti altri paesi, ha reso ancora più evidente l’insufficienza della sanità pubblica, e il bisogno di vicinanza e di gesti di consolazione.

La diocesi di Tete conta circa tre milioni di abitanti sparsi in un’area di 100mila Km2 (un terzo dell’Italia). I cattolici sono 750mila. Ci sono 35 parrocchie, 65 sacerdoti, tra cui 17 diocesani e gli altri missionari. I Missionari della Consolata sono sette, incluso il vescovo, responsabili di quattro missioni e un centro di formazione per catechisti.

Il territorio è molto vario, c’è una zona fertile molto popolata (altipiano di Angonia), e una zona secca e arida (lungo il rio Zambesi). Centro propulsore di tutta la regione è la città di Tete.

Le popolazioni appartengono alla stessa etnia bantu, ma sono differenti per lingua e tradizioni. Le principali lingue sono: cinyungwe (40%), cichewa (35%) e cisena (15%) e altre (10%).

La gente vive di agricoltura e, quando può, di commercio informale con bancarelle lungo la strada. Si vive a contatto con le popolazioni dello Zambia, Zimbabwe e Malawi. Il territorio di Tete è ricco di miniere di carbone e ha una delle più grandi centrali idroelettriche dell’Africa, la diga di Cabora Bassa sul fiume Zambezi.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Storia della diocesi

Possiamo dividere la storia dell’evangelizzazione nell’attuale diocesi di Tete in due periodi. Il primo fu iniziato nel 1562 da gesuiti e domenicani che rimasero nella zona fino alla loro espulsione nel 1910. Il secondo iniziò nel 1942, e fu un periodo di penetrazione e consolidamento della Chiesa nel vasto territorio. Esso portò alla creazione della diocesi nel 1962. L’opera di evangelizzazione continua a essere svolta dai gesuiti, dai Missionari d’Africa, dai Padri di Burgos, dai Missionari Comboniani e della Consolata, a diretto contatto con la popolazione, nel lavoro quotidiano e nell’assistenza sanitaria, con notevoli frutti.

La situazione pandemica

Il primo caso di infezione con il nuovo coronavirus in Mozambico è stato confermato il 22 marzo 2020. Si trattava di un uomo di 75 anni tornato dal Regno Unito. Nel 2020 i casi di infezione sono stati pochi, ma con l’allentamento di alcune misure di prevenzione alla fine dell’anno, e l’arrivo dei turisti sudafricani, i casi sono aumentati notevolmente*.

Il Mozambico a inizio agosto era il paese africano con il maggiore tasso di positività, il 16,7%. Le misure del governo si sono fatte più severe. Le scuole sono state chiuse in alcune città, i luoghi di culto pure, c’è il coprifuoco dalle 21 alle 4. Mercati chiusi la domenica. Funerali limitati.

Gli operatori sanitari sono vaccinati, ma la campagna di vaccinazione è lenta. L’intento è di estenderla a tutto il paese entro la fine del 2021.

I nuovi problemi

Il Covid-19 è arrivato in Mozambico in un momento di grande difficoltà. Eravamo nel mezzo della gestione dell’emergenza legata ai cicloni Idai e Kenneth, che avevano distrutto nel 2019 case, centri di salute e ospedali, oltre ad aver causato 600 morti e molti dispersi. Inoltre il terrorismo islamista nella provincia di Cabo Delgado era (ed è) un altro grave problema.

La pandemia ha avuto un grande impatto sull’economia e sulla società, in particolare sul turismo e l’esportazione di materie prime. Il 60% degli stabilimenti turistici ha chiuso. La caduta dei prezzi di materie prime, come carbone e gas, ha pregiudicato gli investimenti esteri, facendo perdere altri posti di lavoro ed entrate statali.

Le piccole imprese hanno immensa difficoltà a mantenere i propri impegni fiscali, divenendo un problema per il paese già abbastanza indebitato.

L’impossibilità dell’insegnamento in presenza ha avuto un profondo impatto sul settore educativo. Lo stesso possiamo dire in campo religioso con la sospensione delle celebrazioni pubbliche e delle altre attività pastorali.

Senza accesso a redditi o sussidi di disoccupazione, con un risparmio piccolo o nullo, e in uno scenario di aumento dei prezzi, la popolazione più povera di Tete, soprattutto urbana, è oggi vulnerabile alla fame. La povertà e l’insicurezza alimentare aumentano l’insicurezza pubblica e urbana, e la piccola criminalità.

Infine, si è ridotta la risposta dei servizi sanitari di trattamento e prevenzione di altre malattie comuni come malaria, tubercolosi, Hiv-Aids.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

La risposta della diocesi di Tete

La provincia di Tete è una delle più colpite dalla pandemia. Essa è, infatti, un corridoio di passaggio per i vicini Malawi, Zambia e Zimbabwe.

La diocesi ha cercato di mantenere viva la speranza tra la gente e di essere una presenza di consolazione e aiuto. Il vescovo ha visitato le missioni ed è stato in contatto con le comunità. Ha chiesto ai missionari di stare ancora più vicini ai fedeli, anche visitando le famiglie.

Siamo a stretto contatto con il ministero della Sanità a livello provinciale, partecipiamo ai tavoli tecnici per organizzare una risposta al coronavirus che metta al primo posto la prevenzione.

Nella Provincia di Tete c’è meno di un medico ogni 10mila abitanti (in Italia ce n’è uno ogni 247, ndr) e le strutture sanitarie sono poche e a volte prive di medicinali. Per questo la prevenzione e la formazione sono la chiave.

Gli agenti di pastorale si sono impegnati anche per diffondere messaggi di sensibilizzazione sul coronavirus, lavorando in piccoli gruppi per rispettare il distanziamento sociale. Abbiamo prodotto spot che sono trasmessi dalla neonata radio diocesana. Gli spot vengono diffusi in dialetti differenti, per arrivare a tutti. Alcuni missionari hanno montato degli amplificatori sulle macchine che girano per barrio e villaggi diffondendo le stesse raccomandazioni.

Diamantino Guapo Antunes

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mozambico, su una popolazione di 28,8 milioni di persone, sono stati 148mila, 51 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.881, uno ogni 15mila abitanti (in Italia uno ogni 470).


Una chiesa piccolo ma pronta

Eswatini: Monsignor José Luís Gerardo Ponce de León

Dal 2014 è vescovo dell’unica diocesi del piccolo Regno di Eswatini. Monsignor Ponce de León descrive una chiesa viva in un paese che, pur pacifico, ha manifestato negli ultimi mesi diverse tensioni, e palesato problemi sanitari, scolastici, economici e sociali rafforzati dal Covid.

Il Regno di Eswatini si trova tra Sudafrica e Mozambico. Il paese, che fino al 2018 si chiamava Swaziland, ha di recente fatto notizia a causa delle violenze dello scorso luglio. Conosciuta come una nazione pacifica, in pochi giorni ha visto la morte di una cinquantina di persone, il ferimento di altre centinaia, e la distruzione di molti negozi.

La diocesi di Manzini è l’unica del paese e, così, io sono l’unico vescovo cattolico. Su una superficie di 17mila km2 (come il Lazio, ndr) vivono 1,4 milioni di abitanti dei quali il 5% cattolici. Arrivato nel 2012 come «amministratore apostolico» dopo la morte di mons. Louis Ncamiso Ndlovu dell’Ordine dei servi di Maria, nel gennaio del 2014 sono diventato il suo quinto vescovo.

La piccola presenza cattolica, in questa nazione a maggioranza cristiana, è ben conosciuta, anche grazie al nostro servizio nel campo della salute (un ospedale, sette cliniche, un ospizio), dell’educazione (sessanta scuole) e della promozione di giustizia e pace (traffico di persone, rifugiati) coordinati dalla Caritas Eswatini.

Proteggere la popolazione

Non appena il presidente del Consiglio ha dichiarato, lo scorso marzo 2020, lo stato di emergenza, la nostra diocesi ha preso due iniziative. La prima è stata quella di interrompere la celebrazione delle funzioni religiose in tutte le parrocchie (17) e le comunità (un centinaio). La rapidità della decisione ha colto di sorpresa molti che hanno così capito la gravità della pandemia. La seconda è stata quella di identificare, insieme alla Caritas, le aree di intervento urgente. Ne abbiamo identificate sei: salute, cibo, acqua, rifugiati, comunicazione, casa.

Salute. Abbiamo fornito l’ospedale, i centri di salute e l’ospizio dei dispositivi di protezione individuale. La Conferenza episcopale italiana ci ha aiutati.

Cibo. La mancanza lavoro e la riduzione degli stipendi hanno inciso sulle famiglie. Le scuole, poi, nel nostro paese, sono una delle principali fonti di nutrimento per i bambini. Con le scuole chiuse, non ne potevano più beneficiare. Per questo, attraverso le nostre parrocchie, stiamo fornendo pacchi alimentari ai poveri della zona.

Acqua. Il messaggio «Lavati le mani» è stato uno dei primi che tutti abbiamo ricevuto e predicato. La domanda qui era: «Come fai quando l’acqua non c’è?». Abbiamo quindi offerto ad alcune famiglie una cisterna e delle grondaie per raccogliere l’acqua piovana. Avere un serbatoio consente anche di acquistare acqua da conservare per i tempi meno piovosi.

Informazione. Come in altri paesi, il governo ha utilizzato radio e Tv per informare sul virus. Con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che c’erano famiglie nelle zone rurali che non avevano nemmeno una radio. Pertanto è stato fatto un elenco di 500 famiglie cui fornirle. Le radio hanno aiutato anche i bambini che hanno potuto ascoltare i programmi radiofonici di insegnamento.

Case con due stanze. Questo programma è iniziato in diocesi molti anni fa grazie al supporto di Home Plan (Olanda). Il Covid-19 lo ha reso più urgente. Il distanziamento è essenziale nella lotta al virus, ma per alcune famiglie che vivono affollate in case di una sola stanza è un lusso.

Rifugiati. Ogni anno visitiamo il Centro per i rifugiati sostenendo le famiglie con pacchi alimentari. La metà dei rifugiati sono bambini. Quest’anno la richiesta del Centro è stata di fornire loro articoli da toeletta e materassi.

Cinquantesimo di padre Massa

Vicinanza social, ma non solo social

Come in altre nazioni, il Covid, oltre a creare dei nuovi problemi, ha portato allo scoperto quelli che già esistevamo ma stavano nascosti, come la mancanza di cibo e di acqua. Ne ha anche accentuati diversi, come la difficoltà delle famiglie di pagare la scuola: quando i giovani hanno potuto tornarci, tanti ci hanno chiesto una mano. La Chiesa cattolica qui è conosciuta come una chiesa al servizio di tutti, e il vescovo, in qualche modo, padre di tutti. Chiunque ne ha bisogno viene a trovarmi e, anche se non possiamo aiutare ogni volta, apprezzano di essere ascoltati.

Da sempre la diocesi ha saputo rispondere alle sfide sociali. Il Covid però ha portato nuove sfide come quella di accompagnare la fede dei cattolici che non potevano più andare in chiesa. La messa qui non è un’abitudine. Celebrare insieme è un elemento forte della nostra spiritualità.

Abbiamo allora preparato dei file audio da inviare via WhatsApp: preghiere e riflessioni sulle letture proposte dai preti della diocesi. Abbiamo anche offerto la messa della domenica su YouTube e, nella settimana santa, «le sette parole».

Con la pagina Facebook della diocesi sappiamo di aver raggiunto tanti.

Le sfide non finiscono

Al momento di scrivere questo articolo Eswatini si trova ad affrontare la terza ondata del Covid*, e soltanto il 10% della popolazione ha ricevuto le due dosi del vaccino. I numeri di coloro che possono entrare in chiesa è limitato. Chi vuole prepararsi per i sacramenti (battesimo degli adulti, comunione, cresima) non può farlo.

Per di più viviamo un tempo di violenza. Sembra che la calma sia tornata, ma è dovuta soltanto alla presenza dei soldati per le strade.

Un’altra sfida che rimane è quella della vicinanza a coloro che sono stati colpiti dal Covid. C’è bisogno di aiuto a livello spirituale e psicologico. Chi è stato contagiato e ha sentito la morte alle porte, chi ha visto i famigliari soffrire o morire a casa (una donna ne ha persi sette in due mesi), è rimasto con delle ferite non guarite.

Le chiese sono sempre il punto di riferimento più importante nei momenti difficili, e, allo stesso tempo, sono le prime a dover chiudere le porte…

Abbiamo bisogno, come diocesi, di ritrovarci (preti, religiose e laici) per riflettere su come essere chiesa in questo momento. La terza ondata probabilmente non sarà l’ultima e rischiamo di mancare di creatività, quella che ci porta lo Spirito, per continuare a testimoniare il Risorto.

José Luís Gerardo Ponce de León

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi registrati in Eswatini, su una popolazione di 1,5 milioni, erano 44mila, 302 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.158, uno ogni 1.267 abitanti (in Italia uno ogni 470).


È tempo di prendersi cura

Brasile: Monsignor Giovanni Crippa

Fin dall’inizio dell’emergenza Covid, dal marzo 2020, la Chiesa brasiliana si è spesa per soccorrere la popolazione, in particolare i poveri. Anche nella diocesi di Estância, dove monsignor Crippa è stato vescovo dal 2014 fino ad agosto, la pandemia ha colpito duro, ma la risposta della Chiesa è stata, ed è, forte e creativa.

La diocesi di Estância è stata eretta da papa Giovanni XXIII nel 1960. Il suo territorio fu il primo in Sergipe (Nord Est del Brasile, ndr) a essere toccato dall’azione missionaria dei Gesuiti (1575).

Situata nella parte centro meridionale dello stato di Sergipe, la diocesi ha una superficie di 6.650 km2 e una popolazione di 509.675 abitanti, di cui, secondo il censimento del 2010, il 50,56% vive in aree urbane e il 76,85% si dichiara cattolico.

La popolazione è il risultato dell’incrocio di indios, neri (ex schiavi) e bianchi figli dei colonizzatori, particolarmente dal Portogallo.

Abbiamo 28 parrocchie e 617 comunità, 41 sacerdoti, tutti diocesani, 22 seminaristi, 8 istituti religiosi femminili, con 52 religiose in 12 comunità.

Le frequenti situazioni di violenza, disoccupazione, illegalità e aggressione all’ambiente richiamano l’attenzione della diocesi, la quale risponde con progetti di formazione e di promozione umana, giustizia e salvaguardia del creato.

La realtà pandemica in Brasile

Tutti nel mondo stiamo vivendo un momento molto difficile a causa della pandemia. Un tempo che tocca la vita delle comunità nei suoi aspetti pastorali, liturgici, spirituali, sociali ed economici.

Il Brasile è uno dei paesi più colpiti, e fin da subito la Chiesa brasiliana si è mobilitata. Già il 15 marzo 2020, infatti, la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha diffuso un messaggio chiedendo l’osservanza delle indicazioni sanitarie per contrastare la diffusione del virus.

La pandemia, inoltre, ha aggravato la crisi politica già in atto da tempo nel paese. Il 30 aprile 2020, il Consiglio pastorale episcopale della Cnbb ha approvato una nota in cui dichiarava il proprio impegno per un «Patto per la vita e il Brasile», firmato con altre importanti entità brasiliane. Allo stesso modo, ha invitato la società e le autorità pubbliche a unirsi per prevenire e combattere la più grave crisi sanitaria degli ultimi tempi.

Ordinazione episcopale del vescovo Giovanni Crippa

In quello stesso mese di aprile 2020 la Cnbb e la Cáritas brasileira hanno avviato l’iniziativa «É Tempo de cuidar» (È tempo di prendersi cura) con l’obiettivo di promuovere la solidarietà a favore delle famiglie bisognose, prive di cibo, lavoro, casa e accesso alle cure mediche.

Un anno dopo, nella 58ª Assemblea generale della Cnbb dell’aprile 2021, è stata nuovamente discussa la realtà pandemica in Brasile, e si è deciso di proseguire con la campagna. L’iniziativa «É Tempo de cuidar» incoraggia anche il supporto spirituale, psicologico e religioso per chi ha vissuto il lutto a causa della pandemia.

Con il tema «Ogni vita è importante», la Cnbb ha poi organizzato il 19 giugno 2021 una giornata di sensibilizzazione e preghiera in memoria degli oltre 500mila morti per Covid-19. Per entrare in sintonia con la Cnbb e il popolo brasiliano, nello stesso giorno, alle ore 15, tutte le campane delle chiese hanno suonato assieme.

Il 9 luglio 2021, ancora una volta, la Cnbb ha alzato la voce per difendere le vite minacciate, i diritti violati e per sostenere il ripristino della giustizia, cosciente che la società democratica brasiliana sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia.

La tragica perdita di oltre mezzo milione di vite, fra le quali un grande numero di sacerdoti e alcuni vescovi, è purtroppo aggravata dal sospetto di illeciti e corruzione compiuti nella lotta alla pandemia. Il grande numero di contagiati* ha rivelato la precarietà del sistema ospedaliero brasiliano, nonché il rifiuto degli orientamenti della scienza da parte dell’attuale governo, particolarmente del presidente Jair Messias Bolsonaro.

Gli effetti nella diocesi

Anche la diocesi di Estância ha dovuto prendere decisioni che hanno segnato la vita delle comunità. Dal 18 marzo 2020, infatti, si è entrati in una sorta di quarantena generale: rapporti sociali ridotti al minimo, distanza di sicurezza tra le persone, manifestazioni di affetto da evitare, confinamento in casa, rinuncia a tutte le attività che comportano assembramenti, comprese le celebrazioni eucaristiche pubbliche.

La pandemia ci ha chiesto di essere più umili: con una maggiore coscienza dei nostri limiti e di non essere né onnipotenti né autosufficienti.

In questo tempo siamo chiamati a ricostruire la speranza, promuovere la solidarietà e incentivare la preghiera. È un tempo che ci ha chiesto una vita di austerità, sobrietà e semplicità.

Tutte le comunità hanno dato una testimonianza evangelica di solidarietà raccogliendo donazioni per i bisogni dei più poveri che bussano sempre più numerosi alle porte delle nostre chiese.

Se le porte delle nostre chiese sono rimaste «chiuse» per un certo tempo, la Chiesa ha però continuato la sua azione evangelizzatrice.

Le sfide in tempi di Covid

La condizione inedita in cui viviamo suscita molti interrogativi e, soprattutto, richiede un discernimento spirituale su ciò che il Signore vuole comunicarci in questo momento di tribolazione.

La pastorale ha bisogno in questo momento di reinventarsi, di usare la creatività. Le Linee generali per l’azione evangelizzatrice della Chiesa in Brasile (Dgae 2019-2023), sono strutturate sulla Comunità ecclesiale missionaria presentata con l’immagine della «casa». Una casa con le porte aperte per entrare (l’importanza dell’accoglienza) e anche per uscire (in missione).

La situazione che stiamo vivendo ci chiede di essere audaci cercando Gesù fuori dalle nostre case. Gesù non può essere ridotto al tempio. Le chiese dalle «porte ancora semi chiuse» ci provocano e ci sfidano a fare delle nostre case uno spazio per costruire la Chiesa domestica.

La Chiesa, anche attraverso i social media, ha davanti a sé la grande sfida di andare nelle periferie geografiche ed esistenziali e risvegliare tanti fratelli e sorelle alla vita di fede comunitaria.

La pandemia ha colpito tutti, anche se con impatti diversi. In questo momento, la Chiesa deve essere un «ospedale da campo» per sanare le ferite, offrire consolazione e speranza. Le situazioni di miseria, perdita del lavoro, vulnerabilità al contagio, interpellano la Chiesa a collaborare per il bene comune con le autorità pubbliche, a superare l’assistenzialismo e ad aiutare le persone a essere soggetti della propria storia.

Forse l’attuale «stato di emergenza» è un indicatore e anche un acceleratore del nuovo volto della Chiesa che Gesù vuole per questo nuovo tempo, che non può e non deve tornare indietro.

Giovanni Crippa**

* Al 7 settembre, i casi registrati in Brasile, su una popolazione di 207,6 milioni, erano 20,9 milioni, 1.006 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 584mila, uno ogni 355 abitanti (in Italia uno ogni 470).

** Pochi giorni dopo aver scritto queste righe, monsignor Giovanni Crippa, l’11 agosto, è stato nominato dal papa vescovo di Ilhéus, diocesi 600 km più a Sud.


Attuali vescovi IMC:

  1. Luis Augusto Castro Quiroga nato l’8/4/1942 a Santa Fe de Bogotá (Colombia). OE: 29/11/1986 a Santa Fe de Bogotá.
  2. Virgilio Pante nato il 16/3/1946 a Lamon, (Italia). OE: 6/10/2001 a Maralal.
  3. Anthony Ireri Mukobo nato il 23/9/1949 a Mufu – Kyeni (Kenya). OE: 18/3/2000 a Nairobi.
  4. Elio Rama nato il 28/10/1953 a Tucunduva (Brasile). OE: 30/12/2012 a São Paulo.
  5. Peter Kihara Kariuki nato il 6/2/1954 a Thunguri – Othaya (Kenya). OE: 11/9/1999 a Murang’a.
  6. Francisco Javier Múnera Correa nato il 21/10/1956 a Copacabana (Colombia). OE: 11/2/1999 a Santa Fe de Bogotá.
  7. Giovanni Crippa nato il 6/10/1958 a Besana in Brianza (Italia). OE: 13/5/2012 a Feira de Santana.
  8. Inácio Saure nato il 2/3/1960 a Balama (Mozambico). OE: 22/5/2011 a Maputo.
  9. José Luis Gerardo Ponce de León nato l’8/5/1961 a Buenos Aires (Argentina). OE: 18/4/2009 a Mtubatuba.
  10. Diamantino Guapo Antunes nato il 30/11/1966 a Albergaria dos Doze (Portogallo). OE: 12/05/2019 a Tete.
  11. Joaquín Humberto Pinzón Güiza nato il 3/7/1969 a Velez (Colombia). OE: 20/4/2013 a Bogotá.
  12. Giorgio Marengo nato il 07/06/1974 a Cuneo (Italia). OE: 8/8/2020 a Torino.

Hanno contribuito al dossier:

  • Monsignor Giorgio Marengo Vescovo di Ulaan Baatar, Mongolia, dall’8/8/2020.
  • Mons. Joaquín Humberto Pinzón Vescovo di Puerto Leguízamo-Solano, Colombia, dal 20/4/2013.
  • Mons. Diamantino Guapo Antunes Vescovo di Tete, Mozambico, dal 12/5/2019.
  • Mons. José Luís Gerardo Ponce de León Vescovo di Ingwavuma, Sudafrica, dal 18/4/2009; poi vescovo di Manzini, Regno di Eswatini, dal 26/1/2014.
  • Mons. Giovanni Crippa Vescovo ausiliare di São Salvador da Bahia, Brasile, dal 13/5/2012; poi vescovo di Estância, Sergipe, Brasile, dal 9/7/2014; ora vescovo di Ilhéus, Bahia, Brasile, dal 9/10/2021.
  •  Luca Lorusso Giornalista redazione MC che ha curato il dossier

 




La piccola donna dal grande destino

testo di Marco Bello |


Qualche mese fa, per caso, mi trovai tra le mani il libro La locanda della sesta felicità, di A. Burgess. È la biografia di una missionaria inglese del secolo scorso in Cina. Una donna modesta che fece cose grandi, e lasciò il segno. Una storia da conoscere.

«Il Dio di Gladys era per lei un’armatura impenetrabile alle frecce e alle pallottole che il mondo mortale poteva lanciarle. La sua fede era incrollabile […]. Nessun problema teologico la turbò mai: le paure e i dilemmi intellettuali soffiavano al di sopra del suo capo, a un livello stratosferico». Così scrive Alan Burgess, scrittore e biografo, a cui si deve la prima biografia della missionaria inglese Gladys Aylward, nel suo «The small woman», pubblicato nel 1957 (e tradotto in italiano un anno dopo con il titolo «La locanda della sesta felicità»).

Gladys era nata nel 1902, a Edmonton, un sobborgo a Nord di Londra, da una famiglia della working class. Non aveva mai viaggiato, «non ero mai stata oltre a poche miglia da casa mia», avrebbe confessato un giorno. Da giovane (erano gli anni ‘20 del XX secolo) amava danzare e andare a teatro, e voleva fare l’attrice. Non era molto alta, poco più di un metro e cinquanta, aveva i capelli neri, occhi vispi e tipico accento londinese. Dall’età di 14 anni iniziò a lavorare come cameriera nelle case dei ricchi e non era mai stata particolarmente religiosa.

Una sera, mentre con alcuni amici stava per andare a ballare, in una via affollata di Londra, fu presa in mezzo a un gruppo di giovani che entravano in una chiesa. Senza volerlo si trovò a seguire la funzione. «Quella sera, per la prima volta nella mia vita, realizzai che Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, era morto per Gladys Aylward. Questa percezione mi scosse e avrebbe alterato la mia intera vita», avrebbe scritto molti anni dopo. «Corsi a casa, mi buttai sul letto e pensai: Dio se sei vero mostrati, e se lo farai, prometto che io farò qualsiasi cosa mi chiederai».

La giovane donna non frequentava una chiesa, aveva poca dimestichezza con la Bibbia e non sapeva pregare. Iniziò a cercare se stessa. Un giorno lesse su un periodico che in Cina c’erano milioni di persone che non avevano mai sentito parlare di Cristo. «Pensai che era terribile passare la propria vita senza Cristo. Qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa». Cominciò allora a parlare con persone istruite, con competenze e posizioni sociali migliori delle sue, pensando che sarebbero dovuti intervenire loro. Ma nessuno la prese sul serio. Propose, infine, a suo fratello di partire lui per la Cina, promettendo che lo avrebbe aiutato. Lui rifiutò e la prese in giro, ma poi le disse: «Se davvero pensi che qualcuno debba andare, perché non vai tu stessa?».

Il fratello l’aveva messa davanti a uno specchio, e Gladys sprofondò nel dubbio: «Non ho mai fatto nulla di importante, non sono istruita, non ho soldi, non so predicare, non conosco nulla della chiesa». Ma arrivò a una conclusione: «Feci al Signore due promesse: se mi avesse mostrato la via, sarei andata io in Cina e non avrei mai più chiesto a nessuno di fare quello che lui avrebbe chiesto a me».

Non idonea

Il primo passo fu un periodo di prova presso il China Inland Mission, un’istituzione inglese che preparava e inviava missionari in Cina dal 1865. Ma dopo tre mesi il direttore le disse che non era idonea a diventare missionaria, perché, per il suo basso livello di istruzione, non avrebbe mai imparato il cinese e la teologia.

Gladys non si perse d’animo, sentiva forte la chiamata, e decise di partire da sola, senza l’appoggio di alcuna organizzazione. Però non aveva soldi né contatti. Riprese a lavorare duro, a servizio, facendo il massimo dell’economia. Per andare in Cina, all’epoca, c’erano due possibilità: per nave o per treno attraverso la Transiberiana. Questa seconda opzione era in quegli anni – fine anni ‘20 – altamente sconsigliata, a causa di una guerra non dichiarata tra Cina e Unione Sovietica ai confini della Manciuria, proprio dove passava il treno. Ma era molto meno cara. Gladys non volle sentire ragioni, e comprò, a rate, il biglietto.

Intanto studiava la Bibbia, e andava anche a tentare prediche pubbliche, che non godevano di grande considerazione, allo speaker’s corner di Hyde Park. Ebbe l’occasione di leggere diversi libri sulla Cina, quando fu a servizio da sir Francis Younghusband, che vi aveva lavorato.

Per le sue origini, Gladys era cresciuta nel mondo protestante anglosassone, anche se, per lei, quello che contava era essere cristiana.

In quel periodo, durante una funzione in una chiesa metodista, sentì dire che una missionaria in Cina, Jeannie Lawson, di 74 anni, cercava una giovane missionaria per portare avanti il suo lavoro. Fu come un colpo di fulmine, e Gladys scrisse subito una lettera alla Lawson, la quale, dopo mesi – i tempi dell’epoca -, rispose che l’avrebbe accettata.

Il viaggio

Il 15 ottobre 1932, Gladys Aylward partì dalla stazione londinese di Liverpool street. Aveva due valigie: una conteneva vestiti e l’altra, cibo in scatola, biscotti, un fornello ad alcool, una padella, una teiera e un po’ di riso. Aveva con sé pochissimi soldi. A salutarla al binario c’erano la madre, il padre e la sorella, che non sapeva quando e se avrebbe rivisto. Non lo fece a cuor leggero, fu un grosso sacrificio lasciare la famiglia e il paese. Non aveva mai viaggiato all’estero, non era mai stata su un traghetto, né su un treno a lunga percorrenza.

«Non ho mai chiesto il permesso ai miei genitori. Ho detto loro che sarei partita. Erano i miei soldi ed era la mia vita. E pensavo che stavo facendo quello che Dio voleva che facessi. Quindi, anche se non capirono, essi accettarono e mi lasciarono andare», avrebbe raccontato.

La sua determinazione, e forse una dose di sana sprovvedutezza, la aiutarono, ma la spinta fondamentale fu la fede in quello che credeva fermamente Dio le avesse chiesto: andare a parlare di Cristo ai cinesi.

In quell’epoca, una giovane donna (aveva 28 anni) non viaggiava da sola. La guerra, sebbene non dichiarata, c’era eccome, e la corsa del treno fu interrotta nella città siberiana di Čita. Gladys rischiò di morire di freddo in Siberia, poi di essere trattenuta in Unione Sovietica. Ma fortunosamente qualcuno la salvò e, pure senza un soldo, da Vladivostok – dove era stata deviata a causa del conflitto – prese una nave che la portò in Giappone. Anche lì, a Kobe, una coppia di missionari la aiutò, e finalmente giunse nella città portuale cinese di Tientsin, dove fu accolta in una missione ben strutturata. Jeannie Lawson era conosciuta, e si sapeva che lavorava nello Shanxi, una provincia montagnosa e selvaggia a Nord Ovest di Pechino. I missionari del Tientsin mission center la affidarono al signor Lu, un uomo d’affari che stava partendo per quella terra. Anche quello sarebbe stato un viaggio lungo e faticoso. Presero il treno per un lungo tratto e poi un autobus.

Arrivarono a Zézhou dopo un mese e Gladys fu accolta da due anziane missionarie che le indicarono dove abitava Jeannie, a Yangcheng, ad alcuni giorni di viaggio. Non c’erano strade, e l’unico mezzo per arrivarci era a dorso di mulo.

Jeannie la missionaria

L’incontro con Jeannie Lawson non fu caloroso. La missionaria scozzese era una donna brusca e, dopo 50 anni di servizio in Cina, non era facile da trattare per una giovane appena arrivata. In città non c’erano altri cristiani, e loro erano chiamate «diavoli stranieri»: i bambini scappavano e gli adulti tiravano loro del fango.

La regione era costantemente percorsa da mulattieri che con i loro muli trasportavano le merci tra le città e i villaggi fortificati sulle colline. Jeannie ebbe un’intuizione: «Se apriamo una locanda per mulattieri, diamo loro alloggio e un pasto caldo, potremo anche intrattenerli con delle storie – cosa che di solito amano – e racconteremo le storie di Cristo. I commercianti, poi, viaggiando porteranno questi racconti nell’intera provincia».

Fu così che nacque la «Locanda delle otto felicità», sembra in riferimento alle otto virtù confuciane, ma anche alle beatitudini del Vangelo di Matteo. Gladys aveva il compito di piazzarsi sul percorso dei muli in arrivo in città, e di tirare nel cortile della casa il primo della fila, in modo che gli altri seguissero. Era questa la maniera di procurarsi i clienti. Jeannie dava la zuppa ai mulattieri e intanto raccontava passi del Vangelo, mentre Gladys badava ai muli.

«Sebbene Jeannie non mi abbia mai insegnato a mangiare il cibo cinese con le bacchette, o qualcosa sui costumi locali, e neppure mi abbia mai dato un consiglio su come imparare la lingua, [da lei] imparai come pregare e guadagnare le anime delle persone per il mio Signore», avrebbe scritto poi Gladys.

Dubbi e segni

Ingrsso della locanda nel 2006

Un anno dopo il suo arrivo, Jeannie morì. Gladys si ritrovò sola, arrivata da poco e, per di più, donna e straniera. La situazione delle donne all’epoca non era molto libera: «Adesso credevo che, in quanto giovane donna da sola, avrei dovuto andarmene. Inoltre, in Cina le donne non uscivano mai da sole, erano sempre accompagnate da un uomo della famiglia o da un servitore. E se non c’era questa possibilità, non uscivano di casa. […] Mi sentivo rinchiusa. Desideravo uscire. Ero giovane, ero contenta, volevo essere libera. E adesso ero chiusa in un piccolo cortile, che ogni sera si riempiva di animali e uomini». Mentre si chiedeva perché Dio l’avesse portata in quella città sperduta, unica cristiana, ed era presa dai dubbi su come procedere, pregava per un segno. Inoltre, Jeannie aveva una piccola rendita come missionaria, che con la sua morte si era estinta. Si presentava anche un problema economico.

In quegli anni Chang Kai-Shek, il capo di stato, divenuto cristiano, aveva messo al bando l’antica, e invalidante, usanza di bendare i piedi delle bimbe, che poi sarebbero rimasti piccoli e rovinati per sempre. Servivano ufficiali del governo che, a dorso di mulo o a piedi, percorressero il paese per sensibilizzare le popolazioni sulle nuove regole.

Il nome della locanda nel 2006: il vecchio cortile di Gesù

Il mandarino (capo politico) di Yangcheng si presentò in pompa magna nel cortile della locanda, e chiese (piuttosto ordinò) a Gladys di essere l’ispettrice dei piedi della sua area. Il motivo: era l’unica donna con «piedi grandi» e sarebbe servita da esempio. «Io rifiutai. Ero andata in Cina per Gesù Cristo e non volevo mischiarmi con questioni di governo, piedi e politica. […] Ma lui non se ne andava». La piccola donna iniziò a pregare nel suo intimo, non sapeva come uscire da quella situazione. Poi sentì come una voce, ebbe un’illuminazione: essere ufficiale del governo le avrebbe permesso di viaggiare in tutta la regione, incontrare e parlare con la gente nei villaggi più remoti, e ricevere pure un compenso economico. «Occorre dare tutti se stessi. Dio in quel momento non aveva bisogno delle mie mani, ma dei miei piedi! E li ebbe». Disse al mandarino che accettava, ma essendo lei una missionaria, avrebbe pure parlato alla gente della vita di Cristo. Il politico – che sarebbe poi diventato un suo caro amico, e si sarebbe convertito al cristianesimo – non vide in ciò nulla di cui preoccuparsi.

Gladys divenne nota e rispettata in Yangcheng e in tutta la zona. Iniziarono a darle il nome di Ài Wĕi Dé, ovvero «la virtuosa». Un giorno venne chiamata per sedare una rivolta nella prigione, e non senza paura, vi riuscì. Suggerì quindi migliorie, che furono adottate, per rendere la vita dei carcerati meno dura, e riuscì a predicare il vangelo anche tra di loro.

Gladys Aylward iniziava a inserirsi nella società delle montagne dello Shanxi, ma rimaneva comunque l’unica straniera. I più vicini erano i missionari di Zézhou con i quali fece amicizia. Sentiva che qualcosa nella sua vita non andava e, inoltre, come donna, molte cose non poteva farle.

«Pregai per avere un compagno […] La gioia di avere qualcuno con cui scalare le montagne, discutere, cantare e pregare. Ma non arrivò». Gladys avrebbe poi detto in un colloquio: «[Dio] lo chiamò, ma lui non arrivò mai». Il tempo passava e Gladys pensò che il Signore non l’avrebbe lasciata sola, e forse sarebbe arrivata una compagna di missione. Ma ancora nulla.

«Nove soldi»

Un giorno Ài Wĕi Dé assistette a una scena raccapricciante. Una megera maltrattava un bambino vestito di stracci. Era in vendita, in quell’epoca succedeva. «Lo vuoi comprare?», disse la megera. Gladys non se l’aspettava, e non aveva quasi denaro con sé. La commerciante di bambini insistette e alla fine la missionaria offrì quello che aveva, nove soldi. Era una bambina, e fu soprannominata Novesoldi: «Comprai la bambina. Fu il primo atto di quella che sarebbe stata la mia completa sottomissione al Signore. Non avevo compreso che stavo comprando la mia prima figlia, una bimba che stava entrando nella mia vita per significare molto. Dopo di lei arrivarono, uno dopo l’altro, gli altri, tutti in maniere differenti, in varie circostanze, ognuno così diverso in carattere e temperamento. Pregai Dio per loro. Egli ci nutrì, ci vestì. La situazione divenne caotica, ma eravamo molto felici. A un certo punto avevo 40 bambini. Chiesi a Dio di non mandarmene altri per favore. Ma il Signore non sempre risponde alle tue preghiere come ti aspetti».

Nel frattempo, Gladys Aylward decise di prendere la cittadinanza cinese, per sentirsi meglio in mezzo alla gente, diventò ufficialmente Ài Wĕi Dé. Anche se, nella pratica, poco cambiò.

La grande traversata

Erano gli anni in cui cominciava la seconda guerra sino-giapponese (1937-45), che faceva parte di una vasta strategia di occupazione dell’Asia da parte del Giappone. In Cina si opponevano all’invasione l’esercito regolare nazionalista, ma anche i guerriglieri comunisti. La guerra arrivava da Est e inizialmente la gente delle montagne a Yangcheng non pensava di esserne coinvolta. Invece iniziarono i bombardamenti della città che crearono morte e distruzione. Gladys si adoperò organizzando i primi soccorsi. Portò i suoi bambini in un villaggio di montagna e faceva la spola con la città per aiutare. Ma poi i militari giapponesi arrivarono e commisero atti efferati. Gladys fu anche picchiata, riportando lesioni interne che le avrebbero poi creato problemi di salute e fu ferita da una pallottola alla schiena. Intanto gli orfani che raccoglieva aumentavano, perché, a causa della guerra, molti bambini restavano soli e vagavano per le campagne.

Quando la situazione stava per precipitare, la piccola donna decise che era il momento di partire per portare i bimbi in salvo da morte certa. Ne aveva circa un centinaio, una ventina dagli 11 ai 15 anni, tra i quali Novesoldi, e un gran numero di piccoli dai quattro anni in su. Si congedò dal mandarino, che non avrebbe mai più rivisto e che l’aiutò con un po’ di cibo per i primi giorni. Poi, il chiassoso gruppo, con lei unica adulta, partì a piedi verso le montagne, direzione Ovest. Era all’incirca il marzo del 1940.

Fu una scelta molto coraggiosa, da un’analisi superficiale si potrebbe dire incosciente. In realtà fu, come sempre per Ài Wĕi Dé, dettata da una grande fede, che le dava forza e una determinazione travolgente.

Dopo quasi due settimane arrivarono sulle sponde del Fiume Giallo che segna il confine Ovest tra lo Shanxi e lo Shaanxi. Tutti i villaggi erano stati abbandonati e la popolazione sfollata aveva attraversato il fiume per fuggire ai giapponesi. Non c’erano più barche. Gladys e i bambini erano allo stremo, affamati e sporchi, ma non si trovava da magiare. Se non avessero attraversato il grande fiume, sarebbero morti.

Dopo tre giorni, comparve un ufficiale dell’esercito nazionalista che pattugliava il fiume. Vedendoli in quello stato, e stupito di quella strana compagine, si adoperò per fare venire delle barche dall’altra riva e i 100 bambini con Gladys poterono proseguire.

Ci vollero ancora giorni, a piedi e poi su un treno merci, ma Ài Wĕi Dé riuscì a portare tutti i suoi bambini al sicuro, nei pressi della città di Xian (Shaanxi), dove erano stati allestiti dei campi profughi per la gente che fuggiva da Est. Avevano percorso oltre 400 km attraversando le montagne.

Gladys Aylward era però in pessime condizioni di salute. Perse conoscenza, fu curata e accudita alla missione di Xingping e all’ospedale della missione battista di Xian. Senza le cure sarebbe morta. Ci vollero mesi, ma si riprese.

In seguito lavorò nelle città Lanzhou (Gansu) e Chengdu (nello Sichuan, più a Sud ).

Cina addio

Gladys Aylward tornò in Inghilterra nel 1949 grazie all’interessamento di un’associazione statunitense, che le pagò il biglietto. Lasciò la Cina a malincuore, dopo tanti ripensamenti. Perché tutto ciò che amava era lì. Aveva bisogno di cure, inoltre con la vittoria dei comunisti iniziarono le persecuzioni delle religioni. Lei non voleva causare problemi a chi stava aiutando.

«Ci incontrammo, io e la famiglia (i ragazzi e bambini, ndr), per l’ultima volta in un campo fuori dalla città di Chengdu. Avevo deciso che era tempo di partire. Mettevo in pericolo chi stava con me perché, sebbene avessi un passaporto cinese, e fossi cinese nei miei pensieri, nel mio amore, nella mia lingua, nei vestiti e in tutto tranne che nel viso, avevo ancora la faccia di una straniera».

In Inghilterra si adoperò per i migranti cinesi, e per promuovere la missione. Voleva tornare in Cina, ma le autorità le rifiutarono l’autorizzazione.

Ài Wĕi Dé andò ad Hong Kong nel 1958, ancora sotto controllo britannico. La città era invasa di profughi arrivati dalla Cina popolare. Qui si prese cura di loro e contribuì a fondare la Hope Mission che li accoglieva.

Si trasferì quindi a Taiwan, dove, sull’isola di Formosa, i nazionalisti cinesi, guidati da Chang Kai-Shek, avevano fondato la Repubblica cinese.

Affittò un hotel chiuso a Beitou, appena fuori Taipei, la capitale, e vi fondò un orfanotrofio, il Gladys Aylward orphanage. Nei primi anni ‘60 arrivò dall’Inghilterra una giovane ad aiutarla, Kathleen Longton: finalmente Gladys ebbe la sua compagna di missione.

Nel 1959 acquistò un terreno a Muzha grazie all’aiuto della Ong statunitense World Vision e vi costruì un orfanotrofio che nel 1963 chiamò Bethany nursey school.

Un’opera che continua

Il 3 gennaio 1970 Gladys Ài Wĕi Dé morì per le complicazioni di una semplice influenza, poche settimane prima di compiere 68 anni. Il suo fisico ormai cronicamente debilitato non andò oltre. Ma la sua opera continua, e si espande. Un gruppo di suoi collaboratori presero in mano la struttura nel 1971.

Una missionaria inglese Linda McFerren vi ha poi lavorato 26 anni con i colleghi cinesi (1992-2018). Nel 2010 la struttura ha cambiato statuto per adattarsi alla mutazione della società, e il nome è diventato Bethany children’s home. Un moderno centro per accoglienza di bambini e adolescenti (0-18 anni) in difficoltà. Il centro sperimenta un metodo innovativo di assistenza famigliare degli orfani. Oltre a continuare con i progetti di reinserimento, realizza servizi di sostegno per bambini svantaggiati e appoggio diretto alle famiglie problematiche.

Marco Bello
(fine prima puntata)

 




Tu, «padrecito», non capisci niente

testo di Renzo Marcolongo |


Ero sinceramente convinto che una laurea in psicologia mi avrebbe dato una marcia in più al servizio della missione, aiutandomi a capire le persone senza problemi. In realtà le persone sono molto di più di quanto i manuali scientifici riescono a codificare. C’è sempre qualcosa da imparare.

Un pomeriggio a San Vicente del Caguán, una donna mi chiamò al cellulare chiedendo un appuntamento per sua figlia quindicenne che soffriva di depressione. Le ricevetti (la madre, la figlia e la nipotina di 3 mesi) lo stesso pomeriggio, e ascoltai ciò che la madre – molto preoccupata e nervosa – mi diceva: sua figlia non mangiava, non dormiva, si chiudeva in se stessa, si isolava e non voleva parlare. Tutto questo a causa di una vicina che le aveva mandato una maledizione, un incantesimo o una stregoneria, perché invidiosa della ragazza che aveva dato alla luce una bella bambina.

Chiesi alla madre di uscire dal mio studio per poter parlare con la figlia. Dal dialogo capii che la ragazza stava soffrendo di depressione post-partum. In più non era assolutamente felice di essere rimasta incinta a 14 anni e abbandonata dal padre della bambina. Il suo futuro non sembrava per niente roseo. La mia diagnosi di depressione post-partum mi sembrava molto azzeccata (quasi da manuale) e, in questo caso, aggravata da fattori personali.

Con questa diagnosi in mente, invitai la madre a entrare nel mio studio e le spiegai in modo semplice che lo stato di sua figlia non dipendeva da una maledizione e che non c’era motivo di preoccuparsi. Tutto si sarebbe sistemato abbastanza presto. La signora ascoltò incredula le mie parole e, con mia sorpresa, mi disse: «Tu padrecito non capisci niente e troverò un’altra soluzione».

La soluzione alternativa fu quella di consultare i «fratelli» (curanderos tradizionali) che le promisero di eliminare l’incantesimo mettendo sotto il letto della figlia un bicchiere d’acqua benedetta da un sacerdote (probabilmente benedetta da me), per tre notti, e chiedendo un contributo «volontario» di 150mila pesos (35 euro) per ogni bicchiere d’acqua.

Sorriso sotto i baffi

Non so se la neomamma, poi, sia stata meglio. Penso di sì, non tanto a causa dei benefici dell’acqua benedetta posta sotto il letto, quanto perché la depressione post-partum non tende a durare a lungo, a meno che non subentrino complicazioni.

La replica della madre alla mia diagnosi mi sembrò divertente e sotto i baffi mi scappò un sorriso, perché le sue parole avevano messo in discussione i miei 32 anni di esperienza come terapeuta. Tuttavia, con il passare del tempo, le parole di quella donna continuavano a risuonarmi nella mente come un chiodo fisso. Iniziai a chiedermi allora se per caso non mi fosse sfuggito qualcosa nella mia diagnosi, forse un’interpretazione della realtà diversa da come io l’avevo percepita che mi avrebbe permesso di offrire alla ragazza una cura più consona alla sua cultura.

Dal punto di vista della psicologia «scientifica» del mondo occidentale, la depressione post-partum ha una soluzione terapeutica collaudata con un percorso di recupero eccellente.

Però, perché non prendere in considerazione le convinzioni e le credenze delle persone che vivono esperienze emotive in culture diverse da quella del mondo occidentale, cose tutte che influiscono sul benessere della gente?

Qual è l’impatto che il mondo del «sacro» e del «simbolico», che ognuno inconsciamente porta dentro di sé, ha sulla vita quotidiana e sul benessere della persona? Il mondo sacro e simbolico è un serbatoio di senso e significati che le persone usano per vivere1.

Identità e culture

Il mondo personale e intimo di ogni essere umano possiede una sinfonia, un insieme di valori, miti, visioni sulla natura umana, su ciò che è «normale e anormale», su ciò che è «salute e malattia» (fisica o mentale), sulle cause di essere sani o malati, sul significato di «maturità», su come ricostruire i rapporti familiari e sociali distrutti e scoprire chi o cosa li ha distrutti. È una sinfonia trasmessa dalle generazioni passate e interpretata nel presente da persone che condividono e assumono ciò che è importante per il gruppo di appartenenza che, a sua volta, offre un’identità.

Identità: un termine che viene dal latino idem, che significa «lo stesso – medesimo» e si applica alla persona. La mia identità dice chi sono io con le mie caratteristiche che mi distinguono dagli altri; e si applica anche all’identità di un gruppo che crea e modella ciò che è importante per il gruppo stesso e i suoi membri. Comprendere l’identità di un gruppo significa entrare più profondamente nella mente di una persona che ne fa parte e ccapire le visioni e le percezioni del suo mondo. E questo favorisce la diagnosi e il cammino terapeutico.

Il contributo della psicologia scientifica occidentale può «guarire» la mente spiegando le dinamiche psicologiche che sono in gioco. Ma in un mondo non occidentale, non sempre la psicologia riesce a «guarire» l’insieme della mente e del cuore che formano un’unità nella persona. Il limite della psicologia scientifica è quello di non dare la dovuta importanza ai mondi simbolici e diversi che creano e organizzano tutta la vita delle persone nella loro mente, nella loro salute e nelle loro relazioni.

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Un mondo di relazioni

Quella donna che scelse di avvicinarsi ai «fratelli» e non a uno psicologo «qualificato», fece una scelta culturale, sociale e religiosa, attingendo alle sue percezioni del mondo e ai suoi valori. Cercava un «significato» per quello che stava accadendo a sua figlia, e il significato offerto dalla psicologia non possedeva il peso affettivo, né il valore emotivo che i «fratelli» le offrivano. Le emozioni e il cuore furono più potenti ed efficaci della scienza e del cervello.

Quello che per me era un disturbo interno, mentale, personale e passeggero, per la donna era la conseguenza di un mondo esterno che entrava nella persona; un mondo di relazioni sociali negative segnate dall’invidia. E questo mondo esterno era percepito come la causa della sofferenza e di lì la necessità di sconfiggerlo.

Incontro tra Psicologia e cultura

Possiamo parlare di incontro tra psicologia e cultura? Possiamo incoraggiarlo? Sarà possibile?

Credo che per favorire l’incontro tra il cosmo (che significa ordine) scientifico e quello dell’esperienza culturale, sia necessario un «interprete», pur cosciente che l’interprete è, per forza di cose, sempre un po’ un traditore: è impossibile, infatti, tradurre da un universo culturale a un altro in modo fedele il significato profondo di una parola, un’espressione, un sentimento, un’esperienza sociale, emotiva e strutturale di un gruppo. L’ordine sociale espresso a parole, in culti e musica è ben compreso solo da coloro che appartengono a quel gruppo. Gli altri possono capirlo teoricamente ma non emotivamente.

Quello che imparai personalmente fu che la mia diagnosi era stata parziale perché non aveva incluso il mondo culturale di madre e figlia, mondo che formava e interpretava le manifestazioni delle malattie fisiche e mentali.

Ora mi rendo conto che lè importante nella guarigione della persona, per restituirla alla sua comunità sana e ristabilita, scoprire, assieme alla diagnosi psicologica, qual è la sua visione del mondo. In questo modo si può ricostruire quell’identità specifica che appartiene alla grande sinfonia di identità individuali che formano la persona e che la fanno sentire parte di un gruppo.

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Questione di armonia

Ricostruire l’identità significa ricostruire l’armonia del gruppo ed eliminare quella dissonanza che danneggia la melodia dello stesso.

Ognuno ha dentro di sé un equilibrio emotivo che gli permette di vivere con tranquillità la propria esistenza, interpretando il suo mondo. Questo equilibrio può apparire fragile agli occhi di uno straniero, ma non alla persona che lo vive.

Ora ho imparato che, come psicologo, non posso più fidarmi solo del quadro interpretativo della malattia mentale offerto dalla psicologia. Se veramente mi sta a cuore la guarigione completa della persona è essenziale comprendere il mondo interpretativo (quadro di riferimento) del suo cosmo, collegando così la guarigione a tutta la persona.

La storia di Teresa

E fu così che, con questa esperienza e riflessioni, affrontai, alcuni mesi dopo, il caso di Teresa (un nome fittizio per proteggere la sua identità).

Teresa mi aveva chiesto un incontro, perché si sentiva agitata da uno spirito che non le permetteva di vivere bene (era depressione), e lo spirito proveniva da una persona che la malediceva e la odiava senza che Teresa ne sapesse le ragioni. Le prime sessioni, durante le quali Teresa acquistò fiducia in me, furono seguite da incontri nei quali lei entrava in trance cambiando tono di voce, personalità e raccontando episodi dolorosi della sua vita. Al risveglio Teresa diceva di non ricordare nulla, però lo «spirito» del trance mi dava informazioni importanti su avvenimenti passati e su sentimenti percepiti come troppo dolorosi per accettarli coscientemente.

Ciò mi diede la possibilità di affrontare emozionalmente situazioni del suo passato dolorose e traumatiche.

Il cammino verso la guarigione sembrava stesse funzionando bene, fino a quando, in una delle sue ultime sessioni, lo «spirito» mi chiese – durante un trance – che, come sacerdote, andassi nel suo campo per rimuovere e distruggere una ciotola sepolta lì dal «nemico» che conteneva le maledizioni e lo «spirito» stesso, e per esorcizzare il terreno.

Accettai di andare, e pur non trovando alcuna ciotola, nonostante il figlio avesse scavato in vari posti indicati dallo «spirito» (mentre Teresa era in trance), spiegai che senza dubbio la ciotola di cocco si era sciolta, consumata dopo cinque anni sotto terra e che, con quella, era sparito anche lo «spirito» e la maledizione.

Feci l’esorcismo del terreno, e la presenza calma e silenziosa di un cane confermò che non c’era più nulla di malefico nella tenuta (secondo la cultura spiritica dei «fratelli», i cani abbaiano quando sentono la presenza di uno spirito o di una maledizione).

Teresa entrò e uscì dalla trance ancora una volta, dopo di che si sentì integralmente libera. Ringraziò e abbracciò i presenti e da allora la sua guarigione fu completa.

Darsi una mano

Ho incontrato Teresa molte altre volte camminando per le strade del paese, e ho notato che è ben inserita nella sua famiglia e nella sua comunità.

Mi sono convinto che il semplice intervento psicologico non sarebbe stato sufficiente se non avessi percepito gli aspetti emotivi, sociali e spirituali di Teresa. L’esorcismo ha dato un’ulteriore risposta al malessere e disagio di Teresa completando così il lavoro terapeutico.

Credo sia fondamentale per ogni disciplina (scientifica o tradizionale) saper riconoscere i propri limiti, liberandosi dalla pretesa di sapere tutto e risolvere tutto.

Scoprire il mondo delle immagini, del divino e del simbolico di una cultura, collegandolo con la storia vissuta della persona, ci porta a una visione più completa delle persone e quindi a inventare nuovi cammini per risanare e curare.

Dandosi la mano, scienza, mondo tradizionale e spirituale, possono favorire un benessere più profondo e significativo nella gente. E questo è il mio ministero qui, a San Vicente del Caguán.

Renzo Marcolongo

(1) Sono grato a David W. Augsburger che con il suo libro «Pastoral counselling across cultures» (WP Philadelphia, 1986), mi ha molto aiutato a diventare culturalmente sensibile e aperto a nuove interpretazioni della realtà.

Padre Marcolongo Renzo, celebrando l’Eucarestia in casa generalizia a Roma




Coraggio e missione


All’inizio di giugno, i Missionari della Consolata in Europa (Italia, Polonia, Portogallo e Spagna), 230 in tutto (al 25 marzo 2021), si sono «radunati» online per riflettere insieme su cosa vuol dire essere missionari, oggi, in questo continente. I fattori in gioco non sono incoraggianti. Tra quelli interni al nostro Istituto ci sono l’invecchiamento dei missionari, l’assenza di nuove vocazioni europee, le strutture pesanti. Tra quelli presenti nella società europea ci sono la scristianizzazione e le conseguenze, ancora imprevedibili, della pandemia che hanno messo sottosopra un modo di vivere e chiedono nuove risposte dall’evangelizzazione.

Di fronte a tutto questo, ci si poteva aspettare un’assemblea scoraggiata e rassegnata. Invece il realismo degli interventi era carico di speranza, ottimismo e coraggio. Un bell’esercizio di fede, sostenuto dal motto del beato Allamano: «Coraggio, e avanti in Domino (nel Signore)!».

Condivido qui solo poche frasi rivelatrici dello spirito di questi giorni.

Padre Stefano Camerlengo, superiore generale, sì è domandato insieme a noi: «Che cosa facciamo ora? Che cosa siamo diventati? Che cosa resterà di tutto questo? [La pandemia] è solo una dolorosa – per molti, drammatica – interruzione, per ricominciare appena possibile da dove eravamo rimasti? Oppure avremo il coraggio di iniziare un percorso diverso? […] A quali condizioni sarà possibile fare cose nuove per davvero? Come sarà il nostro Istituto domani, fra qualche anno? Come continuerà la sua missione? Quale sarà il volto della missione futura?

Sono domande importanti, fondamentali, che richiedono tanta interiorità. Cerco di riassumerle in questo modo: a quale condizione ci potrà essere un vero e stabile cambiamento nel nostro stile di vita, di presenza e di missione? Rispondo: la novità può venire solo dal cuore, cioè dall’interiorità silenziosa della coscienza di persone che non si sottraggono ai perché della vita e alle esigenze della propria vocazione missionaria. Senza tenerezza, senza cuore, senza amore, non ci sarà profezia né testimonianza credibile!

Carissimi, mi piacerebbe che mettessimo più cuore in quello che facciamo. Mi piacerebbe che prima delle difficoltà e dei problemi lasciassimo parlare il cuore. Mi piacerebbe che cominciassimo ogni riflessione e discernimento avendo a cuore il nostro continente e la nostra gente. […]

La cosa più necessaria nella vita della Chiesa è tenere vivo il fuoco, non adorare le ceneri. È bello sentire la paternità del nostro caro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che aveva il cuore ardente e non era, in nessun modo, prigioniero della cenere; che ha saputo accendere profeticamente il fuoco del Vangelo attraversando confini, incomprensioni, vedute limitanti, concretizzando una visione missionaria innovativa. Carissimi, ricordiamoci che siamo presenti in Europa perché è luogo di missione e siamo chiamati a vivere e a operare da missionari anche qui. […] Non possiamo abdicare, ma dobbiamo rilanciare e tornare a entusiasmare».

Padre Daniele Giolitti, dalla Certosa di Pesio (Cn), prendendo spunto dalle parole del Signore rivolte a Paolo chiuso in prigione: «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così bisogna che tu dia testimonianza anche a Roma» (At 23,11), ha detto: «Il coraggio è fiducia ed è il contrario della paura. Coraggio è, sì, forza agonistica, ma è soprattutto una virtù del cuore. È la forza spirituale per andare avanti o, come dicono i Padri del deserto, la “forza per buttare il cuore oltre l’ostacolo”. Ancora: la paura è la mancanza di fede, il coraggio è la fede di vivere la vita fino in fondo, di viverla da vivi, non da morti. Il Signore dice a Paolo che “bisogna che dia testimonianza anche a Roma”. Cosa significa? Paolo dirà: per me è una necessità evangelizzare, non ne posso fare a meno (1 Cor 9,16). Bisogna è la parola che Gesù usa sempre quando parla della sua morte (cfr Lc 17,25), non per dire che lui è costretto a farlo, ma che il donarsi fino alla fine è un bisogno interiore. Come bisogna che l’acqua bagni, se no non è acqua, che il fuoco bruci, che la vita viva, così “bisogna che tu mi testimoni”, è la necessità di essere come Cristo. […] In conclusione, nei periodi di discernimento e di crisi, guardiamo al nostro futuro come Paolo, accogliendo la Parola e la missione: la prima ci consola e ci dà coraggio, la seconda ci spinge ad andare. Così facendo siamo spinti nel cammino verso un mondo altro: un cammino che diventa sogno e disegno di Dio per ogni uomo e donna». Anche in Europa.

 




Consolate il mio popolo


Un anno fa scrivevo l’editoriale del mese di giugno dal chiuso della mia stanza, nel bel mezzo di una clausura forzata durata ben oltre due mesi. Quei giorni dovrebbero essere un lontano ricordo, e invece la pandemia è ancora qui e sta manifestando la sua virulenza in tutto il mondo, in particolare in quei paesi già colpiti da povertà, guerre e deficienze strutturali croniche. E facciamo fatica a tornare alla «normalità» che rimpiangiamo.
Scrivo «normalità» tra virgolette, perché mi piacerebbe vedere nascere dalla tragedia del Covid una normalità diversa da quella di prima. Quella di cui abbiamo tutti nostalgia, infatti, era fatta di consumi eccessivi di risorse, di spreco e di ingiustizia sociale. Una normalità alla quale siamo stati abituati nei decenni da un sistema economico incentrato sul profitto immediato, che ora spinge perché venga ripristinata quanto prima quella stessa normalità.

La parte di normalità precedente al Covid che salverei e, anzi, amplificherei, è invece quella fatta di relazioni: scambiare un abbraccio, tenersi per mano, mangiare insieme, far festa, danzare, partecipare alla messa e quanto altro comunica amore, aiuta l’incontro, dona consolazione.
E di relazione con la natura, nella quale vivere da ospiti e non da padroni.

Per riprendere nel modo più forte e profondo quella normalità, un esercizio utile da fare è quello della contemplazione, del rintracciare nel mondo che abbiamo attorno i segni della presenza di Dio, i segni che riempiono il cuore e spingono alla comunione con gli altri, e alla consolazione.

Quando usciamo per le strade, allora, proviamo ad assumere lo sguardo di un mio confratello, padre Andrés Garcia, missionario della Consolata che vive tra i Warao a Nabasunuka sui canali del Delta dell’Orinoco in Venezuela, del quale condivido le parole, scritte dopo aver gridato con forza che non vuole rassegnarsi né abituarsi alla paura, alla povertà, all’ingiustizia e al dare sempre la colpa agli altri. Voglio condividere le sue parole con voi, in questo mese dedicato alla nostra Consolata, madre del vero Consolatore e modello di ogni missionario.

«Voglio rallegrarmi per ogni persona che si rialza, per ogni tentativo, per ogni sospiro di speranza.
Voglio sognare di nuovo con ogni sorriso, con ogni carezza, con ogni sforzo.
Voglio che si imprima a fuoco nella mia anima la gioia di quella bambina che dice alla mamma di sapere già le vocali e del suo fratellino più grande che, con espressione di trionfo, mi dice che lui sa già leggere e scrivere.

Voglio continuare ad emozionarmi nel vedere due anziani camminare per strada mano nella mano, innamorati, e nell’ascoltare quei giovani fidanzati che sognano come sarà la loro famiglia, la loro storia d’amore.

Voglio rimanere senza parole di fronte alla bellezza del fiore che cresce umilmente completando con il suo colore e profumo la sinfonia della giungla e anche davanti a quella (giungla) che cresce in città.

Voglio sentirmi una sola cosa con l’universo nel bel mezzo della tempesta e quando la leggera brezza mi accarezza.

Voglio fremere con ogni persona che sogna una nuova umanità e impegnarmi per ogni persona che costruisce giustizia e pace con il suo stile di vita e anche con chi lo fa attraverso i movimenti sociali e i tribunali.

Voglio gioire per tutti gli sforzi fatti in favore della riconciliazione delle persone e dei popoli.

Voglio cantare con ogni persona che si rialza dopo ogni caduta, cercando di essere migliore.

Voglio dirvi che oggi migliaia di persone si sono riconciliate, che sono nati migliaia di bambini, che centinaia di migliaia di innamorati si sono baciati (sì, anche nella quarantena), che centinaia di popoli continuano ad organizzarsi per riprendere i loro diritti, per recuperare la loro storia, le loro terre, la loro cultura, la loro dignità.

Oggi, anche oggi, come ieri e come domani, l’amore continua a vincere e a generare vita in tutto l’universo.

Voglio dirvi quello che già sapete: che Dio è Amore e che lui vince sempre e per sempre.
Non lo vedete?».

Foto di Piergiorgio Pescali dal Myanmar, dedicata alla gente di quel paese in questo momento così difficile e violento. Un augurio di pace.