Turismo sostenibile:

viaggia, divertiti, rispetta / 1


Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2017 «Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo». Travel, enjoy, respect: viaggia, divertiti (o apprezza, come traducono i francesi), rispetta. Questo lo slogan che accompagna l’anno e le iniziative organizzate per mostrare come il turismo sia un fenomeno di dimensioni colossali, che può valorizzare oppure distruggere quello che tocca.

«Sarà stato lo scoiattolo morto nel mezzo del vialetto principale, o forse i pappagalli con le ali spuntate a darmi qualche indizio; oppure i due alberi sinistramente appesi all’entrata, come pirati alla forca, tragico monito per qualunque ribelle che osasse sfuggire alla persecuzione in questo cosiddetto rifugio verde». Così Asher Jay, ambientalista ed esploratrice del National Geographic iniziava sull’Huffington Post dello scorso ottobre, la descrizione del suo soggiorno al XCaret, un resort vicino a Cancun, in Messico, che si pubblicizza come il luogo dove «patrimonio culturale e amore per l’ambiente ti aspettano». E poi «bevande calde servite in bicchieri di schiuma di polistirene, dei quali persino il barista conosceva i potenziali danni per l’uomo e l’ambiente, spruzzate di insetticida prese accidentalmente in faccia mentre camminavo su un percorso natura»: tutti segnali di come il posto di naturale e incontaminato non avesse proprio nulla.

Resort come questo, prosegue Jay, sono stati costruiti a spese della natura e non sembrano avere alcuna fretta di ripagare il proprio debito con la terra. Al contrario, rincara l’autrice, ogni centimetro quadrato è attentamente progettato per far divertire turisti ignoranti sacrificando la cultura locale e risorse naturali insostituibili. Eppure, molti stabilimenti simili hanno l’etichetta «eco», e in tanti credono che lo siano.

Quella del turismo sostenibile è una sensibilità che si sta diffondendo, se è vero – come riporta un studio dello statunitense Centre for Responsible Travel che oltre la metà dei lettori della rivista Traveler di Condé Nast intervistati nel 2011 aveva dichiarato che la scelta dell’hotel è influenzata dal contributo che la struttura dà alla comunità e all’economia locale. Il 93% degli stessi lettori dichiarava inoltre che le aziende del settore turistico dovrebbero essere responsabili della protezione dell’ambiente. Un altro sondaggio realizzato nel 2012 fra gli utenti di Trip Advisor – il portale web di viaggi dove gli utenti condividono le loro recensioni su alberghi, ristoranti e attrazioni turistiche – rivelava che quasi tre quarti degli intervistati prevedeva di fare scelte più attente all’ambiente nei successivi dodici mesi.

Ma sebbene questa sensibilità stia avendo effetti concreti nell’orientare il mercato, situazioni come quella del resort di Cancun descritto da Asher Jay continuano a esistere e a creare danni all’ambiente e alle persone. E, guardando i volumi del turismo internazionale, il potenziale di quest’ultimo nel contribuire a devastare o, al contrario, a salvare il pianeta è decisamente non trascurabile.

Altro che crisi

A leggerli tutti insieme fanno impressione, i dati 2015 dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt): i viaggi di turisti internazionali sono passati dai venticinque milioni del 1950 al miliardo e duecento milioni di oggi, come se si fossero mossi gli abitanti di Europa, Stati Uniti, Giappone, Russia insieme, oppure tutta l’India. Le stime dell’Omt suggeriscono che la crescita continuerà fino a portare gli arrivi internazionali a 1 miliardo e ottocento milioni nel 2030.

Quanto al giro d’affari, fra il 1950 e oggi è passato da 2 a 1.260 miliardi di dollari all’anno, a cui si aggiungono i 211 miliardi in servizi di trasporto internazionale di viaggiatori non residenti, per un totale di circa 1.500 miliardi: una media di quattro al giorno. Combinando ulteriormente i dati sopra, vediamo che nel 1950 l’industria del turismo internazionale incassava in un anno la metà di quello che oggi riceve in un giorno e che ciascun arrivo genera nel paese ricevente circa 1.200 dollari di incassi. Nell’edizione 2016 del Panorama del turismo internazionale, l’Omt sottolinea che il settore turistico ha rappresentato circa il 10% del Pil globale e impiega un lavoratore ogni undici. Rappresenta inoltre il 7% delle esportazioni mondiali di beni e servizi, collocandosi al terzo posto dopo i carburanti e la chimica e prima delle industrie alimentare e automobilistica (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

L’Europa è il continente più visitato, con la metà degli arrivi. Prendendo i singoli paesi, al primo posto c’è la Francia, con 84,5 milioni di turisti, seguita da Stati Uniti, Spagna, Cina e Italia (50,7 milioni). Il paese che spende di più in viaggi all’estero è la Cina, con 261 miliardi di dollari, seguita da Stati Uniti, con 122 miliardi, Germania (81), Regno Unito (64) e Francia (41).

I dati sugli arrivi internazionali includono anche un 14% di persone che si spostano per motivi professionali e un 6% per le quali il motivo del viaggio non è noto. I viaggi per vacanza rappresentano circa la metà del totale, pari a 632 milioni di arrivi, mentre un quarto sono gli spostamenti per far visita ad amici e parenti, per un pellegrinaggio, per partecipare a un evento sportivo, per trattamenti sanitari e simili.

Quello che ciascuno di noi percepisce come tempo del riposo, della spensieratezza, della spiritualità o della cura degli affetti è, in aggregato, un fenomeno economico colossale che ha un impatto potente sulle persone, sui singoli luoghi e sul pianeta nel suo complesso

Turismo contro povertà

Il turismo, si legge sempre nel documento dell’Omt, rappresenta in molti paesi in via di sviluppo il primo settore di esportazione ed è in piena espansione: l’Africa è passata dai 15 milioni di arrivi internazionali del 1990 ai 53 milioni attuali, mentre l’Asia meridionale e sudorientale ha ricevuto 122 milioni di turisti contro i 50 milioni di arrivi di quasi tre decadi fa. Oggi il giro d’affari è pari a 30 miliardi di dollari per l’Africa e 140 per l’Asia e si prevede che da qui al 2030 nei paesi cosiddetti emergenti e in quelli in via di sviluppo aumenteranno gli arrivi internazionali al ritmo di 30 milioni all’anno, erodendo progressivamente la quota di Europa e Nord America.

Eppure, nonostante l’evidente potenziale del turismo come fattore di crescita, la quota di fondi dell’Aiuto pubblico allo sviluppo destinato al settore è solo dello 0,13% e l’aiuto per il commercio è limitato a mezzo punto percentuale.

Il dibattito era emerso già alla fine degli anni Novanta, con il cosiddetto pro-poor tourism, cioè un approccio che cerca di utilizzare il turismo come strumento per ridurre la povertà nelle comunità più emarginate dei paesi riceventi. Ma già dieci anni fa Caroline Ashley, dell’Overseas development institute, e Harold Goodwin, del Centro per il turismo responsabile dell’Università di Leeds sottolineavano come questo approccio non avesse dato i frutti sperati.

Innanzitutto, rimarcavano i due studiosi, le iniziative che coniugano turismo e riduzione della povertà sono rimaste piccole, episodiche e di nicchia, non sono state applicate al turismo di massa e non sono entrate nelle politiche nazionali dei paesi in via di sviluppo in modo stabile ed efficace. Inoltre, si sono spesso limitate a fornire formazione e a migliorare le infrastrutture ma non hanno mai davvero fatto i conti con il mercato creando un’offerta turistica che potesse incontrare una domanda.

Le due cose – espansione del settore turistico e aumento dei benefici per i poveri – sono rimaste separate. Da un lato, gli operatori dello sviluppo impegnati nelle comunità più marginalizzate con progetti che riguardano anche il turismo sanno poco o niente di mercati e di business e possono quindi dare un apporto solo molto limitato nel creare realtà di turismo sostenibile che siano anche efficaci dal punto di vista commerciale. Dall’altro, le compagnie turistiche che operano nei paesi in via di sviluppo si limitano a fare donazioni in loco come gesto di responsabilità sociale di impresa, ma in pochi si soffermano a chiedersi come potrebbero cambiare il modo di lavorare generando così vantaggi anche per le comunità locali.

Oggi, accanto alla definizione pro-poor tourism, ve ne sono molte altre per denotare un tipo di turismo rispettoso e consapevole della relazione con le persone e con l’ambiente che si instaura per il semplice fatto di recarsi in un luogo: turismo sostenibile, responsabile, etico, eco turismo, geo turismo, sono tutti termini che hanno al centro questa visione dello spostarsi e del viaggiare.

Turismo, è sostenibile?

I segnali incoraggianti non mancano: un caso molto citato di successo nel coniugare turismo sostenibile ed efficacia commerciale è quello della Costa Rica, il cui presidente è stato nominato dall’Omt Ambasciatore speciale dell’Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo. «Tradizionalmente considerato un esempio di impegno per l’ambiente», si legge nel comunicato stampa che annuncia la nomina, «la Costa Rica ospita il 5% della biodiversità del pianeta. Inoltre, il 25% del suo territorio è classificato come area protetta e il paese utilizza il 100% di energie rinnovabili per la produzione di elettricità». Una delle iniziative più degne di nota, continua il comunicato, è stata la creazione da parte dell’Istituto costaricano per il turismo della Certificazione di sostenibilità del turismo, che classifica e differenzia le compagnie turistiche con base nel paese a seconda del loro impegno per l’ambiente.

Altro esempio positivo, citato dalla stessa Jay nel suo articolo sull’Huffington Post, è quello della Riserva nazionale di Tambopata, in Perù. Kurt Holle, il fondatore della compagnia Rainforest Expeditions che gestisce tre lodge nella riserva, spiegava quattro anni fa al quotidiano The Guardian che le quasi duecento famiglie della locale comunità indigena Ese Ejja partecipano agli utili generati dalla compagnia ricevendo dividendi che hanno raddoppiato, triplicato e in alcuni casi quadruplicato il reddito delle famiglie. Il leader della comunità Elias Durand confermava al giornale britannico che i fondi vengono utilizzati anche per finanziare l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale per la comunità.

Ma, accanto a questi casi di successo, ce ne sono altri nel solco dell’esperienza massificata falso ambientalista di cui parlava Asher Jay. In particolare, vale la pena di citare il racconto di Costas Christ sul blog Intelligent Traveller di National Geographic: nel 1979, l’allora ventunenne viaggiatore zaino in spalla trovò una specie di paradiso nel Sud della Thailandia. Sull’isola di Ko Pha Ngan, racconta Costas, «mi imbattei nelle brillanti sabbie di Haad Rin, una perla tropicale la cui bellezza andava oltre ogni immaginazione. Rimasi lì un mese, vivendo di ciò che la natura mi dava. Disegnai una mappa della posizione della spiaggia e feci voto di non tradirne mai il segreto. Ma poi altri l’hanno scoperta e ora la mia spiaggia è il luogo del famigerato e assordante Full Moon Party», la festa della luna piena. Le immagini dello scempio generato da quella festa – orde di turisti danzanti sulla spiaggia, musica a tutto volume e, soprattutto, migliaia di bottiglie di plastica e altra spazzatura che ricoprono sabbia e bagnasciuga il giorno dopo – sono riprodotte nel documentario Gringo Trails, un lavoro del 2014 firmato dalla regista e antropologa della New York University Pegi Vail. Il documentario, che è stato proiettato in Italia a Firenze e a Bologna lo scorso maggio, riporta storie come questa di Haad Rin e altre, invece, capaci di valorizzare davvero i luoghi che si sono aperti al turismo, nel tentativo di rispondere alla domanda: il turismo sta devastando o salvando il pianeta?

Nell’attesa di trovare la risposta a questo interrogativo, vale la pena di citare la campagna di sensibilizzazione e informazione del World travel and toursim council, forum dell’industria del turismo e dei viaggi. Nella pagina Too much to ask? (toomuchtornask.org, è chiedere troppo?), il Wttc fa una lista di dieci suggerimenti – e chiede agli utenti di fare altrettante promesse – per rendere più sostenibile il nostro modo di viaggiare. Eccoli: richiedere la sostenibilità, rispettare le persone e le culture, risparmiare l’acqua, limitare l’uso della plastica, comprare locale, proteggere gli animali, rispettare la storia, compensare il proprio impatto, informarsi e far sentire la propria voce dopo il viaggio, anche per diffondere le informazioni su chi, davvero, fa del turismo una risorsa per lo sviluppo.

Chiara Giovetti
(prima puntata – continua)

 




Guerra alle armi:

una lotta impari ma necessaria


Spesso lo dimentichiamo, ma l’articolo 11 della nostra Costituzione recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Per dar corpo allo spirito costituzionale, nel 1990 è stata approvata una legge, tuttora in vigore, la n. 185/90, che vieta le esportazioni di armi in paesi in guerra o che violano i diritti umani e impone alle aziende produttrici di armamenti, così come alle banche che ne appoggiano le transazioni, di fornire al parlamento dati completi sulle operazioni, quali il tipo di arma, il paese destinatario, il valore, ecc. La legge è stata il risultato di un’ampia e tenace mobilitazione del mondo pacifista, soprattutto cattolico: in prima linea nella campagna «Contro i mercanti di morte» c’erano Pax Christi, le Acli, Mani Tese e gli istituti missionari.

Dentro il palazzo, parlamentari attenti e sensibili avevano studiato l’argomento e, confrontandosi con la società civile, hanno messo a punto un provvedimento all’avanguardia. Tra costoro c’era l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in tutti questi anni ha sempre difeso la legge di fronte ai tentativi, a volte riusciti, di renderla meno restrittiva.

La normativa italiana è talmente avanzata da aver ispirato il dibattito e l’approvazione in sede Onu del Trattato mondiale sul commercio delle armi.

A dispetto di norme e accordi internazionali, il commercio delle armi è però in continua crescita e i dati relativi al 2016, pubblicati all’inizio del 2017 dal Sipri, il prestigioso Stockholm Peace Research Institute, attestano che la spesa militare mondiale ammonta a 1.676 miliardi di dollari, circa l’1% in più dell’anno precedente.

Se si guarda al dato pro capite, per ogni abitante della terra si spendono in armi 228 dollari l’anno, molto di più di quello che si spende per salute e istruzione.

Quello che è forse meno noto è che i maggiori importatori sono paesi che hanno in corso guerre o che non rispettano i diritti umani: Arabia Saudita, India, Cina, Turchia, Pakistan, ecc.

Sul fronte delle esportazioni, il 74% proviene da cinque paesi: Usa, Russia, Cina, Francia e Germania.

Il paradosso sta nel fatto che nella classifica dei primi dieci ci sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e quattro dei membri a rotazione nel biennio 2016/ 2018, tra cui l’Italia.

Il che significa che tutte le decisioni del Consiglio di Sicurezza che riguardano la «legittimità» delle guerre o gli embarghi verso paesi totalitari sono prese dai maggiori produttori ed esportatori di armamenti.

Fa notare Anna Mcdonald, direttrice di Control Arms, una coalizione non governativa europea: «Alcune delle principali crisi che il Consiglio di Sicurezza deve fronteggiare, ad esempio il conflitto che insanguina lo Yemen, sono state provocate e vengono mantenute dai suoi stessi membri, vendendo armi alle parti in conflitto».

Anche se nell’Unione europea e nel Nord America, la spesa per la difesa registra una lieve diminuzione, le 100 principali aziende produttrici di armi, la maggioranza delle quali ha sede in Usa e in Europa, hanno visto aumentare il loro volume di affari del 43% negli ultimi dieci anni. Alle imprese storiche, se ne aggiungono di nuove, con sede in Brasile, India, Sud Corea, Turchia, che oggi offrono i loro prodotti agli acquirenti esteri.

Il mercato mondiale delle armi è florido, ma i suoi costi umani, sociali e ambientali non vengono messi in conto né dai governi né dalle imprese.

Un gruppo di associazioni italiane ha presentato un esposto a diverse procure per violazione della legge 185 perché dall’Italia vengono spedite armi all’Arabia Saudita che le utilizza per bombardare lo Yemen.

La ditta produttrice è la Rvm Italia, controllata interamente dal gruppo tedesco Rheimetall. Lo stabilimento si trova a Domusnovas in Sardegna, regione da cui avvengono le spedizioni, documentate con foto e video dai movimenti pacifisti. Lo scorso maggio, la Fondazione finanza etica ha partecipato all’Assemblea degli azionisti di Rheinmetall (possiede il numero minimo di azioni) per chiedere conto delle migliaia di bombe prodotte in Italia e sganciate sui civili yemeniti (si tratta di 19.675 ordigni per un valore di 32 milioni di euro), ma ha ricevuto una risposta chiara: «L’azienda segue i propri interessi commerciali».

Interessi commerciali che prevalgono anche in Leonardo-Finmeccanica (partecipata al 32% dal ministero dell’Economia) che si colloca al nono posto nella classifica mondiale delle imprese armiere.

Sabina Siniscalchi

 




I Perdenti 26. Anita Garibaldi


Anita nacque in Brasile, a Morrinhos nello stato di Santa Catarina, il 20 agosto 1821. Il suo nome completo era: Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, figlia del gaucho (mandriano) Bento Ribeiro da Silva e di Maria Antonia de Jesus Antunes che ebbero tre figlie e tre figli. Battezzata Ana, era chiamata in famiglia Aninha, diminutivo di Ana in portoghese. Sarà in seguito Garibaldi ad attribuirle il diminutivo spagnolo di Anita, con il quale noi la conosciamo. Negli splendidi panorami della sua terra e nelle ampie distese della pampa imparò presto a cavalcare e sin dalla sua adolescenza dimostrò di avere un carattere forte e deciso. Nel 1834 la sua famiglia si trasferì nella cittadina di Laguna, sempre nello stato di Santa Catarina, dove purtroppo pochi anni dopo trovarono la morte il padre e i tre fratellini a causa di una epidemia di tifo. Un suo zio, al quale dopo la morte del padre si era molto affezionata, la iniziò agli ideali di giustizia sociale, in un paese governato con il pugno di ferro dai governatori dell’impero luso-brasiliano.

Nel 1835 scoppiò la rivolta dei farroupilha, ossia la rivolta degli straccioni. La sommossa popolare segnò profondamente l’animo di Anita, che guardava con ammirazione i ribelli, sognando di poter un giorno compiere le loro stesse gesta. Il 22 luglio 1839, i rivoltosi conquistarono la città, e gran parte degli abitanti di Laguna si recarono in chiesa per intonare un Te Deum di ringraziamento al Signore, tra loro c’era Anita. Fu in quell’occasione che vide per la prima volta Giuseppe Garibaldi, presente insieme agli altri protagonisti della rivoluzione. Il giorno seguente i due si incontrarono di nuovo, lui la fissò intensamente e le disse: «Tu devi essere mia». Da quel momento Anita sarebbe diventata la compagna fidata di tutte le battaglie di Garibaldi e la madre dei suoi figli.

Anita, sembra quasi che sin dalla più tenera età tu fossi destinata ad avere un ruolo da protagonista sia nella storia del Brasile e dell’Uruguay come nella storia del Risorgimento italiano…

Il merito va tutto a mio zio Antonio, che dopo la morte del mio povero babbo mi prese sotto la sua protezione, insegnandomi fin da bambina ideali di libertà e giustizia. Egli seppe trasmettermi il suo atteggiamento responsabile di fronte ai problemi sociali che andavano delineandosi, facendomi capire che non si poteva rimanere neutrali di fronte ai soprusi che venivano compiuti dai prepotenti di turno.

Ma il tuo non fu un atteggiamento di semplice simpatia e di sostegno solo teorico verso i più deboli…

Una volta assunta la causa degli oppressi, passai subito nelle truppe degli insorti e insieme ad altre donne del popolo combattemmo al fianco dei nostri uomini. Il compito a cui più spesso ero assegnata era quello di difendere le casse di munizioni, sia durante gli attacchi navali che negli scontri a fuoco che si susseguivano a terra.

Ma il 12 di gennaio del 1840, nella battaglia di Curitibanos, fosti fatta prigioniera dalle truppe imperiali luso-brasiliane…

Già, ma il comandante commise un errore fatale, in quanto mi concesse di dare sepoltura ai cadaveri dei miei compagni rimasti sul campo di battaglia. Io, approfittando di un momento di distrazione delle guardie, afferrai un cavallo e riuscii a fuggire.

Quell’anno fu particolarmente importante per te e per il tuo Giuseppe, che voi chiamavate Josè.

Direi proprio di sì. Il 16 settembre 1840 nacque il nostro primo figlio al quale demmo il nome di Domenico. Sarebbe stato chiamato Menotti per tutta la sua vita, in onore del patriota modenese Ciro Menotti.

Poche settimane dopo il parto, tu Anita riuscisti a sfuggire avventurosamente a una nuova cattura.

I soldati imperiali avevano circondato la nostra casa e ucciso gli uomini lasciati da Garibaldi per la difesa, cercando di farmi prigioniera, ma io, con mio figlio in braccio, saltai da una finestra, montai a cavallo e fuggii nel bosco. Rimasi nascosta nel fitto della boscaglia per quattro giorni, con il neonato al petto, finché Garibaldi e i suoi mi ritrovarono. Dovevi vedere con che tenerezza il mio Josè portava il piccolo Menotti in un foulard a tracolla riscaldandolo con il calore del suo corpo durante la ritirata nella sierra.

Però gli avvenimenti si susseguivano implacabili: nel 1841, essendo divenuta ormai insostenibile la situazione militare della rivoluzione brasiliana, tu e Garibaldi prendeste congedo da quella guerra e vi trasferiste a Montevideo, capitale dell’Uruguay.

Quella che doveva essere una tappa passeggera della nostra vita si trasformò in un’avventura che segnò non poco le nostre esistenze. In Uruguay restammo sette anni, durante i quali Garibaldi si guadagnò da vivere per mantenere la nostra famiglia impartendo lezioni di francese e di matematica.

A Montevideo coronaste anche religiosamente il vostro legame di vita.

È vero, il 26 marzo 1842 ci sposammo nella parrocchia di San Francesco d’Assisi. Nel 1843 nacque Rosita, che purtroppo morì a soli 2 anni, nel 1845 Teresita e nel 1847 Ricciotti quarto e ultimo figlio.

Al di là delle vostre vicissitudini familiari, pensi che l’esperienza latinoamericana, vissuta in modo così intenso da Garibaldi, vi abbia preparato a vivere il Risorgimento italiano?

Penso proprio di sì. Le vicende vissute dal mio Josè in Sud America hanno dell’incredibile. La sua epopea latinoamericana durò una dozzina d’anni di cui sette in Uruguay e cinque in Brasile. In Uruguay erano gli anni della guerra civile (1840-1852), che vide il Blancos (sostenuti dall’Argentina) e Colorados (sostenuti da francesi e inglesi) combattere sanguinose battaglie. Garibaldì formò e comandò la legione italiana schierata con i Colorados. Tutto questo senza mai rinunciare alla tenerezza reciproca, all’affetto della famiglia e alla nostra love story.

È per l’impegno profuso in quegli anni che poi Garibaldi si guadagnò la nomea di «Eroe dei due mondi».

Sì, si può dire che Garibaldi, in Brasile prima e in Uruguay poi, fu un condottiero muy valiente. Le sue vittorie militari si realizzarono per terra (tra scontri campali e ardite azioni di guerriglia) e per mare (fu ufficiale della marina uruguaiana sul Rio de la Plata e nei fiumi che lo generano). Era ai nostri occhi un vero libertador di stampo sudamericano, casualmente nato a Nizza.

Però nel 1848, alla notizia delle prime rivoluzioni europee, il tuo Josè nonostante le lusinghe che gli facevano i governanti uruguayani affinché rimanesse, ti imbarcò con i figli su una nave diretta a Genova con destinazione finale Nizza dove fosti ospitata da sua mamma, mentre lui si fermò per sistemare le ultime cose e vi raggiunse con un altro bastimento qualche mese più tardi.

L’accoglienza che ci riservò la mamma di Josè fu straordinaria, l’abbraccio che diede a me e ai suoi nipoti era carico di amore e tenerezza. Ospitati nella sua casa attendemmo di settimana in settimana l’arrivo di Garibaldi, ma quando lui giunse, accompagnato da un sessantina dei suoi legionari, si fermò poco tempo. Infatti avevano portato la notizia che il 9 febbraio 1849 a Roma era stata proclamata la Repubblica Romana, ed egli voleva raggiungere la città eterna con un corpo di volontari che erano subito accorsi per mettersi ai suoi ordini.

E tu lo seguisti?

Qualche tempo dopo decisi di raggiungerlo. Arrivai a Roma in tempo per assistere alla sconfitta che i volontari romani guidati da Garibaldi fecero subire ai francesi. Purtroppo in quella battaglia restarono sul terreno centinaia di morti. A seguito di quello scontro venne stabilita dalle due parti una tregua con scadenza il 3 giugno. In realtà i francesi stavano preparando una trappola per guadagnare tempo e fare arrivare altri rinforzi.

Quindi che successe dopo?

Quando ripresero i combattimenti, la superiorità francese era evidente a tutti e, nonostante la strenua resistenza dei volontari italiani sul Gianicolo, a poco a poco le forze della Repubblica Romana persero terreno, finché il 4 luglio 1849, venne decisa la resa.

Garibaldi però non si arrende e decide di andare con tutti coloro che intendevano seguirlo a Venezia che ancora resiste agli austriaci. Sebbene inseguito dai corpi di spedizione di quattro eserciti inviati dalla Francia, dalla Spagna, dall’Austria e dal Regno delle due Sicilie, Garibaldi riesce a condurre in salvo i suoi uomini nel territorio straniero di San Marino dove scioglie la sua brigata di volontari. Anita in quei giorni è febbricitante e, sebbene incinta, segue il marito a cavallo. Lo segue anche nella cavalcata verso Cesenatico. Quando vi giunge è letteralmente consumata dalla febbre. Garibaldi con duecento seguaci cerca di raggiungere Venezia con delle imbarcazioni da pesca. Ma le navi austriache che controllano il litorale adriatico impediscono di proseguire. Alcune barche si arrendono, altre si avvicinano a terra. Tra queste quella di Garibaldi e Anita, che cercano di sfuggire agli austriaci che li cercano. I garibaldini si sparpagliano su strade diverse per sfuggire alla caccia dei soldati austriaci e dei gendarmi pontifici.

Garibaldi rimane solo con Anita e con il fedelissimo Capitano Leggero. Nelle valli di Comacchio i fatti precipitano. La donna perde conoscenza. Pur braccati dai nemici, Garibaldi e Leggero con l’aiuto di amici fidati caricano Anita su una piccola barca e poi, su un vecchio materasso, la trasportano nella fattoria Guiccioli in località Mandriole di Ravenna, dove cercano disperatamente di rintracciare un medico, il quale accorre immediatamente ma può solo constatare che Anita è spirata: è il 4 agosto 1849. Anita non ha ancora ventotto anni. La sua avventura umana, storica e sentimentale accanto a Giuseppe Garibaldi è durata appena undici anni.

Don Mario Bandera


Errata-corrige: la foto a pagina 72 MC non rappresenta Garibaldi e Anita, ma Garibaldi con la seconda moglie, Francesca Armosino, che gli diede tre figli.




Ora sai che sei amata

Sono dodici anni ormai. Il sangue non si arresta nemmeno di notte. Lo senti fluire continuamente, a volte goccia a goccia, a volte abbondante. È un’emorragia che ti svuota.

Da tempo non pensi ad altro. Non ti senti più tu, ti vergogni a uscire per strada, ti chiedi continuamente il perché. E hai visto le persone care allontanarsi.

Hai cercato la guarigione per molte vie: sei passata da una terapia a un’altra, da un medico a un altro, senza tralasciare alcuna opzione alla tua portata. Ma lo svuotamento non si è fermato.

Oggi sei scesa in strada perché hai sentito dire che c’è un uomo straordinario nel tuo villaggio. Qualcuno dice che è il medico più bravo mai visto, alcuni che è un mago, altri un profeta.

Ti infili tra la gente, cerchi di non farti notare perché gli sguardi indiscreti sul tuo corpo ti feriscono. Quasi subito ti senti soffocare. Quando decidi di tornare a casa ti si apre un varco e lo vedi.

Uno dei capi della sinagoga, Giairo, è ai suoi piedi, lo prega di salvare la figlia in fin di vita. Lui lo prende per mano, lo solleva e gli chiede di fargli strada. Pensi che di fronte a una figlia morente la tua emorragia non sia importante, e rinunci a chiedere aiuto, ma, quando l’uomo si avvicina, cedi all’impulso di toccarlo.

Gli sfiori appena il mantello, e subito senti che il flusso si ferma.

Sei stupita e confusa. E quando senti quella voce domandare alla folla chi avesse toccato il suo mantello, ti spaventi.

Vorresti sparire, ma il suo sguardo ti cerca.

Di nuovo quell’impulso ti prende e ti spinge avanti. Ti getti ai suoi piedi e senti la tua bocca pronunciare parole che non hai mai detto nemmeno a te stessa. Non descrivono la patologia del sangue, ma la tua vita. Senti che lo sguardo di quell’uomo ha il potere di tirare fuori da te la tua verità. E l’osservi mentre l’accoglie.

Lui ti prende la mano e ti solleva. Ti riconosce: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5,25-34).

Subito pensi che sei già guarita, poi capisci che il tuo male non era l’emorragia.

Ora sai che sei amata.

Buona estate da amico,

Luca Lorusso




Di “Banca Etica” e una domanda: “Siete ancora cattolici?”


Etica o non etica?

Carissimi Missionari,
Vi scrivo dopo aver letto l’articolo vergognosamente autocelebrativo di Sabina Siniscalchi riguardo Banca Etica (MC 04/2017 pag. 22), entità di cui posso dire qualcosa essendo stato membro del Git (Gruppo di Intervento Territoriale) di Novara durante il triennio 2011-2014 (oltre che socio singolo di Libera) le cui vicende non ho mai smesso di seguire riservandomi di scrivervi ancora per esaurire l’argomento, in più è diventata la banca d’appoggio del M5S quindi ha fatto il suo ingresso in politica.

Parto da quel «di Banca Etica fa parte Etica sgr…». Chiariamo subito, Banca Etica è azionista di maggioranza (da circa due anni detiene il 51%) di Etica sgr che venne fondata il 5/12/2000 grazie alla partecipazione dei seguenti soci:

– Banco Popolare di Milano (Bpm), secondo azionista col 24,44%;
– Cassa Centrale Bcc nordest,10,22%;
– Banca Popolare dell’Emilia Romagna (Bper), 10%;
– Banca Popolare di Sondrio (Bps), 9,87%.

Bene cominciamo subito col chiarire che ritroviamo ogni anno Bpm, Bper, e Bps incluse nelle tabelle del Mef delle cosiddette Banche Armate, così note ai partecipanti del mondo etico. Paradossale poi che Bper abbia ricevuto fondi anche per gli arcidiscussi F-35. Banca Etica a Novara faceva parte del coordinamento no F-35 insieme alla partner Libera.

A queste aggiungiamo Bcc Cernusco sul Naviglio che viene indicata da Etica sgr tra i promotori dei «fondi etici».

Proprio tra questi collocatori ancora adesso vediamo ben due banche coinvolte in inchieste per mafia: la Bcc di Borghetto Lodigiano e la ancora più famigerata Bcc sen. Grammatico di Paceco (a sua volta tra quelle convenzionate col M5S per il famoso microcredito) commissariata per infiltrazioni mafiose il 16 novembre dopo 6 anni di indagini e dopo che nel 2013 avvennero i primi sequestri di beni. Questa vicenda meriterebbe un servizio a sé.

Sempre a proposito di mafia ricordo che Banca Etica è stata, insieme ad Unipol e Banca prossima, tra le principali finanziatrici della cooperativa 29 Giugno di Salvatore Buzzi e che Libera sui suoi bollettini indicava sempre Unipol e Banca Etica, anche sponsor dei Circoli Arci. Vogliamo rinfrescarci la memoria solo sulle vicende Bpm ancora in corso? Ci fu il caso dell’«obbligazione» convertendo 2009-2013 che vide 15.000 risparmiatori perdere tra il 50 ed il 70% del capitale investito, mentre nel 2012 Ponzellini, da presidente della Banca, venne arrestato durante l’inchiesta sui finanziamenti all’Atlantis Plus di Corallo, processo ancora in corso. Poi, il 17/04/2015 arriva la condanna per anatocismo. Ma il dato più clamoroso, e su questo per ora chiudo, è che la gestione dei fondi etici è stata affidata a quell’Anima Sgr di cui dovremmo sentire parlare tutti i giorni essendo stata creata grazie all’accordo (oltre che con Clessidra sgr) con un certo Monte dei Paschi di Siena più Credito Valtellinese + … Banca Popolare di Etruria e Lazio.

In seguito parleremo dei fondi etici e delle argomentazioni che possono scaturire da un’approfondita analisi del mondo etico. Grazie

Matteo Spaggiari
Novara, 12/04/2017

Ricevuta questa email, ci è sembrato giusto girarla immediatamente a colei che aveva scritto l’articolo incriminato.


La risposta di Sabina Siniscalchi

Egregio Sig. Spaggiari,
dalla nostra anagrafica non risulta che lei sia stato socio di Banca Etica, pertanto non può essere stato componente del Git di Novara, tuttavia rispondiamo ugualmente alle sue pesanti critiche per rispetto dei lettori di Missioni Consolata.

Banca Etica ripudia la guerra e da sempre offre ai propri soci e clienti la garanzia che il loro risparmio non viene investito in imprese che operano nel settore degli armamenti. Anche Etica Sgr, società del Gruppo, adotta da sempre severi criteri per la scelta degli investimenti, tra cui la totale esclusione di società coinvolte nella produzione di armamenti o parti di essi. 

Ma il nostro impegno è anche quello di fare pressione sul resto del mondo bancario, per questo siamo stati tra i promotori della campagna «banche armate», di tante altre iniziative contro la guerra e gli armamenti, incluso, come lei stesso ricorda, il coordinamento contro gli F-35 di Novara.

Questa azione è complessa e faticosa, ma non ci siamo mai esentati dal portarla avanti pur tra mille difficoltà. Anche la compartecipazione di altre banche in Etica sgr – società di cui abbiamo il pieno controllo detenendo il 51% delle azioni e nominando la maggioranza dei consiglieri – ha proprio questa funzione di contaminazione e di influenza perché si producano cambiamenti significativi nel sistema finanziario e delle imprese.

La nostra azione di persuasione morale ha già prodotto risultati concreti: le banche socie di Etica Sgr hanno adottato politiche sugli armamenti che includono la piena trasparenza e la graduale dismissione dal comparto, alcune di esse figurano ancora nella relazione ministeriale ex legge 185 (che è sempre più opaca come denunciano i nostri amici di Rete Disarmo) perché hanno acquisito banche più piccole operanti nel settore.

Potremmo accontentarci di fare bene il nostro mestiere, vale a dire la finanza etica, chiuderci nella nostra nicchia e non farci contaminare da nessuno, ma la nostra aspirazione, quella dei nostri soci e dei nostri clienti, è ben più grande: è la volontà di impegnarsi per cambiare un sistema che produce ingiustizia e sofferenza.

Uscire dal guscio comporta tanta fatica e qualche errore. A tale proposito le segnalo che  la magistratura ci ha espresso sincero apprezzamento per la collaborazione offerta nell’inchiesta Mafia Capitale che non ci ha visto tra i colpevoli, ma tra le vittime.

Nel 2016, Banca Etica ha realizzato un utile di 4 milioni e 318 mila euro (l’utile del Gruppo raggiunge i 6 milioni), ha raccolto 1 miliardo e 227 milioni di risparmio con un incremento del 15% rispetto all’anno precedente e ha concesso 970 milioni di finanziamenti a progetti di sviluppo sociale e ambientale: si tratta di risultati piccoli rispetto ai volumi della finanza tradizionale, ma sono il segnale che un’altra finanza è possibile.

Finisco col dirle che Banca Etica non è controllata né dai 5 Stelle né da nessun altro partito o movimento politico, ma è orgogliosa di essere una banca cooperativa in cui gli oltre 40.000 soci contano tutti allo stesso modo – secondo il criterio di una testa/un voto – indipendentemente dalle quote di capitale possedute; proprio questi soci, partecipando alla vita della banca attraverso i Git, ci aiutano a non tradire mai la nostra missione e i nostri valori.

Sabina Siniscalchi

Siete ancora cattolici?

Gentile Redazione,
ho letto il giusto richiamo ai lettori a sostenere le spese di stampa e spedizione per la rivista. Premetto di sapere di non essere un lettore/finanziatore modello. […] Fatto sta che io la rivista la ricevo, la leggo e la faccio anche leggere. Vorrei fare però delle considerazioni. Con spirito costruttivo. […]

Dunque, io dopo varie vicissitudini sono arrivato (anzi dovrei dire tornato) ad accogliere il cristianesimo (ovviamente cattolico e romano, da italiano) in maniera convinta e oserei dire anche filiale. So cosa vuol dire essere scettici e critici verso il clero cattolico, perché lo sono stato anch’io. Non ho paura della critica anche perché alla fine permette di smascherare le menzogne. Ma trovo che nel mondo ecclesiale ci siano certi partiti presi, e certe posizioni che richiedono di mettere i puntini sugli «i».

Sono tempi in cui c’è chi sostiene che Gesù non abbia mai detto nulla contro l’omosessualità e con ciò imbastisce una sua pseudo teoria dell’accoglienza dei gay. Poi abbiamo chi dice che Gesù va interpretato perché non diceva cose universali, ma inserite nel suo tempo e con ciò imbastisce una pseudo pastorale del mondo moderno.

Per quanto riguarda la stampa missionaria italiana lo scenario è desolante (pensando alla situazione di solo 10 anni fa). Popoli ha chiuso. Africa ha cambiato redazione e si è subito esibita nell’elogio del matrimonio omosessuale. Ora sul sito di Missioni della Consolata vedo una bella bandiera arcobaleno a sette colori (per fortuna!). Ma perché non spiegate quale è la differenza con la bandiera arcobaleno a 6 colori? Almeno si eviterebbe la confusione di credere che la rivista si vuol far riconoscere come gay friendly. Voglio sperare che sia così, vero? Non crede che ci sia già una gran confusione in giro e che il clero debba fare chiarezza secondo il mandato di Gesù?

Nella rubrica «Insegnaci a pregare» di gennaio leggo: «Chi scrive, e quasi certamente chi legge, proviene da una formazione catechistica deformante che ci ha educati più all’ateismo pratico che allo spirito del Vangelo», ecc. Ma insomma è mai possibile che il culto di questo benedetto Concilio Vaticano II arrivi al punto di tale disprezzo dell’esercito di buoni cristiani che hanno tramandato la fede ai propri figli, amici e compaesani? Non è che don Farinella si sia un po’ montato la testa a credere di poterne sapere più di una nonna che insegna il rosario ai nipotini perché lui ha la laurea al Biblico di Roma? Ma si rende conto di cosa sta dicendo? È veramente sicuro lui di saperne di più di pedagogia? Mi sembra che l’insegnamento di Gesù suggerisca di dar più retta alla nonna pia che al plurilaureato in teologia.

Vivo in Germania e quindi sono immerso nel cattolicesimo critico, talmente critico che si elogiano tutti gli altri tranne la Chiesa Cattolica sempre presa di mira dai «teologi» (chissà perché hanno studiato tutti a Tübingen…). Qui da me guai a citare il KKK (Catechismo della Chiesa Cattolica). È tutto un «cercare», «sentire lo spirito», «rimanere in ascolto», ma mai e poi mai si deve poi trovare o sentire qualche cosa. Salvo che lo abbia sentito e trovato qualche «teologo» […].

Lascio stare i retroscena e le «manovre» riguardo al passato Sinodo della famiglia e relativo documento venuto dopo. Parlo dei retroscena che ho visto e vissuto e che abbondantemente superano la soglia di lealtà verso chi crede che in 2000 anni di cristianesimo, innumerevoli martiri e santi abbiano da insegnare qualche cosa di più dell’ultimo «teologo». Il quale sì «ha coraggio e fede nello Spirito» (ci dice don Farinella), mentre i catechisti di prima erano tutti storditi e non sapevano di essere complici di «un clero incapace (sic!) che ha dato vita a una catechesi inadeguata guardando più alla quantità che alla qualità».

Vorrei sapere se il mio sperare in una rivista di sicuro indirizzo cattolico è ben posto perché sinceramente tutta questa «catechesi al contrario» è di una noia mortale.

Ho una figlia di undici anni e, dopo aver parlato con la responsabile della pastorale della parrocchia e con l’insegnante scolastica di religione, ho deciso di prendere i tanto vituperati catechismi e trasmettere a lei l’Abc della fede. Mi vanno bene tutti i catechismi, dall’ultimo compendio a quello tridentino, che, fino a prova contraria, hanno ottenuto più risultati in quantità e qualità dei «teologi» che hanno studiato pedagogia.

Mi scusi lo sfogo, ma non se ne può più. Un po’ di umiltà non farebbe male. Per il resto la rivista è sempre più di geopolitica (adesso come adesso l’aspetto che preferisco), sociologia, relazioni internazionali, ma sempre meno di formazione Cristiana (il sottotitolo è ancora Rivista missionaria della famiglia). Sono capaci tutti a dare la colpa agli altri. Potrei andare avanti ma forse sono già stato troppo noioso e mi fermo qui. Faccio la mia offerta ma sono alquanto deluso, anche se speranzoso. Cordiali saluti

Andrea Sari
21/04/2017

Caro Sig. Andrea,
ho pubblicato la sua lettera dall’A alla Z. Ho cercato di comprendere il disagio che lei prova e cerco di rispondere con la sua stessa franchezza.

Avrà visto che ho cambiato il fondo del link allo sfogliabile per evitare equivoci. Ma ho pensato: «Cavolo, mi hanno rubato l’arcobaleno!». Sarà che sono stato abbastanza fuori dall’Europa, ma l’arcobaleno a me ricorda sempre e solo quello di Noè (Gen 9) ed è un motivo di gioia, anche se ai miei amici keniani dava tristezza perché «portava via la pioggia».

Le pagine di don Paolo Farinella fanno certamente discutere per alcuni suoi commenti sulla vita della Chiesa, ma offrono soprattutto il pane buono e solido della Parola di Dio trattando i lettori da cristiani adulti nella fede (vedi 1 Cor 3,1-3 in parallelo con Eb 5,13-14).

Quanto al Vaticano II, mi sembra che in realtà succeda il contrario di quanto lei scrive: lo si rifiuta nel nome della «Tradizione» della Chiesa. Ma quale «Tradizione»? Non è forse una scelta di parte quella di prendere dalla «Tradizione» quello che piace? Accogliere lo spirito del Concilio è essere innestati nella fede antica e solida della Chiesa per viverla nell’oggi e non è certo disprezzare la fede semplice e genuina della «nonna». Ce ne fossero ancora tante di quelle nonne. Vorrei avere io la fede genuina, forte e operosa che ho visto vivere da persone che fanno parte della mia infanzia.

A oltre 50 anni dal Vaticano II, si può dire senza paura che quel concilio è stato un grandissimo avvenimento di grazia per la Chiesa e appartiene a pieno titolo all’autentica «Tradizione». Vi parteciparono oltre 2.000 vescovi di tutto il mondo, un papa che ora è santo, un altro che ora è beato, e altri tre futuri papi, di cui uno, Giovanni Paolo II, anch’egli santo e un altro che ha poi fatto la scelta coraggiosa e inedita di dimettersi. Hanno sbagliato tutto? Sono stati meno «Tradizione» dei 25 vescovi e 5 superiori generali presenti all’inizio del Concilio di Trento nel 1545 o dei 255 dell’ultima sessione del 1563?

Quanto a noi cerchiamo di essere profondamente ancorati alla Parola di Dio e all’insegnamento della Chiesa, di cui il Vaticano II è un pilastro. E lo facciamo con amore e passione per la Chiesa, ringraziando lo Spirito di vivere in questo nostro tempo di Grazia.

Nella rivista, siamo coscienti di correre il rischio di essere troppo sociali, ma siamo convinti che l’autentico annuncio del Vangelo deve tener conto di «tutto l’uomo», non solo della sua dimensione spirituale. Nello stesso tempo non ci siamo mai tirati indietro nell’affrontare argomenti che riguardano la fede e la vita della Chiesa.

Cerchiamo di servire la verità nella carità senza seguire la moda o cercare popolarità, consci di non essere tuttologi e di avere tanto da imparare. Grazie.




Insegnaci a pregare 5. «La preghiera è un bisogno di Dio»


Tralasciando il livello delle ovvietà superficiali, dopo avere scoperto l’importanza della preghiera nella vita di Gesù il quale, come ciascuno di noi, in essa ha cercato la direzione della propria vita – perché anche lui «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (Lc 2,52) -, proviamo ad approfondire, andando più in alto fino a toccare il lembo del mantello di Dio. Finora abbiamo visto alcuni atteggiamenti, peraltro appena abbozzati, riguardo alla preghiera dal nostro punto di vista, cioè dal punto di vista umano, che comprende anche quello di Gesù. Ci possiamo chiedere: pregare che senso ha dal punto di vista di Dio? È una domanda pericolosa perché mette in evidenza che noi pensiamo Dio come «oggetto» della nostra preghiera: «terminus ad quem», cioè destinatario. Siamo sicuri che sia sufficiente? Se Dio è «Padre», deve esserci necessariamente una reciprocità affettiva tra noi e lui. Se così è, bisogna considerare la preghiera anche dal punto di vista di Dio.

Anche Dio prega

Confesso che questi interrogativi, in un primo momento, mi sono parsi un’assurdità, pur restando indiscutibile la prassi di Gesù che prega «sempre». L’idea che Dio prega crea un problema enorme per noi, anche dalla prospettiva teologica. Un giorno scoprii un testo della tradizione ebraica, un Targùm, che mi tolse ogni dubbio, modificando radicalmente il mio approccio alla preghiera, il mio pensiero su di essa e anche la mia prassi che oggi cerco di vivere e spiegare nei limiti delle mie capacità. Cosa significa pregare dal punto di vista di Dio? In che cosa consiste la sua preghiera? Forse questo è un aspetto che non abbiamo mai valutato.

Gesù vive la sua vita all’insegna della preghiera, specialmente nel Vangelo di Lc (cfr. Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 11,1; cfr. Mt 26,26.36). La preghiera è una pietra miliare che segna il percorso e la distanza tra lui e il Padre (cfr. Lc 3,21; 9,29; 22,42), e lo aiuta a capire e verificare se la direzione della sua esistenza è davvero in sintonia con la volontà del Padre.

L’AT contiene anche riferimenti all’attitudine di Dio alla preghiera. Esaminiamone due aspetti: la preghiera come desiderio umano di vedere Dio e la preghiera come «bisogno» di Dio di vedere l’Assemblea orante.

A – «Fammi vedere il tuo volto»

Mosè è il punto di partenza per capire il senso della preghiera come aspirazione che si consuma nella visione e non nella contrattazione. Il desiderio espresso da Mosè – che è l’anelito universale di conoscere Dio – è descritto come esperienza di vita che raggiunge il suo vertice nella visione del volto di Dio. Mosè sa che il Dio dell’Esodo non può essere imprigionato nelle categorie della religione perché di lui non si può possedere nemmeno il «Nome» (cf Es 1,14). Può essere desiderato, ma non visto, gli si può parlare, ma senza vederne il volto. È un «Dio vicino» (Dt 4,7), ma anche un «Dio terribile» (Dt 10,17; Sal 68/67,36). Nessun Ebreo può aspirare a «vedere» Yhwh senza sperimentare la morte: chiunque vede Dio muore; «tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20).

In Es 3 si racconta la visione del roveto ardente. Appena Mosè si rende conto di essere in una terra consacrata al Dio della montagna «El–Elohìm», è preso dal terrore e deve togliersi i sandali fatti con pelli di animali morti e quindi sorgente d’impurità (cf Es 3,5). Appena la voce si manifesta come «Dio», Mosè si butta faccia a terra perché ha paura di morire. «Disse: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6; 19,12.31; Lv 16,1-2; Nm 4,2; Is 6,3; Gdc 13,22). Il timore di «vedere Dio» e di morire persiste anche nell’Apocalisse, perché l’autore cade «come morto» (cfr. Ap 1,17) appena vede il «Figlio d’uomo» (Ap 1,13), ma, come nell’AT, riceve la garanzia della sopravvivenza.

Il tema della paura di Dio si sviluppa e si evolve lentamente perché in Dt 5,24 che riflette la teologia del sec. VII a.C. si legge: «Oggi abbiamo visto che Dio può parlare con l’uomo e l’uomo restare vivo» (cfr. anche Gdc 6,22-23). Il desiderio di Dio, comunque, è più forte della paura della morte, perché Mosè, – a cui «il Signore parlava […] faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11), senza però potere essere visto -, esprime l’anelito del profeta che porta in sé il bisogno dell’umanità intera:

«13Ora, se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi, indicami la tua via, così che io ti conosca e trovi grazia ai tuoi occhi; considera che questa nazione è il tuo popolo”. 14Rispose: “Il mio volto camminerà con voi e ti darò riposo”. 15Riprese: “Se il tuo volto non camminerà con noi, non farci salire di qui. 16Come si saprà dunque che ho trovato grazia ai tuoi occhi, io e il tuo popolo, se non nel fatto che tu cammini con noi? Così saremo distinti, io e il tuo popolo, da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra”. 17Disse il Signore a Mosè: “Anche quanto hai detto io farò, perché hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome”. 18Gli disse: “Mostrami la tua gloria!”. 19Rispose: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia”. 20Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. 21Aggiunse il Signore: “Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: 22quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. 23Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere”» (Es 33,13-23).

Il dialogo tra Dio e Mosè è un continuo rincorrersi, un tentativo di sfuggirsi: Mosè chiede di conoscere la via e Dio risponde promettendo che il volto suo camminerà con lui; Mosè implora di «vedere la Gloria-Kabòd» e Dio promette di fare passare davanti a lui «tutta la mia bontà», mentre proclama il «Nome». Questa ambivalenza di «vicinanza/lontananza» permane nella preghiera in sinagoga, ancora al tempo di Gesù.

La versione greca della LXX di Es 33,13 esprime una richiesta indicibile, alla lettera: «manifesta te stesso a me, emphànison-moi seautòn», laddove il testo ebraico ne smorza l’audacia: «hod‘ènì-na’ ’et derakèka, fammi conoscere la tua via», oppure la «tua Gloria – ’et kebodèka» (Es 33,18). In Es 33,19 Dio promette a Mosè di far passare davanti a lui tutto lo splendore del suo «bene, tòb», mentre proclamerà il proprio Nome. Il grande esegeta ebraico medievale Rashì commenta che Dio consegna a Mosè la visione di sé nella preghiera fondata sul merito dei Padri, cioè sulla preghiera corale, espressione del senso dell’Assemblea che comprende anche gli antenati. Quasi a dire che quando noi preghiamo, anche in solitudine, non siamo mai soli, perché sempre la nostra preghiera è corale, ecclesiale. Ecco il testo di Rashì:

[Corsivo nostro] «“Farò passare innanzi a te…”. È giunto il momento in cui tu puoi vedere della Mia gloria quello che ti consentirò di vedere, perché Io voglio e debbo insegnarti un formulario di preghiera. Quando tu hai bisogno di implorare la Mia misericordia per Israele, ricorda a Me i meriti dei loro Padri, perché, come ben sai, se sono esauriti i meriti dei Patriarchi, non c’è più speranza. Io, dunque, farò passare tutta la Mia bontà dinnanzi a te, mentre tu ti trovi nella grotta» (Rashi di Troyes [1040-1105], Commento all’Esodo ad Es 33,19, pp. 320-321).

B – «Fammi sentire la tua voce»

In Es 33,22 Mosè è nascosto da Dio nella «cavità della rupe», coperto dalla mano di Dio che si mostra di spalle. Il richiamo della «cavità della rupe» rimanda espressamente al Cantico dei Cantici, dove il giovane amante appassionato e frenetico cerca disperatamente di vedere il volto dell’innamorata: «O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole» (Ct 2,14). Nel testo biblico è l’innamorato che sospira la visione dell’amata, mentre il Targùm (traduzione in aramaico durante la preghiera in sinagoga del testo letto in ebraico), trasforma l’innamorato in Dio-sposo che arde di passione per la sua sposa-Israele. Il testo che segue era letto in sinagoga al tempo di Gesù:

[Corsivo nostro] «E quando l’empio Faraone inseguiva il popolo d’Israele (Es 14,8ss), l’Assemblea d’Israele fu come una colomba chiusa nelle spaccature di una roccia: e il serpente cerca di colpirla dal di dentro, e l’avvoltornio di colpirla dal di fuori. Così l’Assemblea d’Israele: essa era chiusa dai quattro lati del mondo: davanti a loro il mare, dietro a loro inseguiva il nemico, e ai lati, deserti pieni di serpenti infuocati, che colpiscono e uccidono con il loro veleno i figli dell’uomo. Subito, allora, essa aprì la sua bocca in preghiera davanti al Signore (Es 14,10); e uscì una voce dai cieli dell’alto, che disse così: Tu, Assemblea d’Israele, che sei come colomba pura, nascosta nella chiusura di una spaccatura di roccia e nei nascondigli dei dirupi, fammi udire la tua voce (cfr. Esodo Rabba XXI, 5 e Cantico Rabba II, 30). Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, e bello è il tuo volto nelle opere buone» (cfr. Mekilta Es 14,13).

La tradizione giudaica (Targùm a Ct e Rashi a Es 33) apre una prospettiva davvero interessante: al desiderio del profeta Mosè di vedere Dio e al desiderio dell’innamorato del Cantico di vedere il volto della sposa, il Signore risponde non solo insegnando le regole della preghiera (v. il tallìt più sotto), ma supplicando la santa Assemblea di dare a lui stesso, a Dio, la possibilità di contemplare il volto di Israele quando prega.

Si ribaltano i ruoli: non è più solo l’uomo che desidera vedere Dio, ora è Dio che vuole contemplare il volto dell’assemblea/sposa nell’atto della preghiera, perché nella preghiera si consuma la conoscenza che diventa estasi e contemplazione: l’amore. Quando noi preghiamo è Dio che contempla noi e arde dal desiderio di vedere il nostro volto. Pregare non vuol dire solo invocare Dio, nemmeno compiere uffici o proclamare lodi e neppure ringraziare Dio: tutto ciò è parte ancora di un rapporto esteriore. Pregare nella sua essenza più mistica e assoluta è rispondere al bisogno di Dio di ascoltare la voce amabile della sua sposa-Assemblea e di contemplarne il volto splendente di opere buone.

A tutto questo bisogna prepararsi perché un evento di tale portata non s’inventa e non s’improvvisa. La «preghiera» è un lavoro, un impegno – sì, un pondus/fatica – perché ci permette di esercitare il ministero dell’amore che si mette a disposizione di Dio che non può vivere senza «vedere» l’Assemblea orante. Qui è il fondamento ecclesiale della preghiera. Ci si riunisce in Assemblea liturgica perché essa è il volto che Dio anela contemplare, e solo in essa riceviamo la grande opera buona della Parola-Carne che noi restituiamo a Dio che la ridona a noi in benedizione e forza di vita. Altro che accendere una candela o recitare uno stiracchiato «Pater» o dire un miserevole e distratto «Rosario», doveri devozionali più che esigenze di vita.

L’esperienza di Mosè e il Targùm a Ct ci dicono che se, come i Greci di Gv 12,20-21, «vogliamo vedere Gesù», dobbiamo uscire dal mondo materialista della religione in cui siamo impigliati e di cui forse siamo schiavi, per salire in alto sulla montagna di Dio, dove trovare la fenditura nella rupe da cui ascoltare Dio che chiede di sentire la voce nella nostra preghiera. La prima missione con e per il Risorto, in un mondo distratto e frastornato, è la preghiera: non preoccupiamoci tanto di «vedere» Dio o di chiedere soluzioni ai problemi della vita perché «il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno» (Mt 6,32), quanto piuttosto di lasciarci vedere da Dio, dandogli la gioia di poterci contemplare mentre preghiamo, mentre dichiariamo il nostro amore e condividiamo la nostra passione nella Santa Assemblea.

In un contesto come quello del mondo odierno, dove l’efficienza è il mòloch della modernità, i testimoni diventano l’uomo e la donna che pregano, cioè coloro che sanno e vogliono perdere tempo in una duplice direzione: davanti a Dio e davanti agli uomini e alle donne di oggi. Pregare è perdere tempo per Dio e per l’umanità, esperienza che solo gli innamorati sanno comprendere perché sono gli unici che sanno perdere tempo per amore, con amore e nell’amore, ben sapendo che non è mai «tempo perso». C’è una differenza abissale tra «perdere tempo» e «tempo perso». Il primo è atteggiamento attivo, scelta motivata dalla presenza di un altro che è il senso e la pienezza della propria esistenza; il secondo è passivo e quindi subito, spesso senza coscienza e con distrazione. Chi ama perde tempo, ma non si perde mai.

Nella prossima puntata, approfondiremo lo «Shemà’ Israel» come preghiera di Dio al suo popolo e la forma della preghiera ebraica che riesce a sintetizzare lontananza e vicinanza di Dio anche nelle formule oranti, così come sono state scoperte negli scavi vicino a una sinagoga del Cairo, in Egitto.

Paolo Farinella, prete
 [5 – continua]


Il tallìt di Dio

Il midràsh Ròsh Hashanàh – Capodanno 17b, con una trasposizione retrospettiva, attribuisce a Dio stesso l’invenzione del tallìt, lo scialle bianco con strisce blu che copre il capo e le spalle degli uomini durante la preghiera quotidiana. Il midràsh narra che Dio in persona si manifestò a Mosè avvolto nel tallìt allo scopo d’insegnargli come avrebbe dovuto pregare ogni Israelita orante in futuro, e mentre si manifestava proclamava i tredici attributi di Dio elencati in Es 34,6-7: 1. Signore; 2. Eterno; 3. Dio; 4. Pietoso; 5. Misericordioso; 6. Longanime; 7. Ricco di benevolenza; 8. Ricco di verità; 9. Conserva il suo favore per mille generazioni; 10. Perdona il peccato; 11. Perdona la colpa; 12. Perdona la ribellione; 13. Colui che assolve.

Perché «13»? La risposta è rivelazione di un mistero grande e straordinario. Secondo la Ghematrìa o Scienza dei numeri che applica una regola esegetica ebraica, a ogni consonante dell’alfabeto (nell’ebraico biblico scritto le vocali non esistono, ma sono solo pronunciate) corrisponde un numero. Poiché il nome di Dio, «Yhwh» ha valore di 26, il numero 13 è esattamente la sua metà; anche la parola «’ehàd – uno» ha valore di 26. Non solo, ma il termine «amore – ’ahavàh» ha il valore di 13, esattamente quanti sono gli attributi di Dio. Parafrasando ironicamente potremmo dire che per fare «Dio – Yhwh» (= 26) occorre un «amore» (= 13) più le qualifiche/attributi di Dio stesso (=13) perché «Dio è Amore – ho theòs Agàp? estìn» (1Gv 4,8). Allo stesso modo, quando un uomo e una donna si uniscono per formare una «sola carne», fondono l’amore maschile che vale 13 e l’amore femminile che vale 13 e solo insieme esprimono «immagine e la somiglianza di Dio» (cf Gen 1,27), partecipando alla vita divina che è uguale a 26. Celiando, dal punto di vista umano, si può dire che per fare un Dio occorrono due amori fusi in uno. Chi ama porta in sé la metà di Dio e le sue qualifiche, e unendosi all’altra metà che è la persona amata forma un’unità sola, come uno è Dio.

Questa misteriosa unione mistica avviene nella preghiera, che è il «luogo» dove l’amore si fa carne e Dio si rende visibile perché lo Sposo può finalmente «vedere» la voce della Sposa e toccare il «Lògos/Verbo della vita» (1Gv 1,1). Qui è il fondamento della sacralità del rapporto sessuale che, se visto in questa chiave, è la preghiera suprema che manifesta alla «coppia-uno» il volto e la gloria di Dio-unico. Quando si parla di «chiesa domestica» è questo che s’intende: l’amore coniugale è la preghiera più alta perché è l’altare dove il volto di Dio/Yhwh (= 26) che è Uno (= 26) si esprime e si fonde nell’unità della coppia (= 13+13) che così diventa la manifestazione orante del volto di Dio.


Applicazione ecclesiale: Eucaristia dal Mistero alla banalità

Nella Chiesa cattolica ogni domenica si celebra l’Eucaristia, cui partecipa una parte non rilevante del popolo dei battezzati, nella stragrande maggioranza formata da persone anziane. In alcune chiese si trovano «messe a ogni ora» o quasi e tutte sono identiche, parte di una routine abitudinaria che si snoda nel tempo, nei mesi, negli anni, nei secoli. Eterno ritorno di un dovere da compiere, senza alcun anelito e aspettativa. Più un obbligo giuridico, da codice canonico che un’esigenza esistenziale di vita, un bisogno insopprimibile dello Spirito. «Finita la Messa», quasi un pedaggio da pagare, si ritorna agli affari della vita, come prima. Nulla è cambiato, tutto si ripete. L’Eucaristia, il «mistero» di Dio e della Chiesa, è ridotto a pratica di devozione e precetto obbligatorio. Pochi si rendono conto di cosa accade «prima, durante e dopo» l’Eucaristia. Proviamo a capire cosa dovrebbe essere per un credente.

L’Eucaristia è una convocazione dello Spirito che raduna l’Assemblea al monte della Parola (cf Is 2,1-5), simboleggiato dall’altare, a sua volta segno di Cristo risorto. La convocazione esige un’adesione, una risposta perché siamo nel contesto vocazionale: l’Eucaristia è la risposta alla chiamata, alla vocazione profetica di rispondere al Dio che convoca. Nessuno prende l’iniziativa da sé, ma, rispondendo all’anelito di Dio che ha bisogno di «vederci e sentirci», ognuno parte dalla propria diaspora, dalla propria individualità e s’incammina verso «il raduno storico ed escatologico» che si realizza attorno alla mensa imbandita, dove sono pronti la Parola, il Pane, il Vino, la Fraternità, la Profezia, la Storia. Rispondendo alla chiamata di Dio che convoca all’Eucaristia, diventiamo compimento della profezia di Ezechiele, perché a noi sono rivolte le parole del disegno di Dio:

«24Vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. 25Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, 26vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36,24-26).

Non si partecipa all’Eucaristia per adempiere un precetto o peggio ancora «per non fare peccato», ma per essere simbolo e segno del raduno delle genti e del desiderio di Dio di santificare il suo Nome, annunziando davanti al mondo la santità di Dio, cioè la sua natura di Dio amante:

«23Santificherò il mio nome grande, profanato fra le nazioni, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le nazioni sapranno che io sono il Signore – oracolo del Signore Dio -, quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi» (Ez 36,23).

Ogni credente consapevole, nel giorno del Signore, rispondendo al Dio che convoca, come Abramo, lascia la propria casa, la propria solitudine e le cose; e «parte» (Gen 12,1-4) verso il luogo del raduno, nuova terra promessa, dove si compie l’evento sponsale tra Dio/Sposo fremente di desiderio di «vedere e ascoltare» l’Assemblea/Sposa, ardente di essere amata. La Parola di Dio proclamata diventa così la Profezia rinnovata e annunziata al mondo, il Pane e il Vino diventano i segni della fragilità e della comunione, la fraternità assume la caratteristica di un «testamento» dichiarato e firmato davanti all’umanità distratta da altri interessi e nella quale siamo chiamati a ritornare per essere lievito, sale, luce, in una parola testimoni.

 

 




I perdenti 25. Dietrich Bonhoeffer


Dietrich Bonhoeffer nacque il 4 febbraio 1906 a Breslau (Breslavia), nella regione della Slesia, allora territorio tedesco (dopo la II Guerra mondiale la città sarebbe ritornata a far parte della Polonia con il nome di Wroc?aw, dopo quattro secoli di dominio austriaco, prussiano e nazista). Il padre Karl era un professore di Neurologia e Psichiatria, la madre Paula, cristiana fervente, dedicava molta cura e molto tempo all’educazione dei suoi otto figli, quattro maschi e quattro femmine. Quando Dietrich aveva sei anni, la famiglia Bonhoeffer si trasferì a Berlino. I suoi genitori frequentavano la Chiesa luterana, ma con un’impostazione sostanzialmente laica e positivista. Il giovane Dietrich, invece, si avvicinava alla religione con animo pieno di inquietudine e di ricerca. Per cercare una risposta alle sue aspirazioni personali e spirituali, dopo il liceo decise di intraprendere gli studi teologici. Una scelta che avrebbe inciso profondamente nella sua vita.

Caro Dietrich, all’inizio della nostra chiacchierata, puoi dirci come maturò in te, dopo le scuole superiori, la scelta di iscriverti alla Facoltà di teologia?

Per rispondere alla tua domanda è necessario fare un passo indietro: avevo sedici anni quando, la mattina del 21 giugno 1921, mentre ero a scuola nel ginnasio di Grunewald, mi giunse l’eco degli spari che, a poca distanza dall’istituto, uccisero Walter Rathenau, ministro degli Esteri, davanti alla porta di casa. Fu allora che iniziò il mio turbamento: cominciai a domandarmi quale futuro potesse avere una Germania che assassinava i suoi figli migliori e quale risposta potessi dare io.

In famiglia come accolsero la tua decisione?

La mia vocazione allo stato religioso fu accolta in casa con una certa sorpresa, considerata più come una scelta curiosa che come una risposta a una vocazione. Secondo i miei genitori lo studio della teologia era una strada che non portava da nessuna parte, non offrendo sbocchi occupazionali né tantomeno lavorativi.

Tu però non la vedevi così…

No, anzi, durante i miei studi nelle Facoltà teologiche prima a Tubinga e poi a Berlino, maturai delle profonde convinzioni che avrebbero avuto una forte incidenza sulle mie scelte politiche successive.

L’ambiente universitario quindi influenzò e fece maturare la tua lettura della realtà del tuo tempo…

Fui molto colpito dalla teologia dialettica e dal pensiero del teologo protestante svizzero Karl Barth. Leggendo e approfondendo i suoi scritti, aumentai di molto il mio bagaglio teologico. Terminai i miei studi laureandomi nel 1930 con una tesi sulla Chiesa, dal titolo «Sanctorum communio», diventando allo stesso tempo pastore luterano e ottenendo a soli 24 anni l’abilitazione per la docenza universitaria.

Quale fu il tuo primo incarico accademico?

Dal 1931 al 1933, insegnai all’Università di Berlino, dove mi sforzai di coinvolgere gli studenti in un approccio innovativo alla teologia, teso a sensibilizzare le coscienze, in modo particolare sulla situazione politica della Germania di allora.

Nel tuo programma accademico avevi qualcosa di specifico da offrire ai tuoi studenti?

La mia fissazione come insegnante di teologia era la Chiesa, intesa come concreta comunità di uomini, che, in quanto tale, ha il dovere di calarsi nella realtà e combatterne le distorsioni, per realizzare una società giusta e fraterna, estranea a ogni tipo di odio e di violenza.

In quegli anni anche la tua famiglia faceva scelte in disaccordo con l’ideologia nazista che però guadagnava consensi sempre più ampi in tutta la Germania…

La mia opposizione sempre più forte al nazismo nasceva proprio dall’ambiente familiare. Basti pensare ai contatti che avevo con Gerhard Leibholz, il giovane di origine ebrea sposato con mia sorella gemella Sabine. Essi, nel 1933, lasciarono la Germania a seguito delle prime leggi razziali emanate dalla dittatura di Hitler, rifugiandosi negli Stati Uniti.

Questo ti aiutò a prendere coscienza della depravazione presente nell’ideologia nazionalsocialista e cominciasti a reagire di conseguenza…

Compresi la grande aberrazione dell’antisemitismo e presi posizione pubblicamente contro la «clausola ariana» che era stata inserita negli statuti della Chiesa protestante, imposti dal regime nazista. Scesi in campo in prima persona per denunciare l’allucinante deriva del potere politico in Germania.

Che scelte facesti allora per contrapporti all’ideologia nazista?

Mi schierai con la cosiddetta «Chiesa confessante», cioè quella parte della Comunità evangelica protestante che aveva imboccato la via della resistenza al regime, e cominciai a organizzare seminari e corsi di studio per far conoscere la situazione in cui ci trovavamo. In più mi misi all’opera per stabilire contatti con l’estero, affinché fosse sostenuta la resistenza tedesca.

Immagino che il regime nazista non restò a guardare ciò che facevi…

I miei interventi pubblici furono lentamente ma inesorabilmente ostracizzati, in particolare quando, partecipando a una trasmissione radiofonica, accusai pubblicamente Hitler di essere «un seduttore». Immediatamente fu interrotto il programma e chiusa l’emittente radiofonica. L’interferenza del regime nella mia vita, col tempo, diventò sempre più capillare e invasiva, finché nel 1936 mi venne proibito di insegnare e, in seguito, di predicare e di scrivere.

Non ti restava molto spazio per svolgere le tue attività…

Alla fine del ’33 mi trasferii a Londra per fare il pastore e per svegliare le coscienze nei confronti del rischio che correva l’Europa di fronte al nazismo. Nel ’35 tornai in patria, ma le mie amicizie con gli ebrei e il mio impegno nelle file dell’opposizione erano noti a tutti. Fu quello il periodo in cui iniziarono i vari provvedimenti contro di me.

Nell’estate del 1939 riparai negli Stati Uniti, ma vi restai solo poche settimane prima di tornare nuovamente in Germania. L’amore per il mio popolo e la mia coscienza mi impedivano di stare a guardare mentre il mio paese precipitava nell’orrore e nella guerra ormai imminente.

Tornasti nonostante i pericoli che sapevi di correre. Puoi dirci che successe al tuo rientro?

Una volta rientrato in Germania, mi unii al gruppo di resistenza sorto attorno all’ammiraglio Wilhelm Canaris, impegnato a cercare una via d’uscita che evitasse il disastro totale della nazione tedesca, ma il 5 aprile 1943 fui arrestato dalla Gestapo. Iniziava così il mio calvario in varie prigioni del Reich.

Incarcerato, trovasti ugualmente il modo di scrivere lettere e appunti che, dopo la guerra, sarebbero stati pubblicati in un libro dal titolo «Resistenza e resa», un raro esempio di coerente adesione ai principi di libertà, patria, democrazia, pace, dialogo, ascolto dell’altro…

Nelle pagine scritte in prigione, tracciai alcune linee guida del mio pensiero teologico, cercando di illustrare la necessità di approfondire il mistero di Dio e il mistero dell’uomo, sforzandomi di mostrare come una vita con Dio e per Dio, con gli uomini e per gli uomini, sia il più alto valore della fede cristiana.

Scritti rivelatori di una vicenda umana e cristiana esemplare…

Io credevo fermamente nei valori della comunità, come necessaria risposta religiosa all’esistenza, come luogo del rispetto reciproco, e in quelli dell’interiorità che nessuna tirannia – men che meno quella nazista – può violare. E tutto ciò lo gridai con forza al mondo intero.

In tutti questi avvenimenti, oltre all’appoggio della tua famiglia, ne avevi un altro che ti stava particolarmente a cuore…

Quattro mesi prima del mio arresto, nel gennaio 1943, mi fidanzai con Maria von Wedemeyer, una giovane diciottenne tedesca che amai teneramente, ma che non potei sposare.

Dopo un breve passaggio nel campo di concentramento di Buchenwald, Dietrich Bonhoeffer fu trasferito nel lager di Flossenbürg presso Monaco. Là, dopo un processo farsa, fu condannato a morte e impiccato il 9 aprile 1945, a 39 anni, insieme all’ammiraglio Canaris, per espresso ordine di Hitler. Nei mesi che precedettero il crollo finale del nazismo, e che seguirono il fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944, anche altri suoi familiari furono uccisi, quali dissidenti del regime: suo fratello Klaus Bonhoeffer, i mariti delle due sorelle Christine e Ursula, Hans von Dohnanyi e Rudiger Schleicher, con loro Ernst von Harnack, parente e frequentatore del circolo musicale in cui il gruppo clandestinamente si riuniva. Dal 1998, la sua statua è collocata in una nicchia della facciata dell’abbazia di Westminster, in Inghilterra: tiene in mano una Bibbia, ed è in compagnia, fra gli altri, di Martin Luther King, del vescovo Oscar Romero, di san Massimiliano Kolbe, in un ecumenismo del martirio, più eloquente di qualsiasi solenne dichiarazione.

Don Mario Bandera

 




RD Congo. Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile


Dagli anni Novanta i missionari della Consolata sono presenti fra i Pigmei Bambuti di Bayenga, nella Repubblica Democratica del Congo. Dal 2007 l’équipe missionaria può contare su padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata di origine spagnola. Nell’inverno scorso è stato in Camerun a osservare il lavoro che i Fratelli delle scuole cristiane portano avanti nel paese con i Pigmei Baka nel campo dell’istruzione.

Mezzo milione di persone distribuite fra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Rwanda, Burundi e Uganda: queste le dimensioni della comunità pigmea secondo le stime riportate da Survival International, organizzazione che si occupa della difesa dei diritti dei popoli indigeni in tutto il mondo. Si tratta di un popolo che vive a stretto contatto con la foresta, spesso al suo interno, vivendo di caccia e raccolta. Il rapporto con le vicine popolazioni bantu, maggioritarie, è difficile: un po’ per lo scontro antico fra chi, come i Pigmei, la foresta la vive come casa, rifugio e riserva di cibo e chi, invece, la taglia per ottenerne terreni da coltivare, come è il caso dei Bantu, agricoltori. E un po’ per i pregiudizi che quasi sempre accompagnano i conflitti per le risorse: i Bantu vedono nei Pigmei degli esseri inferiori, dei selvaggi da sfruttare o isolare, mentre per i Pigmei i loro vicini sono i padroni violenti che rubano loro la foresta e li costringono con la forza a fare da servi per sopravvivere.

Oggi, la speranza di vita di un Pigmeo è fra i 40 e i 45 anni contro una media dei Bantu di 59. La mortalità infantile nei bambini fino a cinque anni, che fra i Bantu è al 20%, raddoppia fra i Pigmei.

Cambiare questa situazione è un lavoro lungo, delicato e costantemente a rischio. Ma in Camerun il metodo applicato dai Fratelli delle scuole cristiane (detti anche Lasalliani dal nome del loro fondatore, Jean-Baptiste de La Salle) sta lentamente provando a creare le condizioni perché i Pigmei escano dal misto di vergogna e rassegnazione in cui anni di discriminazioni li hanno confinati. Abbaimo fatto alcune domande a padre Andrés che con padre Flavio Pante è nella missione di Bayenga e lavora con i Pigmei da 10 anni e recentemente è stato in Camerun.

Andrés, perché questo viaggio-studio in Camerun?

«Per studiare il metodo O.R.A., che i Fratelli applicano nell’istruzione prescolare dei Pigmei Baka. Anche qui in Congo lo conoscevamo, ma in Camerun lo usano da più tempo e in maniera più organizzata. Guidato da fratel Gilbert Ouilabegue, ho visitato le tredici scuole fondate da fratel Antornine Huysmans nella zona di Lomié, regione dell’Est. Le chiamano Centri di Educazione di Base per evitare che siano classificate come scuole ufficiali e, per questo, tenute a rispettare programmi, calendari e metodi ufficiali che sarebbero del tutto inadeguati per i Pigmei».

Che cosa significa O.R.A.?

«È l’acronimo di Osservare-Riflettere-Agire. Il metodo si applica negli anni precedenti la scuola primaria con bambini fra i cinque e gli otto anni. Fratel Antornine, ideatore di O.R.A., pensava che fosse inutile tentare di chiudere in un’aula scolastica dei bambini abituati a vivere liberi nella foresta, senza muri né orari, e formati fino ad allora alla «scuola della vita», dove i maestri erano i loro genitori e fratelli maggiori e le materie l’uso dell’arco o le tecniche per pescare.

Così, un po’ alla volta e con l’aiuto anche di alcuni Bantu della zona, Antornine cominciò a ideare una pedagogia dinamica, che si adattasse ai ritmi, alla lingua e alla cultura dei Baka invece che mirare alla completa omologazione di questi ai Bantu. Il metodo si basa su questi tre principi: osservare, riflettere, agire, perché sono il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti».

Come funziona in concreto?

«Innanzitutto, bisogna considerare che la funzione di questa pre-scuola è anche quella di liberare i bambini dalla paura della classe, del maestro, della lavagna e del parlare in pubblico. Si cerca sempre di coinvolgerli con canti, racconti, giochi di ruolo. Come punto di partenza si usa un disegno, che poi resta lì come per invogliare ad ascoltare la storia che segue. Ogni lezione, infatti, si apre con una piccola storia che introduce la parola, il numero, il concetto che si vuole insegnare».

E quanto ai contenuti?

«Nel primo anno, i bambini cominciano parlando nella lingua baka. Il punto di partenza, dicevo, sono i disegni che rappresentano scene quotidiane del campement (accampamento) pigmeo. Da qui si passa a nozioni di base come grande/piccolo, uguale/diverso, lungo/corto, poi ai primi segni grafici, alle cinque vocali e ai numeri da uno a sei, sempre partendo dalla lingua baka per poi tradurre in francese. Verso la metà del primo anno i bambini imparano qualche consonante, incominciano a formare delle sillabe, a fare qualche operazione aritmetica. Al termine del secondo anno, sono in grado di fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni con i numeri da zero a venti e di parlare francese con una fluidità che mi stupisce ancora oggi, se penso che non sono ancora alla scuola primaria».

Che cosa ti sembra che funzioni particolarmente bene nel metodo O.R.A.?

«Te lo dico con un esempio. Ricordo la dinamica di una classe con un’insegnante, Souzanne, che era davvero splendida: non ha mai sgridato nessuno, non è stata quasi mai alla lavagna. Quello era il posto dei bambini che, uno alla volta, ci andavano spontaneamente per partecipare, scrivere, cantare, mostrare un oggetto, un frutto. Lei è davvero una formidabile narratrice di storie che fa «sognare» chi la ascolta. Gli allievi vengono sempre incoraggiati, non sono giudicati o valutati per il risultato ma per lo sforzo. Ho visto in quei bambini la voglia di venire a scuola, di scoprire, d’imparare, di essere… protagonisti».

A questo punto i bambini sono pronti per la scuola elementare ufficiale?

«Sì, e nei primi anni si distinguono rispetto ai loro pari per il livello di scrittura e lettura. Poi, però, in Camerun come da noi, cominciano i problemi. I pregiudizi, che i bambini bantu «assorbono» dai loro genitori, cominciano a farsi strada e i Pigmei – che spesso non hanno l’uniforme, le scarpe o il sapone per lavarsi prima di andare a scuola – diventano l’oggetto di beffe e dispetti. Questa stigmatizzazione a poco a poco umilia e scoraggia i Pigmei, che finiscono per lasciare la scuola. Qui a Bayenga, su cento che iniziano la scuola primaria solo cinque o sei arrivano a concluderla (alle volte neanche uno)».

Per chi ce la fa, la vita cambia in meglio?

«Non direi. A scuola, i ragazzi pigmei hanno preso coscienza dell’immagine che i Bantu hanno di loro, hanno visto le differenze e capito perché gli altri hanno certi atteggiamenti al loro riguardo: per questo vivono il ritornare al campement come una sorta di arretramento. D’altra parte, inserirsi nel villaggio assieme ai Bantu è come piantare un albero senza radici, fra persone che non li accettano come propri pari e che tendono a imporre loro delle relazioni verticali, gerarchiche. Per molti si apre la strada di quella che noi chiamiamo la destrutturazione, dove alcol e cannabis diventano i mezzi con cui tenere a bada, nell’immediato, la frustrazione e la depressione e portano presto all’abbrutimento».

Arriviamo così a parlare del rapporto fra Pigmei e Bantu che piano piano, anche grazie a strumenti come il metodo O.R.A., state cercando di rendere meno conflittuale.

«Sì, ma non sarà un processo breve né semplice. La relazione fra i due gruppi nel territorio della nostra parrocchia qui a Bayenga è assai complessa: alcuni Pigmei erano già qui quando i Bantu arrivarono nella grande foresta che copriva la zona; altri sono arrivati con i loro padroni bantu da diverse zone del Congo per cercare lavoro nelle piantagioni belghe e greche, ai tempi della colonizzazione. In generale, si può dire che ci sono famiglie bantu che sono proprietarie di gruppi di Pigmei, e succede che un proprietario si riferisca ai Bambuti come ai «miei Pigmei, i Pigmei che mi ha lasciato mio padre quando è morto». Questi Pigmei sono in qualche modo parte della famiglia, ma come servi, non come membri alla pari degli altri (per maggiori dettagli sul rapporto fra Bantu e Pigmei vedi articolo Echi dalla foresta, di M. Bello, MC ottobre 2012).Invece ora, già per il fatto di sentirsi accompagnati e voluti bene da noi così come sono, incoraggia alcuni Pigmei a relazionarsi con dei Bantu su basi più paritarie. Ci sono anche dei Bantu che già s’avvicinano ai Pigmei con altro approccio, con una nuova maniera di relazionarsi che non è più quella del padrone con lo schiavo».

Di recente è apparso in Italia un articolo che parla del conflitto fra Pigmei e Bantu nella regione del Tanganika, nel Congo orientale. Lì, dall’estate 2016 ci sono stati quasi 500 morti, 2.500 feriti e 70 mila sfollati prevalentemente Bantu. I Pigmei si sono armati e combattono, bruciano villaggi, uccidono chi non scappa.

«Non conosco la situazione di quella regione, ma mi pare che quel che avviene qui a Bayenga sia piuttosto il contrario: i Pigmei, pacifici abitanti della foresta, hanno accolto senza condizioni i Bantu al loro arrivo. Poi si sono create relazioni di sfruttamento (soprattutto nei lavori dei campi) ma anche di «simbiosi»: i Pigmei sentono il bisogno di ritornare dai padroni bantu per vendere la selvaggina, il miele, i frutti presi nella foresta. Ci sono conflitti, sì, ad esempio quando i Bantu non pagano i Pigmei e questi rubano nel campo del padrone, o gli sottraggono una gallina. Ma lo fanno per sopravvivere, non per lucrare, e senza usare la violenza. Di solito queste scaramucce vengono regolate in «famiglia» o dal giudice di pace locale. Purtroppo, però, non posso escludere che la situazione si evolva nella direzione che l’articolo descrive per il Tanganika».

Che cosa potrebbe portare al conflitto?

«Nella nostra missione ci sono circa tremila Pigmei e quattordicimila Bantu. Le attività economiche che la maggioranza bantu svolge – agricoltura, taglio e commercio del legno, sfruttamento minerario – fanno precipitare in fretta la foresta e i suoi biomi verso una situazione non sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, e non solo per i Pigmei. Ci sono molti interessi in gioco e molto poca formazione per affrontarli: è grande l’ignoranza che si rallegra del profitto veloce delle miniere e dell’esportazione del legno. Nella quasi totale assenza dello stato, la foresta diviene piazza aperta per quanti hanno un po’ di forza fisica o economica per sfruttarla».

Okapi nella Okapi Wildlife Reserve (© Kim S. Gjerstad)

La vecchia storia del Congo supermercato a cielo aperto alla mercé di chiunque abbia abbastanza armi o soldi.In un rapporto del 2015 dal significativo titolo Exploiter (dans) le désordre, la Caritas e la Commissione giustizia e pace della diocesi di Wamba spiegano la situazione della Riserva Forestale degli okapi (Rfo), a una manciata di chilometri da Bayenga. Secondo il rapporto, nel parco ci sarebbero una settantina di cantieri artigianali – uno di questi sarebbe in grado di produrre oro per 300 mila dollari settimanali – dove lavorano decine di migliaia di minatori informali. Sempre secondo il documento, a questi cantieri si aggiungono poi quelli semi industriali e industriali nei dintorni della Rfo:  a competere per la corsa all’oro ci sono proprio tutti, dai minatori artigianali alle grandi compagnie minerarie come la Kilo Goldmines, passando per le Fardc (l’esercito congolese) e le milizie ribelli.

«Esattamente. Fra la Rfo e la foresta intorno a Bayenga non c’è praticamente soluzione di continuità e i Pigmei Bambuti da sempre hanno cacciato in quest’area. Non l’okapi, però, visto che si concentrano su prede più piccole. Eppure, ora è proibito a tutti l’accesso alla riserva, i cui limiti sono stati fissati senza interpellare né i Pigmei né i Bantu. L’ente responsabile della vigilanza al parco dice che l’interdizione riguarda qualche specie soltanto, ma visto che non ha mezzi e personale sufficienti per fare i controlli, il risultato è il divieto assoluto di caccia e, addirittura, di passaggio nella riserva. Questa interdizione è rafforzata dalle attività dei ribelli e dei cacciatori di frodo, che invece nella Rfo ci sono e non gradiscono la presenza di possibili testimoni delle loro attività. Sì, come vedi c’è molto di più in ballo che non la convivenza fra due gruppi umani che faticano ad accettare l’uno lo stile di vita dell’altro».

Quello che racconti ricorda molto le difficoltà che i nostri missionari hanno affrontato e affrontano in Amazzonia.

«Ci sono molte somiglianze, sì, ma anche molte differenze. Qui non c’è mai stata una demarcazione delle terre indigene né un riconoscimento giuridico dei diritti dei Pigmei. Quello che noi cerchiamo di fare è accompagnare tanto i Bambuti quanto i Bantu in un cammino di reciproca conoscenza e comprensione che, se da un lato probabilmente dovrà passare per un adattamento dei Pigmei al contesto circostante, cerca però anche di evitare l’omologazione e valorizzare e difendere le caratteristiche dei Bambuti e della foresta che esso abita. Foresta che, vale la pena di ricordarlo, è un patrimonio per tutto il pianeta».

Chiara Giovetti




Allamano: L’impronta di Maria


Scriveva uno dei biografi dell’Allamano, nostro Fondatore: «Se alla morte si fosse aperto il suo cuore, vi si sarebbero trovate incise due parole, Consolata e Missioni», i suoi grandi amori, come i due polmoni che diedero il respiro all’intera sua esistenza. Dando inizio a due famiglie missionarie, il Fondatore volle che fossero plasmate dall’impronta di Colei che lui chiamava, con affetto filiale, la «cara» Consolata e di cui si definiva il segretario, «il tesoriere». Non è possibile, allora, parlare dell’Allamano, capirne la spiritualità, stupirsi della sua intensa attività, senza tenere conto della Madonna che per lui era semplicemente… la Consolata. Parlando un giorno ai suoi missionari, gli scappò di dire: «Che volete… È una devozione che va al cuore. Se dovessi fare la storia delle consolazioni ricevute dalla Madonna in questi quarant’anni che sono al santuario, direi che sono quarant’anni di consolazione».

La Consolata fu dunque per lui una presenza dolce e materna che l’accompagnò in tutti i momenti della sua vita: mentre si preparava a diventare sacerdote e perse la sua amatissima mamma; negli anni in cui fu rettore del più famoso santuario di Torino; ma soprattutto quando, aprendo la sua chiesa locale alla Missione in Africa, diede ai suoi figli e figlie, come obiettivo di vita quello di diffondere «la gloria di Maria alle genti», questa donna eccezionale, diventata per l’occasione anche «fondatrice»: «Non è infatti la SS. Vergine, sotto questo titolo, la nostra Madre e non siamo noi i suoi figli? Sì, nostra Madre tenerissima, che ci ama come la pupilla dei suoi occhi, che ideò il nostro Istituto, lo sostenne in tutti questi anni… La vera Fondatrice è la Madonna!».

La Consolata, da lui amata, invocata e annunciata, oltre che modello di vita consacrata per la Missione, diventò così Consolatrice, la Madonna missionaria che, con lo slancio dei discepoli missionari, donne e uomini di Vangelo, cammina sui sentieri dei continenti, visita le case dei poveri, entra nel cuore dei popoli come segno di speranza e di consolazione.

E fu con il suo nome sulle labbra e nel cuore che i missionari aprirono nel Kikuyu (Kenya) il primo campo di apostolato dell’Istituto; fu alla Consolata che dedicarono la prima stazione di Tusu a cui si aggiunsero tutte le altre e che il Fondatore volle fossero dedicate alla Madonna.

Con questa «impronta mariana», voluta e vissuta dal loro Fondatore, anche oggi i missionari e le missionarie della Consolata non si stancano di annunciare Gesù, figlio di Maria e vera consolazione del mondo.

Giacomo Mazzotti

Festa del Beato Allamano 2016, novizie MdC da Capri e studenti IMC da Castenuovo attorno alla tomba del beato Giuseppe Allamano.

 




Cento anni di Consolazione


Cento anni fa i primi missionari della Consolata, guidati da padre Gaudenzio Barlassina, arrivarono in Etiopia mimetizzati da commercianti di macchine da cucire. Si realizzò così il sogno del beato Giuseppe Allamano che aveva fondato i suoi missionari proprio per quel paese. Ma, oltre alla vecchia «Singer», nel cuore portavano un bene più prezioso: la consolazione di Maria Consolata (in apertura: onorata da bambini orfani, in una foto d’epoca evidentemente organizzata per ringraziare i benefattori).

La consolazione era vissuta e praticata nella semplicità di vita quotidiana e si traduceva anche nell’attenzione affettuosa ai più piccoli, come mostrano le due foto qui di seguito che parlano da sole.

 

Arrivati in Etiopia, i primi missionari e missionarie della Consolata si adattarono alla vita del posto, diventando presto, suore comprese, esperti cavallerizzi, visto che il cavallo o il mulo era il mezzo più semplice e diffuso per muoversi su un terreno montuoso e privo di strade.

A conclusione della lunga e faticosa giornata, alla luce della lucerna a petrolio, nella quiete della notte restava il tempo per compilare il diario, scrivere alla famiglia, approfondire la lingua locale…