Missionari in cammino per il futuro della Missione


Inizia il XIII Capitolo Generale dei Missionari della Consolata

Cerimonia di apertura del 13mo capitolo generale dei Missionari della Consolate a Roma

Rivitalizzare e ristrutturare l’Istituto Missioni Consolata (IMC) per qualificare maggiormente la missione. Con questo obiettivo, la Congregazione dei Missionari della Consolata, ha iniziato, lunedì 22 maggio, il suo XIII Capitolo Generale. L’incontro internazionale, che si realizza ogni sei anni, raduna in Roma 45 rappresentanti di 18 circoscrizioni dell’Istituto presenti nei continenti dell’Europa, dell’Africa, dell’America e dell’Asia.

“Il Capitolo Generale è un momento particolare nella vita della nostra Famiglia. È una occasione per prendere coscienza della nostra situazione, verificare il nostro modo di essere missionari ad gentes e acquistare energie per dar forza alla missione, che è il cuore della nostra vita”, ha messo in risalto Padre Stefano Camerlengo, Superiore Generale, nell’accogliere i delegati capitolari. Questi sono: 21 africani, 14 europei e 8 latino-americani che rappresentano 231 comunità religiose presenti in 28 paesi.

Il Capitolo è una celebrazione pasquale che include croce e speranza, morte e risurrezione. Questo lo spirito con il quale si è vissuta la celebrazione di apertura iniziata all’ingresso della Casa Generalizia. Guidati dal Superiore Generale che portava il cero pasquale, i missionari hanno seguito in processione fino alla sala capitolare.

Cerimonia di apertura del 13mo capitolo generale dei Missionari della Consolata a Roma

Dopo aver invocato lo Spirito Santo con il canto del “Veni Creator”, i delegati, chiamati ad uno ad uno per nome dal Superiore Generale, hanno acceso una candela alla luce del cero pasquale e promesso di “compiere con fedeltà il compito di capitolari avendo come unico proposito la gloria di Dio ed il bene dell’Istituto”.

Ricordando gli Apostoli Paolo e Barnaba, scelti come ispiratori per il Capitolo, il padre Generale ha sottolineato l’importanza “dell’imitare la loro passione missionaria, la loro amicizia nella missione ed in modo speciale il loro entusiasmo per la missione ad gentes.

Con questo Capitolo vogliamo entusiasmare tutto l’Istituto per la missione che il Signore ci ha affidato e per la quale il Fondatore ha formato i primi missionari”, ha ricordato Padre Camerlengo.

“Siamo consacrati per la missione. Il cuore di questo Capitolo e di tutta la nostra vita è la missione, come voleva il Beato Giuseppe Allamano, che ripeteva sempre le parole dell’apostolo Paolo: “tutto ho fatto per il Vangelo”, ha ancora aggiunto il padre Generale.

Nella prima sessione dei lavori sono stati approvati il regolamento del capitolo, l’agenda e l’orario. Come moderatori sono stati eletti i padri Francisco Pinilla, Antonio Rovelli e Mathews Owuor. In seguito, si sono formate le varie commissioni: segreteria, redazione, liturgia e comunicazione.

Eucarestia con il Card Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano

Incontro col Card. Parolin

Il giorno è terminato con la visita del Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede, che ha presieduto l’Eucarestia.

Negli ordini religiosi, i capitoli generali sono “segnali messi ai bordi della strada per indicare costantemente la strada”, ha detto il cardinale nella sua omelia. “Sono autentici momenti di grazia nei quali siete invitati a navigare nel grande libro che narra la vostra vita missionaria, tra le pagine dove fluisce il carisma ereditato dal vostro Fondatore, vissuto per più di un secolo dalla storia di molti confratelli”.

“Parte del vostro Progetto Capitolare è dedicato a riavvicinare la missione alla realtà, perché l’annuncio venga seminato con pazienza, nasca e cresca nel silenzio quasi inconsapevole del seme del Regno, venga sussurrato e non gridato a coloro ai quali si vuole donare la Buona notizia”.

Riferendosi agli obiettivi del Capitolo, il cardinale ho osservato: “Credo che il desiderio di “ristrutturare” il vostro Istituto vada inteso in quest’ottica: non deve essere un semplice restyling (riparazione), come si fa con le autovetture quando iniziano a perdere valore sul mercato, ma deve essere un modo autentico per portare realmente la missione “ad gentes”, alle persone.

Fondato dal Beato Giuseppe Allamano nel 1901, a Torino, nel nord dell’Italia, l’Istituto Missioni Consolata conta oggi con 982 missionari: 14 diaconi, 47 fratelli religiosi, 35 novizi, 743 sacerdoti, 130 seminaristi e 15 vescovi. Nel 1910, l’Allamano ha fondato anche la Congregazione delle Missionarie della Consolata, con lo stesso carisma ad gentes.

Il 5 giugno i capitolari saranno ricevuti in udienza da Papa Francesco in Vaticano, un incontro programmato insieme alle Missionarie della Consolata, radunate anche in Capitolo. I lavori del XIII Capitolo Generale dell’IMC andranno fino al 20 giugno, giorno della celebrazione della Festa della Consolata, patrona della Congregazione.


Testo pubblicato in contemporanea anche su www.consolata.org

Momento conviviale a cena con il cardinal Pietro Parolin, segretario di stato del Vaticano

Video finale dopo la cena, con bellissimo messaggio da parte del Cardinale. Tutto spontaneo, anche il rumore dei piatti nel sottofondo!

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Un tuffo nel futuro


C’è un gioco di «iniziazione» interessante che ho visto fare in gruppi di giovani e ragazzi: sei bendato, in piedi in mezzo ad un cerchio di amici, e devi lasciarti cadere all’indietro senza paura, sicuro che ci sono braccia pronte a raccoglierti, sostenerti e proteggerti. È un esercizio ansiogeno, ma aiuta a cementare la coesione e far crescere la fiducia gli uni negli altri. Una scena simile a quella di Pietro che vuole andare da Gesù sulle acque in tempesta. La risposta di Gesù è semplice: «Vieni». Pietro si butta. Cammina sull’acqua, ma la tempesta è forte, il vento impetuoso. Si spaventa, comincia a dubitare, affonda. Un grido: «Salvami!». Ed ecco, subito, una mano tesa è lì per lui. «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

Ho davanti agli occhi queste due scene, Pietro e i ragazzi, mentre penso a quanto stiamo vivendo noi missionari della Consolata. Il prossimo 22 maggio, a Roma, inizieremo il tredicesimo capitolo generale al quale ci stiamo preparando ormai da molti mesi. Il capitolo è un incontro che avviene ogni sei anni. Ci vanno di diritto i superiori dei vari gruppi sparsi nel mondo e poi diversi missionari liberamente eletti dai confratelli. In tutto una cinquantina di persone che hanno il compito di analizzare e valutare il cammino fatto, ma soprattutto di tracciare il camino per il futuro. Tutto semplice in tempi ordinari, ma l’oggi della missione sembra più un mare in tempesta che un tranquillo lago alpino. Quello che un tempo era chiaro, oggi non lo è più. Ieri essere missionario era uscire dalla propria terra, dalla propria cultura, dalla propria lingua, da un ambiente «cristiano» e andare lontano verso chi «cristiano» non era. Oggi ci si chiede «dov’è la missione?» e la risposta non è più univoca: la missione è ovunque. Essere «Chiesa in uscita» non significa più soltanto «attraversare i mari», non si qualifica più per la dimensione geografica, ma è un movimento di incontro con l’uomo, l’altro, secondo lo stile di Gesù che ha scelto le periferie, i peccatori, i poveri, gli ammalati, gli «scarti»… ovunque essi siano, anche appena fuori dell’uscio di casa o addirittura dentro casa, dove arrivano «calandosi dal tetto».

Tutto bello, tutto nuovo, anzi, tutto antico e collaudato, visto che si rifà a Gesù stesso. Dove sta il problema allora? Dov’è il mare tempestoso? Presentando il capitolo, il nostro superiore, padre Stefano Camerlengo, ricorda due obiettivi: rivitalizzazione e riorganizzazione. Riorganizzazione significa prendere atto del fatto che (dal punto di vista religioso) l’Italia (e l’Europa) non è più al centro ma è diventata periferia. Questo è ormai evidente, ma non per questo accettato da tutti. Riorganizzare indica efficienza, essere al passo coi tempi, stare attenti alle «leggi del mercato», prendere atto che i missionari italiani sono una «specie in via di estinzione» e che le nuove forze vengono dal Sud del mondo e quindi bisogna «delocalizzare». È un processo doloroso che richiede sacrifici, tagli, abbandoni, ma ha una sua logica ineluttabile, come ci dimostrano le decine e decine di conventi, case religiose e chiese in vendita in ogni angolo del Belpaese. Potremmo dire allora che riorganizzare è una questione di «quantità» e di «fare».

Rivitalizzare è invece tutta un’altra storia in un tempo in cui i «vecchi» sono tentati dallo scoraggiamento e i «giovani» dalla globalizzazione della modernità. Parla di vita e tocca profondamente la «qualità» e l’«essere». Prendo un esempio per tutti. È più facile dire «impegniamoci affinché il beato Allamano sia dichiarato santo» o dire «diventiamo santi come ci vuole il beato Allamano»? Ed è proprio su questo punto che si gioca il futuro dei missionari della Consolata e del loro bellissimo servizio al mondo e al Vangelo. O imparano a fare come i bambini che si fidano ciecamente dei loro amici e come Pietro che si aggrappa alla mano di Gesù nel lago in tempesta, oppure anche le strategie più belle finiranno in niente.

Il beato Allamano ha ripetuto più volte che a fondare l’Istituto non è stato lui ma la Consolata. Da Maria, Consolatrice e Consolata, i suoi missionari devono imparare a fare un tuffo di fiducia nelle mani di Dio. Solo così, con occhi e orecchie, cuore e mente aperti per scoprire il sentiero che Dio ha tracciato per loro in questo oggi difficile, saranno «semplici servi» che «fanno bene il bene» senza lasciarsi condizionare dalle paure o sentirsi arrivati. «Prima santi», diceva l’Allamano, «e poi missionari», professionisti che agiscono con prudenza e coraggio, con realismo e creatività.

Ci aspetta un tuffo coraggioso nel futuro della Missione. Per questo abbiamo bisogno di voi, nostri amici, nostri tifosi, la nostra «curva». Contiamo sul vostro affetto e la vostra preghiera per vincere la partita contro lo scoraggiamento, la mediocrità, la tentazione del «si è sempre fatto così», la presunzione di essere indispensabili, la paura del nuovo.

Grazie a nome di tutti i capitolari e di tutti i missionari della Consolata.




La Costa d’Avorio in ostaggio /2


Da Dianra, nel Nord Ovest, dove i missionari lavorano per sanità e dialogo, a Grand Zattry e Sago, nel Sud Ovest, dove cercano di ampliare una scuola. Passando per Soubré, dove è in costruzione una grande diga, terminando con San Pedro e Abidjan, dove tonnellate di cacao rischiano di marcire sui camion all’entrata dei porti.

A Dianra, come a Marandallah, il dialogo interreligioso permea di sé tutta l’attività dei missionari. Questo implica un procedere lento, graduale, rispettoso delle differenze e capace di fare emergere ciò che accomuna. «È anche per questo», spiega padre Matteo Pettinari, «che prima di costruire una case de santé (piccolo centro sanitario) contattiamo le autorità di ciascun villaggio e organizziamo un incontro pubblico che coinvolga tutta la comunità. Durante l’incontro chiariamo che queste strutture fanno parte di un programma che le autorità locali della sanità pubblica hanno affidato al nostro centro di Dianra Village. Non si tratta, quindi, di costruire “la casa dei cristiani” ma di portare l’assistenza sanitaria al villaggio attraverso le regolari visite della nostra equipe mobile. Non solo: nell’incontro si cerca di ottenere dagli abitanti del villaggio l’impegno a collaborare con il nostro personale in modo che questo servizio rechi davvero beneficio».

In quel contesto rurale la gente tende a rimandare il momento in cui ricorrere alle cure mediche, finché non è chiaro che i rimedi tradizionali sono inefficaci e che le patologie si sono aggravate al punto da essere ormai invalidanti. Le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi e andare al centro di salute a farsi visitare, ad esempio durante la gravidanza, o a far visitare i bambini per scongiurare il rischio della malnutrizione. Creare sensibilità e consapevolezza è un lavoro lungo e delicato. Fare di corsa significa rischiare di offrire un servizio che poi nessuno usa.

«È interessante», prosegue Matteo, «come villaggi distanti pochi chilometri reagiscano in modi diversi: c’è una località nella quale non siamo riusciti a trovare un accordo, un’altra dove ci stiamo avvicinando a un’intesa e una terza in cui, al termine della riunione con la comunità, alcuni giovani avevano già scavato le fondamenta per la case de santé».

Quest’ultimo non è il solo esempio incoraggiante che il missionario cita. Mostra con evidente soddisfazione le foto di Sononzo Carrefour, altro villaggio che fa capo a Dianra, dove la chiesa e la moschea sono dello stesso colore, e ricorda: «L’anno scorso i musulmani di Sononzo hanno fatto una colletta per ridipingere la moschea e ci hanno proposto di dare il loro contributo per ridipingere anche la nostra chiesa. È stato un gesto davvero splendido, un atto di fratellanza che ci riempie di gioia e ci evangelizza».

Verso Sud, fra palma da olio e caucciù

Lasciando Dianra in direzione Sud gli alberi tornano lentamente ad essere verdi, segno che qualche sporadica pioggia – al Nord del tutto assente da mesi – ha lavato via dalle foglie la polvere rossa della stagione dell’harmattan1.

Grand Zattry si trova nel distretto di Bas-Sassandra, lungo la strada in parte asfaltata che collega il Nord a Soubré, cittadina a 130 chilometri dal mare. Ai lati della strada, mentre non vengono meno le piantagioni di cacao, spariscono quasi del tutto i fiocchi bianchi del cotone e i frutti arancioni dell’anacardio. Sono gli alberi di caucciù a dominare il paesaggio – ciascuno con il suo recipiente simile a un bicchiere legato sotto l’incisione nella corteccia dalla quale cola il lattice bianco – e le palme da olio, con i loro grappoli di frutti rossi adagiati dove la fronda si stacca dal tronco.

A Blesséoua, uno dei villaggi che la missione di Grand Zattry accompagna, la scuola primaria ha 458 allievi: troppi per le sei classi che fino a dicembre 2016 aveva a disposizione. Quasi ottanta bambini per aula sono davvero di difficile gestione, constata una maestra che si unisce alla riunione con il capo villaggio e altri responsabili della comunità che collaborano con padre James Gichane, missionario keniano a Grand Zattry. Per questo motivo il salone cucina che la generosità di una donatrice ha permesso di costruire nel 2016 è per il momento stato adibito ad aula. Nel frattempo, il Conseil Café-Cacao, l’ente pubblico che regolamenta la produzione e il commercio dei prodotti da cui prende il nome, sta finanziando la costruzione di altre tre classi. «Sono andato di persona alla sede del Conseil», spiega il capo villaggio, «per spiegare loro la situazione della scuola, e grazie a Dio mi hanno dato retta. Bisognava almeno aumentare il numero di aule, ma anche la mensa scolastica e i servizi igienici sono in pessime condizioni». Oltre al villaggio di Blesséoua, la scuola primaria serve diciassette campement (villaggi più piccoli e provvisori) dei dintorni, gli alunni vengono qui a piedi da cinque chilometri di distanza. La situazione di questa scuola, che è comune a molte altre nel paese, stride con le dichiarazioni d’intenti delle autorità pubbliche secondo le quali ogni classe dovrebbe avere non più di quaranta alunni.

Energia per un paese che vuol crescere

Per andare da Grand Zattry a Sago si passa da Soubré, città sulla quale gli occhi del Costa d’Avorio sono oggi puntati per via della costruzione di un’imponente diga che sfrutterà un dislivello naturale del Nawa, un affluente del fiume Sassandra, per produrre energia elettrica. Una volta ultimata, sarà la più grande diga del paese, con una potenza installata pari a 275 megawatt per una produzione annuale di 1.170 gigawatt ora.

L’opera, dal costo di 338 miliardi di franchi cfa (circa 515 milioni di euro), è finanziata all’85% dalla Cina (attraverso la banca Eximbank) e al 15% dalla Costa d’Avorio nel contesto della cooperazione sino-ivoriana; l’entrata in funzione è prevista per la fine del 2017, dopo cinque anni di lavori. Oggi la Costa d’Avorio ha una potenza installata di 1.975 megawatt forniti per tre quarti da centrali termiche (gas naturale e vapore) e per un quarto da centrali idroelettriche, e vende energia a Burkina Faso, Mali, Ghana, Togo e Benin. Il governo intende però raddoppiare la potenza prodotta entro il 2020 e ha pianificato una nuova centrale termica a gas a Songon, quartiere di Abidjan, e una a carbone a San Pedro, suscitando la perplessità per la contraddizione fra la scelta del carbone e la ratifica dell’Accordo di Parigi sul clima.

Sago: l’Africa occidentale in un villaggio

Lungo la strada verso Sago, villaggio a un’ottantina di chilometri dalla costa, è frequente vedere cartelli con il logo della Sipef – Società internazionale delle piantagioni e di finanza – un’agroindustria internazionale che opera nelle aree subtropicali fra cui la Costa d’Avorio. I cartelli recitano: Non au travail des enfants (no al lavoro dei bambini).

«È una campagna che va avanti da qualche anno», spiega padre Ramón, «nata come reazione al fenomeno dei bambini schiavi portati qui soprattutto dal Mali per lavorare nelle piantagioni di cacao».

Il tema ha cominciato ad essere noto all’opinione pubblica internazionale nei primi anni Duemila ma è probabilmente con documentari come il danese The Dark Side Of Chocolate2 che ha guadagnato maggiore visibilità. «Oggi», continua Ramón, «anche grazie a questa campagna, chi è a conoscenza di casi di sfruttamento li denuncia sapendo che, a differenza di un tempo, gli sfruttatori verranno puniti».

Quella del Bas-Sassandra è una zona con una notevole varietà etnica, dove ivoriani e stranieri vivono del lavoro nelle piantagioni o dei commerci che si svolgono nel grande mercato. «In dieci anni», spiega padre Silvio Gullino, missionario della Consolata attivo prima in Repubblica Democratica del Congo e, ora, uno dei decani della missione in Costa d’Avorio, «il villaggio è passato da quattromila a diecimila abitanti. Qui, assieme e agli autoctoni di etnia Godié, vivono Baoulé, Koulango, Abron, ma anche Mossi del Burkina Faso. Anzi, si può dire che siano rappresentati quasi tutti i paesi della Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale): Togo, Benin, Senegal, Mali, Mauritania…».

Una cartina di tornasole di questa varietà è la messa domenicale nella chiesa di Sago, durante la quale le letture vengono fatte in cinque lingue. I cattolici a Sago sono una minoranza, precisa ancora padre Silvio, circa il dieci per cento della popolazione. Sei persone su dieci sono musulmane, il quindici per cento è cristiano di altre denominazioni e un altro quindici per cento pratica le religioni tradizionali.

La scuola primaria Notre Dame de la Consolata accoglie 250 alunni dai sei ai dodici anni; padre Celestino Marandu, missionario tanzaniano anche lui con diversi anni d’esperienza in Congo, è a Sago dal 2009 ed è il responsabile della scuola che, nel gennaio 2017, è stata una delle pochissime a non rimanere chiusa tre settimane per lo sciopero dei funzionari pubblici.

«Certo», osserva Celestino, «è giusto che gli insegnanti rivendichino il loro diritto a stipendi più alti e migliori condizioni di lavoro; ma qui è la scuola a pagare gli stipendi, regolarmente e senza contributi dal governo. Garantiamo ai docenti anche case ad affitti ragionevoli e un ambiente di lavoro organizzato dove possono segnalare, discutere e risolvere i problemi insieme alla dirigenza. E tutto questo per assicurare la cosa più importante: che i bambini abbiano un’istruzione davvero di qualità». Padre Celestino ha appena completato l’arredamento della sala e mensa scolastica finanziato grazie al contributo di alcuni donatori italiani. «L’ispettore regionale dell’insegnamento primario è venuto a visitare la scuola», racconta padre Marandu. «Alla fine ci ha fatto i complimenti per la mensa più bella e grande della regione del Gboklê».

Nell’immediato futuro padre Celestino ha in programma di terminare la recinzione per avviare l’orto che produrrà frutta e verdura per la scuola: «Senza recinto non si può coltivare, arriverebbero gli animali a devastare tutto». Vuole poi ristrutturare alcune delle case degli insegnanti, completare la case de santé della scuola per seguire i bambini anche dal punto di vista della sanità di base, ultimare il campo sportivo. «Il governo ha introdotto l’obbligo scolastico fino a 16 anni», riferisce il missionario, «ma serve anche un sistema uniforme ed efficace di controlli e sanzioni per chi non manda i figli a scuola. Qualcuno stima che i bambini di fatto non scolarizzati siano ancora almeno la metà».

San Pedro e Abidjan, cacao invenduto e grattacieli

L’aria impregnata dell’odore acre delle fave di cacao è forse uno dei tratti distintivi di San Pedro, insieme alle file di camion che trasportano, oltre al cacao, anche gli altri prodotti delle piantagioni ivoriane. Ma nell’inverno del 2016 nell’aria si respirava anche apprensione: 400 mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani e cominciavano a marcire. Il Conseil Café-Cacao, riportava il quotidiano francese Le Monde3, aveva fissato per il 2016 il prezzo cosiddetto «a bordo campo» a non meno di 1.100 franchi al chilo, 1,67 euro. Gli esportatori devono vendere ad almeno 1.800 franchi (2,74 euro) per guadagnare qualcosa considerando anche i costi di manodopera e trasporto. Ma da agosto dell’anno scorso il prezzo del cacao sul mercato mondiale è diminuito del 25% e ora un chilo vale 1.300 franchi, poco meno di due euro. A febbraio, del fondo che il Conseil Café-Cacao ha a disposizione per rimborsare gli esportatori in questi casi nessuno aveva ancora visto un franco. E, spesso, i produttori ricevono il pagamento per il raccolto in parte alla consegna e in parte anche mesi dopo, perciò, se non arrivano prima i rimborsi agli esportatori per l’invenduto i coltivatori rischiano di non incassare nulla.

E se questo è il problema più immediato, non è però l’unico: la rivista Jeune Afrique4 riportava diverse testimonianze di addetti ai lavori secondo i quali la metà del cacao venduto come equo, solidale e sostenibile avrebbe avuto una certificazione fasulla. Questo tipo di cacao può essere venduto a un prezzo più alto di quello del cacao ordinario, perché, in teoria, ha costi di produzione maggiori dovuti a standard più elevati nel trattamento dei lavoratori e nei metodi di coltivazione. Dopo che i colossi del cioccolato, Mars e Lindt in testa, si sono impegnati ad arrivare entro il 2020 a comprare solo cacao certificato, questa fetta di mercato ha avuto un boom. Ma qualcosa non torna: la certificazione è un processo lungo e meticoloso, eppure nel 2015 un terzo del cacao ivoriano – cioè 600 mila tonnellate su un milione e 800 mila – risultava certificato. Troppo in troppo poco tempo, sostengono gli scettici. Alcuni operatori avrebbero fiutato l’affare e costituito delle cooperative intermediarie che comprano cacao ordinario al prezzo minimo, ottengono false certificazioni e rivendono il cacao come equo, facendo così una cresta che può arrivare a 170 Fcfa (18 centesimi di euro) al chilo. Il cacao, ricordava ancora Le Monde, genera due terzi dei posti di lavoro e dei redditi nel paese, la metà degli introiti delle esportazioni e il 15 per cento del Pil. È un settore con il potere di mettere in crisi l’intero paese.

 

A guardare le scenografiche luminarie delle feste scintillare sui vetri dei grattacieli del Plateau, il quartiere chic di Abidjan, a sentire i comunicati con cui le Nazioni Unite annunciano che la situazione è abbastanza stabile da ritirare la forza di pace5, o a leggere che il volume degli scambi di denaro via cellulare tocca i 25 milioni di euro al giorno6 non si direbbe che la Costa d’Avorio possa ripiombare nel caos. E il ricordo ancora vivo del conflitto, della paura costante, del paese spaccato a metà potrà aiutare a contenere le spallate di inizio anno. Ma certamente il 2017 sarà un banco di prova fondamentale per evitare sia un nuovo conflitto sia il cronicizzarsi di una latente, logorante instabilità.

Chiara Giovetti
(2 – fine)

Note

1- L’Harmattan è un vento secco e polveroso che soffia a Nordest e Ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea, tra novembre e marzo. È considerato un disastro naturale (Wikipedia).
2- The Dark Side of the Chocolate – Il Lato Oscuro del Cioccolato – Italiano, 02 agosto 2014, canale Youtube «doppiatorianonimi».
3- Charles Bouessel, Comment la Côte d’Ivoire se retrouve avec 400 000 tonnes de cacao invendues sur les bras,
lemonde.fr, 16 febbraio 2017.
4- Charles Bouessel, Agriculture : la filière cacao envahie par la fraude à la certification, jeuneafrique.com, 3 febbraio 2017.
5- Carlverth Kouakou, Côte d’Ivoire : Les casques bleus quittent le pays à partir du 15 février, laseve.info, 10 febbraio 2017.
6- Hamsatou Anabo, Côte d’Ivoire: Entre 15 et 18 milliards CFA de transactions quotidiennes via Mobile Money, connectionivoirienne.net, 3 febbraio 2017.

 




Liberia: Angeli contro il virus

Presenti nel paese dal 1963 le missionarie della Consolata hanno rappresentato un baluardo contro l’epidemia di ebola. Con umiltà e coraggio hanno curato le persone colpite dal virus e sensibilizzato la popolazione per ridurre l’espandersi della malattia. Oggi si prendono cura degli orfani. Ecco il racconto di quei giorni terribili.

Monrovia. Determinate, allegre e sempre indaffarate, Anna Rita, Annella, Eugenia e Clotilde sono le suore italiane della Consolata in missione in Liberia, piccola nazione dell’Africa occidentale. Insieme a loro Abela, dalla Tanzania, e Lucy, liberiana. Una dopo l’altra arrivate nel paese negli anni Sessanta, hanno vissuto due guerre civili (1989-1995 e 1999-2003) e non si sono fermate nemmeno quando il virus ebola, nel 2014, ha iniziato a mietere vittime con una facilità e una rapidità disarmanti.

Tra i 70 e gli 80 anni, vere forze della natura, sono sempre al servizio della comunità e anche in quel difficile, lungo periodo dell’epidemia non si sono risparmiate schierandosi in prima linea.

Fino a poco tempo fa impegnate anche a Ganta, città del Nord al confine con la Guinea, in un centro in cui vengono curate lebbra e tubercolosi, oggi le missionarie sono divise tra Buchanan, cittadina a Sud di Monrovia dove gestiscono una scuola frequentata da oltre 1.000 bambini, e la contea di Harbel, a 80 km dalla capitale, nei pressi dell’aeroporto.

«È stato un periodo tremendo quello dell’ebola: la malattia ha colpito tutte e tre le zone dove noi eravamo e siamo operative. Ogni giorno vedevamo morire persone che conoscevamo bene. A volte mi sono sentita impotente, ma ho sempre pensato che dovevo fare tutto ciò che era in mio potere per aiutare la mia comunità», ricorda con voce pacata suor Anna Rita Brustia, mescolando italiano e inglese in pieno stile liberiano. «Il governo e il sistema sanitario non erano pronti per gestire l’emergenza e le persone non erano informate: la cosa più difficile è stata far comprendere agli abitanti del posto che dovevano adottare alcune misure di sicurezza», precisa suor Annella Gianoglio (si veda MC novembre 2014).

Lavoro di squadra

Così le suore della Consolata hanno formato una squadra di 70 volontari incaricati di andare nei villaggi per sensibilizzare le persone circa le norme di igiene da rispettare, oltre che per verificare se c’erano casi sospetti da trasportare nei centri di trattamento istituiti dall’Ong Medici Senza Frontiere. «Li chiamavamo Health social mobilizers ed erano le persone che frequentavano il nostro corso di animazione pastorale durante il quale facevamo, insieme a due Health promoters (promotori di salute, ndr), sensibilizzazione contro l’Hiv. Non appena si sono palesati i primi casi di ebola nella nostra zona, abbiamo trasformato il gruppo per lottare contro il virus. Abbiamo iniziato a lavorare in questo senso ancora prima che il governo e l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarassero l’emergenza e, quindi, in largo anticipo rispetto alle varie Ong che sono poi arrivate», racconta suor Anna Rita con umiltà.

A farle eco suor Eugenia Tappi che ammette: «Siamo state delle miracolate, me ne rendo conto solo ora. In quel periodo pensavo solo a ciò che dovevo fare giorno per giorno». «Setacciavamo quotidianamente i villaggi e se c’era qualche persona con sintomi sospetti mostravamo ai famigliari le precauzioni da seguire e poi lo segnalavamo alle sorelle», le fa eco Emmanuel Crusol, liberiano, capo squadra dei Social mobilizers.

Lavarsi le mani di continuo, non stringersele, non avere contatti, non frequentare luoghi affollati, a messa sedersi a una distanza di un metro l’uno dall’altra: l’indottrinamento promosso dalle missionarie della Consolata è stato costante. Ancora oggi, sia nel giardino della scuola di Buchanan sia davanti alla chiesetta che sorge accanto alla struttura dove vivono le sorelle, presso Harbel, vi è un grande bidone colmo di acqua clorata (con candeggina). «Molte persone si lavano ancora le mani prima di entrare in chiesa e altri faticano a stringersele: la paura persiste», dice suor Anna Rita.

Un mondo di orfani

Oltre alla paura, però, l’ebola ha lasciato anche un numero spaventoso di orfani: «Solo nella contea di Harbel ce ne sono 614. Appena finita l’emergenza erano 616 ma poi due sono morti. Chi ha perso solo la madre, chi il padre, chi entrambi. In ogni caso si tratta di vite spezzate», continua la missionaria interrompendosi in una breve pausa. A colmare il silenzio ci pensa suor Eugenia: «Noi ci prendiamo cura di loro, sfruttando al massimo i pochi mezzi che abbiamo. Per esempio aiutiamo le famiglie che li hanno presi in carico a pagare le rette scolastiche per offrire loro la possibilità di un futuro migliore». In Liberia, come in molti altri paesi africani, non esiste infatti la cultura dell’orfanotrofio: a preoccuparsi dei bambini che rimangono senza genitori ci pensano i parenti. Così si creano famiglie enormi, difficili da gestire.

«Mia sorella è morta dopo aver contratto l’ebola, i suoi due figli ora vivono con me e i miei tre bambini. Cerco di crescerli al meglio, dando loro dei pasti ogni giorno. Non riesco a pagare la scuola per tutti, è impossibile. Anche perché qui in Liberia la vita è davvero cara dal momento che quasi tutti i beni di prima necessità vengono importati», racconta un uomo che vive e lavora ad Harbel.

Ci sono anche famiglie, però, che rifiutano i piccoli rimasti orfani perché portano con sé lo stigma del virus. «Andiamo nelle case e cerchiamo di far comprendere alle persone che questi bambini sono come tutti gli altri, hanno solo più bisogno perché rimasti soli. Facciamo sensibilizzazione. Adesso, per fortuna, iniziamo a vedere qualche risultato, complice il passare del tempo che fa sentire sempre più lontano quel terribile periodo», spiega Anna Rita minimizzando sempre ciò che fa.

«Portiamo avanti un lavoro che abbiamo cominciato all’apice dell’epidemia», interviene suor Annella, di poche parole ma molto precisa. In quel momento di estrema emergenza era infatti fondamentale cercare di soddisfare i bisogni primari delle persone: tutto era bloccato, molte aziende chiuse, importazioni ferme, attività rallentate. «La gente non riusciva a procurarsi il cibo, anche perché molte persone avevano dovuto abbandonare il lavoro, così, oltre alla scarsa disponibilità di prodotti, a mancare erano anche i soldi. Inoltre i bambini che man mano perdevano i genitori erano allo sbaraglio», continua.

Fame ed emarginazione

La meticolosità delle suore nell’organizzare gli interventi ha permesso loro di salvare la vita a molte persone. A testimoniarlo il registro con l’elenco di tutti gli orfani di Harbel sul quale al tempo segnavano con attenzione la quantità di cibo fornita a ciascuno con accanto la firma della persona che li aveva presi in carico. «A cornordinarci c’era sister Maria Teresa Moser che ora purtroppo è dovuta rimpatriare a causa di problemi di salute. Siamo perfettamente consapevoli che donare il cibo non sia il modo giusto per risolvere i problemi di queste persone. In una situazione come quella però se non l’avessimo fatto, oltre alle vittime dell’ebola ci sarebbero stati anche tanti morti di fame», riprende suor Anna Rita.

Nel dicembre del 2015 le missionarie si sono preoccupate di registrare i 614 orfani al governo: «Noi continuiamo a fare ciò che possiamo ma le autorità devono attuare un intervento radicale dall’alto per sostenere questi ragazzi. A gestire la situazione dovrebbe essere il ministro delle Pari opportunità, ma per ora ha fatto poco o nulla», afferma con sconforto Eugenia.

«I nostri fondi ci permettono di aiutare economicamente solo poche famiglie. Ad alcuni bambini che frequentano la scuola a Buchanan non facciamo pagare le rette», spiega suor Clotilde mentre si avvicina a Patience, studentessa di 13 anni intenta a giocare con gli altri ragazzi durante l’intervallo. «Mio papà era un muratore, ha preso l’ebola e si è ammalato. Adesso vivo con mia mamma e i miei cinque fratelli. Mangiamo una volta al giorno, però possiamo frequentare la scuola perché le suore ci aiutano. Mi piace venire a lezione. Quando durante l’epidemia l’istituto è rimasto chiuso io mi sentivo molto triste», dice con maturità.

Ci sono anche ragazzi che sono stati abbandonati dai genitori: «Le persone che hanno contratto il virus e sono sopravvissute sono state emarginate dalla comunità, la paura era troppo forte», spiega Annella che viene interrotta da Clotilde: «Mi ricordo di un padre che portava i figli nella nostra scuola. Era un sopravvissuto. A un certo punto però è sparito. Dicono che sia scappato nella foresta perché non sosteneva più l’isolamento». A conferma di quanto raccontano le missionarie, vi è la testimonianza di Lela Glay, 45 anni, sguardo spento: «Ho contratto l’ebola andando a trovare un mio caro che si era ammalato. Da quel momento è stato l’inferno. Sono sopravvissuta ma i problemi non sono finiti: prima sono stata a lungo emarginata da amici e parenti, ora mi trovo a fare i conti con le conseguenze fisiche lasciate dal virus. Ho fortissimi dolori alle giunture che non mi permettono più di lavorare». Così anche lei è stata presa sotto l’ala dalle missionarie della Consolata.

Lo sguardo al futuro

Suor Anna Rita e le altre fanno parte della storia del paese e non smettono di guardare avanti. «Nel caso ci fosse una nuova epidemia il governo e il sistema sanitario sarebbero pronti a intervenire tempestivamente. Lo abbiamo già provato: dichiarata ebola free l’11 maggio 2015, i due casi che ci sono stati successivamente sono stati isolati immediatamente. Noi continuiamo a sensibilizzare le persone anche perché ci sono convinzioni popolari che rappresentano un ostacolo: come la credenza che all’origine della malattia ci sia il malocchio, giu giu, in lingua locale».

Oltre ai drammi lasciati dall’ebola, le suore affrontano i problemi di sempre. Come la situazione degli insegnanti: «Hanno stipendi molto bassi e fanno fatica a vivere. La corruzione così dilaga anche nelle scuole: i genitori li pagano per promuovere i propri figli e i maestri a volte accettano, così arrotondano. Noi cerchiamo di far fronte a questo problema, nei limiti del possibile», spiega Clotilde mentre richiama i bambini all’ordine.

Così, anno dopo anno, le suore missionarie della Consolata sono diventate un po’ liberiane anche loro e, soprattutto, sono divenute il punto di riferimento della comunità.

Valentina Giulia Milani




La Costa d’Avorio in ostaggio /1


Reportage dalla Costa d’Avorio. Dall’arrivo ad Abidjan, capitale economica e culturale del paese, proprio nella settimana dell’ammutinamento dell’esercito e dello sciopero dei dipendenti pubblici, alla visita alle missioni di Marandallah e Dianra, nel Nord del paese dove operano i missionari della Consolata.

«Sei stata in Costa d’Avorio dieci anni fa? La troverai molto cambiata, allora. Abidjan ad esempio: ora ha strade nuove, un nuovo ponte con il pedaggio ed è molto, molto più pulita». Così mi dice durante il volo una trentenne ivoriana che vive da vent’anni in Germania, dove lavora in proprio come parrucchiera. Di Costa d’Avorio, in realtà, sa poco o nulla, ormai: torna una volta all’anno per vedere i fratelli e per godersi il buon cibo ivoriano: il foutou, una sorta di polenta fatta con la banana, la manioca o l’igname a seconda della zona e il pesce cotto al vapore dentro una foglia di banano.

Ammutinamento dei militari

All’uscita dell’aeroporto della capitale ivoriana, però, le notizie che raccogliamo non riguardano i passi avanti nell’urbanistica di Abidjan, ma l’ammutinamento dei militari del Nord del paese, in particolare a Bouaké. Non di tutti i militari, bensì degli anciens combattants, cioè i ribelli integrati nell’esercito che avevano sostenuto, nella fase di uscita dalla crisi, la corsa alla presidenza dell’attuale capo di Stato ivoriano, Alassane Dramane Ouattara, detto Ado. L’attuale insubordinazione in seno all’esercito altro non è che il batter cassa degli ex ribelli, ai quali la compagine politica di Ado aveva promesso premi in denaro e privilegi in cambio del loro sostegno. Nel novembre 2014 c’era stata un’avvisaglia, ma si trattò di una semplice protesta; quello di oggi, gennaio 2017, è un vero e proprio ammutinamento iniziato la settimana successiva all’Epifania dalle città del Nord ed esteso poi agli ex ribelli nell’esercito di stanza in tutto il paese.

La richiesta al governo era chiara: soldi, miglioramento delle condizioni delle caserme e case per le famiglie dei soldati. Ouattara era in Ghana alla cerimonia di insediamento del suo omologo dopo le elezioni nel vicino anglofono. È rientrato in tutta fretta per convocare un Consiglio dei ministri e reagire all’emergenza. Dopo momenti di grande tensione culminati nel sequestro del ministro della Difesa inviato a Bouaké a trattare, un accordo è stato raggiunto e i militari sono rientrati nelle caserme. Ma il 13 gennaio, giudicando insufficienti i gesti del governo in direzione del rispetto degli accordi, i soldati hanno ricominciato a protestare creando disordini, stavolta più violenti.

Proteste e disordini

«Padre Alexander Likono, uno dei nostri confratelli, era a Bouaké per delle commissioni», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio. «All’entrata in città ha trovato una cinquantina di militari: abbiamo preso Bouaké, dicevano, e prenderemo tutta la Costa d’Avorio. Poi gli hanno ordinato di scendere dalla macchina e di cederla a loro. Al suo rifiuto, lo hanno minacciato. Dopo una serie di negoziazioni e dopo avergli estorto denaro lo hanno lasciato andare, ma la paura è stata davvero tanta». I giornali hanno scritto che non ci sono stati incidenti seri, ma chi era a Bouaké parla di due morti e diversi casi di stupro.

«La situazione è grave», continua padre Ramón, «perché la popolazione, esasperata da una settimana di blocco delle attività economiche, si è ribellata ai militari, e questi hanno aperto il fuoco sulla folla. È un miracolo che non ci siano decine di morti».

Anche dopo i fatti del 13 gennaio governo e militari hanno siglato un accordo, ma il 17 gennaio c’è stata una terza ondata di disordini che ha causato quattro morti. A protestare non sono stati stavolta gli ex ribelli integrati nell’esercito, ma quelli entrati in forze alla gendarmerie e alla polizia, intenzionati a ottenere lo stesso trattamento dei «fratelli» militari. A peggiorare ulteriormente il clima è stato lo sciopero dei dipendenti pubblici a partire dal 9 gennaio, che ha portato, fra le altre cose, alla chiusura delle scuole per tre settimane.

La tensione sociale è alta: il governo avrebbe accettato, almeno sulla carta, l’esorbitante richiesta dei circa 8.500 militari ribelli, equivalente a circa 7.500 euro a testa (ma secondo altre fonti a questi si aggiungerebbero altri 10 mila euro da corrispondere in sette mesi), creando malumore in tutto il paese. I dipendenti pubblici, ad esempio, vivono la resa del governo come un’ingiustizia che aggrava l’inadeguatezza dei loro salari.

Il 7 febbraio le Forze speciali dell’esercito si sono ammutinate a Adiaké, città di confine con il Ghana. Reclamano pure loro premi economici come quelli accordati ai commilitoni.

Malumore popolare

Ma, ricorda ancora padre Ramón, il malcontento è diffuso soprattutto nella fascia più ampia della popolazione, quella che non può far valere le sue ragioni attraverso le armi né far sentire la propria voce con uno sciopero. Si tratta della gente comune, che un salario non lo ha mai visto e che vive di agricoltura e commercio. «Con quali soldi il governo pagherà i ribelli?», si chiede la gente. «Userà denaro pubblico sottraendolo agli investimenti in infrastrutture, sanità e scuola?».

La popolazione è disgustata dai militari che, riconvertendo i blocchi stradali del tempo di guerra in improvvisate frontiere interne, non hanno mai smesso di estorcere denaro a chi passa per trasportare cacao, anacardi, cotone o per andare a coltivare i campi. È stufa di non poter mandare i figli a scuola e di avere i servizi sanitari ridotti al minimo a causa dello sciopero. È, infine, spaventata dalla possibilità di ricadere in un conflitto – logorante, estenuante – come quello che solo dieci anni fa aveva trasformato il Paese modello dell’Africa Occidentale in una discarica di odio interetnico, di macerie di interi settori economici e di detriti di servizi pubblici e infrastrutture, sbriciolati dai tarli della corruzione. Alla data di chiusura di questo articolo la situazione sembra essersi stabilizzata, ma sono tanti a temere che il ritorno della tensione sia dietro l’angolo.

Marandallah, la missione del dialogo

Marandallah è una sottoprefettura nel Nord Ovest della Costa d’Avorio a poco meno di 500 chilometri da Abidjan. Siamo in piena zona koro, gruppo mandé presente in tutto il Nord ivoriano. Il 72 per cento della popolazione è musulmano, seguito da un 25 per cento che pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento. I cattolici sono 912 su un totale di 42mila abitanti.

«Date queste premesse», dice padre Alexander Likono, keniano missionario della Consolata che lavora a Marandallah (quello scampato al posto di blocco di Bouaké), «è facile capire come il dialogo interreligioso sia al centro del nostro lavoro qui. Al servizio del dialogo è anche il nostro impegno nel campo della sanità e dell’istruzione e formazione».

Le attività economiche principali della zona sono le coltivazioni dell’anacardo e del cotone. «I campi hanno un’estensione di un ettaro o due per famiglia», spiegano John Baptist Ominde Odunga, confratello e connazionale di padre Alexander. «A lavorare la terra sono, insieme agli adulti, anche i bambini, che spesso per questo smettono di frequentare la scuola primaria o addirittura non iniziano nemmeno il percorso scolastico.

La scuola secondaria conta circa 450 allievi, ma i professori – assegnati a settembre – hanno iniziato ad arrivare solo a gennaio. «È un luogo troppo isolato», continuano i due missionari, «qui gli insegnanti non ci vogliono venire. Per questo abbiamo proposto una soluzione temporanea ispirandoci a quel già avviene nel paese dal 2002 a causa della crisi: abbiamo coinvolto i giovani che hanno finito la secondaria chiedendo loro di darci una mano». A partire da novembre questi giovani sono impegnati come insegnanti volontari. Le famiglie degli studenti si auto tassano e riescono a dare ai volontari un piccolo rimborso di trentamila franchi al mese, pari a circa 45 euro, un quinto del salario di un insegnante statale. «Io stesso ho insegnato inglese», racconta Alexander. «Certo non può essere una soluzione definitiva, ma l’alternativa era lasciare 450 ragazzi senza scuola».

Il dialogo interreligioso e, più in generale, la reciproca conoscenza e cooperazione con la popolazione di Marandallah ha come luogo simbolo il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’amicizia), una sorta di parco poco fuori dal villaggio. Nel Jardin, ideato e curato da padre João Nascimento, missionario portoghese attivo a Marandallah fino a dicembre 2016, si svolgono, oltre alle celebrazioni cattoliche, momenti di aggregazione ai quali partecipano tutti gli abitanti del villaggio. Altro luogo di aggregazione è il centro per le attività sociali di fronte alla missione, che ha sale per la formazione, un piccolo ristorante, un campo da gioco. Vi è poi l’alfabetizzazione, che si svolge sia a Marandallah che nei villaggi intorno all’interno degli appatames, strutture aperte simili a paillotte (tettornie circolari aperte, con tetto di paglia).

Altra attività fondamentale dei missionari a Marandallah è il centro di salute Notre Dame de la Consolata. Il centro ha un dispensario, una maternità che segue fra le quaranta e le sessanta donne per mese, un laboratorio utilizzato anche per la diagnosi e il monitoraggio dei casi di Hiv. Dalla fine dello scorso anno, poi, la maternità dispone anche dell’ecografia. Il centro è una struttura di riferimento per la diagnosi e cura dell’Hiv/Aids in collaborazione con Sev-Ci, Ong ivoriana specializzata in questo campo. «La difficoltà maggiore», spiega ancora padre Likono, «è far capire alle persone quanto sia importante venire tempestivamente al centro di salute quando hanno un problema. Spesso tentano di curarsi con i metodi tradizionali e si trascinano per mesi malattie guaribili in pochi giorni. Lo stesso vale per quelle donne incinte che non vengono a farsi visitare durante la gravidanza e che, in caso di parti problematici, arrivano qui in condizioni terribili, a volte troppo tardi». Portare i pazienti all’ospedale più vicino, se il caso è troppo complicato per essere risolto al centro, significa far loro affrontare ore di viaggio in ambulanza su piste difficili, specialmente con le piogge, per un costo fra i 60 e i 90 euro.

Dianra. Salute, alfabetizzazione e microcredito

Ottanta chilometri di pista più a Nord – l’asfalto finisce una quarantina di minuti prima di arrivare a Marandallah ed è praticamente assente in tutto il Nord – si trova Dianra. Un bambino di una decina d’anni attraversa il cortile della missione nel buio della sera, ha in mano una busta di plastica con dentro penna, matita, quaderno e lavagnetta. Raggiunge gli altri circa 160 bambini e adulti che si intravedono nei quadrati luminosi di porte e finestre delle aule della missione, le teste chine sui banchi o protese verso la lavagna.

«Questi sono i corsi di alfabetizzazione, sono cominciati quindici anni fa», spiega padre Raphael Njoroge Ndirangu, un altro missionario keniano che lavora a Dianra. «Non sono decollati subito, ma poi piano piano le persone hanno cominciato a vederne l’utilità nel loro quotidiano». Hanno capito, ad esempio, che saper leggere e scrivere permette loro di gestire direttamente la vendita del cotone o degli anacardi che producono invece di mettersi nelle mani di intermediari che barano sul peso e si accordano con i compratori per spartirsi il maltolto. Oppure hanno visto tre loro colleghi degli anni passati superare l’esame di stato che riconosce il livello scolastico raggiunto e trovare così lavori che altrimenti non avrebbero potuto avere. «Certo, non è facile per loro rimanere concentrati dopo una giornata nei campi, ma sono motivati e in questo gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale». Altra attività che riesce a influire sul quotidiano delle persone è il microcredito, cornordinato da padre Manolo Grau, missionario spagnolo con all’attivo parecchi anni di Congo, poi approdato in Costa d’Avorio. «A oggi abbiamo 165 donne che partecipano al programma di microcredito, che è un’iniziativa stabile e, anzi, in crescita». A gestire le donne, suddivise in gruppi di cinque, sono sei responsabili, una delle quali è musulmana, a riprova che anche la missione di Dianra, come Marandallah, ha nel dialogo con le altre religioni uno dei suoi punti fermi. «Finora i vari gruppi di donne hanno semplicemente completato i cicli triennali di microcredito con percentuali di rimborso che non sono scese mai sotto il 98 per cento. Ora, dato il consolidamento dell’iniziativa, padre Manolo e le sei responsabili cominciano a pensare a un salto di qualità. «Potrebbe essere una cornoperativa, un orto comunitario, un’attività generatrice di reddito che riunisca alcune di queste donne in un progetto comune. Ma un’iniziativa del genere può funzionare solo se viene da loro. Il nostro lavoro è quello di accompagnarle nella riflessione e nell’eventuale formalizzazione di una proposta».

Un salto di qualità, invece, lo ha fatto nel 2016 il Centro di Salute Giuseppe Allamano a Dianra Village, località a 22 chilometri da Dianra. Padre Matteo Pettinari, missionario italiano e responsabile del centro, ha radunato tutto il personale nell’atrio del dispensario e Victor, infermiere recentemente entrato in forze al centro, guida la visita alla maternità, al laboratorio, allo studio dentistico terminati nel febbraio 2016. Questi completano il dispensario e la farmacia, che esistevano già; il centro così ampliato riceve crescenti richieste da parte di nuovi pazienti. I parti sono arrivati a circa 28 al mese.

«Grazie al sostegno di Amico, di Mco e di una parrocchia di Pesaro», spiega padre Matteo, «abbiamo inoltre costruito le cases de santé nei villaggi intorno a Dianra Village. Si tratta di piccole strutture presso le quali facciamo sanità di base e portiamo avanti il programma sulla lotta alla malnutrizione». «In quattro degli undici villaggi che serviamo», afferma Suzanne, ausiliaria responsabile con Victor del programma malnutrizione e membro dell’équipe mobile del Centro, «seguiamo 152 bambini malnutriti, ma prevediamo di ampliare progressivamente il programma anche agli altri piccoli che abbiamo individuato nei restanti villaggi».

Chiara Giovetti – [continua]




Frammenti di Luce


Frammenti di Luce | Annare perannareque commode: trascorrere piacevolmente tutto l’anno (Ovidio, Fasti, III) |

Riflessioni di padre Giuseppe Ronco, pubblicate su Da Casa Madre 1/2017 pp. 3-7, rivista ad uso interno dei Missionari della Consolata.

La Cattedrale dei Santi Pietro e Maria, a Colonia, è un capolavoro dell’architettura gotica mondiale e patrimonio dell’Umanità. Per i suoi 157 metri di altezza è la terza Cattedrale più alta del mondo. A Colonia però, l’architettura religiosa che predomina è quella romanica, con le sue 12 chiese costruite tra l’inizio del Millennio e la metà del XII secolo. Tra queste c’è la chiesa di San Cuniberto, costruita nel 1247 in onore del novo vescovo di Colonia e per ospitae la tomba. La pala dell’altare, risalente al IX secolo, raffigura il dio Chronos venerato come Annus, l’Anno. Le decorazioni che arricchiscono la sua bellezza sono i simboli del tempo: la rappresentazione del giorno e della notte, il susseguirsi delle stagioni, e i dodici segni zodiacali. Per cristianizzare Chronos, però, sono stati aggiunti i simboli dell’alfa e dell’omega, dell’inizio e della fine, richiamati dall’Apocalisse (cfr Ap 22,13).

L’idea teologica chi vi soggiace è di mostrare come Gesù Cristo abbia potere sul tempo e sulla storia, trasformando l’evolversi cronologico del mondo in tempo salvifico. È un Dio che si incarna nello spazio e nel tempo per farlo lievitare dal di dentro e portare così la storia al suo compimento. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! (Ebr 13, 8).

Nel paragrafo conclusivo su “La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo”, dal titolo Cristo alfa e omega, il Concilio recita: “Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni. Egli è colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua destra, costituendolo giudice dei vivi e dei morti. Nel suo Spirito vivificati e coadunati, noi andiamo pellegrini incontro alla finale perfezione della storia umana, che corrisponde in pieno col disegno del suo amore: “Ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,10). Dice il Signore stesso: “Ecco, io vengo presto, e porto con me il premio, per retribuire ciascuno secondo le opere sue. Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine (Ap 22, 12-13)” (GS 45).

È con questa certezza che diamo in benvenuto all’anno nuovo. Apparentemente sarà un anno come tutti gli altri, con le sue afflizioni e delusioni, ma in realtà sarà un anno di Dio, foriero di speranza e di salvezza, di futuro che vuole diventare eternità. Per i Greci Chronos divorava crudelmente i propri figli, e al suo passare tutto diventava morte. Per noi cristiani il tempo è utero di futuro, di vita eterna, spazio da riempire di contenuti e di opere buone, luogo di responsabilità dove si gioca il bene dell’intera umanità.

Lo accogliamo con il canto del Maranatha, facendo spazio a quel Dio che, solo, ci libererà dalla dittatura mortale di Chronos.

Siamo noi stessi il tempo

Perché il tempo appartenga a Dio, occorre la nostra collaborazione. “Un giorno, Agostino ebbe a dire ai suoi contemporanei, che si lamentavano dei loro brutti tempi: siamo noi stessi i tempi. Infatti, quando parliamo dello stile Biedermeier o del Barocco, oppure della rivoluzione francese, ci riferiamo sempre agli uomini che insieme hanno fatto di quegli anni un’epoca ben determinata. Gli uomini sono il tempo, nella mutevole natura del loro essere.

Per esprimerci in termini più concreti: che sarebbero un mondo e una chiesa senza la fede serena, leale e schietta dei bambini? Che sarebbero un mondo e una chiesa senza l’inquietudine sollecitante, le domande progressiste con cui ci assalgono i giovani? Che sarebbero senza la forza e la decisione di coloro che sono al culmine della loro vita? Che sarebbero senza la maturità dell’esperienza, senza la tranquilla pazienza e la remissiva serenità degli anziani? E che cosa saremmo noi tutti senza la fiducia degli uni verso gli altri, la disponibilità a guardarci e accettarci a vicenda?” (J. Ratzinger, Dogma e predicazione, 1974).

L’atteggiamento vincente per vivere al meglio l’anno nuovo è l’ottimismo, l’agire saggio e cosciente di chi sa confrontarsi con il dolore, la paura, le difficoltà della vita e decide di farvi fronte. E anche dalle esperienze negative potranno scaturire degli insegnamenti positivi, che aumenteranno la fiducia e la speranza.

“In ogni inizio si trova, infatti, un incanto che ci protegge e ci aiuta a vivere”, fa dire Hermann Hesse al protagonista del suo romanzo II giuoco delle perle di vetro. In ogni cuore, anche nel più spento e disilluso, una fiamma nuova riprende vita, quando qualcosa di nuovo incomincia.

“Indovinami, indovino tu che leggi nel destino: l’anno nuovo come sarà? Bello, brutto, o metà e metà? Trovo stampato nei miei libroni che avrà di certo quattro stagioni, dodici mesi, ciascuno al suo posto, un carnevale e un ferragosto, e il giorno dopo del lunedì avrà sempre un martedì. Di più per ora scritto non trovo nel destino dell’anno nuovo: per il resto anche quest’anno sarà come gli uomini lo faranno” (Gianni Rodari, Anno nuovo).

L’anno nuovo incomincia quando vuoi tu

C’è una buona notizia per chi vuole incominciare bene l’anno nuovo: il tuo nuovo anno incomincia nel giorno in cui vuoi incominciare un cammino di cambiamento. Non esiste nessun riferimento scientifico sicuro, nessuna considerazione astrale, che permetta di stabilire in modo preciso quando l’anno inizi e quando finisca.

La scelta di una data precisa è arbitraria ed è mutata più volte con il passare del tempo. Al tempo dei Romani l’inizio del nuovo anno veniva festeggiato il 15 marzo durante le Idi, in occasione dell’equinozio di primavera. In un boschetto sulla Via Flaminia, lungo il fiume Tevere, si celebrava la festa in onore di una delle divinità più antiche e misteriose del pantheon romano: Anna Perenna. L’anno nuovo incominciava, tra gozzoviglie, giochi e orge di sesso, abbandonando ogni rigidità morale. Doveva esserci solo godimento e l’augurio che ci si faceva era Annare perannareque commode: trascorrere piacevolmente tutto l’anno.

Anche nel Tibet sciamanico e pre-buddhistico, al tempo dei Bo Murgel, l’ anno iniziava con una festa chiamata Losar. Era una grande celebrazione in cui si offrivano doni agli spiriti e alle divinità tutelari a scopo propiziatorio, bruciando incensi e profumi e offrendo una bevanda alcornolica ricavata dalla fermentazione dell’orzo. La tradizione vuole che nel 127 a.C., anno in cui ascese al trono il mitico re Nyatri Tsenpo, primo sovrano della dinastia Yarlung, si incominciasse a contare gli anni seguendo le fasi della luna. Il calendario diventò così lunare.

Nella storia dei popoli mancò a lungo una data accettata da tutti. “Soltanto nel 1564 l’allora tredicenne Carlo IX, re di Francia, rese obbligatoria la data del primo gennaio come primo giorno dell’anno. Questa scelta venne via via accettata anche dagli altri Paesi cattolici mentre in quelli protestanti la resistenza fu più lunga perché non si voleva acconsentire a una decisione presa da un sovrano straniero. In Gran Bretagna si continuò quindi a festeggiare l’inizio dell’anno il 25 marzo fino al 1751, anno in cui venne accettato il calendario gregoriano, ordinato da Gregorio XIII nel 1582 per ristabilire la concordanza dell’anno con le stagioni” (Rivista Focus, 28 giugno 2002).

Prendere Gesù come compagno nel cammino della missione

L’anno nuovo inizia, ma il nostro cammino nella missione continua. Un anno che inizia può essere l’occasione per rivedere le nostre posizioni e aprirci a spazi non prima frequentati.

“La missione nella sequela di Gesù è cambiamento, apertura alla novità, ricerca inquieta e di speranza, di impegno a qualsiasi costo. Richiede rotture e rinunce, ma suscita e genera anche molta gioia ed entusiasmo e manifesta tutto il suo fascino. Avviene a noi come a quel tale che trovato un tesoro nel campo, lo nascose e per la gioia vendette tutto quello che aveva per comperarlo. Così è la missione e questa la sua attrattiva: aperta alla novità dello Spirito che è sempre libero, creativo e persino sconcertante, che crea e ricrea, trasforma e fa nuove tutte le cose, appassiona per Cristo e il suo Regno” (Da Casa Madre, 11, 2015).

Se gli elementi fondamentali che compongono la missione rimangono sempre uguali, le modalità e le scelte concrete variano sempre con il mutare dei tempi e delle situazioni. Rimane basilare il principio che la nostra missione sarà solida nella misura in cui avremo Gesù come compagno nella nostra barca. La missione è opera sua e solo in sua compagnia la nostra opera sarà efficace.

Camminando con Gesù, ogni cristiano è portato ad aprire gli occhi sull’altro: sul viaggiatore ferito dai banditi e lasciato ai margini della strada, come su quelli che sono malati, nudi, carcerati, affamati con i quali Gesù identifica sé stesso. Sui bambini che il Maestro vuole vicino a sé e sul cieco mentre le folle tentano di allontanarlo da lui; il pagano, la cui fede è inaspettatamente più grande di quella dei figli d’Israele, come su quella donna che viene ad attingere acqua e che ha dentro di sé una sete che nessuno riesce ad intuire. Il servizio che Dio chiede al suo popolo implica precisi impegni nei confronti di quanti sono esclusi al suo interno: orfani, vedove, poveri, forestieri. Ma, nella sua storia, ben presto prende coscienza che la compassione di Dio abbraccia anche tutti i popoli.

Sali sulla mia barca, Signore!
Tante volte ho avuto l’impressione che la mia vita
sia come una notte trascorsa in una pesca fallita.
Allora mi assale la delusione, mi prende il senso dell’inutilità.

Sali sulla mia barca Signore, per dirmi da che parte devo gettare le reti,
per dare fiducia ai miei gesti,
per capire che non devo lavorare da solo,
per convincermi che il mio lavoro vale niente senza di te, senza la Tua presenza.

Sali sulla mia barca Signore, per donare calma e serenità.
Prendi tu il timone: accetto di essere tuo pescatore.
Insieme pescheremo, Signore, e giungeremo sicuri al porto della vita.

La missione è passione per Gesù Cristo e nello stesso tempo è passione per la gente. Colpisce il carattere inglobante della missione di Gesù. Riguarda i ricchi e i poveri, gli oppressi e gli oppressori, i peccatori e le persone pie. La sua missione mira a sbloccare le separazioni e a far crollare i muri di inimicizia tra le persone e i gruppi. Come Dio gratuitamente ci perdona, anche noi dobbiamo perdonare chi ci ha fatto dei torti, senza limiti. Conviene riprendere in mano la Evangelii Gaudium.

Per portare Gesù e il suo Vangelo al mondo dobbiamo uscire, metterci in cammino. Per incontrare la gente bisogna lasciare le proprie certezze, gli ambienti conosciuti, le dottrine che a volte sono più ideologie che verità e farci prossimi di chi è alla ricerca o nel bisogno.

Annunciare diventa un bisogno. La sollecitudine di Paolo verso i pagani si manifesta nella coscienza acuta dell’obbligo, che sa di avere, di proclamare loro il Vangelo. È una anangke, una necessità ineludibile. “Guai a me se non annuncio il Vangelo” (1Cor 9,16). “Fedele al modello del Maestro, è vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno” (EG 23).

“Annunciare” però non significa soltanto “enunciare o proclamare”, ma testimoniare con la vita. “Possa il mondo del nostro tempo ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo” (EG 10).

Per costruire un mondo nuovo bisogna saper abitare là dove si annuncia e si testimonia. È la dimensione essenziale che l’Incaazione suggerisce: «il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi». L’ambiente nel quali ci si inserisce, casa comune in cui viviamo con gli altri, va coltivato con relazioni umane e cristiane dignitose, va plasmato e formato, sia nel dialogo con la cultura, sia con la purificazione dalle scorie che offuscano la vita vera.

Compito fondamentale è saper far nascere in chi incontriamo la passione per ciò che è vero e bello. È il compito tipico dell’educare, aiutando le persone a vedere il bene presente in ognuno e a coltivarlo per il bene di tutti.

Si diventerà capaci, con il passare del tempo, di saper trasfigurare tutta la realtà che ci circonda, vedendo e interpretando le cose con gli occhi di Dio e andando oltre i limiti umani che appaiono. La via della trasfigurazione è via di bellezza, che rivela l’unità profonda di tutto e ci apre al dono della grazia.

“Per loro io consacro me stesso” (Gv 17,19).

Giunta l’ora di compiere l’ultimo atto della sua vita, Gesù prega. La sua è una preghiera sacerdotale e missionaria nello stesso tempo, atto di consacrazione di sé stesso al Padre e ai suoi discepoli. “Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (vv. 17-19).

Buon Anno e buon viaggio!

Giuseppe Ronco, IMC

(Da Casa Madre 1/2017, pp. 3-7)
Immagini simboliche di Gigi Anataloni, Ennio Massignan e Adriano Coletto




Good morning Korea


Diciotto missionari provenienti da undici paesi diversi, sparsi in Asia fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore del grande continente. Questa la realtà dei missionari della Consolata tra Sud Corea, Mongolia e Taiwan. Questo è il pensiero che mi accompagna «turisteggiando» a Seul.

Cammino per le strade di Seul ormai da un paio d’ore. Mi sono preso una giornata di vacanza per girare liberamente in città, visto che forse è l’ultima volta che ho l’opportunità di farlo. La capitale coreana mi piace molto. Ho imparato a sentirmi a casa qui, pur senza conoscere la lingua della gente, cosa che mi avrebbe permesso di apprezzare di più un mondo tanto diverso, eppure così affascinante. Vagolo senza meta, dopo aver pagato il dazio alla cultura visitando il tempio confuciano di Jongmyo che ancora mancava alla mia agenda di turista, ovviamente interessato, in quanto missionario, alle religioni dell’Estremo Oriente. Bighellono per Tapgol Park, dove un anziano mi ferma, mi chiede da dove vengo e con fatica, in un inglese improbabile, mi racconta perché quel luogo è così importante per l’anima coreana: «Independence from Japan». Mi racconta fatti che risalgono all’inizio del secolo scorso, ma che sembrano di millenni fa se si pensa a cosa è successo qui da cento anni a questa parte e alla velocità che la storia ha impresso a questo angolo di mondo. La Corea (ma lo stesso si può dire di Taiwan, altro posto che ho imparato a conoscere in questi anni) è passata dalle stalle alle stelle alla velocità della luce: sulle rovine di un paese frantumato e diviso dalla guerra civile degli anni ’50 si è innestato il turbo di un progresso vertiginoso.

Zigzagando per il centro

Seul è immensa. Venticinque milioni di coreani, dei cinquanta complessivi che compongono la popolazione nazionale, vivono in questa immensa area metropolitana che non dista molti chilometri dal sempre turbolento confine con la Corea del Nord. Tuttavia, almeno in centro, ormai mi oriento senza troppa difficoltà, anche se ogni tanto sono costretto a estrarre la cartina dallo zainetto perché sotto ai grattacieli la città ti può confondere e il fatto di girare a sinistra invece che a destra ti può complicare non poco la vita. Gli isolati sono enormi e, se ci si sbaglia, i percorsi si possono allungare a dismisura prima di rendersi conto che si sta camminando nella direzione errata. Guardo la mappa quasi di nascosto perché il coreano è solitamente persona gentilissima e si avvicina come un falco appena intuisce la benché minima difficoltà del turista. Iniziano allora conversazioni surreali con l’improvvisata guida che non capisce dove tu vuoi andare, ma ti spiega come fare a raggiungere luoghi di cui manco avresti immaginato l’esistenza. Quanto mi piacerebbe poter andare oltre agli stereotipati annyeonghaseyo (buongiorno) o gamsahabnida (grazie), le uniche due parole di coreano che conservo da un viaggio all’altro. Ho provato ad ammucchiae qualcuna in più nel mio improvvisato bagaglio di viaggiatore, ma il coreano è lingua impegnativa, il cui studio esige dedizione costante e pratica. Alla fine mi sono arreso.

Oggi, dopo questi anni di servizio all’Istituto che mi hanno portato a viaggiare più volte in Oriente, mi resta la nostalgia, condita da un pizzico di rammarico, dei passi non fatti, dei libri non letti… dei film non visti, insomma, della Corea che avrei potuto esplorare anche dalla mia camera e che invece è rimasta sconosciuta. In questi anni mi sono accorto che per capire l’Asia (e la Corea non fa certo eccezione) non basta il «mordi e fuggi», occorre immergersi, entrare nel tessuto, accettare la sfida di rimanere ai margini di un mondo che quando inizia ad essere minimamente intellegibile è soltanto perché vuole fuggire di nuovo, inseguito senza concedersi. Percorrendo Insa-dong, la via dei turisti, non posso far altro che strisciare i piedi con fatica in mezzo a gente di ogni dove. Riconosco facilmente alcuni americani – sono ancora parecchi, molti di loro militari – alcuni europei. Ogni tanto, forse, mi pare di riconoscere un accento australiano, che poi magari è neo-zelandese, o canadese, o chi lo sa… Per non parlare delle migliaia di asiatici che intasano i piccoli negozietti di souvenir: cinesi, giapponesi, taiwanesi, vietnamiti, eccetera, eccetera. Insa-dong è una babele orizzontale, una spremuta di mondo in poche centinaia di metri che terminano in Yulgok-ro, la grande arteria che separa il turista dai tesori della Seul reale. A destra il meraviglioso palazzo di Changdeokgung, patrimonio dell’Unesco, costruito originariamente nel 1405 e a tutt’oggi uno degli edifici storici meglio conservati della nazione. Camminando a sinistra, si raggiunge invece il palazzo di Gyeongbokgung, la più grande delle cinque residenze reali che arricchiscono oggi la Seul storica e culturale. Distrutta completamente durante la dominazione giapponese e ricostruita grande e bella per urlare in faccia al mondo che il corpo muore ma l’anima sopravvive e alimenta la fiamma dell’orgoglio nazionale. Come quello del vecchietto di Tapgol Park: «Independence from Japan».

Nel cuore della gente

Evito i palazzi storici e opto per tornare sui miei passi, puntando diritto verso Jogyesa, il più famoso tempio buddhista di Seul e il più frequentato della Corea. Entro nel grande cortile che si apre di fronte al tempio principale e mi fermo a guardare tante persone che arrivano come formiche, lasciano le scarpe davanti agli ingressi ed entrano, piazzandosi in ginocchio di fronte alle tre grandi statue di Buddha, raffigurato nelle principali fasi della vita: giovinezza, età matura e vecchiaia. Chissà cosa portano nel cuore queste persone che si inchinano ritmicamente di fronte all’Illuminato. Che pensieri si celano dietro i mantra con cui ritmicamente recitano le loro preghiere? Non si immaginano neppure che dietro di loro, a pochi metri di distanza e in rispettosa attesa, un missionario cattolico li sta guardando con interesse e timore, chiuso nel suo mutismo ignorante. Vorrei fare tante domande… non consisterebbe anche in questo il dialogo interreligioso?

Mi smarco dalla folla religiosa di Jogyesa e cammino fino a immergermi in quella chiassosa, variopinta e globalizzata di Myeong-dong. Se non fosse per le scritte in coreano potresti pensare di essere a Milano, New York o Rio de Janeiro… luci, musica, colori, persino i vestiti della gente sembrano essere stati fotocopiati ed applicati in serie alle varie persone. E qui che Asia c’è? Cosa vede il missionario, in piedi, in rispettosa e curiosa attesa dietro alle vetrine di uno delle migliaia di negozi di maquillage che intasano i marciapiedi con i loro banchetti promozionali? O di quel negozio di moda giovanile, dove personale bellissimo, frutto di sacrifici non indifferenti in palestra e cosmesi aspetta le frotte di giovani che vi accorrono rapidi. Che Asia è quella che si apre davanti ai miei occhi, così familiare che mi sembra di averla già vissuta altrove, eppure così diversa? Che pensano quei giovani? Che cercano nella vita? Cosa studiano? Andranno al tempio?

Qualcuno di essi forse andrà in Chiesa. Il Cristianesimo si è diffuso moltissimo in Corea, soprattutto quello protestante, diviso in centinaia di chiese dalla diversa denominazione, ma dalla simile architettura. Le grandi croci luminose che squarciano il cielo notturno della capitale con raggi di vario colore confermano che la presenza evangelica è numerosa e appariscente. A Myeong-dong si staglia la cattedrale cattolica, dedicata all’Immacolata Concezione. Costruita originariamente in una piazzetta del vecchio quartiere, conquistando metri quadrati a ristoranti e negozietti, oggi la grande chiesa si è ritagliata una spianata importante e un colpo d’occhio più imponente. Come i cattolici stessi, del resto. Anch’essi hanno guadagnato il loro spazio importante in seno alla società coreana. Oggi, sono circa il 10% della popolazione, ben organizzati, strutturati, con un clero abbondante e efficiente.

Il gruppo dei missionari della Consolata in Asia (Corea, Mongolie e Taiwan) con i membri della direzione generale dell’Istituto.

I missionari e l’Asia

Dentro questa chiesa, dal 1988, siamo anche noi Missionari della Consolata. Ci rifletto un po’ nel lungo viaggio in metropolitana che mi riporta a casa. Penso ai vari confratelli che si sono succeduti in questo angolo di mondo e alle domande che sicuramente devono essersi fatti per confrontarsi con la realtà quotidiana della Corea. Penso ai giovani coreani che hanno intercettato nel loro cammino, al linguaggio che hanno dovuto imparare per confrontarsi con loro. Sette di essi sono oggi Missionari della Consolata e lavorano in varie parti del mondo. Uno, padre Han Pedro, è rientrato in Corea e aiuta i nuovi arrivati a entrare più velocemente nel tessuto della società coreana. Lui per primo sa che non è facile capire la Corea, al punto che lui stesso ha sentito il bisogno, dopo tanti anni passati in Italia e in Brasile, di rimettersi a studiare. La sua sensibilità verso la pace e la giustizia lo ha portato ad avvicinarsi al tema del riavvicinamento fra le due Coree, un campo vastissimo per esercitare il ministero missionario della consolazione.

Altri si sono dedicati al dialogo interreligioso, cercando di comunicare nella vita di tutti i giorni, negli incontri di studio specializzati e nella condivisione di momenti di spiritualità, la ricchezza del proprio essere cristiano, il valore della comunità, la bellezza dell’interculturalità. Altri ancora hanno cercato i poveri, gli scarti di questa società del benessere, e sono andati a vivere con loro, lontani dalle luci del centro e dai grandi schermi digitali che dalle pareti dei grattacieli trasmettono la pubblicità di paradisi artificiali e inni al consumo. Oggi, diversi migranti giunti dall’Africa o dall’America Latina chiedono aiuto a missionari che li capiscono perché ne parlano le lingue e ne hanno conosciuto le culture provenendo dai loro stessi paesi di origine o avendovi lavorato.

A cena racconto il giro che ho fatto. Conto i confratelli intorno alla tavola. Ci sono tutti perché si sono riuniti per salutarmi visto che presto ripartirò per l’Italia. Seul è proprio immensa, mi dico, e loro sono così pochi. Mentalmente allargo lo sguardo oltre la Corea per cogliere anche il saluto dei tre missionari che vivono a Taiwan e dei quattro confratelli della Mongolia. La Consolata in Asia è tutta racchiusa in quel pensiero che subito diventa preghiera: 18 missionari provenienti da 11 paesi diversi, persi fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore di questo grande continente.

Ugo Pozzoli
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Già direttore di MC, ora consigliere generale dell’istituto con responsabilità per l’Europa e l’Asia.




Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia


“Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma.

Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero.

Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare.

Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute  a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare – infatti –  è verbo che dice vicinanza, frateità, empatia. Verbo che sta tra la proclamazione e il silenzio, molto caro all’Asia. Questa espressione allude anche all’idea di segreto, molto tipica delle culture asiatiche e di quella mongola in particolare: la Parola comunicata esige di essere pronunciata con la stessa profondità da cui si origina e mirando a suscitare in chi l’ascolta la stessa densità di silenzio e di stupore in cui nasce. Ne consegue uno stile che si potrebbe riassumere accennando alla radice sanscrita del verbo “sussurrare”: svar, suono/suonare. La missione come una melodia che fa vibrare il cuore. Esigenza di bellezza, armonia, equilibrio, proporzione, discrezione”.

Sono queste parole dello stesso Giorgio, tratte dal testo con cui ha difeso il suo elaborato. Da esse è facile capire come lo stile del sussurro apra al missionario e gli permetta di approfondire il discorso sulla contemplazione e la preghiera come autentiche vie di evangelizzazione, sia per la dinamica stessa della missione, sia per la particolare sintonia con un contesto fortemente segnato dalla dimensione spirituale.

Il dibattito che è seguito alla presentazione del candidato ha permesso al Direttore della tesi e controrelatori (il Prof. Benedict Kanakapally e i professori Luciano Meddi e Donatella Scaiola rispettivamente ) di chiarire ulteriormente alcuni punti del missionario presentato da padre Giorgio. Il successo è stato garantito da un giudizio estremamente positivo sia sul lavoro scritto che sulla presentazione che di essa è stata dato.

Al termine, prima dei ringraziamenti da parte del candidato, un ospite mongolo, il prof. Selenge, studioso cattolico della cultura del suo paese, amico personale di Giorgio e suo sostegno in questo lavoro di ricerca, ha presentato un segno tradizionale di onore e rispetto, offrendo al neo dottore  dell’Arul (latte essicato) e un drappo azzurro, insieme ad auguri di ogni bene.

Padre Giorgio ripartirà fra pochi giorni per preparare la celebrazione del Natale con la sua piccola comunità cristiana di Arveiheer, continuando con essa a “sussurrare” il Vangelo in Mongolia e al grande continente asiatico.

Padre Giorgio Marengo difende la sua tesi all'università urbaniana. - Articolo su Dottorato Giorgio Marengo “Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma. Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero. Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare. Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare

Padre Giorgio Marengo difende la sua tesi all'università urbaniana. - Articolo su Dottorato Giorgio Marengo “Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma. Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero. Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare. Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare




Mongolia: ordinato primo sacerdote mongolo


Nel VII secolo i primi a portare il Vangelo sono i Nestoriani. Nel XIII secolo arrivano i cattolici. Una Chiesa vivace e numerosa è spazzata via sotto la dinastia Ming nel XVI secolo, quando il Buddismo tibetano diventa religione di stato.

Solo nel 1992 possono rientrare i primi missionari cattolici. Rinasce una piccola comunità cristiana. Che cresce velocemente. E ha ora il suo primo prete. Enkh-Joseph è il primo sacerdote cattolico nativo della Mongolia. È stato ordinato nella cattedrale dei santi Pietro e Paolo il 28 agosto 2016, alla presenza di quasi tutti i fedeli cattolici del paese, oltre che di molti ospiti stranieri. La Chiesa cattolica in Mongolia conta poco più di 1.500 battezzati e ha accolto con gioia questo evento storico.

La storia vocazionale di Enkh inizia in famiglia, quando le sue sorelle maggiori si avvicinano alla Chiesa e ricevono il battesimo. Nel giro di poco s’interessa anche lui e comincia a frequentare la neo istituita parrocchia della cattedrale di Ulaanbaatar. Quando lo conosciamo noi è un ragazzino timido e gentile, che comincia a farsi delle domande importanti. Suo papà è morto quando lui era piccolo e la mamma quando sente del suo desiderio di entrare in seminario è un po’ titubante; così Enkh accetta il consiglio materno di concludere prima l’università e si iscrive a un college di Ulaanbaatar. Il diploma arriva presto e a questo punto la mamma non oppone più resistenza. È pronto per il seminario: ma quale, visto che in Mongolia non ce ne sono? La diocesi coreana di Daejeon è in ottimi rapporti con la Prefettura Apostolica di Ulaanbaatar e così inizia il cammino di formazione presso quel seminario, reso più impegnativo a motivo della lingua diversa che deve imparare. Adesso parla meglio di un coreano, dicono. Più di sette anni di studio e finalmente arriva il grande giorno.

L’evento – di portata storica – è preparato per mesi da un’apposita commissione. Visto che la capienza della cattedrale è di 600 posti, si deve allestire uno spazio all’esterno e nella vicina palestra dei Salesiani, per consentire alla gente di seguire da vicino la liturgia. Sono presenti, oltre al vescovo locale mons. Wenceslao Padilla, il nunzio apostolico in Corea e Mongolia mons. Osvaldo Padilla e il vescovo della diocesi coreana di Daejeon mons. Lazzaro You.

Sono presenti anche alcune autorità civili e religiose. È molto toccante il momento in cui l’abate buddista Choijamts, figura autorevole e ben nota del Buddismo mongolo, vuole salutare il novello sacerdote e fargli scendere dal collo lungo le spalle una sciarpa azzurra in segno di rispetto. Un gesto simbolico che parla al cuore della gente e dice dignità, riconoscimento, onore. Al termine della celebrazione arriva anche il sacerdote ortodosso della chiesa della Santissima Trinità di Ulaanbaatar, non lontana dalla cattedrale cattolica. Un altro gesto di grande significato, questa volta ecumenico: padre Alexey omaggia don Enkh di un bassorilievo a icona, che rappresenta san Nicola, venerato tanto dagli Ortodossi quanto dai Cattolici.

Il giorno seguente c’è la prima messa presieduta da don Enkh. Il clima è più raccolto, molta meno gente e più spazio ai sentimenti. Nell’omelia don Enkh si sofferma sul versetto biblico scelto per l’occasione: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). Oltre a sentirsi chiamato come il giovane Samuele (il brano tratto da 1 Sam, 3 era la prima lettura del giorno precedente) Enkh ricorda il momento in cui ha sentito in maniera nuova la forza della croce: «Era il lunedì dell’Angelo dell’anno scorso; tutto avrebbe dovuto essere in festa, ma io non riuscivo a percepire la gioia della risurrezione. Riflettendo capii il motivo: non avevo voluto partecipare alla croce del Signore, ecco perché adesso non potevo provare l’immensa gioia della Sua risurrezione…». Ecco perché adesso si augura di saper seguire il Signore sempre e comunque, per poter irradiare la Sua vita nel ministero sacerdotale.

Dalla piccola comunità di Arvaiheer sono in 15. Partecipano con molta commozione. Chi, come Perliimaa-Rita, è arrivata alla fede ormai avanti negli anni è ancora più felice nel vedere un giovane mongolo diventare prete. È convinta, come tutti del resto, che saprà raggiungere il cuore delle persone e contribuire in maniera decisiva al processo di inculturazione della fede. C’è anche un senso di soddisfazione nel constatare che «uno dei nostri ce l’ha fatta»: è la promessa di future vocazioni; altri, vedendo il suo esempio, ne seguiranno le orme. Per loro il momento forse più emozionante è quello, durante la sua prima messa, in cui don Enkh spende più di mezz’ora per imporre le mani su ognuno dei convenuti. «Vedere un sacerdote mongolo benedire la gente è stato molto commovente – confiderà poi Diimaa-Elizabeth, altra fedele di Arvaiheer -. Un gesto che fino a ora avevamo visto compiere solo dai missionari, ora lo compie un nostro giovane. È bello pensare che don Enkh sia diventato canale della benedizione divina».

È quello che auguriamo anche noi a don Enkh: vivere il sacerdozio come lo visse il Beato Allamano, sempre docile allo Spirito che lo volle usare come conca dove la grazia si posava e come canale che la lasciava scorrere sulla gente.

Giorgio Marengo




Kwaluseni nuova missione della consolata Swaziland


Con l’insediamento del nuovo vescovo di Manzini (Swaziland), 26 gennaio 2014, José Luis Ponce de Leon, argentino missionario della Consolata, si è auspicato cominciare la presenza dell’Istituto (IMC), in codesta nazione. Il primo ad arrivare è stato p. Giorgio Massa, inviato dalla Direzione Generale, per richiesta del vescovo, lo stesso anno 2014. Gli altri sono poi arrivati a piccoli passi..

Il primo passo lo si è fatto con l’invio del neo diacono Muriithi Peterson Mwangi, dicembre 2015 perché svolgesse il suo ministero diaconale con un sacerdote diocesano, p. Ncamiso Vilakati nella parrocchia di St. Mary’s, Lobamba; nello stesso tempo è stato introdotto alla lingua e cultura locale.

Il secondo passo è avvenuto ad aprile 2016, quando i pp. Samuel Francis Awuor Onyango e Rocco Marra consegnando alla diocesi di Dundee le parrocchie di Madadeni (KZN in Sudafrica) erano disponibili per la nuova presenza in Swaziland. Anche per loro l’introduzione alla lingua e cultura, non solo in una parrocchia, ma in diversi centri pastorali, per avere una visione generale della diocesi. P. Rocco è stato particolarmente a Florence Mission, mentre p. Francis a Hlathikhulu “Christ The King” Parish.

Il terzo passo, è stato fatto dopo l’ordinazione sacerdotale di Peterson, avvenuta in Kenya, suo paese d’origine, il 27 agosto 2016. P. Peterson di ritorno dal Kenya, il 12 ottobre, dà il via a cominciare la prima comunità missionaria della Consolata in Swaziland. I pp. Rocco, Person e Francis si son trovati a celebrare l’Eucarestia, il 17 ottobre, memoria di San Ignazio di Antiochia, nella cappella dell’episcopio insieme al vescovo José Luis. In questo modo la comunità dei missionari della Consolata ha avuto il suo inizio ufficiale in Swaziland.

Cappella di Kwasuleni
Cappella di Kwaluseni

Kwaluseni, la nuova missione

Ma il momento principale è avvenuto durante la celebrazione della domenica missionaria, il 23 ottobre 2016,  quando il Vescovo José Luis Ponce de Leon ha celebrato la messa nella chiesa di santi Pietro e Paolo, Kwaluseni (Matsapha) e ha presentato i missionari della Consolata Francis Onyango, Peterson Mwangi e Rocco Marra, come i nuovi sacerdoti incaricati di quella che per ora è ancora una cappella della cattedrale di Manzini; ma da gennaio 2017 sarà creata parrocchia a tutti gli effetti.

L’amministratore della Cattedrale, don Sandile Mswane, che ha concelebrato, ha incoraggiato i fedeli a continuare con responsabilità il cammino di fede comunitario, auspicando anche le altre cappelle un giorno divengano parrocchie. Chiaramente il nostro vescovo ha incoraggiato a maturare come comunità ministeriale e missionaria. Il neo parroco p. Francis Onyango ha sottolineato il fatto che ognuno è importante, amato e parte della famiglia parrocchiale; ha poi promesso che come missionari cercheremo di fare sempre del nostro meglio, facendo “il bene bene e senza rumore”, secondo l’insegnamento del beato fondatore Giuseppe Allamano.

Siamo sicuri che questa nuova apertura porterà frutti nella nostra vita di evangelizzatori, nei cuori di tante persone di buona volontà, nella società e continuiamo a pregare il Signore che ci dia la gioia di vedere partire qualche giovane swazi come missionario della Consolata al servizio della chiesa e del mondo intero.

 

bishop-jose-e-i-missionari-della-Consolata (Rocco Marra)
Bishop-José-e-i-missionari-della-Consolata (Rocco Marra)

Breve introduzione allo Swaziland

Lo Swaziland è un piccolo stato confinante col Sud Africa e Mozambico. La sua superficie copre 17364 Km. Quadrati, nonostante le sue altitudini il clima di solito è mite, eccetto in alcune località`, dove durante la notte, d’inverno, può scendere a 0 gradi centigradi.

La popolazione è chiamata Emaswati, o popolo del Ngwane. Questo nome ha origine dal re Mswati, che ha regnato all’inizio del XIX secolo, nipote del re Ngwane. La nazione raggiunge un milione e cento mila abitanti, la lingua è siswati, del gruppo linguistico degli Nguni. L’inglese è anche parlato da molti nel paese. Nel lungo regno di Sobhuza II, si è celebrata l’indipendenza dagli inglesi nel 1968, però è da notare che dal 13 aprile 1973 il Swaziland è sotto una monarchia assoluta, che praticamente è tuttora vigente. L’anno è costellato di celebrazioni culturali tradizionali: forse la più conosciuta è “reed dance” (danza delle canne), che è la festa di primavera, fine agosto e settembre. Si può denominare come la celebrazione delle vergini della nazione. Vengono donate le canne alla regina madre e di solito il re sceglie una ragazza da aggiungere al gruppo delle sue mogli.

Una celebrazione importante è “the incwala”: durante il periodo di dicembre-gennaio, in questa ricorrenza i ragazzi del regno hanno un ruolo di rilievo. Il re assapora i primi frutti, prodotti nei campi, la virilità e fecondità del re è anche fecondità dell’intera nazione. Il cristianesimo ha raggiunto il Swaziland nel 1844 con la Chiesa Metodista… La Chiesa Cattolica è arrivata solo a gennaio 1914 con due sacerdoti dell’Ordine dei Servi di Maria. Uno dei quali era p. Francis Mayer, che è stato ucciso da un “lunatico” dopo tre mesi dell’arrivo dei missionari. L’assassino poi dovendo subire il patibolo per quello che aveva commesso, prima dell’esecuzione ha chiesto di essere battezzato. Così il primo battezzato della storia della chiesa in Swaziland è l’assassino del primo missionario arrivato nel paese. La chiesa ha educato alla fede molte generazioni e ha preparato giovani a essere sani cittadini. Molte sono le istituzioni fondate e guidate dai cattolici nel campo educativo, sanitario, caritativo e persino agonistico; tanti altri sono i progetti di promozione umana, incoraggiati cammin facendo.

La nazione è anche Diocesi di Manzini, dal 2014 guidata dal suo quinto Vescovo José Luis Ponce de Leon; vi è un gruppo di sacerdoti locali, così pure di religiosi e religiose missionari. Quest’anno la diocesi è stata benedetta da due nuove forze missionarie: i Missionari di San Francesco di Sales e i Missionari della Consolata. Certamente è un momento di grazia per l’evangelizzazione oggi. Si desidera avere nuovi metodi e strumenti perché il Vangelo arrivi a tutti e si faccia vita quotidiana, come il vescovo profeta Mandlenkhosi Zwane (1976-1980) ha auspicato durante il suo episcopato. Per raggiungere l’obiettivo c’è bisogno di evangelizzatori che fanno cammino con le persone, testimoniando Gesù presente in ogni situazione e circostanza. Un operare insieme come comunità`, dove laici, clero e consacrati condividono, con responsabilità diversificate e partecipazione, per raggiungere tappe che accelerano la presenza del Regno di Dio nella nostra società`.

Rocco Marra
da Da Casa Madre, 11/2016 e dal blog di padre Rocco