Oujda, Oltre frontiera


Da poco più di un anno la Consolata ha portato i suoi missionari in Marocco. In una città snodo fondamentale della rotta migratoria. È iniziata una missione complessa, che ha caratteristiche e potenzialità tali da attivare tanti ambiti missionari.

«L’idea nasce dal lavoro che i laici della Consolata (Lmc) di Malaga portano avanti da anni con i migranti», ci racconta Silvio Testa, laico italiano, da una vita trapiantato nella città costiera a Sud della Spagna. Silvio, pur essendo originario di Torino, ha una forte pronuncia spagnola, che rende la sua parlata ancora più calorosa. «Dal 2005 i Lmc, attraverso la loro associazione Uyamaa (che significa famiglia allargata in kiswahili, uyamaa.org, ndr), sono presenti nella Piattaforma di solidarietà con gli immigrati, una rete che si occupa da oltre 20 anni dei migranti nella provincia di Malaga». In quegli anni, i barconi, chiamati «pateras», con il loro carico di vite umane e di sogni, partiti dalle coste africane, arrivavano nei pressi della città e nel suo porto. «Il nostro sguardo – ricorda Silvio – è quindi andato fino all’altro lato del Mediterraneo. Quegli arrivi ci interpellavano: “Cosa possiamo fare?”. Insieme a padre Luis Jiménez Fernández, all’epoca superiore Imc in Spagna, è maturata l’idea di avviare un qualche intervento a Melilla, città di fronte a Malaga, ma sul continente africano».
Melilla, insieme a Ceuta, costituisce una piccola porzione di territorio spagnolo in Africa, fa parte della diocesi di Malaga. Entrambi i territori sono frontiere molto calde tra Africa e Unione europea, che spagnoli e marocchini presidiano, e dove sono presenti alte recinzioni, «muri» tra Sud e Nord. «Volevamo prestare attenzione a quello che stava succedendo da una parte e dall’altra delle frontiera», continua Silvio.

In questa dinamica, nel 2014, Uyamaa ha proposto alla Piattaforma di creare l’Osservatorio frontiera Sud (Osf), un’iniziativa orientata a seguire la situazione dei migranti in transito tra Marocco e Spagna. «Questo impegno ha portato noi Lmc a incontrare altri attori coinvolti nell’appoggio ai migranti sia a Ceuta e Melilla che nelle città del Nord del Marocco, nella diocesi di Tangeri». La comunità di missionari della Consolata di Malaga ha seguito da vicino questi sviluppi coinvolgendo la regione Spagna dell’Istituto.

Intanto l’Imc stava preparando la ristrutturazione che avrebbe portato alla creazione della Regione Europa (Reu), nella quale il tema dei migranti e rifugiati sarebbe diventato a tutti gli effetti la nuova frontiera missionaria.

Le visite

Tra il 2018 e il 2019 un’équipe mista Imc-Lmc, della quale faceva parte anche Silvio, ha compiuto tre viaggi in Marocco, due nella diocesi di Tangeri e uno nella diocesi di Rabat. Durante quei viaggi, l’équipe ha contattato diverse istituzioni ed enti coinvolti nel lavoro con i migranti.

«Durante il terzo viaggio (aprile 2019, ndr), il cardinale Cristóbal López, arcivescovo di Rabat, ci ha proposto di assumere la parrocchia di Oujda, vicino al confine con l’Algeria. Le condizioni erano buone, e sembrava la missione giusta». Silvio ricorda che, nei due viaggi precedenti, molti degli enti contattati, avevano citato Oujda come punto nevralgico di passaggio del flusso di migranti in arrivo dal Sahara, ma anche di quelli espulsi dalle autorità marocchine. «Così ci siamo andati, e quando ho visto la parrocchia e il lavoro, mi sono detto: secondo me è questo il posto giusto. Da quando è stata presa la decisione, le cose sono andate molto in fretta». Silvio era con padre Edwin Osaleh Duyani e padre José Luis Pereyra Quintián, superiore della Spagna.

A Oujda operava un sacerdote diocesano francese, che però doveva rientrare al suo paese. «Abbiamo visto il lavoro che si stava facendo, la frontiera chiusa ufficialmente per problemi diplomatici tra i due paesi, ma attraversata clandestinamente da migranti subsahariani, mentre altri, arrestati in altre zone del paese, venivano portati lì per essere espulsi in Algeria (anche se formalmente non sarebbe lecito)».

La scelta per l’arrivo dell’Imc in Marocco è caduta su padre Edwin, che avrebbe dovuto fare alcuni viaggi con permanenze limitate nel 2020, senza però riuscirci a causa della pandemia.

Il pioniere

«Sono arrivato a Oujda nel novembre del 2020 e ho iniziato a lavorare con il sacerdote francese che mi ha affiancato per diversi mesi», ricorda Edwin, che abbiamo raggiunto telefonicamente a Oujda.

«Da due anni ero in missione a Malaga, e pensavo di starci di più. Non credevo di venire qui subito, come pioniere. Ma alla fine ho capito, perché il lavoro è molto importante».

«Molti migranti vengono qui a chiedere aiuto dopo un viaggio sofferto nel deserto. Ho trovato una realtà nella quale si vive come in famiglia, si cerca di fare le cose insieme, affinché si ritrovi, almeno in minima parte, quell’atmosfera persa durante il viaggio. Questo approccio mi è subito piaciuto».

Edwin non nasconde le difficoltà iniziali, come le due lingue da imparare, francese e arabo (lui è keniano), o lo stupore iniziale dei migranti, nel vedere un prete africano occuparsi di loro, migranti africani: «Abituati a un europeo, all’inizio erano diffidenti, e non volevano che il sacerdote francese andasse via. Ma poco a poco si sono abituati». Edwin è stato poi affiancato da padre Francesco Giuliani e, alla fine di febbraio 2022, è arrivato finalmente anche il congolese padre Patrick Mandondo.

Il lavoro è molto, la struttura di accoglienza è aperta 24 ore su 24: «25 su 24», dice Edwin. Di solito è lui che apre la porta di notte. I locali della parrocchia sono grandi e sono aperti a chi ha bisogno di un riparo, un posto per lavarsi, dormire, mangiare, ma anche ricostruirsi mentalmente. «Stiamo accogliendo mediamente 50-60 persone, ma sovente sono di più. Nel 2021 sono stati 2311. Alcuni si fermano pochi giorni, altri settimane oppure anche mesi».

La salute, prima di tutto

Uno dei problemi maggiori sono le condizioni di salute nelle quali arrivano i migranti.

Ci racconta Silvio: «Tutti i giorni, a tutte le ore, arriva gente con i piedi sfracellati, le ossa rotte, la testa aperta. Devi essere lì ad accogliere queste persone e dare loro delle cure.

Una missione così, è difficile trovare gente che la voglia assumere. È un lavoro massacrante. Il fattore umano è fondamentale. Inoltre l’impegno è molto esigente perché devi avere tante relazioni: con la sanità pubblica, la polizia, le autorità. Fai da mediatore. Non è un classico lavoro da prete».

Ma Edwin è contento e ci spiega come è composta l’équipe di lavoro. «Il progetto va avanti anche grazie alla chiesa protestante evangelica. Siamo due coordinatori, io e un evangelico. C’è un’ottima collaborazione ecumenica. Prestiamo anche i locali della chiesa a questi fratelli cristiani per il loro culto, perché non ne hanno.

Poi ci sono due medici, arrivati come studenti, uno cattolico e uno protestante. Sono molto importanti a causa dei frequenti problemi di salute di chi bussa alla nostra porta. Loro poi, hanno contatti negli ospedali, e si adoperano per far prendere in carico i migranti.

Della équipe fanno inoltre parte due suore spagnole di due differenti congregazioni. Sono incaricate delle donne e delle attività di formazione».

Poi Edwin ci racconta una storia di speranza: «Tra i responsabili dell’accoglienza c’è un ragazzo del Camerun, arrivato come migrante sei anni fa. Dormiva qui fuori. In quel periodo hanno iniziato ad accogliere nei locali della parrocchia, e il prete gli ha chiesto di aiutarlo. Così si è integrato e ora si adopera per gli altri migranti. Ci aiuta moltissimo, perché lui sa riconoscere le varie situazioni. Un ospite ti dice che è appena arrivato dall’Algeria, invece magari arriva da Casablanca o Rabat, oppure vive nel quartiere. Lui capisce tutto, io sto imparando da lui. A volte i migranti, quando arrivano, sono intercettati da una mafia locale. Dicono loro che li aiutano, invece li chiudono in appartamenti, poi li torturano e fanno chiamare loro le famiglie perché mandino soldi per liberarli. Arrivano da noi con brutte ferite. Lui si interessa, e cerca di capire chi è stato».

Dover scegliere

Edwin ci dice che i migranti arrivano numerosi, «non andiamo noi a cercarli, purtroppo dobbiamo selezionare. In alcuni casi diamo un po’ da mangiare e poi devono andare via».

Chi è di turno all’accoglienza deve capire la situazione di chi arriva. Si registrano i dati, le condizioni di salute, le informazioni sul viaggio. Chi è più vulnerabile, stanco o ferito viene subito accolto.

Come detto, molti sono da curare, per cui vengono accompagnati in ospedale. Ma spesso le cure sono molto costose. «In quel caso si deve valutare, perché se curiamo un migrante, togliamo dei soldi all’acquisto di cibo, ma talvolta è necessario. Allora speriamo nella Provvidenza».

E poi ci sono i minori non accompagnati: «A volte è difficile capire: dicono di essere minori e non lo sono, o viceversa, a seconda di cosa vogliono ottenere. Altri danno nomi falsi alla polizia, poi noi li recuperiamo e i dati che abbiamo noi non coincidono.

Aiutiamo i minori a capire meglio il mondo. Arrivano qui persi, non sanno cosa fare, dove vogliono andare. Hanno un sogno, che però è sbagliato. Pensano che in Europa trovi tutto appena arrivi. Noi gli diciamo la verità. Rimangono qualche settimana, qualche mese. Quelli che non sanno leggere e scrivere, li aiutiamo con dei corsi. Cerchiamo anche di contattare le loro famiglie. Sono in tanti, tra i 14 e i 16 anni».

I missionari danno anche la possibilità agli ospiti di frequentare corsi di formazione professionale, a chi fosse interessato (elettricità, meccanica, cucina, ecc.). Inoltre, collaborano con le ambasciate dei vari paesi quando ci sono problemi di
documenti.

«Quando arrivano qui, ci sono per loro tre possibilità: andare in Europa, ma pochissimi riescono; rimanere in Marocco, ma anche ottenere i documenti per lavorare qui è complicato. La terza possibilità è quella di ritornare al proprio paese. Ci sono quelli che vogliono fare lo stesso viaggio a ritroso, ma è complesso. Con diversi di loro iniziamo il processo di rimpatrio con l’Oim (Organizzazione mondiale per le migrazioni, ndr), che può prendere settimane o mesi. In questo tempo i migranti rimangono qui, e facciamo loro dei corsi di formazione».

Edwin ci racconta la storia di uno dei tanti. «È con noi un ragazzo di 15 anni della Sierra Leone, arrivato 5 mesi fa. Il suo sogno era di andare in Europa. Ha un fratello maggiore in Spagna. Ho cercato di dissuaderlo, ma lui ha insistito, e così ho fatto una ricerca per trovare il numero del fratello. Siamo riusciti a telefonargli. Lui gli ha sconsigliato di proseguire, dicendogli di tornare a casa: “Qui le cose non sono come pensi”. Il ragazzo ha iniziato a piangere, dicendo: “Non mi vuole bene”. Io gli ho detto: “Guarda, sono stato in Europa e sta dicendo la verità”. Poi c’era anche una divisione nella famiglia, perché la madre voleva che continuasse. Alla fine, hanno accettato, e ora abbiamo iniziato le pratiche per il rimpatrio con l’Oim».

Le donne che arrivano sono invece rare: «Non si possono fermare da noi, non siamo attrezzati, ma le suore se ne occupano e trovano loro una sistemazione. Poi le seguono e propongono dei corsi di formazione».

Una missione… europea

Questa missione è stata ideata e voluta dal gruppo di padri e laici di Malaga e dipende dalla Regione Europa, anche se si trova in Africa. Edwin, inoltre, è consigliere regionale (ovvero uno dei cinque membri del consiglio che guida i Missionari della Consolata del continente). Gli chiediamo in che modo si sente parte dell’Europa: «Penso sia stato lo Spirito che mi ha spinto a questa decisione. Io creo il legame con la regione, questa missione ne fa parte. Siamo ad gentes, lavoriamo e parliamo con non cristiani. Viviamo la consolazione e parliamo di Gesù, non tanto con le parole, ma con le nostre azioni, con la nostra vita».

La missione ha un legame stretto con la comunità di Malaga. Ora che è più difficile viaggiare, a causa della pandemia, viene organizzato un incontro online ogni due settimane. Vi partecipano i missionari di Oujda e alcuni membri dell’équipe, insieme ai laici e ai padri di Malaga. Ogni incontro riguarda un aspetto specifico del lavoro: sanità, prima accoglienza, formazione, ecc.

Secondo Silvio, questa missione può offrire molti spunti: «A parte le attività in sé, essa si può convertire in un fuoco eccezionale di animazione missionaria. Abbiamo previsto di andare d’estate con un gruppo di giovani. I classici campi di lavoro, per fare qualcosa. Si programma e si preparano incontri con i migranti, che sono anche loro giovani. Si respira veramente il lavoro e la spiritualità missionaria. È una missione di frontiera, in senso fisico e tematico.

Ha un potenziale in altri ambiti che bisogna sfruttare, come quello del dialogo interreligioso e dei diritti umani. Ci sono agganci con il mondo esterno.

Il potenziale di Oujda è che riporta la regione Europa all’essenza della spiritualità missionaria, e questa è un punto per ricominciare molte cose».

Marco Bello

Archivio MC


La voce del cardinale

Missione speciale

Monsignor Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat (una delle due diocesi del Marocco con Tangeri), è stato nominato cardinale il 5 ottobre 2019 da papa Francesco. Salesiano, spagnolo della regione di Almería, è di una simpatia straripante. Ha scritto questo testo per MC per presentare la missione di Oujda, alla quale tiene molto.

Oujda è la città più orientale del Marocco, la porta dell’Algeria. È pure la porta di entrata in Marocco per migliaia di persone migranti, provenienti da diversi paesi africani, ma tutti con una destinazione comune: l’Europa.

La chiesa di Oujda è la più antica di quelle attualmente presenti nella diocesi di Rabat: fu costruita nei primi anni del protettorato francese (durato dal 1912 al 1956).

In quell’epoca, la comunità cristiana era composta da europei che si stabilivano in Marocco per le opportunità di lavoro che c’erano.

Oggi la piccola comunità cristiana è fatta di studenti universitari subsahariani e di alcune persone di passaggio durante l’avventura migratoria.

Fin dall’inizio di questo fenomeno, la parrocchia si è aperta all’accoglienza di queste persone che arrivano a Oujda sfinite, ferite, in situazione di vulnerabilità, dopo aver attraversato il deserto e la frontiera algerina, in mezzo a difficoltà e pericoli.

Quattro verbi, quattro azioni

La parrocchia di Oujda cerca di mettere in pratica le quattro azioni che papa Francesco propone in relazione a questi fratelli: accogliere, proteggere, promuovere e inserire.

Accogliere e proteggere. Tutte le persone che arrivano sono accolte e ascoltate. Se hanno fame, possono mangiare. Se sono stanche possono riposare. Se sono malate, le si cura. Se sono prese nella rete mafiosa, si fa il possibile per liberarle.

Questo porta, ogni anno, ad accogliere diverse migliaia di persone nei locali della parrocchia, che sono arrivati a ospitare fino a 150 persone contemporaneamente. La permanenza va da alcune ore a diversi mesi, fino a un anno.

Promuovere e inserire. Per i giovani che scoprono la necessità di formarsi prima di fare il salto verso l’Europa oppure di tornare al proprio paese, esiste la possibilità di fare corsi brevi di formazione professionale.

Però la cosa più importante è che a tutti si offre un ambiente di serenità e sicurezza, e un accompagnamento personale che li porta a recuperare la propria dignità, il proprio equilibrio emotivo, e li aiuta a ripensare un progetto di vita, permettendo loro di andare avanti più coscienti e con un più alto grado di libertà. Possiamo dire che queste persone passano a Oujda attraverso un processo di recupero della dignità.

L’inserimento è difficile, perché son pochi che scelgono di fermarsi in Marocco. Però la formazione ricevuta li aiuterà a inserirsi in Europa oppure a reinserirsi nel proprio paese di origine, se decidono di tornare (e sono molti che scelgono questa opzione).

Una missione ecclesiale importante

Quello che la comunità cristiana di Oujda fa in favore delle persone in migrazione è il miglior servizio che la chiesa sta prestando loro in tutta la diocesi. Esso consiste innanzitutto nell’offrire un ambiente famigliare, nel quale le persone si sentano accolte, valorizzate e amate, come requisito per potere aumentare la propria autostima e recuperare la dignità.

È un servizio ecumenico perché lo facciamo in comunione di azione con i cristiani protestanti presenti nella Chiesa evangelica del Marocco.

È un servizio inter congregazionale, perché integra i Missionari della Consolata, e due congregazioni di religiose, le suore del Sagrado Corazon e quelle di Jesus-Maria.

È un servizio interreligioso, perché in esso si coniuga il lavoro di cristiani e musulmani, e si indirizza a qualsiasi persona in necessità, indipendentemente dalla sua religione. E i musulmani sono la maggioranza.

È un servizio integrale perché accompagna la persona, specialmente i giovani e minori non accompagnati, in tutti i suoi bisogni e finché non diventa autonoma e in grado di proseguire da sola.

Ho affidato la responsabilità della direzione del centro di accoglienza e della parrocchia di Oujda ai Missionari della Consolata, per dare una continuità istituzionale, ma soprattutto perché il carisma della Consolazione è di pertinenza e necessità estrema per le persone in migrazione.

Inoltre, una comunità ha le caratteristiche giuste per creare il clima di famiglia.

Segni e testimoni

Essere vescovo, essere cristiano in Marocco, presuppone e implica convertirsi in segno e testimone dell’amore che Dio ha per l’umanità. Quello che facciamo ha un valore relativo, l’importante è quello che siamo e che viviamo, la testimonianza che diamo.

San Giovanni Paolo II, in una brevissima visita a Casablanca, disse: «Le opere che fate qui, continueranno o non continueranno, però quello che certamente rimarrà è l’amore con il quale fate ciò che fate».
L’amore non passa mai, in verità, ed è la vocazione comune di tutti i cristiani, ovunque sia e qualunque cosa facciano.

La nostra sfida principale in questo ambiente nel quale viviamo, di maggioranza assoluta musulmana, è essere segno e testimoni della tenerezza e della misericordia di Dio; essere parola vivente e convertirci nel quinto Vangelo, l’unico che i musulmani potranno leggere: essere apostoli della bontà, affinché, come diceva (il beato, presto santo, ndr) Charles de Foucauld, chi ci conosce possa pensare o dire: «Se il discepolo è così, come sarà il maestro».

cardinale Cristóbal López Romero
arcivescovo di Rabat
(liberamente tradotto dallo spagnolo) 

Nota

Il cristianesimo (cattolici e protestanti) in Marocco è una minoranza, valutato in circa 1% della popolazione, meno di 40mila. I fedeli sono per lo più stranieri.

mde




A Medyka e Shehyni alla frontiera Sud Est tra Polonia e Ucraina


Aggiornamento al 2 aprile 2022 |

Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Carissimi tutti,
con questo 4 aggiornamento oltre a ringraziare tutti voi per la continua solidarietà concreta che state dimostrando in questa situazione, desidero condividere l’esperienza che ho fatto questa settimana recandomi in Ucraina.

Il viaggio è nato da una proposta arrivata da don Leszez Kryza direttore nazionale dell’Ufficio di aiuto alla chiesa in oriente, struttura appartente alla Conferenza episcopale polacca.

Dopo aver riempito completamente la macchina di beni di prima necessità, quali cibo e medicinali, siamo partiti all’alba di giovedì 31 marzo, in direzione della frontiera di Medyka a sud est della Polonia. Con noi si è unita Clara la volontaria infermiera che da settiane è con noi. Dopo cinque ore di viaggio in un clima che si è fatto improvvisamente invernale alternando la pioggia alla neve, arriviamo presso la frontiera.

Non sono tanti i mezzi che passano il confine dalla Polonia all’Ucraina; tuttavia, i tempi di controllo dei documenti sono lunghi, dovuto sia al controllo dei documenti sia al controllo della merce trasportata, entrando in un paese in guerra i soldati vogliono essere certi di cosa si trasporta.

La frontiera polacca la passiamo senza difficoltà, invece dalla parte ucraina siamo fermati a lungo, per la mancanza di un documento della nostra macchina che abbiamo solo in versione on line e non stampata. Dopo piu di tre ore di attesa, siamo costretti a rientrare in Polonia a motivo della mancanza di questo documento. Cambiamo il nostro piano. Decidiamo di lasciare gli aiuti trasportati presso la sala di una parrocchia dei francescani vicino alla frontiera, per essere già nei prossimi giorni di nuovo spedita oltre il confine con un altro trasporto.

Questo cambio di situazione ci porta alla decisione di entrare in Ucraina a piedi. Il controllo dei documenti dalla Polonia all’Ucraina avviene in modo sbrigativo anche se non siamo soli, alcuni rifugiati, non molti, ritornano. Ci spiegano che sono coloro che abitano vicino a questo confine in una zona meno bombardata di altre. Hanno i mariti che li aspettano nelle loro case e inoltre trovare lavoro in Polonia non è facile… Aiutiamo una giovane donna a portare due borse della spesa pesanti. È tutto quello che ha con sé. La soldatessa ucraina mi chiede cosa andiamo a fare in Ucraina. Le spiego il problema che abbiamo avuto poco prima con la macchina aggiungendo che vorremmo organizzare il passaggio dei beni. Fissandomi seriamente negli occhi per un momento fa poi un mezzo sorriso e ringrazia per quello che stiamo facendo. Sono parole che mi colpiscono perché dette da un soldato non sono per niente scontate.

Entrando in Ucraina notiamo dalla parte opposta una coda molto piu lunga di rifugiati che attendono di entrare in Polonia. Nella vicinanza delle frontiera da entrambi i paesi ci sono tante organizzazioni umanitarie, sono volontari provenienti da tutto il mondo: americani, spagnoli, portoghesi, ebrei, sono tutti giovani sorridenti che trasmettono un calore umano fatto di sorrisi di mille piccole attenzioni verso i profughi. Alcuni sono vestiti da clown come al circo per strappare un sorriso ai bambini che scappano dalla guerra. Altri si prestano con carrelli della spesa ad aiutare a portare i pochi bagagli dei profughi. Altri ancora offrono bevande calde, pasti, cioccolata… siccome la giornata è fredda e umida vengono distribuite delle mantelline per la pioggia che anche noi beneficiamo e si organizzano dei ripari dalla pioggie mista a neve che cade ininterrottamente, usando delle serre per fiori che qualcuno ha offerto. Ci sono anche delle stufe a gas come quelle che si trovano nei ristoranti all’aperto che riscaldano nelle immediate vicinanze.

Incontriamo un gruppo di volontari polacchi che hanno allestito un campo a fianco della frontiera, in Ucraina. Conosciamo Magdalena che fin dall’inizio è qui presente. Ci racconta che la situazione in questi giorni è meno pesante rispetto all’inizio; tuttavia, non c’è sicurezza e da un momento all’altro potrebbe di nuovo tutto precipitare a seconda degli sviluppi della guerra nel paese.

Solo da questa frontiera sono passate circa 700.000 persone (circa la capienza di 10 grandi stadi di calcio) su un totale di 2.700.000 che hanno varcato il confine con la Polonia.

I primi giorni sono stati i più drammatici. Magdalena ci racconta che i primissimi aiuti sono arrivati tutti da Ovest fermandosi in territorio polacco senza oltrepassare il confine. Ancora oggi lì ci sono decine e decine di tende di volontari. Molto meno se ne trovano ancora oggi dalla parte ucraina, dove ci sono le code piu lunghe di profughi.

Ci sono video che mostrano all’inizio del conflitto, code di oltre 30 km di macchine in attesa di passare il confine. Erano tra i pù fortunati perche stavano al caldo e seduti, al contrario della maggioranza di essi che aspettavvano all’aperto giorno e notte anche per tre e quattro giorni, per passare il confine. Anche se le pratiche burocratiche sono state semplificate l’ondata di profughi da smaltire è stata così grande che non lasciava alternative. Per scaldarsi durante la notte si bruciava tutto quel poco che si trovava compresi i vestiti non utilizzati. Ci sono stati, ci raccontano i volontari, anche casi di parti precoci a seguito dello stress e della stanchezza.

Avendo lasciato la macchina al di là del confine, verso sera ci rimettiamo in coda con i profughi per rientrare in Polonia. Ci colpisce molto la dignita di queste persone. Non sentiamo un lamento o una imprecazione. Ci si guarda solo negli occhi. Le storie che ci raccontano sono terribili e talmente crudeli che si fanno fatica a descrivere. Sono tutte persone che scappano dall’estremo est del paese, Mariopol, Charchowy, Donbas, Kiev…

Le uniche persone accompagnate dai volontari che accorciano le file sono solo alcuni anziani su carrozzine avvolti da coperte. Gruppi di persone poco nominate in questo conflitto, ma che rappresentano un altro lato debole della popolazione. Nessuno si lamenta di questo anche se la stanchezza e il freddo non aiutano. Dopo circa tre ore in fila ritorniamo in Polonia. A differenza dei profughi, abbiamo una macchina ad attenderci e un luogo sicuro dove ritornare. È notte fonda quando ritorniamo a casa presso la nostra comunità dopo quasi 24 ore di viaggio. Siamo stanchissimi, ma anche coscienti che abbiamo visto molto e come testimoni molto possiamo continuare a fare molto insieme a tutti voi. Dopo Pasqua probabilmente ci recheremo ancora in Ucraina questa volta per qualche giorno.

padre Luca Bovio IMC




Con la Consolata in Polonia per L’Ucraina /3


Kieplin, 19/03/2022. Con questo 3° aggiornamento provo a darvi a qualche informazione attuale salutandovi e ringraziandovi per le vostre preghiere e i vostri aiuti. Stiamo tutti bene sempre impegnati a organizzare vari aiuti.

Le ultimi informazioni ufficiali governative indicano che si è superato il numero di di 2.000.000 di profughi accolti in Polonia su una popolazione che sfiora i 40.000.000. La capitale Varsavia, che nel 2019 contava 1.800.000 abitanti, ha già accolto quasi 500.000 profughi. Si è fatto notare come questa, che riguarda la Polonia principalmente ma non solo, sia la piu grande ondata di profughi avvenuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. I numeri sono costantemente in crescita ed è ragionevole pensare che soltanto la fine del conflitto potrebbe mettere un freno a questa migrazione. La fine del conflitto tanto sospirata sembra essere ancora lontana.

Le stazioni dei treni di Varsavia sono allestite in modo da accolgliere le migliaia di persone che ogni giorno arrivano. Volontari di gruppi e associazioni umanitarie così come singoli cittadini, si impegnano giorno e notte fornendo informazionie e aiuti di prima necessità, come cibo, bevande calde e schede telefoniche prepagate. I mezzi di trasporto di tutto il paese sono gratuiti per i profughi. Ogni profugo ha diritto di ricevere il codice fiscale polacco che permette l’accesso al servizio di assistenza sanitario nazionale.

Come già scrivevo in precedenza sono pochissimi i palazzetti e le scuole che ospitano i grandi gruppi per dormire, perche la maggior viene ospitata nelle case di gente comune in tutto il paese.

Vorrei ringraziare due sacerdoti che abbiamo contattato telefonicamente a Lublino, non lontano dai confini con l’Ucraina, e che hanno organizzato in piena emergenza l’accoglienza per una notte di due gruppi di donne e di bambini. Ogni gruppo contava quasi cento persone. Il giorno successivo con dei pullman questi due gruppi sono partiti per Il Portogallo.

Qui a Łomianki continuiamo il lavoro in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita. Il numero dei profughi, circa 1500 nel solo comunenon è aumentato per una semplice ragione: non ci sono piu posti liberi nelle case. Il centro di distribuzione degli aiuti presso la parrocchia continua a lavorare ogni giorno grazie a un centinaio di volontari che fanno i turni. Gli aiuti che mandate sono distribuiti lì. E da lì sono messi a disposizione per le famiglie presenti ma anche spediti in Ucraina. Ricordo che i beneficiari sono prevalentemente mamme con bambini. I generi alimentari piu richiesti sono la farina, marmellate, olio non necessariamente di oliva, i semolini. Con parte delle vostre offerte questa settimana abbiamo acquistato una tonnellata e mezzo di farina, sufficiente per qualche giorno di distribuzione.

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki

Da pochi giorni si è unita alla nostra comunità una volontaria infermiera di Torino, Clara, che aiuta nello smistamento delle medicine che arrivano. Un lavoro umile e importante.

Stiamo riuscendo con l’aiuto di molti a organizzare l’accoglienza per i profughi in diversi luoghi in Italia.

Pochi giorni fa alcuni volontari di Sovere (Bg) sono venuti con le macchine per portare aiuti e al ritorno hanno viaggisto con ben 14 profughi che sono stati ospitati presso le famiglie del loro comune. Questa mattina l’associazione Eskenosen di Como similmente, dopo essere arrivati con ben 8 furgoni di aiuti sono ritornati con 11 madri e bambini di varie età.

Mi preme sottolineare che il desiderio di tutti i profughi è quello di tornare al più presto nelle loro case in Ucraina. Siccome non si sa ancora quando e in quale forma questo potrà avvenire (dipenderà molto dall’esito finale della guerra), alcuni sono disposti a intraprendere viaggi in paesi piu lontani per assicurarsi nell’immediato, un futuro piu sicuro e per i loro bambini continuare l’istruzione nelle scuole.

Nel caso di una eventuale disponibilità per l’accoglienza potete contattarci scrivendoci dove questa puo avvenire e le condizioni dell’alloggio. Queste sono informazioni basilari che possiamo dare ai profughi che devono fare, come immaginate, un grande atto di fiducia nel prendere queste decisioni.

Oggi e la festa di S. Giuseppe, festa dei papà. Affidiamo alla sua protezione tutti i papà del mondo specialmente quelle rimasti in Ucraina, e alla sua intercessione chiediamo la fine della guerra e una benedizione per tutte le famiglie.

Preghiamo per la pace, costruiamo la pace.

PadreLuca Bovio
Superiore dei missionari della Consolata in Polonia

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki


Post precedenti

Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia

In Polonia per Ucraina con la Consolata /2




Missione AMO, quattro ruote per servire

Progetto sostenuto dagli Amici Missioni Consolata


Aiuto migranti Oujda

Esteso poco meno di mezzo milione di chilometri quadrati (una volta e mezzo l’Italia, ndr.), il Marocco è un paese montagnoso al Nord e desertico al Sud. La popolazione conta circa 37 milioni di abitanti, dei quali il 58% vive nelle città. Rabat, capitale politica, e Casablanca, capitale economica, sono le due più importanti. Le lingue ufficiali del paese sono l’arabo, il berbero e il francese.

L’economia è fondamentalmente agricola e di allevamento, ma il paese dispone anche di importanti miniere di argento, fosfato, piombo e zinco, e oggi ha un’industria turistica fiorente.

La religione dominante è l’Islam. La presenza cristiana è minima, anche se ha origini antichissime risalenti al terzo secolo d.C.

Oggi il paese conta due diocesi, Rabat e Tangeri, 35 parrocchie e 50 sacerdoti residenti.

Il paese è stato visitato da papa Francesco nel marzo del 2019 e in quello stesso anno, a ottobre, il vescovo Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat, è stato nominato cardinale.

Il numero totale dei cristiani è comunque molto esiguo, circa 25mila in tutto, e tra le comunità cristiane che vivono oggi in Marocco, si possono censire quasi novanta nazionalità, soprattutto studenti che provengono in gran parte da altri paesi dell’Africa subsahariana.

Dormitorio accanto alla chiesa di Oujda, Marocco

Crocevia di migranti

Il Marocco che nella seconda metà del Novecento ha esportato circa cinque milioni di emigrati, soprattutto verso i paesi industrializzati dell’Europa, oggi, con l’economia in forte crescita (almeno fino allo scoppio del

Covid), è diventato punto di attrazione e transito per migranti provenienti dall’Africa subsahariana.

Questo perché la fascia del Sahel, regione con radici antichissime e un tempo agognata da mercanti e viaggiatori, è ora un territorio complesso. Tutti i numerosi paesi che vi si affacciano, Senegal, Mali, Burkina Faso,
Niger, Ciad, Sudan e altri, infatti, si trovano in una situazione di grande precarietà a causa della crisi ambientale che provoca desertificazione e grave impoverimento.

Tutta l’area, poi, è anche uno snodo della politica internazionale sommersa. Qui avviene il traffico dei nuovi schiavi verso l’Europa, il commercio illecito di armi e droga, il terrorismo. Il tutto aggravato da cattivi governi e corruzione che impediscono lo sviluppo economico e, quindi, le misure per combattere il terrorismo jihadista che fa leva sulla povertà per reclutare nuovi seguaci.

Da anni si susseguono irruzioni nei villaggi, massacri e reclutamenti forzati di giovani. Questi sono costretti a diventare terroristi o a fuggire, e il Marocco è una delle vie di fuga preferite, perché più sicuro della Libia.

I Missionari della Consolata a Oujda

Entrata ufficiale del Missionari della Consolata nella parrocchia di St Louis a Oujda – La Messa è stata presieduta da S.E. Cristobal card. Lopez Romero, arcivescovo di Rabat

Negli ultimi anni, i Missionari della Consolata in Spagna hanno cercato un maggiore impegno nell’opera di accoglienza degli immigrati, la quale è un’opzione ad gentes della congregazione in Europa. Così hanno aperto una comunità a Oujda su invito del cardinale Cristóbal López.

Lo scopo della missione è di accogliere i migranti in questa città che si trova all’estremo Est del paese, a circa 15 km dal confine con l’Algeria, e a 60 km a Sud del Mar Mediterraneo.

Oujda è un luogo di transito per molte persone provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana che vogliono raggiungere l’Europa. Qui vi arrivano dopo aver attraversato il deserto e sofferto molte difficoltà.

Nella parrocchia di Saint Louis, già cattedrale al tempo del protettorato francese, chiesa enorme per una settantina di cristiani, quasi tutti di origini subsahariane, nel 2020 è arrivato padre Edwin Osaleh, keniano,
e nel 2021 padre Francesco Giuliani, in attesa che un terzo missionario riesca a ottenere tutti i necessari permessi per stabilirsi con loro e completare la comunità.

Dal 26 settembre 2021, giorno in cui la Chiesa ha celebrato la Giornata mondiale dei migranti e dei rifugiati, la parrocchia di Saint Louis è stata consegnata alla piena responsabilità dei  Missionari della Consolata.

L’impegno con i migranti

Padre Edwin sintetizza in quattro verbi l’impegno con i migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.

ACCOGLIERE significa innanzitutto offrire a migranti e rifugiati possibilità più ampie di ingresso sicuro e legale nei paesi di destinazione. Questo impegno comune è necessario per non accordare nuovi spazi ai mercanti di carne umana che speculano sui sogni e i bisogni dei migranti.

PROTEGGERE vuole dire assicurare la difesa dei diritti e della dignità dei migranti e dei rifugiati, indipendentemente dal loro status migratorio. Guardando la realtà di questa regione, la protezione va assicurata anzitutto lungo le vie migratorie, che sono spesso, purtroppo, teatri di violenza, sfruttamento e abusi di ogni genere.

PROMUOVERE significa assicurare a tutti, migranti e locali, la possibilità di trovare un ambiente sicuro dove realizzarsi integralmente. Tale promozione comincia con il riconoscimento che nessuno è uno scarto umano, ma è portatore di una ricchezza personale, culturale e professionale che può recare molto valore là dove si trova. Ma non dimentichiamo che la promozione umana dei migranti e delle loro famiglie inizia anche dalle comunità di origine, là dove deve essere garantito, insieme al diritto di emigrare, anche quello di non essere costretti a emigrare, cioè il diritto di trovare in patria condizioni che permettano una vita degna.

INTEGRARE vuole dire impegnarsi in un processo che valorizzi al tempo stesso il patrimonio culturale della comunità che accoglie e quello dei migranti, costruendo così una società interculturale e aperta. Sappiamo che non è facile entrare in una cultura che ci è estranea – tanto per chi arriva, quanto per chi accoglie -, metterci nei panni di persone diverse da noi, comprendere i loro pensieri e le loro esperienze. Così, spesso, rinunciamo all’incontro con l’altro e innalziamo barriere per difenderci.

Quattro verbi che qualificano la «Missione Amo» (Aiuto migranti Oujda).

Amc – Gigi Anataloni

Nella sala dove i migranti apprendono la lingua (lezione di francese) a Oujda

«Quattro ruote per… »

Gli Amici Missioni Consolata (Amc) si impegnano ad aiutare la «Missione Amo» provvedendo un mezzo essenziale per il servizio: un furgone multiuso, un Renault express intens, dal costo pari a 16.500 euro.

Il furgone verrà utilizzato per

  • recuperare i migranti che giungono nella zona malati, affamati ed esausti, e portarli al Centro di accoglienza della parrocchia, ai centri sanitari o al pronto soccorso per le cure necessarie;
  • trasportare e distribuire prodotti alimentari, per l’igiene o di protezione individuale, sia per il fabbisogno del Centro che per individui in necessità in varie parti della città;
  • accompagnare i migranti ai centri di formazione professionale e ogni altro bisogno prevedibile o imprevedibile.

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È possibile sostenere questo progetto visitando il «Punto missioni Consolata» di fronte al Santuario della Consolata a Torino o inviando offerte per «AMC progetto 4 ruote per servire» utilizzando i dati trovati a questo link.


Leggi il testo completo che illustra le attività di MCO nella pagina di Cooperando 2021, un anno di progetti, nonostante la pandemia

 

 




2021, un anno di progetti, nonostante la pandemia

 


Dopo il 2020, anche il 2021 è stato un anno difficile a causa del persistere della pandemia di Covid-19, che ha colpito in modo particolare tutti quei paesi che non hanno né le infrastrutture né i mezzi per adeguate campagne vaccinali.



20 Natali di solidarietà

Missioni Consolata Onlus è il braccio operativo del Missionari  della Consolata in Italia per sostenere i progetti dei loro confratelli  nei tre continenti dove annunciano il Vangelo con opere e parole.

È grazie all’aiuto generoso di voi, amici e benefattori, persone normali, che conoscete la fatica del vivere e del guadagnarsi il pane quotidiano se in centovent’anni (di cui 20 con la nostra Onlus) siamo riusciti  a realizzare scuole, ospedali, dispensari, centri per bambini abbandonati e donne vittime di violenza; se abbiamo «vestito gli ignudi, dato da mangiare agli affamati, consolato i prigionieri, dato l’acqua agli assetati, accolto gli stranieri», difeso la vita e l’ambiente, formato leader e quanto altro la creatività dell’amore è stata capace di inventare; se abbiamo fatto nascere  comunità cristiane vivaci e gioiose, costruito cappelle e chiese.

Grazie – Thank you – Asante sana – Ace olen – Akiba – Sobodi  – Matondo – šukran – Merci – Gracias – Obrigado.

Le sfide davanti a noi sono ancora tante, aggravate dalla pandemia,  dal cambiamento climatico e dall’irresponsabile attitudine dei potenti che non hanno occhi né cuore per i più poveri e i più indifesi.
Con il vostro aiuto potremo continuare a essere testimoni e servitori della misericordia di Dio e della tenerezza della nostra Consolata.
In queste pagine vi presentiamo solo alcuni dei progetti in corso. Ogni anno Mco pubblica il suo bilancio sociale sul sito missioniconsolataonlus.it nel quale sono presentati tutti i progetti e i conti relativi al periodo.

Per dare il vostro contributo trovate le informazioni necessarie
cliccando qui.

Vedi 20 Natali di solidarietà sul sito della Onlus



I Missionari della Consolata, che vivono in molte di quelle nazioni, per rispondere alle tante situazioni di difficoltà che il Covid-19 ha determinato, hanno avviato diversi progetti in favore delle fasce più fragili della popolazione.

Quella del Messico è una realtà molto dura per le donne. Padre Ramón Lázaro Esnaola, che da circa due anni lavora a San Antonio Juanacaxtle, stato di Jalisco, ne racconta le difficoltà e i drammi nei resoconti che condivide con confratelli e amici: «In questi mesi ho incontrato persone in situazioni davvero difficili: un’adolescente abbandonata quando aveva due anni alla quale la pandemia ora ha portato via anche la madre adottiva; una giovane donna a cui i cartelli del narcotraffico hanno ucciso il marito e di cui ora non sa nemmeno dove sia il corpo; tante donne, ragazze, bambine che subiscono maltrattamenti e abusi da parte padri, patrigni, compagni occasionali delle madri, parenti. E tante che il marito abbandona per un’altra e che si trovano sole, in condizioni economiche precarie, a crescere figli senza un compagno che le aiuti».

La violenza sulle donne è uno degli aspetti della violenza che permea di sé tutta la società messicana, dove gli omicidi sono 36mila all’anno, 29 ogni 100mila abitanti@. Per avere un metro di paragone, secondo i dati Istat, l’Italia nel 2019 ha avuto 315 omicidi, pari a 0,53 ogni 100mila abitanti@. In un simile contesto, è chiaro che «la violenza in tutte le sue espressioni – sui minori, familiare, di genere, giovanile, istituzionale … – è il nostro pane quotidiano», continua padre Ramón. «Ci sono giorni in cui, di fronte a certe storie, ci si sente davvero sobrepasados, sopraffatti. Poi, però, ci ricordiamo del motivo per cui siamo qui: per stare vicini alle persone, consolare e seminare speranza, e ritroviamo la forza per costruire il Regno».

Per sostenere padre Ramón e i suoi confratelli in Messico nello sforzo di offrire un’alternativa alle donne vittime di traumi, lutti e violenza, gli Amici Missioni Consolata avevano dedicato la mostra di solidarietà e la connessa raccolta fondi dell’8 dicembre 2020 al progetto Promuovi la vita difendi la donna@. Il progetto che padre Ramón ha seguito e realizzato in collaborazione con Mati, un’associazione locale di psicologi, ha avuto un costo di circa 16.498 euro, ha interessato circa 500 famiglie ed è quasi concluso, ma le attività della Casa Hogar Florecitas Madre Naty e di Mati continueranno a raggiungere decine di donne in condizioni di vulnerabilità.

Casa Hogar Florecitas Madre Naty

Acqua e allevamento per la Tanzania

Alla fine del 2020, i missionari della Consolata in Tanzania, in uno dei villaggi dalla missione di Pawaga, nella municipalità di Itudundu, Iringa, hanno realizzato un piccolo impianto idrico che serve 108 famiglie, una scuola e un dispensario. Fondi donati da privati, pari a circa 7.800 euro, hanno permesso di acquistare una pompa alimentata da un impianto fotovoltaico per connettere una fonte d’acqua con quaranta punti di distribuzione nel villaggio, in modo da garantire a tutte le famiglie di potersi procurare l’acqua senza dover percorrere chilometri a piedi. Il contributo degli abitanti del villaggio è consistito in venti giornate di lavoro volontario per installare la pompa e i tubi, montare i pannelli solari e piantumare alberi nel mezzo ettaro di terra che circonda la fonte d’acqua. Ora le oltre 750 persone del villaggio possono contare su un punto di distribuzione di acqua a meno di un chilometro dalla propria abitazione, in più la scuola primaria e il dispensario hanno impianti idrici adeguati.

Un altro progetto è a Kimbiji, nella diocesi di Dar es Salaam, dove, grazie al sostegno di Caritas italiana, si è avviata una piccola attività di allevamento generatrice di reddito per alcuni giovani per i quali la pandemia ha reso ancora più complicato trovare lavoro. La Banca Mondiale riporta che nel 2020 circa mezzo milione di tanzaniani è sceso sotto la soglia di povertà a causa delle restrizioni e delle conseguenze della diffusione del virus@. A Kimbiji, ora, diciassette giovani sono direttamente coinvolti nell’avvio di un allevamento di suini. A beneficiare della formazione fornita nell’ambito del progetto sulle tecniche di allevamento suino saranno fino a sessantacinque persone.

Una banca del sangue a Dianra

Al centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa D’Avorio, è in corso un progetto, sostenuto da un donatore privato e seguito da padre Matteo Pettinari, che si concentra sulla formazione del personale, sul miglioramento dei servizi del dispensario, come il trasporto dei pazienti, e sul sostegno delle attività legate alla salute infantile. Ma la parte del progetto che aggiunge al centro di salute un servizio fondamentale è quella della banca del sangue e delle trasfusioni. Avviata lo scorso settembre – dopo che ad agosto era arrivato il frigo per la conservazione delle sacche di sangue ed era stata completata la necessaria formazione del personale del centro -, la banca del sangue ha un ruolo fondamentale nel contrastare patologie, come l’anemia infantile strettamente legata alla malaria che è endemica nella zona.

Prima di questo intervento, spiegava nel progetto padre Matteo, era necessario andare nei centri trasfusionali più vicini, dai 30 ai 200 km di distanza su strade spesso impraticabili. «Ora, dal 14 settembre, data della prima trasfusione, a oggi», scriveva padre Matteo il 27 ottobre, «abbiamo già utilizzato 50 sacche di sangue: di queste, tre per trasfusioni a donne nel reparto maternità, le altre 47 sono tutte andate a bambini fra 0 e 5 anni».

Trasfusioni nel centr osanitario di Dianra

Progetti ancora aperti

In Mongolia si è concluso l’intervento che mirava a dotare il centro per i bambini di Chingiltei, nella periferia della capitale Ulan Bator, di uno spazio giochi con campo sportivo. Il centro è attivo dal 2017 e offre attività creative, ludiche e sportive, oltre al doposcuola per una trentina di bambini. Ora è pronto per tornare in funzione – la pandemia ne aveva imposto la chiusura – e per farlo deve acquistare materiale scolastico, identificare i bambini in condizioni di maggiore vulnerabilità per offrire loro borse di studio, e stipendiare il personale docente. Connesso con il lavoro del centro c’è anche un programma di sostegno per le famiglie più in difficoltà, alle quali vengono forniti beni di prima necessità.

veduta di Chingiltei, alla periferia della capitale Ulan Bator, Mongolia

Un posto sicuro per studentesse

Inhangoma è una missione che dista circa 30 chilometri da Mutarara, una cittadina di 60mila abitanti nella provincia di Tete, Nord del Mozambico. Ha un centro educativo che comprende una scuola secondaria frequentata da 1.250 alunni fra la ottava e la dodicesima classe. Gli studentati maschile e femminile, dove alloggiano gli allievi provenienti da zone lontane, sono sotto la responsabilità del ministero della Pubblica istruzione, ma la struttura per le studentesse è in uno stato fatiscente. Così, la mancanza di un alloggio sicuro e di condizioni igieniche adeguate scoraggia le ragazze che spesso abbandonano la scuola, in un contesto dove sono pochi gli studenti che arrivano alla fine del ciclo secondario. Il Mozambico ha un tasso di completamento della scuola secondaria inferiore al 24%, venti punti in meno della media dell’Africa subsahariana@.

«Da un po’ di tempo», spiega monsignor Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata e vescovo di Tete, «la diocesi ha ricevuto la richiesta di farsi carico di questo studentato femminile, a cominciare dal rifacimento del tetto fino alla tinteggiatura dei muri, dalla sostituzione di porte e finestre danneggiate, all’approntamento di servizi igienici adeguati». Questo primo intervento, per il quale monsignor Antunes ha chiesto sostegno a Missioni Consolata Onlus (Mco), ha un costo pari a circa 7.300 euro e offrirà un’ospitalità dignitosa e sicura a 45 ragazze che potranno così continuare i propri studi senza paure.

La scuola di Cantagalo

Una biblioteca per la scuola in terra indigena

La scuola indigena Shiminiyosi si trova nella comunità di Cantagalo nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Amazzonia brasiliana. È nata, come altre scuole indigene, in reazione all’imposizione da parte dello stato brasiliano di un sistema educativo che non tiene in considerazione le peculiarità storiche, linguistiche, ambientali e culturali dei popoli indigeni e tenta di omologarli alla cultura dominante.

Padre Joseph Mugerwa, che si occupa in particolare delle attività della comunità di Cantagalo, dove si trova la scuola, scrive:

«Nel dicembre 1988, le famiglie e le comunità di questa zona decisero, di propria iniziativa, di creare una scuola che fosse anche un luogo di valorizzazione della cultura indigena. Furono le famiglie degli studenti di allora e la comunità stesse, accompagnate dai missionari, che scelsero un luogo adatto e costruirono questa scuola, che oggi accoglie 120 alunni delle elementari. Su richiesta dei leader locali, la scuola è stata riconosciuta e approvata dal decreto del dipartimento dell’Istruzione dello stato di Roraima, ha un corpo docente di sedici insegnanti e il numero di studenti è in continua crescita».

Ma nonostante il riconoscimento ufficiale, la scuola non ha ricevuto alcun sostegno dallo stato per migliorare le proprie strutture. «Le piogge del 2019 hanno distrutto il tetto: con il progetto che presentiamo a Mco, dal costo di 9.749 euro, chiediamo assistenza per sistemare la struttura», precisa padre Joseph, «e per creare una biblioteca per gli studenti».

Lo stato dei bagni della scuola di Cantagalo

Oujda, al servizio dei migranti

Dal novembre 2020 i Missionari della Consolata sono attivi in Marocco, nella città di Oujda a 15 km dal confine con l’Algeria@.

Dal 26 settembre 2021 hanno la responsabilità piena della parrocchia di Saint Louis.

Qui sotto trovate i dettagli di questa nuova avventura missionaria che gli Amici Missioni Consolata vogliono sostenere con le loro iniziative di dicembre, in alternativa a quello che, prima del Covid-19, era la mostra dell’Immacolata.

Chiara Giovetti


 



Aiuto migranti Oujda | per dettagli clicca sul link qui sotto

Missione AMO, quattro ruote per servire

Padre Edwin di fronte alla chiesa di Saint Louis a Oujda

«Quattro ruote per… »

Gli Amici Missioni Consolata (Amc) si impegnano ad aiutare la «Missione Amo» provvedendo un mezzo essenziale per il servizio: un furgone multiuso, un Renault express intens, dal costo pari a 16.500 euro.

Il furgone verrà utilizzato per

  • recuperare i migranti che giungono nella zona malati, affamati ed esausti, e portarli al Centro di accoglienza della parrocchia, ai centri sanitari o al pronto soccorso per le cure necessarie;
  • trasportare e distribuire prodotti alimentari, per l’igiene o di protezione individuale, sia per il fabbisogno del Centro che per individui in necessità in varie parti della città;
  • accompagnare i migranti ai centri di formazione professionale e ogni altro bisogno prevedibile o imprevedibile.

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È possibile sostenere questo progetto visitando il «Punto missioni Consolata» di fronte al Santuario della Consolata a Torino o inviando offerte per «AMC progetto 4 ruote per servire» utilizzando i dati trovati a questo link.

 

 




Ragazzi dimenticati

Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.


testi e foto di Daniele Biella; dossier a cura di Luca Lorusso |


Sommario

Fantasmi in carne e ossa

I minori migranti senza famiglia in cerca di un approdo

Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.

«Ogni giorno e ogni notte attraversano i confini degli stati membri dell’Unione europea, premio Nobel per la pace, che continua a chiudere gli occhi di fronte alle violenze che sono costretti a subire». Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children Italia non parla di fantasmi, ma di persone, di minorenni stranieri non accompagnati.

Sono ragazzi soli, che lasciano l’inospitale madrepatria muovendosi, senza documenti validi, per mesi o anni, lungo rotte precarie e malsane. Si fermano ogni tanto per svolgere lavori di fortuna utili a guadagnare il pezzo successivo del viaggio. Magari hanno in testa una meta precisa: Inghilterra, Germania, Belgio, Francia, Olanda, ma il loro futuro è incerto. La loro condizione di migranti e di minori lontani dalla famiglia originaria, li espone alle leggi spesso anacronistiche degli stati che attraversano, e a persone senza scrupoli che lucrano sulle loro speranze.

Un disastro umanitario nero su bianco

Save the Children Italia, che ha come mission la salvaguardia dei minori e delle loro famiglie, ha compiuto di recente un passo importante per far uscire allo scoperto il tema della condizione dei migranti minori non accompagnati, portandolo sui tavoli del potere in Italia e in Europa: ha chiesto a due giornalisti – a chi scrive, e al fotoreporter Alessio Romenzi – di seguire le rotte percorse a piedi dai minori non accompagnati lungo le frontiere Nord dell’Italia, oggi più interessate dalle migrazioni forzate, ovvero quelle di Trieste e Udine in entrata e di Ventimiglia e Oulx/Claviere in uscita. Ad accompagnare i due giornalisti, per quasi due mesi di ricerca sul campo, Antonella Inverno, responsabile infanzia e adolescenza dell’Ong fondata a Londra nel 1919 da Eglantyne Jebb.

Lo scopo? Realizzare un report che mettesse nero su bianco il disastro umanitario in atto nelle strade e dentro i confini d’Europa – dove i riflettori accesi sono pochi -, che avesse come protagonisti i più vulnerabili, i ragazzini soli.

«Nascosti in piena vista» è il titolo del report, uscito il 17 giugno 2021, tre giorni prima della Giornata mondiale del rifugiato e alle porte del Consiglio d’Europa. Una cinquantina di pagine (consultabili e scaricabili dal sito: www.savethechildren.it/storie-di-minori-migranti) con un forte j’accuse verso le istituzioni europee che, appunto, lasciano diventare fantasmi persone che invece hanno diritto a un’accoglienza immediata e a una vita dignitosa.

Nascosti in piena vista

Sono 9.131 i minori stranieri non accompagnati censiti in strutture di accoglienza in Italia a fine agosto 2021 (in forte aumento rispetto al 2020 quando sono stati 7.080 quelli registrati nell’intero anno). Per il 97% sono maschi, l’87% ha 16-17 anni. Le nazionalità più frequenti sono Bangladesh, Tunisia, Egitto, Albania, Pakistan, Costa d’Avorio, Guinea Conakry e Afghanistan. Uno su tre si allontana dalla struttura dopo pochi giorni, con punte del 70% in alcune zone.

Altri dati interessanti emergono dall’analisi sul campo sulle frontiere meno monitorabili, quelle cui arrivano i migranti dalla cosiddetta «rotta balcanica», ossia quelle oggetto del report di Save the Children: i boschi tra Slovenia e Friuli Venezia Giulia, e i valichi e le montagne tra Liguria, Piemonte e Francia (come il «Passo della morte» tra Ventimiglia e Mentone): quasi nessuno si ferma in Italia, che siano minori soli o adulti e famiglie.

Nonostante la possibilità di fare domanda di asilo nel nostro paese, o, nel caso del minore, quella di venire accolto subito in comunità protette (come accade ai minori italiani, possibilità introdotta dalla Legge Zampa n. 47/2017, unica del suo genere in Europa), essi non si fermano, perché il loro progetto migratorio prevede di arrivare dove si trovano i loro famigliari, o comunque un numero maggiore di connazionali.

Tanti ragazzi afghani e pachistani, ad esempio, privilegiano l’Inghilterra o la Germania. Chi proviene dall’Africa subsahariana ed è francofono, vuole andare in Francia. Mentre iracheni e iraniani – nazionalità in crescita lungo le frontiere, anche famiglie con bimbi piccoli al seguito – puntano a diverse zone del Nord Europa.

L’aspetto più sconcertante che la ricerca mette in evidenza è che questi ragazzi in viaggio sono in balia di loro stessi. Se non fosse per il terzo settore (Ong, fondazioni, associazioni di volontariato, cooperative sociali, parrocchie) e per semplici cittadini che li intercettano rendendosi disponibili anche solo a dare loro un pasto caldo, un cambio di vestiti, o suggerire dove trovare un giaciglio per la notte, i rischi per loro aumenterebbero a dismisura.

Muri anacronistici e illegali

Il rifugio di Oulx, gestito dalla Fondazione Talità Kum; il presidio di Ventimiglia, nella sede di Caritas Intemelia, dove operano anche Save the Children, Diaconia Valdese e WeWorld; la postazione mobile della Croce Rossa Italiana a Claviere; i volontari dell’associazione Linea d’Ombra, con le associazioni Ics e StradaSiCura, nella piazza della stazione di Trieste dove i migranti arrivano con piedi e gambe devastati da settimane di cammino lungo la rotta balcanica, dopo privazioni e botte subite dalle forze dell’ordine di confine, soprattutto tra Croazia e Bosnia (si veda La dignità sotto i piedi, MC marzo 2021, ndr.). Ecco alcuni capisaldi di solidarietà in mezzo a un’indifferenza istituzionale che è capace di tramutarsi in un muro anacronistico, se non illegale.

Il muro di cui parliamo non è fatto dalle sole violenze fisiche subite dai migranti lungo alcuni confini d’Europa, come, appunto, quello croato o quello bulgaro, ma anche di atti illegittimi all’interno dei confini dell’Ue: diversi minori incontrati durante la ricerca hanno raccontato, ad esempio, di respingimenti subiti dalla polizia francese senza ricevere alcun documento in merito. Trattati come fantasmi, appunto. Altri si sono visti la propria data di nascita modificata dagli ufficiali di frontiera perché risultassero maggiorenni e quindi espellibili. Ci si chiede il motivo di questo accanimento, ma la risposta non arriva. Save the Children e tanti altri enti chiedono all’Unione europea per quale motivo non adotti leggi comuni per i minori, come per esempio un «lasciapassare» che permetta loro di chiedere aiuto dove si sentono più al sicuro.

I ragazzi migranti, invece, sono costretti a passare notti nei boschi o in mezzo alla neve delle montagne, vengono respinti e costretti a ritentare il passaggio. Nessuno di loro torna indietro. Tentano e ritentano non appena recuperate le forze, finché non ci riescono.

L’immagine è quella di un gioco dell’oca in cui tutti perdono: i migranti in termini di serenità mentale (quanto peserà dentro di loro la sensazione di essere considerati numeri e non persone?), le autorità che spendono milioni di euro in personale e attività di monitoraggio utili solo a tardare l’ineluttabile passaggio di frontiera, l’umanità stessa che vede quanto sia facile vanificare il messaggio ecumenico di papa Francesco sulla fratellanza tra i popoli.

L’ingresso in Italia: la fine del «game»

«Quando sbuchi dai boschi della Slovenia, ti può capitare di vederla all’improvviso. L’Italia. Trieste, il suo mare. La fine della rotta balcanica, il game over di settimane di cammino e mesi di attesa, preoccupazione, paura. Puoi ritrovarti nel paesino di Dolina, lungo la ciclabile della Val Rosandra, a Basovizza, o nella miriade di altri luoghi del Carso da cui puoi immetterti su una strada italiana e da lì proseguire il tuo viaggio migratorio nell’Europa che fa finta di non vederti o, quando ti trova, ti trattiene valutando se e quando può respingerti». Inizia così la parte del report di Save the Children dedicato all’ingresso in territorio italiano dal confine sloveno: in tutto, 232 chilometri impossibili da monitorare. Da qui passa almeno il 50% dei minorenni non accompagnati che transitano sul territorio italiano.

Nei boschi si trovano gli oggetti del passaggio delle persone: pettini, dentifrici, documenti, vestiti. Tutto viene lasciato nel bosco perché ora inizia una nuova vita nella quale si può e si deve lasciare il passato alle spalle.

Mauro Caputo, videomaker che abita proprio dalle parti di Dolina, ha realizzato su questi oggetti un intenso docufilm, No Borders. Flusso di coscienza. Lui, come molte altre persone, tentano di capire le esigenze dei profughi in cammino che arrivano a piedi alla stazione di Trieste, dove cercano di prendere treni per attraversare il Nord Italia.

Violenze impunite

Fino a un anno fa, come raccontano testimoni diretti, anche l’Italia si macchiava delle riammissioni di persone in Slovenia, a volte anche minori che raccontano di non avere avuto la possibilità di dire la propria l’età. Queste riammissioni sono state poi interrotte anche grazie all’opera di pressione legale di Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione.

Ora, chi viene intercettato, per esempio dai militari dell’Operazione strade sicure che pattugliano le vie tra i boschi, viene ospitato in un centro di quarantena, a Trieste come a Udine.

Adulti e minori non accompagnati vanno in strutture diverse tra loro. A gestire le strutture per minori, ci sono enti del privato sociale come la cooperativa Aedis a Udine, Casa dello studente sloveno e Duemilauno agenzia sociale a Trieste.

Dopo il periodo di isolamento, per i minori c’è l’ingresso in una comunità, ma i ragazzi, a questo punto, spesso fuggono per altre destinazioni.

«Voglio diventare informatico in Inghilterra, dove ho un cugino. Mi piacerebbe avere i miei genitori vicini, ma in Afghanistan non si può vivere bene e non è possibile studiare (già prima del ritorno al potere dei talebani, ndr.)», racconta Nadir, 16 anni. «Ai miei fratelli però dico di non fare il viaggio che ho fatto, perché in Bulgaria sono rimasto in prigione tre mesi, sono stato picchiato. Se dici che sei un minorenne, non ascoltano. Quando sono arrabbiati, picchiano e basta».

Testimonianze come la sua si moltiplicano, in particolare su quanto accade lungo il confine croato in ingresso dalla Bosnia. A metà ottobre, un video dell’equipe d’indagine giornalistica Lighthouse Reports ha mostrato scene di violenza ai danni di migranti anche molto giovani.

Svariati appelli all’Unione europea arrivano da più parti, ma finora sono rimasti inefficaci, dato che le autorità croate non hanno fatto nulla di più dell’avvio di una «commissione di monitoraggio» che avrebbe lo scopo di verificare i fatti, più che di processare i responsabili.

Nel frattempo, i «game» («giochi», come vengono chiamati dagli stessi migranti i tentativi di superamento delle frontiere) continuano, e ragazzi e adulti provano il passaggio di confine anche 10-15 volte prima di riuscire.

La psicologa Lorena Fornasir e il marito filosofo, Gian Andrea Franchi, fondatori dell’associazione Linea d’Ombra – a cui Missioni Consolata ha dedicato un reportage nel numero di marzo 2021 – molto attivi alla stazione di Trieste nel medicare le ferite dei migranti procurate dal viaggio, a metà ottobre sono ritornati a Velika Kladusa e Bihac, in Bosnia, dove hanno documentato con foto e racconti le condizioni di bambini, famiglie, adulti, anche in difficoltà psicofisiche, che rischiano la vita per superare la frontiera.

 

Ventimiglia, respingimenti dalla Francia

«Ho una ferita nella gamba di una pallottola che mi ha sparato un poliziotto libico quando sono scappato dal centro di detenzione», ci ha raccontato Gyasi, 17enne ciadiano. Durante l’intervista che gli abbiamo fatto, si trovava davanti alla struttura della Caritas Intemelia a Ventimiglia, di fianco ai binari della stazione ferroviaria da cui partono ogni giorno treni per la Francia.

Quei treni, Gyasi e tanti altri come lui, non li possono prendere, perché, seppure si trovino già sul suolo europeo, per effetto della sospensione dell’accordo di Schengen, non passerebbero al controllo: sono considerati irregolari.

Lui era arrivato un mese prima dalla Libia, dove era stato trattenuto e schiavizzato per venti mesi dalla malavita che sfrutta i migranti, e in quel momento voleva andare a Parigi. La notte prima era stato respinto dalla polizia francese: «Ho detto la mia data di nascita, 2004, quella con cui sono stato registrato allo sbarco in Sicilia. Ma non mi hanno creduto e mi hanno riportato in Italia scrivendo sul refus d’entrée una data che mi fa risultare maggiorenne». Sul suo certificato di nascita, che aveva con sé, era scritta la data del 2004. Ma non è bastato. La notte successiva, Gyasi ha ritentato, e non ha fatto ritorno. Qualche tempo dopo sul suo profilo Facebook ha messo la geolocalizzazione su Parigi: ce l’ha fatta, perlomeno ad arrivare alla meta.

Altri, invece, non ce la fanno, e sono messi a dura prova, rimanendo come «fantasmi» sospesi tra un luogo e l’altro.

A Ventimiglia, del resto, per tutto il 2021 non c’è stato nessun centro di accoglienza temporanea (prima della pandemia anche i minori soli potevano accedere temporaneamente all’hub della Croce Rossa), e questo ha significato una vita complicata all’addiaccio.

Ragazzi soli e allo sbando

Gli arrivi sono giornalieri, così come, del resto, le «ripartenze». Sono svariati, infatti, i modi in cui le persone cercano di passare a Mentone: a piedi via ferrovia o autostrada, o via sentiero, attraverso il temibile Passo della morte, sulla montagna a ridosso del mare. Per il Passo della morte si parte dal paesino di Grimaldi superiore. Lì vive Enzo Barnabà, storico e saggista che ha scritto, nel 2019, assieme a Viviana Trentin, un libro intitolato proprio così: Il Passo della Morte. Storie e immagini di passaggio lungo la frontiera tra Italia e Francia, nel quale narra la storia di questo passaggio attraverso i tentativi dell’ultimo secolo di superare la rete di confine.

I minori che arrivano a Ventimiglia sono reduci sia degli sbarchi in Sicilia sia del viaggio lungo la rotta balcanica. Vi arrivano in proporzioni simili, che variano a seconda del periodo: durante la ricerca erano maggiori gli arrivi dal «game». Ad aprile 2021, per esempio, dei 453 minori non accompagnati passati dal centro Caritas in cui Save the Children ha un Child friendly space (Spazio a misura di bambino), 149 erano stati registrati agli sbarchi. Il resto, 304 ragazzi, erano arrivati nella cittadina ligure dopo essere entrati in Italia in Friuli Venezia Giulia.

È un colpo al cuore incontrarli lungo il fiume Roja, alla periferia Nord della città. Lì vanno di sera per la distribuzione di viveri e per ricaricare i cellulari. Questi servizi sono offerti da attivisti di associazioni italiane e internazionali (per esempio 20K, Medecins du Monde e Kesha Nyia, che ha anche una cucina presidio vicino al punto di confine di Ponte San Luigi).

Li si può incontrare anche sui binari morti della stazione: spesso sono molto stanchi, alcuni in preda all’alcol che, in qualche modo, «lenisce le ferite» di quello che stanno vivendo, incalzati dai trafficanti che, nonostante i controlli, imperversano offrendo modi costosi e sempre più pericolosi per passare il confine.

Questi ragazzini sono davvero allo sbando: la loro presa in carico istituzionale, a livello europeo, ancor prima che italiano, dovrebbe avvenire al momento del primo ingresso in Europa. Invece sono qui, perché al posto dell’accoglienza hanno ricevuto dinieghi, e, in alcune frontiere, percosse.

La speranza supera il Monginevro

«C’è un pullman di linea che parte tutte le sere alle 19.45 da Oulx, operosa cittadina piemontese di montagna a pochi chilometri dal colle del Monginevro, confine tra Italia e Francia. Ogni persona che sale paga i 2,20 euro del biglietto che la porterà in 20 minuti al massimo a Claviere, ultimo centro italiano a quota 1.760 metri, meta sciistica incuneata nella Francia per tre dei suoi quattro lati. Dalla piazza Europa, nomen omen, dopo quattro chilometri di cammino su un piacevole sentiero senza troppo dislivello, si arriva a Mongénevre, territorio francese nel dipartimento Hautes-Alpes. Ma non tutte le persone che salgono sul pullman per Claviere potranno percorrere liberamente quel sentiero. Non ne hanno diritto, dice la Paf, la polizia di frontiera francese: devono chiedere asilo politico in Italia, non in Francia, se vogliono rimanere in Europa». A differenza di Ventimiglia, qui può succedere che un ragazzo minorenne venga respinto e riconsegnato alla polizia italiana senza alcun foglio di via, come se non fosse mai passato di lì. Non gli viene chiesta l’età – perché altrimenti dovrebbe essere preso in carico dalle istituzioni – e non gli viene consegnato nessun refus d’entree così che le associazioni francesi non abbiano prove per fare ricorso contro il respingimento.

Ancora una volta, quindi, ci troviamo di fronte a giovani vite sospese nel mezzo della Fortezza Europa, la quale, seppure sia tutt’altro che inespugnabile (anche in queste montagne, dopo qualche tentativo, si passa, spesso anche perché a fronte di poliziotti transalpini più duri, se ne possono trovare in altre notti di più «solidali») erige muri anche fra gli stati fondatori dell’Unione. E questo non accade solo alle frontiere orientali, dove la reticenza ad accogliere è maggiore, come in Ungheria, Polonia e, appunto, Bulgaria, oltre alla già citata Croazia. Meno male che da queste parti, nell’alta Val Susa, nota per la tenacia della sua gente, l’aiuto non manca: sono tanti i volontari che danno una mano, offrono un pasto o un alloggio, chiedono conto alle autorità (che, a volte, vedi il Comune di Oulx con l’attuale sindaco Andrea Terzolo, si dimostrano attente alle necessità dei profughi e collaborano con la società civile). L’antropologo Piero Gorza, ad esempio, in un momento di emergenza, ha accolto diversi migranti in casa propria. Il parroco don Luigi Chiampo e la fondazione che ha creato, Talità Kum, gestisce una casa rifugio modello a Oulx dove le persone sostano, si rifocillano e si preparano per il viaggio notturno sulle montagne. Proprio qui, nel Rifugio Massi, le persone che capiscono di trovarsi, forse per la prima volta dopo mesi, in un ambiente in cui si riceve rispetto e si può dare fiducia, si aprono e raccontano di sé.

Esemplare la vicenda di Ahmad, 16enne afghano, da tre anni in viaggio, passato attraverso lo sfruttamento lavorativo in Turchia, l’approdo sulle isole greche e la rotta balcanica: il giorno dell’arrivo al rifugio è carico di vita, sente vicina la meta, dato che, una volta in Francia, vuole raggiungere la Germania.

Accade che la notte viene respinto, senza alcun foglio di via. La Croce Rossa italiana, meritevole nel suo servizio da queste parti anche attraverso il progetto Migralp, lo intercetta a lo riporta al rifugio la mattina dopo.

Ahmad ha perso completamente la serenità, è arrabbiato perché molti compagni di strada ce l’hanno fatta, e lui no.

Ci riprova la sera dopo, questa volta il tentativo va a buon fine.

Chissà dove sarà ora. Di lui ci rimangono nella memoria parole d’oro: «Come il diamante diventa forte grazie alla durezza, si può crescere solo grazie alle difficoltà. Ho viaggiato per tanti paesi, ho avuto un percorso difficile per poter arrivare fin qui, però non mi sono mai arreso. Vorrei dire alla mia mamma che le voglio bene, mi manca tanto e andrò a trovarla».

Daniele Biella

Abdel, 19 anni

Pachistano, incontrato a Trieste a maggio 2021, ne aveva 17 all’epoca dei fatti*.

«Siamo scesi dalla montagna in Croazia e abbiamo viaggiato per due giorni e ci siamo seduti, sdraiati tutti, il trafficante ci ha fatto riprendere fiato. Eravamo all’incirca cento persone. Ed è arrivata la polizia. Quindici, venti persone sono scappate e anche il trafficante è stato catturato con noi. Loro prima ci hanno spruzzato lo spray negli occhi. Sai? Lo spray per gli occhi. Poi sono arrivati due furgoni. Ci hanno fatto salire su quelli e ci hanno portati verso la frontiera della Bosnia. Lì c’era un fiume, una specie di fiume, ci hanno portati lì, picchiati molto e hanno bruciato i nostri zaini, ci hanno fatto togliere i vestiti e hanno bruciato anche quelli e ci hanno fatto tornare indietro in mutande.

[…] Poi dopo quindici giorni ci abbiamo riprovato. Abbiamo proseguito, siamo arrivati in Slovenia. Gli sloveni ci hanno presi e tenuti in prigione e da lì ci hanno riportati indietro: gli sloveni ci hanno consegnati ai croati. I croati sono arrivati e ci hanno riportati indietro. E ci hanno portati di nuovo al fiume dove ci hanno fatto ritogliere i vestiti. Tolti i vestiti, ci hanno picchiati, uno ci teneva le braccia e uno le gambe, e ci buttavano nel fiume. L’acqua era fredda, faceva freddo, avevano un bastone nero, era tipo così, e picchiavano con quello uno ad uno e lo buttavano nell’acqua. L’acqua scorreva veloce, tanto che la persona non riusciva ad uscire, e le pietre ci ferivano i piedi
[…]. I poliziotti ci hanno circondati da tutti e quattro i lati. I ragazzi che avevano cercato di scappare li hanno presi e picchiati. Poi ci hanno riportati indietro, dove c’è una montagna molto alta. C’era un “billa” [inteso come un uomo con gli occhi chiari], era il loro capo, era cattivo, era molto violento, ci picchiava, dava calci. Tra loro c’era un brav’uomo, gli diceva di non picchiare, lo diceva in inglese, e l’altro si arrabbiava anche con lui, e lui allora rimaneva zitto. […] Era arrivato un tagliaboschi, stava facendo la legna nei boschi. Il trafficante è andato a chiedergli se poteva andarci a prendere del cibo se gli avessimo dato i soldi. Lui ha preso i soldi e non si sa se lui o qualcun altro ha chiamato la polizia, e la polizia è arrivata. I piedi erano feriti e non siamo riusciti a scappare, avevano i cani. Quando abbiamo riprovato di nuovo a scappare, uno di noi è stato bastonato dalla polizia alla testa ed è morto sul colpo. L’hanno preso e buttato nel fiume, l’hanno buttato nel fiume, la polizia, il suo corpo non l’abbiamo ritrovato neanche noi».

D.B.

* Abel e Nadir, interviste raccolte nel report di Save the Children, Nascosti in piena vista, giugno 2021.

Nadir, 16 anni

Afghano, incontrato a Trieste nel maggio 2021.

«Ho trascorso due mesi in Turchia, sei, sette mesi in Bulgaria, dove sono arrivato a inizio 2021, poi in Moldavia, e quattro mesi in Serbia. Non ho incontrato la polizia croata né la polizia slovena. Non ho avuto problemi di cibo o acqua. Avevamo cibo e cose da bere nelle borse nei boschi. Sono entrato direttamente in Italia. La parte più difficile del viaggio è stata in Bulgaria. Non si comportano bene con i migranti. Non importa se uno ha 15-16 anni, se è un bambino o un adulto, comunque lo portano in prigione e lo picchiano. Non ero stato mai in prigione prima della Bulgaria. Sono rimasto in prigione per tre mesi. Per quindici giorni non ho visto l’aria aperta, il cielo, solo la cella. E poi alla fine mi hanno dato un foglio e mi hanno detto: “Vai!”. Mi hanno chiesto “Quanti anni hai?”, ma non ascoltano niente. Ci hanno picchiato. Non guardano dove ti picchiano: la testa, le gambe, la schiena, gli occhi. Non guardano neanche, picchiano e basta, i migranti e i rifugiati. Dicevano: “Perché sei venuto? Perché sei venuto qui?”. E poi ci picchiavano. […] Eravamo dodici amici, ma non so adesso dove sono gli altri. […] Sai, in Afghanistan, c’è la guerra. Ci sono i talebani, picchiano la gente e la uccidono. La situazione è molto brutta in Afghanistan. Tutti vogliono venire in Europa, vogliono una vita, vogliono studiare, e in Afghanistan non è possibile. Va tutto male là. Ma in Italia le persone sono buone, hanno cura di noi, ci danno tutto. Ho un cugino in Gran Bretagna, a Birmingham. Lui studia lì. A me piace l’informatica. Per imparare l’inglese prima di tutto ho guardato film, ho imparato le parole e poi le frasi. Poi ho iniziato a parlare alle persone in inglese e molto lentamente ho imparato. Ora prima di tutto vorrei studiare e poi trovare un lavoro legato ai miei studi. Mi piacerebbe avere i miei familiari vicino. Tutti desiderano avere il loro papà o la mamma con sé e trascorrere una vita felice. Ma la situazione è critica là. […] Ai miei fratelli direi: “Non venite in questo modo, è troppo pericoloso”. Non lo rifarei, mai nella vita».

D.B.

Famiglie, speranza cercasi

Le condizioni dei giovani genitori e dei loro bambini

Sui confini italiani, accade d’incontrare famiglie con bimbi anche molto piccoli, in fuga da contesti pericolosi. Giovani genitori, pieni di speranza per un futuro migliore, e di amarezza per un presente lacerante, fatto di muri e di botte, di dignità negata.

«Di chi avete paura? Di me e mio figlio?», urla un giovane padre iraniano, con un bimbo in braccio, avvolto in un giaccone più grande di lui. Lo fa puntando lo sguardo verso la montagna, rivolgendosi a due punti neri a lato di un pilone della seggiovia. Lì è già territorio francese.

Quei due punti neri sono poliziotti – della Paf, polizia di frontiera francese – che pattugliano a piedi i sentieri attorno a Claviere.

Oltre alla realtà dei minori soli, c’è quella di centinaia di famiglie con figli, anche molto piccoli, al seguito. Giovani genitori e bambini che passano anni lungo le rotte migratorie in condizioni a dir poco devastanti.

Con un rapido calcolo sulla base delle osservazioni fatte dal vivo a Trieste, Ventimiglia e soprattutto Oulx, Save the Children stima il passaggio di sessanta nuclei familiari al mese, ovvero almeno 240 persone, dato che i figli al seguito sono quasi sempre due o più. Le provenienze sono soprattutto Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, qualcuna dal Nepal e, ancora, ma più di rado rispetto al passato, qualche famiglia siriana. Tutte risolute ad arrivare a destinazione, nonostante le difficoltà: colpisce la loro forza di volontà, la determinazione di portare i loro figli in un luogo dove possano crescere con più speranza rispetto alla patria lasciata alle spalle.

Un rifugio sul confine

Il rifugio Massi a Oulx è un luogo neutro nel quale si incontrano famiglie migranti che riposano qualche ora. Queste famiglie vengono accolte dagli operatori della fondazione Talità Kum e da volontari che si alternano portando scarponi, vestiti, viveri, fermandosi spesso a condividere un po’ di tempo con le persone, riconoscendo loro quella dignità che era stata cancellata dal «game» lungo la rotta balcanica, negli hotspot sulle isole greche, sui gommoni, nei camion e in tutte le altre situazioni di privazioni e violenze che sono costretti a vivere, loro malgrado, molti migranti.

«Le indegne esperienze traumatiche vissute dai bambini in questi viaggi si affiancano a un altro aspetto: spesso sono i figli, soprattutto nella fascia d’età dagli 11 ai 16 anni, a diventare portavoce delle famiglie. Parlano più lingue, sanno usare gli smartphone e la tecnologia, si orientano bene e capiscono al volo chi può essere più utile tra le persone che si trovano davanti. Allo stesso modo, a volte, le autorità sono meno vessatorie nei respingimenti quando hanno davanti dei bambini», spiega il rapporto. «Tutte queste ragioni fanno sì che i bambini siano un elemento strategico per la famiglia, una sorta di salvavita. Come nelle favole settecentesche», specifica Piero Gorza, antropologo e ricercatore di On Borders che vive proprio a Oulx e studia da decenni i flussi migratori.

Solidarietà sulla strada

Il sorriso dei più piccoli dà forza ai più grandi, anche se i più grandi vedono quanto è pesante il fardello dell’esperienza migratoria sulle spalle dei bimbi. Al rifugio, ad esempio, due sorelline afghane giocano a guardie e ladri e raccontano a mamma e papà: «Stiamo giocando al poliziotto che picchia il migrante» (vedi box a pag. 47, ndr.).

Ci vorranno mesi, se non anni, per superare i traumi del viaggio una volta giunti – si spera – a una destinazione sicura.

Tra famiglie che si incontrano e si conoscono lungo il viaggio, succede che scatti la solidarietà: si uniscono, fanno un tratto di viaggio assieme, si aspettano e, in alcuni casi, se per qualche motivo un nucleo viene diviso a una frontiera, si prendono cura di chi ha bisogno.

Questo accade anche per i minori non accompagnati: nel loro viaggiare «soli», spesso percorrono tratti di strada con nuclei familiari ai quali si affezionano e con cui poi rimarranno in contatto.

Anche per la situazione delle famiglie in viaggio, una soluzione dovrebbe essere cercata con un accordo interfrontaliero tra paesi europei, per capire dove i migranti hanno familiari, così da metterli in contatto e garantire un ricongiungimento sicuro, al riparo dai rischi del viaggio e dal traffico di esseri umani.

Daniele Biella

Porta d’Europa, opera di Mimmo Paladino

 

Lampedusa, frontiera Sud

Due giorni nell’Isola. sbarchi e memoria del 3 ottobre 2013

Quarantatrè sbarchi in 48 ore. Adulti, ragazzi, bambini accolti e trasferiti dal molo ai centri di accoglienza. Senza turbare i turisti. Mentre decine di migrant arrivano con piccole barche, a otto anni dal naufragio del 3 ottobre 2013, alcuni sopravvissuti e parenti delle vittime ricordano i loro morti e l’urgenza della ricerca di verità e giustizia.

Se nel Nord Italia il movimento tra frontiere è continuo, altrettanto succede al Sud, dove ogni giorno nuove persone, compresi minori stranieri non accompagnati, sbarcano sulle coste.

Molti ragazzini, proprio come gli adulti, una volta arrivati in Italia in una regione meridionale, prendono la via del Nord. Spesso hanno Ventimiglia come tappa successiva.

La frontiera Sud, il mare di mezzo, il Mediterraneo, vede nelle sue acque centinaia di migranti che provano a raggiungere l’Europa per iniziare da zero una vita con più prospettive. Loro malgrado lo fanno nel modo più pericoloso.

Sbarchi, trasbordi e quarantene

Missioni Consolata ha potuto riscontrare, direttamente a Lampedusa, ben 43 sbarchi in 48 ore, almeno mille persone in tutto nelle sole due giornate del 2 e 3 ottobre 2021. Erano soprattutto «barchini» provenienti dalla Tunisia, ciascuno con una ventina di persone a bordo, ma anche dalla Libia con 50-60 migranti ognuna.

La settimana prima era arrivato un peschereccio con 600 persone. Tra esse, numerosi minori soli, in gran parte, come è logico geograficamente, provenienti dai paesi del Nord Africa e dell’Africa subsahariana.

I ragazzi non accompagnati, quando arrivano, normalmente vengono condotti dal porto di sbarco, il molo Favaloro, all’hotspot. Dato, però, che per legge non potrebbero stare in strutture per adulti, nel giro di pochi giorni vengono portati in Sicilia. Trasferiti su navi di linea, separati dai passeggeri, devono fare 7-10 giorni di quarantena.

Nei due giorni di visita a Lampedusa, abbiamo assistito alle operazioni di salvataggio e poi di trasbordo. Queste venivano effettuate dalle autorità competenti – Guardia costiera, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia, ministero della Salute per le pratiche mediche – con contingenti tali che, di fatto, creavano una sorta di militarizzazione dell’isola.

Soccorrere ricordando il 3 ottobre 2013

Durante la nostra visita, Lampedusa stava vivendo un boom del turismo: l’estate 2021 è durata fino a fine ottobre, con strutture pressoché piene. I turisti non vedevano alcun migrante. Le persone sbarcate, infatti, venivano portate con pulmini dal porto all’hotspot, senza mettere piede nelle vie cittadine.

Save the Children, Diaconia Valdese, Fcei (Federazione delle chiese evangeliche in Italia) sono presenti agli sbarchi, assieme alle agenzie dell’Onu, Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), per controllare la giusta presa in carico dei minori e delle famiglie.

L’alto numero di arrivi sull’isola è coinciso con la commemorazione del naufragio del 3 ottobre 2013, in cui avevano perso la vita 368 persone, in gran parte eritree, al quale era seguito quello dell’11 ottobre, con 268 vittime – di cui 60 bambini – in gran parte siriani.

La commemorazione è stata molto sentita. Il Comitato 3 ottobre ha organizzato eventi per un gran numero di studenti arrivati sull’isola da tutta Europa allo scopo di capire le migrazioni forzate raccontate dalla voce dei protagonisti, compresi diversi dei 47 superstiti e dei familiari delle vittime delle due stragi citate.

Alcuni superstiti, salvati con le loro mani da alcuni pescatori isolani, tra cui Vito Fiorino e Costantino Baratta, insediatisi nel frattempo soprattutto in Germania e Svezia, si sono sposati e hanno avuto figli.

Erano presenti anche madri di giovani tunisini dispersi durante il viaggio, accompagnate dai volontari di Carovane migranti e di altre associazioni che cercano verità e giustizia per le vittime. Dopo otto anni, infatti, non sono ancora state fugate le ombre sui ritardi e sulle omissioni di soccorso delle autorità in quelle circostanze.

Daniele Biella

Famiglia afgana

Zalmai e Jamila, marito e moglie di30 anni, con due bimbe di sei e quattro anni. Incontrati a Oulx a maggio 2021, hanno provato il «game» dieci volte.

«Lasciai l’Afghanistan perché mia moglie era stata promessa a qualcun altro. Lei fuggì con me. Fummo poi minacciati. Arrivammo in Iran, ma quegli uomini riuscivano a mandarmi minacce perché avevano soldi. […] Dalla stazione di polizia mi fecero rimanere e mi presero quattro volte il telefono, i croati. Mi presero i soldi. Mi inflissero tanta sofferenza. Mi picchiarono. Mentre mi stavano respingendo mi chiedevano “maani”, cioè chiedevano soldi, “money”. Ci perquisivano, cercavano soldi e prendevano tutti i soldi che trovavano. Ci trattennero, ci misero una maschera sulla faccia mentre ci espellevano. Presero i soldi da qualunque famiglia che conoscessi. Avevano questi bastoni di plastica: ci colpirono con quelli. In qualunque paese tu dicessi loro che saresti andato, Francia, Germania, ti avrebbero picchiato. Menzionavano un paese e poi ci colpivano. Uno, due, tre… a loro non importava quanto ci picchiassero. Ci sedemmo e basta. Quindi ci diedero un calcio o ci dissero: “Alzati!”, e ci tolsero tutti i vestiti e ci picchiarono. Ci arrestavano sempre. Ecco perché abbiamo così sofferto. Mia moglie era malata, ma era riuscita ad arrivare. Fu colpita dal freddo. Aveva nevicato e il corpo le faceva male ovunque. Era stata arrestata e aveva le sue figlie con lei. Alla fine arrivarono due poliziotti. La trascinarono come un cadavere. Continuavano a trascinarla e a trascinarla. […] Quando partimmo con il gruppo di 35 persone verso la Croazia, la bambina aveva paura della polizia e avrebbe avuto paura ogni volta che la polizia sarebbe comparsa. E l’altro problema è che quando diventa ansiosa, si colpisce, sul muro, sul terreno, su qualsiasi cosa. Si colpisce molto duramente, che sia la testa o altro. Si fa male da sola. Non capisce nulla in quei momenti. Una volta che si riprende, ovvero quando si sente meglio, allora piange da quel momento in poi. Ma il fatto è che rimane a disagio. Si rattrista per 5, 10, 15, o 20 minuti, tutto qui. Abbiamo sofferto lungo la strada e speravamo che tutto il ricordo della sofferenza venisse cancellato rapidamente dalla sua memoria, altrimenti sarebbe rimasto nel suo cervello. Sai, è una bambina e le piace giocare. Così quando si siede con la sorella, assegnano a ciascuno ruoli come “Io sono un rifugiato” e l’altra dice “Io sono la polizia”. Poi si alzano e quella che fa il poliziotto viene colpita dall’altra, si inseguono a vicenda e poi combattono. È così che si ricordano. Quindi, non stanno dimenticando quelle cose. Tutti i ricordi, le cose nella loro mente, quelle cose sono ancora nella loro mente».

D.B.

Con gli occhi dei minorenni

Raccomandazioni di Save the Children all’Unione europea.

Un minore è, prima di tutto e sopra ogni cosa, un minore, e i suoi diritti vanno protetti e promossi indipendentemente da ogni altra circostanza relativa alla sua condizione o status suoi personali o dei suoi genitori, ad esempio l’origine nazionale, etnica o sociale o, ancora, lo status legale.

Il principio di non discriminazione è un valore fondante della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Crc), stella polare in tema di diritti dei minori che, applicandosi a tutti i minori in ogni circostanza, è centrale anche quando si parla di bambine, bambini e adolescenti coinvolti nella migrazione. Come recentemente riconfermato dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’Infanzia, in nessun caso un minore straniero non accompagnato può essere espulso o respinto alla frontiera, in base alle norme di diritto internazionale poste a tutela dei diritti umani, dal diritto umanitario e sui rifugiati, e, in particolare, all’articolo 33 della Convenzione sullo status di rifugiato del 1951 e dall’articolo 3 della Convenzione Onu contro la tortura.

Ciascuno degli stati alla cui frontiera e nel cui territorio arriva un minore, coinvolto più o meno consapevolmente in un percorso migratorio, ha la responsabilità di prendersene cura, in base a una serie di norme vincolanti volte ad assicurarne la protezione e il riconoscimento di uno status legale.

L’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea conferma la centralità del superiore interesse dei minori in tutte le azioni o decisioni che li riguardano intraprese dalle autorità pubbliche o da istituzioni private.

[…] Come è evidente dalla lettura delle testimonianze, di fronte alla mancanza di un sistema di protezione e accoglienza europeo per i minori migranti, all’assenza di procedimenti rapidi e ben funzionanti di ricongiungimento familiare, alla necessità sinora disattesa di riforma del
Regolamento di Dublino e al quasi totale abbandono dell’esperienza della relocation fra stati membri, fatte salve sporadiche e quanto mai limitate iniziative su base volontaria, ai minori e alle loro famiglie non rimangono alternative che affidarsi ai passeur per proseguire nel proprio percorso migratorio attraverso le frontiere interne dell’Unione. Una scelta obbligata che si accompagna alla necessità di essere invisibili, con il rischio di restare intrappolati nelle maglie del traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo e di subire violenze e vessazioni o di esserne testimoni.

In questo quadro, le violazioni dei diritti dei minori migranti continuano a consumarsi all’interno e all’esterno dei confini dell’Ue, con uno specifico allarme per le zone di confine, sia lungo il perimetro delle cosiddette «frontiere esterne» dell’Unione europea, sia in corrispondenza delle frontiere tra stati membri, luoghi di particolare criticità e pericolo per i minori, nonostante l’Allegato VII del Codice Schengen preveda che sia prestata particolare attenzione nei confronti del minore che attraversa la frontiera e che siano adottate particolari modalità nei confronti dei minori accompagnati o non accompagnati.

I minorenni in particolare – come ci ricorda il Comitato sui diritti dell’infanzia – non dovrebbero mai essere respinti verso un paese dove vi siano fondate ragioni di ritenere che essi siano a rischio di danni irreparabili o verso un altro paese dal quale essi potrebbero essere lì respinti, anche in considerazione delle loro esigenze primarie di sopravvivenza e sviluppo, tenuto conto dell’età e del sesso.

[…] Il caso delle frontiere Nord dell’Italia è, per alcuni versi, emblematico del vuoto politico e giuridico lasciato dalle istituzioni dell’Unione europea e dagli stessi stati membri in tema di movimenti migratori: prassi delle forze di polizia impegnate nella gestione dei confini diverse da territorio a territorio, mancanza di un coordinamento locale e tra i territori dove insistono le diverse frontiere, mancanza di un’indicazione strategica che tenga conto della necessità di gestire i flussi in arrivo dalle diverse frontiere – Sud e Nord – e di distribuire l’accoglienza sull’intero territorio, assenza di mediatori che possano veicolare informazioni ai valichi di frontiera, le principali criticità riscontrate.

Di fronte alla situazione attuale serve guardare alle politiche europee, compresa la riforma degli atti legislativi nell’ambito del Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo emanato a settembre 2020, e a quelle nazionali, con gli occhi dei minorenni che ogni giorno provano ad attraversare i nostri confini.

Save the Children Italia




Con gli occhi di Luz

Luz ci guarda dritto negli occhi. Lo sguardo della piccola messicana in copertina, che mi piace chiamare «Luz» (luce), va dritto al cuore. Il suo sorriso, pulito e pieno di speranza, è un canto alla vita, un inno alla gioia. Questo sguardo bello e fiducioso mi rapisce e mi sento guardato dentro. Non sono più solo gli occhi di Luz che mi fissano. Forse è la suggestione del Natale che ormai si avvicina, ma sento come fosse lo sguardo dello stesso Bambino Gesù che mi cerca. Quello sguardo che certamente ha rubato il cuore dei pastori, dei Magi e di quanti sono andati a visitarlo nella stalla di Betlemme. Occhi che hanno visto dentro ciascuno di loro, li hanno conosciuti e amati e hanno parlato loro, mettendoli di fronte alla verità di se stessi. Guardati da quel bambino, ognuno ha capito che non era arrivato lì per caso, ma che Lui li attendeva da sempre.

Gli occhi di Luz sono gli occhi di milioni di altri bambini nel mondo. Non tutti sono felici: troppe volte sono occhi terrorizzati dalla violenza della guerra, annebbiati dalla fame, spenti dalla malattia, tristi per l’assenza d’amore, pieni di paura per gli abusi, angosciati per lo sfruttamento. Sempre però sono occhi che interpellano la tua umanità. Occhi che, con semplicità e candore, credono ancora che ogni persona sia capace di amare.

Un desiderio, un grido e una speranza che, oggi più che mai, sono delusi da troppi adulti. E non solo in Afghanistan e Yemen, Siria e Haiti, Nigeria e Venezuela, tanto per ricordare alcuni dei punti più caldi del dolore dell’umanità. L’elenco delle situazioni di morte potrebbe riempire pagine, una lista senza fine nella quale comparirebbe anche la nostra bella Italia, diventata un paese dove non è più appetibile nascere, e dove si nasce sempre meno.

Dedicata a Madina

Per questo Natale, auguro a tutti noi di lasciarci guardare dagli occhi di tutti e tutte le «Luz» del mondo. Che i nostri occhi non si lascino riempire e incantare dalle luci abbaglianti di strade e centri commerciali, luci che del vero Natale non hanno più niente, segno come sono di un invito al consumismo più sconsiderato che porta spreco, inquinamento e sfruttamento. Che non siano ammaliati dalle forme, colori e immagini accattivanti della moda, del nuovissimo gadget tecnologico, del modello di macchina ultimo grido. Che non siano accecati dagli ammiccamenti dei cartelloni pubblicitari o degli schermi che titillano la nostra vanità, incoraggiano e giustificano il nostro egoismo, gratificano le nostre pigrizie.

Auguro invece che i nostri occhi si lascino interrogare mettendo in questione il nostro stile di vita, le nostre abitudini, i pregiudizi che ci rendono così sicuri. Che ci lasciamo guardare dentro per imparare a vedere noi stessi e il mondo attorno a noi in modo nuovo, per scoprire che possiamo essere soggetti di speranza e cambiamento e non semplicemente ripetitori e continuatori di uno stile di vita senza amore e senza futuro.

In questo tempo di Natale mettiamo pure con amore la statuina di Gesù Bambino nel nostro presepio, ma non accontentiamoci di quella. Cerchiamo invece gli occhi veri del Bambinello in quelli delle persone che incontriamo, a cominciare dal nostro vicino di casa che spesso neppure conosciamo; dalle persone che partecipano con noi alla messa, con le quali magari non condividiamo neppure un «ciao»; da quelle persone che incrociamo ogni giorno.

Lasciamoci disturbare dagli occhi della piccola Madina Hussein, travolta da un treno in Serbia (copertina di MC 1-2/2018), da quelli radiosi della bimba di cui non conosciamo il nome che esce dalla tenda a Lesbo (MC 3/2021) o da quelli tristi del bimbo lavoratore del Myamnar (Mc 08-9/2021).

Non occorre andare indietro nel tempo per cercare gli occhi di Gesù, non è neppure necessario andare lontano. Basta farsi prossimo.

Guardare e lasciarsi guardare con gli occhi di Gesù Bambino. Scopriremo di essere «fratelli, sorelle, padri e madri, figli e figlie» in una grande famiglia, dove ami e sei amato, dove piangi con chi piange affinché il pianto si tramuti in danza alla musica dell’amore.




Welcome to El Paso

testo di Paolo Moiola |


Sorta nel deserto, El Paso è ulteriore dimostrazione che l’immigrazione non può essere fermata da un muro. Per questo, nella città texana, operano varie organizzazioni cattoliche d’aiuto ai migranti. «Benvenuti a El Paso» è la nuova tappa del nostro cammino lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico.

Capita spesso di sentire parlare di El Paso e Ciudad Juárez come di città gemelle. In realtà, lo sono soltanto in quanto si dividono uno stesso spazio geografico: il deserto di Chihuahua, la catena dei monti Franklin e il Rio Grande (o Rio Bravo). Per il resto, le due città sono diverse in tutto.

La prima è una città texana di 700mila abitanti al confine con il New Mexico. La seconda, capitale dello stato messicano di Chihuahua, è famosa nel mondo per essere la città dei femminicidi e delle maquiladoras (fabbriche straniere con manodopera locale ed esenzioni fiscali).

Unite da quattro ponti – Bridge of the Americas, Ysleta-Zaragoza International Bridge, Paso del Norte Bridge e Stanton Street Bridge – che scavalcano il Rio Grande e un’autostrada, El Paso e Ciudad Juárez sono separate da barriere (fences) costruite nel 2008 per frenare l’immigrazione illegale e i traffici illeciti. Queste barriere sono state, in parte, sostituite o rinforzate dal muro di Trump, la cui costruzione è stata oggi bloccata dal nuovo presidente Joe Biden.

Vecchio o nuovo muro che sia, come quasi sempre accade, niente riesce però a fermare il flusso di migranti. Per esempio, a giugno, soltanto nel settore di El Paso, gli agenti di frontiera Usa hanno intercettato 21.500 migranti. In dieci mesi (da ottobre 2020 a luglio 2021), sul confine Sud le autorità statunitensi hanno fermato un milione e 332mila migranti. Un numero effettivamente enorme, ma di questi ben 850mila sono stati immediatamente espulsi (dati Customs and border protection, Cbp, del 4 agosto 2021).

Una panoramica dal Ranger Peak di El Paso e Ciudad Juárez che evidenzia il paesaggio desertico in cui sorgono le due città. Foto Nick Amoscato.

Chi aiuta i migranti

A El Paso e in altre città texane di confine lavorano varie organizzazioni cattoliche. Le due più grandi sono «Annunciation House» e «Catholic Charities of the Rio Grande Valley» (a San Juan e Browsville).

La prima, fondata nel 1978, si occupa principalmente di migranti ed è diretta da padre Ruben Garcia. La seconda, con uno spettro d’intervento più generale, è diretta da suor Norma Pimentel, figlia di messicani (nel 2020, eletta da Time tra le cento persone più influenti al mondo).

A queste organizzazioni d’aiuto immediato, dal 1987 la diocesi di El Paso affianca un ufficio di consulenza legale per i migranti («Diocesan migrant and refugee services», Dmrs). Inoltre, il «Hope border institute» (Instituto fronterizo esperanza), partendo dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica, svolge un lavoro di studio e ricerca «per costruire giustizia e approfondire la solidarietà attraverso le terre di confine».

Nel suo ultimo rapporto, l’istituto è molto duro nei confronti del nuovo presidente. Visto che la vicepresidente Kamala Harris aveva dichiarato di essere «impegnati a garantire che il nostro sistema di immigrazione sia ordinato e umano», allo studio è stato dato un titolo esattamente opposto: Disorderly and inhumane, disordinato e disumano (giugno 2021).

«L’amministrazione Biden – vi si legge tra l’altro – continua a impedire alle persone in fuga da persecuzioni di accedere al sistema di asilo degli Stati Uniti e continua a espellere migranti e richiedenti asilo che attraversano il confine».

In effetti, finora l’amministrazione Biden ha respinto oltre il 70 per cento dei migranti, soprattutto sulla base del cosiddetto «Title 42», reso operativo da Trump a inizio pandemia (21 marzo 2020). Il titolo 42 è una norma del Codice di sanità pubblica degli Stati Uniti, risalente al 1944, che consente l’immediata (cioè nell’arco di poche ore) espulsione di una persona per questioni sanitarie. Questa norma ha preso il sopravvento sul «Title 8» del Codice federale sulla migrazione (Aliens and nationality), una norma ben più complessa e soprattutto più garantista, in particolare nei confronti dei richiedenti asilo (asylum seekers).

Border Patrol Agents (BPA) assigned to El Paso Sector, El Paso Station (EPT/EPS) apprehended a group of approximately 127 illegal aliens.

Le suore di Chapparal

A El Paso, attorno alle principali organizzazioni d’aiuto, ne ruotano altre più piccole, ma egualmente significative. Una di esse è quella delle suore dell’Assunzione (Assumption sisters) di Chapparal, piccola comunità rurale sul confine tra New Mexico e Texas, a circa 30 chilometri da El Paso.

Contattata via web, ci risponde suor Anne Salaun. «Siamo una comunità internazionale di quattro suore – spiega la religiosa -. Assieme a me, ci sono suor Chabela, Maria Teresa e Nha Trang».

Suor Norma Pimentel, direttrice di «Catholic Charities of the Rio Grande Valley». Foto Mose Buchele / Kut / Npr.

«Nella comunità di Chapparal la maggioranza della popolazione è di origine ispanica. Si tratta soprattutto di famiglie emigrate dal Messico con figli nati qui. Noi facciamo il nostro ministero tra loro. Da un paio d’anni lavoriamo però anche sull’emergenza derivante dai nuovi arrivi, sempre in collaborazione con le organizzazioni di El Paso, in particolare con Annunciation house. Portiamo i pasti in uno dei loro centri e diamo una mano in un altro».

Le suore collaborano anche con l’Hope border institute». «Gli Stati Uniti – ricorda suor Anne – sono un paese d’immigrazione che, nel corso della sua storia, ha accolto diverse ondate di immigrati. Oggi però il sistema vigente è diventato inadeguato. Occorrerebbe fornire percorsi legali per entrare e per ottenere la cittadinanza. Detto questo, allo stesso tempo, devono essere affrontate nei paesi di origine dei migranti le cause profonde dell’immigrazione».

Dopo aver sperimentato la «tolleranza zero» di Donald Trump, suor Anne non boccia Joe Biden: «La situazione è un po’ migliorata, ma c’è spazio per ulteriori miglioramenti».

«Per esempio?», le chiediamo. «Il fatto che il confine sia ancora chiuso, è un incentivo per i trafficanti che depredano i migranti. La riforma delle nostre leggi sull’immigrazione e l’apertura delle frontiere è il modo migliore per combattere lo sfruttamento umano sopprimendo la necessità del contrabbando».

Padre Ruben Garcia, direttore di «Annunciation House». Foto The Texas Observer.

Suor Anne si riferisce allo smuggling di esseri umani (in spagnolo, coyotaje, da cui il termine coyote, trafficante di persone), un fenomeno diventato normalità che genera un giro di denaro inferiore soltanto a quello della droga e che, soprattutto, produce drammi umani. Come avvenuto lo scorso 30 giugno, quando gli ufficiali della Border patrol di El Paso hanno scovato 35 migranti – provenienti da Guatemala (in maggioranza), Messico, Ecuador, Nicaragua e Honduras – nascosti in una casa. Dramma nel dramma, tutti e 35 sono stati immediatamente rispediti fuori dai confini statunitensi in base al citato Title 42.

A suor Anne facciamo presente che paura e cattiva informazione non aiutano a comprendere la complessità del fenomeno migratorio. «È proprio per questo – risponde – che abbiamo bisogno di educazione: per aprire le nostre menti e i nostri cuori ai benefici e alle benedizioni che i nuovi arrivati portano con sé. Ricordiamoci che la migrazione fa parte del tessuto della storia umana. Quindi, è meglio coglierne i benefici piuttosto che combatterla».

Così la pensa suor Anne. Tuttavia, in Texas come negli Stati Uniti e nel mondo, la questione migratoria divide la società in maniera netta e apparentemente inconciliabile.

Tre delle quattro suore della comunità di Chapparal in un centro d’accoglienza di El Paso. Foto Assumption sisters – Chapparal.

Fermare «l’invasione» (a ogni costo)

Don Huffines, ex rappresentante repubblicano nel senato del Texas, che si definisce «100 per 100 pro-life», è candidato alla carica di governatore dello stato nelle elezioni del novembre 2022.

Nel suo programma ultra conservatore, un posto di rilievo è occupato dal tema dei migranti.

Su questo gli argomenti per raccogliere consensi elettorali sono sempre gli stessi. Per esempio, quello dei soldi: «I texani stanno attualmente pagando miliardi [di dollari] ogni anno per alloggio, scuola e assistenza medica in favore di stranieri illegali».

Huffines promette che, se eletto governatore dello stato, fermerà l’«invasione» a ogni costo, schierando tutte le forze della Guardia nazionale del Texas, completando il muro di Trump, attuando misure di pressione economica sul Messico, rendendo impossibile l’assunzione di migranti illegali sui posti di lavoro.

A quanto pare il programma di Huffines non contempla un «Benvenuti in Texas».

Paolo Moiola

A demonstrator holds up placards to protest against MPP (Migrant Protection Protocols), outside of U.S. Customs and Border Protection building in Brownsville, Texas, U.S., January 12, 2020. REUTERS/Go Nakamura

Le suore di Chapparal effettuano una distribuzione di alimenti. Foto Assumption sisters – Chapparal.

Il ponte delle Americhe, uno dei quattro che unisce El Paso (Usa) con Ciudad Juárez (Messico); si confronti la fila di auto in entrata e quella in uscita. Foto James Tourtellotte.

QUESTA SERIE:

«L’uragano migranti (e la frontiera liquida)», MC, giugno 2021;
«Bienvenidos a Tijuana», MC, luglio 2021.

 




Con altri occhi

testo e foto di Daniele  Biella |


Portare a scuola le migrazioni in carne e ossa. Per far conoscere ai ragazzi la concretezza delle vite dei protagonisti di un fenomeno troppe volte descritto in modo ideologico. Un rifugiato che si racconta in aula vale più di mille video su YouTube.

Siamo in un paesino della Brianza, in un pomeriggio d’autunno del 2019, quando ancora la pandemia non è entrata nelle nostre vite. Una bambina che sta per finire la scuola primaria, vede da lontano una persona e corre ad abbracciarla. La nonna, rimasta indietro, guarda la scena sbalordita e preoccupata: non conosce, infatti, quella persona, che ha anche il colore della pelle diverso dal suo. Ma la preoccupazione dura pochi attimi, perché la bambina risolve tutto con un sorriso e poche parole. «Nonna, è Wilfrid! È venuto nella nostra scuola a raccontarci la sua vita. È molto bravo e simpatico». La nonna si avvicina al giovane, che è nato nel 1996 in Camerun, e dal 2017 è rifugiato in Italia, e poco alla volta inizia a parlargli.

Una domanda dopo l’altra, la signora è sempre più a suo agio e, al momento dei saluti, la tensione iniziale non ha lasciato alcuna traccia.

«Quando ha saputo che stavo lavorando come aiuto cuoco in un ristorante non lontano da dove abitava, mi ha detto che sarebbe venuta una volta a mangiare. E dopo qualche tempo è accaduto», spiega Wilfrid qualche mese dopo agli alunni di una classe di seconda media mentre io, accanto a lui, osservo i volti divertiti dei ragazzi e della professoressa presente. «Per questo è importante conoscere la storia delle persone. La conoscenza è il primo passo per superare i pregiudizi», aggiungo.

In carne e ossa

Perché mi trovo dentro un’aula scolastica assieme a un giovane rifugiato, davanti a studenti curiosi che, per tutto il tempo dell’incontro, ci riempiono di domande? La risposta si chiama progetto «Con altri occhi».

Ogni anno, come giornalista che si occupa di tematiche migratorie, incontro nelle scuole migliaia di ragazze e ragazzi, in Brianza, ma anche in altre zone d’Italia, per far toccare loro con mano «le migrazioni in carne e ossa», e mostrare come sia possibile guardarle con altri occhi.

Il progetto, iniziato nell’anno scolastico 2016/2017, permette un incontro tanto eccezionale quanto normale: quello tra una persona che si trova in Italia dopo una migrazione forzata e ragazzi che, attraverso il suo racconto, possono capire meglio quello di cui i mass media parlano da anni, quasi sempre con toni accesi: «Gli sbarchi», «le carrette del mare», «l’accoglienza dei richiedenti asilo».

Quello delle migrazioni è un tema complesso che, se non affrontato in modo approfondito e adeguato, può generare disinformazione e luoghi comuni nocivi. Come è avvenuto in diverse situazioni, la persona migrante può diventare il capro espiatorio dei problemi delle comunità.

Narrazione e dialogo

«Il migrante che arriva in Italia dopo la fuga forzata dal suo paese non deve essere trattato con pietismo, non è un “poverino”, ma una persona con le sue caratteristiche che la rendono diversa dagli altri, proprio come me. Più sfortunata, certo, perché, a differenza mia, chi chiede asilo in Italia, o in una nazione non sua, ha dovuto abbandonare controvoglia i luoghi di una vita», dice Sergio Saccavino, direttore di Aeris Cooperativa sociale, storica realtà della provincia di Monza che oggi ha settecento soci lavoratori (soprattutto in ambito di assistenza educativa scolastica). È lui che mi ha chiesto, nel 2016, di diventare formatore per Aeris sulle migrazioni, portando con me persone rifugiate in Italia che la stessa cooperativa ospita in appartamenti della zona secondo il modello dell’accoglienza diffusa aderendo a progetti della prefettura e del ministero dell’Interno.

«C’è bisogno di un racconto diretto di quello che accade. Devono parlare i protagonisti. Noi abbiamo il dovere di fare un investimento culturale in tal senso», aveva aggiunto Saccavino. Detto, fatto: il progetto – che per le scuole è stato gratuito per i primi quattro anni, e che, con l’arrivo della pandemia, è stato strutturato in doppia modalità, online e in presenza, a seconda della situazione specifica – già nel primo anno ha coinvolto 5mila alunni e, a fine anno scolastico 2020-2021, ha raggiunto quota 15mila.

In ogni classe sono proposti due incontri: durante il primo si affrontano con i ragazzi le motivazioni e le dinamiche che spingono gli esseri umani a lasciare la propria casa. Lo si fa anche attraverso un gioco di ruolo e la narrazione diretta di alcuni viaggi giornalistici (su una nave di salvataggio, alle frontiere d’Italia e d’Europa, nei paesi di provenienza di chi arriva nel nostro continente). Nel secondo incontro, accompagno in classe una persona accolta in Italia, allo scopo di instaurare un dialogo a tu per tu con gli studenti.

Il libro

Ultimamente il progetto è diventato anche un libro, dal titolo Con altri occhi. Viaggio alla scoperta delle migrazioni (Fabbrica dei Segni editore, 2020), proprio perché l’ottimo riscontro di interesse verso il progetto ha convinto Aeris e Fabbrica dei Segni ad accordarsi per pubblicare un testo capace di raggiungere chiunque voglia approfondire, adulti compresi.

Ho scritto il libro raccogliendo le testimonianze dei quattro giovani rifugiati che mi hanno accompagnato in classe in questi anni (oltre a Wilfrid, c’è Harris, ghanese, Bourama, maliano, e Mamadou, della Guinea Conakry), ma anche le domande e le considerazioni degli studenti. Queste ultime rappresentano – e lo dico senza alcuna retorica – il modo più efficace per capire quanto le ragazze e i ragazzi (ma anche i bambini, dato che il progetto si rivolge a studenti dagli 8 anni alle scuole secondarie di primo e secondo grado) siano pronti a ragionare su quanto sta accadendo e, soprattutto, a «dire la loro» con responsabilità e senso della realtà.

Le relazioni (e la conoscenza) superano i muri

Andando nelle classi e dialogando in modo fitto con gli studenti, ho riscontrato una conferma non da poco: il concetto di multiculturalità, oramai, è pregnante. Il compagno di classe di origini straniere ha un nome e un carattere, prima di avere una nazionalità, e le relazioni che i ragazzi creano superano «muri» che invece a volte si instaurano nel mondo degli adulti.

Ci possono essere situazioni specifiche di intolleranza o bullismo, ma, in generale, si dice il vero quando si afferma che la scuola è più avanti del resto della società a livello di «gestione delle diversità». E non solo le diversità date dalle provenienze.

Quello che serve agli alunni (e, a volte, anche ai professori, che hanno bisogno formazione specifica per rispondere alle domande dei loro studenti senza trovarsi spiazzati), è avere tutti gli elementi per capire di che cosa si parla quando si discute di migrazioni. A cominciare dalle parole «giuste» (profugo, richiedente asilo, rifugiato, migrante economico, protezione umanitaria) e dalla conoscenza dei luoghi e delle situazioni di partenza delle persone.

«Quali sogni hai?»

«Perché sei partito?», è spesso la prima delle decine di domande che gli studenti pongono alla persona rifugiata durante gli incontri.

Le domande arrivano sempre come un fiume in piena: «Come è stato il viaggio con il barcone?», «quanti soldi ricevi dall’accoglienza in Italia?», «cosa fai durante la giornata?», chiedono gli studenti per capire i meccanismi concreti della migrazione. «Quali sogni hai?», «sei stato trattato male qualche volta, anche per le tue origini?», «cosa pensi del razzismo?», per capire a livello più profondo quello che ha dentro di sé una persona che viene da lontano. «Che squadra tifi?», «che musica ti piace?», «quale città italiana vorresti visitare?», «quale cibo preferisci?», «che numero di scarpe porti?», chiedono per stabilire una relazione orizzontale di normalità.

Le domande trovano sempre una risposta, e spesso fanno scattare confronti e discussioni anche profondi.

«Ho visto emergere ragionamenti e aspetti dei miei alunni che non avevo mai notato», mi hanno detto tante volte maestre, maestri, professoresse e professori.

Coinvolgimento emotivo

Un valore aggiunto del progetto è il fatto che i giovani rifugiati coinvolti parlano bene l’italiano. Si evitano, quindi, incomprensioni e difficoltà di dialogo: le loro storie, i loro racconti, arrivano diritti a destinazione, e spesso sono coinvolgenti a 360 gradi.

Ci sono, infatti, momenti di forte emozione, soprattutto quando i rifugiati parlano, con gli studenti più grandi, dei viaggi difficili e pericolosi che hanno affrontato nel deserto del Sahara o nel Mare Mediterraneo, o delle dure condizioni che devono sopportare le persone migranti e dei trattamenti cui sono sottoposte da parte dei trafficanti di esseri umani nelle prigioni illegali in Libia e nelle altre situazioni di violazioni dei diritti umani.

Uno dei momenti più coinvolgenti è quello nel quale Wilfrid racconta ai ragazzi di una canzone gospel che si è messo a cantare assieme ai compagni di gommone quando l’imbarcazione aveva iniziato a imbarcare acqua dopo la rottura del motore.

Durante il racconto, spesso, Wilfrid ne intona una strofa, creando un’atmosfera di forte empatia.

Empatia che trova sollievo quando il giovane camerunese racconta il miracoloso salvataggio da parte di una nave commerciale di passaggio che poi ha consegnato i naufraghi alla Guardia costiera italiana.

Messaggi su carta

«Quando ci ha raccontato quello che ha passato, si poteva percepire che era molto triste e aveva nostalgia del suo paese, ma nonostante tutto era sempre sorridente e per questo lo ammiro. Questa esperienza mi ha fatto capire molte cose e mi sono emozionata», scrive una ragazza di terza media su un foglietto al termine dell’incontro.

Ogni volta chiedo ai ragazzi, in forma anonima se preferiscono, un pensiero a caldo su quanto vissuto: ne ho raccolti migliaia. Sono diretti, a volte taglienti, mai scontati, veri.

«Dei ragazzi come noi hanno delle storie che meritano di essere ascoltate». «Ho imparato che se vedi una persona in difficoltà devi aiutarla perché ogni persona può fare la differenza». «Non sono una persona che prova pregiudizi verso le persone, ma questa esperienza mi ha chiarito le idee, e penso che gli immigrati siano persone come noi, alcune buone altre di meno». «Quando bisogna giudicare un libro si guarda il contenuto, non la copertina».

Nel libro che nasce dal progetto, una sezione è dedicata a molti di questi messaggi. Un’altra, invece, è dedicata a esempi di contaminazione positiva: piccoli fatti capitati dopo gli incontri in classe (come quello tra Wilfrid, la bambina e sua nonna) che aiutano ancora di più a superare le barriere invisibili del pregiudizio.

Per il resto, il testo riporta con ricchezza di esempi le leve che rendono valido un progetto sulle migrazioni proprio partendo da questa esperienza. L’intento è di spronare altre persone, altri enti, altri giornalisti, altre persone rifugiate a replicarlo in altre zone d’Italia.

Serve guardare il mondo con altri occhi, pur rimanendo se stessi: la conoscenza diretta delle storie di vita, oggi più che mai, è necessaria per fare evolvere questa nostra società nella giusta direzione, ovvero con un’identità forte perché aperta verso il mondo. Una società dove le fake news, le notizie false, non devono trovare terreno fertile.

«Come sta Harris?»

«Non è stato semplice, all’inizio, incontrare gli studenti e raccontare di me e della mia vita. Sono riuscito a farlo, ho preso in mano il coraggio e mi sono aperto, confrontandomi e soprattutto imparando molto da loro», ragiona Harris, il primo testimone coinvolto nel progetto di Aeris. «Ho 20 anni e non ho avuto una vita facile. Conoscere così tanti ragazzi ed essere ascoltato pur essendo giovane, è stata per me una grande scuola di vita. Spero davvero sia stato utile anche a tutti loro, uno per uno».

L’esempio che l’utilità c’è stata, e non solo quella, è arrivato direttamente a me a inizio 2021, ovvero quattro anni dopo l’incontro tra Harris e uno studente di prima media che ora affronta le superiori: «Ciao, mi fa piacere rivederti. Ma soprattutto, come sta Harris?», mi ha chiesto il ragazzo in un incontro fortuito per strada. Aggiungendo: «Sai che, nonostante sia passato tanto tempo, ricordo tutto di quello che ci siamo detti in classe? È uno dei ricordi più incisivi che porto dietro dalla scuola media».

Daniele Biella




Messico-Stati Uniti. «Bienvenidos a Tijuana»

testi Federica Mirto e Paolo Moiola |


È in Messico, a due passi dalla California. Da tempo le statistiche la pongono ai primissimi posti tra le città più violente del mondo. Eppure, a dispetto di tutti i problemi, Tijuana accoglie migranti da molti paesi. Come dimostra la presenza di varie associazioni d’aiuto, laiche e religiose.  Due di esse sono raccontate in queste pagine.

1/ La «Casa del migrante» degli Scalabriniani sui Sentieri del sogno.

Il centro di accoglienza dei missionari scalabriniani è più di un rifugio. È una casa. Piena di umanità e di sorprese.

Tijuana, la città più popolata del Messico (escludendo la capitale), è nota per essere la città di frontiera per eccellenza. È situata nello stato della Baja California e solo trenta chilometri la separano dalla ricca San Diego. L’influenza degli Stati Uniti è parte della storia di questa metropoli. Lo si percepisce dalla crescita del settore edilizio che cerca di imitare uno stile gringo, pur mantenendo forte l’identità messicana. Fino a una decina di anni fa, la città, grazie alla sua posizione strategica, era un luogo di passaggio, la gente arrivava e attraversava la frontiera, in tempi più o meno brevi.

Entrata principale della «Casa del migrante» di Tijuana. Foto Federica Mirto.

Tutti a Tijuana

Negli ultimi anni l’attrazione verso l’agognato sogno americano ha preso una piega più drammatica. A ricordarlo sono le croci bianche poste vicino al famoso muro a Las playas e non ultima la morte di un ragazzo cubano a fine marzo, affogato nell’intento di raggiungere la spiaggia di San Diego.

La complessità del fenomeno migratorio è aumentata e, negli ultimi anni, la città si è ritrovata a essere il punto di arrivo per tanti migranti e il luogo di rimpatrio per i deportati dagli Stati Uniti. I flussi migratori verso gli Usa non vengono coordinati da strutture pubbliche, statali o federali, ma da associazioni benefiche, la maggioranza religiose, che cercano di mettere ordine in un sistema d’accoglienza tanto generoso quanto caotico e inefficiente. Queste strutture, chiamate albergues, formano una rete solidale pronta ad accogliere famiglie, ragazze madri e migranti Lgbtq. Oltre a dare un posto letto e un pasto caldo, offrono servizi per aiutare gli ospiti migranti a integrarsi nella società. Gli albergues sono distribuiti soprattutto nella zona Nord della città, vicino al confine. Lavorano autonomamente mantenendo il contatto in caso di iniziative comuni di formazione o di protesta, come nei casi di marce organizzate contro la chiusura del confine o l’inasprimento delle politiche per i richiedenti asilo.

La grandezza di Tijuana sta nell’accogliere tutti. Ne sono testimoni le comunità di haitiani perfettamente integrate in un contesto linguistico e culturale diverso dalle proprie origini. Dopo il tragico terremoto che colpì Haiti nel 2010, gli haitiani erano la maggioranza dei migranti ospitati nei centri di accoglienza e, grazie al virtuoso lavoro dei volontari e degli operatori umanitari presenti nel territorio, sono riusciti a crearsi una comunità che dà vita anche a diverse iniziative culturali, inclusa una stazione radiofonica in lingua francese e creola (Radio haitiano en Tijuana).

Emergenza su emergenza

L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha, inevitabilmente, messo a dura prova le strutture di accoglienza che hanno dovuto reggersi quasi esclusivamente sulle capacità interne di sostentamento.

La Casa del migrante è uno dei centri di accoglienza più grandi della città. Aperta nel 1987 e gestita dalla congregazione degli Scalabrini, dispone di 140 posti letto che, prima dell’emergenza sanitaria del Covid-19, sono sempre stati occupati da migranti di sesso maschile. La Casa è un luogo accogliente e offre molti servizi, tra cui quello legale, psicologico e un percorso per l’inserimento al lavoro. Nell’arco del soggiorno, che, in media (ma ci sono eccezioni), è di trenta giorni, gli ospiti possono seguire dei corsi di formazione, usufruire del servizio medico, avere tre pasti giornalieri, oltre al posto letto. Le regole per l’ingresso sono chiare: ogni ospite deve collaborare nella pulizia giornaliera, in cucina e in altre attività richieste. Nel centro il tempo sembra immobile. A causa del Covid si può uscire solo per andare al lavoro, mentre tutte le altre uscite devono essere autorizzate dal personale. La routine è scandita da orari rigidi, la maggior parte dei residenti esce presto per andare a lavorare e torna la sera in tempo per la cena nella mensa. L’obiettivo del personale della Casa è quello di aiutare gli ospiti con le pratiche burocratiche e di fornire supporto nella ricerca attiva del lavoro affinché possano sostenere le spese per l’affitto una volta finito il soggiorno nella struttura.

Nonostante le chiusure per la pandemia, il lavoro a Tijuana non è mai mancato: i migranti trovano occupazione nell’edilizia, nelle lavanderie degli hotel, come addetti alla sicurezza o alle pulizie nei centri commerciali. Il problema principale rimane quello degli stipendi bassi, non proporzionati al costo degli affitti, molto alto, in aggiunta alla scarsa disponibilità di trasporto pubblico che costringe a non abitare troppo lontani dal luogo di lavoro.

Il Covid-19 ha colpito anche la Casa del migrante dove ci sono stati casi di positivi, prontamente individuati e isolati nelle stanze attrezzate per la quarantena e con bombole di ossigeno. Sono stati mesi duri. La regione della Baja California è stata tra le più colpite in Messico, ma la consapevolezza del collasso del sistema sanitario pubblico non ha sconfortato il direttore della Casa, padre Murphy (vedi sotto) che, con gli altri collaboratori, ha deciso di dimezzare gli ingressi e aprire le porte alle famiglie.

Barriera di separazione a Las Playas de Tijuana (ottobre 2020). Foto Federica Mirto.

Storia di Doris e Gerson

I migranti che viaggiano con i bambini sono in costante aumento. Non sono solo i nuclei familiari a mettersi in viaggio, ma anche giovani padri soli con figli piccoli e ragazze in stato di gravidanza avanzato, che portando con sé i figli sperano di avere più possibilità di cruzar (attraversare) il confine e non essere respinti.

Gli effetti a lungo termine della pandemia colpiranno soprattutto i ragazzi in età scolare perché le scuole pubbliche messicane sono chiuse da un anno e, anche se il centro fornisce una sala per giocare, educatori e aule con il computer, non tutti possono seguire le lezioni online. Senza dimenticare che molti minori arrivano analfabeti presentando disturbi del linguaggio e dell’apprendimento.

Per fortuna, i bambini si abituano facilmente a tutto. Per loro la Casa del migrante è un luogo sicuro dove ci sono attività quotidiane e persone che provano a colmare le loro lacune scolastiche. Per mesi, nella sala giochi, a insegnare a leggere e scrivere c’è stata Doris, honduregna di 35 anni con un master in finanzia e uno in pedagogia. Doris, con suo marito Gerson e i loro due bambini di 3 e 6 anni, sono stati ospitati nella casa per 5 mesi (da ottobre 2020 a febbraio 2021), sono scappati da San Pedro Sula nell’estate del 2019 a causa delle continue minacce ricevute dalla criminalità locale. In Honduras stavano bene, entrambi avevano studiato all’università e Gerson lavorava come ingegnere in una famosa compagnia di bevande, ma ultimamente anche le famiglie «normali» sono diventate un target per le gangs locali.

Le cause che spingono i migranti provenienti da Guatemala, Honduras ed El Salvador sono di origine politica, economica e ambientale, ma soprattutto sociale: le persone fuggono dalla violenza e da stati inadeguati e corrotti. Per molte famiglie la fuga rappresenta l’unica soluzione. Al tempo stesso, la pressione della minaccia comporta lo sviluppo di una resilienza naturale della quale sono portatrici soprattutto le donne. Infatti, più che il sogno di una vita negli Stati Uniti, esse cercano un luogo lontano dalla violenza che molto spesso subiscono sui loro corpi.

La sofferenza composta di Doris mi ha colpito più di altre: non si è lasciata mai andare, neppure quando ha saputo di aver perso la madre in Honduras e non poterle dare neppure l’ultimo saluto. Eppure, il giorno dopo era di nuovo pronta a dedicarsi ai bambini.

Migranti in difesa del diritto d’asilo, a Tijuana, ottobre 2020. Foto Federica Mirto.

Novelli Caronte

Prima di Tijuana, la famiglia di Doris è stata in viaggio per un anno. Gerson, suo marito, mi ha spiegato che non puoi più tornare indietro, una volta che sei riuscito a resistere a violenze di ogni sorta. La meta iniziale era Tamaulipas, lo stato messicano al confine con il Texas, ma anche lì sono stati vittime di estorsione e sequestro. Hanno provato due volte ad attraversare il confine mettendosi in contatto con i coyotes, i trafficanti di uomini che si fanno pagare fino a 12mila dollari per superare il confine.

I coyotes vengono trovati tramite passa parola, anche all’interno degli stessi centri di accoglienza, dove a volte riescono a entrare fingendosi dei migranti bisognosi, per reclutare persone promettendo passaggi sicuri di sola andata per gli Stati Uniti. I coyotes, chiamati anche polleros, sono dei moderni Caronte: traghettano le «anime» per denaro. Non solo per attraversare il confine Nord, ma per l’intera rotta migratoria che incomincia a Tapachula, nello stato del Chiapas, al confine con il Guatemala. La rotta dei migranti costituisce uno dei business più proficui per la criminalità locale.

A spiegarmi come funziona il lavoro dei coyotes è Gerson, che mi mostra i messaggi con cui si accordava sul pagamento: una parte viene pagata in anticipo e la seconda una volta arrivati sull’altro lato. Come prova della presunta affidabilità vengono mandati dei video di chi è riuscito a farcela. Anche loro, qualche mese prima, con un piccolo gommone di fortuna, hanno attraversato il Rio Grande riuscendo a entrare nello stato del Texas, per poi essere respinti dalla polizia di frontiera. Dopo l’elezione del nuovo presidente Joe Biden, fiduciosi in un repentino cambio di politiche migratorie, Gerson e Doris hanno ritentato. Questa volta via terra, senza paura di sfidare l’area desertica che separa il confine. Anche il secondo tentativo della famiglia è però fallito. Così, tornati alla Casa del migrante, hanno aspettato e sperato. All’inizio di marzo 2021, dagli Stati Uniti la loro richiesta di asilo è stata sbloccata e, finalmente, in aprile hanno avuto la possibilità di raggiungere dei familiari in Minnesota. Qui ha avuto inizio la loro nuova vita.

Un giovanissimo ospite davanti alla porta del refettorio della «Casa del migrante», a Tijuana, dicembre 2020. Foto Federica Mirto.

Storia di Moses

A tutt’oggi (almeno fino al 21 giugno 2021, ndr), il confine rimane chiuso. È da marzo 2020 che, in nome della sicurezza nazionale, non è più possibile entrare negli Stati Uniti. Inoltre, l’amministrazione Trump aveva strumentalizzato l’emergenza sanitaria per sospendere le richieste di asilo in corso, ma un cambio di rotta si sta avvertendo con la presidenza di Joe Biden.

La storia di Moses, forse più di altre, rappresenta la concretizzazione del sogno americano e della speranza di chi non ha mai perso la fede nel ritorno a politiche migratorie più umane. Il giorno dei risultati delle elezioni americane (a novembre 2020), tra lo scetticismo generale, era l’unico che saltava di gioia e mostrava orgoglioso la foto sul cellulare del neoeletto presidente Joe Biden e della sua vice Kamala Harris. Moses è un ragazzo di 32 anni originario del Ghana, unico ospite africano della Casa dove è rimasto per sei mesi. Era uno dei pochissimi che non parlava spagnolo e non aveva interesse a impararlo: dopo il lavoro preferiva leggere gli ultimi articoli sulla situazione politica e la legislazione americana in materia d’immigrazione. Ha lasciato il suo paese e suo figlio per inseguire il suo american dream e poter raggiungere il fratello nel Minnesota. Per lui gli Stati Uniti «sono un paese dalle illimitate possibilità sotto tutti gli aspetti della vita». Lo dice chiaramente: non è scappato perché il Ghana non sia un paese sicuro, ma perché vuole utilizzare i suoi studi in marketing, crescere a livello professionale e mandare i soldi alla famiglia. Nel 2017, con un biglietto aereo di sola andata, è arrivato a San Paolo in Brasile, dove ha lavorato per una compagnia per due anni. Ha poi intrapreso il lungo viaggio che lo ha portato fino a Tijuana. Moses ha seguito la rotta «tradizionale»: con un pullman è entrato in Nicaragua, poi in Guatemala tramite un coyote, una volta giunto a Tapachula, in Messico, è stato ospitato in un centro di accoglienza. L’attesa dei documenti per poter rimanere nel paese si è prolungata, ma senza demordere Moses è rimasto sei mesi nella città di frontiera del Sud per poi volare fino a Tijuana. Ci tiene a ripetere che non è stato facile, che ha studiato le leggi, che ha pregato e, soprattutto, che è stato perseverante. Uscito dalla Casa, il 27 gennaio 2021 con altri migranti che già avevano effettuato quel percorso, Moses ha attraversato il Rio Grande ed è entrato nel perimetro americano. Quando l’agente della polizia di frontiera gli ha chiesto di tornare indietro, ha continuato ad avanzare finché non sono stati costretti a portarlo alla stazione di frontiera dove è rimasto tre giorni per poi essere trasferito al South Texas detention complex di Pearsall, un centro di detenzione vicino a San Antonio. Dopo due mesi, si è presentato davanti alla corte senza essere rappresentato da un legale: il giudice gli ha approvato un visto temporaneo fino al 12 ottobre 2021, rinnovabile fino a quando si valuterà la sua domanda di asilo. Mentre al cellulare parliamo della sua nuova vita americana, mi manda una foto, quasi a dimostrarmi che bisogna sempre avere fede e non demordere. Come ha fatto lui che, al quarto giorno dal suo arrivo a Minneapolis, nel Minnesota, ha trovato lavoro presso la Smith Medicals, una compagnia che produce dispositivi medici, grazie alla segnalazione dei vicini di casa.

Un’ospite de El Salvador prepara le «pupusas», piatto tipico del suo paese. Casa del Migrante, Tijuana, novembre 2020. Foto Federica Mirto.

Doña Ricarda

Dentro la Casa, i vissuti e le storie vengono raccontate soprattutto nei momenti conviviali, come in cucina, quando le madri aiutano la cuoca della casa, doña Ricarda che, con lo sguardo, controlla come preparano i tamales e soprattutto, con il suo atteggiamento materno, ascolta, consola, consiglia e cerca di proteggere le sue niñas, come le piace chiamarle.

Federica Mirto*


Ritratto di padre Pat Murphy, direttore della «Casa del migrante» di Tijuana. Foto Casa del migrante-Tijuana.

Padre Pat Murphy

La soluzione? Una vita migliore

Il newyorkese padre Pat Murphy è direttore della Casa del migrante di Tijuana dal 2013. «La maggioranza delle persone arriva dal Sud del Messico e dall’Honduras. Con un desiderio in comune: scappare dalla violenza e dalla povertà».

Da tempo, sul fenomeno migratorio ha messo le mani la criminalità. «Sì – conferma padre Murphy -, perché questo è veramente un grosso affare. Il governo messicano non controlla e la corruzione è dilagante. Tutto ruota attorno al denaro». Gli chiediamo se, come missionari scalabriniani, collaborano con altri. «Naturalmente. Noi collaboriamo con la Chiesa locale e le altre chiese, anche se non tutti capiscono pienamente la sfida dell’emigrazione». Una sfida che, invece, è stata colta dal nuovo presidente statunitense. «Ma è presto per dire se con Biden la situazione sia cambiata. Noi però siamo pieni di speranza che le cose miglioreranno».

«Da anni io ripeto che la soluzione è molto semplice. Abbiamo necessità di sistemare le cose nei paesi di provenienza dei migranti affinché essi non abbiano necessità di emigrare. In altri termini, se si riuscirà a migliorare la vita al Sud, le persone non lasceranno le loro case».

Pa.Mo.

L’edificio che ospita il «desayunador» salesiano a Tijuana, città messicana sulla frontiera con la California. Foto Salesianos-Tijuana.

2/ Il «Proyecto salesiano» di Tijuana e i migranti

Tempi di resistenza

La pandemia ha complicato tutto: più bisognosi, meno donazioni, meno volontari. Anche per
i Salesiani della città di frontiera sono mesi duri. Ne parliamo con padre Leyva e Claudia Portela.

«A causa della pandemia abbiamo iniziato a offrire il cibo in scatole di polistirolo poiché le persone non possono mangiare nelle nostre strutture. Abbiamo realizzato una sorta di circuito che gli utenti sono obbligati a seguire prima di ricevere il cibo: si lavano le mani e si disinfettano con alcol. Soltanto dopo questa procedura preparatoria, ricevono una scatola con il cibo (bilanciato), la loro merenda (un pane o dei biscotti) e la loro bevanda (generalmente il caffè). Durante la pandemia abbiamo interrotto solamente il servizio di parrucchiere, ma adesso abbiamo ripreso anche quello. Come offriamo di nuovo le chiamate nazionali e internazionali gratuite».

Così raccontano padre Agustín Novoa Leyva, direttore del progetto salesiano di Tijuana, e Claudia Portela, amministratrice generale e coordinatrice del refettorio («desayunador salesiano padre Chava»).

Alle strutture dei Salesiani di Tijuana si presentano bisognosi di ogni tipo: persone senza fissa dimora (personas en situación de calle), migranti, deportati dagli Stati Uniti. «Nelle file per entrare nel refettorio – conferma Claudia – si possono incontrare uomini e donne di ogni età, bambini e adolescenti. Quelli che arrivano qui sono accettati indipendentemente dall’appartenenza, dall’età o dal sesso».

Con la pandemia, al refettorio salesiano di Tijuana, il cibo viene distribuito in contenitori di polistirolo. Foto Salesianos-Tijuana.

Nascita e servizi offerti

I Salesiani operano a Tijuana da 34 anni, ma il refettorio è nato 21 anni fa per merito del padre Salvador Romo Gutiérrez («padre Chava») coadiuvato dalla signora Margarita María Andonaegui Padilla. Ha iniziato a operare il 30 gennaio 1999 con 17 commensali che divennero presto 400 per due volte a settimana. Poi, 700 a fine 2001 e mille nel 2007 nella sede attuale. Dal 2010 il refettorio opera dal lunedì al sabato e serve tra le 1.200 e 1.500 persone al giorno. Numeri importanti, dunque.

«A chi bussa alla nostra porta offriamo da mangiare, servizio medico e psicologico, tagli di capelli, cambi d’abito, consulenza legale. Prima della pandemia, offrivamo seminari e avevamo accordi con le istituzioni locali affinché le persone potessero terminare gli studi o iniziare una carriera tecnica. Abbiamo anche un ostello maschile (albergue temporal), che attualmente ospita una trentina di uomini».

Tutti i servizi offerti dalle strutture salesiane sono gratuiti, anche per l’aiuto fondamentale dei volontari. «La maggior parte di quelli che lavorano alla mensa – spiega Claudia – sono volontari. Non abbiamo un numero esatto visto che ruotano sovente. Oggi, a causa della pandemia, il loro numero è diminuito, ma potremmo dire che ci sono circa 30 volontari permanenti».

Volontari salesiani (con mascherina) effettuano il servizio di barbiere per migranti e bisognosi, a Tijuana. Foto Salesianos-Tijuana.

I minori

Anche a Tijuana come altrove, il problema dei minori non accompagnati è una questione delicata. Padre Agustín e Claudia spiegano che, al centro, sono pochi i minori che si presentano da soli: la maggioranza arriva con un familiare o un altro accompagnatore. Quando accade che arrivino degli adolescenti, la cosa è problematica perché l’ostello salesiano è soltanto per adulti. Aperto nel 2010, l’ostello ha limiti di capienza e di permanenza. E regole precise: «Per essere ammessi è obbligatorio seguire alcune norme di convivenza. Tra queste, ci sono il non consumare droghe e alcol, aiutare nei lavori domestici e nel refettorio, attenersi agli orari di entrata e uscita».

Un ragazzo con un cappellino dei Salesiani di Tijuana. Foto Salesianos-Tijuana.

Biden e Kamala

Chiediamo un parere sul vicino di casa, sogno di tutti i migranti che arrivano a Tijuana. Il cambio alla Casa Bianca è visto con speranza. «A differenza della passata amministrazione – spiegano – , il governo di Joe Biden vede la questione dell’immigrazione come un problema delicato da affrontare quindi con molta attenzione. In primis, ha adottato politiche pubbliche più flessibili e umane». Approcci diversi da quelli di Trump, ma da verificare alla prova dei fatti.

Rispetto poi alle norme di protezione domestica, gli Stati Uniti – osservano i due interlocutori – dovrebbero addestrare i loro agenti a trattare con dignità e giustizia i migranti ma anche i criminali. Quanto ai migranti minori, entrati negli Stati Uniti al seguito di genitori privi di documenti, non hanno dubbi: «Non sono colpevoli. Dovrebbero avere la possibilità di legalizzare la loro posizione», spiegano.

In questi mesi i numeri ufficiali della migrazione verso gli Usa sono passati di record in record.

A inizio giugno, Kamala Harris ha compiuto il suo primo viaggio internazionale come vicepresidente Usa visitando il Guatemala (che, con Honduras e El Salvador, forma il «Northern triangle») e il Messico per promettere aiuti allo sviluppo che fermino il crescente esodo migratorio. Ma, soprattutto, per ripetere: «Do not come» (non venite!).

«Esiste una soluzione?», domandiamo a padre Agustín e Claudia. «La soluzione arriverà quando i governi dei paesi d’emigrazione miglioreranno le loro politiche, prendendosi cura dei propri cittadini e proteggendo i loro diritti. La maggior parte delle persone fugge per migliorare la qualità della vita, perché in patria non ha un lavoro o perché è minacciata o è costretta a far parte di bande criminali come nel Salvador. Solamente quando i governi affronteranno seriamente questi problemi, la migrazione potrebbe diminuire».

Sembra il classico uovo di Colombo, ma – volendo essere molto realisti -, questa soluzione richiede volontà politica, soldi e tempo. Avere tutto questo non pare né facile né immediato.

Paolo Moiola

Scarpe davanti al dormitorio della «Casa del migrante» tenuta dagli Scalabriniani di Tijuana. Foto Federica Mirto.

Fila di persone in attesa davanti al refettorio dei Salesiani di Tijuana. Foto Salesianos-Tijuana.