Cuore e verità


Le cifre parlano: 58 giornalisti uccisi nel 2022, 48 scomparsi, 65 trattenuti in ostaggio, 533 incarcerati, di cui 110 in Cina, 47 in Iran, e 169 giornalisti fermati, arrestati, indagati o sotto processo in Russia dall’inizio della guerra. Quasi quasi fare il giornalista è più pericoloso che fare il missionario. Un «mestiere», quest’ultimo, che ha il suo bel numero di vittime, come ricordato il 24 marzo scorso nella «giornata dei martiri»: 18 nel 2022, 22 l’anno prima, 20 nel 2020, con il record di ben 40 nel 2018, senza contare quelli «scomparsi», come padre Paolo Dall’Oglio in Siria nel luglio 2013.

Il 3 maggio ricorre la «giornata mondiale della libertà di stampa» proclamata dall’Onu, e il 21 la «giornata mondiale delle comunicazioni sociali», celebrata dalla Chiesa ne mondo, per la quale papa Francesco ha proposto il tema «Parlare col cuore. Secondo verità nella carità (Ef 4,15)».

Comunicare, e soprattutto comunicare la verità come dovrebbero fare sia giornalisti che missionari, è un mestiere rischioso. Sì, perché è vero che la verità rende liberi, ma non piace a chi costruisce il proprio potere e la sua ricchezza sulla menzogna, sul controllo dell’opinione pubblica, la manipolazione, il monopolio, il pensiero unico e l’ostentazione.

Comunicare, come insegnare, dovrebbe aprire nuovi orizzonti, far vedere oltre il proprio naso, stimolare la mente a ricercare idee inedite, far incontrare nuove realtà ed esperienze di vita. Aiutare quindi le persone a diventare più libere, creative, responsabili, fraterne, serene, rispettose e solidali. Far capire che la bellezza del mondo non finisce con i muri del proprio giardino, con il proprio pezzetto di cielo, con la propria lingua e cultura.

Purtroppo, spesso, la realtà che viviamo è tutto il contrario di questo. Siamo in un tempo in cui la comunicazione non è solo quella fatta dai giornalisti, ma è soprattutto quella subdola, incontrollabile, invasiva di internet, dei social, della pubblicità, dei video virali, dei programmi televisivi e delle molte altre forme di comunicazione da cui siamo colpiti quotidianamente senza accorgercene. Tutte forme di comunicazione che non hanno lo scopo di rendere libere le persone, ma di condizionarle e asservirle.

Quando un bambino, lasciato per ore davanti a uno schermo (Tv, smartphone, tablet) cresce senza saper distinguere un cartone animato dalla pubblicità o da un programma serio, come può far maturare in sé una mentalità critica e libera?

Dove finisce la libertà e il senso critico di chi viaggia nel web condotto da algoritmi e intelligenza artificiale che, potenzialmente positivi, sono usati invece per condizionare le scelte, annullando la capacità di distinguere tra realtà e finzione, verità e fake news, a servizio dei profitti sempre più alti di pochi e del potere di politici, partiti e governi intenti a mantenere o costuire il consenso a tutti i costi?

Per questo c’è da ringraziare per quei giornalisti che ancora oggi sono disposti a pagare di persona per servire e comunicare la verità. Essi sono un segno positivo che alimenta la speranza e che mostra quanto la verità sia più forte della menzogna, in qualsiasi forma essa si presenti.

Grazie a persone come il nostro amico Gianni Minà, comunicatore appassionato e gentile, che è stato gradito ospite anche su queste pagine.

Oggi abbiamo più che mai bisogno di quello che il Papa, nel suo messaggio, chiama «comunicare la verità nella carità». «In un periodo storico segnato da polarizzazioni e contrapposizioni – da cui purtroppo anche la comunità ecclesiale non è immune – l’impegno per una comunicazione “dal cuore e dalle braccia aperte” non riguarda esclusivamente gli operatori dell’informazione, ma è responsabilità di ciascuno. Tutti siamo chiamati a cercare e a dire la verità e a farlo con carità. Noi cristiani, in particolare, siamo continuamente esortati a custodire la lingua dal male (cfr. Sal 34,14), poiché, come insegna la Scrittura, con la stessa (lingua, ndr) possiamo benedire il Signore e maledire gli uomini fatti a somiglianza di Dio (cfr. Gc 3,9). Dalla nostra bocca non dovrebbero uscire parole cattive, “ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano” (Ef 4,29)».

È quello che stiamo provando a fare con questa rivista, che non ha altre pretese oltre a quella di aiutare a guardare agli altri, vicini e lontani, per conoscerli nella verità, vincendo pregiudizi e stereotipi, senza piegarsi alle mode del momento, smascherando manipolazioni, paternalismi o paure alimentate ad arte. Siamo una piccola voce, una goccia nel mondo della comunicazione. Ma abbiamo una forza che ci brucia dentro: l’amore per l’uomo, ogni uomo, con una preferenza: quella per il più debole, indifeso, emarginato e sfruttato, visto con gli occhi di Cristo.

 




Ricordando Gianni Minà


Gianni Minà ha collaborato per alcuni anni con questa rivista, condividendo i suoi ricordi e i suoi incontri.
Vi offriamo qui la lista dei suoi interventi.

2015/12 Dic p. 79      Francesco e il Grande Vecchio

2015/10 Ott p.82       Il papa del Sud e il risveglio di un continente

2016/12 Dic 82          Rigoberta, il riscatto maya

2016/11 Nov 82         Mennea, una “freccia” bianca, libera e testarda

2016/07 Lug 82         Macarena, la nipote del poeta

2016/06 Giu 82         Gabo, il realismo magico di un premio Nobel

2016/05 Mag 82        Muhammad Ali, la vita è come un ring

2016/04 Apr 82         La musica secondo Ennio Morricone

2016/03 Mar 82        La nobiltà umana di Ettore Scola

2019/05 Mag 81        Aleida Guevara, una degna figlia del Che

2017/05 Mag 81        Quel diavolo di Maradona

2017/04 Apr 81         Si chiamava Ilaria Alpi

2017/12 Dic 79          Galeano, l’ironia e l’impegno

2018/06 Giu 75         L’odissea di Lula

Qui, un appassionato profilo di Gianni scritto dalla moglie, Loredana Macchetti.

2022/06 Giu 29        Loredana Macchietti, Gianni Minà, il giornalista che non voleva gridare

Un sorridente Gianni Minà alla scrivania del suo studio. Foto archivio Gianni Minà.

 




Il giornalista che non voleva gridare


È un racconto lungo oltre 60 anni. Una carrellata di personaggi famosi e, spesso, scomodi o incompresi. Tra sport, musica, cinema e politica.

Uno dei ritratti disegnati da Bruno Bozzetto per il documentario «Gianni Minà, vita da giornalista» di Loredana Macchietti.

Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» che ha aperto il 25 marzo scorso il Festival di Bari (Bif&st 2022), ha avuto una lenta ma costante gestazione, fino a pochi giorni prima della consegna agli organizzatori baresi. Dal 2008 io e Gianni abbiamo iniziato a pensare all’idea di memoria, a dare una logica, un ordine alla montagna di documentazione del suo lavoro fatta di supporti, documentari, materiale registrato e poi scartato o mai montato, interviste fatte ma non prese in considerazione dalla Rai, unico acquirente, qui in Italia, dei suoi lavori. Ma, soprattutto, abbiamo iniziato a condividere l’esperienza professionale di Minà con le nuove generazioni, per non disperderla e per mantenere accesa la luce sui fatti e sulle persone che non hanno mai avuto voce.

In quell’anno organizzammo, alla Casa del Cinema di Roma, un incontro di una settimana, ogni giorno un tema diverso, per festeggiare e ricordare i 50 anni di lavoro di Gianni. A quell’incontro, invitammo gli amici di una vita: da Pietro Mennea a Tommie Smith, da Luis Sepúlveda a Frei Betto a Joan Manuel Serrat, da Stefania Sandrelli a Raffaele La Capria e molti altri. Finimmo quella specie di happening con un concerto di Augusto Enriquez y su mambo band (e con la prima comunione di nostra figlia Paola).

Da quei giorni abbiamo iniziato a dare corpo ai ricordi in forma dinamica, a tramandare la memoria senza aspettare la fine del percorso di una vita, mentre ancora lavoravamo.

Lo spunto ce lo ha dato Jorge Amado, con il suo «Navigazione di cabotaggio» (1992), un libro fatto solo di nomi di amici nel quale il grande scrittore brasiliano aveva dedicato un breve commento a ognuno. Tra loro c’era pure Gianni. Jorge lo avevamo conosciuto anni prima, quando avevamo percorso tutta l’America Latina alla ricerca dei grandi miti latinoamericani del calcio italiano ancora viventi. Fu un’avventura lavorativa molto faticosa, che non ci procurò il guadagno sperato, ma la ricchezza di nuovi amici, tra i quali Amado e Zelia Gattai, la moglie di origine friulana, che ci fecero conoscere Bahia, il candomblé e la cucina afrobrasiliana.

Muhammad Alì e Gianni Minà in una foto d’epoca. Foto archivio Gianni Minà.

Con Frei Betto

In Brasile, insieme a Jorge Amado, conoscemmo Frei Betto, domenicano, teologo della liberazione che, dopo aver fatto imbustare i resti di una cena conviviale, ci portò a conoscere i bambini di strada, ammassati a dormire in riva al mare nel buio della notte. I bambini, dai 4 ai 10 anni, divisero senza litigare e in silenzio i resti di quel pasto. Per ringraziarci, il più grande, un ragazzino di neanche 10 anni, ci porse un cocco. Quella sera nacque una fratellanza con Frei Betto, ma anche un cambio radicale di visione per me e Gianni.

Betto per noi è prezioso, e più di un fratello. Ha intrecciato la sua vita con la nostra, è stato sempre presente nei momenti belli, ma soprattutto nei momenti bui della nostra famiglia: in un’alba di quasi 20 anni fa mio padre morì per un’operazione che non riuscì a sostenere. Lo misero, come uno «scarto» qualsiasi, avvolto in un telo in uno sgabuzzino dove, nell’angolo, c’erano dei secchi con degli stracci e degli spazzoloni per pulire i pavimenti. Mia madre e mio fratello erano annichiliti dal dolore e non riuscivano a proferire parola, ma Betto, appena arrivato dal Brasile, si fece accompagnare da noi e con le sue parole e la sua benedizione riuscì a riportare luce e dignità alla disperazione.

Nel 2013, in questo percorso nella memoria, abbiamo composto il libro «Il mio Alì» (edito dalla Eri), una raccolta dei principali  articoli e delle interviste che Gianni ha fatto a Muhammad Alì, un uomo straordinario, che ha saputo trasformare anche la sua malattia in un’arma di resistenza. Ogni volta che passava per Roma per qualche convegno o invito televisivo, non mancava mai di farci visita, insieme a sua moglie Lonnie. Ricordo Muhammad Alì come un uomo profondamente religioso e veramente spiritoso.

Sentivamo, inoltre, l’esigenza di lasciare una testimonianza sull’idea di giornalismo di Minà, quello tradizionale e d’inchiesta, ma sempre con un’attenzione particolare ai diritti dei più deboli, a coloro che, ovunque nel mondo, si ribellano. È nato allora «Così va il mondo» (edito dal Gruppo Abele), frutto di un dialogo tra Gianni e Giuseppe De Marzo, ecologista italiano, ma anche scrittore ed economista, ripreso poi nel documentario per parlare di pace, giustizia ecologica e libertà. Conosciutisi al Forum social mundial (Fsm) intorno al Duemila, De Marzo e Minà hanno intessuto un dialogo mai sopito, che dura ancora oggi.

Un altro dialogo, nel 2020, Gianni lo ha intrecciato con lo scrittore Fabio Stassi. Da questa collaborazione è nato «Storia di un boxeur latino» (edito da Minimum fax), il libro autobiografico di Minà nel quale, per la prima volta, lui racconta la sua vita, almeno fino agli anni Novanta. Lo ha fatto soprattutto per le sue tre figlie – Marianna, Francesca e Paola -, nella consapevolezza di essere un padre troppo anziano perché le possa accompagnare in un tratto lungo delle loro vite.

Quel titolo è frutto di una sorpresa che feci a Gianni per un regalo di Natale. Lui ama moltissimo l’amico Paolo Conte e le sue canzoni, così chiesi all’autore se potesse dedicare a Minà un suo lavoro. Pochi giorni dopo, mi venne recapitato un cofanetto accompagnato da una bellissima dedica: «All’amico Gianni, un boxeur latino». Dopo questo libro, la stessa casa editrice ha dato alle stampe anche una raccolta di articoli scritti da Gianni sull’indimenticabile Diego Armando Maradona.

Un giovane Minà con i Beatles (George, Ringo, Paul e John), a Roma nel giugno del 1965. Foto archivio Gianni Minà.

Regista cercasi

Ritornando al documentario, avevamo accantonato il progetto, un po’ perché sempre oberati di lavoro, un po’ perché non trovavamo un regista che potesse rendere in modo aderente la storia di Minà: chiunque si faceva avanti, esprimeva perplessità a raccontare temi delicati, come i suoi scoop latinoamericani (Fidel Castro, Chávez, il papa a Cuba, il Fsm, ecc.).

Poco a poco, mi venne l’idea di scrivere un copione sulla sua vita professionale, usandola però come espediente per raccontare la storia del giornalismo e della Tv in Italia dagli anni Sessanta ai giorni nostri. Ci pensavo, ma non speravo, anzi aspiravo. In fondo, la mia professione è sempre stata quella più pratica, meno artistica, di producer. Ma i ferri del mestiere li sapevo usare più che bene, lavorando per Gianni da più di 30 anni. Lo conobbi casualmente nel 1985: avevo bisogno di fare dei lavoretti, mentre stavo aspettando il «concorsone» al Comune di Roma come assistente sociale. Dovevo «sbobinare» su carta le sue interviste che aveva fatto alcuni anni prima ai pugili americani degli anni Settanta. Mentre aspettavo il concorso, lui mi iniziò al montaggio (ma negli orari notturni, perché quelli erano i turni per i «pivelli») con un regista che poi è diventato un mio fraterno amico, Giuseppe Sciacca. Poi, nel tempo, ho ricoperto tutti i ruoli di questo ambiente: segretaria di redazione, programmista regista, segretaria di produzione, produttore esecutivo, produttore. Mi mancava il ruolo da regista.

Gianni Minà con Maradona, amico di una vita. Foto archivio Gianni Minà.

Gianni, tra fatti e gente

Ho intrecciato la mia vita professionale con Gianni Minà da subito, familiare parecchi anni dopo. Non sono stata né davanti, né dietro di lui, ma ho avuto il privilegio di stare al suo fianco. La soluzione è stata quella di costruire la nostra famiglia intorno al suo lavoro, perché, come disse Enzo Ferrari in una sua intervista, Gianni ha sposato la sua professione, ha aderito ai suoi ideali e non ha mai avuto intenzione di divorziare. Io sono sempre stata d’accordo con lui, perché «rotolando» insieme per il mondo, ho potuto vedere cose tremende e bellissime, persone decenti, immense, derelitte ma anche senza vergogna, ho sfiorato la Storia con la «S» maiuscola, abbiamo corso qualche rischio insieme, ma ne è valsa la pena. Ho capito che Gianni ha sempre voluto fare da ponte tra i fatti e la gente. Come ben riassunse il regista Walter Salles quando, nel 2007, a sorpresa, si presentò a Berlino per consegnargli il premio Berlinale Kamera: «L’opera di Gianni è un’opera che ci fa vedere quello che non ci sarebbe permesso mostrare o vedere o ascoltare se non fosse stato per lui. È guidato da una grande compassione, da una profonda umanità, ma soprattutto da un profondo desiderio di condividere con gli altri».

Con il leader cubano Fidel Castro, che Minà ha lungamente frequentato. Foto archivio Gianni Minà.

A Torino

Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» (una produzione Format con Rai Cinema) ha avuto una gestazione laboriosa perché la sua produzione è cominciata pochi mesi prima dell’inizio della pandemia. Abbiamo potuto girare gli esterni solo a Torino. Il resto delle interviste è stato registrato a casa nostra. Con un inizio che è una gemma preziosa: i titoli di testa pensati e disegnati da Bruno e Andrea Bozzetto e il loro team. A mano a mano che andavo avanti, facevo visionare a Gianni il premontato, ma lui non commentava mai nulla. Alla visione finale dell’opera, non ho più saputo resistere: «Beh, allora? Che te ne pare?». E lui: «Montaggio sufficiente, ma onesto». Insomma, promossa.

Loredana Macchietti

 (*) Loredana Macchietti, producer, è al suo primo documentario come regista.
È sposata con Gianni Minà, ben noto anche ai lettori di MC per la sua rubrica «Persone che conosco».

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino il 22/11/2016 © AfMC




Storia di Zam, giornalista impiccato

Il regime sciita di Teheran non perdona. Ruhollah Zam, giornalista e oppositore, è stato giustiziato. Il clero al potere interpreta e impone la sharia a tutti i propri cittadini. Ma non a se stesso.

Lo scorso 12 dicembre è arrivata una delle tante lugubri notizie che attraversano l’etere: un giornalista iraniano è stato impiccato a Teheran. Si chiamava Ruhollah Zam e viveva in esilio volontario in Francia con la famiglia. Da quanto si è letto sulla stampa, è caduto in una trappola tesa dai servizi d’intelligence iraniani. Nell’ottobre del 2019, con un pretesto, è stato indotto a recarsi in Iraq, paese in cui la Repubblica islamica esercita una notevole influenza. Appena arrivato, è stato fermato dalle forze di sicurezza irachene, che l’hanno poi consegnato alle Guardie della rivoluzione. I mezzi d’informazione iraniani hanno salutato con entusiasmo la cattura di uno dei nemici della Repubblica, avvenuta grazie a una «meticolosa operazione di intelligence» (Press Tv, 14 ottobre 2019).

La notizia ha suscitato commenti soddisfatti da parte delle autorità, che hanno lodato l’abilità delle Guardie e hanno manifestato orgoglio per il grande successo da loro ottenuto (Teheran Times, 14-15-16 ottobre 2019).

Ruhollah Zam, giornalista e oppositore del regime iraniano, davanti al Tribunale rivoluzionario di Tehran il 2 giugno 2020. Condannato, Zam sarà impiccato il 12 dicembre 2020. Foto Ali Shirband – Mizan News / AFP.

Chi era Ruhollah Zam

Perché le Guardie della rivoluzione ritenevano questo giornalista un nemico così pericoloso da mobilitare tutte le proprie risorse d’intelligence pur di snidarlo dal suo rifugio in Francia e riportarlo in Iran? Perché le autorità hanno tanto esultato per il successo dell’operazione?

Ruhollah Zam era il figlio di Mohammad Ali Zam, un eminente chierico sciita che, dopo la rivoluzione, ha diretto la sezione relativa alle arti dentro l’Organizzazione per la propaganda islamica. Era, dunque, figlio di un attivo sostenitore del nuovo Iran inaugurato da Ruhollah Khomeini, del quale portava il nome. Nel tempo, suo padre si era collocato all’interno della fazione politica genericamente definita «riformista», in opposizione a quella altrettanto genericamente definita «conservatrice».

Il conflitto tra le due anime del clero sciita è emerso con particolare evidenza subito dopo le elezioni presidenziali del 2009, quando la denuncia da parte del candidato riformista Mousavi di massicci brogli ha dato origine alle proteste popolari dell’Onda verde. Verde era il colore scelto da Mousavi per la campagna elettorale.

Tra i manifestanti arrestati dalla polizia durante quelle proteste c’era anche Ruhollah Zam che, dopo la liberazione, ha deciso di lasciare il paese e ha ottenuto asilo politico in Francia. In esilio ha continuato la lotta attraverso internet e le reti sociali. Nel 2015 ha fondato su Telegram un canale d’opposizione chiamato Amad News.

Tra il dicembre 2017 e il gennaio 2018 l’Iran è stato sommerso da un’altra ondata di proteste che, a differenza di quelle del 2009, hanno interessato soprattutto le province, dove inferiore è il livello di vita e maggiori sono le difficoltà economiche. Le manifestazioni, infatti, questa volta hanno avuto come causa scatenante il rincaro di generi di prima necessità, sebbene gli slogan siano subito divenuti anche politici. I manifestanti, soprattutto giovani, gridavano la propria frustrazione per le promesse economiche non mantenute, ma anche il proprio malcontento contro il sistema.

Ci sono stati atti di vandalismo, assalti a stazioni di polizia, si sono bruciati ritratti della Guida suprema. Pur condannando le violenze, persino il presidente Rohani ha riconosciuto fondate le motivazioni economiche all’origine delle proteste, ma la Guida suprema le ha attribuite alle trame di governi stranieri e dell’opposizione iraniana all’estero, e questa è rimasta la versione ufficiale.

Reti sociali e proteste

Già nel 2009 i manifestanti avevano utilizzato internet, sia per organizzarsi, sia come cassa di risonanza delle proprie rivendicazioni. Nel frattempo, l’utilizzo delle reti sociali e, in particolare, di Telegram, che funziona bene anche con una connessione lenta, tra gli iraniani si era moltiplicato, e internet era sempre di più divenuto una fonte d’informazione alternativa alla Tv di stato. Nel dicembre del 2017, la gente stabiliva su Telegram dove e quando uscire in strada.  Non c’era un movimento organizzato, non c’erano leader o figure carismatiche, c’era Telegram. Anche Amad News ha fatto la sua parte, ma per poco, perché già a fine dicembre (le proteste sono iniziate il 28) è stato chiuso da Pavel Durov, il fondatore di Telegram, per avere postato istruzioni su come costruire bombe molotov. Zam ha fondato allora un altro canale, Voce del popolo, che ha continuato ad amministrare fino alla cattura.

Dopo questi avvenimenti, le autorità hanno cominciato a vivere nel timore di altre proteste e del pericolo costituito dalla rete. La possibilità che internet offre a chiunque di mettere in circolazione materiale non censurabile è percepita come una sfida aperta, che le autorità non riescono a neutralizzare per quanti sforzi facciano, perché nell’era di internet non c’è più il monopolio dell’informazione. Viste le precedenti esperienze, quando nel novembre del 2019 nuovi rincari hanno riacceso la miccia delle rivolte, i collegamenti internet sono stati immediatamente interrotti ovunque. Ciò ha messo in difficoltà i manifestanti e ha ostacolato la diffusione d’informazioni su quanto stava avvenendo, ma ha anche ostacolato il funzionamento di ogni forma di attività nel paese, governativa e non. Il problema, dunque, è più che mai aperto.

Minareti nella città di Qom. Foto Mustafa Meraji . Pixabay.

Condannato a morte

Di quanto è successo nel novembre del 2019 non si poteva accusare Ruhollah Zam, che era già sotto processo in patria. Contro di lui sono stati comunque sollevati diversi capi d’imputazione: spionaggio per conto di Israele e della Francia, collaborazione con il governo ostile degli Stati Uniti, diffusione di notizie false, istigazione alla rivolta, blasfemia, insulti alle autorità islamiche, diffusione della «corruzione sulla terra». Il processo ha fatto il suo corso e il 30 giugno 2020 è arrivato il verdetto: condanna a morte per impiccagione. L’8 dicembre la Corte suprema ha confermato la sentenza e, solo quattro giorni dopo, il giornalista è stato giustiziato.

Alla storia di Ruhollah Zam è stata assicurata in Iran ampia copertura mediatica: doveva essere esemplare, servire da avvertimento. «Non è che l’inizio», avevano postato le Guardie della rivoluzione sul loro canale Telegram subito dopo la cattura. La soddisfazione che quella morte ha suscitato è significativamente espressa nelle amare parole pronunciate da suo padre dopo l’esecuzione e riportate dall’organo dei Guardiani, per confutarle: «La vicenda umana di Ruhollah è finita. Congratulazioni a quelli che erano in agguato di una tale gioia» (Nournews, 15 dicembre 2020). La storia di Zam dava occasione di ribadire e «provare» con le «ammissioni» pubbliche del giornalista, che la causa dei disordini interni al paese è da ricercarsi nei disegni dei nemici esterni e dei loro collaboratori, uno dei quali aveva ora ricevuto la meritata punizione.

I crimini secondo la sharia

Non entro in merito all’accusa di avere fatto circolare su Telegram notizie false per fomentare rivolte antigovernative. Non sarei in grado di confermarla, né di smentirla. È noto che la disinformazione è strumento di lotta politica e manipolazione delle coscienze da molto prima dell’arrivo di internet. Lo sanno bene anche le autorità iraniane, che, a ogni anniversario, per raccontare la storia della rivoluzione selezionano i documenti, ritoccano foto storiche, tagliano filmati.

Vorrei, però, soffermarmi sull’accusa mossa a Zam di «corruzione sulla terra», che ai nostri orecchi suona strana.

La sharia contempla un tipo di crimini definito con un termine che si può tradurre come «corruzione, marcio, disordine in senso morale». Chi diffonde questa corruzione sulla terra deve essere perseguito. Sono crimini commessi da nemici di Dio e dell’ordine da Lui voluto sulla terra, persone ingiuste e malvagie che mettono a repentaglio il buon essere, sia sociale, che morale, degli uomini.

Nel libro in cui illustra la propria idea di governo islamico, Khomeini afferma che esso deve rimuovere dalla società dei fedeli ogni traccia di corruzione. È difficile per il fedele, argomenta Khomeini, mantenersi puro e coltivare la propria fede in un ambiente corrotto. Invariabilmente finirà per corrompersi a sua volta, a meno che non scelga di distruggere la fonte stessa della corruzione e abbattere i regimi oppressivi. È chiaro a che cosa si riferisse l’autore in quest’opera, uscita nel 1970, quando si trovava in esilio in Iraq e faceva parte dell’opposizione, non solo islamica, allo scià. Anche lui, come Zam, poi ottenne esilio politico in Francia. Una storia che si ripete.

Dunque, per Khomeini è legittimo opporsi a un regime oppressivo, in quanto esso è corruttore di uomini. Questa parte del suo pensiero non è sbandierata in Iran, dove sono anche censurati i discorsi da lui stesso tenuti dopo il ritorno in patria, là dove affermava che è diritto del popolo decidere attraverso un referendum la forma di governo che preferisce. Ma, in quel caso, naturalmente, il voto avrebbe dovuto rimuovere la monarchia; com’è effettivamente avvenuto col referendum del 30-31 marzo 1979, che ha istituitoì la Repubblica islamica.

Un potere che non garantisce al fedele musulmano un ambiente propizio alla sua crescita spirituale, come per Khomeini era quello dello scià, è illegittimo ed è giusto fargli guerra. Al contrario, un potere che si basa sulla sharia e ha al proprio vertice una Guida spirituale, ossia il rappresentante di Dio in terra, dovrebbe creare le condizioni migliori perché quella crescita avvenga nel migliore dei modi. Qui è l’ubi consistam (il fondamento) del Governo islamico e la sua giustificazione.

Clero sciita, l’ipocrisia al potere

Dopo più di quarant’anni di governo assoluto del clero sciita, bisogna constatare che queste condizioni non ci sono ancora. Al contrario, la fede dei musulmani iraniani è stata, ed è messa a dura prova dal comportamento della classe politica al potere, che è continua fonte di scandalo, perché contraddice apertamente gli insegnamenti di pietà, giustizia, austerità impartiti dalla religione.

Una delle figure più care ai fedeli sciiti è quella del primo imam, Ali, genero di Maometto, che fu il quarto califfo dell’islam, capo politico, oltre che spirituale, dei musulmani. Di lui s’insegna che era uomo di grande pietà e giustizia, e che riteneva proprio dovere assicurare a tutti una vita dignitosa. Per se stesso considerava disdicevole vivere meglio dell’ultimo dei musulmani e viaggiava in incognito per vedere dove era il bisogno, e soccorrerlo. Di lui si raccontano molte storie devozionali.

In una di esse Ali giunge non riconosciuto a casa di una vedova, vede la miseria in cui vive con i suoi figli e si mette a servirli, poi porta loro del cibo, e, quando quella lo ringrazia, si schermisce, chiede perdono per non aver saputo compiere a tempo debito il compito di provvedere a loro. A questo punto la vedova capisce che il suo ignoto benefattore è, in realtà, il califfo.

Che cosa vede, invece, il cittadino della Repubblica islamica? Vede che religiosi e politici influenti, sebbene predichino la necessità di una vita modesta al servizio dei poveri, vivono in un lusso mal celato; vede che i più redditizi settori dell’economia sono monopolizzati da organizzazioni legate al clero; vede intorno la miseria di tanti che non hanno il necessario per vivere, mentre ingenti risorse sono utilizzate per finanziare una politica estera ambiziosa; quando ha a che fare con le istituzioni a qualsiasi livello, conosce l’umiliazione di dover ottenere grazie a conoscenze, o al denaro, diritti e servizi che gli dovrebbero essere garantiti. Il cittadino vede la corruzione, vede l’ingiustizia e il mal governo, ma non può parlare, perché ha paura, perché criticare la Repubblica islamica può essere equiparato a bestemmia, con tutte le conseguenze che ne derivano. Come abbiamo visto, blasfemia è una delle accuse sollevate contro Zam.

Villaggio sulle montagne iraniane. Foto Mustafa Meraji – Pixabay.

Insofferenza, astio e frustrazione

Tutto ciò ha nel tempo logorato la fede degli iraniani. Un governo che si presenta come la voce di Dio in terra, con il comportamento dei suoi servitori ha discreditato l’idea stessa di Dio, ha seminato l’agnosticismo, l’insofferenza per ogni discorso sulla religione e l’astio verso i suoi ministri. È un danno che, tra l’altro, ricade su tutto il clero, anche su quelli che non condividono le ambizioni temporali del governo teocratico. La generazione arrivata alla maturità prima della rivoluzione è in genere rimasta legata ai valori tradizionali, ma le generazioni venute dopo, cresciute in un mondo in cui la difformità tra parole e realtà è la regola, in cui l’ipocrisia è premiata, sono disorientate e vivono un forte disagio interiore. In estrema sintesi: l’immoralità dei teocrati ha generato un’amoralità diffusa. Sempre di più nei giovani ai riferimenti tradizionali si sostituisce la ricerca dei valori materialistici del confort personale, del denaro, dell’affermazione sociale, che si scontra, però, con la crisi economica in cui da anni versa il paese, aggravata dal regime delle sanzioni.

Le difficoltà economiche rendono molto arduo fare progetti per sé e per la propria famiglia, il futuro appare incerto, si vive in una costante preoccupazione per il domani. Sono problemi reali: la mancanza di lavoro, o la paura di perderlo, l’inflazione che moltiplica le spese, gli affitti esorbitanti, una malattia che mette in ginocchio tutta la famiglia, perché le cure sono a pagamento. Però le difficoltà sono tanto più sentite, quanto più la felicità s’immagina legata al raggiungimento di beni materiali. Questa condizione mentale, che accomuna ricchi e poveri, è una vera e propria malattia dello spirito, un’epidemia, molto peggiore del Covid. I soldi sono diventati un’idea fissa. Ormai i discorsi che si sentono in giro sono monotematici. Si parla dei prezzi che crescono, di ciò che si può comprare o vendere, di ciò che si ha o che si vorrebbe. Chi ha, vorrebbe di più, chi non ha, pensa a come fare per avere. I giovani hanno pochi strumenti per difendersi dal pensiero dominante, non riescono a elaborare un’alternativa, e ne rimangono soggetti. A causa del senso di frustrazione creato dalla distanza tra realtà e desiderio cadono in depressione, ricorrono agli stupefacenti, o si tolgono la vita. Quello dei suicidi in Iran è da anni un dato in crescita, soprattutto nelle aree urbane. Non ci sono statistiche ufficiali attendibili, i mezzi d’informazione non ne parlano, ma tra la gente questo aumento è percepito. Mi è recentemente capitato di parlare con un pompiere che fa servizio nell’area dove risiedo, poco fuori Teheran. Lui aveva ben chiara la drammaticità della situazione, perché i pompieri hanno dovuto moltiplicare gli interventi per suicidio e oramai sono chiamati più volte a settimana.

Maria Chiara Parenzo


Archivio MC:

Minareto a Qom. Foto Mustafa Meraji – Pixabay.




Tra diritto e non diritto

Testo di Chiara Brivio


Immigrazione, sovranismo, razzismo, opinione pubblica, rapporto tra cristiani e politica. In un recente convegno presso la fraternità di Romena, il giornalista de «La Stampa» ha offerto un’analisi di alcuni dei temi più caldi della nostra Italia e del mondo odierno. Con il suo tono «apocalittico» tenta di rompere il silenzio e l’apparente indifferenza dell’opinione pubblica sulla deriva del discorso politico nei riguardi della dignità delle persone.

Nostro malgrado viviamo in un tempo nel quale espressioni come «migranti», «porti chiusi», «diritto di emigrare» (presunto o negato), «accoglienza», sono parti integranti della narrazione della nostra realtà quotidiana, non solo italiana, ma mondiale.

Lo stesso papa Francesco è tornato su questo tema firmando il 13 giugno scorso La speranza dei poveri non sarà mai delusa, il messaggio per la III Giornata mondiale dei poveri che si celebrerà il 17 novembre.

Nel messaggio, il pontefice evidenzia ancora una volta come «si possono costruire tanti muri e sbarrare gli ingressi per illudersi di sentirsi sicuri con le proprie ricchezze a danno di quanti si lasciano fuori. Non sarà così per sempre. Il loro grido (dei poveri, ndr) aumenta e abbraccia la terra intera. Come scriveva don Primo Mazzolari: “Il povero è una protesta continua contro le nostre ingiustizie; il povero è una polveriera. Se le dai fuoco, il mondo salta”».

Far saltare il mondo dei poveri

È stato proprio questo «far saltare il mondo» dei poveri e dei migranti il fulcro di un intervento del giornalista Domenico Quirico a un recente convegno della fraternità di Romena1 sul tema dell’accoglienza.

L’inviato de «La Stampa» – noto per i suoi reportage e articoli dalle zone più calde del mondo, rapito e tenuto prigioniero in Siria per cinque mesi nel 2013 -, a partire da uno dei suoi ultimi libri, Esodo. Storia del nuovo millennio, edito da Neri Pozza, ha proposto una riflessione a 360 gradi su alcune delle questioni più pressanti del nostro tempo: immigrazione, sovranismo, razzismo, rapporto tra giornalismo e opinione pubblica.

L’Esodo

Esodo è il racconto del viaggio che il giornalista ha intrapreso con i migranti sulle rotte verso l’Europa – quella africana, quella balcanica e quella dell’enclave spagnola di Melilla in Marocco -, che l’ha portato ad attraversare il Mediterraneo su un barcone, a rischiare di naufragare, e a essere salvato dall’intervento della guardia costiera italiana.

Parte del racconto è anche l’approdo a Lampedusa, dove il fatto di possedere il passaporto italiano ha significato uno spartiacque tra lui (che è potuto tornare alla propria identità e alla propria vita), e gli altri: «Il migrante è la personalità più straordinaria del XXI secolo – ha detto Quirico a Romena -. Non ha nulla, non ha passato, non ha presente, non ha futuro. Ha fatto saltare i confini nel secolo dei confini».

Il movimento di persone, il flusso enorme che nel continente africano è in moto da generazioni, nel libro del giornalista è descritto anche dalle voci dei compagni di strada: «La migrazione è una religione per noi, siamo tutti migranti, la nostra vita è la migrazione», afferma Nyang, maliano che conta i morti del suo villaggio.

«La speranza è inestirpabile. Perché mai i migranti non dovrebbero fuggire?», scrive Quirico, ponendo una domanda che sembra il rovescio dell’«aiutiamoli a casa loro». Fuggono perché a casa loro la differenza tra essere un «uomo» ed essere un «non uomo» a volte passa dal possesso di un kalashnikov, perché «casa loro» sono paesi nei quali «un passaporto è un’utopia», sono villaggi distrutti dalla guerra o sconvolti dal cambiamento climatico. Fuggono perché non vogliono più subire torture o vederle subite da altri, o essere costretti a farle subire.

Quel che resta è il diritto

«Che cos’è che distingue l’Occidente?», si è domandato Quirico nel suo intervento. «L’invenzione del diritto», è stata la sua risposta: l’idea che l’uomo nasca con dei diritti, come quelli fondamentali alla vita, alla libertà, alla ricerca della felicità. «Ma la ricerca della felicità comprende tutti i paesi, e si può ricercare muovendosi. La gente viene qui per sfuggire alla morte e per cercare la libertà e la felicità».

Ed è precisamente questa libertà di movimento, di superamento delle barriere e dei confini, che rende il migrante «un problema». Egli «ha fatto un gesto rivoluzionario: ha preso un barcone ed è arrivato qui», ha detto il giornalista, ma questo gesto rivoluzionario, che afferma il diritto dell’umanità alla vita e alla dignità, allo stesso tempo è usato dal potere come pretesto per affermare l’inesistenza del diritto, per sperimentare la creazione di una società «illiberale». Anche nelle nostre democrazie occidentali.

I migranti diventano il capro espiatorio, il nemico che non c’è ma che tuttavia deve continuare a esistere per motivare l’erosione dei diritti. Alla fine, ha affermato Quirico in tono apocalittico, «ci troveremo in una società illiberale dove se staremo buoni ci verranno dati dei diritti», proprio come accade già oggi nei paesi dai quali fugge la gran parte dei migranti. «L’unica cosa rimasta su cui bisogna battersi è il diritto. Il mondo oggi è diviso tra diritto e non diritto», tra una sparizione forzata e un processo giusto ed equo sulla base del diritto.

Il fallimento del giornalismo

La disamina di Quirico si è incentrata anche sul ruolo del giornalismo come strumento di comunicazione e di «commozione», e sulla sua (in)capacità di smuovere le coscienze e formare l’opinione pubblica.

«Mi muovo per raccontare la sofferenza altrui – ha affermato -, la sofferenza umana è il materiale su cui costruisco la mia narrazione». Tuttavia, ha continuato, oggi il meccanismo della narrazione della commozione sembra non sortire più alcun effetto: «In Siria ci sono stati 500mila morti in 8 anni, e molti di noi sono morti per scrivere 70 righe per raccontare la vita dei siriani. Risultato? Zero», ha concluso Quirico, non senza un pizzico di rammarico: «I razzisti sono al 50% oggi, nel 2011 erano al 3%. Un fallimento totale».

Una visione della realtà forse troppo negativa, quella del giornalista. Tanto negativa da evocare gli anni ‘30, decennio nel quale opinioni pubbliche sopite e intorpidite, composte da «gente per bene», decisero, «pur di non avere guai», di seguire una minoranza estremista facendola diventare maggioranza. Attenzione quindi a sottovalutare il problema. Attenzione a pensare che i razzismi, i sovranismi e i nazionalismi siano appannaggio di una minoranza. Bisogna mettersi in allerta sullo stato dell’opinione pubblica di oggi a livello globale, e comprendere meglio che «il nostro compito di giornalisti è fare in modo che nessuno possa dire “non sapevo”»: non possiamo non sapere dell’esistenza delle carceri libiche, delle orribili torture che subiscono i migranti, dei naufragi, della disperazione.

Cristiani e politica

A conclusione del suo intervento, Quirico si è, infine, posto una domanda sul rapporto tra i cristiani e il clima politico degli ultimi mesi e anni. Come può un cristiano definirsi tale se non difendendo i valori della carità e dell’accoglienza? Davanti a uno scioccante 30% di cattolici che ha deciso di votare Lega alle recenti elezioni europee, per Quirico la risposta è netta: «O sei cristiano o non lo sei. Chi è razzista non può essere cristiano!».

Note:

1- Sulla fraternità di Romena si veda: Massimo Orlandi, Un porto di terra, MC gennaio 2017.