Bulgaria: un piede in Europa (e l’altro fuori)

Testi e foto di Piergiogio Pescali |


Indice

Introduzione:
Da quella provincia chiamata Tracia

Le radici storiche della situazione attuale:
Un presente modellato sul passato.

I paesi dell’Est e l’Unione europea:
Soltanto per soldi

Ha firmato questo dossier:


Introduzione:
Da quella provincia chiamata Tracia

Editto bulgaro, maggioranza bulgara, il Pippero di Elio e le Storie Tese, i danzatori a piedi nudi sui bracieri ardenti di Franco Battiato: quando in Italia si parla di Bulgaria, le immagini che si materializzano nelle nostre menti sono divise tra autoritarismo, spettacolo e i braccianti di Mondragone, vittime di caporalato e coronavirus.

Eppure, con questo popolo balcanico, noi italiani abbiamo in comune insospettabili legami. Nel 46 d.C., Claudio inglobò la provincia della Tracia nel suo impero. Nel VII secolo d.C. l’Orda bulgara che, dalle steppe del Volga, si spostò nella pianura danubiana, si divise: una parte, guidata da Asparuh, fondò quello che è considerato il primo stato bulgaro, mentre altre frange si dispersero tra il Mar d’Azov e l’Europa. Una di esse, con a capo l’avaro Alcek, trovò rifugio nell’Italia meridionale, allora dominata dai Longobardi di Grimoaldo. Ancora oggi vi sono paesini nel Cilento, nel Salento, sulle montagne della Basilicata o tra le valli del Molise, i cui abitanti mostrano di avere origini bulgare. E a ricordo della migrazione, a Celle di Bulgheria, in provincia di Salerno, c’è anche una statua dedicata ad Alcek.

Numerosi personaggi dello spettacolo, della letteratura, della scienza e dello sport hanno origini bulgare: l’artista Moni Ovadia, la cantante Sylvie Vartan, lo scrittore Elias Canetti, l’artista Christo (morto lo scorso 31 maggio), il filosofo Tzvetan Todorov, il fisico Fritz Zwicky, la soprano Raina Kabaivanska. Spartaco era tracio e a lui sono dedicate le squadre di calcio denominate Spartak, particolarmente numerose nell’Europa dell’Est.

I cultori di Harry Potter non possono dimenticare Viktor Krum, il campione bulgaro di Quidditch, il cui cognome ricorda il sovrano che gettò le basi per la creazione di uno stato centralizzato, mentre gli appassionati di spionaggio restano ancora affascinati dall’«ombrello bulgaro» usato per iniettare la ricina con cui i servizi segreti uccisero a Londra, nel 1978, lo scrittore dissidente Georgi Markov. Un macabro regalo di compleanno per il presidente Todor Živkov, di cui Markov era scomodo oppositore.

Piergiorgio Pescali

Il teatro romano di Plovdiv dove ancora oggi si organizzano commedie e concerti. Foto di Piergiorgio Pescali.

Le radici storiche della situazione attuale:
Un presente modellato sul passato

Dopo 35 anni di governo comunista, dopo 13 anni nell’Unione europea, la Bulgaria rimane un paese nazionalista. Con politici inadeguati e corrotti. Piccola, la Bulgaria. Sul suo territorio, oggi solo una minima parte di quello che un tempo fu uno degli imperi più potenti d’Europa, vivono sette milioni di persone di cui meno dell’80% possono considerarsi discendenti di quei proto bulgari che, nel II secolo d.C., emigrarono dalla regione del Volga per innestarsi sulle popolazioni tracie già presenti sul territorio sin dal I millennio a.C..

Le montagne e le pianure bulgare erano il passaggio obbligato tra l’Europa centrale e l’Asia minore e questa posizione geografica ha portato una varietà culturale e culinaria tra le più fertili e gustose in Europa.

«La crocifissione di Cristo», icona al Museo delle icone di Plovdiv. Foto di Piergiorgio Pescali.

La chiesa ortodossa ha rivestito un ruolo decisivo nel modellare la società: poco dopo la conversione al cristianesimo, nel IX secolo d.C., il greco-bizantino Cirillo inventò in Moravia un nuovo alfabeto, il glagolitico. Dopo la sua morte, i seguaci del fratello Metodio, perseguitati dai Franchi, trovarono rifugio in Bulgaria dove San Clemente di Ocride trasformò il glagolitico nell’alfabeto cirillico tramandato sino ai nostri giorni. Fu quindi la Bulgaria, e non la Russia, come spesso di crede, la vera patria del cirillico, scrittura che oggi viene utilizzata in gran parte dei paesi slavi. Fu la Bulgaria la prima nazione ad adottare, nell’886, l’alfabeto cirillico. Nell’893 l’impero bulgaro abbandonò la lingua greca a favore del bulgaro decretando la sua volontà di indipendenza non solo politica, ma culturale, dai bizantini. Nel 917 Simeone I, sconfiggendo Costantinopoli si fece incoronare zar (titolo slavo che sta per Cesare), trasformando la Bulgaria in uno dei più grandi imperi d’Europa. Nel 927, pochi mesi dopo la sua morte, la chiesa bulgara ottenne l’autocefalia da quella di Costantinopoli.

L’ortodossia dell’esarcato di Sofia fu una delle caratteristiche principali su cui si modellò la società della Bulgaria: né con Costantinopoli né con Roma, ma fieramente autonoma. Questa sorta di sovranità religiosa ha evitato alla Chiesa ortodossa di Bulgaria i contrasti con Roma che invece caratterizzarono la storia della Chiesa greco ortodossa. È questo uno dei motivi per cui i pope bulgari hanno un atteggiamento molto più aperto e ospitale rispetto a quelli greci nei confronti dei cattolici. Nelle chiese e nei monasteri della Bulgaria, un cattolico non sente quella ostilità e quell’acredine che invece respira visitando i monasteri ortodossi greci o nella stessa basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme.

Dalla dittatura di Živkov alla grande fuga

Le ricchezze storiche sparse in Bulgaria sono immense e – forse sorprende saperlo – tutte ben tenute: splendidi monasteri sperduti nelle valli, città medioevali come Veliko Tarnovo, moschee retaggio della dominazione ottomana (dal 1396 al 1878), musei che espongono elaborati oggetti traci d’oro cesellato, incomparabili icone venerate dai fedeli. Nel 2019 l’affascinante città di Plovdiv ha condiviso con Matera il titolo di «capitale europea della cultura».

Anche il periodo socialista, solitamente così parco di retaggi, qui ha tramandato i suoi lasciti: il museo dell’arte socialista di Sofia raccoglie statue che altrimenti sarebbero andate perdute dalla furia distruttiva e vendicativa del nuovo corso democratico. Il 17 giugno 2011 gli abitanti di Sofia si sono divertiti o indignati, a seconda dell’orientamento politico e della visione storica, trovando il monumento all’Armata rossa sovietica rielaborato in loco nottetempo da un gruppo di giovani artisti appartenenti al movimento di Distruzione creativa. I soldati erano stati dipinti in modo da risultare vestiti con indumenti della cultura capitalista statunitense: McDonald, Santa Claus, Superman, Wonder Woman, Capital America, The Mask, Wolverine, Robin e Joker.

Nel paese si trovano ancora lasciti dell’architettura socialista, come il memoriale di Buzludzha o diversi monumenti troppo mastodontici per essere smantellati.

Negli anni Settanta il paese ha conosciuto un revival culturale assolutamente unico nel mondo dell’Est Europa per volontà della controversa figura di Lyudmila Živkova, figlia di Todor Živkov, segretario del Partito comunista bulgaro dal 1954 al 1989. Sotto di lei il mondo artistico bulgaro godette di una libertà di espressione impensabile in altri paesi del blocco sovietico, ma al tempo stesso la Živkova introdusse una cultura new age che fece storcere il naso a molti materialisti, e non solo in Bulgaria. Ammaliata da figure come Baba Vanga o Nikolai Roerich, si appassionò alla teosofia e all’esoterismo sino ad entusiasmarsi per le pratiche mistiche degli Aztechi e dei Maya.

La piazza centrale di Panagyurishte e il centro multifunzionale «Videlina». Foto di Piergiorgio Pescali.

Questa apertura artistica però poco importava alla maggioranza dei concittadini di Lyudmila: dopo il crollo del regime socialista di Todor Živkov, migliaia di suoi connazionali si riversarono in Italia cercando fortuna, tanto che quasi 59mila (dati del 2016) di loro vivono nella penisola.

Dal «liberi tutti» segnato dall’arrivo al potere dell’Unione delle forze democratiche, la popolazione del paese è in continuo calo: nel 1989, alla vigilia della caduta di Živkov, i bulgari in patria erano nove milioni, due in più di quanti ce ne sono attualmente. Secondo un rapporto redatto dall’Open Society di Sofia, il saldo negativo è dovuto per il 52% alla denatalità e per il 48% all’emigrazione.

Tra il 1985 e il 2016 circa 880mila bulgari si sono trasferiti all’estero. Di questi, la metà (465mila) tra il 1985 e il 1992. Negli ultimi anni il flusso sta ritrovando un suo equilibrio: nel quinquennio 2011-2016 solo 25mila persone hanno lasciato il territorio nazionale e l’emorragia è stata in parte assorbita dal ritorno di 21mila emigrati.

Circa metà di chi ha abbandonato la Bulgaria era di origine turca: fu lo stesso Živkov, alla metà degli anni Ottanta a dare il via a questo esodo quando inaugurò il «Processo di rinascita nazionale» costringendo la popolazione di etnia turca a cambiare i loro patronimici in nomi bulgari e proibendo la fede islamica. In tre mesi, tra il maggio e l’agosto 1989, 360mila di loro preferirono spostarsi in Turchia approfittando di una temporanea apertura delle frontiere. Oltre ad essere stato un disastro economico (si privò l’agricoltura di manodopera preziosa), il piano fu una delle cause che costrinsero Živkov a rassegnare le dimissioni, e rappresentò una delle più grandi pulizie etniche nell’Europa del dopoguerra come riconobbe anche lo stesso governo bulgaro l’11 gennaio 2012.

Nesebar, la chiesa di Cristo Pantocratore. Foto: Piergiorgio Pescali.

Le minoranze rom e turca

I bulgari hanno sempre avuto un rapporto conflittuale con le etnie minoritarie presenti sul loro territorio. Durante la Seconda guerra mondiale, se da una parte consegnarono senza fiatare ai tedeschi 11mila ebrei residenti nei territori di Tracia e Macedonia che Berlino aveva assegnato a Sofia in cambio della sua alleanza, dall’altro ci furono singole figure e organizzazioni che cercarono di salvare i 48mila giudei presenti nelle province più interne. «Non sapevamo noi che cos’era il ghetto. Non abbiamo visto le mura alte, folle di ebrei – bambini, giovani, vecchi, donne – portati come merce viva», scrisse la poetessa bulgara di origine ebraica Dora Gabe evidenziando la situazione di privilegio in cui vivevano gli ebrei di Sofia rispetto a quelli di Varsavia.

Il merito fu da ascrivere soprattutto a Dimitar Peshev (vedi MC 4/2020) e alla Chiesa ortodossa, mentre il re Boris III, che guardava al fascismo con molta indulgenza (anche per aver sposato la figlia di re Vittorio Emanuele III), ebbe verso gli ebrei dei comportamenti ambigui che ancora oggi dividono gli studiosi.

Questo pezzo di storia, lungi dall’essere archiviato, è spesso seme di discordia tra la Bulgaria e i paesi confinanti. Recentemente stampa, governo ed alcuni storici nazionalisti hanno tacciato di falsificazione e di incitamento all’odio il film Third half realizzato dalle televisioni macedone, ceca e serba, nel quale si accusa la polizia e il governo bulgaro degli anni Trenta e Quaranta di collaborazionismo con i nazisti.

La diffidenza verso lo straniero si ripercuote sia all’interno che all’esterno della nazione, mascherandosi con connotati nazionalistici.

Plovdiv, architettura tipica del rinascimento bulgaro che celebra la città come «Capitale europea della cultura 2019» (assieme a Matera). Foto: Piergiorgio Pescali.

La forte presenza rom (il 4,4% della popolazione) e la convivenza forzata con la minoranza turca (8% della popolazione) sono forse gli elementi più evidenti di questa tensione sociale. Tuttavia, mentre i turchi sono concentrati principalmente nelle regioni Nord orientali del paese e nella provincia di Kardhali, i rom sono sparsi a macchia di leopardo e convivono porta a porta con i bulgari in ogni villaggio della nazione. Il che rende la coabitazione sempre più problematica.

Il movimento «Ataka» (Attacco), attualmente presente in parlamento in coalizione con altri due partiti a forte connotazione etnica e nazionalista, rappresenta forse la parte più estrema del fronte xenofobo e razzista. Il suo leader e fondatore è Volen Siderov, giornalista, fotografo e scrittore che, all’inizio degli anni Duemila, condusse un programma molto popolare sul canale televisivo privato Skat dal titolo, appunto, di Ataka.

Fortemente antisemita, antiturco, antieuropeo e pro Russia, Siderov è critico verso le clausole che hanno permesso alla Bulgaria di aderire all’Unione europea, come il forte ridimensionamento della centrale nucleare di Kozloduy. Ha definito l’adesione alla Nato un tradimento verso la nazione al pari del Trattato di Neuilly-sur-Seine che il 27 novembre 1919 aveva costretto la Bulgaria a cedere la Tracia alla Grecia e altri territori alla Yugoslavia. Secondo Ataka, Nato e Unione europea avrebbero permesso a non meglio precisati gruppi sovranazionali di redigere un piano per distruggere la Bulgaria e sterminare il suo popolo. Più volte Siderov ha definito i rom come «umanoidi» che sopravvivono «rubando ed ingannando». Nel 2014 è stato anche protagonista di un violento attacco verbale compiuto a bordo di un volo di linea Sofia-Varna contro Stéphanie Dumortier, una collaboratrice dell’ambasciata francese insultandola, tra l’altro, per il suo accento spiccatamente francese ed «effemminato».

L’incidente, che ha rischiato di creare una crisi diplomatica tra i due paesi, non è un isolato atto di fanatismo, bensì riflette la percezione sociale di una Bulgaria che si sente alla periferia di tutto: dell’Europa, dell’Asia, della Russia. Essendo ai margini, si sente al tempo stesso isolata, manipolata, ma anche pedina vitale (e, a volte, sacrificabile) nei giochi tra le potenze.

Il risultato è l’avanzata di un forte nazionalismo e settarismo con velleitarie nostalgie verso il passato dei grandi imperi.

L’Unione europea, dopo essere stata considerata la deus ex machina per lo sviluppo economico nel decorso post socialista, è ora sempre più spesso additata come causa dei problemi che affliggono la nazione, tra cui l’immigrazione.

La cattedrale ortodossa di Alexandar Nevski, a Sofia. Foto di Piergiorgio Pescali.

La storia del «cacciatore di migranti»

Dinko Valev è una delle tante figure oscure e preoccupanti di questa ondata revanscista. Accanto al suo lavoro di commercio di parti di ricambio per bus e camion che, a suo dire, già a 23 anni lo ha portato a guadagnare il suo primo milione di lev, ha organizzato un vero e proprio esercito personale di 1.500 volontari che dispongono di quattro veicoli corazzati, un elicottero militare e diversi droni e quad. Ogni giorno, a turno, decine di questi paramilitari pattugliano la zona di confine con la Turchia alla ricerca di migranti che scavalcano illegalmente la rete di filo spinato costruita dal governo di Sofia.

Valev si definisce «un uomo d’affari di successo, un padre di famiglia e un patriota. Difendo la mia madrepatria e i paesi slavi dall’invasione di migranti illegali. Migranti, lo ripeto, perché non sono rifugiati. Sono siriani, afghani, pakistani, somali, sudanesi, iraniani…».

Nonostante l’ufficio locale del Comitato Helsinki per i diritti umani abbia accusato Dinko di violazione dei diritti umani, giornali e Tv (tra cui anche la Tv di stato) lo hanno più volte incensato definendolo un «supereroe». La sua è ormai una presenza fissa nei reality show e nei varietà. Nei programmi a lui dedicati, lo si vede trattenere a forza migranti e chiedere loro documenti e informazioni sulla loro presenza in Bulgaria. A quale titolo lo faccia non è mai stato spiegato, ma questo ai bulgari interessa poco.

«Dinko ha fatto ciò che l’Unione europea non è stata capace di fare: ha chiuso i confini all’immigrazione clandestina», lo difende un suo ammiratore. Non è un giudizio isolato visto che, secondo un sondaggio condotto dalla televisione nazionale, verrebbe condiviso dall’86% dei suoi connazionali.

A pochi interessa sapere che il numero di rifugiati ospitati nei due centri di accoglienza di Busmantsi e Lyubimets (un terzo centro, quello di Elhoyo è stato chiuso nel 2018) era di soli 2.184 nel 2019 rispetto agli 11.314 del 2016.

Come l’Italia, anche la Bulgaria è considerata dai richiedenti asilo come semplice paese di transito. Quindi, i profughi che vi arrivano cercano di attraversarne al più presto le frontiere per dirigersi verso Nord.

Fedeli nella cattedrale di Alexandar Nevski durante le festività pasquali, a Sofia. Foto: Piergiorgio Pescali.

La Bulgaria e l’Unione europea

L’Unione europea è dunque ormai vista da molti come un peso, più che come un traino all’economia, o un’opportunità per cambiare un paese troppo ancorato al bullismo sociale e politico.

A tredici anni dall’entrata nella comunità europea (2007), le speranze dei bulgari in un cambiamento delle proprie condizioni sociali sembrano ormai essere svanite: in un sondaggio effettuato nel 2016, solo il 50% voterebbe ancora per l’accesso all’Unione. Nel 2013 era il 70%.

Eppure l’Ue ha giocato un ruolo determinante per lo sviluppo economico della nazione: tra il 2014 e il 2020, ha elargito fondi strutturali per 11,7 miliardi di euro, pari al 9% del Pil con un saldo attivo di 1,67 miliardi di euro per il solo 2018 (l’Italia, tanto per fare un esempio, ha un saldo negativo di 5,06 miliardi di euro e la Germania di 13,41 miliardi).

È un paradosso, ma i paesi che più si oppongono alle politiche di integrazione sociale ed economica dell’Ue sono proprio quelli che, dalla comunità, ricevono i maggiori benefici economici (cfr. articolo a pag. 47). È però altrettanto vero che rispetto all’Italia, la Bulgaria (così come gli altri paesi dell’Est Europa) riesce a gestire meglio i fondi europei: al 2019, degli 11 miliardi di euro stanziati, 9,3 avevano già una destinazione e 4,7 erano già stati spesi (a titolo di paragone, l’Italia ha ricevuto dall’Europa 75 miliardi di euro; ma solo per 54,6 miliardi – il 73% – è stato deciso l’utilizzo e solo 26,3, il 35%, sono stati spesi).

L’economia bulgara, dal 2007 a oggi, ha fatto passi da gigante: il lev è la moneta più stabile dell’Europa orientale, il Pil si sviluppa su una media del 3-4% annuo e la disoccupazione è del 4,2%, un livello paragonabile a quello dell’Austria e la metà rispetto all’Italia.

Questi segnali positivi però non sembrano ripercuotersi sul benessere individuale: la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è rimasta invariata rispetto al 2008 stabilizzandosi sul 22%. Deboli indicazioni di miglioramento sono le impercettibili variazioni al ribasso della percentuale di bulgari costretti a vivere sotto la soglia di 5,5 dollari al giorno, considerata dal governo come il limite minimo di sopravvivenza: 6,7% nel 2019 quando nel 2017 era il 7,5%.

Troppo poco per far innamorare di un’Unione europea che viene vista (o viene mostrata) sempre più come un intralcio alla libertà individuale che qui, dai palazzi del potere sino alle case del più piccolo villaggio, è sempre stata vista come libertà di farsi leggi ad personam. I bulgari, come la maggior parte dei popoli mediterranei, hanno un forte spirito anarcoide e, anche durante il periodo socialista, si sono ingegnati ad aggirare i proclami, più che a seguirli. L’Ue, con la miriade di leggi e restrizioni che emana in continuazione è un «di più» che poteva essere utile per permettere la libera circolazione delle persone in paesi sino ad allora considerati un miraggio nei sogni di molti bulgari o come mucca da mungere per sfamare cittadini allo stremo.

Le aspettative del popolo sono state mirabilmente descritte da Stefan Tzanev, uno dei poeti bulgari contemporanei più lucidi e critici della nuova società: «Tutto si aggiusterà. Restituiamo la terra alla gente. Avremo pane e carne a sufficienza. Uova e verdure. L’industria la faremo moderna ed ecologica. Avremo frigoriferi a bizzeffe, conserve, lavatrici e televisori. Domineremo l’inflazione. Avremo la valuta convertibile. Non mendicheremo qualche dollaro come bambini abbandonati davanti alle porte dell’Europa. Aggiusteremo i rapporti nazionali ed internazionali. Tutto aggiusteremo. Tutto decideremo». Tzanev conclude la sua poesia con un «Tremendo destino, quello di essere liberi… Salvate le nostre anime!».

Quando la crisi ha iniziato a farsi sentire anche nelle economie ricche, i fondi comunitari hanno iniziato ad essere elargiti con più parsimonia e, soprattutto, a Bruxelles hanno richiesto garanzie di spesa e di qualità che in molti casi non potevano essere date. E allora ecco svanire l’incanto dell’Unione europea.

Plovdiv, architettura tipica del Rinascimento bulgaro. Foto Piergiorgio Pescali.

Politici di ieri, politici di oggi

Un altro dei motivi per cui i bulgari mostrano sfiducia nell’Ue è la delusione nel constatare che quasi nulla nella politica nazionale è cambiato dopo le speranze emerse dal tracollo del precedente regime socialista.

Se solo il 33% dei bulgari esprime una fiducia nelle istituzioni gestite dall’Unione, la percentuale crolla ad un misero 10% per quelli che danno credito al proprio governo di Sofia.

Quasi tutti i politici succedutisi alla guida della nazione hanno avuto ruoli di responsabilità nel passato sistema e non solo all’interno del Bsp (Bălgarska Socialističeska Partija, Partito socialista bulgaro), erede in salsa democratica del vecchio Partito comunista.

Boyko Borisov, l’attuale primo ministro e leader del populista e conservatore Gerb (Graždani za evropejsko razvitie na Bălgarija, Cittadini per uno sviluppo europeo della Bulgaria) è stato guardia del corpo di Todor Živkov; Krasimir Karakachanov, attuale ministro della difesa e leader dell’Unione patriottica era consigliere di Živkov sui temi per la Macedonia; il già citato Siderov era fotografo al Museo di letteratura nazionale.

«C’erano una volta dei tempi più oscuri. C’erano una volta dei tempi più terribili, tempi di terrore, tempi di misteri sanguinosi. Ma la storia non ricorda dei tempi più vergognosi. Il mio tempo, il tempo della grande ipocrisia. I marescialli di ieri, che sventolavano manganelli e bastoni, oggi sono nelle prime file dei combattenti per la democrazia», scrive ancora con estrema trasparenza Stefan Tzanev.

Tutti i politici, collusi o no con il vecchio sistema, esprimono comunque un carattere spaccone e smargiasso che sembra essere apprezzato e premiato da una grande fetta di elettori. I bulgari non hanno avuto un Sessantotto o un Settantasette che hanno insegnato alle generazioni giovanili che opporsi al sistema non solo è possibile, ma conduce anche ad un rafforzamento della democrazia.

In Bulgaria, il «lei non sa chi sono io» è ancora una frase d’effetto che porta al risultato voluto: anziché suscitare la giusta indignazione, fa chinare la testa.

Il governo di Borisov, nonostante abbia mostrato un incredibile scenario di incompetenza politica, di sciatteria sociale e di corruzione, continua ad essere l’ago indicatore della bilancia politica bulgara assieme al suo partito, il Gerb. Non avendo seggi a sufficienza per formare un proprio esecutivo, Borisov non ha indugiato a chiedere aiuto alla coalizione ultranazionalista di estrema destra Unione patriotica e a chiamare attorno a sé figure vicine a Delyan Peevski, un enigmatico personaggio che negli ultimi anni è riuscito a monopolizzare la grande maggioranza dei media bulgari.

L’Unione europea, anziché cercare di contrastare la pericolosa deriva autoritaria e di decadimento morale ha preferito mostrare un colpevole atteggiamento di indifferenza, se non addirittura di complicità.

Nesebar, chiesa di San Giovanni Battista. Foto: Piergiorgio Pescali.

Il paese più corrotto dell’Unione

La Bulgaria è quasi sempre agli ultimi posti negli indicatori economici e di sviluppo sociale dell’Ue,  ed è uno dei due paesi (l’altro è la Romania) soggetti al Meccanismo per la cooperazione e la verifica della trasparenza e la corruzione. Oltre ad essere il paese più corrotto nell’Unione, anche a livello mondiale non è messa bene occupando il 74° posto su 179 nazioni prese in esame.

Del resto, anche in caso non sia più possibile tenere sotto silenzio uno scandalo, non si rischia molto e questo favorisce il coinvolgimento dei politici bulgari in operazioni disoneste e criminali, sia di costume che finanziarie.

La Commissione anticorruzione nazionale è guidata da Sotir Tsatsarov, fedelissimo di Delyan Peevski e Boyko Borisov. Tsatsarov è stato eletto dopo che il suo predecessore, Plamen Georgiev, era stato costretto alle dimissioni per il suo coinvolgimento nello scandalo Apartmentgate quando nel 2019, alla vigilia delle elezioni europee, il Gerb era stato travolto da critiche per l’uso illecito dei fondi europei destinati a sovvenzionare agriturismi e hotel famigliari ed invece utilizzati per costruire ville private di politici e loro accoliti o per acquisti di appartamenti nei quartieri più esclusivi di Sofia a prezzi ridicoli. Naturalmente, il Gerb ha, comunque, vinto le elezioni con il 31% dei voti, mentre Georgiev non è stato mai ufficialmente accusato e oggi si gode il sole di Valencia, in Spagna, come console bulgaro.

Arbanasi, chiesa della Natività, La crocifissione, nel naos. Foto: Piergiorgio Pescali.

Il secondo paese più inquinato

Nonostante la Bulgaria nel periodo 2007-2020 abbia ricevuto da Bruxelles 204 milioni di euro per il trattamento dei rifiuti urbani e industriali,  la situazione è disastrosa. Al di fuori di Sofia e di poche altre città, non esiste un programma di raccolta differenziata, col risultato che la nazione è, dopo la Grecia, la più inquinata d’Europa. Risulta così ridicolo il piano che prevede come richiesto dall’Unione europea, il riciclo del 50% dei rifiuti entro il 2020. Bruxelles lo sa, ma continua imperturbabile per la sua strada.

I fiumi e i terreni sono ricchi di metalli pesanti rilasciati dalle industrie metallurgiche, e l’aria nelle grandi metropoli è spesso irrespirabile: Sofia è la città con la concentrazione di PM 2.5 e di SO2 più alta in Europa e, assieme a Polonia e Slovacchia, la Bulgaria supera i livelli massimi consentiti dall’Ue di PM 10.

Il parco auto che circola nel paese è il più vetusto d’Europa: il 50% delle vetture circolanti hanno più di vent’anni e la maggioranza sono diesel privi di manutenzione e di certificato europeo. Solo lo 0,08% delle auto sono ibride e l’elettrico è praticamente assente.

Bruxelles continua a emanare leggi, raccomandazioni, multe, sapendo benissimo che Sofia continuerà per la sua strada. Eppure basterebbe all’Ue poco per dare un segnale ben preciso all’inefficienza di Borisov & Co.: sarebbe sufficiente vietare a paesi, come l’Italia, di esportare auto destinate alla rottamazione verso i paesi dell’Est.

L’Italia è in prima linea nel condividere la responsabilità del disastro ambientale in cui versa la Bulgaria.

Solo alcuni comitati cittadini (ancora pochi e poco ascoltati) hanno iniziato a criticare la politica ambientale nazionale chiedendo, ad esempio, una revisione della politica energetica. Sono stati proprio loro ad ottenere, nel gennaio 2020, una prima importante vittoria costringendo alle dimissioni il ministro dell’ambiente Nino Dimov, successivamente arrestato per avere deliberatamente costretto per due mesi al razionamento idrico circa 100mila persone nella provincia di Pernik deviando l’acqua del bacino idrico artificiale verso una industria compiacente.

Quella di Pernik era solo l’ultima malefatta di Dimov e dei suoi predecessori che avevano trasformato, tra l’altro, la Bulgaria in una discarica per i rifiuti tossici dell’Europa. Nel 2014 l’amministratore delegato della Lukoil Bulgaria, Valentin Zlatev, aveva concluso con il tandem italiano De.Fi.Am. ed Ecobuilding un accordo per importare rifiuti prodotti nel comune di Giugliano in Campania. Da allora è iniziato un giro d’affari miliardario per portare nel paese balcanico migliaia di tonnellate di pattume tra cui molti prodotti tossici il cui costo di smaltimento in Italia sarebbe stato troppo oneroso. Poco prima delle dimissioni di Dimov, la polizia bulgara aveva sequestrato 9mila tonnellate di rifiuti diretti al centro di smaltimento di Fenix Pleven Eood che lo stesso impianto non avrebbe potuto processare. Si era scoperto che il permesso di trasporto e di smaltimento era stato concesso dallo stesso ministero dell’ambiente bulgaro.

Tutto questo accadeva proprio mentre, nel 2018, Nino Dimov – che tra l’altro è un negazionista del cambiamento climatico causato dall’uomo – prendeva possesso della presidenza del Consiglio per l’ambiente dell’Unione europea. Un biglietto da visita poco onorevole per Borisov, che comunque non se ne cura poi molto.

Venditori di icone a Sofia; sullo sfondo, la cattedrale di Aleksandar Nevski. Foto di Piergiorgio Pescali.

Tanti media, poca libertà

Tra i primati negativi saldamente in mano al governo bulgaro c’è anche quello che riguarda la libertà di stampa e i diritti umani.

Il sistema giudiziario è fortemente dipendente e influenzato dalla politica. Nell’ultimo rapporto l’Ue ha evidenziato molto diplomaticamente e senza porre alcuna enfasi per non offendere il governo, che la Bulgaria non sta facendo abbastanza per i diritti umani, che continuano a deteriorarsi.

Meno diplomatico è il rapporto di Reporter san frontieres, che pone la Bulgaria al 111° posto su 180 paesi presi in esame per la libertà di stampa.  Un calo di ben 60 posizioni rispetto al 2007, quando entrò nell’Unione europea (allora occupava un onorevole 51° posto).

Chi giunge in Bulgaria sarà sicuramente impressionato dalla quantità di giornali, periodici, stazioni radio e televisive presenti nel paese. Per sette milioni di abitanti, nel 2017 c’erano 245 quotidiani, 603 riviste, 85 stazioni radio e 113 televisive. Ma quantità non è sinonimo di qualità e neppure di libertà.

In un regime di crisi economica, dove i proventi pubblicitari diminuiscono, molte testate sono costrette ad affidarsi sempre più ai finanziamenti statali che gestiscono i fondi europei a propria discrezione e senza alcuna trasparenza.

Il rapporto di sostenibilità per la libertà di stampa redatto dall’Irex (International Research & Exchanges Board) evidenzia che, dal 2014 al 2019, la libertà di parola è diminuita tanto da far aumentare l’autocensura dei giornalisti che preferiscono ammorbidire le loro posizioni di indipendenza etica.

Di esempi se ne possono fare molti: nel 2016 il sindaco di Blagoevgrad ha stipulato un contratto secondo cui il consiglio comunale avrebbe continuato a sovvenzionare i media locali a patto che non venissero pubblicate notizie non confermate (leggi non approvate dal consiglio stesso) che minassero la reputazione politica, sociale e privata della «Municipalità di Blagoevgrad, il Consiglio comunale cittadino, il sindaco, il presidente dell’ufficio comunale e le autorità municipali».

Nell’ottobre 2017 il deputato del Gerb Anton Todorov ha minacciato in diretta il giornalista della Nova Tv, Viktor Nikolaev, per aver avuto la sfrontatezza di criticare l’allora vice primo ministro Valeri Simeonov.

Lo stesso Borisov (ancora lui) e molti suoi ministri hanno più volte intimidito i giornalisti lanciando anche insulti poco consoni alla loro posizione governativa e pubblica, sulla linea del «lei non sa chi sono io».

La figura più sfrontata del panorama mediatico bulgaro è il già citato Delyan Peevski, membro del Movimento per i diritti e la libertà (Dviženie za Prava i Svobodi, Dps) e soprannominato da Radio Bulgaria come «l’incontrastato moghul della stampa della Bulgaria».

Il suo gruppo New bulgarian media group (Nbmg), oltre a possedere le due principali case editrici, controlla l’80% della carta stampata tra cui Borba, Monitor, Politics, Meridian Match e il Telegraph, il quotidiano più letto in Bulgaria.

Colluso con il Gerb e con Borisov, nel 2013 Peevski venne eletto presidente dell’Agenzia di stato per la sicurezza nazionale. In un raro impeto di rabbia, 10mila bulgari si riunirono di fronte al parlamento per protestare inscenando cori di «mafia» e «dimissioni», ottenendole il giorno dopo.

I giornali del Nbmg pubblicano spesso articoli cospirazionisti diretti contro Ong, società civile o organizzazioni che osano criticare il governo e le politiche xenofobe da lui varate. Il leit motiv seguito è sempre lo stesso: sono organizzazioni al soldo di Soros o di qualche potere forte straniero il cui unico scopo è quello di distruggere la cultura e la tradizione autentica bulgara.

Monumento a Cirillo e Metodio a Pazardžik. Foto: Piergiorgio Pescali.

Nel 2018 ha fatto approvare al parlamento una legge che obbliga i proprietari dei media bulgari a indicare i finanziatori esterni dei network di loro proprietà, in modo da avere un quadro preciso delle politiche intraprese da ogni sostenitore privato.

Il principale problema della libertà di stampa in Bulgaria è che manca una legge che regola la concentrazione della proprietà.

Nova, bTv e la statale Bnt (Bălgarska nacionalna televizija) generalmente sono considerate come media filogovernativi. Come accade in Italia, anche in Bulgaria i partiti al governo si spartiscono il servizio pubblico: in questo gioco poco edificante, il Bnt, considerato fino al 2017 indipendente, da quando è passato sotto la direzione di Konstantin Kameanrov, vicino al partito Gerb, ha avuto un cambio di rotta sottomettendosi all’esecutivo. Anche la qualità dei programmi ne risente: la bTv, il canale televisivo più seguito, nel 2017 ha riveduto la sua programmazione volgendosi verso l’intrattenimento per i giovani (leggi programmi social, varietà).

Al di fuori di Sofia, non vi è alcun tipo di giornalismo d’inchiesta: le storie che vengono trattate nella provincia vertono su gossip, crimini, violenze. Il giornalismo locale sta sparendo anche perché i bulgari preferiscono utilizzare siti di notizie provenienti da Facebook con un vistoso calo della qualità dei servizi e un aumento impressionante di fake news a cui i lettori si affidano senza dubitare. Così notizie quali la volontà dell’Unione europea di bandire la religione ortodossa, che l’acqua di Sofia fosse stata volontariamente inquinata, che i soldati bulgari erano stati costretti dalla Nato a sparare a obiettivi russi, o la notizia, sempre attuale, che il Sars-CoV-19 sia un virus prodotto artificialmente dalla Cina a cui si aggiungono miriadi di ricette autoprodotte per combatterlo, sono sempre più la fonte di informazione principale presso la società bulgara.

Una nuova Bulgaria?

L’inno nazionale bulgaro, splendidamente musicato da Svetan Radoslavov, elogia la Bulgaria come «cara terra natìa, tu sei il paradiso in terra, la tua bellezza e il tuo fascino, ah, non hanno fine».

Le bellezze artistiche e culturali di questa terra sono tra le più ricche e preziose che l’Europa possa offrire, ma affinché possano continuare a perpetuare la bellezza e il fascino cantato nell’inno nazionale, l’Unione europea deve adoperarsi affinché la classe politica e i bulgari stessi si mostrino più attenti al rispetto dei diritti umani e più corretti verso il proprio paese.

I bulgari dovranno cominciare ad essere meno ossequiosi e cerimoniosi verso chi si presenta con prepotenza ed arroganza. Da parte sua, Bruxelles dovrà abbandonare la politica, sino ad ora perseguita, della morbidezza e dell’accomodamento verso chi sta portando la Bulgaria nel baratro dello sviluppo umano e nella rovina ambientale.

Piergiorgio Pescali

Sofia, Museo d’arte socialista: il quadro ricorda una delle visite del leader sovietico Brežnev in Bulgaria accanto a Todor Živkov. Foto: Piergiorgio Pescali.


I paesi dell’Est e l’Unione europea:
Soltanto per soldi

Tra il 2004 e il 2007, nove paesi dell’ex blocco sovietico entrarono a far parte dell’Unione europea. All’epoca c’erano alcune motivazioni politiche. Oggi il fallimento di quell’allargamento è davanti agli occhi di chi vuol vedere.

Nel 2004 l’Unione europea allargò in una sola notte i suoi confini inglobando dieci nuovi paesi, tra cui sette appartenenti all’ex blocco sovietico. Nel 2007 altre due nazioni, Bulgaria e Romania, entrarono a far parte dell’Unione portando a 27 il totale dei paesi aderenti.

I motivi che sostennero tale decisione furono diversi, non ultimo il tentativo di diluire i contrasti interni tra gli stessi stati fondatori che stavano minando l’unità continentale.

L’allargamento era però anche un modo per evidenziare la superiorità del mondo occidentale e dell’economia capitalista su quello orientale ad economia socialista. La «Cortina di ferro» era stata valicata e l’Unione europea aveva prevalso sulla Russia. Una vittoria storica che voleva essere ribadita dall’assimilazione di nazioni un tempo alleate di Mosca e dal tentativo di isolare il Cremlino.

A tre lustri di distanza sono in molti a lamentare che la politica intrapresa da Bruxelles tra il 2004 e il 2007 è stata, se non fallimentare, per lo meno improduttiva.

I paesi dell’Est faticano ad integrarsi al sistema Europa e, specialmente con la cosiddetta crisi dei migranti, tra il 2015 e il 2016 le divergenze all’interno dell’Unione si sono accentuate sino a generare un blocco dell’Ovest e un blocco dell’Est che si è aggiunto alle divergenze già esistenti tra paesi del Nord Europa e paesi del Sud, o del bacino del Mediterraneo. Anche in questo caso le cause addotte sono diverse. La differenza della struttura industriale e del sistema economico, accentuatosi a partire dal 1945, è quella più evidente, ma vi è anche una diversità culturale determinata dalla storia, dalla posizione geografica, dal differente alfabeto: latino per l’Ovest, cirillico per l’Est con una variante intermedia per gli alfabeti ceco, polacco e ungherese. Non ultima la diversità religiosa, che si innesta su quella storica: la Chiesa ortodossa ha profonde radici nella cultura slava e, si sa, non ha mai avuto buoni rapporti con la Chiesa romana. Inoltre non bisogna dimenticare che l’area balcanica rappresentata dalla Grecia, dalla Bulgaria e, in misura minore, da Romania e Ungheria, è stata sempre il primo baluardo cristiano contro la penetrazione islamica in Europa. Bulgaria e Grecia hanno sempre avuto rapporti difficili con il mondo bizantino e con l’impero ottomano, suo successore, e ancora oggi la Bulgaria ha una forte minoranza turca residente sul suo territorio.

Questo complesso tessuto storico, culturale e sociale che si differenzia così tanto dall’Europa ideata da Spaak, Schuman, Monnet e De Gasperi spiega come mai sia così difficile mantenere un rapporto di convivenza con queste nazioni e come mai, invece, il legame con i paesi baltici, più legati alla cultura del Nord Europa, sia molto più fluido e produttivo.

Sofia, Museo d’arte socialista: busto di Marx davanti a manifesti che celebrano Stalin. Foto: Piergiorgio Pescali.

Non solo Orban: sì ai soldi, no al resto

La miopia dei nostri governanti europei all’inizio del XXI secolo è stata più culturale che politica ed economica. Lo dimostra il fatto che, nonostante l’Unione europea continui a foraggiare con (troppa) generosità Polonia, Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca, i governi di questi paesi continuano a criticare e a respingere le leggi emanate da Bruxelles in termini d’inclusione sociale, libertà di stampa e di diritti umani. Viktor Orbàn, è il caso più pubblicizzato sui nostri media a causa della sua amicizia con Salvini, ma non dobbiamo dimenticarci che in Bulgaria l’autoritarismo di Borisov non sfigura di fronte al collega ungherese, che in Polonia Morawiecki ha ormai imbavagliato la magistratura e che in Repubblica Ceca, Andrej Babiš è stato travolto da innumerevoli scandali finanziari e di corruzione.

Tutti questi capi di governo inoltre hanno negato il coinvolgimento dei propri cittadini nella deportazione di ebrei durante la Seconda guerra mondiale e, in alcuni casi, hanno anche contestato l’esistenza di campi di concentramento.

È inoltre utile far notare che le classi politiche (e quindi le popolazioni) di molte nazioni del vecchio blocco sovietico sono spaccate sull’opportunità o meno di aderire all’Unione europea o se orientarsi verso l’alleato storico, la Russia. Se fino alla metà della seconda decade del XXI secolo la prima opzione prevaleva, dopo il 2015 la politica di Bruxelles sull’immigrazione ha iniziato a essere vista troppo invasiva negli affari interni aumentando il consenso popolare e populista di una politica sovranista.

Tutto questo ha coalizzato tra loro i governi che si sono alleati nel gruppo di Visegrad a cui aderiscono Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Al tempo stesso l’Ue ha incominciato ad essere identificata con la Nato, che, in Bulgaria ad esempio, è vista come un vero e proprio esercito europeo orientato contro la politica slava e di Mosca.

Tutto questo è stato manipolato dagli organi di stampa per dare un’immagine negativa dell’Unione. L’isolamento dei capi di governo dell’Est Europa rispetto all’alleanza dei paesi dell’Occidente ha incanalato il malcontento popolare.

Dalla parte opposta, i governi ex sovietici sono quelli che hanno guadagnato maggiormente dall’ammissione all’Ue in termini economici. Hanno tutti ottenuto ingenti aiuti senza per questo cedere nulla sulla loro politica interna: Ungheria e Bulgaria, in particolare, sono le nazioni che continuano a snobbare i flebili e cauti richiami di Bruxelles in materia di diritti umani, corruzione e di politica ambientale.

È anche vero che, rispetto ai paesi mediterranei come Italia, Grecia e Spagna, queste nazioni sono quelle che riescono a gestire meglio i fondi provenienti dalle varie commissioni europee. Su questo tema ci sarebbe molto da scrivere e da argomentare, ma l’opposizione dei membri più attenti alla gestione finanziaria, come le nazioni del Nord Europa, ai prestiti a fondo perduto decisi da Bruxelles nei mesi scorsi è più che comprensibile.

Rispetto, ad esempio, all’Italia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia hanno già stanziato una percentuale nettamente superiore al nostro paese dei fondi strutturali elargiti dall’Unione europea.

Piergiorgio Pescali

Sofia, Museo d’arte socialista: busto di Lenin. Foto: Piergiorgio Pescali.


Ha firmato questo dossier:

Piergiorgio Pescali – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

Sitografia essenziale

La rete che separa il confine bulgaro da quello turco a Rezovo. Foto di Piergiorgio Pescali.

 

 




Guinea-Bissau: Missione Sfidante

testi di  Anélia Gomes de Paiva e Marco Bello |


Indice


La storia di una presenza

Le missionarie della Consolata in Guinea-Bissau

Guinea-Bissau, Bijagos archipelago, Canhabaque island (or Roxa island) / © Nicolas Thibaut

Nel lontano 1990 un gruppo di missionarie si spinge in Guinea-Bissau. Un piccolo paese lusofono, in Africa dell’Ovest, dimenticato dai grandi circuiti. Il contesto si presta a una missione ad gentes di prima evangelizzazione. Ma molto c’è anche da fare nei diversi campi della promozione umana. Le religiose approdano anche sulle isole Bijagos, dove la durezza della vita e la cultura locale sono sfidanti. Oggi le missioni sono tre e le sorelle undici. Una di loro si racconta.

Il popolo bissau-guineano mi ha insegnato a rispettare e accogliere con simpatia il diverso, sia per cultura che per tradizione, ad accettare con più pazienza le difficoltà della vita, a non lamentarmi dei problemi che si incontrano oggi. Mi ha aiutata a fare l’esperienza più profonda dell’amore di Dio, attraverso le loro vite, le loro sofferenze. Ho scoperto tante persone che vivono del miracolo dell’amore di Dio. Inoltre, loro mi hanno aiutata a vivere la mia fede in modo più radicale, perché vivono radicalmente la loro tradizione, e questo mi interroga.

Con loro ho imparato a essere più missionaria e vivere meglio la missione, a partire dal loro contesto e dalla loro realtà concreta, privilegiando la vicinanza, l’ascolto, l’amicizia, il dialogo, la testimonianza. I guineani mi hanno fatto sperimentare il grande dono dell’ad gentes e la gioia di essere missionaria.

Il perché di un sogno

Situato in Africa dell’Ovest, la Guinea-Bissau è uno dei più piccoli stati del continente, con una superficie di 36.134 km quadrati, (pari a Piemonte e Abruzzo insieme), e una popolazione di appena un milione e 500mila individui.

Ma perché le missionarie della Consolata sono arrivate proprio qui? Per capirlo occorre fare un passo indietro nel tempo.

Il Capitolo (riunione generale dell’istituto, ndr) del 1987 ha ritenuto vitale l’apertura di nuovi campi di missione per dare la possibilità alle sorelle di iniziare cammini nuovi secondo la metodologia della missione oggi (missione come dialogo interculturale, dialogo ecumenico, dialogo interreligioso, dialogo di vita; missione come inculturazione; missione come testimonianza; missione come ricerca di giustizia e pace) e secondo le nostre caratteristiche carismatiche (metodologia che privilegia l’unione con Dio, la testimonianza di vita, l’accoglienza e la vicinanza alla gente, l’ascolto del cammino di Dio fatto con il popolo).

La Guinea-Bissau è, senza dubbio, un luogo che risponde a tutti questi obiettivi. Così nel 1990 abbiamo iniziato i primi passi, andando a conoscere la zona di Empada, nel Sud del paese, un’area di prima evangelizzazione che era già stata proposta a diciassette congregazioni.

Visitando la zona, abbiamo scoperto che corrispondeva al nostro carisma e all’insegnamento del nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che ci disse: «Dovete andare dove nessuno vuole andare».

Suor Anna Paola Folletto, tra le prime missionarie della Consolata in Guinea-Bissau

Ecco perché le missionarie della Consolata sono in Guinea dal 1992. La prima apertura è stata quindi la missione di Empada. È una presenza fra i Balanta (etnia predominante), Bijagos, Beafadas, Mandingas, Manjacos, Mancanhas, Pepeis e Nalus. Le quattro pioniere di questa missione sono state le sorelle Emma Piera Casali, Ana Paula Folletto, Hotência Nunes e Adriana Medina.

Nel 1994 è stata la volta di una nuova apertura presso il Centro Sos della capitale Bissau, che ospitava bambini abbandonati e orfani. Le sorelle della comunità erano tre: Margarita Benedetti, Alida Ronchi, incaricate della formazione e orientamento delle «mamme» e dei bambini, e Alicia Torres Rios incaricata di lavorare nella pastorale della parrocchia di Cristo Redentore. Abbiamo poi lasciato il Centro Sos nel 1998.

Arrivo sull’arcipelago

Nel 2000 le missionarie della Consolata sono arrivate a Bubaque, nell’arcipelago Bijagós, composto da più di 80 isole, di cui venti abitate. Luogo di prima evangelizzazione, dove i missionari del Pime (Pontificio istituto missioni estere) erano presenti dal 1954, con altre tre congregazioni femminili: le suore del Nome di Dio (1972-1975/6), le suore Figlie di Maria e le religiose delle Scuole Pie (1976-1998). Le missionarie della Consolata che hanno formato la prima comunità erano quattro: suor Maria Inocência Giacomozzi, suor Celia Regina Campaldi, suor Norma Valenzuela e, più tardi, suor Natalina Stringari.

A Bubaque, la maggioranza della popolazione pratica la religione tradizionale. Vi è un piccolo gruppo di musulmani e uno di cristiani. Quindi è ancora luogo di prima evangelizzazione, anche dopo 70 anni di presenza missionaria. Bubaque è considerata la terra di missione più difficile della Guinea-Bissau. Un luogo dove pochi o nessuno vuole andare, perché è veramente sfidante, a livello culturale, di trasporti, infrastrutture, ecc.

Nel 2006 è stata costituita la comunità di Bissau, la capitale, come sede della nostra delegazione. L’obiettivo di questa apertura era quello di essere punto di riferimento e accoglienza delle sorelle delle altre comunità e di fare il lavoro pastorale e sociale nella parrocchia di San Giuseppe nel villaggio di Bor (un sobborgo della capitale Bissau). A Bor l’etnia predominante è la Pepel, però ve ne sono altre presenti nel territorio. La comunità è stata costituta da suor Maria di Lourdes Pereira, suor Isabel Alves de Oliveira, suor Floralba Esteban Palencia e suor Alicia Torres Rios.

Revisione degli obiettivi

Oggi forse dobbiamo rivedere alcuni dei nostri obiettivi e lavori pastorali, consapevoli che non dobbiamo mai perdere di vista il nostro specifico ad gentes, ovvero essere presenti tra i non cristiani. Accompagnare quelli che hanno già ricevuto l’annuncio è un compito che spetta alla comunità locale, e non direttamente a noi sorelle, ma, comunque, lo facciamo con molto zelo. Così come conosciamo l’importanza di formare leader, e di lasciare che la chiesa locale sia protagonista.

Anélia Gomes de Paiva

Conoscenza, ascolto, dialogo

Le attività e l’approccio delle missionarie

Oltre all’annuncio, è fondamentale la formazione umana e sociale. Salute, educazione, promozione della donna, sono i campi nei quali si cimentano le missionarie.  Applicando sempre una «missione che passa attraverso le relazioni».

Nella nostra attività pastorale fra i diversi popoli a Empada, Bubaque e Bissau, consideriamo sempre come parte integrante dell’annuncio di Cristo, la formazione umana e sociale. Come voleva il nostro padre fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Pertanto, oltre le attività pastorali, lavoriamo nel campo dell’educazione, della salute e della promozione della donna.

Essendo il nostro obiettivo principale la prima evangelizzazione, ossia andare tra i non cristiani, al nostro arrivo a Empada nel 1992, tra i Beafadas, Bijagós, Balantas, Mandingas, Mancanhas, Fulas, Pepeis e Nalus, tutto era nuovo, tutto era da cominciare.

Visitare le famiglie

La nostra prima domanda era dove e come iniziare ad annunciare la «Buona Novella». Abbiamo compreso presto che non si poteva annunciare Gesù senza conoscere il popolo che Dio ci aveva affidato. Quindi la prima attività è stata quella di visitare le famiglie, ascoltarle, dialogare con loro per poter conosce il terreno dove «gettare» la grande novità del Vangelo. È da sottolineare che la prima preoccupazione delle missionarie è sempre stata quella di conoscere la realtà del popolo. Perciò, «la visita alle famiglie», è stata per noi una priorità fondamentale nell’attività evangelizzatrice.

Dopo alcuni incontri con il capo villaggio e la popolazione, le missionarie hanno iniziato le visite e subito hanno cominciato a prendersi cura dei bambini gemelli, perché solitamente uno dei due finiva per morire a causa della loro particolare vulnerabilità. Nel 1993, con la collaborazione generosa dei dieci cristiani già presenti a Empada, le missionarie hanno dato inizio al cammino cristiano con 24 coppie e con i loro 96 figli. Dopo cinque anni, si sono raccolti i primi frutti: 17 battezzati e 10 matrimoni. Era il 5 aprile 1997.

Il 45% della popolazione di Empada è musulmano, e più del 50% pratica la religione tradizionale, ma tutti, di ogni fede, erano vicini a noi missionarie. Nello stesso anno si sono anche iniziate due scuole di alfabetizzazione per adulti. Le altre attività cominciate alcuni anni dopo sono state l’accompagnamento dei bambini denutriti (1998), la promozione della donna (1999), la scuola superiore (2002) e l’asilo (2008).

Vivere in modo nuovo

Le missionarie hanno proposto alla gente la possibilità di vivere in un modo nuovo.

Tutto ciò ci permette di dire che abbiamo iniziato le attività evangelizzatrici in modo consono alla nostra «metodologia consolatina», cioè, per mezzo della vicinanza, dell’ascolto, del dialogo, della conoscenza della cultura, della collaborazione vicendevole. Sottolineiamo il dialogo di vita, di relazioni con i fedeli dell’islam, con quelli della religione tradizionale e con i cristiani di altre confessioni. La celebrazione ecumenica e interreligiosa realizzata alla fine di ogni anno testimonia l’amicizia, la comunione, la collaborazione e la partecipazione.

Pertanto, il filo conduttore che ha guidato i nostri passi nelle attività pastorali è stato il seguente: osservare, ascoltare, non avere fretta, conoscere la realtà, programmare e valutare insieme. Questi sono metodi e criteri che anche oggi continuano a guidare lo stile di missione delle missionarie della Consolata in Guinea-Bissau, fra i diversi popoli.

Anche se non sempre siamo così attente. Per esempio, a volte abbiamo troppa fretta di ottenere dei risultati. Vogliamo avere tutto nelle nostre mani, come se la missione fosse opera nostra. Dimentichiamo invece che è opera di Dio, e noi siamo soltanto al suo servizio. È Lui che tocca i cuori al momento giusto. Questo costituisce un paradigma significativo: da una missione basata sul protagonismo personale ad una missione vissuta come opera di Dio.

Semplicità e rispetto

Il nostro stile di missione è sempre stato caratterizzato da molta semplicità. Abbiamo cercato di adattarci alla gente: sederci su una pietra con loro per bere la loro bevanda e mangiare il loro stesso cibo. Uno stile basato sul rispetto della tradizione del popolo, partecipando anche ad alcune dello loro principali cerimonie e privilegiando la cura delle relazioni: vicinanza, amicizia, dialogo, collaborazione. Questi gesti, oltre ad aiutare noi a conoscere la tradizione culturale delle persone, hanno creato amicizia e apertura da parte loro. Partecipare alla loro vita ci ha portato ad essere «accolte come parte di loro».

Dopo 27 anni svolgiamo praticamente le stesse attività pastorali e sociali. Per realizzale oggi però abbiamo altri mezzi e strumenti che arricchiscono la nostra metodologia, e una maggiore consapevolezza riguardo la missione.

Come pensavano i primi missionari, oggi tanti nella Chiesa della Guinea-Bissau pensano che per essere cristiani si debba lasciare completamente la propria tradizione, e questo è inaccettabile per i seguaci della tradizione, soprattutto per gli anziani. Noi crediamo che la via di uscita per tale problematica sia l’inculturazione.

Per questo motivo durante l’assemblea del 2012 della nostra delegazione, abbiamo preso in considerazione, in modo particolare, questo aspetto. Consapevoli che attraverso l’inculturazione la Chiesa avrà cristiani con solida identità e preparati per portare avanti la missione evangelizzatrice. Nelle tre zone di missione in cui lavoriamo, ogni anno vengono amministrati circa 180 battesimi di giovani e adulti. Ma qual è la qualità di questi battesimi, se i candidati hanno ricevuto una formazione catechistica che non ha tenuto conto la loro identità culturale?

Salute e promozione della donna

Nel campo della salute è da rilevare che l’accompagnamento quotidiano dei bambini denutriti e delle mamme, aiuta a salvare tante vite. Attualmente nei due centri di nutrizione che abbiamo, ci prendiamo cura di circa 30-40 bambini al giorno. L’assistenza sanitaria è data a tutti, senza alcuna distinzione religiosa. I nostri centri fanno anche un lavoro significativo di accompagnamento alle mamme e bambini con il virus Hiv. Anche in questo campo la testimonianza e la carità cristiana fanno parte dell’annuncio, o meglio, sono annuncio.

La comune metodologia è uscire per incontrare le famiglie (visitare i bambini, conoscere la loro realtà), dialogare con i genitori, provvedere all’accompagnamento dei bambini e delle mamme.

Nel campo della promozione della donna, operiamo nei due centri di formazione con varie attività: alfabetizzazione, taglio e cucito, ricamo, cucina, tintura di stoffa, trasformazione della frutta, e altro.

Fra i Bijagós, nell’isola di Bubaque, sin dall’inizio una grande sfida per il lavoro missionario è stato  ed è la formazione delle giovani circa il valore della vita, la dignità della donna, le conseguenze drammatiche dell’aborto, e la contaminazione da virus Hiv. Il lavoro di promozione femminile è rivolto a tutte le donne, indipendentemente dalla loro religione.

L’obiettivo è sempre quello di risvegliare una maggiore consapevolezza del valore della vita e della dignità della donna, del suo ruolo nella famiglia e nella società. Questo è annuncio della Buona Notizia, perché è opera di costruzione del regno di Dio.

Nel campo dell’educazione, la formazione pedagogica dei professori è stata sin dall’inizio una nostra priorità. Oggi nelle due scuole superiori che seguiamo, ci sono circa 1.650 studenti, e un centinaio di bambini in una scuola materna. Queste scuole sono rivolte a tutta la popolazione, ossia, cristiani e non cristiani. È importante sottolineare che un professore musulmano del nostro liceo, ha scelto di diventare cristiano. Il motivo è stato la testimonianza dei suoi colleghi insegnanti. Qui vogliamo sempre offrire una formazione integrale ai giovani, favorire coloro che vivono lontano dalla città e che non hanno altre possibilità di andare a scuola.

VLUU L100, M100 / Samsung L100, M100

Essere presenti nel quotidiano

In sintesi, possiamo dire che noi, missionarie della Consolata in Guinea-Bissau, sin dall’inizio abbiamo scelto il dialogo come metodo per vivere la missione attraverso la vicinanza, l’amicizia, la testimonianza, la presenza. Io ho imparato che uno dei modi migliori per conoscere la cultura, gli usi e costumi delle persone è essere presente nella vita del popolo: gradualmente smetti di essere uno straniero e sei accolto come amico.

La missione come presenza rispetta tutte le tradizioni religiose e le culture. In questo senso, vogliamo sottolineare che la religione tradizionale, come qualsiasi altra religione, ha diritto al dialogo e ad essere rispettata. A questo riguardo abbiamo ancora tanto da imparare, perché solitamente guardiamo i seguaci della religione tradizionale come coloro che, quasi obbligatoriamente, devono convertirsi al cristianesimo per essere salvati.

La metodologia che abbiamo usato all’inizio per raggiungere i nostri obiettivi è ancora valida, perché abbiamo cercato di percorrere la strada offerta dal Concilio Vaticano II. Considerando, però, che la società cambia rapidamente, dobbiamo pensare a nuovi metodi e a nuove strategie. Ad esempio: come deve essere fatto l’annuncio ai non cristiani? Come considerare le altre tradizioni religiose? Come rendere l’annuncio attraente per chi lo ascolta in un mondo così complesso? Pertanto, il nostro modo di «fare» la missione deve adattarsi ai tempi, soprattutto il nostro modo di vivere e relazionarci con la gente deve suscitare dei perché, e suscitare inquietudini. Come diceva san Giovanni Paolo II, «Prima dell’azione, la missione è testimonianza e irradiazione».

L’incontro con i popoli

In alcune zone, i primi contatti con il popolo ci hanno fatte sentire animate e incoraggiate per l’accoglienza calorosa, l’entusiasmo, il rispetto e l’aiuto ricevuto, e anche per l’apertura e la semplicità, l’amore e la serietà con le quali le persone hanno accolto il Vangelo. In altre zone, invece, anche se l’accoglienza non ci è mancata, la preoccupazione della gente, l’interesse era soprattutto per il sociale, anche se poi hanno chiesto la catechesi. Spesso questo capita anche oggi, e in forma abbastanza accentuata fra il popolo Bijagós, che si presenta molto bisognoso (educazione, salute e altri progetti). Forse perché è un popolo isolato, e in certo senso dimenticato dallo stato.

Risultati incoraggianti

Abbiamo tuttavia notato cambiamenti significativi. Nel campo pastorale la formazione cristiana ha prodotto nelle persone un cambio di mentalità. Per esempio, le famiglie cristiane hanno un modo diverso di educare i figli, di organizzarsi come famiglia, di pensare la vita. Alcuni hanno anche un modo diverso, cioè più saggio ed equilibrato di vedere la loro tradizione. Essi sono sicuramente più integrati con la loro cultura. Ma non è così per la maggioranza dei cristiani.

Oggi le mamme hanno un modo diverso di prendersi cura dei figli e dell’ambiente. Oggi portano con più libertà i loro figli al Centro di salute o all’ospedale per farli curare. Prima era difficile convincerle. Lo stesso con le donne incinte: facevano resistenza per andare all’ospedale, e a volta il bambino moriva durante il parto. Oggi non vogliono più mettere a rischio la loro vita e la vita dei loro figli.

La maggior parte delle donne che si sono formate nei nostri centri erano analfabete. La formazione ha suscitato in loro il desiderio di sapere di più: studiare per essere più consapevoli del loro ruolo, del loro valore come donne al servizio della famiglia, della società e della chiesa. La maggior parte delle donne più giovani ora studiano di sera e frequentano l’università. Molte di loro con la formazione ricevuta, aiutano a portare avanti la famiglia.

Nel campo educativo abbiamo osservato che il cambio di mentalità degli studenti circa il loro futuro è significativo: la maggior parte di essi pensa di continuare gli studi dopo il liceo, sognano una vita più dignitosa, un paese più stabile politicamente e economicamente, più giustizia sociale. Sogni che se fatti tutti insieme, possono domani diventare realtà.

Anélia Gomes de Paiva

Un popolo «visitato» da Dio

Evangelizzazione e inculturazione

Il popolo guineano è variegato, ma ha come principio la vita comunitaria. I giovani sono affascinati dalla globalizzazione che apre loro nuove possibilità, ma li allontana dalle tradizioni. Le missionarie sono molto attive nel dialogo interreligioso e credono che il cristiano debba essere integrato nella propria cultura.

I guineani hanno come principio di base la vita comunitaria, ossia la crescita non individuale ma della comunità. Sono un popolo con un’identità etnica e tradizionale ben definita, con una forte spiritualità religiosa, che li porta a praticare intensamente le credenze della tradizione. Sono persone allegre e festose, ospitali, e con grande capacità di accettare le difficoltà e le sofferenze quotidiane. La maggior parte della popolazione vive con meno di un euro al giorno, e consuma un solo pasto quotidiano, mentre altri non possono nemmeno farlo. Nonostante le difficoltà, sono splendenti di gioia e fiduciosi nel Dio della vita. Sono un popolo che vive del miracolo dell’amore di Dio.

I guineani e la globalizzazione

suor Anélia Gomes de Paiva

In Guinea-Bissau sono circa 30 gruppi etnici, la lingua ufficiale è il portoghese, però la lingua più diffusa, parlata dal 44% degli abitanti, è il creolo (a base portoghese). Il 45% della popolazione segue la religione tradizionale, mentre i musulmani sono circa il 40%. Vi è poi una discreta minoranza cristiana (15%).

A proposito della globalizzazione, da una parte possiamo dire che essa ha prodotto dei cambiamenti di mentalità, e in un primo momento possiamo pensare che questo sia positivo. Ad esempio: i guineani oggi guardano il mondo in forma più ampia, vedono più lontano, hanno più ambizioni per migliorare la vita. I giovani si affrettano a studiare e a esercitare una professione. Vi è più accesso ai mezzi di comunicazione, più possibilità nell’ambito della salute e dell’educazione.

Dall’altra parte vi sono delle conseguenze negative nell’ambito dei valori personali, famigliari e sociali. Ad esempio: la mancanza di rispetto per la vita, l’individualismo, la violenza nelle famiglie e nella società. Tanti giovani si allontanano dalla loro tradizione perché vogliono essere «liberi» e avere una vita più moderna. La disuguaglianza sociale sta diventando sempre più evidente. Gli anziani si sentono più esclusi, soffrono di abbandono, indifferenza e solitudine. In questo senso è un sistema che sembra non aiutare a riflettere sul vero senso della vita. Aumenta la conoscenza nozionistica ma non di pari passo una adeguata formazione delle coscienze.

L’esperienza dell’invisibile

In Guinea-Bissau siamo sempre andate dove ci hanno chiamate. Con ogni popolo e etnia abbiamo iniziato l’annuncio in modo differente, conforme alle esigenze di ciascuno. Da coloro che hanno come valore la vita di gruppo, ci è stato chiesto un aiuto per vivere in modo nuovo la vita di gruppo. Altri ci hanno chiesto di parlare di Dio, ma anche la scuola per i loro bambini, ecc. È stato interessante scoprire che Dio li aveva «visitati» prima di noi, perché la missione è opera sua. Prima del nostro arrivo, Dio stava già lavorando con il suo popolo. Aveva già fatto storia con loro. Era poi giunto il momento di scoprire il seme che Dio aveva seminato per aiutarli a farlo crescere, ma anche i frutti maturi da cogliere, appunto, dalla loro esperienza dell’invisibile (Dio) secondo la loro spiritualità tradizionale.

Oggi siamo sempre più consapevoli di questa verità: il primo compito della missionaria è riconoscere il cammino che Dio ha fatto con il suo popolo e la sua presenza attuale. Vale la pena sottolineare che nei villaggi in cui siamo andate senza essere state chiamate, le attività di evangelizzazione non sono continuate, per mancanza di interesse da parte della popolazione.

L’evangelizzazione è accompagnata dalla promozione di tutta la persona, quindi la promozione umana è una dimensione importante della nostra pastorale. Perché il «centro» della missione sono l’uomo e la donna che vivono un momento decisivo nel loro processo storico. E il Cristo che proclamiamo vive già in mezzo al suo popolo, per condurlo alla piena liberazione.

Personalmente, posso dire che sono stata evangelizzata da loro, perché oggi, dopo dodici anni di missione con loro e in mezzo a loro, mi sento più cristiana, più missionaria.

VLUU L100, M100 / Samsung L100, M100

L’inculturazione

A partire dalla creazione della diocesi di Bissau (1977), la Chiesa in Guinea-Bissau ha preso coscienza della necessità dell’incontro del Vangelo con le culture, cioè dell’inculturazione della fede. L’inculturazione, il dialogo interreligioso e interetnico sono tra gli obiettivi principali della Chiesa locale. La Chiesa, ogni giorno, sta diventando consapevole che se non si incarna nella cultura del suo popolo, l’evangelizzazione continuerà ad essere superficiale e la Chiesa avrà dei cristiani senza un’identità propria, cristiani mancanti di una integrazione con la propria tradizione.

Come dice Paulo Suess, «la meta dell’inculturazione è la liberazione, e il cammino della liberazione è l’inculturazione» (cfr. P. Suess, Caminhar descalço sobre pedras: uma releitura da Conferencia de Santo Domingos, in Instituto Humanitas, Cadernos de Teologia Publicas, 19-20). E «solo con il messaggio rivelato dal di dentro, ogni popolo nella rispettiva cultura può veramente lodare il Signore nella propria lingua e con i propri termini», come dice Appiah-Kubi (cfr. F. A. Oborji, La teologia africana e l’evangelizzazione, Press, Roma 2016, 69-70). Perciò per una Chiesa dal volto guineano, ci vuole una evangelizzazione puntata sul dialogo con le culture e con la religione tradizionale.

Cura del Creato

Riguardo al creato, i guineani, in generale nella loro tradizione hanno profonda venerazione per la natura. Dalla natura prendono le erbe per le medicine; attribuiscono una particolare sacralità ad alcuni alberi; non sfruttano la natura per fine personale o abusivo, ma soltanto per la loro sopravvivenza. Quando hanno bisogno di tagliare un albero, ad esempio, per fare una canoa, fanno delle cerimonie per chiedere il permesso agli spiriti. Riconoscono che tutto è stato creato da Dio e appartiene a Dio. Quindi l’essere umano non ha il diritto di danneggiarlo.

A livello statale e governativo praticamente nulla viene fatto in questo ambito. Una città come Bissau non ha nemmeno i servizi igienici di base e molta spazzatura finisce per essere gettata in mare. Ci sono le Ong che intervengono nei settori di conservazione della biodiversità agricola, nella gestione delle risorse naturali e nella valorizzazione dei prodotti e della conoscenza della biodiversità. Esse informano e sensibilizzano la cittadinanza.

Il nostro carisma

A proposito del nostro carisma, possiamo dire di aver incontrato un popolo di «prima evangelizzazione», dunque questo è il nostro posto.

Pertanto, in Guinea-Bissau il nostro carisma diventa sempre più vitale, perché è alimentato da una realtà veramente ad gentes e da un ambiente con una piccola percentuale di cristiani. «Noi siamo per i non cristiani» e il contatto coi non cristiani ci rivela a noi stesse e sprigiona in noi il fuoco del carisma. Proprio per questo, la nostra identità carismatica è rafforzata.

Inoltre, l’esperienza con questo popolo arricchisce il nostro istituto e la Chiesa: ho scoperto nel popolo della Guinea-Bissau, con principi tradizionali ben radicati, una profonda spiritualità, non un senso generale dell’invisibile, ma un’esperienza concreta della presenza e dell’azione di Dio. I guineani sanno e credono che esiste un Dio sovrano e assolutamente potente, signore del cielo e della terra; confidano e sperano in lui. È il grande vivente che agisce nel mondo. Come non trarre vantaggio da questi solidi principi per l’evangelizzazione inculturata? I valori umani e spirituali del popolo guineano sono grandi, e il nostro istituto e la Chiesa devono saperli leggere tutti. Il rispetto e la conoscenza della cultura, nell’azione evangelizzatrice è stata considerata dal nostro fondatore, Giuseppe Allamano, quindi deve essere anche per noi. Questo ci porta a vivere il nostro carisma con apertura a tutte le culture e con atteggiamento dialogico. Siamo pertanto, invitate a ritornare a ciò che è stato tralasciato, trascurato, non valorizzato, ossia la ricchezza culturale e religiosa di ogni popolo. Oggi capiamo meglio che l’evangelizzazione deve guardare la persona in tutti i suoi aspetti, e deve essere fatta dal di dentro di ogni cultura.

Anélia Gomes de Paiva

Questo slideshow richiede JavaScript.


Democrazia?  «Siamo in Africa!»

Le intricate vicende politiche di un piccolo narco stato

La Guinea-Bissau è stata per anni il punto di passaggio del traffico di cocaina dal Sudamerica all’Europa. Nel 2014 sembrava esserci stato un cambiamento nella dirigenza del paese. Ma l’elezione, contestata, del nuovo presidente, pare riportare alla ribalta la classe dei militari-narcos.

L’ex generale, ed ex primo ministro, Umaro Sissoco Embaló è il nuovo presidente della Guinea-Bissau. La sua investitura, il 27 febbraio scorso in un hotel di Bissau, sebbene sia avvenuta con l’avallo del presidente uscente José Mario Vaz, è stata indubbiamente un atto di forza. Giunge a chiusura della crisi elettorale iniziata con le presidenziali di dicembre o, più probabilmente, con le legislative di marzo 2019. L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha avuto l’effetto di far passare le vicende bissau-guineane in secondo piano ed è tornata utile al nuovo uomo forte per «coprire» i suoi giochi interni.

Umaro Sissoco Embalo, nuovo presidente della Guinea-Bissau / Photo by SEYLLOU / AFP

Una speranza delusa

Ma veniamo ai fatti. L’ultimo anno è solo l’ultimo atto di una crisi politico istituzionale che il piccolo paese dell’Africa dell’Ovest vive dal 2015.

Nel 2014 l’elezione del presidente José Mario Vaz aveva lasciato sperare che la Guinea-Bissau voltasse pagina con le dittature e i colpi di stato che hanno contraddistinto la sua storia. Ma così non è stato.

Dopo aver nominato, nel luglio dello stesso anno, come primo ministro, il progressista Domingos Simões Pereira, i due sono entrati in contrasto. Entrambi Vaz e Pereira sono del Paigc (Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde), il partito storico dell’indipendenza dal Portogallo nel 1974. Appena un anno dopo Pereira viene mandato via e inizia la crisi istituzionale. Diversi sono i politici che si susseguono sulla poltrona da premier.

Una novità delle legislative di marzo 2019 è stato il Madem-G15, un nuovo partito creato per l’occasione e ben finanziato, che è riuscito ad arrivare al secondo posto, dopo il Paigc che ancora prevale nell’Assemblea nazionale con 52 deputati su 102.

Braccio di ferro istituzionale

A dicembre 2019, i due sfidanti alla presidenza sono proprio Embaló, ex quadro del Paigc e ora candidato del Madem-G15, e Pereira per il Paigc, di cui è presidente. Dopo il ballottaggio del 29 dicembre, la Commissione nazionale elettorale (Cne) aggiudica il 53,55% dei voti al primo e 46.45% al secondo (i risultati definitivi sono resi noti il 17 gennaio). Pereira però contesta il risultato, denunciando brogli elettorali. In particolare segnala irregolarità nei verbali di almeno la metà delle circoscrizioni, e chiede il riconteggio dei voti. La Corte suprema dunque non può che prenderne atto è dispone che venga fatta la verifica. Fin qui nulla di strano a queste latitudini.

Quello che succede dopo è un braccio di ferro tra la Cne e la Corte suprema, perché la prima, l’organo preposto all’organizzazione delle elezioni, rifiuta il conteggio. Negli stessi giorni, soldati vengono dispiegati in tutti i posti chiave delle istituzioni, dall’ufficio del primo ministro ai ministeri, fino a presidiare lo stesso palazzo della Corte suprema. Il fatto strano è che nessuno li ha chiamati e non si capisce da che parte stiano.

Si scoprirà con chi stanno i militari, quando, il giorno dopo la sua investitura, il 28 febbraio Embaló nomina primo ministro Nuno Gomes Nabiam, suo uomo di fiducia, mandando a casa il premier Aristides Gomes. Quest’ultimo è riconosciuto dalla comunità internazionale, e denuncia la sua deposizione come colpo di stato. Quel giorno a fianco di Embaló e del nuovo premier, si trovano il capo di stato maggiore, il suo vice e il comandante dell’aviazione. C’è anche una vecchia conoscenza, l’ex capo di stato maggiore, ex generale Antonio Indjai.

Indjai era stato dietro al famoso «colpo di stato della cocaina» dell’aprile 2012, quando fu rovesciato il presidente ad interim Raimundo Pereira.

Indjai, inoltre, è stato obiettivo principale della Dea (agenzia antidroga Usa) durante una caccia all’uomo del 2013, ed è ricercato negli Stati Uniti per aver venduto armi alle Farc colombiane in cambio di partite di cocaina. Si tratta dunque di uno dei massimi esponenti del gruppo narco militare che ha gestito il paese per anni e che ora sembrerebbe essere tornato all’ombra del potere.

Domingos Simoes Pereira, lo sfidante di Umaro Sissoco Embalo nelle ultime elezioni. / Photo by SEYLLOU / AFP

Due presidenti per 48 ore

Sempre il 28 febbraio, 54 deputati del Paigc e alleati, designano il presidente dell’Assemblea nazionale (che conta 102 deputati), Cipriano Cassama, come «presidente a interim», in risposta all’investitura «di forza», senza aspettare l’ok della Corte suprema, di Embaló. Ma Cassama, meno di 48 ore dopo la designazione, rinuncia a causa, dice, delle molteplici «minacce di morte» ricevute.

Embaló resta dunque l’«unico» presidente, anche se il contenzioso elettorale è ancora aperto.

In risposta a diversi deputati del Parlamento europeo che denunciano quanto sta avvenendo nel paese africano come «un pericolo per la democrazia», Embaló risponde: «Non facciamo parte dell’Unione europea. Noi siamo in Africa!»1.

A livello internazionale la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale), che ha guidato la mediazione per risolvere la crisi dal 2016, è inizialmente divisa sul da farsi.

Ma Embaló ha molti amici tra i capi di stato, così Senegal, Nigeria e Niger si affrettano a riconoscere il nuovo presidente, mentre altri restano indecisi. Embaló conta tra i suoi alleati più illustri i presidenti di Senegal, Macky Sall (presidente di turno della Cedeao), e Nigeria, Muhammadou Buhari, oltre che numerosi altri presidenti sul continente.

La svolta si ha il 23 marzo, quando la Cedeao stessa riconosce legittimo Embaló, nonostante i militari stiano ancora presidiando i posti chiave delle istituzioni, e ci sia quindi una «mano militare» che veglia sulla stabilità. Unione europea e Nazioni Unite ne seguono l’esempio. Nonostante la Corte suprema della Guinea-Bissau non abbia mai validato le elezioni. Il gioco di Embalò, e di chi lo ha voluto al potere, è dunque fatto.

Riforma costituzionale

La condizione che pone la Cedeao, è la realizzazione di una riforma costituzionale. La Costituzione del 1984, infatti, definisce un sistema semi presidenziale «ibrido», lasciando una certa ambiguità nella gestione del potere esecutivo tra presidente della repubblica e primo ministro. Ambiguità che ha causato molti ingorghi istituzionali e colpi di stato o tentativi di golpe.

Embaló si affretta a creare una Commissione di revisione costituzionale, il 12 maggio, composta da cinque membri, tutti nominati da lui stesso.

Secondo gli analisti della «Global initiative, against transnational organized crime»2, in Guinea-Bissau si assiste a un ritorno in attività della casta narco militare che negli anni 2005-2014 trasformarono il paese in un punto nevralgico per il passaggio della cocaina dal Sud America all’Europa, valendogli la definizione di «narco stato». Gli analisti mettono in relazione il «colpo di forza» attuato da Embaló nei primi mesi di quest’anno, con il colpo di stato della cocaina del 2012. Dietro al Madem-G15 ci sarebbero infatti i finanziamenti della rete militare-criminale mai smantellata, e ora tornata in auge.

Marco Bello

Note

(1) Guinée-Bissau, l’imbroglio continue à la tête du pays. Radio France international, 5 marzo 2020.

(2) Breaking the vicious cycle. Cocaine politics in Global Initiative, against transnational organized crime. Maggio 2020, disponibile online.

© Matteo Ghiglione


Cronologia essenziale

La Guinea-Bissau in date

  • 1973, 24 settembre – Il Partito africano per l’indipendenza della Guinea-Bissau e di Capo Verde (Paigc) proclama l’indipendenza.
  • 1974, 10 settembre – Il Portogallo riconosce l’indipendenza e Luis Cabral è il primo presidente.
  • 1980, 14 novembre – Colpo di stato militare di João Bernardo Vieira. Disciolta l’unione con Capo Verde.
  • 1984, 16 maggio – Nuova Costituzione, sistema del partito unico. Vieira vince le elezioni presidenziali.
  • 1989, 19 giugno – Vieira rieletto presidente.
  • 1991, 8 maggio – Adozione del multipartitismo.
  • 1993, 17 marzo – Tentativo di colpo di stato di João da Costa.
  • 1994, 7 agosto – Vieira vince per la terza volta le elezioni.
  • 1997, 2 maggio – Adozione del «franco cfa» come moneta e adesione all’Uemoa (Unione monetaria dell’Africa dell’Ovest).
  • 1998, 7 giugno – Scoppia un ammutinamento dopo la destituzione del generale Ansume Mané, capo di stato maggiore. Intervengono Senegal e Guinea. Inizia la guerra civile.
  • 1998, 1° novembre – Firma di un accordo di pace ad Abuja (Nigeria) tra il governo e la giunta guidata da Ansumane Mané.
  • 1999, 7 luglio – Mané rovescia il presidente Vieira. Malam Bacai Sanha, presidente dell’Assemblea nazionale, è nominato presidente della Repubblica.
  • 2000, 16 gennaio – Kumba Yala vince le elezioni presidenziali.
  • 2003, 14 settembre – Colpo di stato del generale Verissimo Correia Seabra, che viene assassinato un anno dopo da un gruppo di militari.
  • 2005, 24 luglio – Elezioni presidenziali: vince João Bernardo Vieira.
  • 2007, dicembre – Adozione da parte del parlamento di una legge di amnistia, per le violenze commesse negli anni 1980-2004.
  • 2008, 26 luglio – Il Paigc esce dalla coalizione di governo, dieci giorni dopo è sciolta l’Assemblea nazionale.
  • 2008, 23 novembre – Tentativo di colpo di stato contro Vieira.
  • 2009, 2 marzo – Doppio assassinio di Vieira e del capo di stato maggiore Tagmé Na Waié.
  • 2009, 5 giugno – Assassinio di tre uomini politici, tra i quali il candidato alla presidenza Baciro Dabo.
  • 2009, 26 luglio – Vittoria di Malam Bacai Sanha alle elezioni presidenziali.
  • 2010, 1 aprile – Rivolta dell’esercito organizzata dal generale Antonio Indjai contro il primo ministro, Carlos Gomez Junior e il capo di stato maggiore José Zamora Induta. A giugno Indjai diventa capo dell’esercito.
  • 2012, 9 gennaio – Muore il presidente Malam Bacai Sanha a Parigi. Raimundo Pereira diventa presidente ad interim.
  • 2012, 12 aprile – Colpo di stato del generale Mamadu Turé Kuruma, detto «golpe della cocaina». Arrestati presidente e primo ministro. Attivo il generale Indjai. L’Unione africana sospende la Guinea-Bissau. Accordo di transizione tra la giunta e i partiti politici che prevede elezioni entro due anni. Manuel Serifo Nhamadjo nominato presidente di transizione.
  • 2012, 21 ottobre – Tentativo di colpo di stato del capitano Pansau N’Tchama.
  • 2013, 2 aprile – La Dea (agenzia antidroga Usa) conduce un’operazione e arresta l’ammiraglio José Américo Bubo Na Tchuto, coinvolto in una rete di traffico internazionale. Il vero obiettivo sarebbe stato Antonio Indjao.
  • 2013, 18 aprile – Antonio Indjao, capo di stato maggiore, giudicato colpevole dalla giustizia Usa per narcoterrorismo: ha fornito armi alle Farc colombiane in cambio di cocaina.
  • 2014, 20 maggio – José Mario Vaz vince le elezioni presidenziali. A settembre Injano è cacciato dal suo posto di capo dell’esercito.
  • 2015, 12 agosto – Inizia la crisi politica in seguito al licenziamento del primo ministro Domingo
    Simões Pereira. La Cedeao condurrà la mediazione della crisi.
  • 2019, 10 marzo – Il Paigc, di cui Pereira è presidente, vince le elezioni legislative.
  • 2019, 2 aprile – Elezioni presidenziali. La Commissione nazionale elettorale dà la vittoria a Umaro Sissoco Embaló, ma il rivale, Pereira, contesta e accusa di brogli.
  • 2020, 27 febbraio – Nonostante il contenzioso elettorale e il blocco della Corte Suprema, Embaló forza e si autoinveste. Metà del parlamento nomina un presidente a interim, Cipriano Cassama, presidente dell’Assemblea nazionale, che subito si dimette a causa di minacce di morte.
  • 2020, 22 marzo – La Cedeao è divisa sul da farsi, ma finalmente prevalgono i paesi «amici» di Embaló che lo riconoscono presidente della Repubblica.

Ma.Bel.


Hanno firmato questo dossier

Anélia Gomes de Paiva

Nata a Riacho da Cruz (RN, Brasile), a 18 anni è andata a vivere a São Paulo, dove ha studiato, lavorato e fatto pastorale nella favela di Jandira. Qui ha scoperto la sua vocazione. Entrata nelle missionarie della Consolata nel 1999, dopo il noviziato in Colombia e la professione religiosa ha lavorato in Brasile dal 2003 al 2006. Dal 2007 è missionaria in Guinea-Bissau. «Posso dire che il periodo più bello della mia vita sono gli anni di missione vissuti tra le popolazioni della Guinea-Bissau e quelli della mia adolescenza che ho trascorso a pescare, a diretto contatto con la natura».

Marco Bello

giornalista redazione MC.

Foto:

Le foto di questo dossier – eccetto dove indicato differentemente – sono cortesia di suor Anélia e delle sue consorelle.

Le missionarie in Guinea-Bissau:

  • Comunità di Empada: Noeli Domingos Bueno, Maria Inocencia Giacomozzi, Rita Nombora.
  • Comunità di Bubaque: Ana Paula Foletto, Maria de Lourdes Pereira, Teresinha Victor, Anélia Gomes de Paiva.
  • Comunità di Bissau: Giovanna Panier Bagat, Emma Piera Casali, Maria Cecilia da Silva, Isabel Alves de Oliveira.

Archivio mc :

Il «paradiso» dimenticato, Matteo Ghiglione, agosto-settembre 2011.




Nel segno del Mekong

testo e foto di Piergiorgio Pescali |


Il nuovo Laos

Un’apertura made in China

Vientiane (gennaio 2020, poco prima che il mondo si fermi per la pandemia). Il mercato notturno lungo il Mekong è affollato di turisti che, dopo aver fatto la rituale foto del tramonto sul fiume, si riversano tra le bancarelle spulciando tra magliette, borse, ciabatte e souvenir vari. I ristorantini lavorano a pieno ritmo offrendo piatti locali e internazionali, mentre i motorini sfrecciano fendendo nubi di fumo liberate delle griglie su cui vengono abbrustoliti pesci, cotiche di maiale, polli e salsicce. Sul Quai Fa Ngum, il lungofiume, i centri di massaggi – la maggior parte dei quali (è bene rimarcarlo) non offrono supplementi sessuali – fanno a gara per accaparrarsi i clienti.

La capitale del Laos, relativamente assopita durante il giorno, di notte si trasforma in un formicaio di brulicanti attività, ma rispetto alle città vietnamite, thailandesi e cambogiane, Vientiane rimane, comunque, un grande villaggio di frontiera.

L’isolamento della nazione dovuto alla sua posizione geografica, alla conformazione del territorio e all’esiguità della popolazione ha permesso al Laos di mantenere un fascino particolare nell’immaginario collettivo del viaggiatore. Scenari spettacolari immersi in una natura incontaminata, viaggi lungo i fiumi, minoranze etniche ancora relativamente isolate dall’infezione del turismo di massa e dei tour operator, sono stati per decenni le cornici ideali entro cui si organizzava una vacanza in questo paese del Sud Est asiatico.

Tutto, però, sta per cambiare in un modo così veloce che, probabilmente già nei prossimi anni, il Laos descritto oggi sarà una memoria relegata nei libri e nelle fotografie rimaste nei cassetti o nei nostri computer.

Un monaco passa sul ponte di bambù costruito sul fiume Nam Khan, a Luang Prabang. Foto: Piergiorgio Pescali.

Strade e ferrovie: l’attivismo cinese

Viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare i numerosi cantieri che stanno lavorando a quel progetto colossale voluto dalla Cina inserito in quel fronte di espansione economica denominato One belt, One road, da noi meglio conosciuto come «nuova Via della Seta». L’idea, è noto, è quella di collegare il cuore produttivo cinese con il resto del mondo (Asia, Europa, Africa, America Latina) attraverso la costruzione di una rete di infrastrutture che si diramano principalmente verso Sud e verso Ovest; un piano miliardario (si parla di mille miliardi) che vede la partecipazione di una sessantina di stati, tra cui anche l’Italia. Nonostante l’economia laotiana non sia sviluppata quanto quelle dei vicini, la nazione è entrata nel mirino di Pechino essenzialmente per la sua posizione geografica che la pone come crocevia obbligato sulla linea di passaggio delle grandi arterie di comunicazione tra la Cina, il Mar Cinese meridionale e lo Stretto di Malacca.

I grandi progetti di comunicazione che collegheranno Singapore a Kunming si sviluppano attraverso la costruzione di una superstrada a quattro corsie e di una ferrovia ad alta velocità, la Pan-asiatica, lungo sei paesi (Singapore, Malesia, Thailandia, Laos, Myanmar e Cina). Il tratto laotiano si dipanerà tra Vientiane e Boten per un totale di 414 km di cui il 47% nascosti in settantacinque tunnel. Iniziata nel dicembre 2016, l’intera opera dovrebbe essere terminata (Covid-19 permettendo) a tempo di record nel 2021 (a dicembre 2019 l’80% del tratto era già stato completato), mentre nel 2023 la ferrovia sarà collegata alla rete thailandese attraverso un nuovo ponte in fase di costruzione tra Thanaleng (all’altezza di Vientiane) e Nong Khai, in Thailandia1.

Il programma è tenacemente appoggiato dal governo tramite la figura di Lattanamany Khounnyvong che, oltre ad essere viceministro dei Lavori pubblici e dei Trasporti, occupa anche la posizione di presidente del Comitato di direzione della Laos-China Railway Construction Project, l’azienda statale (30% del governo laotiano e 70% del governo cinese) che sta costruendo la ferrovia e ne gestirà l’operatività.

Mercato di Luang Prabang. Foto: Piergiorgio Pescali.

La popolazione laotiana ha accolto tutto sommato favorevolmente il progetto, non solo perché nella nazione ogni forma di opposizione politica e sociale alle decisioni dell’Assemblea nazionale dominata dal Partito rivoluzionario popolare è ostacolata dal governo, ma anche per il fatto che sarà facilitato lo spostamento di persone e merci garantendo, almeno sulla carta, un miglioramento delle condizioni di vita. Nella novella Thi Pak Chai («Il rifugio del cuore»), lo scrittore Thongbay Photisane descrive bene l’atteggiamento che ho riscontrato nei villaggi toccati dal progetto sinolaotiano: «La notizia dell’arrivo dei lavoratori che costruivano la strada si sparse di bocca in bocca e in ogni casa del villaggio. I più anziani apprezzarono e furono contenti che l’unica strada esistente, ormai da diversi anni polverosa, sporca, fangosa e cosparsa di buche, sarebbe finalmente stata riparata e migliorata».

Del resto, già in questi anni le reti di comunicazione laotiane sono state oggetto di ampi investimenti che si sono favorevolmente ripercossi sull’economia. Le vie, oltre ad essere state potenziate, possono contare su una buona qualità del manto stradale tanto che il 65% dei villaggi ha un accesso carrozzabile per tutto l’anno e solo il 7,9% della popolazione vive in villaggi completamente isolati (nel 2005 era il 21%). I tempi di percorrenza si sono accorciati e anche il parco dei veicoli dei trasporti pubblici è sensibilmente migliorato rendendo i trasferimenti più confortevoli. Solo vent’anni fa, spostarsi da un luogo all’altro del paese era insicuro a causa del banditismo e della guerriglia etnica; agli occidentali veniva sconsigliato di viaggiare in strada da Vientiane a Luang Prabang o nelle aree abitate da minoranze etniche meno presidiate dall’esercito. I mezzi pubblici erano rari e affollati e molti passeggeri erano costretti a spostarsi pigiati all’interno di abitacoli fatiscenti o affrontare il viaggio fermamente aggrappati sui portapacchi posti sul tetto.

È ancora Thongbay Photisane a darci uno spaccato della nuova vita nei villaggi dopo l’arrivo delle strade: «Nel villaggio i lavori per la costruzione della nuova strada continuavano. Da mattina a sera si sentiva il rumore dei trattori, dei camion e delle ruspe. La strada, prima fangosa e piena di buche, divenne liscia e larga come mai prima d’allora. Gli abitanti del villaggio strinsero amicizia con i lavoratori e la strada, in precedenza silenziosa e polverosa, prese nuova vita nel modo più straordinario. La sera i lavoratori si riunivano e si rilassavano mangiando e bevendo la tradizionale bevanda alcolica laotiana. Le ragazze, che prima d’allora non si erano mai truccate, iniziarono a farsi belle dipingendo le loro labbra con rossetti».

È al di fuori del confini del Laos, invece, che il programma di sviluppo delle infrastrutture dei trasporti incontra una maggiore opposizione.

Per finanziare il progetto ferroviario, che costerà 6,7 miliardi di dollari, Vientiane ha dovuto chiedere un prestito di 480 milioni di dollari (2,8% del Pil) alla Eximbank cinese destando la preoccupazione degli istituti finanziari internazionali per l’aumento del debito pubblico, oggi pari al 65% del Pil.

Il governo è, inoltre, accusato di aver costretto 4.400 famiglie di 167 villaggi ad abbandonare le loro case confiscando 3.830 ettari di terreno, superiori alle reali esigenze richieste per la costruzione delle infrastrutture2 e contribuendo alla deforestazione del paese (se nel 1940 la superficie forestale del paese era il 70% del totale, e nel 1995 il 47%, oggi è solo il 40%)3. Lattanamany Khounnyvong ha dichiarato che gli appezzamenti espropriati saranno risarciti, ma i proprietari lamentano che i rimborsi ottenuti, 595-715 Usd (dollari Usa) per ettaro, sono di gran lunga inferiori al prezzo di mercato, valutato attorno ai 1.420 Usd4.

Tramonto sul Mekong a Champasak. Foto: Piergiorgio Pescali.

Turismo, tra idealismo e devastazione

Poi ci sono i turisti che, dai finestrini dei bus con l’aria condizionata, osservano perplessi l’avanzare dei lavori temendo che sia sfregiata quella parte di mondo che invece vorrebbero mantenere intatta per portare a casa selfie con gente rigorosamente vestita in abiti tradizionali. Mantenere il Laos, al pari di qualunque altra realtà classificata come «esotica», immutabile come un dipinto naïf e idolatrare modi di vita di popolazioni indigene è una costante presente in molte realtà del turismo sui generis.

Sono tanti gli occidentali imbevuti di un ecologismo new age che idealizzano le comunità etniche elevandole a modello di sviluppo alternativo da seguire per vivere in simbiosi con l’ambiente. Poco importa se, nella realtà, la maggioranza di queste comunità vede la natura in una doppia valenza, foriera di vita e di morte. Ben lontano dalle loro menti è il concetto proprio delle società industrializzate che identifica la natura unicamente come una «madre benigna». Quando si deve lottare ogni giorno per sopravvivere non si ha il tempo, la voglia e la forza di rispettare qualcosa che si ritiene, nel migliore dei casi, indifferente al futuro e al benessere della propria famiglia e della comunità.

Viaggiando in Laos tra queste popolazioni e con i mezzi locali è chiaramente visibile la mancanza di un concetto di rispetto dell’ecosistema secondo la nostra concezione occidentale. Dai finestrini dei bus, dalle barche che solcano i fiumi o dalle verande delle case in cui abitano queste popolazioni, viene gettato nell’ambiente di tutto: sacchetti di plastica, bottiglie di vetro, abiti consunti, copertoni, carcasse di moto, auto o addirittura tuc-tuc o minibus. Strade e fiumi sono costellati di rifiuti. E sono ancora queste popolazioni che cacciano o aiutano i bracconieri a stanare e uccidere animali le cui parti anatomiche sono ritenute miracolose per la medicina tradizionale. Insomma, l’idealismo proprio di alcuni movimenti primitivisti cozza violentemente contro una realtà ben differente da quella ingenuamente proposta.

Mercato a Luang Prabang. Foto di: Piergiorgio Pescali.

Vang Vieng è forse l’esempio più eclatante di questa doppia visione. Fino al 2012 era una cittadina devastata dal turismo giovanile: centinaia di migliaia di ragazzi muniti di zaino si riversavano nel villaggio facendo uso di stupefacenti e alcool per poi ridiscendere il fiume Nam Song a bordo di camere d’aria, tuffarsi nelle acque del fiume, lanciarsi lungo le zip-lines (speciali teleferiche a scopo ludico, ndr). I bar mettevano a disposizione le droghe più varie: da funghi allucinogeni all’oppio, dalle metamfetamine alla marijuana che, mescolate alla grande quantità di liquori offerti, formavano pericolosi cocktails.

La popolazione della cittadina non ne poteva più: il turismo e la presenza di questi backpackers, dopo aver distrutto la tranquillità e l’armonia sociale metteva a rischio lo stesso ecosistema. I rifiuti non si riuscivano a smaltire, i campi erano cosparsi di bottiglie, sacchetti di plastica, vestiti, cartacce. Il sistema sanitario locale era al collasso e il piccolo ospedale lavorava solo per salvare turisti in stato di coma alcolico, in overdose o che si erano feriti durante le loro bravate. Nei periodi di alta stagione le strutture ospedaliere dovevano curare tra i cinque e dieci turisti al giorno.

Nell’agosto 2012 le autorità laotiane decisero finalmente di dare un taglio a tutto questo: furono chiusi i bar più problematici e imposero direttive più stringenti per regolare la vita notturna ed escursionistica. Le zip-line più pericolose, quelle non in regola e i trampolini lungo il fiume vennero distrutti. Il tutto però sembra non sia bastato: ancora oggi ci sono siti5, che danno indicazioni su come sfruttare il turismo sessuale specificando in quali bar è possibile comprare droga.

Al mercato di Phonsavan. Foto: Piergiorgio Pescali.

Governo e Ong impegnati nello sviluppo

Al tempo stesso, però, c’è un’altra fetta, seppur minoritaria, di occidentali che prestano opera di volontariato per avviare programmi di sviluppo rurale. Uno di questi è Sae Lao6, un progetto fondato nel 2008 da Sengkeo Frichitthavong che cerca di aiutare la sostenibilità sociale e ambientale della zona di Vang Vieng, mentre un altro è l’Eefa (Equal education for all), progetto di una Ong che ha permesso a cinquecento ragazzi laotiani di frequentare classi di lingua inglese e ha avviato programmi di igiene dentale7.

In tutto il Laos diverse Ong lavorano per aiutare piccole comunità, ma non è un compito facile: il governo vuole avere sotto stretto controllo ogni attività connessa con enti stranieri e ogni visita ai luoghi dove operano le diverse organizzazioni deve essere approvata attraverso un lungo ed estenuante iter burocratico. È comunque anche grazie a questa cooperazione e a un’oculata selezione delle agenzie interessate a interventi nel paese, che l’«indice di sviluppo umano» è salito da 0,399 nel 1990 a 0,604 nel 20198.

Chiesa cattolica a Paksè. Foto: Piergiorgio Pescali.

Un indicatore ancora basso (secondo l’Onu il Laos si pone al 140° posto nella classifica mondiale), ma i successi della politica adottata dai governi succedutisi alla guida del paese dal 1975 a oggi sono evidenti. Tra il 1992 e il 2013 la fetta di laotiani sotto la linea di povertà è dimezzata passando dal 46 al 23,2% della popolazione9 e oggi l’economia è la tredicesima al mondo come ritmo di crescita10. Siamo comunque lontani dallo sradicamento di povertà e malnutrizione: il traguardo di un Pil che raggiungesse i 3.100 dollari pro capite prospettato qualche anno orsono, si è rivelato irraggiungibile. Secondo il computo della Banca mondiale, nel 2018 ogni laotiano contribuiva per 2.460 dollari alla ricchezza nazionale11. Inoltre, il benessere è estremamente segmentato sulla base di una rigida frammentazione etnica: due terzi di quella fetta di popolazione che sta sotto il livello di povertà appartengono alle minoranze nazionali e, tra queste, Mon-Khmer e Hmong sono le più colpite.

Come spesso accade nei paesi in via di sviluppo in questa parte del mondo, l’industria tessile è la calamita con cui si cercano di attirare investimenti stranieri: un centinaio di aziende, concentrate principalmente a Vientiane e Savannakhet, occupano circa trentamila persone, la maggioranza delle quali ragazze sotto i 25 anni12. Le condizioni di lavoro a cui esse sono sottoposte non raggiungono le devastanti realtà cambogiane e, a differenza di quanto accade nel vicino paese, un recente rapporto dell’International labour office (Ilo) delle Nazioni unite afferma che si sta assistendo a un lento, ma costante miglioramento nel trattamento all’interno dei reparti produttivi13. Insomma, contrariamente al liberismo economico selvaggio scelto dalla Cambogia, qui in Laos la presenza dello stato sembra farsi sentire.

Monaci a Ban Huay Xay aspettano di attraversare il confine verso la Thailandia. Foto: Piergiorgio Pescali.

La spinta e i costi delle dighe

Il motore principale con cui il presidente Bounnhang Vorachit vuole trainare l’economia nei prossimi decenni è quello energetico. Il Laos, assieme a Myanmar, Thailandia, Cambogia e Vietnam fa parte del basso bacino del Mekong14, un’area ricca di oro, metano, piombo, zinco, fosfato, potassio, gas, pietre preziose e abitata da sessantacinque milioni di persone, l’80% delle quali vive nelle campagne15.

Il territorio laotiano è una potenziale fonte di enorme ricchezza, soprattutto di energia idroelettrica. I milleottocento chilometri del Mekong che scorrono entro e lungo i confini del paese e le decine di altri affluenti potrebbero liberare milioni di watt di energia, un tesoro immenso che viene sempre più sfruttato in nome di uno sviluppo nazionale.

Secondo uno studio della Mekong River Commission16, nel 2020 lo sviluppo degli impianti idroelettrici sul fiume Mekong porterà alle casse dell’economia laotiana 21,1 miliardi di dollari che saliranno a 36,0 miliardi nel 204017,18. Queste cifre, però, non includono i costi che la nazione dovrà sostenere per fronteggiare i danni all’ambiente e alle microeconomie derivati da questa politica.

Lo sviluppo delle stazioni idroelettriche sta causando la veloce erosione degli argini dovuti sia alle innumerevoli cave, più o meno abusive, che sorgono lungo il corso dei fiumi, sia all’aumento dei sedimenti che, trattenuti dalle dighe, non riescono a scendere a valle. All’altezza di Pakse, nel Laos meridionale, i sedimenti portati a valle dal Mekong sono scesi da una media di 147 tonnellate per anno alle attuali 6619. Per fronteggiare il problema, il paese dovrà intervenire con progetti che, nel solo 2020, costeranno 228 milioni di dollari per salire a 990 milioni nel 204020. Il problema emerge in tutta la sua drammatica evidenza viaggiando lungo le vie idriche ancora percorribili dai battelli e dalle barche pubbliche o private21. I nuovi cantieri, per lo più cinesi, che innalzano dighe e centrali idroelettriche, sollevano le proteste di molti abitanti contro la dissennata politica del governo. La costruzione di sbarramenti idrici influisce pesantemente sulla vita quotidiana dei laotiani, e le tradizionali vie fluviali, solcate ogni giorno da centinaia di imbarcazioni, sono ormai interrotte o costringono ad allungare i tempi di trasferimento per aggirare gli sbarramenti. Decine di migliaia di contadini e pescatori sono stati costretti ad abbandonare i villaggi inondati dai bacini artificiali.

Cercatori d’oro – donne e bambini – lungo il Mekong. Foto: Piergiorgio Pescali.

Sono proprio le microeconomie che si sviluppano attorno alle dighe quelle che subiranno i danni maggiori. Il governo ha affermato che il 70,8% dell’energia prodotta in Laos viene esportata22, diretta per il 44% alla Thailandia, il 10% in Cambogia e il 15% in Vietnam23. I proventi di tale operazione non andranno però a beneficiare le comunità interessate e i danni economici e ambientali saranno immensi, specialmente nel lungo periodo.

La maggioranza della popolazione che vive lungo il bacino del Mekong è impiegata nell’agricoltura, in particolare nella coltivazione del riso24. I funzionari governativi, nel tentativo di rassicurare la popolazione che imbrigliare le acque dei fiumi consentirà di regolare piene e siccità stagionali così da avere più sicurezza nei raccolti e aumentare la produzione, si sono «dimenticati» di aggiungere che, a lungo andare, il suolo rischierà di inaridirsi a causa della mancanza di ricambio naturale dei sedimenti. Tra il 2007 e il 2020 il gettito dell’agricoltura sull’economia laotiana è aumentato del 7,5% (45,7 miliardi Usd nel 2020 contro i 42,5 nel 2007), molto meno rispetto a quello cambogiano e vietnamita nello stesso periodo (rispettivamente +105% e +21,2%)25.

Anche l’industria ittica, la seconda fonte di approvvigionamento alimentare ed economico delle popolazioni rivierasche, è in pericolo a causa delle chiuse. Il gettito economico di questa attività si è dimezzato rispetto al 2007, scendendo da 8,3 miliardi di dollari ai 4,7 attuali26. Le ditte costruttrici delle dighe non hanno approntato sistemi che consentano alla fauna di passare da un tratto all’altro dei fiumi interessati dagli sbarramenti, isolandone i diversi corsi e aumentando così il rischio di estinzione. L’intera popolazione degli ottantacinque delfini dell’Irrawaddy (Orcaella brevirostris) nell’arcipelago fluviale di Si Phan Don è minacciata dalla costruzione della diga di Don Sahong27, a un chilometro e mezzo dal confine cambogiano. Entro il 2040 la quantità di pesce nel Mekong diminuirà del 50% in Laos e questo, oltre a essere un problema economico per molte famiglie, aggraverà la malnutrizione visto che il pesce è il principale alimento che garantisce un’apporto proteico alle popolazioni insediatesi lungo i fiumi laotiani.

Infine, vi è anche un problema di sicurezza, di cui numerose agenzie internazionali da tempo hanno avvertito il governo centrale, senza successo. Il disastro di Xe Pian-Xe Namnoy, nella provincia di Champasak è stato solo il più grave (e neppure l’ultimo) di una serie di incidenti succedutisi negli anni. Il 23 luglio 2018 una delle otto dighe del complesso, formato da tre dighe principali e altre cinque ausiliarie che avrebbero plasmato un bacino artificiale alto 73 metri e lungo 1.600 metri, è crollata riversando migliaia di metri cubi di acqua su diciannove villaggi, uccidendo settantuno persone e colpendo anche quindicimila cambogiani della provincia di Stung Treng. Cinquemila persone vivono ancora in campi temporanei e il governo di Vientiane ha già avvisato che occorreranno almeno quattro o cinque anni prima che si possa trovare loro una sistemazione definitiva. Nel frattempo, alle famiglie delle settantuno vittime è stato dato un indennizzo una tantum di diecimila dollari e una fornitura di venti chilogrammi di riso al mese; a tutti gli altri, oltre alle derrate alimentari, vengono consegnati 60-75 dollari mensili28.

Costruzione di un ponte ferroviario sul Mekong. Il ponte fa parte della ferrovia che da Singapore giungerà a Kunming, in Cina, attraversando il Laos. Foto: Piergiorgio Pescali.

Le responsabilità dell’accaduto vengono rimpallate da una parte all’altra. L’impianto di Xe Pian-Xe Namnoy, data la sua complessità e l’elevato costo (1,02 miliardi di dollari), è stato costruito da una cordata di imprese: le sudcoreane SK Engineering & Construction (azionaria al 26%), la Korea Western Power (azionaria al 25%), la thailandese Ratchaburi Electricity Generating Holding (azionaria al 25%) e la laotiana Lao State Holding Enterprise (azionaria al 24%).

La commissione indipendente incaricata dal governo di far luce sul motivo dell’incidente ha concluso che il crollo è stato dovuto a un difetto di costruzione29, ma le aziende coinvolte ed appoggiate dalle quattro banche thailandesi finanziatrici del progetto30, hanno rigettato l’argomentazione finale riuscendo a riprendere i lavori e a concluderli alla fine del 2019.

Di fronte a tali situazioni l’atteggiamento del governo è decisamente ambiguo: al World Economic Forum of Asean, tenutosi nel settembre 2018, il primo ministro laotiano Thongloun Sisoulith, dopo aver affermato che il «Laos non potrà diventare la batteria dell’Asia perché la nostra capacità di sviluppo energetico è molto limitata rispetto alla richiesta dei paesi Asean nostri vicini», ha subito dopo specificato che la nazione «ha la capacità di aumentare il suo potenziale in termini di risorse idriche. Possiamo produrre una quantità di energia sufficiente per il Laos e che può essere esportata nei paesi limitrofi»31.

In linea con questo schema, la mappa delle centrali idroelettriche già presenti o programmate sui fiumi laotiani è impressionante: nel 2005 c’erano undici dighe con nove stazioni idroelettriche per una capacità installata di 679 megawatt32, nel 2015 la capacità aveva raggiunto i 3.894 MW33.  Nel maggio 2019 sessantatré stazioni idroelettriche fornivano 7.213 MW; altre 112 centrali erano in costruzione. A queste entro il 2040 se ne dovrebbero aggiungere 340, con un totale produttivo di 19.494 MW34.

L’alternativa, secondo il governo di Vientiane, è un ritorno al carbone più di quanto stia facendo oggi. Nel 2015 è entrata in funzione la centrale di Hongsa che ha quadruplicato la produzione di energia elettrica da carbone (da 1.055 chilotonnellate nel 2013 a 4.793 nel 2015)35.

Oggi l’energia prodotta dal paese è per il 14,9% derivata dal carbone e per l’85,1% dalle centrali idroelettriche, ma nel 2040 il divario diminuirà in un rapporto di 22 a 8836.

A Phonsavan, comunismo e capitalismo camminano insieme. Foto: Piergiorgio Pescali.

Il nuovo «Triangolo d’oro»

Ridiscendere i fiumi laotiani non è solo un modo per accorgersi dei cambiamenti che andranno ad influire sulla vita di sette milioni di persone, ma anche fare un tuffo nel passato. Sebbene oggi si usino ben altri canali, il Mekong è stato per decenni il punto di transito della droga proveniente dal leggendario «Triangolo d’oro». Oggi questa regione è più un retaggio per turisti, un punto geografico che riunisce in un unico vertice tre paesi: Thailandia, Laos e Myanmar. Il Laos ha creato una zona a economia speciale nella speranza di attirare miliardari cinesi con la costruzione di un casino e di alcuni hotel che si affacciano sul Mekong. Le uniche monete accettate, oltre ai dollari, sono il bath e lo yuan. I campi di oppio sono scomparsi da decenni spostandosi verso l’interno oppure, più semplicemente, sostituiti da fabbriche di metamfetamine, più facili da mimetizzare, preparare e da smerciare. Secondo un rapporto dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime) tra il 2013 e il 2018 la quantità d’oppio prodotta dal Myanmar si è ridotta del 40%, ma al tempo stesso sono aumentati i laboratori di produzione chimica artificiale di stupefacenti37.

Nei soli due mesi di febbraio e marzo 2018 nello stato Shan del Myanmar sono stati scoperti e distrutti sei laboratori di produzione di droghe sintetiche38, mentre nel 2018 in Asia Orientale e nel Sudest asiatico sono state sequestrate 116 tonnellate di metamfetamine, in aumento rispetto alle 82 tonnellate confiscate l’anno precedente39.

Il Laos è diventato terra di transito non solo delle droghe sintetiche dirette per la maggior parte verso la Thailandia, ma anche di prodotti usati per la sintesi di metamfetamine nei laboratori del Myanmar e della Cina e per il loro smercio. Efedrina, pseudoefedrina, 1-fenil-2-propanone (P-2-P) sono i reagenti più comunemente usati dai produttori. Dato che risulta sempre più difficile commerciare queste merci, i boss della droga hanno iniziato a produrle direttamente in Laos partendo da prodotti sino ad oggi non sorvegliati dalle squadre antidroga, come il 2-bromo-1-fenil-1-propanone (2-bromopropiofenone) o cianuro di sodio (NaCN).

Le metamfetamine stanno soppiantando le altre droghe: una pastiglia in Laos viene venduta sul mercato a due dollari. Non proprio conveniente, ma sicuramente meno costosa rispetto all’eroina (24 dollari al grammo). I sequestri di metamfetamine, dopo aver avuto un minimo storico nel 2016 (meno di tre milioni di pastiglie sequestrate), nel 2018 hanno raggiunto il massimo con 21 milioni di pillole intercettate40.

Battelli lungo il Mekong tra Ban Huay Xai e Luang Prabang. Foto: Piergiorgio Pescali.

L’oppio e la guerra del Vietnam

Il commercio di droga nell’area del Sudest asiatico è un’attività storicamente utilizzata nel bilancio economico delle popolazioni locali. Fino agli anni Sessanta la coltivazione dell’oppio era limitata al solo consumo interno, ma l’avvento al potere di Mao Zedong nel 1949 rivoluzionò involontariamente per sempre questo equilibrio. I ribelli del Kuomintang si rifugiarono in Birmania (oggi Myanmar) e, per finanziare la loro rivolta contro i comunisti, iniziarono a coltivare oppio aiutati dalla Cia. Il commercio si rivelò così redditizio che i servizi segreti statunitensi continuarono a incentivare la coltivazione sia nel Triangolo d’oro, ma soprattutto tra le popolazioni Hmong del Laos41.

Ben presto queste minoranze e la loro abilità nel lavorare il papavero da cui si ricavava l’oppio divennero una colonna portante nella guerra contro il Vietnam. Tra il 1964 e il 1973 l’Us Air Force condusse una serie di incursioni aeree, tenute segrete al Congresso, in appoggio al governo monarchico e in opposizione al Pathet Lao, il movimento di guerriglia di ispirazione socialista. In meno di dieci anni, un paese formalmente neutrale come il Laos fu squassato da 270 milioni di bombe lanciate durante l’arco di 580mila missioni42. Queste bombe lasciano ancora oggi un segno nella società laotiana, ma pochi se ne accorgono. Sembra quasi che il Laos non sia stato scalfito dalla storia che ha plasmato l’ex Indocina. Una storia drammatica, ma al tempo stesso affascinante perché fatta non solo di eccidi, guerre, colonialismo, ma anche di popoli che hanno saputo tenere testa a potenze mondiali politicamente e militarmente soverchianti. Chi va in Cambogia sarà avvolto dai ricordi e dalle testimonianze del periodo di Kampuchea Democratica; chi cammina in Vietnam troverà ovunque memorie della guerra che, fino al 1975, ha sconvolto il paese. Chi arriva in Laos, invece, non ha la sensazione di respirare il passato più recente, nonostante il paese sia stato pesantemente coinvolto nella guerra del Sudest asiatico sin dal 1964. Sembra che la storia, qui sia stata dimenticata.

I turisti passeggiano allegramente lungo le vie delle cittadine e dei villaggi, quasi non accorgendosi delle innumerevoli bandiere con la falce e martello che ricordano di essere, pur sempre, in un paese retto da un governo socialista.

Per percepire la storia del Laos bisogna abbandonare le tradizionali vie del turismo, deviando dalle rotte principali, e cercare nelle periferie delle città o nei villaggi più isolati. È allora che si incrociano le vicende più atroci, quelle fatte di bombardamenti segreti, di mine ancora inesplose che continuano a mietere vittime, di fabbriche di protesi, di sminatori che per 240 dollari al mese rischiano ogni giorno la loro vita.

Consiglio sempre a chi si reca in Laos, di visitare la Piana delle Giare prendendo, in partenza o in arrivo, un volo aereo. È dall’alto che si ha la chiara visione di cosa abbia significato, per questa nazione essere stata costantemente martellata da bombardamenti. La provincia di Xiangkhoang è una delle aree più colpite dalle incursioni e i crateri sono ancora ben visibili nella conformazione del territorio nonostante siano passati ormai quasi cinquant’anni dalla fine delle ostilità.

Un cartello indica il pericolo di esplosione sul luogo dove è stata identificata la presenza di un Uxo (un ordigno bellico inesploso) nella regione di Xiangkhouang. Foto di: Piergiorgio Pescali.

I pericolosi «ricordini» della guerra

Se il Vietnam ha ereditato il dramma dell’agente arancio e la Cambogia quello delle mine, il Laos sta ancora lottando contro gli ordigni che, raggiungendo inesplosi il terreno, oggi costituiscono un pericolo per la vita di migliaia di persone. Si stima che il 30% delle bombe lanciate durante le missioni aeree non abbia detonato; il che significa che il terreno, alla fine della guerra, era cosparso da almeno 80 milioni di ordigni pronti ad esplodere.

La situazione oggi non è molto più rosea: il governo laotiano ha valutato che 8.470 chilometri quadrati di superficie del paese sarebbero contaminati da bombe a grappolo (Cluster munition remnamnts, Cmr) e 87.000 da Uxo (Unexploded ordnance)43,44, ma solo nel 2021, al termine di un lavoro di ricerca che sta effettuando il Mag (Mines advisory group), si saprà nel dettaglio quanta superficie di territorio laotiano sia ancora contaminata. A oggi, meno dell’1% delle munizioni sono state distrutte. Gli ordigni causano danni non solo all’economia del paese, ma dissestano anche la pace e la convivenza sociale. Ampie aree agricole non possono essere coltivate a causa della probabile presenza di Uxo, quindi i contadini si trovano a dover dividere terreni con conseguenti discussioni e diatribe. Inoltre, vivere con la costante paura di incappare in una bomba inesplosa innalza la tensione sociale.

La bonifica del territorio è costosa e richiede sforzi immani sia da parte del governo laotiano che da parte della popolazione. Gli Stati Uniti, principali responsabili di questa devastazione, dal 1995 al 2016 hanno donato un totale di 169 milioni di dollari per programmi di bonifica e attività correlate45 a cui si sono aggiunti 90 milioni di dollari promessi da Obama durante la sua visita effettuata nel 201646. L’allora presidente Usa era stato particolarmente colpito dalla situazione laotiana affermando che «in nove anni, tra il 1964 e il 1973, gli Stati Uniti hanno lanciato più di due milioni di tonnellate di bombe sul Laos, più di quanto ne abbiamo lanciate su Germania e Giappone assieme nella Seconda guerra mondiale. Questo ha reso il Laos il paese più bombardato nella storia. Penso quindi che gli Stati Uniti hanno un obbligo morale nell’aiutare il Laos a guarire»47.

Tremila operatori suddivisi in nove organizzazioni internazionali e due battaglioni dell’esercito laotiano lavorano nel campo della bonifica del territorio e nei programmi di prevenzione e cura traumatica della popolazione48.

Questua mattutina dei monaci buddhisti a Ban Huay Xay. Foto: Piergiorgio Pescali.

La minaccia degli Uxo è data dal fatto che ognuno di essi ha un grado di pericolosità differente dovuto non solo al tipo e alla quantità di esplosivo contenuto (ci sono 186 diversi tipologie di Uxo in Laos)49, ma anche al grado di corrosione, alla profondità in cui si trovano nel terreno, alla condizione del dispositivo di innesco. Basta accendere un fuoco affinché un ordigno posto a meno di venticinque centimetri di profondità possa detonare50. È quindi indispensabile, oltre al lavoro di ricerca e disinnesco, programmare un’intensa opera di informazione presso scuole, villaggi, centri di aggregazione sociale. Nel 2012 Vientiane ha avviato Safe path forward 2 (Avanzamento del cammino di sicurezza 2), un programma che terminerà nel 2022 e che ha come obiettivo quello di ridurre le vittime (morti e feriti) da 300 a 75 mediante la bonifica di 200 chilometri quadrati di territorio all’anno51. Grazie a queste campagne e alla bonifica di terreni, gli incidenti e i morti avvenuti nel Laos tra il 2008 e il 2018 a causa degli Uxo è drasticamente diminuito passando da 302 vittime (di cui 99 morti) nel 2008 a 24 (di cui 3 morti) nel 201852.

Tutto questo, però ha un costo enorme: contro una stima di circa 50 milioni di dollari all’anno per bonificare la nazione, assistere e curare le vittime, garantire loro la sopravvivenza, il governo laotiano ne fornisce 15 milioni, contando per il rimanente sugli aiuti internazionali i quali, oltre che dagli Stati Uniti, arrivano da Irlanda, Unione Europea, Nuova Zelanda, Lussemburgo, Canada, Corea del Sud53.

La guerra, nel Sudest asiatico, non è ancora finita.

Piergiorgio Pescali

Questua mattutina a Ban Huay Xay. I monaci ringraziano un istituto bancario che ha donato soldi al locale monastero. Foto: Piergiorgio Pescali.


Note al testo

  • (1) https://laotiantimes.com/2017/02/20/everything-you-need-to-know-laos-china-railway/
  • (2) http://www.asianews.eu/content/compensation-payments-laos-china-railway-slated-completion-2019-85946
  • (3) World Bank Group, Lao People’s Democratic Republic Systematic Country Diagnostic, Priorities for Ending Poverty and Boosting Shared Prosperity – Capitolo 2. The nature of Lao Pdr’s growth and its constraints, pag. 11, 9 marzo 2017.
  • (4) Radio Free Asia, Families in Oudomxay province first to receive compensation from Lao-China Railway, 14 maggio 2018.
  • (5) https://adventureprime.com/vang-vieng-vice-guide-nightlife-drugs-girls/#Drugs
  • (6) https://www.saelaoproject.com/
  • (7) http://www.eefalaos.org/
  • (8) Human Development Report 2019, Inequalities in Human Development in the 21st Century – Lao People’s Democratic Republic, Capitolo 2 – Human Development Index (HDI) § 2.1 Lao People’s Democratic Republic’s HDI value and rank, pag. 3.
  • (9) World Bank Group, Lao People’s Democratic Republic Systematic Country Diagnostic, Priorities for Ending Poverty and Boosting Shared Prosperity – Capitolo 1, Country context, Box 1: MDG attainment and LDC graduation criteria, pag. 2, 9 marzo 2017.
  • (10) ibidem, Executive summary, pag. I, 9 marzo 2017.
  • (11) https://www.worldbank.org/en/country/lao/overview
  • (12) https://www.ilo.org/asia/media-centre/news/WCMS_358225/lang–en/index.htm
  • (13) International Labour Office (ILO), Improving the garment sector in Lao PDR: Compliance through inspection and dialogue – Independent final evaluation, giugno 2017.
  • (14) Il corso del Mekong è stato diviso in due bacini: l’Alto e il Basso bacino che complessivamente occupano una regione di 795mila chilometri quadrati. L’Alto bacino è l’area del fiume che scorre solo in territorio cinese per 1.995 km in tre diverse regioni: Tibet, i Tre Fiumi e il Bacino di Lancang e occupa il 25% dell’intero bacino.
  • (15) Jorge Soutullo, The Mekong River: geopolitics over development, hydropower and the environment, Capitolo 4 – Geographical relevance and natural resources of the Mekong River, European Parliament – Policy Department for External Relations, Novembre 2019, pag. 18.
  • (16) La Mekong River Commission (Commissione sul fiume Mekong) è un organismo transnazionale che comprende i governi di Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam per coordinare e promuovere uno sviluppo sostenibile del Mekong.
  • (17) Mekong River Commission, The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 21.
  • (18) Secondo la stessa ricerca, in Thailandia lo sviluppo sarà di 28,7 nel 2020 e di 81,1 nel 2040; in Cambogia di 6,6 miliardi USD nel 2020 e di 12,0 nel 2040; in Vietnam di 16,0 miliardi USD nel 2020 e di 31,7 nel 2040.
  • (19) Mekong River Commission, Integrated Water Resources Management-based – Basin Development Strategy 2016-2020 for the Lower Mekong Basin, Capitolo 2 – Development trends and long-termoutlook, §2.3 – Economic, social and environmental trends and outlook, pag. 30.
  • (20) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7 – Main scenario impact assessment results, § Cross-sector comparison, 26 dicembre 2017, pag. 25.

Venditrice di alimentari sul bus da Muang Khua a Oudom Xay. Foto: Piergiorgio Pescali.

  • (21) A causa delle dighe numerose tratte fluviali oggi non sono più coperte dai barconi.
  • (22) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Statistics 2018, ERIA Research Project Report 2018, Maggio 2018, Capitolo 2 – Energy Balance Table § Electricity, n. 19, Febbraio 2020, pag. 31.
  • (23) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 21.
  • (24) Il 15% del riso prodotto nel mondo proviene dal bacino del basso Mekong.
  • (25) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 23.
  • (26) Ibidem, pag. 22.
  • (27) La diga di Don Sahong è costruita dalla malese MegaFirst in joint venture con il governo laotiano.
  • (28) Pratch Rujivanarom, Special Report: Compensation talks begin for dam disaster victims, The Nation, 18 February 2019.
  • (29) Vientiane Times, Investigators: Dam collapse not a «force majeure» event, 29 May 2019.
  • (30) Le banche, tutte thailandesi, sono la Krung Thai Bank, l’Ayudhya Bank, la Thanachart Bank e la Export-Import Bank of Thailand.
  • (31) https://laotiantimes.com/2018/09/13/laos-pm-thongloun-confirms-hydropower-generation-policy/
  • (32) Lao News Agency, Laos Expects to Have100 Hydropower Plants by 2020, 6 Luglio 2017.
  • (33) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Outlook 2020, ERIA Research Project Report 2018 – Capitolo 1 – Introduction §1.2 Energy Supply – Demand Situation No 19, Febbraio 2020, pag. 3.
  • (34) Songxay Sengdara, Govt. hydro developers pave way for safe dam management, Vientiane Times, 19 June 2019.
  • (35) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Statistics 2018, ERIA Research Project Report 2018, Capitolo 1 – Primary Energy Data § Coal, Maggio 2018, pag. 2.
  • (36) ibidem, Capitolo 5 – Model Assumptions §5.3 Electricity Generation Technologies, No 19, Febbraio 2020, pag. 54.
  • (37) United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc), Synthetic Drugs in East and South-East Asia – Trends and Patterns od Amphetamine-type Stimulants and New Psychoactive Substances, § Regional trends: East and South-East Asia, Marzo 2019, pag. 3.

La biglietteria del battello pubblico da Nong Khiaw a Muang Khua. Foto: Piergiorgio Pescali.

  • (38) Central Committee for Drug Abuse Control (Myanmar) – CCDAC, Synthetic drug situation in Myanmar, rapporto al Global SMART Programme Regional Workshop, Chiang Rai, Thailandia, Agosto 2018.
  • (39) Ibidem, Synthetic Drugs in East and South-East Asia – Trends and Patterns od Amphetamine-type Stimulants and New Psychoactive Substances, § Regional trends: East and South-East Asia, Marzo 2019, pag. 1.
  • (40) Lao National Commission for Drugs Control and Supervision (Lcdc), Report of illicit drug seizures for 2018 and corresponding reports from previous years.
  • (41) «Triangolo d’oro» è il nome in codice dato dalla Cia alla regione a cavallo tra Thailandia, Birmania (oggi Myanmar) e Laos dove era concentrata la coltivazione e la produzione di oppio.
  • (42) Legacies of War, Unexploded Ordnance (UXO) in Laos: Background and Recommendation, pag. 1.
  • (43) Phoukhieo Chanthasomboune, Direttore del National Regulatory Authority, CCM intersessional meetings (Clearance and Risk Reduction session), Ginevra, 7 aprile 2014.
  • (44) Le bombe a grappolo, o CMR, erano lanciate per la loro capacità di penetrare tra il fogliame della giungla ed esplodere lanciando detriti in una vasta area colpendo il maggior numero possibile di nemici.
  • (45) U.S. Department of State, To Walk the Earth in Safety, 17th Edition, 18 dicembre 2018.
  • (46) I finanziamenti Usa sono principalmente diretti alle seguenti organizzazioni: Mines Advisory Group, HALO Trust, Norwegian People’s Aid, World Education, Health Leadership International, Spirit of Soccer, Geneva International Center for Humanitarian Demining, Janus Global Operations.
  • (47) Casa Bianca, Remarks by President Obama to the People of Laos, 6 settembre 2016.
  • (48) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 7.
  • (49) Landmine Action, Explosive remnants of war and mines other than anti-personnel mines, Global Survey 2003-2004, Marzo 2005, pag. 104.
  • (50) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 5.
  • (51) National Regulatory Authority, Safe Path Forward – II, 22 giugno 2012.
  • (52) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 5.
  • (53) Ibidem, pag. 14.

Contadina in una risaia a Don Khon, nelle isole Si Phan Don, sul Mekong. Foto: Piergiorgio Pescali.


Ha firmato questo dossier:

PIERGIORGIO PESCALI
Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

Monaci buddhisti a Huay Xai. Foto: Piergiorgio Pescali.




Antropologi e missionari. Tanti mondi, un’unica terra

testi di Stefania Raspo, Francesco Remotti, Paolo Moiola |


Indice interattivo:

L’incontro con gli altri Uomini diversi da noi

La missionaria: Da un mito all’altro, dalla «civiltà» al «progresso».

L’Antropologo: A proposito di missionari e antropologi

Fonti bibliografiche.
Hanno firmato questo dossier

Un Yatiri – come vengono chiamati alcuni guaritori tra gli Aymara – mentre utilizza foglie di coca per leggere il futuro a El Alto, città che sovrasta la capitale La Paz. / Foto di Jorge Bernal – AFP.


L’incontro con gli altri

Uomini diversi da noi

Due categorie – i missionari e gli antropologi – che parrebbero molto lontane. Invece, è vero il contrario. Si sono spesso incrociate. Spesso hanno compiuto gli stessi errori. Sempre hanno avuto dilemmi su come comportarsi davanti a
«uomini diversi da noi».

Quando l’antropologia muoveva i suoi primi passi come ambito di studio con un suo proprio statuto scientifico, nella seconda metà dell’800, i missionari già da tempo andavano nei paesi di missione dei vari continenti per incontrare e convertire popoli non cristiani. I «nuovi» antropologi iniziarono a frequentare quegli stessi luoghi per studiare culture e organizzazione sociale dei popoli visitati. In un caso e nell’altro, si trattava di incontrare «uomini diversi da noi», per riprendere il titolo (italiano) di un libro dell’antropologo britannico John Beattie. A quel tempo, e per qualche decennio, gli sbagli furono molti: imperialismo, dominazione coloniale, monopolio culturale dell’Occidente, individuazione di culture superiori e culture inferiori. C’era tutto questo.

«Gli antichi Greci – scrive Beattie – credevano che tutti i popoli di stirpe non ellenica fossero barbari, selvaggi incivili. Sarebbe stato del tutto fuori posto trattarli come individui veri e propri. E anche oggi in nazioni notevolmente progredite troviamo gente che considera popoli di razza, nazione e cultura diversa in modi non molto dissimili da quelli citati, soprattutto se il colore della loro pelle è diverso oppure se essi si differenziano per fede religiosa o credo politico»1.

Per quanto riguarda i portatori di altre fedi religiose come i missionari, lo studioso inglese concede: «Nessuno sa meglio degli antropologi sociali quanto abbiano contribuito al benessere delle popolazioni africane molte migliaia di missionari di tutte le confessioni, che dedicarono la loro vita a tale scopo. Tuttavia, […] il loro messaggio non è sempre stato capito, e spesso gli effetti prodotti […] sono stati quelli di sconvolgere le istituzioni tradizionali, sia quelle moralmente innocue, sia quelle moralmente riprovevoli da un punto di vista cristiano».

Riconoscere uno sconvolgimento delle istituzioni tradizionali vuole intendere che l’opera dei missionari e quella degli antropologi sono inconciliabili? «I missionari – ammette Beattie – sono stati in grado di fare la loro antropologia. [Essi] hanno il vantaggio di un soggiorno prolungato in una singola comunità e, di solito, di una buona conoscenza della lingua indigena. Alcuni degli studi più profondi delle istituzioni e dei modi di pensiero indigeni sono dovuti a missionari». Verso gli uni e gli altri è durissimo Alfonso Maria Di Nola, uno dei più famosi antropologi italiani (1926-1997), che vede «una prepotenza e una violenza immorale dell’uomo occidentale che si autodimensiona come unica realtà di cultura e nega la comprensione di ogni altro uomo come portatore di diversità e di alienità. La quale violenza e prepotenza – consolidate negli studiosi occidentali anche più eminenti da una colposa pigrizia a uscire eroicamente dal proprio guscio culturale e alimentata dal terrore di scoprire le dimensioni altre ed aliene, quasi fossero attentati alla propria sicurezza – è stata una delle cause di tragica incomprensione fra uomini e ha fondato i diritti all’aggressione, all’imperialismo, al colonialismo»2.

Uscì certamente dal suo guscio – non senza scandalo – padre Silvano Sabatini (1922-2014), 40 anni tra gli indigeni dell’Amazzonia. La sua – ha scritto Antonino Colajanni, antropologo de La Sapienza – è stata una magnifica storia di missionario «che si pone alla prova, che si trasforma con l’esperienza del contatto interculturale»3

Padre Sabatini – scrive ancora Colajanni – «passa rapidamente dallo “scandalo” per la nudità degli indios di fronte all’altare di Cristo alla comprensione dei loro diversi valori, del loro diverso senso del pudore. Coglie immediatamente un tratto della cultura indigena, quella sorta di “teologia ambientale” che li fa sentire come parte del mondo naturale (e soprannaturale, a quello collegato) e non come dominatori della natura».

Padre Sabatini «identifica da subito un compito ineludibile per il missionario come per l’antropologo: quello di “dar voce” direttamente all’indigeno, perché racconti la sua verità, il suo punto di vista, non quello che i bianchi vogliono sentirsi dire».

Un rivoluzionario, padre Silvano Sabatini. Un antropologo de facto. Un missionario antitetico agli evangelici che danni enormi hanno fatto e stanno facendo in giro per il mondo. Un missionario di quelli che fanno tanto «arrabbiare» (eufemismo) i cattolici tradizionalisti, quelli che ogni giorno criticano papa Francesco4

«C’è un’incapacità che si è istituzionalizzata nella nostra società. Si tratta dell’incapacità di confronto. Ci riferiamo al confronto con le esperienze culturali distanti dalla nostra. […] A livello ideologico generale si sono istituzionalizzate forme di razzismo ed etnocentrismo»5.

Queste riflessioni del sociologo francese Gérard Leclerc risalgono al 1973. Si pensava descrivessero situazioni se non superate almeno attenuate. Invece, sono tornate e stanno tornando a farsi largo in modo prepotente, ovunque nel mondo. Il lavoro di missionari e antropologi dovrebbe contribuire a contenere questa tendenza.

Da tempo, papa Francesco sembra lavorare in questa direzione. Nel messaggio diffuso lo scorso 9 giugno per la giornata missionaria mondiale 2019, si legge: «Noi non facciamo proselitismo». A febbraio di quest’anno, nell’esortazione apostolica postsinodale Querida Amazonia, ha scritto: «In un vero spirito di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione» (n. 108). Infine, lo scorso marzo, in un messaggio rivolto ai cattolici cinesi, papa Francesco ha precisato che essi «devono promuovere il Vangelo, ma senza fare proselitismo». Tutte testimonianze che aiutano a inquadrare il ruolo dei missionari e a «superare l’incapacità del confronto».

Paolo Moiola

  • (1) (2) (5) John Beattie, Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Editori Laterza, Roma-Bari 1973..
  • (3) Antonino Colajanni, introduzione a Il prete e l’antropologo di Silvano Sabatini e Silvia Zaccaria, Ediesse, Roma 2011, pag. 11-23.
  • (4) Paolo Moiola, Tribalista ed ecologista, in «Amazzonie», dossier Missioni Consolata, gennaio-febbraio 2020.

Bolivia – © Pablo Andrés Rivero


La missionaria

Da un mito all’altro, dalla «civiltà» al «progresso»

Il missionario propone una religione, l’antropologo difende la libertà di essere quello che si è. Il racconto di una persona in cui missione e antropologia riescono a convivere. Arricchendosi a vicenda.

Sono una missionaria, ma anche un’antropologa. La vocazione e lo studio dell’antropologia si sono intrecciate già da molto tempo, da quando ero una studentessa universitaria di filosofia che, ad un certo punto, ha sentito la chiamata di Dio. A quel tempo dovetti scegliere un’area di studio per il secondo biennio. Io scelsi l’orientamento socio-antropologico, perché lo sentivo più in sintonia con l’apertura del cuore verso il mondo intero.

Donna indigena / Foto Tjabeljan.

All’università venivano presentati come contrapposti l’atteggiamento missionario, descritto come volontà di proporre-imporre una religione, e quello antropologico, descritto invece come volontà di difendere la libertà di essere quello che si è, per dirla in parole molto povere. La cosa mi colpiva, ma dentro di me non ho mai preso posizione. O forse sì…

Dopo la mia formazione e consacrazione religiosa, fui destinata alla missione in Bolivia, dove – con somma gioia – arrivai il primo febbraio del 2013. Da allora vivo con il popolo contadino di lingua quechua, nel dipartimento di Potosí: la gente ha conservato una forte identità indigena, e molte tradizioni continuano a essere vigenti, anche nelle nuove generazioni. Dopo alcuni anni, ecco che l’antropologia di nuovo bussa alla mia vita: mi viene proposto lo studio a distanza della disciplina, che comporta un’immersione continua nella realtà quechua e, allo stesso tempo, una riflessione teorica da incarnare nella vita quotidiana.

Questa esperienza mi porta ad affermare che non c’è contrapposizione tra missione e antropologia: le due situazioni s’illuminano a vicenda. Da estirpare, piuttosto, sono alcuni pregiudizi che possono accompagnare sia l’antropologa, sia la missionaria che convivono in me.

Iniziamo con la missione e la sua relazione con la colonia, che ha prodotto conseguenze fino al giorno d’oggi. L’espansione della Chiesa cattolica – e in generale del cristianesimo – a livello planetario si è servita di un mezzo non neutro, come è l’espansione coloniale dei paesi europei: dapprima in America, con gli imperi spagnoli e portoghesi, poi in Asia, Africa e Oceania. Alla base del colonialismo c’era una giustificazione molto semplice: noi siamo i più «bravi», siamo i civilizzati, che portano la civilizzazione ai primitivi. D’altra parte, la nostra missione, in questo caso come cristiani, era quella di fare uscire dall’errore gli infedeli perché abbracciassero la verità di Cristo per potersi salvare. Poi, è arrivato il Concilio Vaticano II, il quale ci ha spiegato che ci si può salvare anche fuori dalla Chiesa. Nel frattempo, il mito dei «portatori di civiltà» si è trasformato nel mito contemporaneo del «progresso». Sicuramente, chi ha frequentato le medie e superiori negli anni Ottanta e Novanta avrà studiato quelli che si chiamavano (e spesso ancora si chiamano) «i paesi in via di sviluppo».

Particolare di una statua lignea di Cristo. / Foto haaijk.nl

Graficamente parlando, l’idea è che i vari popoli si trovino su una retta, sulla quale stiamo progredendo, chi un po’ più avanti, chi un po’ più indietro (= in via di sviluppo). In quell’epoca (seconda metà del Novecento) la Chiesa missionaria ha tradotto questa idea con opere, grandi e piccole, per lo sviluppo di aree povere, costruendo scuole, ospedali, e chi più ne ha, ne metta.

Attualmente, il «mito del progresso continuo» è ormai stato sfatato dalle crisi economiche mondiali e dal disastro ecologico. Cosa resta di tutto questo, allora? Un sottile, subdolo senso di superiorità: «Io, come missionaria, ne so di più di questa povera gente…», e si agisce di conseguenza.

Come la missione, anche l’antropologia non è esente da pregiudizi o forse da errori di prospettiva. L’antropologa che è in me apprezza e valorizza le espressioni culturali dei vari popoli, e in modo speciale del mio caro popolo andino. Una posizione molto positiva che però rischia di farmi scivolare nel «romanticismo», come ci ha detto una volta un nostro professore di antropologia. Le culture non sono perfette, sono in cammino, come lo sono gli esseri umani che le creano giorno dopo giorno. La cultura, per di più, non è qualcosa di statico, che vive asetticamente nell’«iperuranio», in un Paradiso incontaminato, come direbbe Platone. La cultura è estremamente dinamica, non perfetta, ma perfettibile, in continua negoziazione con altre culture, dando e ricevendo in prestito, appropriandosi di elementi altrui e trasformandosi per poter continuare ad essere ciò che è profondamente: un progetto di vita, di vita buona, per il gruppo che la crea e la ricrea continuamente. Molte volte gli antropologi si presentano come dei «conservazionisti», cioè delle persone che operano per la salvaguardia della cultura così come è, in una certa staticità.

Veduta della Iglesia La Merced, a Sucre. / Foto di Kent MacElwee.

Cosa significa tutto questo dentro di me?

Caratterialmente, a pelle, anch’io apprezzo tanto le culture come sommamente buone, e vorrei che si conservassero così, soprattutto quelle native, che tanto hanno mantenuto della sapienza ancestrale. Allo stesso tempo, come missionaria sono chiamata ad annunciare Cristo, forse con categorie occidentali, perché da lì vengo e da lì viene anche il cristianesimo. Non voglio cambiare la gente, ma il mio desiderio è che conoscano Gesù come un Dio d’amore, e non castigatore. Dove trovare la soluzione?

Credo fermamente che il dialogo sia la strada giusta. Un dialogo tessuto nel quotidiano, nelle relazioni tra vicini, e non un monologo da una cattedra. Il popolo andino ha una spiritualità millenaria molto ricca: imparo da loro e posso anche offrire la mia semplice esperienza. In un incontro di missionarie della Consolata che lavorano con popoli nativi abbiamo pensato di chiamarlo «dialogo interspirituale».

Non si tratta di qualcosa di cerebrale, è piuttosto quel discorrere sereno e semplice, nel quale far trasparire la bellezza di una fede nel Dio che è amore, e scoprire che Lui si è già rivelato vicino e presente nella vita della gente. L’antropologia, permettendomi di entrare, in punta di piedi, nella cultura quechua, mi aiuta a trovare le parole giuste, le metafore che toccano il cuore, per poter condividere la mia esperienza, e allo stesso tempo mi aiuta a comprendere il sentire e la spiritualità del mondo andino. La fede in quel Gesù per il quale ho scommesso tutta la vita e mi manda in missione, è il senso del mio stare qui e del mio camminare con la gente.

Stefania Raspo

Indigeno seduto sui gradini in Plaza Mayor, a La Paz / Foto di Rogerio Camboim Silva de Almeida.


L’Antropologo

A proposito di missionari e antropologi

Ci sono stati i missionari «coloniali» e i missionari «conciliari». C’è stato il tempo delle «razze» e il tempo delle «culture». Queste, a loro volta, potevano entrare in contrasto con concetti quali «sviluppo» e «progresso». Un antropologo racconta i cambiamenti intervenuti.

Da tempo nutro un autentico interesse nei confronti dei modi con cui i missionari rappresentano se stessi e la loro attività in un mondo sempre più coinvolgente e interconnesso.

Pochi anni fa ero stato interpellato perché esponessi alcune mie riflessioni sull’argomento per Missione Oggi, la rivista dei missionari saveriani. Il titolo di quel modesto contributo – «I missionari visti da un antropologo» – non deve trarre in inganno: esso non significa «i missionari in generale», ma certe figure di missionari che un antropologo, o aspirante tale, ha incontrato nella sua ricerca sul campo. Quel contributo conteneva alcune precisazioni, che riproduco come punto di partenza del mio intervento1.

Nonostante sia stato sempre ben consapevole del ruolo storico svolto dai missionari nei diversi continenti, non ho mai affrontato questo tema a livello generale e neppure nei contesti di mia diretta conoscenza (intendo dire soprattutto il Nord Kivu della Repubblica Democratica del Congo). L’obiettivo della mia ricerca tra i Banande (o Nande) del Nord Kivu riguardava in effetti non già la situazione «attuale», bensì ciò che a partire dalla situazione attuale si poteva recuperare della loro cultura prima delle trasformazioni indotte dalla colonizzazione e dall’attività missionaria.

Le mie considerazioni iniziali nascono quindi non da studi appositi, bensì soltanto da esperienze e frequentazioni con i missionari incontrati durante l’arco temporale delle mie ricerche tra i Banande, tra il 1976 e il 2013.

Nel contributo citato avevo messo in luce due tipi di missionari, in cui mi ero imbattuto fin dall’inizio della mia esperienza: i coloniali e i conciliari.

Un verdissimo scorcio di Masisi, nella provincia del Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo. / Foto Teseum.

Il primo tipo: i missionari coloniali

Il primo tipo era rappresentato da missionari anziani – per lo più belgi e olandesi – i quali erano approdati in quella parte del Congo durante il periodo coloniale. Ciò che colpiva il mio sguardo esterno erano in particolar modo i dispositivi di separazione rispetto alla gente: le case dei missionari chiuse, accuratamente recintate, vigilate e custodite non solo dal personale di guardia, di giorno e di notte, ma anche da cani, addestrati a latrare minacciosamente nei confronti dei neri. L’atteggiamento di questi missionari nei confronti di catechisti e di preti indigeni era inoltre improntato a un rigoroso senso gerarchico: i missionari, detentori – per la loro stessa origine europea – della verità evangelica, erano senza alcun dubbio i superiori, mentre catechisti e preti indigeni (a prescindere dal loro curriculum) erano gli inferiori. Del resto, la cultura europea in cui i vecchi missionari coloniali si erano formati era fortemente segnata da un’impostazione razzistica o quanto meno razziologica: nell’Europa di allora, tra Ottocento e Novecento, le razze erano ritenute da tutti come dati di fatto, e l’antropologia di cui i missionari coloniali erano portatori era un sapere fortemente biologizzante, che poneva le razze a fondamento di ogni altra considerazione. Non v’è dunque da meravigliarsi che il razzismo fosse un tratto normale del loro comportamento, indiscusso e quasi naturale.

Ho potuto conoscere di persona alcuni di questi missionari coloniali.

Vilacaya (Potosí, Bolivia): le Wataqaminas, come sono chiamate le donne protagoniste di un’antica cerimonia quechua. / Foto di Stefania Raspo.

Il secondo tipo: i missionari conciliari

Negli anni Settanta, la scena cominciava a essere occupata da un secondo tipo di missionari. Erano i missionari che si riferivano esplicitamente al Concilio Vaticano II (1962-1965): scomparsi i cani dai cortili delle missioni, anche le razze erano ormai divenute un concetto desueto. Al posto delle razze si parlava di culture.

Almeno per quanto riguarda i missionari di questo secondo tipo da me incontrati, la cultura, pur ammessa, era però in gran parte soverchiata dall’economia, ossia dalla preoccupazione per i problemi materiali della comunità locale. Una parola svettava su tutte le altre: «sviluppo» (maendeleo nel kiswahili parlato in quella zona). Molte attività dei missionari erano dirette appunto allo sviluppo, e la cultura (la cultura locale, ma anche la cultura più in generale) era in gran parte sacrificata all’economia. Evidentemente, alle spalle non c’era soltanto il Concilio Vaticano II; c’erano anche gli echi delle rivendicazioni che i movimenti giovanili e solidaristici avevano «portato avanti» (come si usava dire allora) anche in un’ottica internazionale. Per questo secondo tipo di missionari il Vangelo significava fare del bene, in primo luogo ai poveri, alle popolazioni del sottosviluppo. La domanda che essi si ponevano era dunque la seguente: è più importante mantenere i loro usi e costumi, la loro cultura o non piuttosto favorire lo «sviluppo», insegnare loro la strada del «progresso»?

Nei pressi dell’ospedale cittadino di Beni, nel Nord Kivu, Congo Rd. / Foto di Vincent Tremeau – World Bank Photo.

Soldi invece di capre

Vorrei portare un esempio in cui sono rimasto coinvolto. Uno dei temi su cui mi ero concentrato fin dall’inizio delle mie ricerche sul campo era il cosiddetto compenso matrimoniale (omutahyo in kinande), secondo il quale il futuro sposo raccoglieva dieci capre dalla sua famiglia per offrirle in maniera cadenzata e ritualmente programmata alla famiglia della sposa: si trattava, dunque, di un processo rituale che si svolgeva nel tempo e che impegnava in diversi modi le due famiglie, così da creare legami di «alleanza» sempre più stretti (Remotti 1993: cap. II). La ricostruzione di questo lungo e complesso processo rituale si scontrò con il fatto che – su suggerimento e per impulso degli stessi missionari – esso veniva ormai in gran parte sostituito dalla moneta. Ricordo di avere discusso con alcuni di questi missionari, i quali consideravano l’omutahyo non solo un residuo del passato, un costume puramente tradizionale, senza più alcun vero significato culturale, ma un’istituzione cha faceva da ostacolo al progresso economico e sociale. Perché perdere tempo ed energie per raccogliere le dieci capre e consegnarle con un ritmo ritualizzato ed estenuante, visto che con la moneta il problema del compenso – se proprio si doveva mantenere questa idea – poteva essere risolto in un batter d’occhio?

Anche questo cambiamento (soldi invece di capre) rientrava nel progresso, nello sviluppo: la monetarizzazione era condizione e segno dell’accesso alla modernità.

Teologia e tecnologia

Pure i Banande avevano diritto di lasciare alle spalle il sottosviluppo, la stagnazione e accedere al mondo moderno. L’impegno dei missionari consisteva ovviamente nel tentativo di impedire che questo avvenisse sotto l’egida del più brutale capitalismo o all’insegna di movimenti di sinistra. Sotto questo profilo, l’acquisizione delle innovazioni tecnologiche appariva come un passo necessario e inevitabile, da compiere però nell’ambito della Chiesa e della parrocchia. In sintesi, mi sia consentito citare questo brano:

«Da parte di alcuni [missionari] vi era persino l’idea di dover competere con i movimenti di sinistra: la sfida era coinvolgere la popolazione in progetti, in cui coabitassero temi evangelici, come la solidarietà, l’acquisizione di un maggiore benessere, grazie a processi di sviluppo locale, la valorizzazione dell’associazionismo indigeno. Teologia e tecnologia andavano a braccetto: il Dio evangelico era dispensatore di turbine, con cui si alimentavano alcuni piccoli mulini e si portavano luce e corrente elettrica nei villaggi e nelle case» (Remotti 2017: 50).

Una barca tradizionale al lavoro sul lago Kivu nella provincia omonima. / Foto di Abel Kavanagh – Monusco.

Il Dio dei cristiani, gli dèi degli altri

Il Dio evangelico era pur sempre il Dio che nel Primo Testamento ebbe a dire di sé: «Io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso». Quindi, «non avrai altri dèi oltre a me» (Esodo 20, 5; Deuteronomio 5, 7). Nel capitolo IV di Contro l’identità ho riportato l’episodio della reprimenda a cui fu sottoposto un vecchio giudice, nonché decano dei catechisti della parrocchia, allorché i missionari vennero a sapere che costui venerava sì in chiesa il Dio dei cristiani, ma nel contempo continuava a fare sacrifici agli avalimu, gli spiriti della tradizione: «Anche noi – mi diceva K. – abbiamo i nostri avalimu» (Remotti 1996: 40).

Questo vecchio giudice non intravedeva alcun problema di coesistenza tra il Dio dei cristiani – giunto dalle loro parti negli anni Quaranta del Novecento (un Dio senza dubbio importante, a giudicare dal potere degli europei e dalle risorse di cui anche i missionari disponevano) – e le loro divinità. Perché mai si sarebbe dovuto scegliere? Per questo vecchio saggio non c’era alcun motivo di rifiutare il Dio arrivato con gli altri, da lontano e dotato di tutti i beni di cui gli europei facevano sfoggio. Del resto, non era forse sufficiente che altri credessero in una loro divinità per ammetterne l’esistenza? Perché mai, in base a quali motivi, ricorrendo a quali criteri si dovrebbe negare l’esistenza delle divinità altrui? E se queste argomentazioni rendevano conto del fatto che i Banande non opposero alcuna resistenza all’arrivo della divinità dei Bianchi, perché mai esse non dovevano valere per gli spiriti e le divinità locali? «Anche noi abbiamo i nostri avalimu» aveva dunque il significato di una richiesta di riconoscimento: il vecchio giudice non chiedeva che gli europei (missionari o laici che fossero) partecipassero ai loro culti e ai loro sacrifici; chiedeva soltanto che si riconoscesse il diritto, da parte dei Banande, di venerare tanto il nuovo Dio (quello della chiesa costruita in mattoni), quanto gli avalimu, gli spiriti a cui erano dedicate minuscole capanne sparse qua e là sulle colline.

Per i missionari – anche per i missionari del secondo tipo, quelli che si ponevano esplicitamente nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II – la coesistenza invocata dal vecchio giudice era del tutto inammissibile. Nonostante la sua età avanzata e la sua autorevolezza, il vecchio giudice fu sottoposto a una dura lezione di monoteismo e, beninteso, non di un monoteismo generico, bensì del monoteismo forgiato da ciò che Jan Assmann (famoso egittologo tedesco, ndr) ha chiamato la «distinzione mosaica», ovvero il principio secondo cui il «nostro» Dio non è soltanto un Dio unico, ma è anche l’unico «vero» Dio: gli altri sono idoli, falsi dèi, con cui non si può convivere e che, anzi, occorre distruggere (Assmann 2011: 15, 25).

Una venditrice congolese si reca al mercato di Goma con un carico di «sambaza», piccoli pesci del lago Kivu. / Foto di Abel Kavanagh – Monusco.

I missionari e il diffondersi del dubbio

L’episodio del vecchio giudice avvenne nel 1976, proprio all’inizio della mia esperienza tra i Banande. Vent’anni dopo, nel 1996, incontrai a Kinshasa un gruppetto di giovani missionari: erano i missionari della Consolata. Anche per questi missionari il riferimento al Concilio Vaticano II era d’obbligo. Ciò che però mi aveva colpito, rispetto ai missionari del primo e del secondo tipo, era l’emergere di un – per me inatteso – spirito critico, anzi di un atteggiamento di dubbio. Dalle conversazioni avute con loro mi sembrava che lo spirito critico e il dubbio si rivolgessero sostanzialmente a due concetti: l’inculturazione e lo sviluppo. Ricordo anche che alcuni di loro chiedevano a me, in quanto antropologo, cosa esattamente fosse e come si dovesse intendere l’inculturazione, «quasi che i documenti del Concilio non fossero più del tutto convincenti» o del tutto chiari (Remotti 2017: 50).

Mi sia consentito proseguire nella citazione: «Rimasi colpito da questa loro esitazione e perplessità. Mi resi poi conto che per loro era molto problematico distinguere nella cultura nativa ciò che doveva essere considerato compatibile con il messaggio evangelico e quindi mantenuto, e ciò che doveva essere scartato. Ai loro occhi, e alla loro profonda sensibilità, balzavano i drammi che – magari senza saperlo, senza preavviso – si generavano con l’inculturazione».

Non diedi alcuna lezione. Mi rendevo conto che il concetto di inculturazione emerso dai documenti del Concilio e quello di impiego comune nelle scienze sociali non erano la stessa cosa. Soprattutto, però, mi rendevo conto che i dubbi e le perplessità di quei giovani missionari erano rivolti anche alla seconda nozione a cui ho accennato: «Essi ormai vedevano anche i guasti di ogni genere (sociale, culturale, economico) che spesso si producevano in nome dello “sviluppo”». La sensazione di avere a che fare ormai con un terzo tipo di missionari – se si accetta questa tipologia improvvisata, fondata soltanto sull’esperienza personale – era alquanto vivida e veniva confermata da quanto mi disse uno di quei missionari, il quale viveva presso un gruppo di pigmei. Riassumo in questo modo le sue parole: «Intendo la mia missione solo come una testimonianza; non impartisco ordini né suggerimenti; cerco di vivere come loro e secondo i dettami del Vangelo». Quel giovane missionario mi faceva anche capire che «”loro”, i pigmei, gli erano umanamente grati» di ciò. In questo modo, «era riuscito a farsi considerare un amico, un compagno. Nulla di più». Ma forse non c’è proprio bisogno «di più». Quel «nulla di più» in realtà «è tanto»: è niente di meno che condivisione di umanità, di una qualche forma di umanità.

Uno scolaro di una scuola elementare nei pressi di Goma, capoluogo del Nord Kivu. / Foto di Federico Scoppa – GPE.

La fede nel «progresso»: dall’esaltazione al ripensamento

Missionari e antropologi hanno molte cose in comune: tra queste il fatto di essere eredi di certezze, le quali si possono riassumere nella credenza di un progresso universale. Ovviamente, qui mi riferisco ai primordi dell’antropologia, allorché tra Ottocento e Novecento essa riteneva di poter collocare le società che andava studiando nei diversi continenti in una serie graduata di stadi di progresso, di forme di umanità sempre più perfezionate, culminanti nella civiltà contemporanea. E per quanto riguarda i missionari, che cos’è se non un’idea di progresso incessante quella contenuta nel concetto di plantatio ecclesiae? Come ci ricorda padre Mario Menin (2016: 13, 24-25), l’espressione, risalente agli Atti degli Apostoli e alle Epistole paoline, si ritrova nei padri della Chiesa (Agostino), nella teologia scolastica (Tommaso d’Aquino), per riapparire – infine – nella missiologia moderna, la quale «nella prima metà del secolo scorso ne fa una “bandiera di guerra” per definire il fine delle “missioni estere”». «Nel contesto coloniale», sottolinea ancora Menin (2016: 16), «missione» assume le sembianze ora di un’opera civilizzatrice di popoli «primitivi» e «selvaggi», ora di «conquista» di nuove terre a Cristo, attraverso la sconfitta e la sostituzione delle altre religioni e, più tardi, delle ideologie anticristiane, come il comunismo e l’ateismo.

Un secondo punto di convergenza tra antropologi e missionari può essere intravisto nel successivo abbandono, sia pure in tempi diversi, della fede nel progresso universale. Il rapporto tra gli antropologi e le società indigene non è più mediato dall’idea di progresso: è invece la «cultura» ciò che conferisce dignità di studio a società pur illetterate, prive di scrittura, dotate di una cultura materiale e di una tecnologia assai meno elaborate di quella occidentale. Perché la cultura (antropologicamente intesa) è sufficiente a conferire dignità di studio? Perché gli antropologi intravedono idee, valori, persino sistemi di idee e di significati, forme di pensiero profonde e raffinate nelle lingue e nelle pratiche sociali, nei rituali e nelle mitologie, nei saperi scientifici indigeni e nelle strutture politiche, nelle concezioni cosmologiche e filosofiche come nel pensiero giudiziario e così via. In altre parole, l’uso del concetto antropologico di cultura induce a scovare e a riconoscere un significato intrinseco ai sistemi sociali e culturali, e ciò del tutto a prescindere dalla posizione attribuita alle singole società in una ipotetica e ormai rinnegata scala evolutiva. Se la credenza nel progresso collocava inevitabilmente gli antropologi su un piano superiore di civiltà e gli indigeni su un piano inferiore, il concetto di cultura pone invece indigeni e antropologi sullo stesso piano, su un piano di parità e di dialogo. Addirittura costringe gli antropologi ad apprendere i segreti e le particolarità culturali delle società che essi studiano: molti antropologi hanno paragonato l’apprendimento, a cui sono professionalmente costretti sul campo, a quello del bambino che deve apprendere lingua e norme culturali del proprio gruppo.

Il Concilio Vaticano II e il nuovo missionario «ad gentes»

Nei documenti del Concilio Vaticano II possiamo cogliere assai bene il ruolo svolto dal concetto di cultura nell’impostare in maniera innovativa l’attività missionaria. Mario Menin sottolinea giustamente questo punto, allorché afferma: «Un’altra novità di Ad gentes», il decreto approvato quasi all’unanimità dal Concilio e promulgato da Paolo VI nel dicembre 1965, «è l’importanza data alle culture» (2016: 38). A questo proposito egli cita «uno dei passaggi più belli» (contenuto nel par. 11), quello in cui si afferma che occorre conoscere gli uomini in mezzo ai quali si vive e intrecciare con essi «un dialogo sincero e paziente» in modo tale da conoscere «quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli». Nello stesso paragrafo 11 le ricchezze elargite da Dio sono identificate con i «germi del Verbo» che si trovano nascosti nelle diverse culture umane: essi contribuiscono a costituire in maniera determinante il «patrimonio culturale» dei vari popoli (par. 21), nonché «tutta la bellezza delle loro tradizioni» (par. 22).

Per questo motivo coloro che si recano nei luoghi di missione – siano essi sacerdoti, religiosi, suore o laici – debbono «stimare molto il patrimonio, le lingue ed i costumi» delle società locali e a tale scopo occorre che essi siano «singolarmente preparati e formati» attraverso gli studi sia di missiologia sia delle scienze che forniscono «una conoscenza generale dei popoli, delle culture e delle religioni», una conoscenza che non sia orientata esclusivamente verso il passato, bensì soprattutto verso il presente (par. 26). Non solo, ma il decreto raccomanda un ulteriore approfondimento di conoscenza: una volta giunti sul terreno della missione, occorre impegnarsi per conoscere a fondo «la storia, le strutture sociali e le consuetudini dei vari popoli». Come si può notare, l’acquisizione del concetto di cultura induce a completare la figura del missionario con una vera e propria preparazione antropologica ed etnologica: egli non sarà soltanto un etnologo, perché – come vedremo – il suo compito non è solo conoscitivo; ma per svolgere il suo compito, il missionario dovrà comunque conoscere a fondo la cultura della società presso cui intende recarsi. E così, in veste di studioso, egli dovrà indagare e venire a conoscenza delle «idee più profonde» che le società «in base alle loro tradizioni, hanno già intorno a Dio, al mondo, all’uomo» (par. 26). È veramente notevole l’apertura che il decreto Ad gentes dimostra per gli aspetti più preziosi e in un certo senso più intimi e segreti di una cultura. Senza alcun dubbio è il concetto di cultura – fatto valere a proposito di coloro che un tempo venivano definiti «primitivi» e «selvaggi» – ciò che induce a trovare in loro e a valorizzare idee di ordine teologico, cosmologico, antropologico. La cultura presa in considerazione dal decreto Ad gentes e attribuita alle popolazioni del mondo è in effetti ricca e complessa: non è più la cultura povera ed elementare di coloro che dovevano essere spinti, a forza, sulla strada del «progresso».

Vilacaya (Potosí, Bolivia): le Wataqaminas, come sono chiamate le donne protagoniste di un’antica cerimonia quechua. / Foto di Stefania Raspo.

I dissidi tra evangelizzazione e culture

Come si è detto, il missionario di Ad gentes non è però soltanto colui che conosce da vicino e intimamente la cultura della società presso cui opera. Egli deve compiere all’interno della cultura un minuzioso lavoro di selezione. In un articolo di alcuni anni fa – a cui rimando per eventuali approfondimenti (Remotti 2011) – ho proposto alcuni brani, che qui riproduco in maniera sintetica:

1) nella Costituzione sulla sacra liturgia (Constitutio de sacra liturgia) «Sacrosanctum Concilium» (1963) si stabilisce di distinguere ciò che «nei costumi dei popoli… è indissolubilmente legato a superstizioni ed errori» e ciò che invece non lo è. Ciò che non è superstizione ed errore, la Chiesa «lo considera con benevolenza», «lo conserva inalterato» e «lo ammette nella liturgia stessa» (par. 37 – Denzinger 2003: 4037);

2) nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Constitutio dogmatica de Ecclesia) «Lumen Gentium» (1964) si ribadisce la distinzione tra ciò che nelle culture umane può essere conservato e ciò che va rifiutato. «Le capacità, le risorse e le consuetudini di vita dei popoli», che sono conservate in quanto «buone», vengono – inoltre – purificate, consolidate, elevate (par. 13 – Denzinger 2003: 4133).

Dieci anni dopo il Concilio Vaticano II, Paolo VI emana l’esortazione apostolica (Adhortatio apostolica) «Evangelii nuntiandi» (1975) in cui si precisa ulteriormente il rapporto tra evangelizzazione e cultura. In questo testo decisivo appaiono evidenti l’importanza e l’imprescindibilità della cultura sotto il profilo antropologico, come quando si afferma che gli uomini risultano sempre «profondamente legati a una cultura (sua certa cultura imbuti sunt)», di cui evidentemente non possono fare a meno, a tal punto che la stessa «costruzione del Regno», secondo i dettami del Vangelo cristiano, «non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane» (par. 20 – Denzinger 2003: 4577).

E tuttavia vi è un discidium inter Evangelium et culturam, una rottura, che si spiega con il fatto che il Vangelo e l’evangelizzazione «non si identificano con la cultura e sono indipendenti rispetto a tutte le culture».

L’evangelizzazione non può fare a meno di calarsi nelle culture, di diventare essa stessa cultura, ma la sua prerogativa è quella di «penetrare» profondamente in tutte le culture e «impregnarle», senza con ciò «asservirsi ad alcuna». Anzi, il Vangelo ha una forza dirompente nei confronti delle culture esistenti: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere (evertere) mediante la forza del Vangelo (Evangelii potentia) i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono «in contrasto con la parola di Dio e col disegno della salvezza» (par. 19 – Denzinger 2003: 4575).

Donna e figlioletto all’ospedale di Beni, Nord Kivu, durante l’epidemia di ebola. / Foto di Vincent Tremeau – World Bank

La verità cristiana e il fine ultimo

È su questo sfondo tematico che occorre interpretare il concetto di inculturazione. Nell’enciclica Redemptoris Missio del 1990, Giovanni Paolo II intende tutta l’attività missionaria come avente lo scopo di inserire la Chiesa «nelle culture dei popoli», di provvedere dunque al «radicamento del cristianesimo nelle varie culture» (1991: § 52). Paolo VI in un discorso a Kampala aveva parlato di una vera e propria «incubazione» della verità cristiana nelle culture altrui. «Proseguendo nella metafora», possiamo dunque dire che «i missionari (parte attiva) sono coloro che penetrano nelle culture e le inseminano, facendo in modo che il germe attecchisca e si sviluppi in armonia con il Vangelo e con la chiesa universale» (Remotti 2011: 56).

Il fine è pur sempre quello chiarito in maniera indiscutibile nell’Ad gentes, ossia entrare nelle culture, separare ciò che è compatibile con il messaggio evangelico da ciò che non è compatibile, al fine di costruire «l’uomo nuovo», come era stato predicato nelle lettere di san Paolo e come ritorna più volte nell’enciclica citata (par. 8, 11, 12, 21).

Nell’Ad gentes si afferma in modo inequivoco che la costruzione dell’umanità nuova è non soltanto «compito imprescindibile» della Chiesa, ma anche suo «sacrosanto diritto».

Leggiamo in Ad gentes (par. 8): «“Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15). E poiché chi non crede è già condannato (Gv 3, 18), è evidente che le parole di Cristo sono insieme parole di condanna e di grazia, di morte e di vita. Soltanto facendo morire ciò che è vecchio possiamo pervenire al rinnovamento della vita.

E ancora: «La ragione dell’attività missionaria discende dalla volontà di Dio, il quale «vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità. Vi è infatti un solo Dio, ed un solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, uomo anche lui, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2, 4-6), e «non esiste in nessun altro salvezza» (At 4, 12). È dunque necessario che tutti si convertano al Cristo conosciuto attraverso la predicazione della Chiesa, ed a lui e alla Chiesa, suo corpo, siano incorporati attraverso il battesimo (par. 7).

I missionari che avevano rimbrottato il vecchio giudice seguivano esattamente queste linee dell’Ad gentes. Conoscevano le culture indigene, ma di fronte al «piano divino nel mondo e nella storia», di cui «l’attività missionaria non è altro che la manifestazione, cioè l’epifania e la realizzazione» (par. 9), le culture – come il vecchio giudice catechista – devono recedere: devono lasciarsi trasformare in un campo da inseminare.

Vangelo ed evangelizzazione: alcuni dilemmi

A me pare di trovarmi in un altro momento storico rispetto al Concilio Vaticano II. Come pure sostiene Mario Menin nel suo libro, «a cinquant’anni dalla fine del concilio (1965), la missione è molto cambiata» (Menin 2016: 121). L’idea della plantatio ecclesiae – così evidente, a mio parere, in tutta la prima parte dell’Ad gentes, dove in effetti si parla espressamente di plantatio Ecclesiae in populis (par. 6) – è stata in gran parte accantonata: la nuova idea di missione conosce la «svolta antropologica […] della teologia del Novecento» e l’inculturazione o l’inreligionizzazione sono concepite quali procedure di un’attività missionaria che «accetta il mondo, le religioni e le culture come interlocutori» (Menin 2016: 122). Le cose ovviamente non sono così semplici: alla base vi è pur sempre il «tormentato rapporto Vangelo-culture» (2016: 139).

Se le culture diventano protagoniste o coprotagoniste, se alle culture indigene si riconosce un ruolo attivo, che ne è del Vangelo? Possono ancora il Vangelo e la conseguente evangelizzazione essere considerati come fattori indipendenti, come manifestazione di una verità assoluta, che prescinde dai contesti storici e culturali, oppure Vangelo ed evangelizzazione sono anch’essi manifestazioni e realizzazioni culturali dell’umanità?

Una famiglia attraversa l’acqua che ha invaso la sede stradale nel territorio di Masisi, provincia del Nord Kivu, Congo Rd. / Foto Teseum.

Vangelo e culture, una distanza che si riduce

Le relazioni tenute al Convegno dei missionari e missionarie della Consolata (Roma, 14-18 ottobre 2019) non sono giunte dichiaratamente a questi esiti. Tuttavia, l’insistenza sui temi del dialogo e della condivisione; dell’incontro e dell’apertura; del convivere anziché del convertire; della necessità dell’apprendimento dalla cultura di coloro che coltivano altre credenze; della valorizzazione dei loro saperi e della loro peculiare e intrinseca spiritualità; della compenetrazione reciproca; dell’armonizzazione intima e paritaria tra Vangelo e saggezza indigena; delle opportunità di sintesi tra cristianesimo e religioni sconosciute e senza nome; dell’interculturalità come linguaggio polifonico; dell’ascolto del pensiero altrui provvedendo a una sospensione (epoché) dei propri criteri di giudizio e delle proprie convinzioni; del considerare e rendere gli indigeni protagonisti dell’attività missionaria; del ricercare un percorso condiviso così da non convivere solamente e limitarsi a stare insieme, bensì camminare insieme; del ricercare insieme, umilmente e fattivamente, forme più proponibili di umanità; del progettare insieme, in forma collaborativa, un futuro migliore per l’umanità – l’insistenza su questi temi fa capire che il discidium tra Vangelo e cultura, che per Paolo VI era «senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (Evangelii nuntiandi, par. 20 – Denzinger 2003: 4578), tende ad attenuarsi.

La distanza tra Vangelo e cultura appare assai meno accentuata: non sono più le culture a dover essere evangelizzate (§ 2); è anche il vangelo che potrebbe presentarsi come una cultura: una cultura a cui si vuole essere fedeli e tuttavia una cultura umana in mezzo ad altre culture umane.

Molti missionari nelle loro relazioni hanno posto in luce come la convivenza e l’interazione con le culture indigene abbiano plasmato la loro esistenza, abbiano mutato in senso positivo le loro convinzioni di partenza. Non ho mai sentito nessuno esprimere a tal proposito la preoccupazione avanzata da Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio, il quale metteva in guardia circa «i pericoli di alterazione che si sono a volte verificati», con la rinuncia alla «propria identità culturale», coincidente con il Vangelo e la verità cristiana (par. 53). Allo stesso modo, in nessuna relazione a cui ho assistito mi pare sia emersa la convinzione, presente invece nella stessa enciclica, secondo cui le culture umane, in quanto prodotte dall’uomo, sono inevitabilmente «segnate dal peccato» (par. 54): una definizione negativa e svalutativa delle culture umane, le quali hanno manifestamente bisogno di un programma di salvazione dal peccato per essere utili all’umanità. Al contrario, ho sentito dire che Dio è presente in quei luoghi, nelle loro culture, nelle loro forme di umanità.

Che fare (se rimane un po’ di tempo)?

Nelle relazioni ho avvertito un senso di urgenza. Il riferimento costante all’enciclica di papa Francesco Laudato si’, alla visione di un’ecologia integrale, al tema di un’interconnessione tra le culture umane e tra la cultura e la natura, esprimeva la necessità di dare luogo a una visione comune e condivisa, un sapere alla cui costruzione contribuiscano tanto il Vangelo quanto molte altre culture e religioni. Il mito del progresso, con cui un tempo missionari e antropologi pretendevano di indicare la via di salvezza per l’intera umanità, si è tramutato nello spettacolo immondo di una terra devastata, dove è in pericolo l’umanità stessa, oltre che molte altre specie naturali. Su questi temi molte società frequentate dai missionari e indagate dagli antropologi hanno da tempo richiamato l’attenzione di noi occidentali, noi «popolo della merce» dalla vista corta, accecati dalla nostra avidità, come lo sciamano yanomami Davi Kopenawa ci ha apostrofati (Kopenawa e Albert 2018).

Non è più tempo di divisioni. Se ancora rimane un po’ di tempo, è bene che lo impieghiamo a costruire davvero una «nuova umanità», recuperando saggezza e lungimiranza da ogni parte esse possano provenire: dai testi sacri delle religioni più importanti, tanto quanto dalle culture più lontane e dalle religioni senza nome e notorietà. A questa impresa reputo che si sentano chiamati sia gli antropologi, allorché concepiscono la loro professione come un salvataggio conoscitivo delle forme di umanità più diverse (anche le più problematiche e inquietanti), sia i missionari, i quali con la loro presenza nei luoghi più lontani e più difficili intendono dimostrare che la collaborazione tra esseri umani è possibile e perseguibile, nonostante le differenze culturali e nonostante i conflitti, le lacerazioni, le degradazioni. Forse proprio questa è l’idea di missione più condivisa, quale è emersa dal Convegno, ossia un comune e partecipato impegno antropo-poietico (Remotti 2013), proprio quando si assiste ai disastri umani e naturali di un «incivilimento» forsennato.

Fratel Antonio Soffientini, missionario comboniano, ha affermato che prima i missionari camminavano insieme ai civilizzatori, ora invece camminano insieme alle vittime della civiltà. Anche per questo, mi sembra di poter dire che antropologi e missionari si ricongiungono su una stessa sponda. Abbandonati i miti e le certezze di un tempo, si ritrovano infine nella stessa barca, insieme a coloro che, costretti a fuggire dalle loro terre, si ostinano disperatamente a spingere lo sguardo verso un futuro migliore.

Francesco Remotti

Una donna con un bimbo sulle spalle al mercato di Mweso, territorio di Masisi, Nord Kivu, Congo Rd. / Foto di Alexis Huguet – AFP.


Fonti bibliografiche

  • Francesco Remotti, Etnografia Nande, Il Segnalibro, Torino 1993.
  • Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996.
  • Francesco Remotti, Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari 2004.
  • Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008.
  • Francesco Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Roma-Bari 2013.
  • Mario Menin, Missione, Cittadella Editrice, Assisi (Perugia) 2016.
  • Davi Kopenawa – Bruce Albert, La caduta del cielo, Nottetempo, Milano 2018.
  • John Beattie, Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Editori Laterza, Roma-Bari 1973.
  • Gérard Leclerc, Antropologia e colonialismo. L’Occidente a confronto, Jaka Book, Milano 1973.
  • Alfonso Maria Di Nola, Antropologia religiosa, Vallecchi Editore, Firenze 1974.
  • Silvano Sabatini – Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo. Tra gli indios dell’Amazzonia, Ediesse, Roma 2011.

La Paz, Bolivia, marzo 2020 / foto Marcelo Perez Del Carpio / Anadolu Agency


Hanno firmato questo dossier:

Francesco Remotti – Antropologo e professore universitario, tra i vari incarichi ricoperti è stato direttore del dipartimento di Scienze antropologiche dell’Università di Torino. Si è occupato soprattutto di Africa equatoriale. Ha condotto ricerche in Congo Rd presso la popolazione Nande. È autore di numerosi libri tra cui i più recenti sono: Per un’antropologia inattuale (2014), Somiglianze. Una via per la convivenza (2019).

Stefania Raspo – Missionaria della Consolata, quarantatreenne, piemontese di nascita, boliviana di adozione. Dal 2013 vive a Vilacaya, nel dipartimento di Potosí, in Bolivia, in una regione contadina di lingua quechua. Laureata in filosofia e in teologia, sta studiando antropologia con un corso a distanza dell’Università cattolica boliviana.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.




Teocrazia e Petrocrazia

testi di: Adel Jabbar, Angelo Calianno, Francesco Gesualdi, Maria Chiara Parenzo, Paolo Moiola. A cura di: Paolo Moiola |


introduzione / Leader inadeguati Trump – Khamenei, i due ayatollah.

Le radici storiche della situazione attuale Un mosaico ricco di sbagli e di petrolio.

Nessuno tocchi WhatsApp.

Vivere oggi a Teheran Nati dopo la rivoluzione.

Tra guerre e nuove alleanze  Sua maestà il petrolio.

 

introduzione / Leader inadeguati

Trump – Khamenei, i due ayatollah

© Gage Skidmore

L’ ayatollah Seyyed Ali Khamenei, leader supremo della Repubblica islamica dell’Iran, sostiene che votare è anche un «dovere religioso» (come riferito dalla Islamic republic news agency, Irna, l’agenzia iraniana ufficiale). Un uso strumentale della religione è cosa «normale» in una teocrazia. Ancora più «normale» è che i potenziali candidati siano costretti a passare attraverso le forche caudine del Consiglio dei guardiani. Con un risultato: i pochi iraniani che lo scorso 21 febbraio sono andati al voto, hanno trovato sulla scheda soltanto candidati conservatori, essendo stati esclusi prima della competizione elettorale tutti gli altri. A elezioni concluse, la Guida suprema ha sentenziato che «la religione è la fonte assoluta di una democrazia totale» (Irna, 23 febbraio). Criticare il regime teocratico iraniano non significa però esaltare automaticamente la controparte statunitense, considerata la democrazia per antonomasia.

Nel suo pomposo, esagerato ed egocentrico discorso sullo «Stato dell’Unione» (lo scorso 4 febbraio), Donald Trump si è vantato di aver deciso da solo l’operazione che ha portato all’uccisione del generale iraniano Soleimani. Ha poi sottolineato che le sanzioni statunitensi stanno mettendo in ginocchio l’economia iraniana e, non contento, ha aggiunto che forse gli iraniani sono troppo orgogliosi o troppo stupidi per chiedere aiuto. Un aiuto – precisiamo noi – oggi ancora più necessario vista la diffusione nel paese dell’epidemia da coronavirus.

© Babak Fakhamzadeh

Khamenei è l’ayatollah ufficiale, a capo di un regime teocratico che sottomette i propri cittadini agli interessi di una casta, Trump è un ayatollah honoris causa perché subordina ogni cosa del mondo all’interesse statunitense. Se un tempo gli Stati Uniti erano considerati gli sceriffi del pianeta, oggi si presentano come giudici urbi et orbi. L’utilizzo delle sanzioni economiche e finanziarie è soltanto uno dei sistemi antidemocratici usati a propria discrezione dal presidente Trump. Antidemocratici perché si ripercuotono sulle popolazioni, antidemocratici perché colpiscono anche le imprese di paesi terzi (gli alleati europei tra essi) che osino continuare a lavorare con gli stati sanzionati.

Ma le similitudini non finiscono qui. Anche Trump come Khamenei usa la religione per i propri fini. Numerosi suoi funzionari hanno dichiarato che lui «è il prescelto». Rick Perry, già governatore e segretario all’energia, ha affermato in televisione che Trump è stato installato nell’Ufficio ovale (della Casa Bianca) da Dio.

Per essere consigliato al meglio in materia religiosa e raccogliere consensi nell’anno elettorale, lo scorso 31 ottobre il presidente Usa ha assunto nella propria amministrazione Paula White, nota televangelista e commerciante della fede (libri, Cd, collane, ecc.), già pastora di una chiesa evangelica della Florida (poi chiusa per fallimento). Una signora che, a gennaio (il 5), ha parlato tra l’altro di «gravidanze sataniche» e «grembi satanici» (costretta poi a rettificare).

Khamenei e Trump sono due ayatollah che riescono addirittura a farci guardare con occhi meno severi i nostri politici. O, per meglio dire, almeno una parte di essi.

Paolo Moiola


Le radici storiche della situazione attuale

Un mosaico ricco di sbagli e di petrolio

Difficile trovare un altro luogo tanto instabile quanto il Medio Oriente. È così dal 1920, ma dal 1979 la precarietà si è aggravata e gli attori coinvolti si sono moltiplicati. La soluzione pare lontana, mentre le condizioni di vita delle popolazioni sono sempre più drammatiche.

L’area del Vicino Oriente, comunemente chiamata Medio Oriente, è stata uno degli scenari principali della Grande guerra. Gli assetti statuali odierni sono il risultato della spartizione dei possedimenti dell’Impero ottomano tra le potenze vincitrici, ovvero Francia e Regno Unito. Ciò determinò enormi cambiamenti, nuove aree di influenza e soprattutto una endemica instabilità.

Il Medio Oriente costituisce un nodo strategico per il controllo delle vie di comunicazione che collegano tre continenti: Asia, Africa ed Europa; per cui numerosi attori della politica mondiale entrano in forte concorrenza tra di loro. Inoltre, in questa vasta area si trovano i maggiori giacimenti mondiali di petrolio e di gas naturale, rendendola una zona primaria per l’approvvigionamento energetico. Le tensioni risalenti già all’epoca della guerra fredda hanno subito un inasprimento con la guerra tra Iraq e Iran (1980-1988), e si sono ulteriormente accentuate dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. La prima guerra del Golfo (Iraq-Kuwait, 1991), l’occupazione statunitense dell’Afghanistan nel 2001 e successivamente quella dell’Iraq nel 2003 sono stati degli avvenimenti devastanti che hanno costretto tutti i protagonisti a rivedere le proprie posizioni.

L’Iran e le sue ambizioni

In questo quadro si inserisce l’Iran con le sue aspirazioni da protagonista utilizzando in modo strumentale l’appartenenza allo sciismo, corrente minoritaria nel mondo islamico, per esercitare una certa egemonia sulle popolazioni che, in vari modi, aderiscono a questa confessione al fine di rafforzare il proprio ruolo come potenza regionale.

Lo stesso paese degli ayatollah gode di una collocazione geografica che permette l’accesso a importanti giacimenti petroliferi, oltre al fatto che una parte del suo territorio si affaccia su vie di comunicazione strategiche come lo Stretto di Hormuz, un crocevia decisivo per il trasporto del greggio. L’Iran, inoltre, si affaccia sul Golfo Arabico, l’Oceano Indiano, il Mar Arabico e il Mar Caspio. Esso rappresenta, infine, uno dei più grandi paesi della regione con una superficie di circa 1,6 milioni di km2 (oltre 5 volte l’Italia) e una popolazione di più di 81 milioni di abitanti. L’economia iraniana – che, a fasi alterne, subisce embarghi e sanzioni dettate dagli Stati Uniti e da diversi altri paesi, inclusi paesi europei, ormai da decenni – riesce ancora a reggere. Infatti, malgrado la sua dipendenza dalle entrate della vendita del petrolio spesso soggette a restrizioni e fluttuazioni del prezzo, ha raggiunto un discreto sviluppo negli ultimi anni, grazie anche ai rapporti politici e agli scambi economici con paesi quali Russia, Cina e India. Segni manifesti di mire egemoniche in Medio Oriente sono emersi subito dopo la rivoluzione islamica iraniana del 1979, quando allo scopo di diffondere gli ideali della rivoluzione, in particolare nei paesi arabi, i mullah si dichiararono difensori degli interessi dei musulmani. In questo senso l’Iran ha sostenuto e sostiene con diversi mezzi la formazione di Hezbollah, diventata ormai una forte presenza nello scacchiere del Medio Oriente, impegnata a liberare i territori libanesi occupati da Israele e a difendere la sovranità del Libano. Inoltre, garantiscono un importante supporto alla formazione degli Huthi nello Yemen e ai movimenti palestinesi Hamas e dello Jihad Islamico, malgrado questi ultimi appartengano alla corrente sunnita maggioritaria dell’Islam.

L’occasione a lungo attesa per occupare il ruolo guida nella regione, si è presentata infine con gli attacchi agli Usa dell’11 settembre 2001 che hanno dato avvio alla cosiddetta «guerra al terrorismo» attraverso l’invasione americana dell’Afghanistan e la successiva occupazione dell’Iraq nel 2003. Per rafforzare il suo ruolo di potenza regionale, l’Iran si è tra l’altro impegnato a sviluppare un’importante industria bellica e a investire risorse per aumentare la propria capacità militare.

In tal senso va compreso anche il suo impegno nell’ambito della ricerca nucleare. Tale impegno ricopre anche la funzione di affrontare le sfide poste dalle politiche degli Stati Uniti e del suo alleato israeliano, specialmente in considerazione del fatto che quest’ultimo è in possesso di armi nucleari.

© foto Rnw

Le divisioni dottrinali non spiegano tutto

La politica dello stato iraniano si basa sulla concezione del «velayat-e faqih» ovvero dell’autorità della Guida suprema sciita, sia a livello nazionale che a livello delle comunità sciite internazionali. L’Iran si è posto diversi obiettivi: propagare il pensiero della rivoluzione islamica iraniana e sostenere i suoi alleati politicamente ed economicamente, diffondere la concezione dello sciismo facendo leva sulle varie galassie sciite e in particolare sulla difesa del suo principale alleato siriano. Tale ottica è divenuta una fonte di preoccupazione per gli stati limitrofi della regione. Attualmente infatti l’autorità della Repubblica Islamica sta facendo molti sforzi per supportare alcuni movimenti militanti, di obbedienza iraniana, nell’ambiente sciita dei paesi vicini al fine di rafforzare le proprie posizioni. Questo attivismo trova il suo culmine in Siria già a partire dagli anni ‘80 considerata un alleato fondamentale all’interno del disegno espansionistico degli ayatollah. Alla Siria si è aggiunto poi l’Iraq dopo la caduta del regime di Saddam Hussein e l’ascesa al potere a Baghdad dei movimenti d’ispirazione sciita e altri vicini alle posizioni iraniane, ormai divenuti per Teheran un elemento fondamentale al fine di propagare la propria influenza politica. Ciò spiega la soddisfazione del paese degli ayatollah nel vedere la scomparsa dell’ostacolo iracheno. L’Iran, infatti, malgrado la sua influenza nella vita interna dell’Iraq, non ha dimostrato particolare interesse né alla ricostruzione del paese né tanto meno alla formazione di una forte autorità che godesse del consenso della popolazione, in quanto una guida capace potrebbe rappresentare un nuovo concorrente con il quale dover competere per il controllo dell’area.

Un conflitto intra-islamico

Il contesto mediorientale attuale è diventato uno scenario di scontro tra innumerevoli belligeranti. Fondamentalmente si è di fronte ad un conflitto intra-islamico tra la Turchia, la Repubblica islamica dell’Iran e il Regno dell’Arabia Saudita. Ognuno di questi paesi (di cui il primo e il terzo di fede sunnita) persegue da una parte il mantenimento della propria posizione, dall’altra il raggiungimento di maggiori benefici. Va notato che anche la lettura che tende ad addebitare la causa della frattura tra l’Arabia Saudita e l’Iran alla divergenza dottrinale tra la maggioranza sunnita e la corrente minoritaria sciita, rischia di essere parziale e poco chiarificatrice, nel momento in cui la politica della Turchia diverge anche da quella saudita e da quella egiziana, pur essendo tutti e tre i paesi di orientamento sunnita. Mentre constatiamo, come abbiamo poc’anzi menzionato, l’appoggio iraniano a movimenti sunniti come Hamas e Jihad islamica in Palestina. Un ulteriore esempio, in questa direzione, è dato dalla posizione iraniana rispetto al conflitto del Nagorno-Karabakh, zona contesa tra l’Armenia cristiana e l’Azerbaijan islamico a maggioranza sciita. L’Iran, infatti, per motivi geostrategici, appoggia l’Armenia piuttosto che l’Azerbaijan.

Nessun vincitore, tanti perdenti

Come si evince da questa breve descrizione, il panorama politico medio orientale è carico di forti contrasti e contraddizioni, non da ultimo l’annoso conflitto israelo-palestinese che per decenni ha rappresentato la causa principale d’instabilità per tutta la regione.

Attualmente in Medio Oriente agiscono innumerevoli attori – grandi, medi, piccoli e piccolissimi – e ognuno di essi cerca di giocare al meglio le proprie carte, a volte in alleanze dichiarate, altre volte in accordi fatti dietro le quinte. In questo quadro va ricordato che anche la Federazione Russa e gli Stati Uniti hanno a disposizione dei giocatori locali che si muovono sullo scacchiere in funzione degli interessi degli uni o degli altri. Gli osservatori delle vicende del Medio Oriente si trovano quindi di fronte a un quadro di enorme complessità per cui è pressoché impossibile fare delle previsioni. Sperare in una schiarita nel prossimo futuro risulta arduo, vista anche la paralisi delle istituzioni internazionali e in particolare l’inerzia che distingue l’azione dell’Onu.

Non rimane altro che sperare nello sviluppo di un pensiero civile trasversale nei diversi paesi, capace di leggere e affrontare le drammatiche condizioni in cui versano le popolazioni del Medio Oriente.

Adel Jabbar


Medio Oriente ed Iran: date essenziali

  • 1299-1922 – Nascita e morte dell’Impero ottomano.
  • 1920-1923 – Spartizione dell’Impero ottomano con i trattati di Sèvres e Losanna.
  • 1979 – Rivoluzione islamica iraniana.
  • 1980-1988 – Guerra tra Iran ed Iraq.
  • 1990-1991 – Prima guerra del Golfo.
  • 2001, 11 settembre – Attacco alle Torri gemelle e inizio della «guerra al terrorismo».
  • 2003 – Seconda guerra del Golfo.
  • 2018, maggio – Gli Usa escono dall’accordo sul nucleare iraniano che era stato siglato nel luglio 2015.
  • 2019, 2 maggio – Sanzioni Usa per tutti i paesi che acquistano petrolio iraniano.
  • 2019, novembre – Proteste e disordini in Iran dopo l’annuncio dell’aumento dei prezzi.
  • 2020, 3 gennaio – Gli Usa uccidono il generale iraniano Qassem Soleimani.
  • 2020, gennaio – Nuove sanzioni Usa verso l’Iran.
  • 2020, 21 febbraio – Alle elezioni del parlamento iraniano partecipa soltanto il 42,57% degli aventi diritto. Era stato il 62% nel 2016 e il 66% nel 2012. La vittoria (scontata) va ai conservatori.
  • 2020, febbraio-marzo – Si diffonde l’epidemia da coronavirus.

 

Formazioni e partiti appoggiati dall’Iran:

  • Hezbollah – In Libano.
  • Huthi – In Yemen.
  • Hamas e Jihad islamico* – In Palestina e in Israele.
  • Partiti sciiti – In Iraq.
  • Alauiti – Gruppo sciita siriano cui appartiene anche il presidente Bashar al-Assad.

L’Iran ha rapporti buoni con il Qatar* e ondivaghi con Turchia* e Afghanistan*. I nemici per antonomasia sono invece: Israele, Stati Uniti e Arabia Saudita*.
(*) paesi di fede sunnita.

© Stephen Melkisethian


Nessuno tocchi WhatsApp

La goccia è stata una tassa su WhatsApp, ma i problemi vengono da lontano. Un sistema politico confessionale, frammentato e corrotto e un’economia alla deriva (in bancarotta dal 9 marzo) hanno portato il Libano in piazza.

Beirut. Erano cominciate pacificamente le proteste in Libano. Subito dopo l’annuncio del governo sull’incremento delle tasse, il 17 ottobre, un milione e 200mila persone erano scese nelle piazze di tutte le città principali del paese.

Erano cominciate pacificamente, ma qualcosa, almeno nelle ultime settimane, è cambiato. Sulla strada che porta da Martyr Square, la piazza dei martiri, verso il Suq, la via principale dello shopping, la protesta ha preso una piega più rabbiosa e violenta: cancelli dei palazzi sradicati e usati come scudi contro la polizia, asfalto frantumato per poterne lanciare i pezzi, vetrine di negozi e banche distrutte. Ogni notte, dopo la fine delle proteste, strade e piazze somigliano a un campo di battaglia.

Seguo l’evolversi delle manifestazioni dalla metà di dicembre. Da allora, nuovi gruppi di ragazzi si sono uniti alle proteste e il modo di contestare è cambiato nel tono e nell’intensità. In particolare, c’è stato un incremento del vandalismo dal fine settimana del 18 gennaio, da quella che è stata soprannominata «The Week of Rage», la settimana della rabbia. Insieme a donne, bambini e anziani, ci sono gruppi di ragazzi che costantemente cercano lo scontro con le forze dell’ordine. Sassi, vasi di fiori, segnali stradali, estintori, qualsiasi cosa viene lanciata contro le forze dell’ordine che rispondono con idranti, lacrimogeni e, ultimamente, con proiettili di gomma. Nel fine settimana del 25 di gennaio, diversi ragazzi hanno perso un occhio, proprio per l’uso di questi proiettili «non letali».

Tutto si ripete in una specie di routine quotidiana con i cortei che si avvicinano e arretrano, a seconda della risposta della polizia. È diventato così sistematico che, all’interno delle manifestazioni, ci sono anche ambulanti che vendono acqua e cibo, altri vendono mascherine per proteggersi dai gas. Altri ancora distribuiscono pezzi di cipolla cruda che, se respirati, dovrebbero alleviare gli effetti dei lacrimogeni.

Come si è arrivati a tutto questo? Quali sono le origini di tanta rabbia, chi sono i ragazzi degli ultimi gruppi più violenti?

Un maronita, uno sciita, un sunnita

La scintilla che ha fatto scoppiare il caos è stata l’annuncio del governo di un aumento,
programmato per marzo 2020, delle tasse su benzina, tabacco, internet e varie applicazioni social come WhatsApp.

Questa notizia ha portato un numero mai visto di persone nelle piazze. Tutto quello che è accaduto dal 17 ottobre in poi, è stato un crescere di malcontento e rabbia per una situazione sociale precaria, che in realtà va avanti da almeno un paio d’anni.

Il Libano ha un’economia pressoché stagnante: altissimi tassi bancari, razionamento di acqua ed elettricità, un cambio teoricamente fisso con il dollaro (= 1.518,08 lire libanesi). Inoltre, il paese ha un tasso di disoccupazione che supera il 47%, e il terzo debito pubblico più alto al mondo: 151% del Pil a fine 2018.

Come se tutto questo non bastasse, poco prima dell’annuncio sull’aumento delle tasse, una serie di incendi, molto probabilmente dolosi, ha sconvolto la zona dei parchi naturali con soccorsi arrivati in ritardo, mezzi antincendio ed elicotteri da milioni di dollari, rimasti fermi per mancanza di manutenzione. Questo evento ha mostrato, ulteriormente, l’incapacità dell’esecutivo ad agire in un momento di crisi. Il governo, insieme alle banche, è uno dei principali accusati per questa economia al collasso.

Il governo libanese è settario, per l’articolo 24 della Costituzione del 1926 e successivi accordi, il sistema è formato in modo da dare a tutte le confessioni religiose – sono 18 – una rappresentanza. Così i seggi in parlamento sono divisi proporzionalmente tra cristiani e musulmani e, a loro volta, tra i sottogruppi. Ad esempio, tra i cristiani, abbiamo: armeni, greco ortodossi, maroniti, ecc. I musulmani invece annoverano, tra le proprie confessioni: sunniti, sciiti, drusi, ismaeliti e alauiti. Il presidente deve essere un cristiano maronita (attualmente Michel Aoun), il primo ministro deve essere sunnita (Hassan Diab), il presidente del parlamento, sciita (Nabih Berri).

In questo mosaico di confessioni gli sciiti sono la percentuale maggiore, il 30% della popolazione, e sono rappresentanti in parlamento anche dall’organizzazione Hezbollah (vedere riquadro) che, negli ultimi anni, ha conquistato ministeri chiave all’interno del governo (attualmente salute e industria).

© Angelo Calianno

Il movimento «Li haqqi»

Cerco qualcuno che possa raccontarmi quello che sta accadendo in Libano in maniera più obiettiva e lucida. Molte persone intervistate hanno spesso opinioni condizionate dalla loro fede o dalla propaganda. Chiedendo a vari giornalisti libanesi, con cui spesso mi ritrovo a lavorare nelle piazze, tutti mi indicano Nizar Hassan.

Lui è un ricercatore e attivista di 26 anni. Esperto di politica, negli ultimi anni ha cofondato un gruppo di attivismo politico chiamato «Li haqqi» («per i miei diritti», in arabo). Collabora con diverse testate locali, trasmissioni radio e web.

Lo incontro in uno dei caffè libanesi, dove si riuniscono studenti, intellettuali e attivisti. Decidiamo di darci del «tu». Gli chiedo subito perché i media stranieri hanno chiamato la rivolta «la protesta di WhatsApp». «Molti – risponde Nizar – le hanno dato questo titolo, in realtà è solo uno dei tantissimi punti contro cui ci stiamo ribellando. È vero però che WhatsApp è importante in Libano, dato che i costi della telefonia mobile sono praticamente inaccessibili, soprattutto per i più poveri. Per questo, per comunicare, tutti usano WhatsApp. Dunque, puoi immaginare la reazione della gente, quando è arrivata la notizia che volevano tassare anche quello».

Chiedo quali siano le principali questioni per le quali il suo gruppo si batte. «Il Libano ha problemi molto grandi. L’annunciato aumento delle tasse è stato la circostanza che ha fatto dire alla gente “basta”, ma la nostra economia è ferma da anni. Non ci sono investimenti dall’estero, tasse altissime senza sapere davvero dove finiscono i nostri soldi vista la corruzione dilagante. Da tempo le banche internazionali hanno portato la liquidità all’estero. Quindi, siamo limitati in quello che possiamo prelevare, tra l’altro con percentuali altissime di commissione, a volte il 30%. Uno dei nostri grandi problemi è il sistema politico settario, questa organizzazione dello stato non permette la possibilità di avere gruppi progressisti al suo interno, quindi niente riforme».

Intervistando diverse persone per strada, ho avuto modo di chiedere chi, secondo loro, potessero essere le frange violente apparse nelle ultime settimane, quelle che stanno distruggendo le vetrate di banche e negozi. Alcuni mi hanno detto che è gente pagata da Hezbollah per screditare le manifestazioni e alimentare nel contempo le reazioni della polizia. Altri mi hanno detto che sono pagati direttamente da una parte del governo uscente, in modo che non se ne formi uno nuovo. Chiedo dunque al mio interlocutore, che ha partecipato alle proteste dall’inizio, cosa ne pensa di queste voci.

«C’è molta propaganda e molte teorie di cospirazione a proposito di questo – racconta Nizar -. Hanno messo in giro la voce che qualcuno è stato pagato, così da non prendere i manifestanti troppo sul serio. La verità è che anche gli atti vandalici sono figli della mancata risposta del governo alle richieste della popolazione. Questi ragazzi sono semplicemente persone esasperate dalla situazione. La rabbia è aumentata».

Gli chiedo quale sarebbe la soluzione migliore secondo lui. «La situazione ideale, che davvero rimarrà solo un sogno, sarebbe quella di avere un partito progressista all’interno del parlamento. Qualcuno non più legato alle confessioni religiose. Quello che penso avverrà, sarà la formazione di un governo tecnico. Quello che si deciderà all’interno di questo governo e chi ne farà parte, lo decideranno anche l’evolversi delle proteste».

Prima di lasciarci, chiedo a Nizar cosa vuole il movimento di cui fa parte: «Il nostro programma è molto chiaro: una severa legge anticorruzione, una riforma nel sistema di organizzazione del governo, più libertà ai giudici, riforma del sistema bancario e, ovviamente, l’annullamento degli aumenti sulle tasse previsti per marzo».

In piazza, tra i manifestanti

Martyr Square, la piazza dei martiri, sembra una piccola tendopoli. Qui si riuniscono ogni giorno vari gruppi di manifestanti: c’è chi discute, chi beve un tè, chi fuma dal narghilè. La piazza è diventata un simbolo di protesta permanente che poi si dirama nel resto della città.

Qui, tra i tanti, incontro Ahmad, operaio di fede sciita: «Lavoravo in una fabbrica che ha chiuso due anni fa, come tante altre. Ora mi arrangio come posso, faccio lavori di edilizia quando c’è bisogno, a volte guido un taxi. Quando riesco a lavorare, anche per 10 ore al giorno, non guadagno mai più di 5-6 dollari. Per il momento stiamo andando avanti grazie alle nostre famiglie, ci aiutiamo a vicenda. Cerchiamo di risparmiare su quello che possiamo, soprattutto sul cibo, ma guardati attorno, fino a qualche anno fa avevamo turisti, gli alberghi sulla costa erano pieni. Ora, a parte qualche giornalista, non viene più nessuno».

Hatem invece è un poliziotto. Anche le forze dell’ordine, loro malgrado, vivono una situazione complicata in questo periodo. Turni massacranti, notti intere di guardia, spesso fatti bersaglio di oggetti pericolosi. Hatem racconta: «Anche molti di noi sono in difficoltà. Dobbiamo lavorare il doppio delle ore con uno stipendio basso. Molti di noi sono d’accordo con chi protesta e vorremmo anche essere dall’altra parte, insieme ai manifestanti. Ma se perdiamo questo lavoro, è la fine. Tanti di noi hanno fatto domanda per essere assegnati ad altri dipartimenti, in villaggi più piccoli o sulle montagne. Ovunque, pur di evitare gli scontri con la nostra gente. Se io potessi, lascerei il paese per andare all’estero. Chi poteva, lo ha già fatto».

Nuovo governo, vecchi problemi

Amnesty International ha accusato le forze dell’ordine e l’esercito libanese di reazioni eccessive durante «the week of rage». In particolare, è stato messo sotto accusa l’uso non autorizzato dei proiettili di gomma, per altro sparati tra volto e petto, quindi estremamente pericolosi.

Il 20 dicembre 2019 Hassan Diab, ex professore universitario, è stato nominato dal presidente Michel Aoun come primo ministro di un nuovo governo con ministri tecnici, come anche Nizar Hassan aveva previsto. Subito dopo la nomina di Diab, un gruppo di contestatori ha raggiunto la casa del nuovo premier protestando con veemenza, e recandosi lì quasi ogni giorno per esprimere il proprio dissenso. Hassan Diab è stato sempre sostenuto da Hezbollah. Le associazioni dei movimenti di protesta pensano che la sua nomina, visto il rapporto di Diab con l’organizzazione sciita, non farà altro che mantenere lo stesso sistema di governo, solo con protagonisti diversi.

Molto è accaduto in Medio Oriente negli ultimi mesi. In queste terre, dagli equilibri molto fragili, tutto quello che succede negli stati confinanti ha un effetto nei paesi vicini. Dopo la morte di Soulemani, ucciso in Iraq dalle forze Usa, le strade di Beirut sono state tappezzate di foto del generale iraniano e un grande corteo, formato da sciiti, ha marciato per le vie principali delle città. Il Libano accoglie moltissimi rifugiati, oggi 1 milione e mezzo, provenienti dalla Siria, praticamente un rifugiato ogni 4 abitanti; una delle percentuali più alte al mondo.

In un sistema politico così precario, anche l’arrivo di nuovi e possibili profughi, date le ultime tensioni in Iraq, rappresenta un’emergenza che lo stato farà fatica ad affrontare.

Il 14 febbraio 2005 in seguito a un attentato, fu ucciso, insieme ad altre 21 persone, Rafiq Al-Hariri, allora ex primo ministro libanese. Il corteo funebre per Al-Hariri si trasformò presto in una rivolta, conosciuta poi come la «Rivoluzione dei cedri». Oggi in Libano, nelle piazze risuonano gli stessi slogan di quei giorni, si leggono le stesse scritte di rabbia e protesta sui muri. Se il silenzio, colpevole, del governo nei confronti dei manifestanti si protrarrà oltre, molti temono un ulteriore inasprirsi delle contestazioni.

Angelo Calianno

© Angelo Calianno

Storia libanese – Cronologia essenziale

  • 1516-1918 – Il Libano fa parte del dominio dell’Impero ottomano.
  • 1920 – La Lega delle Nazioni assegna il controllo del Libano e della Siria alla Francia.
  • 1926 – Viene scritta e approvata la Costituzione libanese sotto mandato francese.
  • 1943 – Il governo, in base a una legge non scritta, viene ripartito tra le varie confessioni religiose.
  • 1944 – La Francia accetta di cedere l’amministrazione dello stato al governo libanese.
  • 1958 – La divisione del paese tra i sostenitori del presidente Camille Chamoun (cristiano maronita e filo occidentale) e quelli del socialista Kamal Jumblatt sfocia in sanguinosi scontri. Il presidente Chamoun chiede aiuto agli Stati Uniti che inviano i marines.
  • 1967 – Durante la guerra arabo-israeliana, il Libano non partecipa ufficialmente a nessuna azione. Tuttavia, i palestinesi usano le postazioni libanesi per il lancio di razzi contro Israele.
  • 1975 – Il 13 aprile, nel quartiere di Beirut Ayn al-Rummna, un gruppo di miliziani palestinesi spara contro una folla che assisteva alla consacrazione di una chiesa, uccidendo 4 persone e ferendone altre 7. Poche ore dopo, un secondo gruppo di 27 miliziani palestinesi, prova ad attaccare nuovamente il quartiere di Ayn al-Rummna. Dopo uno scontro violentissimo, contro i cristiani, vengono uccisi tutti e 27: è l’inizio ufficiale della guerra civile.
  • 1976 – Militari siriani, alleati con le milizie cristiane, assediano il quartiere palestinese di Tall El Zaatar e ne tagliano le forniture d’acqua. Il quartiere viene bombardato con razzi, centinaia di persone vengono uccise dai cecchini. Vengono uccisi anche alcuni medici e infermieri della Croce Rossa, i volontari provavano a portare aiuti nel campo. Alla fine, i morti saranno 3mila.
  • 1978 – Israele invade una striscia di territorio nel Sud del Libano, una zona cuscinetto usata per contrastare l’Olp.
  • 1982 – In risposta agli attacchi dell’Olp in Galilea, Israele lancia un massiccio attacco e invasione del Libano. I militari israeliani invadono tutta la parte meridionale fino alla zona Sud di Beirut, che viene bombardata: ha inizio la «prima guerra libanese». Arrivano, con una missione di pace, forze militari francesi, italiane e statunitensi.
  • 1983 – In aprile attacchi suicidi, attribuiti ad Hezbollah, uccidono 63 persone fuori dell’ambasciata americana. Ad ottobre, un altro attacco, colpisce il quartiere dei peacekeepers, uccidendo 241 soldati, per la maggior parte francesi e americani.
  • 1985 – La maggior parte delle forze militari israeliane si ritirano ripiegando a Sud, vicino al confine.
  • 1990 – L’aviazione siriana colpisce il palazzo presidenziale. Questo mette ufficialmente fine alla guerra civile libanese.
  • 1991 – L’Assemblea nazionale scioglie tutti i gruppi di miliziani coinvolti nella guerra civile. Tutti, eccetto quello di Hezbollah, potente gruppo sciita.
  • 1992 – Il miliardario Rafiq al-Hariri viene eletto primo ministro. Verrà assassinato durante un attentato nel 2005.
  • 2006 – Hezbollah rapisce due soldati Israeliani. Israele risponde con il lancio di missili e bombardamenti. L’attacco fa molte vittime tra i civili. L’evento verrà ricordato come la guerra dei 30 giorni o «seconda guerra libanese».
  • 2007 – Nel campo profughi di Nahr al-Bared, scoppia una rivolta tra militanti musulmani estremisti ed esercito. Muoiono 300 persone.
  • 2008 – Il Libano instaura dei rapporti diplomatici con la Siria: è la prima volta che accade da quando gli stati sono diventati indipendenti, nel 1940.
  • 2009 – Saad Hariri, figlio di Rafiq, viene nominato primo ministro.
  • 2011 – Un tribunale speciale delle Nazioni unite in Libano emette un mandato di arresto per alcuni membri di Hezbollah, accusati dell’omicidio di Rafik Hariri nel 2005. Hezbollah si oppone, dichiarando che non permetterà l’arresto di alcuno dei suoi membri.
  • 2013 – Diverse tensioni vengono registrate ai confini con la Siria, in seguito alla guerra. Molti militanti antigoverno siriani, si rifugiano in Libano dopo gli attacchi. L’Unione europea annovera Hezbollah nella lista ufficiale dei gruppi terroristici. Sempre come conseguenza della guerra in Siria, una grandissima ondata di rifugiati arriva nel paese, circa 700mila siriani.
  • 2013 (novembre) – Un attacco suicida fuori dall’ambasciata iraniana a Beirut uccide 22 persone.
  • 2014 – Il numero dei rifugiati siriani in Libano supera il milione. Il presidente Suleiman finisce il suo mandato. Una serie di attentati viene perpetrata durante le campagne elettorali per il suo successore.
  • 2016 – Saad Hariri diventa nuovamente primo ministro.
  • 2019 (ottobre) – Dopo l’annuncio dell’aumento delle tasse, più di un milione di manifestanti scende nelle piazze libanesi. Il primo ministro Saad Hariri rassegna le dimissioni.
  • 2020 (21 gennaio) – Il professore universitario Hassan Diab viene designato primo ministro. Avrà il compito di guidare un governo tecnico.
  • 2020 (9 marzo) – Il Libano è ufficialmente in bancarotta (default): i debiti non potranno essere ripagati.

An.Ca.

© Angelo Calianno

Il ruolo di Hezbollah («il partito di Dio»)

Hezbollah significa «partito di Dio». Nasce originariamente come un gruppo paramilitare sciita, cominciando a formarsi nel 1975 all’inizio della guerra civile libanese. Diventa più organizzato, e un vero e proprio partito politico, nel 1982, durante l’invasione di Israele che voleva espellere i militanti palestinesi dal Libano.

Hezbollah si ispira alla teocrazia iraniana di Khomeini e, negli anni, è finanziato da Siria e Iran. Il loro manifesto recita: «Il presupposto della nostra lotta contro Israele è che l’entità sionista, sin dalle sue origini, ha natura aggressiva ed è costruita su terre strappate ai legittimi proprietari, a spese dei musulmani. Pertanto, la nostra lotta potrà dirsi conclusa solo con l’eliminazione di questa entità. Non sigleremo alcun trattato con essa, non accetteremo alcun cessate il fuoco e alcun accordo di pace».

Nel 1983, Hezbollah si rende protagonista di una serie di attentati suicidi contro la presenza statunitense in Libano. In questi attacchi muoiono 258 soldati americani, inducendo il presidente Reagan a ritirare le truppe.

Hezbollah entra nel parlamento libanese nel 1992, durante i trattati per mettere fine alla guerra civile. Al gruppo viene consentito di mantenere le armi, oggi, «l’arsenale di Hezbollah» è uno dei temi più controversi della politica libanese. Hezbollah si rende spesso protagonista di attacchi con razzi (forniti dall’Iran) contro Israele. Inoltre, offre pubblico supporto alla Siria di Assad.

In questo momento di particolare confusione nella politica e nella società libanesi, Hezbollah è anche nel nuovo governo (definito tecnico) di Hassan Diab. Sarà difficile che questa sua presenza contribuisca a risolvere la complicata situazione del paese.

An.Ca.

Un mosaico di confessioni religiose

Nota bene: queste stime non tengono conto dei rifugiati siriani e palestinesi.

I musulmani rappresentano quasi il 60% della popolazione, divisi tra: sciiti, sunniti, ismaeliti, drusi, alauiti.

I cristiani sono circa il 37% divisi tra: maroniti, greci ortodossi, cattolici greci, armeni ortodossi, armeni cattolici, siriaci ortodossi, siriaci cattolici, nestoriani, caldei, copti, cattolici romani, evangelici.

L’ultima religione, in ordine di consistenza, è quella ebraica, ridotta a poche centinaia di seguaci. In minima parte, sono anche praticati il buddismo e l’induismo.

Ci sono 24 cattedrali in Libano, divise per le varie confessioni, la maggior parte sono di rito maronita. La principale è la cattedrale di San Giorgio a Beirut. Le altre chiese di maggiore importanza nella capitale sono: la cattedrale greco ortodossa di San Giorgio, San Luigi (fondata dai frati cappuccini), San Dimitrios, Santi Elia e Gregorio Armeno, Sant’ Elia (maronita).

An.Ca.

La missione Onu e i militari italiani in Libano

I primi soldati italiani arrivarono con la missione Unifil – United Nations Interim Force in Lebanon -, partita nel marzo 1978 e più volte prorogata. Nel 1982, l’ltalia rafforzò la propria presenza con la missione «Italcon», sempre sotto l’egida dell’Onu. Le forze italiane furono impegnate, insieme a quelle francesi, statunitensi e inglesi, durante la guerra civile libanese.

Un ulteriore intervento si ebbe nel 2006 con l’operazione «Leonte», operazione di pace sempre a guida Onu. L’operazione era volta alla ricognizione delle coste e al monitoraggio delle tensioni tra Hezbollah e Israele. Oggi l’Italia, in Libano, ha il comando delle operazioni generali dell’Unifil. Sono presenti, sul territorio, 1.200 militari italiani che si occupano anche dell’addestramento delle truppe locali. A novembre 2019 a Shama, una delle principali basi italiane, è avvenuto il passaggio di responsabilità del contingente italiano; la consegna è avvenuta tra la Brigata Aosta e quella dei Granatieri di Sardegna.

An.Ca.

© Deck Accessory


Vivere oggi a Teheran

Nati dopo la rivoluzione

Le proteste di fine 2019 sono nate per l’aumento dei prezzi della benzina (+50%). Nel paese la situazione generale è pesante (anche per il Covid-19) e c’è una sensazione d’attesa. Anche se molti hanno perso la speranza di arrivare a un vero cambiamento.

Iranian Supreme Leader Press Office / Handout / Anadolu Agency

Teheran, un bell’appartamento panoramico nei quartieri alti. Leila ci abita con suo marito. Sono una coppia affiatata, non hanno problemi economici, ma si sentono soli. Delle rispettive famiglie sono gli unici rimasti a vivere in Iran: fratelli e genitori sono a Dubai, in Canada, in Germania. Leila ha studiato all’estero. Finiti gli studi, però, è tornata a lavorare nel suo paese, cui è legata anche dalla fede religiosa. Profondamente devota, ha sempre svolto i riti della preghiera in casa, senza andare in moschea a esibire la propria fede. Insegna nella più prestigiosa università di Teheran. Non ha mai immaginato un futuro fuori dal proprio paese, quindi, a differenza di tanti altri, non ha mai avuto l’intenzione di emigrare.

Date queste premesse, non mi aspettavo il tenore della nostra conversazione, un pomeriggio di fine dicembre. Quel giorno era il quarantesimo dalla repressione delle proteste di metà novembre, era la giornata in cui, secondo la tradizione, se ne sarebbero dovuti commemorare i morti. Era corsa voce che per l’occasione la gente sarebbe tornata a protestare nelle strade della capitale e del paese. A Teheran l’aria era fitta di inquinamento e di attesa. Nei punti nevralgici era pieno di polizia, di basij (i volontari pro governo) pronti sulle loro motociclette, di agenti in borghese.

«Magari succede qualcosa…», mi ha confidato Leila, quasi con desiderio. Ho sgranato gli occhi. Da lei simili parole? Follia, pura irrazionalità. «Forse è meglio di no – le ho risposto -. Sai bene che loro (gli uomini della casta al potere) non si fermano davanti a nulla, che scorrerà di nuovo il sangue». «E che sia, se questo è il prezzo da pagare!», ha ribadito l’amica. Così ho capito che qualcosa era cambiato: aveva perso la speranza.

«Non ce la faccio più, non prego più come prima, penso che dovremo andarcene da qui. Nei giorni della rivolta il capo del nostro dipartimento ha dovuto tenere un discorso ufficiale agli studenti e propagandare le ragioni del governo. Se lo avessero chiesto a me? Non avrei mai potuto farlo. Meglio andarsene prima, tanto a loro non interessa nulla, né dell’università, né degli studenti. Che senso ha lavorare in queste condizioni?». Sì, Leila, come tanti altri, non sperava più.

Le vittime occultate

A metà novembre 2019 in tutto l’Iran sono iniziate manifestazioni di protesta. Come nel 2017-18, il motivo scatenante è stato economico: questa volta il rincaro del prezzo della benzina (oltre il 50% in più), ma, come due anni prima, gli slogan sono diventati subito politici. Senza precedenti, invece, è stata la violenza della repressione. Per la prima volta c’è stato un totale blackout di internet, che è durato da una a due settimane, a seconda dei luoghi. Ovviamente, le cifre ufficiali non sono attendibili e fonti diverse danno numeri diversi, ma la gente qui parla di 1.500 morti, che è quanto riporta anche l’agenzia Reuters. Nel sobborgo di Teheran dove mi trovo gira la voce che, tra gli abitanti, ci siano state 150 vittime. Behruz, un amico di Shiraz (Centro Sud del paese), riporta per la sua città la cifra di 400 vittime. «I cecchini colpivano la gente in strada dai tetti delle case. Hanno usato anche gli elicotteri per sparare alla gente! – la voce gli trema per l’indignazione -. Vedrai che presto succederà qualcosa. Qualcosa dovrà cambiare». Queste parole in bocca al mite Behruz non sono usuali.

Forse i numeri sono esagerati, o forse no, ma in fondo, poco importa. La percezione di tutti è di aver assistito allo scatenarsi di una ferocia inaudita, che ha ucciso in modo indiscriminato, ingiustificato, brutale. Ha colpito i manifestanti inermi, ha colpito tanti che non manifestavano, curiosi o passanti che fossero, non ha risparmiato bambini, donne, ragazzi. Ai parenti delle vittime è stato imposto di seppellire i loro cari nel silenzio, niente cerimonie, niente annunci, niente foto. Nel nostro sobborgo le gigantografie esposte davanti alle moschee sono quelle di guardie della rivoluzione o basij assassinati per vendetta. Li hanno riconosciuti e accoltellati poi, a sangue freddo, mi spiegano.

Giovani e anziani: aspettative diverse

Behruz è giovane: un po’ più giovane di Leila, ma entrambi nati dopo la rivoluzione del 1979. Come Leila, anche Behruz immagina che una rivolta aperta potrebbe avviare un cambio di regime. Nei giorni delle proteste le piazze si sono riempite di giovani e giovanissimi; proprio tra di loro è stato mietuto il maggior numero di vittime. Ma la generazione dei più anziani, di coloro che hanno vissuto la rivoluzione e poi gli otto anni di guerra con l’Iraq, non si aspettano cambiamenti repentini, e neppure li auspicano, non perché non li desiderino, ma perché sanno che qualsiasi tentativo di rivolta dal basso porterebbe a un terribile bagno di sangue.

La Guida suprema e i religiosi attorno a lui non hanno intenzione di rinunciare al controllo sul paese. Hanno in mano due oliatissimi strumenti di repressione: il corpo delle guardie della rivoluzione (pasdaran, sepa) e l’organizzazione dei volontari (basij), e non esiterebbero a usarli contro chiunque tentasse di minare il loro potere.

I Guardiani e le liste elettorali

In tutto questo niente di strano che, prima delle elezioni parlamentari dello scorso 21 febbraio, il Consiglio dei guardiani non abbia ammesso circa la metà delle candidature. La squalifica dei candidati a un’elezione è prassi comune di lotta politica nella repubblica degli ayatollah. Persino ad Akbar Hashemi Rafsanjani, uno dei protagonisti della rivoluzione islamica, ex presidente dell’Iran, e, fino alla morte, presente al fianco di Khamenei nelle apparizioni pubbliche, nel 2013 i Guardiani negarono il permesso di concorrere per le presidenziali. Questa volta, però, la loro scure si è abbattuta sui candidati riformisti con mano particolarmente pesante; quella stessa mano che, a novembre, ha messo in atto la repressione delle rivolte.

È evidente l’intenzione del regime di compattarsi davanti alla pressione esterna e, soprattutto, davanti al crescente malcontento interno. Come a ogni tornata elettorale, la Guida suprema con insistenza ha sollecitato gli iraniani a votare. Per gli uomini del regime è sempre stato importante poter vantare un’alta affluenza alle urne, che essi interpretano come una legittimazione popolare e sventolano come una prova del carattere autenticamente democratico della repubblica islamica.

Però le sirene della propaganda di stato questa volta non hanno funzionato. Si è registrata la più bassa affluenza alle urne dell’Iran post rivoluzionario: 42% a livello nazionale, addirittura 25% nella capitale. D’altra parte, le squalifiche avevano tolto agli iraniani la possibilità di scegliere, come successo altre volte, il «male minore», e cioè i candidati moderati e riformisti.

Maria Chiara Parenzo

© Dyna Mosquito


Tra guerre e nuove alleanze

Sua maestà il petrolio

Ai tempi dello shah, Stati Uniti e Iran erano alleati. Dopo la rivoluzione del 1979, gli Usa preferirono l’Iraq di Saddam Hussein per contrastare l’Iran sciita. Un andirivieni di alleanze, sanzioni e accordi non in nome della democrazia e dei diritti, ma sempre in nome del petrolio.

Il 3 gennaio 2020, all’una di notte, un missile lanciato da un drone colpisce e incenerisce due auto mentre viaggiano in autostrada verso l’aeroporto di Baghdad. A bordo ci sono otto persone, tutte morte all’istante, incluso il comandante della Forza di mobilitazione popolare irachena conosciuto come Abu Mahdi al Mohandis. Ma il vero obiettivo era Qassem Soleimani, generale che coordinava le attività iraniane in Iraq. Lo rivelava la Casa Bianca nel rivendicare la paternità dell’attacco. Un ennesimo atto di ostilità in un rapporto di inimicizia che dura da decenni.

In principio Iran e Usa erano alleati. Nel 1941 la monarchia iraniana – retta dallo shah Mohammad Reza Pahlavi (subentrato al padre) – chiese l’aiuto degli Stati Uniti per arrestare l’occupazione militare messa in atto da Inghilterra e Russia che, all’epoca, erano alleati contro il nazismo. Gli Stati Uniti inviarono 30mila soldati che vennero ritirati a normalizzazione avvenuta. Normalizzazione che continuava a contemplare la presenza di imprese petrolifere britanniche che rimasero in Iran fino al 1979 quando avvenne la Rivoluzione islamica. Tuttavia, l’invio di truppe da parte degli Stati Uniti era stato considerato un gesto di grande amicizia e il legame con la famiglia reale rimase così solido da trasformare l’Iran in una sorta di protettorato Usa. Finché la monarchia rimase al potere, gli Stati Uniti inondarono il paese di denaro, armi, tecnici e consiglieri militari. Finanziarono perfino l’avvio del programma nucleare che più tardi sarebbe stato tanto contestato. Ma, nel 1979, un movimento di protesta guidato dalle autorità religiose islamiche riuscì a rovesciare il potere dello Shah e a poco valsero i tentativi di restaurazione messi in atto dalla Cia: la monarchia fu definitivamente estromessa dalla scena iraniana e con essa se ne andò anche l’amicizia con gli Stati Uniti.

Per Washington la perdita dell’Iran fu un duro colpo perché, dopo l’Iraq e la Siria, era il terzo paese del Medio Oriente che sfuggiva al suo controllo. Ma si dava il caso che Iraq e Iran non si vedessero di buon occhio e nella logica del divide et impera, gli Stati Uniti foraggiarono l’Iraq affinché tenesse impegnato l’Iran in una guerra che durò otto anni (1980-1988). Poi però successe che nel 1990 Saddam Hussein, dittatore dell’Iraq, pretese di invadere il Kuwait, paese sotto protezione statunitense, per cui l’Iraq tornò nella lista dei cattivi. Seguirono anni duri per Baghdad contrassegnati da un pesante embargo che privò il paese perfino dei farmaci di base. Ma il peggio arrivò nel 2003 quando Washington invase il paese portando morte, distruzione e totale dissesto, sia politico che economico.

l ruolo dell’Arabia Saudita

Neutralizzato l’Iraq, l’attenzione si concentrò di nuovo sull’Iran con due vecchie strategie: l’embargo per isolarlo e la tensione militare per sfiancarlo. E se per il primo scopo usò come pretesto il mancato rispetto dell’accordo sul nucleare, per il secondo, soffiò sul fuoco di una vecchia rivalità con l’Arabia Saudita. Ma non volendo, né una parte né l’altra, avventurarsi in conflitti diretti, altri paesi vennero utilizzati come teatri di guerra. In particolare, lo Yemen e la Siria, due paesi con guerre (ancora in corso) che, oltre ad avere provocato migliaia di morti e feriti, hanno prodotto milioni di affamati, di sfollati, di senza casa. In Yemen, 14 milioni di persone sono a rischio morte per fame ed epidemie. Quanto alla spesa militare, mentre l’Iran si è mantenuto nella sua media, l’Arabia Saudita, dal 2009 al 2018, l’ha vista aumentare del 28% con grande vantaggio commerciale per gli Stati Uniti, perché l’88% di tutte le armi importate dal paese nel periodo 2014-2018, sono state acquistate nelle nazioni alleate.

Nonostante la disponibilità all’azione militare da parte dei propri alleati, gli Stati Uniti sono comunque presenti nell’area del Golfo con mezzi e soldati. Oltre a basi aeree in Kuwait, Qatar, Emirati Arabi e a navi da guerra che pattugliano la penisola arabica, in Medio Oriente stazionano   60-70mila militari Usa, di cui 45mila nei paesi che si affacciano sul Golfo Persico e 14mila in Afganistan, sul fianco Est dell’Iran. Un dispiegamento di forze che dal 2001 costa agli Usa una media di 200 miliardi all’anno. Però, se aggiungiamo alla spesa anche i soldi per i veterani e per gli interessi sul debito contratto per trovare i fondi, scopriamo che i soldi complessivamente utilizzati per mantenere la presenza militare Usa in Medio Oriente negli ultimi 18 anni, sono ammontati a 6.400 miliardi, una media di 355 all’anno. Lo calcola il Watson Institute della Brown University.

Le ragioni dell’impegno Usa

Di fronte a tanto sforzo militare la domanda che sorge spontanea è: per quale ragione? Tre risposte si affacciano alle mente. La prima: per difendere la bandiera ideologica del capitalismo e soprattutto gli interessi delle imprese statunitensi. Non a caso l’inimicizia con l’Iran è iniziata con la caduta dello shah e l’instaurazione della Repubblica islamica determinata a nazionalizzare i settori chiave dell’economia e soprattutto a non permettere a imprese straniere di arricchirsi tramite lo sfruttamento delle proprie risorse. La storia dell’Iran degli ultimi 100 anni è contrassegnata dalla determinazione dei paesi occidentali di voler controllare il suo petrolio. E senza volere ricostruire gli eventi in tutti i loro passaggi, basti dire che nel 1954 lo shah aveva concesso l’estrazione e la vendita del petrolio a un consorzio internazionale formato da una decina di multinazionali petrolifere, le principali delle quali erano British Petroleum, Shell, Compagnie Française des pétroles, Exxon e altre imprese americane minori. In contropartita, il consorzio avrebbe consegnato al governo iraniano il 50% dei profitti. Con l’avvento della rivoluzione islamica, nel 1979, l’accordo venne annullato e oggi petrolio e gas iraniani sono estratti e venduti esclusivamente dal Nioc (National Iranian Oil Company), un’impresa di proprietà governativa che si definisce la seconda impresa petrolifera mondiale per capacità estrattiva. Non così negli altri paesi del Golfo, dove molte imprese straniere, fra cui Exxon Mobil, Occidental Petroleum, BP, Royal Dutch Shell, Total, partecipano a progetti di estrazione.

La seconda risposta che potremmo darci rispetto al motivo per il quale gli Usa utilizzino tante energie per presidiare il Medio Oriente, è perché vogliono garantirsi l’approvvigionamento di petrolio. Tuttavia, a un’analisi più approfondita questa risposta oggi vacilla. Gli Stati Uniti sono essi stessi un grande produttore di petrolio. Fino al 1947 erano addirittura autosufficienti. Poi subentrò una certa dipendenza dall’estero perché i consumi cominciarono a crescere più di quanto non crescesse la produzione. A fine anni Ottanta successe addirittura che la produzione aveva cominciato a scendere e la dipendenza verso le importazioni si fece particolarmente acuta fino al 2005. Poi, la situazione cominciò a cambiare con la scoperta dello shale oil, il petrolio intrappolato nelle rocce scistose che può essere estratto grazie a una tecnologia moderna nota come fracking: l’iniezione in giacimento di un fluido ad alta pressione, normalmente acqua mista a sabbia, che, spaccando le rocce, libera il gas o il petrolio che vi è contenuto. La produzione di shale oil cresce di anno in anno e se, nel 2011, era a un milione di barili al giorno, nel 2019 era a 8 milioni al giorno. Tuttavia, l’autosufficienza non è ancora stata raggiunta e ad oggi le importazioni di petrolio continuano a coprire circa il 10% dei consumi statunitensi. Diverso, invece, il discorso per il gas. In questo settore la scoperta dello shale gas si è rivelato così abbondante da avere permesso agli Stati Uniti di produrre più gas di quanto ne consumi. Tant’è vero che sono diventati il terzo esportatore mondiale di gas, sia vendendolo tal quale ai paesi confinanti tramite gasdotti, sia vendendolo al resto del mondo come Lng, gas liquido compresso, tramite nave. Tuttavia, il primo esportatore mondiale di gas resta la Russia che, proprio per questo, gli Stati Uniti stanno cercando di ostacolare in tutti i modi, accampando perfino ragioni di sicurezza. Lo hanno fatto nel dicembre 2019, quando
Donald Trump ha firmato la legge che impone sanzioni a qualsiasi impresa che aiuti Gazprom, impresa di stato russa, a terminare il «Nord Stream 2», il gasdotto che porta il gas dalla
Russia alla Germania (e quindi all’Unione europea) attraverso il Mar Baltico. La scusa è che il gasdotto potrebbe trasformare la Germania in «ostaggio della Russia».

Ed è proprio questa ennesima guerra commerciale fra Usa e Russia a portarci sulla terza possibile risposta, squarciando il velo su un paradosso che sa di incredibile.

Sale la temperatura e sale il petrolio

Nel dicembre 2015 a Parigi venne firmato un accordo per impedire alla temperatura terrestre di salire oltre 1 grado e mezzo centigrado rispetto all’era preindustriale. Un obiettivo che, per essere raggiunto, richiede il dimezzamento delle emissioni di anidride carbonica entro il 2025 e il loro azzeramento entro il 2050. In una parola dovremmo mettere fine, per sempre, all’era dei combustibili fossili. La realtà sembra però andare in direzione opposta. Dal 2015 al 2019 il consumo di petrolio nel mondo è aumentato del 6,5% passando da 93 a 99 milioni di barili al giorno. Ancora più rilevante il consumo di gas che, nello stesso periodo, è cresciuto dell’11%. Numeri che continuano a confermare la centralità dei prodotti petroliferi nella gestione dell’economia mondiale. E, considerato che i paesi del Golfo producono il 24% del petrolio e il 21% del gas naturale mondiale, si capisce come quest’area continui a rimanere strategica. Dal che si deduce che il vero grande motivo per cui gli Stati Uniti continuano a presidiare il Medio Oriente, con tanto dispiegamento di forze, è il controllo del mondo attraverso il petrolio. Con un unico intento: favorire gli stati di ortodossa fede capitalista e penalizzare tutti gli altri. Che tradotto a livello produttivo significa favorire le monarchie del Golfo contro l’Iran. A livello di acquisti significa favorire i propri alleati europei e asiatici contro la Cina. Una Cina che sa di trovarsi in posizione di debolezza considerato che deve importare il 75% del proprio fabbisogno petrolifero. Con un’unica possibilità per sottrarsi all’egemonia degli Stati Uniti: la diversificazione dei propri fornitori. Ma, per quanti sforzi faccia, le sue importazioni di petrolio dipendono per il 44% dai paesi del Golfo. Una spada di Damocle sulla sua testa destinata a pesare a ogni tavolo di trattative che Pechino ha con Washington. Perché non può dimenticare che chi controlla lo Stretto di Ormuz, di fatto controlla il mondo.

Francesco Gesualdi

© Youngrobv

Indicazioni bibliografiche

  • Aa.Vv., America contro Iran, in «Limes», n. 1, febbraio 2020.
  • Aa.Vv., Attacco all’Impero persiano:
    Washington stringe la morsa sull’Iran, in «Limes», n. 7, luglio 2018.
  • Alessandro Cancian, La scuola degli imam e l’educazione religiosa nell’Islam sciita, Jouvence, Milano 2015.
  • Antonello Sacchetti, Iran, 1979, la rivoluzione, la repubblica islamica, la guerra con l’Iraq, Infinito edizioni, Formigine
    (Modena) 2013.
  • Ervand Abrahamian, Storia dell’Iran, dai primi del Novecento a oggi, Feltrinelli,
    Milano 2013.
  • Michael Axworthy, Iran rivoluzionario. Una storia della repubblica Islamica,
    Edizioni Leg, Gorizia 2017.
  • Riccardo Redaelli, L’Iran contemporaneo, Carrocci, Roma 2011.
  • Ryszard Kapuscinski, Shah-in-Shah, Feltrinelli, Milano 2001.

Presidency of Iran / Handout / Anadolu Agency

Hanno firmato questo dossier:

ADEL JABBAR – Sociologo e saggista nell’ambito dei processi migratori e della comunicazione interculturale. È libero docente e collaboratore presso istituzioni accademiche e organismi di ricerca e formazione. Ha insegnato all’Università Ca’ Foscari di Venezia, all’Università di Torino, all’Università di Modena e Reggio Emilia. Svolge attività di referente scientifico dell’Ufficio multilingue della provincia autonoma di Bolzano ed è collaboratore del Centro per la pace di Bolzano e del Forum per la pace della provincia autonoma di Trento. Negli ultimi anni ha insegnato Islamistica all’Istituto superiore di Scienze religiose di Modena, al Centro teologico di Torino e all’Istituto di Scienze religiose di Bolzano.

ANGELO CaLIANNO – Pugliese, reporter freelance, esperto in storia – soprattutto quella legata all’influenza islamica nel mondo – negli ultimi 14 anni ha scritto
reportage e racconti da zone devastate dalla guerra. Ultimamente ha lavorato in Afghanistan, Iraq, Libano e Africa subsahariana. È collaboratore di MC.

MARIA CHIARA PARENZO – Nome con cui si firma una collaboratrice di MC che vive tra Teheran e Milano.

FRANCESCO GESUALDI – Fondatore del «Centro nuovo modello di sviluppo», da oltre due anni firma su MC la rubrica «E la chiamano economia».

A cura di Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.

© ATTA KENARE / AFP

 

 




Acque e ladri

Testi di Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli. A cura di Luca Lorusso |



L’acqua nel mondo si riduce, la sete aumenta

La corsa all’acqua

Per troppo tempo l’oro blu è stato considerato una  ricchezza illimitata, sempre disponibile. Oggi stiamo cambiando idea, spinti dalle crisi ambientali che hanno al centro l’acqua. Prima dell’opinione pubblica, l’hanno capito coloro che, con le leve del potere politico ed economico tra le mani, hanno dato il via a una corsa spietata: quella dell’accaparramento della risorsa  centrale per la vita umana.

Il 2019 ha visto un elevato numero di crisi ambientali, dagli incendi in Australia, Sud America, Centrafrica, alla crisi idrica in India, Etiopia, Somalia, la siccità in Sudafrica, le tempeste in Indonesia e Filippine.

In molti di questi casi, al centro del disastro c’era un elemento primario: l’acqua. La sua assenza, come la sua eccessiva presenza (nel caso di alluvioni) ha caratterizzato molti eventi catastrofici legati al cambiamento climatico. Con conseguenze spesso gravi sull’uomo.

In India la siccità prolungata ha lasciato milioni di persone senz’acqua per mesi, con impatto rilevante sulla salute. In Australia il caldo record ha seccato ogni cosa, rendendo possibile una serie infinita di incendi che hanno bruciato per settimane e sono costati decine di vite umane e la morte di oltre 500 milioni di animali.

© Fausto Podavini

 

Nuove geografie dell’acqua

Sempre di più il cambiamento climatico si manifesta attraverso l’acqua, in una correlazione che non è sempre compresa a livello politico né tantomeno giornalistico.

La geografia dell’acqua sta mutando con un’intensità e una velocità mai viste nella storia del-l’Homo sapiens, e ancora non ci siamo preoc- cupati di capire come affrontare il mutamento e come adattarci ai nuovi contesti che emergono.

In questa complessa equazione differenziale, le variabili sono il clima e l’inquinamento (che alterano la disponibilità idrica), e l’aumento della popolazione e dei consumi (che incrementano i prelievi).

Dunque ci troviamo in un mondo dove l’acqua è impiegata dall’uomo in quantità sempre maggiori, e dove, allo stesso tempo, non sono più disponibili le risorse idriche tradizionali su cui la nostra civiltà si è sempre sorretta, a causa, ad esempio, dell’inquinamento di falde e fiumi.

L’acqua facile è finita

Per molto tempo, a partire dalla fine degli anni Sessanta, il tema principale delle lotte ambientaliste relative all’acqua era quello della sua qualità. Per scienziati e cittadini, la questione della quantità non era ancora allarmante.

Oggi però, la sicurezza dell’acqua «facile» viene meno. Ci siamo finalmente resi conto che la fonte vitale data per scontata e inesauribile, in realtà è scarsa in numerose regioni del pianeta.

I volumi d’acqua disponibili per ogni abitante della Terra diminuiscono di anno in anno, mentre la richiesta pro capite aumenta.

Secondo le Nazioni Unite, entro il 2030 il 47% della popolazione mondiale vivrà in aree a elevato stress idrico.

Il cambiamento climatico, le frequenti siccità, lo scioglimento dei ghiacciai, erodono le preziose riserve d’acqua dolce. La crescita della popolazione, l’impennata dei consumi e della produzione alimentare, l’industria e il bisogno continuo di energia (da petrolio, gas, centrali idroelettriche), richiedono sempre più ingenti risorse idriche.

Gli attori politici ed economici più potenti, allora, si muovono per assicurarsele, anche a discapito della sopravvivenza di comunità o intere nazioni, ovviamente le più povere.

Ed è qua che ha inizio la corsa all’oro blu. Detta anche, in inglese, water grabbing.

Water grabbing

Con l’espressione water grabbing, o «accaparramento dell’acqua», ci si riferisce a situazioni nelle quali qualcuno prende il controllo di risorse idriche preziose a proprio vantaggio, sottraendole a qualcun altro, comunità locali o intere nazioni, la cui sussistenza si basa su quelle stesse risorse e quegli stessi ecosistemi.

La costruzione di mega dighe, la privatizzazione di fonti idriche, l’uso forzato di fiumi e laghi per progetti di agrobusiness su larga scala, l’inquinamento dell’acqua per ridurre i costi industriali, il controllo delle risorse idriche da parte di forze militari per limitare lo sviluppo di una popolazione nemica, una minoranza, un’etnia, sono esempi di water grabbing. Gli effetti di questo accaparramento sono sovente devastanti.

© Emanuele Bompan

Da bene comune a bene privato

Nel cosiddetto Sud del mondo, ma anche in alcuni paesi industrializzati, l’acqua si trasforma da bene comune liberamente accessibile a bene privato o controllato da chi detiene il potere.

La geografia del water grabbing interessa ampie fasce del pianeta, le zone equatoriali, i grandi bacini idrici dell’Asia, il Medio Oriente, l’America meridionale, l’area mediterranea, le zone desertiche dell’America settentrionale e dell’Australia.

Per questa ragione un gruppo di ricercatori, giornalisti (incluso l’autore di questo dossier, ndr), fotografi ed esperti, ha creato il Water grabbing observatory, guidato da Marirosa Iannelli, con l’obiettivo di rilevare, analizzare, comunicare fenomeni sociali, ambientali ed economici legati ad acqua e clima, in Italia e nel mondo, usando giornalismo e pubblicazioni come, ad esempio, il libro Water grabbing (edito dall’Emi nel 2018) e L’Atlante geopolitico dell’acqua (Hoepli, 2019), di cui proponiamo alcuni estratti in queste pagine.

Le mega dighe e i padroni del Mekong

Uno dei principali dispositivi di controllo delle risorse idriche nel mondo è l’impiego delle mega dighe: quella delle Tre Gole in Cina ha comportato il trasferimento forzato di 1,2 milioni di persone; la Gibe III in Etiopia sta colpendo gli equilibri geosociali della popolazione della regione dell’Oromia (400mila persone interessate); la Merowe in Sudan ha intaccato lo status di 50mila persone, senza alcun indennizzo economico.

Uno dei bacini idrici più importanti e anche più colpiti dal fenomeno del water grabbing al mondo è quello del fiume Mekong, in Indocina, dove la costruzione di decine di dighe sta modificando la vita di milioni di persone, in particolare nel delta.

Siamo andati a raccogliere informazioni su una di queste, la diga Xayaburi, la prima costruita in Laos sul Mekong nella zona Nord occidentale del paese, e l’accoglienza non è stata tra le più calorose: guardie armate ci hanno impedito di arrivarvi, sia in auto che a piedi. Abbiamo potuto intravedere dall’alto della montagna solo l’ansa del colosso completato a fine novembre 2019.

Pesca, agricoltura, turismo in secca

Costruita da un’azienda di Bangkok, la Ck Power Pcl, la diga Xayaburi venderà il 95% dell’energia prodotta a utenti thailandesi, fuori dai confini del Laos. Quello che le popolazioni di questi territori non si aspettavano, però, era che la mega diga potesse avere un impatto sul corso del fiume così forte come quello che osservano oggi. Duecento chilometri più a Sud, infatti, dove il Mekong scorre per un lungo tratto sul confine tra Laos e Thailandia, le ultime foto satellitari disponibili indicano una fortissima riduzione del regime fluviale.

Nei villaggi di pescatori thai, la secca arriva fino a 30-40 metri dalla riva. Le barche sono incagliate nel fango.

È una situazione che interessa tutto il fiume fino alla Cambogia e che ha fatto esplodere la rabbia dei pescatori thailandesi portandoli in piazza, mentre in Laos le manifestazioni sono state represse dal regime di Bounnhang Vorachith.

Oltre alla riduzione della portata del fiume, infatti, si starebbe verificando una diminuzione della quantità di pesce disponibile. «Sessanta milioni di persone traggono sostegno da questo bacino», spiega Pianporn Deetes, dell’organiz-zazione International Rivers. «Governi e imprese private hanno deciso di costruire dighe che impatteran­no su pesca, turismo, agricoltura. Dighe come la Xayaburi saranno fonte d’instabilità, una piaga, in particolare per i più poveri. Tantissimi villaggi, specie comunità indigene, perderanno i loro territori, abbandonando costumi e tradizioni. La sicurezza alimentare per milioni di persone è a rischio».

Dalla Cina al Vietnam: 124 dighe

I proprietari della diga Xayaburi, a loro volta, attribuiscono il prosciugamento del letto del fiume ai monsoni tardivi e all’impatto comples­sivo delle dighe cinesi, ben 11 nell’alto Mekong, già finite nel mirino del segretario di stato Usa, Mike Pompeo, che le ha definite un rischio per la stabilità idrica del paese, un accaparramento del fiume da parte di Pechino.

Ulteriori preoccupazioni interessano il Vietnam, ultimo paese attraversato dal Mekong: secondo Nguyen Thu Thien, un geografo esperto di aree umide della University of Wisconsin, «il Vietnam potrebbe perdere il delta e tutta la sua produzio­ne di riso entro il 2050. Milioni di impoveriti saranno costretti a fuggire, se le dighe andranno avanti». Dati allarmanti per Hanoi, che punta il dito contro Cina, Laos e anche Cambogia, per i progetti scellerati di sbarramento del Mekong.

Il problema, comunque, è la situazione globale dell’intero corso del fiume, non attribuibile a  una diga specifica, sia essa in Laos, Cina o Cambogia. A oggi, infatti, è prevista la realizza­zione di 124 dighe lungo l’intero bacino del Mekong – inclusi dunque i fiumi tributari -, con i quali si potrebbero generare 268 Gigawattora (GWh) di energia rinnovabile all’anno (l’equivalente dell’80% del fabbisogno lordo italiano). Di queste 124 dighe, 32 sono già funzionanti e 24 in costruzione, mentre la messa in opera delle restanti è prevista nei prossimi venticinque anni.

Trasferimenti forzati

Un altro sbarramento del Mekong che desta preoccupazione, è la mega diga di Pak Beng, sempre nell’alto Laos, a Est di Luang Prabang, in uno dei settori più belli del fiume: «Al momento non ci sono scavi, ma spesso ci sono ingegneri e geometri a fare misure e rilevamenti», spiega Vilang Mak, una guida del gruppo Shampoo Tours, specializzato in crociere sul Mekong. «La diga porterà allo stop del turismo in queste zone, le crociere qui diventeranno un ricordo», conti­nua Vilang. Secondo gli ambientalisti, 25 villaggi indigeni in Laos e due in Thailandia saranno spazzati via con la costruzione della diga, oltre 6.700 persone dovranno essere trasferite forzatamente. I trasferimenti sono già iniziati.

Nei pressi della diga Lower Sesan II in Cambogia, migliaia di persone hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni per fare spazio al nuovo bacino. Anche in questo caso le compensazioni erogate sono state irrisorie e le new town costruite per ricollocare una parte degli sfollati sono sostanzialmente invivibili.

Una situazione destinata a ripetersi per ogni progetto che verrà completato. Contribuendo ad un deterioramento generale della sicurezza alimentare nell’intera regione.

© Thomas Cristofoletti / Ruom


Acqua in bottiglia

«Salve, cosa desidera da bere?», è la domanda che ci sentiamo rivolgere al bar in pausa pranzo, o la sera in pizzeria. La risposta più comune è «acqua», sia essa liscia o gassata. Un gesto semplice, ed ecco che la nostra sete viene placata grazie a una bottiglietta in plastica o vetro. Il nostro bisogno primario viene così soddisfatto.

Quando si chiede l’acqua del rubinetto, troppo spesso si riceve un rifiuto, oppure si viene trattati con sufficienza. Questo perché i bar hanno contratti quinquennali con i fornitori o perché le bevande sono un margine di guadagno importante.

Un mercato in crescita

Il valore dell’acqua in bottiglia a livello mondiale nel 2019 ha quasi raggiunto i 250 miliardi di euro. Cresce ogni anno di una percentuale a due cifre, con i mercati occidentali a farla da padroni.

Sono miliardi buttati dai consumatori, poiché la qualità dell’acqua del rubinetto è spesso più alta di quella imbottigliata.

In ogni caso è un fenomeno che sta prendendo piede in Asia e Sud America, dove bere acqua in bottiglia è cool, trendy, serve «a far dimagrire». Come la Fiji, «l’acqua delle modelle».

Il colosso di questo mercato è Nestlé waters (una divisione di Nestlé corp.), che da sola detiene 51 etichette di acqua in bottiglia, incluse Panna, San Pellegrino, Deer Park e Nestlé Pure Life. Acqua che proviene da fonti che dovrebbero appartenere a tutti, ma che, grazie all’acquisizione di permessi di imbottigliamento rilasciati a prezzi stracciati, divengono di fatto private. Una forma di accaparramento idrico.

I margini di profitto sono elevati: un litro di acqua in bottiglia purificata di bassa qualità costa al consumatore circa 560 volte più dell’acqua del rubinetto. Per imbottigliare, un’azienda paga allo stato canoni di uso della fonte che raggiungono al massimo i due millesimi di euro al litro. In alcuni casi il costo è inesistente.

Dal 1° gennaio 2019, Nestlé water Canada, la divisione acque nordamericana della multinazionale svizzera, ha iniziato a estrarre 1,6 milioni di litri di acqua al giorno dal pozzo di Middlebrook, il terzo mega pozzo in Ontario dopo quelli di Aberfolyle ed Erin. Costo? Poco più di 500 dollari canadesi l’anno. Con conseguenze però molto costose. Rob MacKay, sessantaquattro primavere alle spalle, vive con il fratello e i suoi cavalli in una bellissima casa rurale dal tetto ad angolo, non lontano dal pozzo di Middlebrook. Da qualche tempo i suoi pozzi sono prosciugati. Così come vari ruscelli della zona. «Siamo rimasti senz’acqua in una delle regioni più ricche d’acqua del pianeta», dichiara Rob.

Un milione di bottiglie al minuto

L’Italia ha il primato peggiore: siamo il secondo paese consumatore di acque in bottiglia al mondo: ognuno di noi, in media, ogni anno ne beve 208 litri. E per anni siamo stati il primo. Possiamo tranquillamente dire che il mercato dell’acqua in bottiglia è nato nel Belpaese.

Se per anni in Italia si è cercato di imporre canoni uniformi che prevedessero il pagamento sia in funzione degli ettari dati in concessione, sia dei volumi di acqua emunti o imbottigliati (indicando come cifre di riferimento almeno 30 euro per ettaro e tra 1 e 2,5 euro per metro cubo imbottigliato, cioè 1.000 litri), a oggi solo alcune regioni si sono adeguate.

In un’ottica di economia circolare, molte aree del nostro paese potrebbero fare a meno di consumare acqua in bottiglia. Se l’equivalente dei soldi spesi dalle famiglie con Nestlè, San Bernardo e Ferrarelle, fosse impiegato per migliorare la qualità dell’acqua che esce dai rubinetti, ne avremmo tutti giovamento. L’impatto sarebbe ingente. Basti pensare che nel 2018 si sono prodotte nel mondo un milione di bottigliette di plastica al minuto, di cui una buona fetta destinate a contenere acqua. Significa più di 16mila bottiglie al secondo che poi finiscono, se gestite in maniera virtuosa, nei pochi impianti di riciclo della plastica, o termovalorizzate, oppure, molto più probabilmente, nelle discariche o disperse nell’ambiente.


I negoziati internazionali per il clima a un bivio

Aspettando Glasgow

Il fenomeno della corsa  all’acqua è parte del più vasto problema dello sfruttamento dell’ambiente da parte dell’uomo. Una pratica secolare che sta rompendo l’equilibrio naturale della  nostra casa comune. Se i cambiamenti climatici sono la più grande sfida del nostro secolo, al momento pare che la comunità internazionale la stia perdendo. Dopo il fallimento del summit di Madrid, quello del 2020 a Glasgow sarà decisivo.

Il 2020 sarà l’anno chiave per il negoziato internazionale sui cambiamenti climatici. «Ma come?», dirà qualcuno, «non si era concluso nel 2015 con l’Accordo di Parigi?». E qualcun altro dirà anche: «Che diavolo è l’Accordo di Parigi?».

Una cosa è certa: i cambiamenti climatici sono la più grande sfida del nostro secolo.

Se fate parte delle schiere di coloro che credono che il climate change sia una bufala, non leggete queste pagine, tanto non cambierete idea.

Per i cittadini che, invece, sono preoccupati per la casa comune e per le generazioni che verranno, è bene capire come si può agire per cercare di arrestare le emissioni di gas serra, generate principalmente dal consumo di combustibili fossili, come gas, petrolio e carbone, e dalla deforestazione e degradazione degli ambienti naturali terrestri e marini.

Azioni individuali e collettive

Per comodità di trattazione diciamo che ci sono due livelli di azione: uno soggettivo personale che include tutte le azioni quotidiane (l’uso dell’automobile, l’energia impiegata, i consumi alimentari, i consumi in generale), e uno collettivo globale che riguarda il sistema di leggi, di trattati, di strategie internazionali per ridurre le emissioni. In mezzo naturalmente ci sono i singoli stati e i rispettivi sublivelli amministrativi.

Se rispetto all’ambito personale ognuno conosce i suoi peccati e sa cosa dovrebbe fare (e se non lo sa, ci sono migliaia di articoli online pieni di consigli intelligenti), a livello internazionale il cuore del sistema è la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), approvata nel 1992 al Summit di Rio, il principale trattato internazionale in materia di lotta ai cambiamenti climatici. Il suo obiettivo è impedire pericolose interferenze di origine umana con il sistema climatico. L’Unione europea e tutti i suoi stati membri figurano tra le 197 parti contraenti della convenzione.

Da Kyoto a Glasgow

Il primo grande accordo fu il Protocollo di Kyoto, firmato nel 1997, in vigore fino al 2020. Ratificato da 192 parti della Unfccc, compresi l’Ue e i suoi paesi membri, non vede però tra i suoi aderenti alcuni dei grandi inquinatori mondiali. De facto regola solo il 12% circa delle emissioni globali. Questo fa capire come il Protocollo, sebbene sia stato fondamentale, specie in Europa, sia insufficiente per la sfida attuale.

Inoltre, allo scopo di includere Usa, Cina e altre grandi potenze dentro il quadro internazionale, si è lavorato per trovare un nuovo framework, con un diverso tipo di vincoli e basato su piani nazionali indicati dagli stessi paesi, nel rispetto della scienza e della sovranità di ogni paese.

Dopo un primo fallimento a Copenaghen nel 2009, nel 2015, a Parigi, grazie a un forte accordo politico tra Usa e Cina, le nazioni del mondo hanno approvato a larga maggioranza una nuova architettura internazionale, quella dell’Accordo di Parigi, che entrerà in vigore quest’anno, dopo cinque anni di regime provvisorio, con il negoziato di novembre 2020 a Glasgow.

Dal 2015 a oggi sono proseguiti i negoziati Onu per completare i meccanismi di attuazione dell’Accordo di Parigi e il «Libro delle regole» per evitare problemi.

© Riccardo Pravettoni

Il fallimento di Madrid 2019

A dicembre 2019, però, a Madrid non si è raggiunta l’intesa finale per chiudere sull’ultimo elemento dell’Accordo di Parigi rimasto aperto: quello della finanza climatica che avrebbe permesso ai singoli paesi di scambiare quote di emissioni, comprandole da progetti di mitigazione in altre parti del mondo e facendole contabilizzare a proprio nome.

Sebbene l’architettura dell’Accordo di Parigi sia rimasta in piedi e si sia registrata la volontà delle parti di aumentare l’ambizione per il 2020, quando a Glasgow i 196 stati porteranno nuovi piani nazionali di decarbonizzazione, il summit di Madrid ha segnalato la presenza di un grosso problema politico internazionale di difficile soluzione. Si sono messi di traverso Trump, che vuole l’America fuori dall’Accordo di Parigi e che ha già presentato la richiesta formale di uscita (effettiva dal 4 novembre 2020, un giorno dopo le prossime elezioni presidenziali Usa), e Jair Bolsonaro, deciso a devastare l’Amazzonia.

Questo ha messo in allarme Cina ed Europa, che però non hanno saputo trovare la quadra all’interno di un negoziato che già era iniziato con il piede sbagliato a causa dello spostamento della sede della Conferenza delle parti (Cop) dal Cile, che inizialmente avrebbe dovuto ospitare l’incontro ma che in quei giorni era scosso da forti tensioni politiche, alla capitale spagnola.

Ostaggi dei poteri fossili

La presidenza cilena del summit di Madrid, guidata da Carolina Schmidt, considerata da tutti inadatta nella gestione del processo negoziale della Cop25, ha dovuto prendere atto del fallimento: «Oggi, come nazioni, siamo rimasti in debito con il pianeta», ha lamentato la Schmidt, nel linguaggio onusiano. «Gli accordi raggiunti dalle parti non sono sufficienti per affrontare con urgenza la crisi dei cambiamenti climatici».

Il segnale che viene fuori è pessimo: «L’Unfccc è ostaggio dei poteri fossili», spiega Serena Giacomin, presidente di Italian climate network. «Non possiamo permettere che gli interessi di alcuni possano far naufragare il negoziato e mettere a repentaglio la vita di tante persone. Serve, oggi più che mai, pressione dal basso, non solo per rimettere al centro l’importanza dell’Accordo di Parigi, ma soprattutto per raggiungere l’obiettivo necessario seguendo ciò che dimostrano i dati scientifici. L’Italia nel 2020 dovrà giocare un ruolo centrale».

Già perché il nostro paese, insieme al Regno Unito, sarà copresidente del negoziato, e ospiterà a Milano i negoziati preparatori (pre Cop) insieme a un evento per i giovani di tutto il mondo (Youth for Cop).

Dimock, PE, USA. Craig Sautner, 58 anni, con dei campioni d’acqua rilevati dal rubinetto di casa. Le conseguenze sanitarie della fratturazione idraulica lo preoccupano: i vicini hanno già segnalato dei malesseri. (© Giada Connestari)

La sfida di Glasgow 2020

Quella di Glasgow 2020 sarà una sfida complessa, poiché i 197 paesi dovranno chiudere tutti i punti lasciati irrisolti a Madrid, e presentare gli impegni per ridurre le emissioni per il quinquen­nio 2020-2025, oltre a impostare il negoziato per aumentare l’ambizione. L’obiettivo di lungo periodo dell’Accordo di Parigi è quello di contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto della soglia di 2° C oltre i livelli preindustriali, e di limitare tale incremento a 1,5° C. Per fare questo bisognerebbe raggiungere la neutralità delle emissioni di anidride carbonica entro il 2050, e aumentare ogni cinque anni gli impegni di riduzione delle emissioni in ogni paese. Al momento l’Europa punta a una riduzione del 50-55% delle emissioni rispetto al 2005. Secondo l’Accordo, in base alle conoscenze scientifiche, gli stati dovranno rendere più ambiziosi i loro obiettivi (l’Ue, ad esempio, dovrebbe puntare alla riduzione del 60% di emissioni), e sono tenuti a riferire agli altri stati membri e all’opinione pubblica cosa stanno facendo per raggiungerli e segnalare i progressi compiuti verso l’obiettivo a lungo termine attraverso un solido sistema basato sulla trasparenza e la responsabilità.

Di fatto ci sono dei meccanismi vincolanti non sanzionatori, che dovranno quindi essere sostenuti dai cittadini tramite pressioni (ad esempio con proteste, o il voto all’opposizione) sui governi che non fanno abbastanza.

Il ruolo di Europa e Italia

Per arrivare preparata all’appuntamento, l’Europa, che ha avuto un ruolo centrale nel salvare il negoziato di Madrid, deve subito avviare il processo di revisione degli attuali impegni di riduzione al 2030, cercando un accordo non oltre il Consiglio europeo di giugno 2020. Poi c’è il ruolo del nostro paese: «L’Italia, copresidente dei negoziati preparatori a Milano, e della Cop26 di Glasgow, avrà una grande responsabilità», ci ha dichiarato il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. «È importante che si mobiliti anche la Farnesina, con Luigi Di Maio, per cercare accordi diplomatici al fine di chiudere i temi rimasti aperti, come l’art. 6 e spingere per l’ambizione post 2020. È una chiamata alle armi di tutti». Serve aprire canali bilaterali con Cina, India e Giappone, in comune accordo con gli altri paesi europei.

Facendo bene i compiti a Bruxelles e tramite la diplomazia, l’Europa potrà arrivare al Vertice di alto livello Ue-Cina, in programma il prossimo settembre a Lipsia, con una proposta congiunta per un accordo ambizioso in vista della Cop26 di Glasgow. E l’Italia potrebbe incassare un risultato diplomatico importante.

Si tratta infatti, dicono numerosi delegati, di ritrovare l’equilibrio multilaterale nell’Accordo di Parigi alterato dall’annuncio di uscita degli Usa.

Nel caso vincesse un democratico alle elezioni presidenziali del 3 novembre prossimo, gli Usa formalmente potrebbero cambiare rotta entro il giorno successivo, data in cui diventa effettivo l’abbandono americano dall’Accordo. Ma il tutto sarebbe così vicino al negoziato di Glasgow, il quale aprirà i battenti il 9 novembre, che sarebbe comunque difficile avere la sicurezza di un consenso tra Usa, paesi Basic (Brasile, Sudafrica, India, Cina), Cina su tutti, e Ue.

Una partita diplomatica al cardiopalma.

© Gianluca Cecere


L’oro blu al centro dei conflitti e del dibattito giuridico internazionale

Le nuove guerre  per l’acqua

La guerra in Siria è stata narrata ampiamente in questi anni. Un elemento che non è mai stato sottolineato abbastanza, però, è il peso in essa della questione idrica. Ecco un estratto dal libro Water Grabbing di Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli.

In lontananza gli spari riverberano sulla valle della Beka’a. Dalla terrazza dell’edificio più alto del campo profughi di Wavel, nei pressi di Baalbeck si vede la frontiera della vicina Siria. Qua nel 1948 arrivarono i palestinesi in fuga dai territori occupati dagli israeliani durante la guerra d’indipendenza. Dal 2011 l’esodo è riniziato e le strade si sono riempite di migliaia di siriani in fuga dalla guerra civile, tanti direttamente dai campi profughi palestinesi in Siria. Nel Libano, secondo l’Unhcr, l’Alto Commissariato per i rifugiati, a fine 2017 trovavano rifugio oltre un milione di profughi dalla Siria, circa un quinto della popolazione del piccolo paese mediorientale. Una situazione che ha portato rapidamente al collasso di Beirut e dei tanti campi profughi esistenti e, ben presto, anche di quelli nuovi creati dall’Unhcr al confine.

«I profughi siriani hanno alterato gli equilibri del campo», racconta Intisar Hassan sul terrazzo della casa in cui è nata nel 1961 e oggi vive con il marito tassista e quattro figli. […] stiamo ad ascoltare, distratti di tanto in tanto dai colpi di fucile. «La popolazione è praticamente raddoppiata. I prezzi sono schizzati alle stelle, l’affitto di due camere è passato da 100 a 250 dollari al mese, le uova costano tre volte tanto, l’acqua è sempre più scarsa. All’inizio eravamo ben disposti, volevamo dare una mano, ma ora questa situazione ci sta strangolando». Muna, trent’anni, abita con cinque figli e altre sei persone in uno stanzone senza bagno né vetri alle finestre in un edificio nelle adiacenze. Le pareti sono ricoperte dai poster dei «martiri», tanti quelli di Hamas e Hezbollah. Nel campo di Yarmuk a Damasco aveva studiato business, suo marito era un funzionario statale, possedevano una casa a due piani con il terrazzo. La sua esistenza, dice, è cambiata dal giorno alla notte. La storia della più grave guerra civile degli ultimi anni è nota. Quello che si conosce di meno sono le ragioni che hanno portato a questa crisi umanitaria, con oltre mezzo milione di morti. Tra i motivi che avrebbero favorito lo scoppio del conflitto, ci sarebbe anche la situazione idrica del paese.

Tra il 2007 e il 2010 il paese è stato colpito da una grave siccità, la peggiore registrata in Siria nell’ultimo secolo, che ha lasciato senza lavoro un milione di piccoli agricoltori e causato la migrazione della popolazione rurale verso le città. Una ricerca pubblicata nel 2015 su Proceedings of the National Academy of Sciences ha determinato che la siccità che ha afflitto la Siria ha acuito i disordini sociali aggravando la preesistente instabilità politica. Non la causa, ma uno degli elementi chiave delle proteste contro il governo di Bashar al-Assad […]. A peggiorare la situazione, le temperature elevate, superiori alla media, dovute agli effetti del cambiamento climatico e una gestione insostenibile delle falde, sfruttate oltre misura fino all’esaurimento dei pozzi di irrigazione.

Quando raccogliemmo un’intervista a Mohammed Saha, ventisette anni, venditore di bibite nel quartiere di Hamra, […] Beirut, […], era il 2013 e ancora non si era confermato scientificamente il legame tra acqua e conflitto siriano. Oggi […] emerge come per anni si sia trascurato il ruolo dell’oro blu in questo grave conflitto: «Non c’era più acqua e così abbiamo iniziato a spostarci dalle zone agricole verso la città», racconta Mohammed. «La mia odissea è iniziata prima della guerra, con la prima siccità del 2006-2007. Vivevo in un piccolo villaggio vicino all’Eufrate, riconvertito dalle riforme di Assad sull’estensione delle aree agricole e la conversione da aree pastorali. Nel 2007 l’acqua era talmente poca che nemmeno spingendo le pompe al massimo si riusciva a tirare fuori qualcosa. Dovevamo portarla con le cisterne dal fiume, dilapidando tutti i nostri averi, mentre il sole divorava il raccolto. Così, con la famiglia, ci siamo spostati ad Aleppo e poi con l’inizio della guerra qua a Beirut».

© Giada Connestari

Con l’aggravarsi della situazione, l’acqua in Siria è passata a essere da una delle varie cause concatenate del conflitto a una delle principali armi per indebolire le fazioni ribelli. Nella lotta per il controllo del territorio tra le milizie antigovernative, gruppi terroristici come Isis e al-Nusra e l’esercito di Bashar al-Assad, l’acqua è diventata il primo obiettivo infrastrutturale militare. Pesano le parole di Noosheen Mogadam, analista del Norwegian refugee council, secondo cui «la distruzione delle infrastrutture idriche e i frequenti black out hanno ridotto del 50% l’accesso ad acqua non contaminata». Decine di pozzi, dighe, depuratori sono diventati target, sia per ribelli che per forze governative. La città più colpita è stata Aleppo, dove la quasi totalità della popolazione a fine 2017 faticava ancora ad accedere all’acqua, dovendo contare sulle organizzazioni non governative per ristabilire una rete idrica affidabile. A ottobre 2017 nell’area metropolitana del secondo centro urbano della Siria vivevano oltre 686mila persone con accesso limitato all’acqua per igiene e sostentamento di base. La conseguenza di questa carenza di servizi? Decine di morti per la diarrea dilagante. Allo stesso tempo la scarsità d’acqua ha messo in ginocchio anche l’allevamento di bestiame (ovini, bovini e pollame), con un conseguente indebolimento della sicurezza alimentare. Per le Ong […], l’assalto alle infrastrutture idriche come obbiettivo militare è stato un atto di violazione deliberata del diritto internazionale, un crimine di guerra […].

Ma non è stata certo la prima volta che l’acqua ha giocato un ruolo centrale in un conflitto, e non sarà l’ultima. Un bene sempre più scarso e conteso, che sarà uno degli elementi strategici dei conflitti del XXI secolo e una delle cause principali delle migrazioni dai paesi più esposti all’instabilità politica ed economica causata dal cambiamento climatico. Comunemente si definiscono «water wars», guerre e conflitti combattuti per l’acqua […]. Dalla siccità in Siria, fino alla siccità globale del 2016 che ha alimentato gli scontri in Sud Sudan di inizio 2017, fino alle proteste in Bolivia e Cile per le privatizzazioni. Passando per uno dei punti più caldi dal punto di vista geopolitico, l’Indo, che alimenta il settore agricolo ed energetico di due nemici di lunga data, India e Pakistan. […].

Anche le grandi opere idrogeologiche possono costituire un grave contenzioso politico. Come la diga Grand Renassaince, costruita in Etiopia, che ha spinto il governo egiziano a minacciare ritorsioni nel caso si fosse verificata una forte diminuzione del regime idrico del Nilo […]. «Il commercio globale di derrate alimentari, i consumi iperbolici, il cambiamento climatico, la lenta trasformazione energetica: questi sono gli elementi dei conflitti di domani», raccontava Lester Brown, uno dei più grandi esperti di problemi globali, in una delle ultime interviste nel suo ufficio del Worldwatch Institute di Washington, prima di ritirarsi. «Con l’aumento della popolazione abbiamo raggiunto un “picco dell’acqua”. Paesi come Siria, Iraq, Pakistan, Messico, hanno già raggiunto o superato questo picco, prosciugando i bacini acquiferi, con conseguenze catastrofiche sulla stabilità di quei paesi».

Per capire il crescente emergere di conflitti legati all’acqua bisogna andare a New York. È un giorno freddo, il primo ottobre 2010. I reporter escono dal Palazzo di vetro delle Nazioni unite per andare a scrivere svogliatamente una notizia, che passa quasi inosservata sulla stampa italiana. L’Assemblea generale delle Nazioni unite ha adottato la Risoluzione 64/292 riconoscendo l’acqua come diritto umano. Ma lo scarso interesse di media e politica fa comprendere fin da subito come l’importanza di questa Risoluzione sia sottovalutata. O addirittura si voglia tenerla sotto il tappeto. L’acqua come diritto è una questione che scotta, per governi e multinazionali in primis. […] Nel 2010 l’approvazione della Risoluzione per la prima volta dà dignità a un diritto primario, dichiarando che «il diritto all’acqua potabile e sicura e ai servizi igienici è un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani». Parole bellissime, cui non è seguito alcun reale riconoscimento nelle costituzioni dei singoli paesi né nei tanti ambiti del diritto e delle organizzazioni internazionali.

©  Gianluca Cecere

La questione […] giuridica rimane molto controversa. Differenti orientamenti di legge non hanno ancora permesso di affermare una normativa chiara e cogente […]. Mancando quindi un sistema globale di regolamentazione giuridica dell’acqua, le possibilità di conflitti per il suo accaparramento sono in aumento […].

Dagli abusi sulle popolazioni indigene ai conflitti legati ai bacini transfrontalieri, l’assenza di un quadro de jure impiegato per favorire una cooperazione su basi legali tra soggetti politici offre una lacuna particolarmente grave […].

La risoluzione delle Nazioni unite del 2010 appartiene a tutti gli effetti alla sfera della cosiddetta soft law, cioè a quel sistema di norme prive di carattere vincolante e sanzionatorio capace di obbligare gli stati ad adempiere a quanto prescritto. In sostanza, a oggi, il riconoscimento del diritto umano all’acqua passa attraverso «un invito ai governi all’impegno sia sul proprio territorio, sia in contesto internazionale, a rendere effettivo l’esercizio di tale diritto».

Durante la votazione della risoluzione 64/292, in quel freddo giorno dell’ottobre 2010, furono 122 i paesi a favore, 41 gli astenuti. Nessun contrario. L’astensione tuttavia pesava come un macigno. Nella lista figuravano molti paesi industrializzati come Stati Uniti, Canada, Svezia, Regno Unito, Austria, Israele, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Giappone. Le motivazioni? L’assenza di basi legali sufficienti a livello internazionale e la scarsa chiarezza sulle responsabilità e gli obblighi dei governi firmatari. Una posizione ritenuta dagli stati sostenitori – come Germania, Italia, Spagna e Belgio – sintomo dell’impossibilità di un impegno comune e di mancanza di visione.

[…] Dopo il riconoscimento dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, il quadro giuridico è stato integrato da risoluzioni del Consiglio dei diritti umani che hanno esplicitato formalmente il legame tra «il diritto umano all’acqua» e il livello di vita adeguato per tutti, così come la diretta relazione tra la risorsa idrica e il diritto alla vita e alla dignità. Gli stati avrebbero dunque la responsabilità primaria di assicurare la piena realizzazione di tutti i diritti umani, e la concessione della gestione dell’acqua potabile e/o dei servizi igienico sanitari a terzi non esime lo stato dai suoi obblighi sui diritti umani.

Nel 2013 però l’Assemblea generale ha declinato le modalità con cui gli stati dovrebbero garantire tale diritto, che prevedono un processo consultivo con i cittadini, il monitoraggio della diffusione dell’accesso all’acqua potabile, e la garanzia di un’accessibilità ai servizi idrici, anche se gestiti da enti terzi come i privati. Unica nota positiva: nello stesso anno viene estesa al diritto all’acqua l’opzione della giustiziabilità, secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi, tramite il Patto internazionale relativo ai Diritti economici, sociali e culturali, un trattato delle Nazioni unite nato dall’esperienza della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e sottoscritto e ratificato da tutti i membri dell’Onu.

Pur avendo fatto dei passi avanti nello scenario giuridico con risoluzioni esplicite e strumenti interpretativi che hanno definito il diritto all’acqua come diritto umano, quindi universale, autonomo e specifico, questo riconoscimento resta a tutt’oggi sancito solo in termini «declaratori» […].

Da qualche anno il dibattito internazionale della dottrina sta cercando di superare i limiti burocratici e politici che non consentono un impegno più stringente da parte degli stati per garantire efficacemente l’accesso all’acqua potabile in ogni area del mondo, tutelando quindi la vita, la salute e il benessere di intere comunità. Secondo buona parte degli studiosi di diritto internazionale, il diritto all’acqua dovrebbe essere riconosciuto tra le cosiddette norme consuetudinarie, che presuppongono due elementi: la ripetizione costante nel tempo di un dato comportamento da parte dei soggetti e il convincimento che quel comportamento sia conforme a diritto o a necessità. A differenza dei trattati inoltre, validi solo nei rapporti tra le parti, le norme consuetudinarie obbligano in via sanzionabile tutti i soggetti internazionali al comportamento a cui si fa riferimento. Sarebbe dunque un decisivo passo avanti per poter successivamente declinare nei vari paesi vincoli precisi per gli stati.


Ha firmato questo dossier:

  • Emanuele Bompan
    Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, ambiente, energia. È direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia, Oltremare. Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship ed è stato nominato Giornalista per la Terra 2015. Ha svolto reportage in 76 paesi, sia come giornalista che come analista. www.emanuelebompan.it/
  • A cura di Luca Lorusso giornalista redazione MC.



Amazzonie, riflessioni post Sinodo panamazzonico

Testi di: Gaetano Mazzoleni, Paolo Moiola, Jaime C. Patias. A cura di: Paolo Moiola |



Dopo un lungo e tormentato percorso storico

Un sinodo sull’Amazzonia, finalmente

Questo sinodo era un’esigenza storica. Non è nato all’improvviso, ma da un lungo percorso della Chiesa e del papato. Un missionario e antropologo con una lunghissima esperienza nell’Amazzonia commenta il documento finale (senza trascurare qualche puntatina polemica verso i critici).

Dopo oltre cent’anni dall’enciclica Lacrimabili statu di san Pio X sulle condizioni disumane dei popoli amazzonici, finalmente è stato realizzato un sinodo sulla Panamazzonia e sui suoi abitanti. Questa affermazione potrebbe meravigliare molti lettori, ma molto di più ha sorpreso qualche manipolo di cattolici – si potrebbe dire – «più papisti del papa», che hanno fatto di tutto per ostacolare e disturbare la realizzazione di questo sinodo speciale. Ma andiamo con ordine.

Diversi gli invasori, identici i risultati

La prima domanda da porsi è: perché un sinodo speciale sull’Amazzonia? La risposta è duplice: la prima legata all’attualità ambientale, la seconda alla preoccupazione della Chiesa per i più deboli.

Nei mesi scorsi i mass media ci hanno inondato di pessime notizie ambientali. Da un lato, la fascia equatoriale del mondo, in cui si trovano realtà come il bacino amazzonico, il bacino del Congo e la zona del Sud Est asiatico, aree che hanno registrato preoccupanti segni di distruzione da parte dell’uomo (con probabili ripercussioni sui cambiamenti climatici globali). Dall’altro, i mesi di giugno e luglio sono stati caratterizzati da notizie allarmanti sulla foresta amazzonica in fiamme.

Le problematiche della regione amazzonica erano già state affrontate dalla Chiesa con la bolla di Benedetto XIV Immensa Pastorum Principis del 20 dicembre 1741, la bolla di Urbano VIII del 22 aprile del 1639 Commissum nobis e, ancora più indietro nel tempo, la bolla Pastorale Officium di papa Paolo III, datata 29 maggio 1537.

La citata enciclica di San Pio X, Lacrimabili statu, datata 7 giugno 1912, aveva come oggetto la tutela dei diritti umani e naturali degli amerindi amazzonici. Ai tempi, queste popolazioni erano oggetto di indicibili soprusi. Era l’epoca dello sfruttamento del caucciù (fine secolo XIX – prima metà del secolo XX), un periodo storico corrispondente all’inizio dell’industria automobilistica nel mondo occidentale. Il ciclo del caucciù si sarebbe concluso con l’arrivo dei derivati del petrolio, dopo la seconda guerra mondiale.

Denunciando quelle situazioni disumane, san Pio X si dimostrò un papa antesignano rispetto alla sensibilità per le condizioni dei popoli indigeni e dell’Amazzonia. Dopo oltre 100 anni da quella denuncia, l’esperienza dimostra che sono cambiati gli invasori, ma i fatti si ripetono: conquista, occupazione, distruzioni, profitto, oro, morti e sempre le stesse persone che perdono.

Questi due elementi – il progressivo degrado della situazione ambientale e la condizione delle popolazioni autoctone amerindie – indicavano alla Chiesa la necessità di fare qualcosa.

Così, quando papa Francesco ha parlato per la prima volta della necessità di un sinodo sull’Amazzonia, la mia prima reazione è stata un’esclamazione di gioia: «Finalmente. Era ora!». Non solamente perché lo consideravo giusto, utile o una novità assoluta, ma per la sua esigenza storica.

Una Chiesa che ascolta

foto Paolo Moiola

Scorrendo le pagine del Documento finale del Sinodo speciale, uscito a fine ottobre, mi pare esplicito l’invito a riflettere su diverse problematiche: ambientali, ecologiche, antropologiche ed ecclesiali.

La Chiesa «in uscita» si mette in «ascolto» del grido di aiuto dell’Amazzonia e delle popolazioni indigene che l’abitano per riflettere su come annunziare, vivere, celebrare il messaggio evangelico ed essere Chiesa radunata dall’Eucaristia. Riascoltando le voci dell’Amazzonia, il sinodo speciale invita tutte le persone di buona volontà, nello spirito di Francesco d’Assisi, a prendersi cura della «casa comune», a praticare la solidarietà con i più poveri che devono recuperare la loro dignità di persone, di figli di Dio e la loro identità culturale. «Cristo indica l’Amazzonia»: con questa affermazione di san Paolo VI comincia il primo capitolo (numeri 5 – 19) del Documento finale. È un grido che viene da lontano: dalla Lacrimabili statu di san Pio X, attraversa tutto l’arco temporale e di pensiero del Concilio Vaticano II e arriva fino ai nostri giorni.

Per la Chiesa latinoamericana il percorso verso l’Amazzonia e i suoi abitanti si è snodato attraverso gli incontri della Conferenza episcopale latinoamericana (Celam): Medellìn (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992), Aparecida (2007), ma anche e forse soprattutto i molteplici incontri promossi dal «Dipartimento di Missioni» (Demis) dello stesso Celam con la guida del papa.

Dalla connessione all’alleanza

«Connessione» è un’ulteriore prospettiva essenziale del Documento finale perché presenta la stretta unione tra il grido della terra e quello dei poveri con la denuncia della distruzione del creato, dello sterminio del mondo naturale, della minaccia alla vita umana di coloro che abitano quei territori, ma anche con l’annuncio e la testimonianza della buona notizia di Gesù.

La connessione si fa alleanza quando si parla di Chiesa e popoli indigeni: Chiesa alleata del mondo amazzonico. Cristo, indicandoci l’Amazzonia, ci segnala le grandi sfide globali, la crisi socio-ambientale, il dramma delle migrazioni forzate e la convivenza tra culture e religioni differenti. L’ascolto dell’Amazzonia è un invito per la Chiesa alla conversione integrale perché ne riconosce il suo messaggio di vita: la voce e il canto dell’Amazzonia che diventa nello stesso tempo un grido di tutto il territorio e dei suoi abitanti. Dall’ascolto sorge la proposta di nuovi cammini di conversione pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

© Vatican Media

Il percorso di una conversione pastorale (20 – 40) riguarda tutti i battezzati chiamati a costruire una Chiesa samaritana, misericordiosa e solidale. Una Chiesa missionaria impegnata nel dialogo ecumenico, interreligioso e culturale con volto e cuore indigeno o contadino (caboclo, ribereño, colono, afrodiscendente, …), migrante e giovane. Alla Chiesa della Panamazzonia è chiesto di diventare essa stessa missionaria. L’ascolto della Panamazzonia si trasforma – inoltre – in una conversione culturale (41 – 64).

Alleandosi con i popoli amazzonici la Chiesa si sente in dovere di rispettare e far rispettare i loro valori, le loro culture e il loro stile di vita come risultato di una forza vitale di adattamento storico. La Chiesa difende i diritti dei popoli amazzonici e denuncia tutti gli attacchi contro la vita delle loro comunità, il loro ambiente, con molteplici forme di sfruttamento.

Questa presa di posizione implica un’apertura sincera all’altro visto come fratello da cui si può imparare – ce lo dimostra la millenaria esperienza di adattamento dei popoli amerindi – e non come mezzo di cui servirsi a nostro beneficio. Per la Chiesa la difesa della «vita» e dei diritti dei popoli amerindi è un principio evangelico. L’alleanza tra popoli indigeni e Chiesa si realizza nell’ottica della fraternità, si manifesta in una sempre maggiore inculturazione della fede nella vita dei popoli amazzonici. In un’atmosfera di fraternità la Chiesa deve svolgere la missione di evangelizzare, il che non ha nulla a che vedere con il proselitismo, rifiutando al tempo stesso ogni forma di «evangelizzazione di stile coloniale».

I nuovi cammini di conversione ecologica (65 – 85) indicano che lo sfruttamento illimitato della «casa comune e dei suoi abitanti» deve essere fermato. Un’ecologia integrale non è un cammino tra i tanti che la Chiesa può scegliere per il suo futuro e quello di questo territorio, ma è l’unica via possibile e urgente; non esiste altro percorso praticabile per salvare la regione e i popoli indigeni. I cambiamenti nel sistema economico mondiale e la solidarietà globale sono urgenti e necessari.

Anche se la Chiesa non ha il potere di cambiare immediatamente e ovunque i modelli di sviluppo distruttivi e predatori, essa segnala e mostra da che lato sta. Il fondamento è la dottrina sociale della Chiesa, che implica espressamente l’ecologia. Deve impegnarsi per uno sviluppo equo, solidale e sostenibile con una denuncia coraggiosa dello scempio prodotto dall’estrattivismo.

L’introduzione del «peccato ecologico»

Nel porre in rilievo nuovi cammini di sviluppo «amichevoli» verso la casa comune, la Chiesa fa un’opzione chiara per la difesa della vita, della terra (territorio) e delle culture originarie amazzoniche (78).

In tale luce si comprende il «peccato ecologico» (82): ogni azione o omissione contro Dio, il prossimo, la comunità e l’ambiente. Tra le proposte concrete, spicca quella di un fondo mondiale per coprire parte dei bilanci delle comunità amazzoniche e la creazione di un osservatorio socio-ambientale pastorale che lavori in alleanza con i vari attori ecclesiali nel Continente – a partire dal Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) – e con i rappresentanti delle etnie native.

Nell’orizzonte di comunione e partecipazione si devono cercare nuovi cammini ecclesiali, soprattutto, nella ministerialità e nella sacramentalità della Chiesa con volto amazzonico (86-119). La Chiesa ha bisogno di nuove esperienze sinodali, di un nuovo cammino fatto insieme, di una cultura del dialogo e dell’ascolto per rispondere alle sfide pastorali. In particolare, nel documento si sottolinea a questo riguardo la corresponsabilità dei laici.

Il volto femminile

Un’intera sezione del Documento è poi dedicata alla «presenza e all’ora della donna», al volto femminile della Chiesa amazzonica. Il ruolo straordinario dell’evangelizzazione al femminile viene riconosciuto con forza chiedendo la possibilità che anche le donne possano accedere ai ministeri di lettorato, accolitato e di dirigente di comunità.

Il testo del Documento finale è il risultato dello «scambio aperto, libero e rispettoso» svoltosi nelle tre settimane di lavori del Sinodo, per raccontare le sfide e le potenzialità dell’Amazzonia, «cuore biologico» del mondo, un cuore esteso su 9 paesi e abitato da oltre 33 milioni di persone, di cui circa 2,5 milioni di indigeni. Questa regione, seconda area più vulnerabile al mondo (dopo l’Artico) a causa dell’uomo, si trova «in una corsa sfrenata verso la morte» e ciò esige urgentemente una nuova direzione che consenta di salvarla, pena un impatto catastrofico su tutto il pianeta.

foto Paolo Moiola

Amazzonia, «locus theologicus»

Questo, per sommi capi, il contenuto del documento finale di un sinodo benedetto, anche se arrivato molto tardi.

Penso di poterlo affermare sulla base dei miei 45 anni trascorsi nella regione amazzonica. Una regione dove, durante la stagione delle piogge (invierno), i fiumi si gonfiano, straripano e mandano a farsi benedire tutti i confini stabiliti «politicamente». Durante questa stagione i confini cambiano. È la legge della Panamazzonia, diversa dalla legge degli stati.

Come è diversa quella che dice: «I fiumi uniscono, non dividono». Diretta conseguenza di un altro principio: «Chi proibisce agli uccelli dell’altra sponda di venire a questa e viceversa? O chi impedisce ai pesci di questo lato del fiume di passare liberamente e tranquillamente all’altro?». Questa è saggezza e filosofia panamazzonica o, se si preferisce, «pensiero mistico religioso» di quell’area.

Qualcuno si è scandalizzato per espressioni come «buon vivere» o, ancora di più, «Pacha Mama» (madre terra). Eppure, un noto salmo biblico recita: «Venite ammirate le opere del Signore: ha fatto cose stupende sulla terra» (come, per esempio, il bacino e la selva amazzonica). In effetti, ci vuole così poco per riconoscere la foresta panamazzonica come un «locus theologicus»: basta viverci dentro.

Gaetano Mazzoleni

foto Paolo Moiola

 


Il documento finale del sinodo, una lettura laica:

L’Amazzonia, cuore biologico del mondo

Come l’Instrumentum laboris, anche il documento finale del Sinodo panamazzonico ha tra i propri meriti la chiarezza delle posizioni. Almeno quando parla della situazione politica, ambientale e antropologica.

Link ai documenti del Sinodo:

La situazione dell’Amazzonia, cuore biologico della Terra, è drammatica. Sono necessari – ricorda nei passaggi iniziali il documento finale del Sinodo – dei cambi radicali e urgenti nonché una nuova direzione che permetta di salvarla (2 – questi numeri si riferiscono al documento finale).

Nella regione amazzonica coesiste una realtà plurietnica e multiculturale, dato che, oltre ai popoli originari, esistono popolazioni meticce nate dall’incontro tra popoli diversi (8). I popoli indigeni hanno come orizzonte il «buon vivere», che significa vivere in armonia non soltanto con se stessi e con gli altri esseri umani, ma anche con la natura e con l’essere supremo (9).

Questa realtà plurietnica, pluriculturale e plurireligiosa richiede un’apertura al dialogo, riconoscendo la molteplicità degli interlocutori: oltre ai popoli indigeni, quelli rivieraschi, i contadini, gli afrodiscendenti, le organizzazioni della società civile, i movimenti sociali popolari, lo stato (23). Senza dimenticare le altre chiese cristiane e denominazioni religiose, anche se le relazioni tra cattolici e pentecostali, carismatici ed evangelici non sono facili (24). Va poi precisato che, in Amazzonia, il dialogo interreligioso si rivolge specialmente alle religioni indigene e ai culti afro. Queste tradizioni meritano di essere conosciute, comprese nelle loro espressioni e nelle loro relazioni con la foresta e la madre terra (25).

Nella foresta non soltanto la vegetazione è in connessione, ma anche i popoli sono collegati in una rete di alleanze che porta vantaggi per tutti. Grazie a questo sistema di interrelazioni e interdipendenze il pur fragile equilibrio dell’Amazzonia si è preservato nel tempo (43).

La visione indigena e quella occidentale

Il pensiero dei popoli indigeni offre una visione integrale della realtà, una visione capace di comprendere le molteplici connessioni esistenti tra tutti gli elementi del creato. Questo contrasta con la corrente dominante del pensiero occidentale che, per comprendere la realtà, tende a frammentarla, senza riuscire ad articolare una visione complessiva e unitaria. Oltre a ciò, nei popoli indigeni s’incontrano anche altri valori come la reciprocità, la solidarietà, il senso di comunità, l’eguaglianza (44).

L’avidità per la terra è alla radice dei conflitti che portano all’etnocidio, così come all’assassinio e alla criminalizzazione dei movimenti sociali e dei suoi dirigenti. La demarcazione e la protezione delle terre indigene è un obbligo degli stati nazionali e dei loro rispettivi governi. Senza dubbio, buona parte dei territori indigeni sono sprovvisti di protezione e quelli già demarcati (per esempio, la terra degli Yanomami) sono invasi a causa dell’estrattivismo minerario e forestale, dei grandi progetti infrastrutturali, delle coltivazioni illecite (in primis, la coca) e dei latifondi che promuovono le monocolture e l’allevamento estensivo (45).

Come spiega molto bene la Laudato si’, l’«ecologia integrale» ha il suo fondamento nel fatto che tutto è in connessione. Questo significa che ecologia e giustizia sociale sono intrinsecamente unite (66). Una delle cause principali della distruzione dell’Amazzonia è il cosiddetto «estrattivismo predatorio» che risponde alla logica dell’avarizia, propria del paradigma tecnocratico dominante (67).

foto Paolo Moiola

La visione indigena e quella occidentale

Risulta scandaloso che si criminalizzino i leader indigeni e le comunità per il solo fatto di reclamare i propri diritti. In questi ultimi anni, la regione amazzonica ha visto un continuo incre-
mento dello sfruttamento delle risorse naturali (legname, petrolio, oro e molto altro) e lo sviluppo di megaprogetti infrastrutturali (dighe, centrali elettriche, strade). Tutto questo si è tradotto in pressioni dirette sui territori ancestrali senza la possibilità per gli indigeni di ottenere giustizia (69).

È evidente che l’intervento dell’uomo ha perso il suo carattere «amichevole», per assumere un’attitudine vorace e predatoria che tende a sfruttare le risorse naturali disponibili fino al loro esaurimento (71). Molte attività estrattive, come le miniere su grande scala (quelle illegali in particolare, si pensi all’estrazione dell’oro), riducono in maniera sostanziale il valore della vita in Amazzonia. In effetti, si appropriano della vita dei popoli e dei beni comuni della terra, concentrando potere economico e politico nelle mani di pochi. A peggiorare le cose, molti di questi progetti distruttivi si realizzano nel nome del progresso e sono appoggiati o permessi dai governi locali, nazionali e stranieri (72).

Il futuro dell’Amazzonia è riposto nelle mani di tutti noi. Esso dipende principalmente dall’abbandono immediato del modello di sviluppo attuale che distrugge la foresta, non porta benessere e pone in pericolo l’immenso tesoro naturale amazzonico e i suoi guardiani (73).

La Chiesa riconosce la conoscenza tradizionale dei popoli indigeni rispetto alla biodiversità, una conoscenza viva e sempre in marcia. Il furto di essa è chiamata biopirateria, una forma di violenza contro queste popolazioni (76).

Nel nuovo modello sostenibile e inclusivo diventa una necessità urgente lo sviluppo di politiche energetiche che riducano drasticamente l’emissione di biossido di carbonio (CO2) e degli altri gas legati al cambiamento climatico. Inoltre, va assicurato l’accesso all’acqua potabile, che è un diritto umano fondamentale (77).

La difesa della vita dell’Amazzonia e dei suoi popoli necessita di una profonda conversione personale, sociale e strutturale (81). Occorre adottare comportamenti responsabili che rispettino e valorizzino i popoli dell’Amazzonia, le loro tradizioni e conoscenze, proteggendo la loro terra e cambiando i nostri modi di vivere. Dobbiamo ridurre il consumo eccessivo e la produzione di rifiuti solidi, stimolando il riuso e il riciclaggio. Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e dall’uso delle plastiche. Dobbiamo cambiare le nostre abitudini alimentari, visto l’eccessivo consumo di carne e pesce. Dobbiamo attivarci nella semina di alberi. Dobbiamo cercare alternative sostenibili nell’agricoltura, nel campo energetico e nella mobilità. Dobbiamo promuovere a tutti i livelli l’educazione all’ecologia integrale (84).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Valorizzare la donna e le lingue autoctone

La saggezza dei popoli ancestrali afferma che la madre terra ha un volto femminile. Sia nel mondo indigeno che in quello occidentale la donna è la persona che lavora in una molteplicità di campi (101). Eppure, nella vita quotidiana le donne sono vittime di violenza fisica, morale e religiosa. La Chiesa si schiera in difesa dei loro diritti e le riconosce come protagoniste e guardiane della creazione e della casa comune (102).

Avviandosi alla conclusione, il Documento finale ricorda che la Chiesa cattolica deve dare una risposta alla richiesta delle comunità amazzoniche di adattare la liturgia valorizzando la cosmovisione, le tradizioni, i simboli e i riti originari nelle loro dimensioni trascendenti, comunitarie ed ecologiche (116). E tutto va fatto usando le lingue proprie dei popoli che abitano l’Amazzonia (118).

Paolo Moiola

© Vatican Media


Scheda


Contro il sinodo e contro papa Francesco: Tribalista ed ecologista

Il Sinodo panamazzonico ha avuto molti avversari interni alla Chiesa cattolica. Per capirne di più, abbiamo dato un’occhiata ai loro siti.

Povero padre Corrado Dalmonego, non solo hanno messo il suo essere missionario tra virgolette («questo “missionario”»), ma ne hanno anche travisato il cognome (Dalmolego), segno – lo diciamo per inciso – non di sbadataggine ma di sciatteria. L’ambito è il sito dell’agenzia Corrispondenza Romana e la firma è quella di Cristina Siccardi, saggista torinese molto critica verso il pontificato di papa Francesco. È la stessa persona che sul medesimo sito, il 6 novembre, scriveva scandalizzata: «Il papa in persona, il 4 ottobre scorso, alla vigilia del Sinodo, ha partecipato ad una cerimonia nei giardini del Vaticano, insieme a vescovi e cardinali, guidata in parte da sciamani, dove sono stati usati degli oggetti che nulla hanno a che vedere con il Cattolicesimo, in particolare la donna nuda e incinta, la Pachamama. Papa Francesco ha anche riverito due vescovi che portavano in processione la Pachamama sulle loro spalle nella Sala del Sinodo, per essere poi collocata in un luogo d’onore. E statue di figure femminili nude in legno sono state venerate nella Basilica Vaticana, di fronte alla Tomba di San Pietro!».

Sarebbe interessante sapere il parere di Cristina Siccardi sul nudo nell’arte sacra o, senza andare lontani, sui corpi nudi della Cappella Sistina.

Corrispondenza Romana è il sito – uno di quelli ascrivibili al fondamentalismo cattolico anti papa Francesco (vedere riquadro) – che ha esultato per il gesto, definito «coraggioso», del giovane austriaco che «il 21 ottobre ha rimosso dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina (una delle sedi esterne del Sinodo, ndr) e ha gettato nel Tevere le statuette di Pachamama, la divinità pagana rappresentante la “Madre Terra” amerindia».

© Guilherme Cavalli-Cimi

Il Sinodo è una minaccia

L’offensiva contro il malcapitato padre Corrado – missionario in Amazzonia (Catrimani, Roraima, Brasile), giovane ma preparatissimo, tanto da essere chiamato come uditore al Sinodo – era iniziata già a giugno 2019 con un attacco firmato dal cileno José Antonio Ureta sempre su Corrispondenza Romana.

Ureta così descrive gli Yanomami tra i quali padre Dalmonego opera: «Gli Yanomami sono un gruppo etnico composto da 20 a 30 mila indigeni che vivono nella foresta tropicale in modo molto primitivo […]. I loro vestiti sono molto sommari e li usano a malapena come ornamento ai polsi, alle caviglie e come cintura attorno alla vita. Gli uomini della tribù generalmente hanno varie mogli, comprese adolescenti appena entrate nella pubertà. Gli uomini sono soliti consumare la pianta “epená” o virola, che contiene una sostanza allucinogena». José Antonio Ureta è membro di «Tradizione, famiglia e proprietà», un movimento nato in Brasile che lotta contro «la grave minaccia che il Sinodo sull’Amazzonia rappresenta per la civiltà occidentale» e contro «un’ecologia falsa, i cui promotori cercano di controllare la società con il pretesto di salvare l’ambiente». Lo stesso Ureta e la citata Cristina Siccardi sono tra i cento firmatari della protesta (Contra Recentia Sacrilegia) per – si legge testualmente (9 novembre) – «gli atti sacrileghi e superstiziosi commessi da Papa Francesco, il Successore di Pietro, durante il recente Sinodo sull’Amazzonia tenutosi a Roma». Le accuse dei firmatari verso il pontefice partono tutte dal suo atteggiamento definito sacrilego verso la «dea pagana Pachamama». Nell’elenco si trova anche Roberto De Mattei, storico, presidente della «Fondazione Lepanto», direttore della rivista Radici Cristiane e di Corrispondenza Romana, nonché discepolo di Plinio Corrêa de Oliveira, fondatore del movimento «Tradizione, Famiglia e Proprietà». È sul sito da lui stesso diretto che de Mattei ha attaccato il nuovo «Patto delle Catacombe», firmato il 20 ottobre nelle catacombe di Domitilla in una celebrazione presieduta dal cardinale Hummes. Il professore ha usato parole sarcastiche per descrivere l’evento, definendolo «il patto socio-cosmico dell’era di Greta Thunberg» (Corrispondenza Romana, 22 ottobre). Molti dei firmatari del documento Contra Recentia Sacrilegia sono statunitensi come statunitense è il sito National Catholic Register. È il sito che ha attaccato (Edward Pentin il 17 ottobre) duramente anche la Repam (presieduta dal cardinal Hummes) e il Cimi (guidato da dom Roque Paloschi), la prima molto impegnata nell’organizzazione del Sinodo, il secondo da anni in prima linea nell’impagabile difesa dei popoli indigeni e dell’Amazzonia.

foto Paolo Moiola

I tre vaticanisti

L’offensiva anti Sinodo e anti papa Bergoglio è proseguita sulle pagine web di alcuni vaticanisti. «Il sinodo dell’Amazzonia è passato agli archivi, ma lo “scandalo” che ne ha accompagnato il cammino è lontano dall’essere sanato», scrive Sandro Magister nel suo blog Settimo Cielo il 13 novembre. Poi parla di idolatria a causa di quella «statuetta lignea di una donna nuda e gravida». Infine, boccia il Sinodo per «l’irrilevanza, se non l’assenza, dell’annuncio cristiano e l’enfasi scriteriata data invece alla cultura e alla religiosità pagane, senza esercitare su di queste il necessario giudizio». Secondo l’autore, oggi il «populismo» di papa Francesco è focalizzato sulle tribù amazzoniche e sull’«esaltazione del “buen vivir”» (30 novembre).

In un suo precedente scritto (30 ottobre), Magister aveva individuato il vero punto nevralgico – a suo dire – del Sinodo amazzonico: «È di dominio pubblico che questo sinodo è stato ideato e organizzato precisamente con questo obiettivo primario: “aprire” all’ordinazione di “viri probati” in Amazzonia per poi estendere la novità a tutta la Chiesa».

Anche Aldo Maria Valli, vaticanista della Rai, si concentra (con una certa dose di sarcasmo verso alcuni suoi critici) sulla questione dell’ordinazione di uomini sposati (viri probati). «In seguito al molto discusso Sinodo amazzonico – scrive il 16 novembre – si sta facendo più vicina l’ipotesi non di permettere a tutti i preti di sposarsi, bensì di ordinare, in certe aree, uomini sposati, anzi anziani sposati (poveri anziani!). Ma sappiamo come vanno queste cose. E dovrebbero saperlo anche i maestrini che pretendono di darmi lezioni. Dopo che è stato aperto un pertugio, da esso può passare di tutto. Nel caso specifico, si tratta di un pertugio amazzonico, che sembra lontano da noi, ma non lo è. Serviva un pretesto, e di solito il pretesto arriva da un caso limite».

Per parte sua, Marco Tosatti, un altro vaticanista (dai toni ancora più ruvidi e perentori), la butta tutta in politica: nella lotta tra la sinistra perdente (quella del Pd, di Repubblica, di Zuppi, «cardinale in quota Pd», Tosatti dixit) e la destra vincente (quella di Salvini, Meloni, ma anche – sostiene il vaticanista – di Casa Pound, il movimento neofascista), papa Bergoglio è schierato inopinabilmente con la prima. Però, ha perso, pure sul Sinodo, anche se questo si è svolto – scrive Tosatti – «in una situazione di manipolazione altissima» (29 ottobre), su alcuni temi come i viri probati e il diaconato femminile. Ma – avverte – occorre stare vigili perché il papa è il «detentore del mazzo», un pontefice che «si scaglia contro i cattolici che non sentono e pensano esattamente come lui», un papa con una «memoria selettiva» (16 novembre) perché esprime timori per un ritorno in auge di idee naziste, ma non dice nulla della Cina, del Nicaragua e del Venezuela.

Insomma, per costoro è tutto chiaro: papa Francesco non solo è un vero cattocomunista, ma ha riportato in vita la teologia della liberazione. Magari – come ha suggerito Julio Loredo, presidente per l’Italia di Tradizione, Famiglia e Proprietà (il Giornale, 20 novembre) – nelle sue forme aggiornate: la teologia indigena e la teologia ecologica. Loredo è la stessa persona che, a febbraio 2019, con chiaro intento spregiativo aveva definito la Chiesa «tribalista ed ecologista».

Paolo Moiola

Siti contro (la giostra delle citazioni)

  • https://www.corrispondenzaromana.it
  • http://www.ncregister.com (Stati Uniti)
  • https://lanuovabq.it
  • https://anticattocomunismo.wordpress.com
  • https://www.rossoporpora.org
  • https://www.fondazionelepanto.org
  • https://www.radicicristiane.it/
  • https://www.radiospada.org/
  • https://www.radioromalibera.org/
  • https://www.marcotosatti.com/
  • http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/

Quelli sopra elencati sono gli indirizzi dei principali siti contrari (o fortemente contrari) al Sinodo panamazzonico e a papa Francesco. Gli ultimi tre appartengono ad altrettanti vaticanisti: Aldo Maria Valli, Marco Tosatti e Sandro Magister. Va detto che nomi e contenuti all’interno di questi siti si ripetono spesso perché alcune persone sono presenti in vari ambiti (Roberto de Mattei su tutti) e perché la citazione reciproca è molto praticata. È giusto ed opportuno che i lettori li conoscano anche per comprendere meglio l’entità della battaglia interna che il papa argentino si trova a dover affrontare.

Pa.Mo.


© Vatican Media


Il documento finale del sinodo: una lettura missionaria

Il grido della Terra: dopo l’ascolto, l’azione

Il Sinodo è stato un successo, ma adesso viene il difficile: passare dall’ascolto all’azione. E questa dovrà sfidare «altari» e «troni». La Chiesa sarà sempre missionaria, ma in modo diverso. La «conversione» passa anche attraverso un nuovo tipo di presenza sul territorio amazzonico e al fianco dei popoli che lo abitano.

Il Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre è stato una benedizione per la Chiesa e per l’umanità. Allo stesso tempo, ha posto sul tavolo le principali sfide per la missione in un mondo globalizzato e minacciato. L’intero processo di preparazione e realizzazione di questo evento ecclesiale convocato da papa Francesco ha rafforzato la convinzione che territorialità e popoli determinano una missione che deve includere l’ecologia. Questa prospettiva aveva già acquisito slancio durante la visita del papa a Puerto Maldonado in Perù (gennaio 2018), un gesto che aveva sottolineato l’importanza di ascoltare gli indigeni e gli altri popoli.

La sfida ad «altari» e «troni»

Questo processo di ascolto del «grido dei poveri e del grido della terra» sfida «altari» e «troni» nella ricerca di nuovi modi di essere Chiesa. Il rinnovamento desiderato comporta necessariamente la conversione.

Durante l’assemblea sinodale, svoltasi dal 6 al 27 ottobre a Roma, la riflessione ha avuto come temi: la conversione pastorale, la partenza missionaria, la conversione culturale, il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale, la conversione sinodale, i nuovi ministeri, la teologia, catechesi e formazione inculturata, il riti amazzonici, la Chiesa povera, con e per i poveri. Temi che rappresentano una sfida alla missione della Chiesa e, quindi, si scontrano con «altari» al proprio interno (come raccontato a pag. 41 di questo dossier, ndr).

D’altra parte, temi come conversione integrale, conversione ecologica, modelli di sviluppo sostenibile, cura della casa comune, promozione ecologica integrale, grido dei poveri e grido della terra, interdipendenza tra tutti gli esseri, ecc., sfidano i «troni» del sistema capitalista attuale che è neoliberista e predatore.

È bene sottolineare che tutte queste domande sono interconnesse da una «spiritualità dell’ascolto» e dall’annuncio della buona novella con uno «spirito profetico».

Nel pontificato di Francesco, le basi per questo cambiamento sono state poste nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013)* e nell’enciclica Laudato si’ (2015). Allo stesso modo, il documento finale del sinodo (che dovrebbe orientare l’esortazione post sinodale) indica un passaggio dall’ascolto alla conversione integrale ponendo l’Amazzonia come «luogo teologico» simbolico per l’intera Chiesa universale.

© Vatican Media

I nuovi percorsi della Chiesa

Una lettura missionaria del documento finale aiuta a mettere in luce che il tema della missione è ben articolato in cinque percorsi (e altrettanti capitoli) di «conversione»: integrale, pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

Quando, a inizio del capitolo 2 del documento, si legge: «Una chiesa missionaria in uscita richiede da noi una conversione pastorale» (20), scorgiamo la sintonia tra il sinodo e la teologia della missione del Concilio Vaticano II e delle conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam). Infatti, al numero 21 si legge: «La Chiesa, per sua natura, è missionaria e ha la sua origine nell’“amore fontale di Dio” (AG 2). Il dinamismo missionario che scaturisce dall’amore di Dio si irradia, si espande, trabocca e si diffonde in tutto l’universo. “Siamo inseriti dal battesimo nella dinamica dell’amore attraverso l’incontro con Gesù, che dà un nuovo orizzonte alla vita” (DAp 12). Questo straripamento spinge la Chiesa alla conversione pastorale e ci trasforma in comunità viventi, lavorando in gruppi e reti al servizio dell’evangelizzazione. La missione così intesa non è opzionale, un’attività della Chiesa tra le altre, ma la sua stessa natura: la Chiesa è missione! “L’azione missionaria è il paradigma dell’intera opera della Chiesa”(EG 15)» (Doc. finale 21).

Ciò che colpisce è la convinzione che la missione appartiene a tutti, la Chiesa è missione, e quindi «ogni cristiano è una missione» di Dio nel mondo. Con ciò, la missione cessa di essere qualcosa di esterno come «ornamento» e diventa qualcosa di essenziale: «La vita è missione» (EG 273) e questo pone la Chiesa sulla soglia per entrare «nel cuore di tutti i popoli» (Doc. finale 18).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Una revisione dello stile missionario

Proponendo la conversione nei modi più diversi, il sinodo ribadisce che la «gioia del Vangelo» prima di essere diretta verso gli altri è diretta alla Chiesa stessa e ai suoi missionari. La conversione integrale si manifesta principalmente attraverso la conversione pastorale (missionaria) e sinodale. Per i missionari questa conversione richiede una seria revisione dello stile di missione che presuppone una presenza incarnata nella realtà e nella vita dei popoli. «La nostra conversione pastorale sarà samaritana, in dialogo, accompagnando le persone con volti concreti di indigeni, contadini, discendenti africani (quilombolas), migranti, giovani e abitanti delle città. Tutto ciò comporterà una spiritualità di ascolto e annuncio» (Doc. finale 20).

La conversione pastorale implica anche una prospettiva missionaria di itineranza, vicinanza e una presenza più efficace con i popoli, superando le visite sporadiche (desobrigas) e creando relazioni permanenti nella missione. Il sinodo sottolinea l’importanza di gruppi itineranti composti da diversi carismi, istituzioni e congregazioni, religiose e religiosi, laici e sacerdoti che lavorano formando una rete viaggiante (Doc. finale 39 e 40). Non bisogna più camminare da soli. La missione si svolge in una rete e in comunione ecclesiale. Il desiderio è che la Chiesa assuma in Amazzonia la sinodalità missionaria (Doc. finale 86-88).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Davanti alla realtà amazzonica

Questo sinodo è stata una cosa unica. Le numerose attività (incontri, dibattiti, celebrazioni, mostre) della «Tenda amazzonica: la casa comune» (con sede principale nella chiesa della Traspontina in via della Conciliazione, a Roma) durante l’assemblea sinodale hanno portato a Roma rappresentanti dei popoli del territorio panamazzonico per «ascoltare insieme» con Francesco, i padri e le madri sinodali. Francesco ha invitato la periferia a sedersi nel centro del cristianesimo, la «foresta amazzonica» è stata piantata nella «foresta di pietre» e la «città eterna» è stata ossigenata.

Nella missione, i protagonisti sono la realtà e i suoi popoli che, oltre ad essere valorizzati, devono anche assumersi la loro responsabilità. «Questo sinodo vuole essere un forte appello per tutti i battezzati in Amazzonia ad essere discepoli missionari. (…) Pertanto, crediamo che sia necessario generare un maggiore impulso missionario tra le vocazioni native; l’Amazzonia deve essere evangelizzata anche dai suoi abitanti» (Doc. finale 26). In questo senso, la proposta di nuovi «ministeri per uomini e donne in modo equo» (95) e l’«elaborazione di un rito amazzonico» (119) sono encomiabili.

L’ambiente e il «peccato ecologico»

© Guilherme Cavalli-Cimi

Un altro momento saliente di questo sinodo è stato quello di affermare che l’ecologia integrale e la cura della casa comune sono parti costitutive della missione della Chiesa. Pertanto, l’azione evangelizzatrice con i suoi progetti e missionari non può dimenticare la cura della vita del pianeta. In questo senso, la definizione di «peccato ecologico come azione o omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente» (Doc. finale 82) rappresenta un aggiornamento importante dell’insegnamento della Chiesa per la pratica della fede cristiana.

Decolonizzare la missione

Il sinodo per l’Amazzonia segue la linea della Conferenza di Medellin che, nel 1968, ha dato una contestualizzazione al Concilio Vaticano II in America Latina. Esso ha avuto anche il contributo di altri continenti. Questo cambio di prospettiva è importante per la «decolonizzazione» della missione e l’allontanamento dal pensiero eurocentrico. È bene ricordare che papa Francesco è un figlio del Concilio e del Sud, un fattore rilevante per «decolonizzare» la missione. L’Amazzonia ci sfida a passare dalla visione della missione come «espansione» alla missione come «incontro» senza proselitismo. «Siamo tutti invitati ad avvicinarci alle popolazioni amazzoniche su una base di uguaglianza, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile del ben vivere. […] Rifiutiamo un’evangelizzazione in stile coloniale. Proclamare la buona novella di Gesù implica riconoscere i semi della Parola già presenti nelle culture» (Doc. finale 55).

Nonostante resistenze e incomprensioni, questo sinodo è un kairos, un momento tempestivo di grazia e speranza. Molto al di là del ricco documento prodotto, stiamo affrontando un processo che dovrebbe condurre a nuovi percorsi per una Chiesa divenuta molto più consapevole che, senza una conversione integrale e sinodale, non ci saranno cambiamenti reali nel suo modo di essere e di vivere la missione.

Jaime C. Patias

Firma del Patto delle Catacambe – © Guilherme Cavalli-Cimi


Dal 16 novembre 1965 al 20 ottobre 2019

Il «Patto delle catacombe» rivive e si rinnova

Nelle catacombe di Domitilla è stato firmato un nuovo patto. Per la casa comune. Per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana.

Il Concilio Vaticano II aveva ispirato, durante il suo svolgimento, un gruppo di vescovi guidati da mons. Helder Camara (1909-1999) a costruire una Chiesa servitrice e povera. Questa utopia prese forma il 16 novembre 1965, nelle Catacombe di Santa Domitilla a Roma, dove pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, quarantaquattro padri conciliari celebrarono un’eucaristia e, con un gesto profetico, firmarono l’«Alleanza della Chiesa dei poveri e dei servi», meglio noto come il «Patto delle catacombe». Molti altri vescovi si unirono successivamente al Patto. I firmatari del documento si impegnarono a vivere in condizione di povertà, a rinunciare a tutti i simboli o privilegi di potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale.

Questa alleanza è stata considerata il seme della Chiesa di Francesco, che tre giorni dopo essere stato eletto successore di San Pietro, disse ai giornalisti: «Come vorrei una chiesa povera per i poveri!». Bergoglio conosceva bene la «barca» che stava cominciando a guidare. Ed è stata la sua sensibilità per «il grido dei poveri e il grido della terra» che lo ha portato a convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia, alimentato dall’enciclica Laudato si’ (2015) e dalla riaffermazione di una Chiesa che «non può dimenticare i poveri e la cura della Creato». Il pontificato di Francesco è diventato un forte richiamo alla conversione della Chiesa e dei poteri politici ed economici. È ovvio che ciò disturba coloro che, nella Chiesa, ignorano i poveri e non vogliono né perdere i loro privilegi, né mettere in discussione i potenti del mondo globalizzato che obbediscono solo ai desideri del profitto.

© Caldeira Ferreira Julio César

Una nuova alleanza per la casa comune

Sebbene non facesse parte della programmazione ufficiale del sinodo, il 20 ottobre 2019,  giornata missionaria mondiale, potrebbe anch’essa divenire una data storica, perché nella stessa sede del Patto del 1965, è stato firmato un nuovo Patto, questa volta per la casa comune: una chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana. La proposta era stata costruita nei mesi precedenti il sinodo e aveva preso forma nelle prime due settimane della sua realizzazione a Roma.

Prima dell’alba di domenica 20 ottobre, cinque pullman parcheggiati in Via dei Cavalleggeri, vicino alla sala del sinodo, aspettavano un variegato gruppo composto da vescovi sinodali, esperti, leader pastorali, indigeni e religiosi e altre persone coinvolte nelle attività della tenda «Amazzonia, casa comune». La destinazione del gruppo erano le catacombe di Santa Domitilla nel moderno quartiere Ardeatino di Roma.

Con 17 chilometri di gallerie, quattro piani e oltre 150mila tombe, queste catacombe sono tra le più grandi di Roma. Vi furono sepolti numerosi martiri del primo cristianesimo, tra cui la stessa Flavia Domitilla, nipote dell’imperatore Vespasiano che donò la terra ai cristiani, e Nereo e Aquilleo che diedero il nome alla basilica semi sotterranea costruita alla fine del IV secolo su richiesta di papa Damaso I.

Mentre il gruppo scendeva le scale verso la basilica, il silenzio e la commozione hanno preso il sopravvento. La canzone «Alla luce dei martiri della fede», del noto cantautore Antonio Cardoso, annunciava il significato di quella visita. «Torniamo qui – dice il testo – tutte le volte che è necessario. Dopo il Concilio ci siamo incontrati per camminare con i poveri e Gesù. Torniamo qui per riscattarci in Amazzonia. Cerchiamo tutte le alleanze in queste tombe alla luce dei martiri della fede». E, usando la tintura rossa estratta dal seme dell’urucum (annatto) dell’Amazzonia, tutti hanno lasciato le loro impronte digitali su un panno morbido, simbolo della memoria del Gesù martire e di coloro che, per fede in lui, hanno versato il loro sangue.

Tra martiri e profeti

Padre Oscar Beozzo ha ricordato la storia del Patto del 1965, sottolineando che allora le guide del gruppo erano l’arcivescovo Helder Camara, l’arcivescovo Leonidas Proaño, vescovo degli indigeni in Ecuador, e l’arcivescovo Enrique Angelelli, che in seguito sarà assassinato dalla dittatura militare argentina.

L’eucaristia è stata presieduta dal cardinale Claudio Hummes, presidente della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), che era accompagnato dal cardinale Pedro Barreto, arcivescovo di Huancayo in Perù, vicepresidente della stessa organizzazione.

Il ricordo del Patto del 1965 era rinnovato dalla stola di dom Helder usata a messa dal cardinale Hummes, che, emozionato, alla fine l’ha consegnata a dom Erwin, uno dei grandi profeti viventi dell’Amazzonia. Era presente anche una tunica di dom Helder, indossata da dom Adriano Ciocca, vescovo di São Felix do Araguaia, dove vive dom Pedro Casaldáliga, uno di coloro che hanno realizzato il patto all’estremo. Il calice e la patena usati nella messa appartenevano a padre Ezequiel Ramin, un missionario comboniano italiano, martirizzato nel 1985 a Cacoal, Rondônia, Brasile, per volere dei proprietari terrieri della regione.

© Caldeira Ferreira Julio César

Nella casa comune tutto è connesso

A differenza del primo, questo Patto per la casa comune è stata firmato da tutti i presenti (oltre 200 persone, tra cui 80 padri sinodali e due membri di altre chiese delegate fraterne nel Sinodo) con rilievo per la partecipazione degli indigeni e delle donne. Si tratta di un documento aperto che può ancora essere firmato in occasione di riunioni o attività in difesa della casa comune in tutto il mondo.

Chi firma i suoi 15 impegni rinnova l’opzione preferenziale per i poveri e si prende cura della casa comune con un’ecologia integrale in cui tutto è interconnesso (la sostenibilità della foresta, dei fiumi e del bioma amazzonico); valorizza e difende la diversità culturale, le tradizioni spirituali e lo stile di vita dei popoli amazzonici; desidera camminare ecumenicamente con altre comunità cristiane e religioni; valorizza le comunità e riconosce i ministeri; segue uno stile di vita sobrio, semplice e solidale; vuole ridurre la produzione di rifiuti e l’uso di materie plastiche, e favorire la produzione e la commercializzazione di prodotti agroecologici; difende i perseguitati e la vita dove essa è minacciata.

Saper ascoltare le voci scomode

Di fronte alle sfide ecologiche, sociali ed ecclesiali, questo nuovo Patto è una risposta alle preoccupazioni di papa Francesco che, anche alla messa di chiusura del Sinodo (il 27 ottobre), ha nuovamente ricordato: «Quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non vengono ascoltate e talvolta sono derise o messe a tacere perché scomode. Chiediamo la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa». E come afferma il Patto: «Con loro abbiamo sperimentato il potere del Vangelo che opera nei piccoli».

Jaime C. Patias

foto Paolo Moiola


Hanno firmato questo dossier:

  • Gaetano Mazzoleni. Missionario della Consolata, dopo gli studi di teologia, si è specializzato in antropologia culturale presso la Catholic University of America di Washington. Ha vissuto in Colombia dal 1965 al 2010 con un intervallo di un anno in Venezuela. Durante la sua lunga esperienza si è sempre occupato di popoli indigeni, prima come missionario, poi come missionario e antropologo.
  • Jaime C. Patias. Missionario della Consolata, giornalista, attualmente è membro della Direzione generale dell’Istituto Missioni Consolata con responsabilità sulla regione americana.
  • A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

foto Paolo Moiola




Missione a km0

Testo di Luca Lorusso


Una nuova forma di presenza della Chiesa

Abitare è annunciare

«Abitare in una parrocchia con i propri figli per un’esperienza di accoglienza, di annuncio del Vangelo, di corresponsabilità pastorale, per dare volto a una Chiesa fraterna e missionaria, per annunciare la gioia del Vangelo nel modo più semplice e vero: da persona a persona», è la frase che campeggia nella parte alta del blog delle Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano: https://famigliemissionariekm0.wordpress.com/

Sono famiglie che annunciano il Vangelo nella quotidianità e nella fraternità, abitando uno spazio ecclesiale, a volte con altre famiglie, con altri laici, a volte con sacerdoti, religiosi o religiose in una bella e feconda sinergia di vocazioni.

Il gruppo di Milano, che al momento è l’unico organizzato, conta già 27 esperienze, ma molte altre ne esistono e ne stanno nascendo in diverse diocesi della Chiesa italiana.

Siamo andati a conoscerne alcune.



btroz

A Mongreno, sulla collina torinese

Ricchi di fraternità

Quattro giovani famiglie vivono gli spazi altrimenti abbandonati della chiesa di San Grato facendo esperienza di fraternità e di servizio alla Chiesa e all’evangelizzazione. Nella semplicità della loro vita quotidiana.

L’appuntamento è per l’ultimo sabato mattina di settembre alla chiesa di San Grato, immersa nel bosco della collina torinese a Est del fiume Po. Lì, in zona Mongreno, vive una fraternità di quattro famiglie, due nella canonica e due in un’altra casa poco distante di proprietà della parrocchia. Sono otto adulti tra i 30 e i 40 anni e sette bimbi tra i 6 mesi e i 7 anni, più un altro in arrivo.

Sono tutti provenienti dal mondo dello scoutismo con un grande desiderio di mettersi a disposizione: della Chiesa e degli altri. Per questo le loro settimane sono scandite da diversi servizi pastorali e dagli appuntamenti di fraternità, oltre che dagli impegni famigliari e lavorativi comuni a chiunque.

Dopo diversi minuti di salita e di tornanti, parcheggiamo l’auto a un centinaio di metri dalla destinazione, di fronte a una piccola struttura che una volta ospitava la scuola elementare di zona, e percorriamo l’ultimo tratto a piedi. L’aria d’inizio autunno è fresca, e c’è un silenzio molto piacevole.

Arriviamo al sagrato della chiesa: un terrazzo stretto tra la facciata seicentesca dell’edificio e la vegetazione che cresce sul terreno scosceso della collina. Ci guardiamo intorno: oltre alle strutture della chiesa non si vede nient’altro che bosco. Le case dei parrocchiani che abitano qui attorno sono tutte sparse per la collina, e lungo la via ne abbiamo intuito la presenza solo dai passi carrai o dalle stradine laterali che s’infilano nel verde.

Fraternità casalinga

Alla canonica di San Grato si accede da un cancello che dà su un cortile, a lato della facciata della chiesetta. Suoniamo il campanello. Viene ad aprirci Massimiliano Grasso, Max per tutti, il più giovane tra gli adulti della fraternità: 30 anni, capelli neri, folti e ricci. Bolle di sapone sparate da una pistola verde e arancio campeggiano sulla sua maglietta nera. Ci accoglie con un sorriso e ci guida alla porta della canonica, una costruzione di due piani addossata al fianco della chiesa. Lui vive al piano terra con la moglie Sara Stilo, 31 anni, e con i loro bimbi Iago, di 2 anni, ed Elia, di 6 mesi.

Entriamo in cucina, dove Sara, capelli neri a caschetto attorno a un viso che pare giovanissimo, ci saluta mentre prepara la pappa per Elia che sorride allegro nel seggiolone. La piccola stanza, che fino a tre anni fa era una saletta parrocchiale, è semplice e accogliente: dentro ci stanno una cucina ad angolo, un divano a due posti, un tavolo per quattro. Le pareti sono organizzate con pensili e mensole carichi di tutto ciò che una giovane famiglia con bimbi piccoli deve avere a portata di mano.

«Lavoriamo tutti e otto – inizia a raccontare Sara -. Io e Serena, un membro della fraternità, lavoriamo insieme. Lei è la mia referente in una cooperativa di animatori. Facciamo attività di educazione al consumo consapevole nelle scuole. Mio marito, invece, è infermiere, ma in questo momento si sta occupando più di educazione che d’infermieristica, in una comunità di ragazzi psichiatrici. Da poco segue un bambino arrivato da un orfanotrofio russo. Avevano bisogno di una figura maschile e gli hanno chiesto se voleva occuparsene lui».

Quattro giovani famiglie

Max esce nel cortile al richiamo di due voci di bimbi, e al suo posto compare Giovanni Messina, 37 anni, che abita con la moglie Enrica Ruffa al piano di sopra. Sente che parliamo di lavoro e si presenta: «Io faccio lo sviluppatore di web e app per una cooperativa. Invece mia moglie è coordinatrice di una struttura di accoglienza della diocesi di Torino che si trova qua vicino, in strada Traforo del Pino. Segue una quarantina di rifugiati provenienti dal Moi (l’ex villaggio olimpico di Torino occupato da migranti e sgomberato a più riprese negli ultimi anni, ndr). Si occupa di tutto: dalla sistemazione ai documenti, all’italiano, alla condizione sanitaria, alle borse lavoro e alla vita ordinaria».

Mentre Giovanni parla, entra in cucina Iago, seguito da suo papà Max e dall’amichetta Cecilia, di due anni come lui. Iago porta con sé un vasino che posa a terra di fronte a noi: ha imparato da poco a usarlo ed è felice di mostrarlo a tutti.

Giovanni ci spiega che Cecilia ha un fratellino, Pietro, di sei anni, e che i suoi genitori, Stefano Picco e Chiara Gaschino, sono una delle due coppie che vivono nell’altra casa della fraternità a pochi passi da qui: Stefano ha 40 anni e fa il consulente sulla sicurezza in ambito forestale, Chiara ha 37 anni e fa la maestra. In questo momento Chiara è a casa, ma Cecilia è qui perché voleva giocare con Iago.

Nella casa dove abitano Stefano e Chiara c’è un secondo alloggio nel quale stanno Serena Andrà, 34 anni, con suo marito Claudio Aseglio, 35 anni, medico anestesista, e i loro bimbi: Agnese di 7 anni, Paolo di 5 e Francesco di 2 e mezzo. Un quarto piccolino nascerà all’inizio del prossimo anno.

Amici che si spalleggiano

Dopo averci presentato per sommi capi le famiglie della fraternità, Giovanni ci illustra anche i molti servizi che la fraternità offre per la comunità di San Grato e per l’unità pastorale nella quale San Grato è inserita: «Ci occupiamo di un’ex parrocchia di collina. Quando l’ultimo parroco è andato via, la parrocchia è stata fusa con quella di Sassi, dove don Stefano Audisio, che oggi ha quasi ottant’anni, fa i salti mortali. Il nostro incarico è essere qua, aprire e chiudere la chiesa, animare le messe domenicali: abbiamo il nostro nucleo di una decina di parrocchiani affezionati, e poi amici, altre famiglie con bambini, scout che vengono per il week end.

Ci siamo ritagliati una stanza nella casa di sotto dove vivono Chiara, Stefano, Serena e Claudio: la usiamo per i momenti di preghiera della nostra fraternità e per l’ospitalità nei fine settimana. Ospitiamo soprattutto scout per il semplice motivo che dormono per terra, oppure in tenda.

Oltre a questi servizi a San Grato, diamo una mano a don Stefano anche in altri ambiti della pastorale parrocchiale: il corso prematrimoniale, ad esempio, poi il corso per i battesimi, il catechismo, un percorso per i genitori dei bimbi del catechismo. Seguiamo anche un gruppo di giovani affiancando il don. Partecipiamo al consiglio pastorale.

I parrocchiani sono molto felici che ci siamo. Se non ci fossimo noi, probabilmente questa chiesa sarebbe chiusa e la struttura in decadenza. Il bosco si prenderebbe tutto se non ci fosse qualcuno qui.

Il punto di forza della nostra esperienza – conclude – è che siamo in quattro e ci spalleggiamo. Per le messe domenicali, ad esempio, ci alterniamo».

Storia della fraternità

Dal cortile sentiamo arrivare il suono gracchiante di un walkie talkie. È Serena che ci raggiunge con Francesco, di due anni come Iago e Cecilia. I bimbi più grandi, Agnese e Paolo, non volevano venire, e sono rimasti a casa insieme a Chiara, collegati con la mamma tramite la radiolina. La casa è appena al di là del piccolo sagrato della chiesa e di una rampa di scale in discesa tra gli alberi, forse una cinquantina di metri, ed è divertente rimanere in contatto così. Mentre Francesco si ferma in cortile con Iago, Cecilia e Max, Serena entra e ci saluta.

Serena e suo marito Claudio vivono a San Grato da sette anni, a differenza delle altre tre famiglie che sono arrivate tre anni fa. Chiediamo quindi a lei di raccontarci la storia della fraternità.

«I primi a venire a Mongreno nel 2006 sono stati Paolo e Nicoletta Leombruni. San Grato era ancora parrocchia, e don Sebastiano, che aveva ricevuto come lascito testamentario la casetta qui sotto, li ha invitati a viverci perché gli dessero una mano. Loro si occupavano di pastorale famigliare.

Quando don Sebastiano è andato in pensione e la canonica è rimasta vuota, Paolo e Nicoletta hanno chiesto a Luca e Arianna Tagliano di venire a viverci per fare un’esperienza di fraternità. Era il 2008. Entrambe le famiglie sono rimaste a Mongreno fino al 2016-17. I Leombruni avevano 4 figli più un affido. I Tagliano tre figli. Noi siamo arrivati nel 2012, dopo due anni di matrimonio, mentre aspettavo Agnese».

Quando Serena e Claudio sono arrivati, hanno introdotto alcune novità. Una di queste è stata l’apertura agli esterni del triduo pasquale fino ad allora vissuto in fraternità. Un triduo «ora et labora», lo chiama lei, cioè un’occasione di preghiera e lavoro per sistemare il verde che cresce rigoglioso attorno alla chiesa. «È stato proprio durante uno di questi tridui, nel 2016, che abbiamo conosciuto Max e Sara. Loro sono rimasti colpiti dall’esperienza, allora, dato che i Tagliano stavano per andare via, abbiamo proposto loro di venire a vivere qui. Ad agosto si sono sposati, e a gennaio 2017 si sono trasferiti».

Nel frattempo anche la famiglia Leombruni ha deciso di andare altrove, e Serena e Claudio hanno iniziato a cercare altre coppie.

«In quell’estate del 2016 – interviene Giovanni -, Serena e Claudio hanno incrociato noi e Chiara e Stefano e ci hanno fatto la proposta. Noi abbiamo iniziato a venire nei week end per vedere e, pian piano, abbiamo capito che la cosa ci interessava».

«C’è stato un attimo di défaillance – confessa Serena -, non pensavamo che tutti fossero interessati. Gli spazi erano per tre famiglie, non per quattro».

«Quindi abbiamo cercato di capire se ci saremmo stati – prosegue Giovanni -. Noi eravamo già sposati e anche Chiara e Stefano, che avevano già Pietro. Quando abbiamo deciso di venire, abbiamo iniziato i lavori qui nella canonica per ricavare un secondo alloggio e, alla fine, abbiamo traslocato durante l’estate 2017. Ovviamente, in tutto questo cammino, siamo stati sempre accompagnati da don Stefano».

Questioni pratiche (ed economiche)

Dato che si parla di ristrutturazioni e di famiglie che abitano dei luoghi che non sono di loro proprietà, chiediamo qualche delucidazione sugli accordi con la parrocchia. «Il nostro alloggio, qui sopra, è fatto di due stanze, il bagno e la cucina – spiega Giovanni -. Questo di Sara e Max ha la cucina, due stanzette piccole, la camera da letto e il bagno. Le ristrutturazioni le abbiamo pagate noi dividendoci la spesa. Il contratto è un comodato d’uso gratuito per cinque anni. A nostro carico, oltre alle ristrutturazioni, abbiamo ovviamente le spese vive, le utenze di luce, acqua, gas. Poi, ogni anno, facciamo un’offerta volontaria che corrisponde all’Imu. È come se fossimo in affitto: la spesa per le ristrutturazioni è più o meno quello che avremmo speso per un affitto di cinque anni».

Coppia, famiglia, fraternità, impegno

Essendo arrivate le 12, Serena si congeda: aveva già da tempo in programma di andare con i bimbi al picnic ecologico «Un Po meno inquinato» organizzato al parco Colletta, ai piedi della collina, da diverse associazioni, tra cui Altri Modi Ets, l’impresa sociale per cui lavora Enrica.

Anche Sara e Max andranno al picnic tra poco.

La nostra attenzione è rapita dal gorgoglio che Elia emette, quasi come una ninna nanna, in braccio a Sara. Con tutta la fatica che qualsiasi coppia fa, tra le tante gioie, per costruire l’equilibrio sempre nuovo di una giovane famiglia con bimbi piccoli, domandiamo come facciano a tenere dietro anche a tutti gli impegni legati alla fraternità.

«Effettivamente è una delle fatiche – risponde Sara -. Siamo tutti molto impegnati e, tra l’altro, ci siamo resi conto che è importante coltivare anche le relazioni tra noi famiglie. L’anno scorso abbiamo iniziato una riflessione sull’equilibrio tra fraternità, famiglia e servizio. È emerso che alcuni di noi sono qua soprattutto per l’aspetto comunitario e che il servizio dovrebbe essere nel cerchio più esterno. Prima si deve essere alleati nella coppia. Poi si allarga il cerchio ai figli, poi alla fraternità, poi al servizio. Per avere delle fondamenta forti».

Il valore aggiunto

Per lasciare che Sara e Max si preparino anche loro per il pic nic ecologico, ci spostiamo fuori con Giovanni che oggi rimarrà l’unico della fraternità a San Grato. C’è un piacevole sole autunnale che ci illumina e scalda. Nel cortiletto c’è un tavolo da esterno con le sedie.

«Qual è il valore aggiunto di questa fraternità alla vostra vita di sposi?», chiediamo. «Una cosa bella che la fraternità ci offre è quella di poter fare servizio insieme, come coppia. E poi c’è una dimensione di sogno e di condivisione che ci piace. Di bisogno di camminare con altri, di poterci confrontare».

«E quali sono, invece, le difficoltà?».

«La difficoltà dell’esperienza di fraternità è che, come succede a tutti i fratelli che vivono sotto lo stesso tetto, quando ci si passa vicini, ci si può urtare. Ci sono i momenti nei quali uno si dice, chi me l’ha fatto fare? Il fatto di essere in quattro, però, a volte aiuta, perché se c’è un momento nel quale hai bisogno di chiuderti un po’ a guscio, puoi farlo senza scompensare troppo gli equilibri.

C’è poi la fatica della trasparenza continua. Qui non c’è l’anonimato condominiale, e tutto quello che fai è conosciuto dall’altro: i tuoi orari, come decidi di rimproverare i figli, come li fai giocare, cosa gli regali… Tutto è pubblico, anche le tue fatiche con il coniuge, i litigi di coppia. È un’esperienza molto sfidante.

Poi c’è anche il vantaggio di dire: “Mio figlio mi sta facendo impazzire, te lo lascio un attimo perché se no darei di matto”. Hai una rete solida vicina».

Una chiesa incarnata

Arriva il momento di andare anche per noi. Quando ci congediamo, partiamo pensando alla spontaneità dei bimbi e dei loro genitori, colti nel mezzo della loro vita quotidiana. Il clima famigliare, la semplicità dell’accoglienza e della casa, l’andirivieni di bimbi e adulti, la pappa, il caffè preparato con un piccolo in braccio, il pic nic ecologico, ci hanno dato il sentimento di trovarci in mezzo a fratelli che condividono le cose di ogni giorno senza ansie e con molta flessibilità.

È un’immagine di Chiesa in uscita che s’incarna in un tempo e in un luogo attraverso voci e vicende personali, famigliari e comunitarie precise.

Quando abbiamo domandato a Giovanni se crede che l’esperienza di fraternità che sta vivendo abbia un suo posto nella Chiesa di oggi, ha risposto: «Io penso che sia una cosa naturale. Non la vedo come una cosa strana, di rottura. È il frutto del Concilio Vaticano II. Il ruolo del laico. La ricchezza dell’essere coppia, e dell’essere fraternità. Siamo in un tempo di costruzione, di esplorazione. È una dinamica normale, sensata».

Luca Lorusso


Casa Santa Barbara, un condominio speciale ad Alba

Il bene comune si fa insieme

Siamo andati a conoscere dal vivo l’esperienza di Emanuela e Nicola Costa: una «Famiglia missionaria a km0» che vive la fraternità e l’accoglienza in uno spazio parrocchiale assieme a due giovani volontari e a tre donne africane in difficoltà.

A guardarla da fuori è un’anonima palazzina di tre piani come se ne vedono in qualsiasi città: uno scatolone intonacato di bianco con balconi e finestre disposti simmetricamente a sinistra e a destra della scala.

Dentro, però, l’anonimato non ha spazio, perché le persone che la abitano, tutte in modo temporaneo, vivono un’interessante esperienza di fraternità, accoglienza e solidarietà, sempre con le porte aperte.

Siamo ad Alba, seconda città della provincia di Cuneo per popolazione dopo il capoluogo.

La palazzina, chiamata casa Santa Barbara perché sorge nell’omonima via di un quartiere centrale piuttosto benestante della città, è una struttura di proprietà della parrocchia Cristo Re destinata all’accoglienza di donne sole in condizione di disagio.

Attualmente è abitata da tre donne africane con i loro figli che risiedono in tre alloggi distinti, da due giovani volontari, Paolo in un appartamento e Giulia in un altro (in attesa dell’arrivo anche di Miriam, altra giovane), e dalla famiglia Costa, di quattro persone, cui fa capo l’associazione «Il Campo» che gestisce l’accoglienza. Un’umanità variegata che, nella semplicità della vita quotidiana, fatta anche di documenti da tradurre, telefonate dei servizi sociali, tapparelle da aggiustare, nutre le relazioni con occasioni di gioco per i bambini, momenti condivisi di manutenzione, feste, pasti, preghiere, compiti di scuola fatti assieme.

Una parrocchia accogliente

Alla stazione di Alba viene ad accoglierci Emanuela Iacono: jeans blu, maglietta rossa, foulard variopinto di farfalle, occhiali viola e una parlantina invidiabile. Lei e il marito Nicola Costa, entrambi quarantenni, con i due figli Edoardo di undici anni e Giacomo di sette, sono arrivati ad Alba da Milano cinque anni fa per lavoro. Nicola è un esperto di sicurezza alimentare, Emanuela si occupa di comunicazione per il terzo settore.

Emanuela cammina spedita facendoci strada. Oggi è lunedì, giorno di lavoro, e avremo a disposizione poco più del tempo della pausa pranzo. Nonostante questo, prima di andare in via Santa Barbara, abbiamo in programma di conoscere don Claudio Carena, parroco di Cristo Re e vicario generale della diocesi di Alba, responsabile ultimo della casa.

Arriviamo in cinque minuti, e troviamo ad accoglierci nel suo ufficio don Claudio, 53 anni, affabile e sorridente. Nella sua parrocchia l’esperienza della casa Santa Barbara non è l’unica iniziativa sociale: «Qui in canonica, ad esempio, ospitiamo quattro famiglie e quattro persone singole – ci spiega -. È una struttura molto grande, e il mio predecessore ne ha tratto otto bilocali. Gli ospiti hanno tutti situazioni difficili. Innanzitutto economiche, ma anche di fragilità psicologica, sociale. Oggi abbiamo ospiti di tre etnie e tre religioni diverse. C’è un dialogo interreligioso di fatto in un bel clima di rispetto. Le famiglie fanno una convenzione per undici mesi rinnovabili, ma alcuni non riescono ad andarsene anche quando avrebbero la possibilità economica di farlo: c’è una coppia marocchina con due figli, ad esempio, che lavora e potrebbe pagare un affitto altrove, ma nessuno vuole dare loro il proprio appartamento…».

L’esperienza della casa Santa Barbara, dove ora vivono Emanuela e Nicola «è nata circa 20 anni fa – ci racconta don Claudio -. Una persona aveva donato una struttura alla parrocchia con l’impegno di attivare qualcosa per i poveri. Il parroco di allora, don Angelo Stella, ha costruito l’attuale condominio grazie all’istituto per il sostentamento del clero. Poi, il parroco successivo, don Valentino Vaccaneo, ne ha fatto una casa di accoglienza per donne sole, e una coppia di parrocchiani, Anna e Franco Foglino, è andata a viverci dedicando all’accoglienza 18 anni di vita con grande generosità e competenza. Quando sono arrivato io sette anni fa, mi hanno chiesto di trovare un’altra famiglia, e la provvidenza, nel 2016, ha mandato Emanuela e Nicola».

Uno spazio nel quale ricostruirsi

Salutiamo don Claudio e ci lasciamo guidare da Emanuela verso via Santa Barbara. «Accogliamo donne sole in difficoltà – ci spiega lungo la strada -. Sono donne spesso segnate da rapporti difficili con le famiglie di origine o con i compagni. L’obiettivo della casa è offrire un tempo di ripartenza verso una vita autonoma di massimo due anni. Le donne vengono segnalate dai servizi sociali o da associazioni. A ognuna chiediamo di partecipare alle spese della casa. Quando non possono ci aiutano gli enti che ce le mandano: i servizi sociali, Caritas o altri.

Noi diamo una mano a queste donne nelle cose di ogni giorno come buoni vicini di casa: stampare la pagella dei figli, scrivere il curriculum vitae, e cerchiamo di attivare reti di aiuto informali. La loro provenienza è varia. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto con noi donne dalla Romania, dalla Tunisia, dal Marocco, dalla Bulgaria, dall’Italia».

Le attuali ospiti sono tre donne africane: «Una è madre di un ragazzo di 12 anni con disabilità. Insieme a loro c’è anche la nonna. Hanno da poco avuto l’assegnazione di una casa popolare». La seconda è di origine marocchina con un bimbo piccolo: «Sta affrontando una separazione difficile. Ha bisogno di un tempo in cui seguire le pratiche legali, trovare un lavoro, e riprogettare la sua vita». La terza è una mamma originaria della Nigeria, con una bimba di dieci mesi. «È stata battezzata in parrocchia a Cristo Re. Lì ha battezzato anche la sua bimba. Era in un Cas (Centro di accoglienza straordinaria, ndr) di Alba, poi è stata spostata in un Cas di un’altra città. Quando ha ottenuto la protezione internazionale, le abbiamo proposto di tornare qui come segno di cura da parte della comunità che l’ha accompagnata al battesimo. Lei è molto contenta di essere di nuovo ad Alba dove si è ben integrata anche grazie all’aiuto di associazioni del territorio. È molto motivata a ripartire».

Condividere tempi e luoghi

Arriviamo in via Santa Barbara 4. Dietro la palazzina s’intravede un cortile. Di fronte, dall’altra parte della strada, c’è un palazzo di cinque piani, di quelli i cui alloggi negli annunci immobiliari recano la scritta «finiture di pregio».

Entriamo nell’androne sul quale si affacciano tre porte: una è del centro di ascolto Caritas della parrocchia; un’altra è di uno degli alloggi per l’accoglienza, la terza dà su un monolocale a uso comune. I volontari l’hanno sistemato due mesi fa, e ora è attrezzato con una cucina, un tavolo e alcune sedie.

Qui tutti i giovedì vengono alcuni ragazzi scout e delle parrocchie vicine a far giocare i bambini della casa. «Un altro gruppetto di giovani viene il sabato mattina a fare dei lavori manuali – ci racconta Emanuela -. Tra questi c’è anche Babatunde, arrivato in Italia qualche anno fa. Ora ha una fidanzata albese e lavora in una cantina. Viene il sabato mattina a dare una mano perché vuole restituire l’accoglienza che ha ricevuto».

Nel monolocale c’è Nicola, arrivato dal lavoro pochi minuti fa per la pausa pranzo: sta preparando gli agnolotti del plin, tipici piemontesi, e un’insalata. C’è anche Paolo, un giovane di 27 anni – «capo scout», ci tiene a dire -, che vive al piano di sopra da maggio per fare un’esperienza di accoglienza e fraternità. Paolo è già in partenza per andare al lavoro, ma fa in tempo a raccontarci dell’altra sua bella esperienza conclusa appena prima di arrivare qua: ha abitato per due anni con un altro giovane nella canonica della sua parrocchia Santa Margherita, per sperimentare la vita fuori dalla casa paterna, la convivenza e soprattutto il servizio alla parrocchia.

Oltre a Paolo, come detto, nella palazzina abita da poco anche Giulia, e un’altra giovane, Miriam, si sta avvicinando: la famiglia Costa ha, tra le sue caratteristiche, quelle della condivisione e della fraternità, sia con le donne accolte che con i giovani.

Una famiglia missionaria a km0

Emanuela e Nicola sono una scheggia albese del gruppo di «Famiglie missionarie a km0» che loro stessi hanno contribuito a creare nel 2013 nella diocesi di Milano. Un gruppo nel quale si sono radunate famiglie che, in modo indipendente l’una dall’altra e con stili diversi, avevano iniziato ad abitare con spirito missionario in canoniche, oratori o altre strutture ecclesiali. Si definiscono «famiglie missionarie», perché molte di loro hanno vissuto esperienze all’estero, anche di diversi anni, o semplicemente perché sta loro a cuore l’evangelizzazione, far conoscere Gesù a chi ancora non l’ha incontrato; «…a km0» per sottolineare la vicinanza tra la loro vita e la missione: che sia ad Alba o a Quarto Oggiaro – il quartiere milanese della parrocchia Pentecoste nella quale i Costa hanno vissuto due anni, prima di trasferirsi -, poco importa.

Desiderio di fraternità

«In questa casa ci sono dieci alloggi. Uno è questa stanza comune per stare insieme – ci dice Nicola -. Poi c’è il centro di ascolto della Caritas, l’alloggio per Paolo, quello per Giulia, e quello per noi. Tutti gli altri sono dedicati all’accoglienza».

La descrizione della destinazione degli alloggi non vuole essere un semplice elenco, vuole piuttosto mettere in luce uno degli elementi fondamentali di questa esperienza di condominio solidale: la fraternità. La casa non è solo un «rifugio» per persone in difficoltà, ma è un luogo nel quale sperimentare una forma nuova di vicinato, una modalità aperta di relazioni paritarie tra persone diverse.

«La cosa è nata dalla nostra esperienza precedente in parrocchia a Milano – ci spiega Emanuela -. È significativo che ci sia una fraternità tra famiglia e sacerdote al centro della parrocchia. Ci sembrava significativo che ci fosse una forma di fraternità anche al centro dell’esperienza di accoglienza. Cercavamo un’altra famiglia e non l’abbiamo trovata. Allora abbiamo pensato ai giovani».

«Prima che arrivassero questi nuovi giovani – aggiunge Nicola -, è stata qui Elisabetta, che oggi ha 27 anni e si è appena sposata. Lei diceva che voleva vedere le cose con i suoi occhi: “Ho un lavoro, ho il fidanzato, ma non voglio andare a convivere. Esco di casa, faccio due anni con la porta aperta. Mi metto al servizio di chi ha bisogno”». «Alla fine – aggiunge Emanuela – ha detto che essere qua non è solo fare servizio, ma rendersi conto di cosa succede nel mondo, perché ognuna delle donne ospitate ti racconta come vanno le cose a casa sua e anche la fatica di stare in Italia. Paolo e Giulia staranno qua per un anno, Miriam farà un ingresso più graduale. L’idea è che passino per questa esperienza prima delle scelte definitive della vita: è anche un’esperienza di discernimento. Si mettono al servizio, e in più provano a immaginare la loro vita futura. Per vivere la fraternità in modo più completo con loro, facciamo almeno una cena alla settimana insieme. Poi in pratica diventano anche due o tre, perché spesso passano per un saluto e alla fine si fermano a mangiare. Oltre alla cena, stiamo costruendo il modo di pregare insieme».

La quotidianità fraterna, però, per i Costa non si realizza solo con i giovani. In senso più ampio è il vivere con la porta aperta e il cuore disponibile nei confronti degli ospiti: «Vivendo insieme è più facile che s’inneschino delle dinamiche di reciprocità – continua Emanuela -. Io sono qua per aiutarti, però, se questo spazio è unico e lo abitiamo insieme, anche tu che sei ospite partecipi. Il bene comune lo costruiamo insieme. Questo è difficile, soprattutto per quelle persone che sono tanti anni che vengono aiutate. Fare quel salto di qualità: pensare “però anche io posso darmi da fare per gli altri”, è provocatorio, ma vivendo insieme viene naturale».

Il cortile si riempie

Mentre mangiamo e chiacchieriamo, arriva da scuola Edoardo, il figlio maggiore di Nicola ed Emanuela. Saluta, posa lo zaino e si siede a tavola anche lui. Partecipa volentieri a questo pranzo con uno sconosciuto: è abituato a condividere gli spazi e i tempi di casa con altri. Chiediamo però ai suoi genitori come fanno a conciliare le esigenze di coppia e di famiglia con quelle di un condominio così.

Nicola, ormai alla fine della sua pausa pranzo, risponde: «La famiglia e il servizio non sono due cose distinte. Non è come il lavoro: esco, vado in un luogo dove gli altri non possono venire, faccio le mie cose e torno. È una parte integrante della nostra vita. È una forma della vita, anche se bisogna riuscire a tenere degli spazi riservati, soprattutto per i figli». «Il nostro è un vicinato aperto – Aggiunge Emanuela -. Poi è bello che io e Nicola facciamo le cose assieme. Invece per i nostri figli è bello avere molte relazioni. Per cui capita che ci sia l’invasione di chi non vuoi nei momenti che non vuoi, ma poi hai tanto di più attorno. Loro sono contenti. Lo erano anche di vivere in parrocchia. Apprezzano molto i giovani che abitano qua, i giochi al giovedì, il fatto che vengano gli amici dei bambini accolti, che il cortile si riempia».

La terza porta della chiesa

La famiglia Costa vive nella casa Santa Barbara da tre anni. Come i loro amici della diocesi di Milano, anche loro si sono dati un tempo di cinque anni, scaduti i quali verificheranno, insieme alla parrocchia, se la loro presenza nella casa ha portato buoni frutti e se proseguire con l’esperienza oppure andare altrove. «Tre anni sono pochi. Cinque anni permettono di entrare nel vivo. È un tempo sensato. Dopo di ché ci sentiamo sostituibili».

La casa Santa Barbara non è una realtà visibile. È un condominio in mezzo ad altri condomini. Non ha insegne o frecce luminose che ne indichino la presenza. Si fa vedere solo da chi la conosce, e da chi frequenta le persone che la vivono. Non è invadente. Ma è un pezzettino di Chiesa che abita il quartiere, che sta in mezzo alle case.

«Le Famiglie missionarie a km0 sono la terza porta della Chiesa – ci dice Emanuela mentre ci salutiamo -: c’è la porta istituzionale, poi c’è la porta piccola che è quella degli istituti religiosi o della sacrestia dove entrano solo gli addetti ai lavori, e poi c’è la terza porta che è fatta da quelli che desiderano vivere la fede e una vita piena pur facendo la vita di tutti. L’impegno è quello di essere una porta d’ingresso verso il popolo di Dio. Questo è il nostro impegno: riuscire a fare da tramite».

Luca Lorusso


Dieci storie in un libro

Le Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano, dal 2013 costituiscono un gruppo ormai consolidato e organizzato che oggi conta almeno 27 famiglie più altre in rete.

Le loro provenienze sono le più disparate: c’è chi viene dal mondo scout, chi da Azione cattolica, da Comunione e liberazione, dal laicato dei missionari della Consolata, dall’Operazione Mato Grosso, dalla rete delle famiglie ignaziane e da altre realtà.

Tutte si ritrovano attorno a una chiamata e a una prassi comune: essere missionari nella quotidianità, attraverso l’abitare in un quartiere, in una parrocchia, in uno spazio della Chiesa, qui in Italia. Senza bisogno di valicare frontiere. Essere missionari non a prescindere o nonostante la condizione di famiglia, ma proprio perché famiglia.

Il gruppo di Milano è il più visibile, in questo momento, nella Chiesa italiana, ed è quello che ha maturato una riflessione più articolata, ma i suoi membri non sono i soli che vivono la missione a km0. Proprio il fatto di avere iniziato a darsi un nome, a comprendersi come un volto specifico della Chiesa del nostro tempo, sta facendo loro conoscere molte altre esperienze in giro per il nostro paese, famiglie che sentono la stessa chiamata in forme simili e che stanno avviando un dialogo con le loro diocesi di appartenenza.

Gerolamo Fazzini, nell’ottica di iniziare a tirare un po’ le fila di qualcosa che sta pian piano, con i tempi dello Spirito, prendendo forma, ha raccolto in un bel volume, ben scritto e gustoso nei contenuti, dieci esperienze: sette milanesi, due piemontesi e una veneta, con una prefazione di mons. Luca Bressan, una cronologia essenziale della storia del gruppo ambrosiano, una piccola panoramica delle esperienze fuori dalla diocesi di Milano e una postfazione con un’intervista a Johnny Dotti sull’«abitare generativo».

L.L.


A colloquio con monsignor Luca Bressan

Scrivere la presenza di Gesù nel quotidiano

L’esperienza milanese delle famiglie missionarie in canonica sono una freccia che indica nuove forme di presenza della Chiesa sul territorio. La quotidianità, la fraternità, la sobrietà, l’accoglienza, sono alcuni dei suoi strumenti principali per incarnare la fede nella Chiesa e nel mondo che cambiano.

«Per me è stato un privilegio incontrare le Famiglie missionarie a km0. Io le leggo come un segno che lo Spirito ci dà per dire come incarniamo la fede oggi. Sono una realtà giovane che va aiutata a crescere e a scoprire il mistero che porta dentro. Allo stesso tempo sono un dono che interroga la Chiesa, e che mette in luce quanto essa sta cambiando».

Monsignor Luca Bressan è sacerdote della diocesi di Milano dal 1987, dal 2012 è vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale, «ovvero – ci dice -, quella parte di azione pastorale che intercetta la cultura, il mondo, la società, e quindi ne legge i cambiamenti».

È coinvolto nell’accompagnare quelle famiglie che nella sua diocesi incarnano la condizione di «Chiesa in uscita» abitando una struttura ecclesiale, e ce ne offre una lettura di ampio respiro.

Don Luca, a proposito di Chiesa che cambia, in un tuo intervento di qualche mese fa a Padova, proprio riferendoti alla Chiesa, hai parlato di «tornante storico». Ci puoi spiegare?

«Tutti ci accorgiamo che la Chiesa cambia, non solo perché i presbiteri sono meno, ma perché sono meno anche i battesimi. La Chiesa ha un’incidenza minore nella storia.

Il Concilio ci insegna che dobbiamo abitare questo cambiamento senza stancarci. Il rischio, però, è di interpretare questo “non stancarci” in modo troppo attivo: “Siamo noi che agiamo sulla riforma della Chiesa, che la mettiamo al passo con i tempi”. Invece, più che disegnare a tavolino quale sarà la forma futura della Chiesa, è molto meglio fermarsi e vedere come lo Spirito suscita vocazioni diverse, modi differenti di dire la fede.

Veniamo da un passato in cui la fede era incarnata soprattutto dalla vita religiosa, dall’esercito di suore che, accanto ai malati, agli abbandonati, ai bambini, raccontavano alla gente la gratuità dell’amore di Dio. Ecco, adesso quell’esercito di religiosi, religiose, preti, sta venendo meno, e corriamo il rischio che la Chiesa diventi “un’agenzia di servizi” a cui ricorrere per una preghiera, una prestazione.

La presenza delle Famiglie missionarie a km0 ci ricorda che è ancora possibile vivere una logica di gratuità. Avere queste famiglie non significa avere manodopera in più, ma delle persone che scrivono la presenza di Gesù nel quotidiano».

Le Famiglie missionarie a km0 sono una nuova forma di presenza della Chiesa nella società?

«Sì, noi la leggiamo in questo modo. Per questo la vogliamo accompagnare. È una freccia che ci indica nuove forme di presenza. Non in alternativa, non in sostituzione alle forme organizzate, al ministero presbiterale ad esempio, ma proprio come forma di aggiunta.

Il valore profetico che c’è in quest’esperienza è l’idea della fraternità missionaria che fa vedere come insieme si viene trasfigurati dalla fede, dal Vangelo che si vive, e quindi lo annuncia».

La fraternità è una delle caratteristiche fondanti di quest’esperienza, come si esprime?

«Questo dipende dalle situazioni. Ci sono luoghi nei quali la fraternità s’incarna in una frequenza fisica e quotidiana, ci sono luoghi in cui la famiglia abita dove una volta c’era il prete e ora il prete non c’è più, per cui la fraternità è più vincolata a momenti e orari.

C’è una fraternità quotidiana vissuta localmente che si esplicita in modi diversi. Poi c’è una fraternità più ampia che riguarda l’intera esperienza delle Famiglie missionarie a km0, che vuole essere uno spazio nel quale, ad esempio, si confrontano i tanti carismi da cui le coppie provengono: il mondo della missione, quello francescano, gli scout, Cl, famiglie legate a spiritualità più tradizionali, il mondo dei gesuiti…

Il gruppo è come una piazza in cui le differenze s’incontrano e arricchiscono tutti. L’ultima cosa che desiderano è spegnere le differenze. Infine c’è una fraternità ecclesiale di fondo che lega queste famiglie con la Chiesa».

Oltre alla fraternità, anche la quotidianità è un elemento fondamentale per questa esperienza.

«L’incarnazione avviene nel quotidiano. Il Verbo si è fatto carne in un momento determinato della storia e in un luogo determinato. Per cui, esatto, il quotidiano è una parola chiave. Il Vangelo non si vive e non si testimonia in astratto».

Quali sono i punti di forza, le criticità e le prospettive delle Famiglie missionarie a km0?

«I punti di forza sono, da una parte, l’energia spirituale, la gioia, la voglia di creare nuovi percorsi. Poi lo stile di vita famigliare, la sobrietà, la voglia di far vedere che cosa dà sapore e senso alla vita.

C’è una differenza tra ricerca del piacere e ricerca della gioia. C’è chi cerca la gioia pur vivendo in un mondo che ricerca solo i piaceri.

Le sfide stanno nel capire come innestare tutti questi elementi di novità nella presenza della Chiesa tra la gente, e come dare loro forma. La criticità sarà poi superare man mano la fase di entusiasmo e vedere come far diventare questa esperienza la normalità della vita ecclesiale, come farla diventare una figura conosciuta, una figura ministeriale».

Com’è accolta questa esperienza dalla gente e dai sacerdoti della diocesi?

«La gente in qualche caso ha espresso diffidenza, ma poi si è accorta della capacità di contagio e di annuncio che ha quest’esperienza. I preti, in parecchi casi, hanno riconosciuto in questa presenza un nuovo modo di declinare la loro missione, e anche la loro scelta celibataria. Più di un prete mi ha detto che, grazie alla famiglia missionaria, ha imparato, ad esempio, a organizzare meglio la sua vita, gli spazi di silenzio, i luoghi d’incontro con la gente».

Lo scopo del gruppo delle famiglie qual è?

«A livello diocesano è quello di istituire uno spazio di crescita anzitutto spirituale e comunionale. Ci s’incontra per nutrirci a vicenda della profondità del mistero che abitiamo e per tornare poi a immergerci in un quotidiano che richiede tante energie».

C’è una commissione in diocesi che sta redigendo delle linee guida. Cosa sono?

«L’idea è, senza affrettare i tempi, quella di consolidare l’esperienza. Scopo delle linee guida è di mettere per iscritto alcuni suoi elementi costitutivi perché ne diventino l’ossatura e le permettano di essere trasmessa e condivisa. Permettere a noi e agli altri di capire quali sono i tratti essenziali delle Famiglie missionarie a km0, così che poi possano essere declinati nelle differenti situazioni e, man mano, possano istituire una figura riconoscibile dalla diocesi.

Della commissione fanno parte alcune famiglie e alcuni elementi della Chiesa diocesana.

Però non vogliamo accelerare i tempi. Vogliamo che il processo di stesura sia la trascrizione a livello verbale del processo di consolidamento dell’esperienza che si sta vivendo a livello di corpo».

Come viene gestita la presenza di una famiglia in spazi di proprietà della Chiesa?

«Essendo un’esperienza carismatica segnata dalla gratuità, le famiglie si mantengono con il loro lavoro, come fa qualsiasi famiglia normale. Dato però che abitano in un contesto di fraternità missionaria e di collaborazione pastorale, la chiesa le ospita in modo gratuito nelle sue strutture. Il tutto basato su un contratto di comodato di cinque anni, rinnovabile, che permette a tutti di essere liberi, soprattutto alla famiglia. Il primo compito della coppia è salvaguardare, approfondire, nutrire il suo sacramento, e quindi la famiglia: la durata quinquennale serve per dare un termine e per vedere se nella famiglia, ad esempio con la crescita dei figli, sono nate nel frattempo nuove esigenze. L’idea è di non mettere a nessuno degli obblighi».

Cosa dà a te quest’esperienza?

«Io sono contentissimo. Mi accorgo di esserne nutrito. Trovo dei fratelli e delle sorelle che mi aiutano a tenere incarnata la mia fede e, allo stesso tempo, danno gioia al mio cammino. Fa parte del famoso centuplo raccontato dal Vangelo. Ritrovo dei legami famigliari che non avrei mai immaginato potessero esserci. E questo è bellissimo».

Luca Lorusso


Marco, Maida e i loro cinque figli, dalle Ande peruviane a Milano

Con la porta sempre aperta

Marco e Maida Radaelli appartengono all’Operazione Mato Grosso (Omg), presente in Ecuador, Perù, Brasile e Bolivia, fin da giovani. Prima di conoscersi hanno fatto alcune esperienze all’estero: Marco in Ecuador e Maida in Perù, e quando si sono sposati, neanche trentenni, dopo due mesi sono partiti per 10 anni in Perù.

Oggi vivono nella parrocchia di Ponte Lambro, Linate, zona Sud Est di Milano, e sono una Famiglia missionaria a km0 con i loro cinque figli, di cui le prime tre nate sulle Ande: Martina di 14 anni, Margherita (11), Beatrice (9), Daniele (2) ed Elena (1).

«Nel tornare ci eravamo chiesti quale sarebbe potuto essere il modo per vivere la missione anche qua in Italia», ci dice Maida per telefono.

Maida, ci descrivi la vostra esperienza in Perù?

«Vivevamo in una casa dell’Omg a Yungay, a 2.800 metri, in zona rurale sulle Ande, proprio ai piedi del Huascarán, la montagna più alta del Perù. Niente a che vedere con Ponte Lambro a Milano.

Avevamo una scuola di falegnameria con un internato dove c’erano 20 ragazzi scelti tra i più poveri dei villaggi vicini: vivevano insieme a noi e quindi passavamo tutta la giornata con loro.

Dopo due anni abbiamo costruito una scuola: asilo, elementari e medie. Dalle 8 alle 16 avevamo con noi 300 bambini, ai quali davamo anche da mangiare. Tutto con l’aiuto dei volontari italiani.

I professori erano peruviani, e poi c’erano volontari italiani che venivano anche solo per un mese, e davano una mano a insegnare».

Quindi il vostro lavoro in Perù era quello educativo. Non avevate un’altra fonte di reddito?

«No. Non avevamo stipendio. Vivevamo anche noi con quello che veniva mandato dall’Italia. Poi avevamo delle donazioni private di parenti o amici che utilizzavamo per cose nostre».

Che formazione avete?

«Siamo infermieri tutti e due. Ci siamo conosciuti all’università. Abbiamo lavorato come infermieri cinque anni prima di partire».

Cosa vi ha lasciato l’esperienza di condivisione continua con i ragazzi peruviani?

«Una ricchezza molto grande. Le nostre figlie hanno respirato da sempre che la nostra famiglia non è chiusa. La porta di casa era sempre aperta. È sempre stata una famiglia molto allargata. Vuoi o non vuoi, i tuoi problemi, le cose che ti sembra di non riuscire a superare, passano in secondo piano. Condividere la giornata con altre persone ti fa capire che non sei tu il centro del mondo. Le nostre figlie hanno visto con i propri occhi la povertà, materiale e non. Quando oggi diciamo: “Stai attenta a non pensare solo a te stessa”, ci capiamo. In Perù eravamo molto facilitati in tutto, perché non avevamo un lavoro che ci portava via durante il giorno, e quindi eravamo lì 24 ore su 24. Potevamo dedicarci agli altri sempre. In Italia la vita è più frenetica e ti impedisce di fare quello che vorresti: ci sono gli impegni fissi come la scuola, il lavoro, e quindi poi devi gestire il tempo che ti rimane».

Ogni tanto sentivate il bisogno di avere uno spazio solo vostro, di famiglia?

«Ce lo chiedono sempre. Certo: avevamo il nostro spazio con una piccola cucina e le nostre stanze. A volte venivano a bussare, però era sottinteso che se eravamo nel nostro spazietto, dovessero trattenersi. Poi in realtà passavamo in casa pochissimo tempo. Eravamo sempre insieme ai ragazzi».

Collaboravate con la parrocchia?

«C’erano due sacerdoti locali. Con loro avevamo anche dei momenti insieme, e una volta alla settimana uno veniva a celebrare la messa con noi e i ragazzi. C’era una strettissima collaborazione».

Com’è stato il rientro per le vostre figlie?

«Per loro l’Italia era un mondo sconosciuto e si sentono ancora peruviane. Rimpiangono spesso la vita semplice del Perù. Però quando abbiamo spiegato loro che avremmo mantenuto alcune caratteristiche della vita peruviana, che saremmo venuti a vivere in una parrocchia, hanno accettato bene».

Avevate già un posto dove andare?

«Sì, avevamo sentito l’ufficio missionario della diocesi di Milano. Inizialmente avevamo chiesto di andare in un paese e non in città, perché le nostre figlie in Perù avevano vissuto una vita molto semplice e volevamo conservare questo aspetto. Ci è stato proposto Bulciago, in Brianza, e quando siamo tornati nel 2014 siamo andati direttamente lì, in canonica, per tre anni. Nel frattempo è tornato dal Perù don Alberto Bruzzolo che ha sempre chiesto, sia in Italia che in Perù, la collaborazione di una famiglia vivendoci insieme. In diocesi è stato il primo a provare questa esperienza fin dal 2001 a Pentecoste. Quando è arrivato, conoscendoci già, ci ha chiesto di fare fraternità con lui. Allora nel 2017 ci siamo spostati qui a Ponte Lambro, in un contesto di periferia urbana totalmente diverso. Noi diciamo sempre alle nostre figlie che non importa dove si vive, importa come uno vuole spendere la sua vita: che sia con i ragazzi peruviani, in Brianza, o in città. Ne abbiamo parlato molto, e alla fine loro hanno detto che sì, l’importante è aiutare gli altri.

Qui c’è un centro d’ascolto della san Vincenzo che segue 150 famiglie. Vengono distribuiti vestiti, medicine… Anche qui i miei figli vedono la povertà».

Com’è la vita di fraternità?

«Viviamo in fraternità missionaria con don Alberto, che è parroco, e con don Emanuele Merlo, che segue la pastorale dei Rom. Siamo in una casa di due piani dentro l’oratorio: al piano terra ci siamo noi, e al piano superiore i due don. In un’altra struttura ci sono tre suore Marcelline. Anche loro hanno chiesto di lavorare nella periferia.

Abitando nella stessa casa, diciamo le lodi al mattino insieme, poi facciamo colazione per raccontarci un po’ di cose. E poi la domenica sera facciamo la compieta e un commento di un brano biblico.

Nella vita quotidiana, poi, ci sono pranzi, cene. Così come vengono. Avendo la porta sempre aperta è facile che succeda».

Lavorate?

«Mio marito sì. Io no. È stata una scelta per coltivare l’accoglienza. La mia presenza in casa è importante. Infatti, per il fatto di essere un’infermiera, a volte le persone vengono a chiedermi medicine o iniezioni… e questa cosa ci apre un mondo, perché le persone vengono e poi ti raccontano tutto di loro. Come dice una mia amica che vive anche lei in una canonica: “Noi facciamo la pastorale del caffè”.

A volte la figura del sacerdote può dare un po’ di soggezione. Invece vedere una famiglia, che è una famiglia normale, perché ha i figli, fa casino, i bambini gridano, la mamma pure, fa sentire più a casa. Don Alberto dice che conosciamo le stesse famiglie, ma da punti di vista diversi: i nostri figli vanno alle feste di compleanno, vanno a scuola… in tutte quelle parti della vita dove il don non può arrivare, noi possiamo».

Tuo marito che lavoro fa?

«Con degli amici, anche loro tornati dalla missione, ha fondato una cooperativa sociale di imbianchini e giardinieri, e gestiscono cinque isole ecologiche qua nei dintorni e in Brianza. Poi fanno un lavoro sociale con il reintegro nel lavoro di ex alcolizzati, ex drogati, persone bisognose.

Lui dice sempre che non vuole fare un lavoro che lo separi dalla vita normale».

In parrocchia che ruolo avete?

«Non abbiamo cose precise. Facciamo incontri con genitori che chiedono il battesimo. Ognuno di noi ha un gruppo di lettura del Vangelo una volta ogni 15 giorni: cioè andiamo nelle case delle persone che si rendono disponibili. Io sono anche catechista e gestiamo l’oratorio feriale e le attività dei bambini, sempre con i due don e con le suore».

Difficoltà e soddisfazioni?

«La difficoltà è quella di avere pochi momenti di intimità famigliare. A volte dici: “Ma basta! Questo campanello che suona in continuazione”. I bambini che avrebbero bisogno di attenzione, però devi dire loro di aspettare un attimo. A volte è una fatica. Usi energia togliendola alla famiglia. Ma alla fine ti dici: non è quella la cosa che mi rende più felice, pensare solo a me e alla mia famiglia. Alla fine, vivere così è una ricchezza».

L.L.


Per una parrocchia a misura di pannolino

Contagiati dalla gioia

Suor Enrica Bonino, 53 anni, accompagna il cammino delle Famiglie missionarie a km0 fin dal 2001, quando ha partecipato alla nascita della prima esperienza nella parrocchia di Pentecoste, nel quartiere di Quarto Oggiaro a Milano.

È una suora energica. Torinese di nascita e ignaziana di spiritualità. È un’ausiliatrice delle anime del purgatorio con la vocazione di accompagnare le persone attraverso i loro «purgatori», le fasi di crisi che la vita offre a tutti, verso la gioia.

Suor Enrica non esita a definire «profetica» la realtà delle famiglie missionarie che a Milano e altrove offrono un volto nuovo di Chiesa alla gente.

Suor Enrica, tu sei legata all’esperienza delle
Famiglie missionarie a km0 fin dagli inizi.

«L’esperienza è nata nel 2001 nella parrocchia Pentecoste a Quarto Oggiaro, dove vivevo. È partita dal parroco don Alberto Bruzzolo, da Marco e Marta Ragaini, una coppia con tre figli arrivata dal Chad dopo 6 anni di missione, e da me. Loro vivevano in parrocchia, io nella mia comunità e il parroco in un appartamento nel quartiere.

L’ho vissuta fino al 2006, quando sono partita per un anno in Colombia. Al mio rientro nel 2007, sono andata a Torino, e ho ripreso l’attività con le famiglie, anche se più legata alla spiritualità ignaziana. Insieme ad alcune coppie, ci siamo resi conto che è necessaria una certa cura del cammino a due, allora ho sviluppato un po’ questo aspetto: affiancare le famiglie e sostenerle in un percorso di spiritualità coniugale. Credo molto in quello che dice l’Amoris Laetitia (31): “Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa”.

Infine, nel 2012, sono tornata a Quarto Oggiaro».

Che ruolo hai nel gruppo delle Famiglie a km0?

«Sono stata coinvolta per la mia esperienza con le famiglie e perché la spiritualità ignaziana offre degli strumenti concreti: gli esercizi spirituali, una disciplina e un metodo di preghiera, un metodo per il discernimento e per le scelte.

Io non ho un ruolo specifico. Quando il gruppo ha iniziato a organizzarsi, mi sono stati chiesti degli incontri di formazione spirituale. Dopo di che ho iniziato a visitare alcune famiglie a fare telefonate, visite, confronti, in una modalità molto relazionale. L’idea è di prendersi cura l’uno dell’altro e di sensibilizzarsi reciprocamente su questa cura».

E che ruolo hanno, invece, le Famiglie missionarie a km0 nella Chiesa?

«Secondo me hanno un ruolo profetico. Entrare in una canonica e non trovarti la classica segretaria o il parroco, ma un bambino che ti chiede se giochi con lui, rivoluziona l’idea della parrocchia: offre un’immagine di semplicità, di vita quotidiana, di una chiesa a misura di pannolino, direi.

Oggi la parrocchia rischia di essere un luogo in cui si fanno delle cose, mentre è importante che sia vissuta come luogo di fraternità dove si sperimentano delle relazioni, poi si fanno anche delle cose, ma in funzione di una relazione che sia la più ampia, accogliente, aperta possibile».

La fraternità con sacerdoti o religiosi è un punto centrale per tutte le Famiglie missionarie a km0?

«Sì, però le modalità dipendono dalle situazioni: dai lavori della coppia, dalla disponibilità di tempo, dall’età dei figli, dal tipo di sacerdote. Non c’è un cliché. Un momento di preghiera insieme e uno di scambio su come va, c’è sempre. Per chi è implicato nella pastorale, lo scambio avviene anche su dove stiamo andando, cosa stiamo facendo, cosa aiuta di più la parrocchia. Ma non è detto che tutte le famiglie siano coinvolte nella pastorale allo stesso modo».

Quali sono i punti di forza di quest’esperienza per la famiglia, la parrocchia, il quartiere?

«Il punto di forza per la famiglia è la possibilità di non chiudersi in sé, nei propri problemi, nella gestione faticosa della quotidianità, di aprirsi ad altri e di coltivare un orizzonte spirituale più ampio. Perché quando sei continuamente sollecitato dagli altri, ti devi rinnovare nella motivazione che ti abita. Questo è anche il punto di fragilità, perché, a volte, essere troppo sollecitati può creare disguidi. È necessario cercare un equilibrio sempre nuovo.

Anche la comunità parrocchiale e il territorio ne hanno un beneficio, perché iniziano a vedere un volto diverso di Chiesa, la possibilità di confrontarsi con una fede più semplice, vissuta. Non è tanto una fede parlata, è una presenza accogliente.

L’altra cosa bella, per me, è che alcune Famiglie missionarie a km0 prendono contatti con altre diocesi, altre regioni, altri paesi, ad esempio la Francia, dove ci sono realtà simili: è come stare dentro un laboratorio continuo. Tutto questo crea una grande circolazione d’idee ed esperienze. Per esempio, alcuni da Milano sono andati qualche tempo fa a Padova a conoscere una comunità di famiglie ignaziane. Conoscere altri territori e stili è arricchente, dà molto entusiasmo ed è un modo per sostenersi a vivere una vita evangelica».

Il gruppo di famiglie della diocesi di Milano può aiutare altre esperienze a emergere?

«Ci sono diverse esperienze di famiglie che sperimentano fraternità differenti ma non si conoscevano tra di loro e non provengono da organizzazioni già costituite nelle diocesi. Adesso che con i convegni tenuti ogni due anni a Milano, con le trasmissioni televisive, i giornali, si inizia a vedere che c’è una realtà lombarda consistente, allora le altre realtà più isolate incominciano a venire fuori e a chiedere un confronto. Ne ho conosciute in Puglia, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Umbria, Toscana, in Sicilia… Alcune realtà iniziano a confrontarsi con le proprie diocesi. Alcune diocesi non hanno le realtà ma i vescovi vorrebbero.

C’è un grande movimento e una grande curiosità. È un’esperienza portatrice di grande fermento.

Dove porterà non lo so. Don Luca Bressan dice, e io condivido, che dobbiamo lasciare che la cosa cresca, sostenerla con delicatezza, lasciando che le persone trovino il proprio spazio, senza codificare troppo, perché altrimenti si spegne lo spirito.

È necessaria una grande attenzione. Ed è per questo che ci sono molte telefonate: come stai? Come sta quella coppia? La vai a trovare tu, o vado io?».

È bella questa sinergia tra vocazioni differenti.

«Io credo molto nel sostegno tra vocazioni diverse. Indirettamente queste famiglie sostengono me nella scelta che ho fatto e, per quel che sono capace, a mia volta offro un sostegno, una presenza.

Io credo che la Chiesa possa essere solo così. Non può esserci una Chiesa di separati, in cui i religiosi sono da una parte, le famiglie sono dall’altra e ognuno sta chiuso nella propria casa o convento.

Mi piace la possibilità di mostrare un volto di chiesa diverso, il cui la suora, ad esempio, lavora come tutti, dà una mano in cucina se serve, può accompagnare i bambini al bagno e guardare i cartoni animati con loro. È considerata una persona come le altre. Questo è uno stile che vivo anche con la rete delle famiglie ignaziane da anni.

Lavorare per questo ideale e per questa mescolanza a me dà una grande gioia. Poi non so come andrà e chi tirerà le fila di tutto, ma anche questo a me dà una grande gioia e libertà: provo a lavorare, e poi tutto è nelle mani di Qualcun altro».

Questa esperienza è uno dei frutti che il Vaticano II continua ancora oggi a far nascere?

«Per me è un’esperienza a contagio. Sono arrivati dei missionari che hanno fatto esperienza di missione, e hanno iniziato a contagiare. È l’esperienza della semplicità che tu sperimenti solo in missione, con i più poveri, che a un certo punto trasforma la tua vita e non riesci più a vivere diversamente.

Io la vivo così, non tanto pensando ai documenti della Chiesa. Certamente è uno sviluppo del Vaticano II, certamente è in linea con il pontificato di papa Francesco e con tutti i documenti che lui ha scritto, perché uno dei punti cardine di questa esperienza è diffondere la gioia del Vangelo. Cioè far vedere che a essere cristiani si è felici, si è contenti, pur essendo incasinati. Perché i casini non li risparmia a nessuno la vita. Ma li vivi in un altro tipo di serenità, perché sai di chi sei, a chi appartieni e chi vuoi passare, chi vuoi trasmettere».

Luca Lorusso




Missione è Gioia

Testimonianze di missionari e missionarie della Consolata

A cura di Gigi Anataloni – foto Archivio fotografico MC


Nel mese missionario straordinario.
La gioia della Missione

Stefania Raspo: Bolivia – Per sempre con la mia gente.
Accanto ai «rifugiati climatici».

Nicholas Muthoka: Italia – missione in barriera a Torino.
Camminare in mezzo alle «due città».

Mary Agnes Njeri Mwangi: dal Kenya a Roraima.
Respiri di cuore missionario.

Giorgio Marengo: Mongolia – sotto i cieli infiniti
Sussurrare il Vangelo.

José Luis Ponce de Leon: Eswatini – Missionario e vescovo.
Arrivare senza farsi annunciare.

Ramón Lázaro Esnaola: Costa d’Avorio – missionario oggi è
Essere itinerante per il Vangelo.

Rinaldo Do: Dalla Valle Camonica al cuore della RD Congo.
A servizio della pace in realtà di guerra.

Angelo Casadei: Caquetà – nel posto più bello del mondo.
La missione ti cambia e ti fa camminare.

Sandra Garay: dall’Argentina alla Mongolia
Dio è al cuore della missione.

Hanno firmato questo Dossier

 

La semplice gioia dei cristiani di Luacano, in Angola, che vedono il ritorno dei missionari dopo troppi anni di guerra e abbandono.

Nel mese missionario straordinario

La gioia della Missione

«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (EG).

Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 (EG), la scelta di papa Bergoglio appare chiarissima: l’insistenza sulla gioia. Il termine ricorre 59 volte, ha il carattere del «lieto annuncio» che dà vita alla Chiesa, e costituisce il contenuto di ogni azione evangelizzatrice (vecchia o nuova). Intende cioè riconnettere la Chiesa con l’esperienza fondamentale da cui ha origine, quella della Pasqua.

Difficile immaginare una comunità in uno smarrimento più profondo di quella dei discepoli due giorni dopo la morte di Gesù in croce. Impossibile immaginare una gioia più grande di quella provata scoprendolo risorto. Una gioia che fa persino paura, ma che mette le ali ai piedi perché venga annunciata. Se non si riprende oggi contatto con questa esperienza sorgiva e non se ne apre l’accesso a coloro ai quali ci si rivolge, qualunque iniziativa di evangelizzazione rimarrà nell’ambito delle tecniche di comunicazione pastorale, senza incidere davvero nella vita delle persone. Per questo la scelta della gioia come filo conduttore è pertinente al tema del Sinodo per l’Amazzonia.

Certo, la Chiesa tutta intera si fonda sull’esperienza pasquale, ma un conto è saperlo, un conto è metterlo in pratica. È quindi particolarmente efficace il suggerimento di Francesco che indica la gioia del Vangelo come criterio di verifica di quanto si vive. Questo vale a livello individuale, ma anche per la Chiesa nel suo insieme: il papa ce lo ricorda, con espressioni tanto sorprendenti quanto inusuali, nei paragrafi di EG dedicati a «Il piacere spirituale di essere popolo» (nn. 268-274).

Bisogna chiarire subito, a scanso di facili equivoci, lo spessore della gioia di cui egli parla: non un sentimento superficiale ed effimero di euforia o piacevolezza, è piuttosto l’atteggiamento di chi sa che la sofferenza e la morte esistono, ma li ha attraversati sperimentando che la vita è più forte. Il papa fa alcuni esempi presi dalla sua esperienza: «Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente, generoso e semplice». Qui ognuno è invitato a introdurre le proprie esperienze personali: stupisce sempre vedere persone che nelle situazioni più difficili e impensabili riescono ad accogliere, affrontare e vivere in profondità quello che sono.

Il contrario di questa gioia non è il dolore, ma «una cronica scontentezza», «un’accidia che inaridisce l’anima», un «cuore stanco di lottare» che «non ha più grinta» (n. 277 passim). Questa tristezza avvelena la vita di molte persone e soprattutto è agli antipodi di quello che Dio desidera per ogni uomo. Aver gustato la vera gioia, che è il contenuto più profondo dell’esperienza di fede, permette di smascherare l’insoddisfazione profonda di ogni chiusura in se stessi, per quanto sembri a prima vista confortevole.

Da questo punto di vista, il messaggio dell’esortazione riposa su una verità fondamentale della fede cristiana, spesso ripetuta, ma ancor più spesso incompresa o presa poco sul serio, quando non addirittura temuta per il suo carattere insopprimibilmente rivoluzionario: Dio vuole la gioia e la felicità dell’uomo, e la vuole per tutti. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore» (n. 3). Ciò richiede effettivamente un atto di fede che sfida tante consuetudini e convinzioni profonde, per lo più implicite, in particolare nel nostro disincantato mondo postmoderno.

Ma senza questa fede, qualunque annuncio evangelizzatore suonerà falso e mancherà di attrattiva. Per questo Francesco non teme di ricordare che proprio coloro che hanno la missione di evangelizzare sono i primi a rischiare di non vivere l’Evangelii gaudium. Il capitolo sulle «Tentazioni degli operatori pastorali» (nn. 76-109) è molto concreto nel dare indicazioni in questa direzione, sempre nel registro del sostegno e dell’accompagnamento spirituale.

Stefano Camerlengo,
superiore generale dei missionari della Consolata

Condividiamo in queste pagine la gioia della missione attraverso alcune testimonianze di missionari e missionarie che abbiamo un po’ obbligato a uscire dal loro riserbo.
Il missionario non è un supereroe, ma una persona normale che per amore «si mette in movimento, è spinto fuori da se stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita».
(dal messaggio di papa Francesco per la GMM 2019)


Stefania Raspo: Bolivia – Per sempre con la mia gente

Accanto ai «rifugiati climatici»

Suor Stefania Raspo, piemontese, classe 1977. È entrata tra le missionarie della Consolata nel 2001. Ha fatto la sua prima professione nel 2008. Dopo gli studi teologici a Roma, è stata destinata alla missione della Bolivia, dove vive dal 2013 con il popolo quechua.

Basilio è un personaggio un po’ speciale in Vilacaya. Quando ci trova per strada esprime sempre tutta la stima che nutre per le hermanitas (sorelline). Ma è interessante come questo uomo semplice ha interpretato la mia professione perpetua, che si è tenuta nel paesino andino il giorno della Consolata del 2016.

«Tu, hermanita Stefania», mi dice spesso, «hai voluto essere hermanita per sempre in Vilacaya». Se da una parte mi fa sorridere che Basilio abbia unito l’aggettivo «perpetua» con la mia presenza in Vilacaya, dall’altra è il più bell’augurio che mi si possa fare: poter vivere tutta la mia vita missionaria con la mia gente contadina di lingua quechua.

Sì, perché nella vocazione missionaria si mette l’accento sull’andare, ma il restare è una parte fondamentale. È vero che ho viaggiato molto e ho vissuto in vari paesi (dapprima il Brasile per il noviziato, quindi l’Argentina e poi la Bolivia). È vero che c’è tutto lo sforzo del mettere radici in una realtà, entrare in una nuova cultura e società, così come c’è l’altra faccia della moneta: il dolore dello sradicarsi per andare altrove. Il restare è la cosa più bella ed arricchente. E non è scontato. Alle volte, in quanto missionari e missionarie, non disdegniamo un certo nomadismo che non ci lascia affondare le radici in un luogo, qualunque esso sia.

Sono ormai 7 anni che vivo in Vilacaya (Bolivia), un piccolo villaggio contadino che ha mantenuto molte tradizioni millenarie del popolo andino. La gente parla quechua ed io, purtroppo, non lo domino ancora, anche se lo capisco abbastanza. Ci hanno accolte a braccia aperte, quando abbiamo aperto la comunità nel 2013, e continuano ad accoglierci e a volerci bene.

Il popolo nativo quechua di Vilacaya mi ha permesso di recuperare valori che un po’ avevo messo da parte: l’accoglienza e il saper condividere (se arriva un ospite inatteso, c’è sempre un piatto di cibo per lui), il saper chiedere permesso, perdono e il dire grazie alla Madre Terra, con cui si vive una relazione vitale. Una spiritualità semplice però profondissima. Il sapermi «sprogrammare» e accogliere il giorno così come viene, senza chiudermi in orari e tabelle di marcia.

La gente di Vilacaya (e in generale della regione di Potosì) è una vittima del cambio climatico: la desertificazione avanza, l’imprevedibilità del clima rende quasi impossibile l’agricoltura. La conseguenza è la migrazione e lo spopolamento. Ormai ci sono poche famiglie giovani, la maggior parte sono anziani o ragazzi fino ai 18 anni. Questi, finite le superiori, si mettono in marcia anche loro per cercare un’altra possibilità di vita nelle città, o all’estero. Ci ritroviamo accanto ai poveri, ai «rifugiati climatici» come dice la Laudato Si’. Quelli che pagano più degli altri le follie di un clima impazzito, alla mercé delle grandinate devastatrici, delle gelate fuori stagione, che ormai da 4 anni non danno un raccolto soddisfacente. I peccati contro la natura hanno ripercussioni forti sui poveri.

Ma se c’è una cosa che ho sperimentato in Vilacaya, è dove sta Dio: al fianco del povero. L’ho visto, l’ho sentito: lui è lì, perché i poveri sono i suoi preferiti. Allora lo stare qui è anche una profonda esperienza di Dio.

Rimane l’impegno di saperlo annunciare, con la vita e con le parole. Un Dio Amore, che non è responsabile delle pazzie del clima, come forse la visione indigena tende a credere. Un Dio che piange per i colpi inferti alla Pachamama (la Madre Terra) e si china a consolare i suoi figli. Anche attraverso di me.

Suor Stefania Raspo, mc


Nicholas Muthoka: Italia – missione in barriera a Torino

Padre Nicholas Muthoka alla Professione perpetua di Fumo Célio Joao.

Camminare in mezzo alle «due città»

Padre Nicholas Muthoka Nyamasyo, nato in Kenya nel 1981, ordinato sacerdote nel 2011, è stato responsabile del Centro di animazione missionaria in Torino e dal 2013 è nella parrocchia Maria Speranza Nostra in Barriera di Milano, quartiere multietnico di Torino, dove ora è parroco.

Al calar del sole, le strade di «barriera», quartiere Nord di Torino, si riempiono di giovani e giovani adulti in cerca di svago e anche di un po’ di soldi: chi beve sulla strada, chi chiacchiera, chi spaccia, chi si prostituisce. È un mix di gente «di ogni tribù, lingua, popolo e nazione», stavolta non radunati sul monte Sion per il banchetto di «grasse vivande, cibi succulenti e di vini raffinati» (Isaia 25,6), ma per sopravvivere. Ognuno risponde alle domande della vita a modo suo. Spesso sono storie di vita e situazioni molto difficili e depravate, tra droga, microcriminalità e miseria. E il missionario cammina in mezzo a loro salutando e facendo due chiacchiere. Anche lì c’è bisogno di salvezza, della parola buona e salvatrice di Gesù. In fondo «quei ragazzi all’angolo della strada» hanno la stessa umanità, le stesse domande, gli stessi sogni di tutti.

La percentuale dei migranti residenti nel quartiere tocca il 35%, tra disagio, povertà e disoccupazione. Tra di essi, c’è un alto numero di non cristiani: gente di altra fede, quelli che si sono allontanati dalla fede, gli agnostici e gli atei.

C’è un’altra umanità però, quella che cammina sulle strade di barriera durante il giorno. Per andare a scuola, al lavoro, al bar, a far la spesa, a messa, ecc. Un’umanità, anche questa, angosciata, affannata e distratta per le faccende della vita. Anche qui, c’è un po’ di tutto: precarietà lavorativa, solitudini, soprattutto quelle dei giovani e degli anziani, rapporti difficili nelle famiglie tra divorzi, separazioni e violenza… insomma, «due città», come le chiama l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, ambedue bisognose di salvezza.

In mezzo a tutta questa umanità, c’è lo svettante campanile di rame che troneggia: ogni ora batte come per ricordare di guardare in alto. È la chiesa, la parrocchia, con tante attività e proposte, rivolte a tutti indistintamente. Un cortile d’oratorio di medie dimensioni che spesso si presenta colorato di bambini, ragazzi, adulti e anziani, e anche questa volta «di ogni lingua, tribù, popolo e nazione». Un’altra città in mezzo alle altre due? Una mediazione tra le due?

Cosa significa la missione in quest’angolo della città di Torino, dove in 2 km2 vivono/convivono quasi 19mila abitanti?

Quasi il 30% della gente è coinvolta, in un modo o nell’altro nella vita della parrocchia, tra catechesi, carità, liturgia, giovani, il sociale.

Cos’è la missione per me in questo contesto dinamico, bello e complesso? Me lo chiedo spesso.

È camminare in mezzo agli uomini e alle donne, raccogliere le lacrime di gioia e di dolore, e depositarle sull’altare di Cristo. È ascoltare le intime speranze dei giovani e la realtà spesso dura degli adulti e cercare di illuminarle con la Parola di Cristo. È accompagnare le ginocchia vacillanti degli anziani, cercando di individuare insieme a loro il senso delle fatiche dei loro giorni e rallegrare la loro solitudine.

La missione è aprire la porta a chi bussa in cerca di un «porto sicuro»: il viandante senza casa, il povero senza riscaldamento nei duri inverni, il disperato in cerca di una buona parola.

La missione è anche la fatica di tenere insieme un tessuto sociale che rischia di strapparsi, cercando di creare un clima umano in un contesto difficile di contrapposizioni e pregiudizi tra etnie e individui attraverso iniziative che facciano risplendere la bellezza di ogni persona e di ogni popolo.

Tutto questo è annuncio della potenza della grazia di Cristo e della sua opera redentrice. Far apprezzare ai non cristiani e ai «lontani» l’amore di Cristo e la bellezza della sua famiglia, la Chiesa. Naturalmente, sostenere il cammino dei fedeli cattolici nella ricerca del volto di Dio attraverso i sacramenti, le celebrazioni liturgiche e l’ascolto della Parola, fa parte dell’impegno di ogni buon parroco e viceparroco. Infatti, è propedeutico alla missione la formazione e accompagnamento di una comunità cristiana bella e forte, un laicato che assuma anch’esso la missione dell’annuncio, per far brillare il volto bello di Cristo in mezzo agli uomini e alle donne di questo pezzettino di mondo.

Padre Nicholas Muthoka


Mary Agnes Njeri Mwangi: dal Kenya a Roraima

Respiri di cuore missionario

Suor Mary Agnes Njeri Mwangi, è missionaria della Consolata nata in Kenya. È in Roraima dal 2000, da allora presta il suo servizio nella missione del Catrimani. Vedi l’intervista «Attorno al fuoco nella casa comune» in MC 3/2019.

Arrivai a Boa Vista, in Roraima, all’estremo Nord del Brasile, nell’anno 2000, anno del giubileo. Mi sentivo una missionaria del terzo millennio, disposta a tutto per esserela ad gentes (tra le genti) e tra la gente.
Finalmente tutto quello che sognavo quando in Kenya mi ero sentita chiamata a essere missionaria della Consolata, diventava vero.
Essere missionaria nel contesto della chiesa locale di Roraima, era una grande sfida.

La lotta per i diritti e la vita dei popoli indigeni, per l’omologazione della terra indigena della Raposa Serra do Sol (ottenuta finalmente nel 2005), e l’impegno per migliorare i servizi per la salute («perché abbiano la vita, e la vita in abbondanza») specialmente per gli Yanomami, richiedevano tanto lavoro, tenacia e creatività da parte delle suore, per lanciarsi verso orizzonti di missione più ampi. E per me, le sfide che vivevo si trasformavano in domande, tante domande, aggiunte a quella più significativa che il nostro padre fondatore ci esortava a farci sempre: «Ad quid venisti?» (per quale motivo sei venuta qui?).

Con gratitudine ricordo suor Aquilina Fumagalli, arrivata a Boa Vista nel 1950, e suor Leonilde Dal Pos, nel 1953. Le due sorelle, nel tentativo di rispondere alle mie domande, mi hanno trasmesso il respiro del loro cuore missionario maturato insieme al popolo amazzonico. Le loro condivisioni animavano e sviluppavano in me la speranza.

Così, quando, appena arrivata, condividevo con loro qualche problema di relazione con la gente, suor Aquilina mi rispondeva sorridendo che non c’era niente di nuovo. Anche lei e le altre suore, all’inizio, dopo che erano appena andati via sia i benedettini che le benedettine, avevano sperimentato accoglienza e rifiuto. «L’unico mezzo che avevamo a disposizione (per vincere i cuori) era la carità».

E suor Leonilde, una suora di età avanzata e fragile, ma molto serena e gioiosa, mi spiegava come era riuscita a incarnarsi in questa realtà così difficile e complessa. Ricordava che i primi tempi aveva sofferto molto, soprattutto a causa della scarsità e della qualità del cibo, ma «davanti alle difficoltà non ho mai pensato di ritornare in Italia, perché il mio obiettivo era morire in terra di missione. Ho preferito rimanere qui, visto che c’erano tutte le opportunità per formarmi alla santità, che è lo scopo finale della vita di ogni missionaria della Consolata».

Grazie a loro mi sono inserita nella realtà dei popoli dell’Amazzonia brasiliana. Certo che quando le cose vanno bene e si vivono momenti di allegria e di consolazione è più facile essere una missionaria che annuncia la gloria di Dio incarnata, ma è il modo nel quale si vivono i momenti di scoraggiamento, dolore e fatica, che è determinante nella vita e nella missione.

Suor Leonilde mi insegnava a cercare parole di forza e ripeteva molte frasi significative. «Dio non si ripete mai nelle sue opere. Si comunica per mezzo di persone, e ogni persona ha qualcosa da seminare. Dobbiamo essere vigilanti per cogliere la grazia di Dio. Essere umili. Al tempo opportuno Dio si rivela. Per chi non sta attento invece il tempo fugge».

I 19 anni che ho trascorso finora in Amazzonia, sono di vita donata. Condividendo, ho imparato – e lo credo fortemente – che il cammino più lungo comincia sempre con un primo passo, e alle volte il primo passo è fare una domanda.

Suor Mary Agnes


Giorgio Marengo: Mongolia – sotto i cieli infiniti

Sussurrare il Vangelo

Padre Giorgio Marengo. Nato a Cuneo nel 1974, dopo il liceo classico a Torino è entrato nei missionari della Consolata. A Roma per la formazione teologica, è stato ordinato sacerdote nel 2001. Assegnato al primo gruppo diretto in Mongolia, nel 2003 ha raggiunto la sua destinazione insieme a un confratello e a tre consorelle.

Dal 2006 vive in una zona rurale a 430 km dalla capitale (Ulaanbaatar), dove in questi anni è nata una piccola comunità cristiana di cui è parroco, condividendone la responsabilità con gli altri missionari e missionarie con i quali vive. Nel 2016 ha conseguito il dottorato in missiologia alla Pontificia università urbaniana con una ricerca sull’evangelizzazione in Mongolia. Segue i primi passi di un piccolo centro per il dialogo interreligioso e la ricerca culturale che i missionari e le missionarie della Consolata hanno avviato a Kharkhorin, l’antica capitale dell’impero mongolo.

Per me essere missionario è aiutare le persone a incontrare Cristo, in particolare quelle persone che vivono in situazioni nelle quali tale incontro è obiettivamente difficile, a motivo dell’assenza della Chiesa o di una sua presenza limitata e parziale. Questo è ciò che la Chiesa chiama missione ad gentes ed è la nostra vocazione di missionari della Consolata, quella di offrire la vita a Cristo per la prima evangelizzazione laddove non ci sono altri cristiani a poterlo fare.

La Mongolia è una delle situazioni esistenziali dove – per vari motivi storico culturali – Cristo è ancora poco conosciuto. Essere al servizio di questo incontro è per me il dono più grande e ringrazio tanto il Signore di poter vivere in prima persona questa vocazione. Certamente questo è un mistero che ci supera e ci avvolge, ma è anche molto concreto, perché se Dio per raggiungerci ha scelto di farsi uomo, l’incontro con lui passa ancor oggi attraverso la nostra umanità. Questo secondo me è il cuore della missione. Tutto il resto è subordinato e finalizzato a questo cuore. Anche la promozione umana, che da sempre accompagna l’azione evangelizzatrice della Chiesa, si comprende alla luce di questo amore più grande e di questo desiderio che le persone incontrino concretamente la misericordia di Dio in Cristo.

Il nostro specifico, come missionari, è proprio offrire la possibilità di instaurare un rapporto personale ed ecclesiale con il Risorto. Non in forza di una qualche strategia di espansione o attraverso un’azione di convincimento simil-pubblicitario, ma come puro dono, in continuità con quanto i cristiani hanno sempre fatto: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo dò», diceva san Pietro (Cfr. At 3,6). E quel dono da lui offerto era precisamente il nome di Gesù Cristo, cioè la fede in Lui.

Questa è la nostra chiamata. Mi pare evidente che noi missionari dovremmo essere trasfigurati in prima persona dall’incontro con Cristo: non si può favorire l’incontro con una persona che noi stessi non frequentiamo. La fede non si comunica come un oggetto qualunque, si può solo contribuire a generarla, mettendo in conto anche il rifiuto. Per questo la missione non è la diffusione di un’idea, ma ha a che fare con la gestazione di una vita. Essa richiede una profonda conversione innanzitutto in noi missionari. Se il Vangelo non ci attraversa profondamente è difficile che riusciamo a condividerlo. Essere missionari è innanzitutto lasciarsi raggiungere personalmente dal Vangelo stesso, facendoci plasmare da esso; allora sì, questa luce si effonderà intorno a noi. E lo farà attraverso quella moltitudine di coinvolgimenti che da sempre caratterizza la vita del missionario: la carità, il dialogo interreligioso, la ricerca culturale, lo studio, l’accompagnamento nel cammino di fede. Proprio come succede qui in Mongolia, dove tentiamo di «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia».

Padre Giorgio Marengo


José Luis Ponce de Leon: Eswatini – Missionario e vescovo

Arrivare senza farsi annunciare

Mons. José Luis Gerardo Ponce de León. È nato in Argentina, a Buenos Aires, nel 1961, dove ha conosciuto i missionari della Consolata. Dopo la formazione di base nel suo paese e in Colombia, è stato ordinato sacerdote nel 1986. Tornato in Argentina per alcuni anni di animazione missionaria, nel 1994 è stato mandato in Sud Africa, dove, nel 2009, è diventato vescovo di Ingwuavuma (ai confini con il Mozambico) e poi vescovo di Manzini in quello che un tempo era lo Swaziland e oggi è lo Eswatini.

Vescovo da 10 anni. In due nazioni diverse: Sud Africa prima e, da cinque anni, nel Regno di Eswatini, ex Swaziland. In tutti e due i posti sono partito allo stesso modo. Non conoscevo la zona che mi era stata affidata e così ho deciso di visitare ogni singola comunità, piccola (piccolissima) o grande. Qui, in Eswatini, ce ne sono 120. Arrivavo senza farmi annunciare. Non volevo che la gente fosse lì «per il vescovo» ma per il giorno del Signore (la domenica).

Non è stato semplice che loro accettassero questo «mio» modo di farmi presente, perché avrebbero voluto potermi accogliere diversamente, ma… non hanno avuto scelta. L’impatto è stato forte perché in diversi posti era la prima volta che vedevano il vescovo fra di loro. «Oggi noi siamo la cattedrale», dicevano con un grande sorriso.

C’è stato qualche posto dove sono stati contenti di vedere un volto nuovo ma non avevano idea che fosse proprio il loro vescovo a essere fra di loro.

La missione è sempre un andare all’incontro dell’altro e, in modo particolare, all’incontro di colui/colei che non si sente degno di tale visita. Infatti, il mio motto episcopale (diventato «saluto» nella diocesi) è: «La Parola si è fatta carne» (Gv 1:14), espressione di quel Dio venuto al nostro incontro nella nostra fragilità.

Di questo incontro nella fragilità la diocesi è testimone con delle iniziative che sono uniche in questa nazione.

Eswatini è la nazione con la percentuale più alta al mondo di malati di Aids. Da quasi 20 anni, la diocesi porta avanti una casa di cura per adulti e bambini. Nata nei tempi nei quali l’Aids era una sentenza di morte, ha accompagnato tanti all’incontro con il Padre. Oggi, invece, è il posto dove ritrovano la loro dignità per poter tornare a casa. La sfida è farli tornare in case nelle quali non si sono mai trovati bene come da noi. La cura dei disabili (bambini, giovani e adulti) è un’altra espressione di questo amore che innalza. Qualche settimana fa è stato consegnato un riconoscimento a un missionario Servo di Maria che 50 anni fa aveva introdotto il braille per l’educazione di coloro che hanno difficoltà con la vista (visullay challenged). Lui, morto qualche anno fa, mi diceva sempre: «Sono riuscito a fare tanto per i disabili ma non sono riuscito a cambiare il modo nel quale le loro famiglie e la società li guarda». Per questo i nostri centri sono diventati espressione dell’amore del Padre.

Ma anche la realtà dei rifugiati è una chiamata a guardare al di là del nostro piccolo mondo nel quale abbiamo la tentazione di rimanere chiusi. Da tanti anni la Caritas Swaziland guida, come soggetto che attualizza gli accordi tra il governo e l’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), il centro di rifugiati nato al tempo della guerra civile in Mozambico. Oggi sono famiglie (marito, moglie e diversi figli) che arrivano dalla regione dei grandi laghi (Rwanda, Burundi, Congo). Attraversano tutto il continente con il sogno di un futuro diverso. In risposta all’appello di papa Francesco, e per iniziativa dei laici della diocesi, tutte le parrocchie convergono una volta all’anno nella cattedrale per la celebrazione della messa e per portare i loro doni.

La missione è tutto questo… cultura dell’incontro, aprire gli occhi, imparare a vedere, amore gratuito e sempre la buona notizia di Gesù che ci dà vita in abbondanza.

Luis Ponce de Léon, vescovo


Ramón Lázaro Esnaola: Costa d’Avorio – missionario oggi è

Essere itinerante per il Vangelo

Padre Ramón Lázaro Esnaola. Nato nel 1967 in Spagna, nel 1997 è stato ordinato prete a Zaragoza. Nei primi tre anni di ministero è stato destinato in Spagna all’animazione missionaria e vocazionale, alla formazione di base e alla pastorale con le persone migranti. Nel 2001 ha cominciato la sua Odissea nello spazio – come la chiama lui – ed è arrivato in Costa d’Avorio. Dal 2008 al 2012 è stato incaricato della formazione di base nella RD Congo. Poi è tornato in Costa d’Avorio fino a oggi. Quando leggerete queste righe avrà appena cominciato una nuova tappa di vita in Messico (vedi lettera).

Il missionario d’oggi ha una forte esperienza personale di Dio. Conosce Dio ed è conosciuto da Lui. Ha un rapporto quotidiano con Lui secondo il momento che sta vivendo. A volte questa relazione sarà più profonda, a volte più superficiale, a volte più biblica, a volte secondo il vissuto. La cosa più importante è la perseveranza in questa relazione. Non abbandonare Dio ma abbandonarsi a Lui per vivere la vera gioia. Sono convinto che questa relazione ha mantenuto la mia passione per la missione ad gentes, per la costruzione della fraternità, la mia passione per i poveri e la mia voglia d’ascoltare le persone ed essere vicino a loro.

Il missionario d’oggi ama il popolo al quale è inviato. S’informa, studia la storia, ascolta la musica, guarda il cinema. In definitiva, cerca d’impregnarsi della cultura che l’accoglie. Tutta questa scoperta oggi è molto più facile grazie a internet perché tutto è alla portata d’un click. L’amore nasce dalla conoscenza, dal capire, dal comprendere. L’amore è anche critico e scopre le rotture che provoca il Vangelo. Il missionario oggi cerca di cogliere il momento culturale che vive il paese dal quale è accolto per riuscire davvero a diventare parte di quel mondo senza essere perpetuo forestiero.

Il missionario d’oggi è un esperto comunicatore e accompagnatore. Deve imparare a comunicare la Parola di Dio non solo nelle omelie ma anche attraverso le relazioni sociali e i media. Deve avere la pedagogia per comunicare la Buona Novella, non la Buona Vecchiaia. È una persona creativa.

Le persone che hanno sete di Dio, hanno anche sete di una parola che sia davvero come quella di Gesù. Una parola che dà speranza, che apre orizzonti, che propone, che invita, che accompagna. Accanto a questo, il missionario d’oggi è un buon accompagnatore nella vita. È una persona facile all’empatia, accetta senza condizioni l’altro ed è una persona autentica, cerca di vivere onestamente la propria vocazione.

Il missionario d’oggi è un artista della fraternità. Un artigiano della comunione. Un appassionato della vita comunitaria e delle relazioni interpersonali. La comunità è il microcosmo del Regno di Dio. Un’utopia. Un luogo liberato dove il perdono, la festa, la gioia e il discernimento sono costanti.

Abbiamo bisogno di referenti e di una comunità unita nella diversità: è un segno contro culturale nel nostro mondo che tende verso l’uniformità.

Il missionario d’oggi agisce con fermezza. Appassionato della riconciliazione, della pace, della giustizia, dell’ecologia e della diversità, cerca di costruire un mondo degno per i più poveri e un mondo migliore per tutti. Quello che si chiamava «la pastorale» non è più un tempo dedicato agli altri, perché, come dice papa Francesco, «siamo missione, non facciamo la missione».

Padre Ramón Lázaro Esnaola


Rinaldo Do: Dalla Valle Camonica al cuore della RD Congo

A servizio della pace in realtà di guerra

Padre Rinaldo Do. Nato a Darfo (Bs) nel 1956, dopo il seminario minore ecco le sue tappe principali: 1975-78 filosofia prima a Torino e poi a Sassuolo (Re), lavorando anche quattro ore al giorno in una fabbrica di piastrelle; 1978-79 noviziato in Certosa Pesio (Cn); 1979-80 anno di servizio nel seminario di Rovereto (Tn); 1980-82 teologia a Madrid (Spagna) e 1982-84 licenza in Missionologia. Ordinato nel 1984 a Boario, è stato animatore in Spagna fino al 1990 e dal 1991 al 2005 è stato missionario nell’Alto Zaire (RD Congo). Nel 2006-08 è rientrato in Italia per l’animazione missionaria e poi è tornato in RD Congo, prima a Kinshasa e dal 2014 a Neisu.

«No, Rinaldo no! È troppo birichino!». Queste le parole del mio parroco, don Ilario, a p. Antonio Lasaponara quando lo saluto e gli dico che voglio essere missionario, entrando nel seminario di Bevera (Lecco, allora Como).
Eravamo nel 1965 quando i missionari passavano facilmente nelle scuole della Valle Camonica per animare ragazzi e giovani alla missione.

Fin da piccolo mi piaceva ascoltare suore e preti missionari che ci entusiasmavano ad avere un cuore grande e generoso.

Sono cresciuto in una famiglia normale e operaia, un po’ troppo birbantello (aveva ragione don Ilario) ma, penso, con cuore buono.

Diventato prete nel 1984, non per le mie capacità, ma per bontà di Dio, ho vissuto 6 anni a Malaga e poi dal 1991 in Congo.

Gli anni in Congo sono stati belli anche se preoccupanti; difficili, ma ricchi di amore, di fede, di preghiera e di tanti esempi ricevuti dalla mia gente.

Dalle periferie immense di Kinshasa alla savana di Doruma e alle foreste di Neisu, gli anni sono passati velocemente e mi hanno fatto maturare.

Essere missionario oggi in Congo non è facile. Voglio continuare a essere segno di consolazione infondendo coraggio, togliendo paure, evidenziando nel discernimento i valori della cultura ngbetu (del popolo Mangbetu), annunciando così che Dio che abbiamo conosciuto in Gesù ha un progetto di amore e di fraternità per tutta l’umanità.

Purtroppo, siamo ancora lontani da questo progetto di amore, sono troppe le guerre, lo sfruttamento, le ingiustizie, le divisioni tra i popoli e le culture… per questo vale la pena di donare la vita per essere missionario.

Viva la Consolata, viva il Congo, viva tanta gente dal cuore buono che, con me e con tanti altri missionari, è missionaria!

Padre Rinaldo Do


Angelo Casadei: Caquetà – nel posto più bello del mondo

La missione ti cambia e ti fa camminare

Padre Angelo Casadei. È di Gambettola (Fc), classe 1963. La sua famiglia da sempre profondamente cristiana ha trasmesso ai figli i valori della solidarietà verso i poveri vicini e lontani. Sono quattro fratelli. Il maggiore è Tarcisio, con il quale ha conosciuto, quando aveva 11 anni, i missionari della Consolata che hanno una casa nel suo paese. Tarcisio in seguito si è sposato e ha una bella famiglia con quattro figli e una brava moglie. C’è poi suo fratello minore, Gabriele, anche lui missionario della Consolata ora in Mozambico, e Giovanna che con molto amore accudisce i loro anziani genitori.

Quando facevo la 5ª elementare, un missionario che operava nella selva amazzonica ci ha raccontato episodi della sua vita in quei luoghi, ne sono rimasto affascinato e immaginavo che la missione fosse una grande avventura.

Sono entrato quindi nel seminario minore di Gambettola dove, sperimentando la vita comunitaria e leggendo la Parola di Dio, ho scoperto come la missione sia l’annuncio di Gesù Cristo.

Proseguendo, per terminare gli studi di teologia sono stato inviato in Colombia e ho scoperto che la missione non è solo «un dare» ma anche cercare di scoprire i valori evangelici presenti nelle culture dei popoli dove Cristo è arrivato prima di noi.

In America Latina ho capito che la missione non è solo dei consacrati, ma di tutta la Chiesa, di ogni battezzato. Ho imparato a lavorare con i laici missionari, che hanno collaborato in tutti gli impegni di servizio che l’Istituto mi proponeva. Credo nella comunione e partecipazione dei laici nella missione della Chiesa.

Oggi la missione la vivo nel posto più bello del mondo: nella selva amazzonica colombiana, un tempo considerata «la periferia del mondo», oggi «piazza centrale». Molti occhi sono puntati su questo giardino stupendo: chi per proteggerlo, chi per sfruttarne l’abbondante acqua e le immense ricchezze del suolo e sottosuolo.

Noi missionari della Consolata siamo arrivati nella selva amazzonica colombiana nel 1951 accompagnando la colonizzazione e le comunità indigene sfruttate e spesso maltrattate, mentre oggi la nostra presenza consiste nell’ascoltare il grido di una selva in agonia, imparare dagli stessi popoli originari che per millenni hanno saputo convivere in un perfetto equilibrio con la creazione, chiedendo «permesso» alla Madre Terra quando per alimentarsi, vestirsi, costruire la maloca (la casa comunitaria) la «feriscono».

La missione è come un corpo vivo in continua evoluzione, che ti pone delle domande, ti cambia e ti fa camminare.

Spetta a ciascuno di noi lasciarsi guidare. La strada è lunga, a volte faticosa, sembra di non vedere l’orizzonte ma fino adesso ne è valsa la pena.

Chiedo al Signore che mi doni la salute e la forza di continuare. Nel mio cuore sono contento. Dopo 45 anni da quando ho conosciuto il primo missionario della Consolata che veniva dall’Amazzonia brasiliana, oggi mi trovo nell’Amazzonia colombiana.

A volte ho paura di essere svegliato da questo bellissimo sogno: la missione in mezzo a persone semplici, con le loro difficoltà, però con tanti valori evangelici che mi animano nel continuare in questo cammino missionario, che non è mio ma è la strada (qui dove le strade sono rare) che ho ricevuto dal Signore fin dal seno di mia madre.

Grazie Dio Padre per questa grande vocazione che è la stessa che hai dato a tuo Figlio Gesù: annunciare al mondo il tuo Regno di giustizia, pace, solidarietà e rispetto della creazione.

Padre Angelo Casadei


Sandra Garay: dall’Argentina alla Mongolia

Dio è al cuore della missione

Suor Sandra Garay, nata a Mendoza in Argentina. Dopo la sua formazione religiosa in Italia per diventare missionaria della Consolata, ha studiato negli Stati Uniti e poi lavorato con i migranti ispanici nel Michigan. Nel 2004 è partita per la Mongolia. Attualmente lavora nella nuova missione di Chingiltei alla periferia della capitale Ulaanbaatar.

Definitivamente posso dire che missione è condividere la vita con fratelli e sorelle del mondo. Dio mi ha regalato pure la possibilità di vivere in posti e culture affascinanti in America, Europa e Asia. Come non sentirmi benedetta da così grandi doni? Mi sono arricchita tanto e porto nel cuore i volti di tanti amici e gli spazi di tante terre. Ma tutta questa bellezza è solo la copertina di un cammino segnato da ricerche a volte tanto lunghe, da incontri non sempre lunghi abbastanza, da desideri parzialmente soddisfatti.

La bellezza, scoperta a volte così facilmente in persone e luoghi, non si sostituisce mai a quella ricerca, a quel desiderio profondo di Qualcuno. Ed è per questo che per me la missione vera è il cammino del cuore alla ricerca di Dio.

Sì, la vera missione è su Dio, sul come trovarlo e poi imparare a vivere con Lui. È un passare dalla ricerca di me alla ricerca di Lui, dal cercare di capire me al cercare di capire Lui, dall’accogliere la mia complessità all’accogliere la Sua semplicità. E così, negli anni, la mia preghiera è passata dall’aiutami all’usami, dal perché al grazie, dal vorrei al sì. La cosa più bella in assoluto della missione è che pian piano ci si addentra nel mistero di Dio. Ed è tanto affascinante. Mi piacerebbe condividere tre piccole scoperte.

Prima: Dio è come un Gps

Al centro della tecnologia del Gps (Sistema di posizionamento globale) sta la capacità di rilevare attraverso gli orologi atomici dei satelliti, l’esatta posizione di un oggetto. Di conseguenza il Gps può guidare perché può localizzare con precisione. Il Gps trova, e guida partendo dal quel che trova. Non potremo seguire un Gps se non fosse il Gps stesso a trovarci per primo. Analogamente, nel nostro cammino di fede, ci rendiamo conto che non siamo noi a cercare Dio ma è Lui per primo a cercare noi. Con cuore sollevato scopriamo che Dio, quasi come un Gps, sa sempre in quale punto della nostra vita ci incontriamo e le circostanze in cui camminiamo. Poi Lui parte da lì, offrendoci buone alternative per arrivare alla destinazione scelta. E se per qualsiasi ragione ci allontaniamo dai percorsi proposti, assume la nostra nuova strada e ci offre ancora altri percorsi. Dio è un Padre che non vuole perderci e ci lascia provare le nostre strade nell’attesa che un giorno ci renderemo conto che le sue strade sono le migliori per noi. Vuole essere parte della nostra vita e fa suoi i nostri cammini, le nostre scelte, per rimanere sempre con noi. Perché sa come siamo fatti e sa che un giorno impareremo a seguire Lui, avremo perso la voglia di resistergli. Nel frattempo avremo imparato che l’amore vero perdona, spera e non si arrende mai.

Seconda: l’agire di Dio è multiscopo

Sì, quando Dio interviene tocca la vita di tante persone, fa in modo che il bene realizzato sia il miglior bene per tutti quelli coinvolti in una stessa situazione. Quando Dio agisce non si limita a fare del bene a una singola persona lasciando gli altri a mani vuote, e non agisce mai a favore degli uni contro gli altri. Il bene, la grazia data a una persona implica sempre che anche altri ricevano dei doni. Anche nel nostro mondo relazionale a volte così complesso e con spruzzi di inimicizia, Dio fa il bene che è il meglio per tutti. Forse questo può spiegare perché la maggioranza delle nostre richieste sono esaudite in modo diverso dallo sperato. È il mistero dell’amore di Dio per noi, del suo cuore di Padre che si prende cura di tutti e sa dare a tutti quello di cui hanno bisogno anche quando i nostri bisogni sembrano di essere così diversi.

E l’ultima: Dio non fa miracoli

Dio interviene sempre, o, per dirlo in un altro modo, i miracoli, intesi come interventi soprannaturali, sono un’eccezione pure per Dio. Lui agisce soprattutto attraverso la nostra umanità, con le nostre complessità, i nostri limiti, le nostre resistenze, i nostri rifiuti. Fa miracoli con quello che noi siamo, perché ci accoglie, ci fa crescere, ci fa suoi. Lui che ci ha creati, sa quanta capacità di bene c’è in noi e vuole che venga alla luce. Qui bisogna fare attenzione perché molte volte, per mancanza di attenzione, ci può sembrare che siamo noi a fare un certo bene. Persino potremmo pensare che Dio non c’è. Invece è opera sua.

A capire questo mi ha aiutato tanto la missione in Mongolia. Sono così certa che in diverse situazioni non sarei mai riuscita da sola. Sono sicura che tanto del bene fatto è venuto da Dio. Sono i miracoli con la natura. Dio interviene sempre.

Con la missione Dio mi ha dato il privilegio di presenziare ai suoi miracoli, ai suoi interventi, in prima fila. Il vedere come Dio cambia la vita degli altri e soprattutto la mia, mi ha riempito sempre di grande gioia. Ma il più bel regalo che ho ricevuto dalla missione è Dio stesso, il poterlo sentire tanto vicino, il sapere che cammina accanto a me, l’imparare a lasciarmi guidare da Lui. Sì, la missione è prima di tutto contare su Dio.

Suor Sandra Garay

Hanno firmato questo Dossier

Missionari e missionarie della Consolata:

  • Angelo padre Casadei dal Caquetà, Colombia
  • Giorgio padre Marengo dalla Mongolia
  • José Luis Ponce de Léon, vescovo, da Eswatini
  • Mary Agnes suor Mwangi Njeri da Roraima, Brasile
  • Nicholas padre Muthoka dall’Italia
  • Ramon Lázaro padre Esnaola dalla Costa d’Avorio
  • Rinaldo padre Do dalla RD Congo
  • Sandra suor Garay dalla Mongolia
  • Stefania suor Raspo dalla Bolivia
  • Stefano padre Camerlengo (superiore generale)




Anno 2019: oggi schiavi

Testi e foto di Anna Pozzi


Sommario


La tratta e l’attualità dello sfruttamento in Italia:

La schiavitù non è finita

La tratta di esseri umani è uno dei crimini più gravi. Oggi, nel mondo, circa 40 milioni di persone ne sono vittime. E l’Italia non ne è esente, anzi, cresce la tratta negli ambiti dello sfruttamento sessuale, agricolo e domestico. Questo fenomeno è diverso dal traffico dei migranti. Il decreto sicurezza del governo gialloverde complica ulteriormente la situazione, rendendo ancora più vulnerabili i soggetti deboli.

La tratta degli esseri umani e la riduzione in schiavitù delle persone non è un fenomeno relegabile a una pagina chiusa della storia. È una questione di grandissima e terrificante attualità che riguarda anche l’Italia come paese di origine, transito e destinazione dei nuovi schiavi.

La tratta degli esseri umani, infatti, è un fenomeno globale che – secondo le Nazioni unite – riguarda tutti i paesi del mondo. Un fenomeno tragico e complesso che coinvolge milioni di donne, uomini e bambini, usati principalmente come manodopera a bassissimo costo o sfruttati sessualmente. La tratta oggi è uno dei crimini più spaventosi e una delle più gravi violazioni dei diritti umani: un «crimine contro l’umanità», lo ha definito papa Francesco che non si stanca di denunciare le nuove orribili pratiche di schiavitù e di invitare tutti a liberare e proteggere le vittime.

Ma come si configura oggi il fenomeno della tratta di esseri umani? Per molti versi non diversamente da come si realizzava nei secoli passati il traffico degli schiavi africani verso le Americhe. Ovvero attraverso tre passaggi: quello del reclutamento, quello del trasferimento e quello del grave sfruttamento. Il «Protocollo delle Nazioni unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo donne e bambini», conosciuto come Protocollo di Palermo, messo a punto nel 2000 ed entrato in vigore nel dicembre del 2003 – definisce i termini e la complessità di questo fenomeno.

La definizione della tratta

«Tratta di persone indica il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o l’uso della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi […] Il consenso della vittima della tratta di persone allo sfruttamento di cui [sopra] è irrilevante nei casi in cui qualsivoglia dei mezzi di cui sopra sia stato utilizzato».

Protocollo di Palermo, 2000. Protocollo delle Nazioni Unite
sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani,
in particolar modo donne e bambini.

Nel mondo: chi sono

Secondo l’Ufficio Onu contro la droga e il crimine (Unodc), circa 40 milioni di persone nel mondo sono vittime di tratta, prevalentemente a scopo di sfruttamento sessuale (59%) e lavoro forzato (34%), ma anche per altre finalità: espianto di organi, accattonaggio forzato, servitù domestica, matrimoni forzati (12 milioni di bambine ogni anno), reclutamento di bambini soldato o per gruppi terroristici, adozioni illegali e gravidanze surrogate commerciali.

Nel presentare il rapporto globale di Unodc, lo scorso 7 gennaio, il direttore esecutivo, Yury Fedotov, ha sottolineato due trend inquietanti emersi dalle informazioni raccolte in 142 paesi e specialmente nelle zone di conflitto: «Bambini soldato, lavoro forzato e schiavitù sessuale – la tratta di esseri umani ha assunto dimensioni orribili da quando gruppi armati e terroristi la utilizzano per diffondere paura e ottenere vittime da offrire come incentivi per reclutare nuovi combattenti», ha affermato. «Questo rapporto mostra che dobbiamo intensificare l’assistenza tecnica, rafforzare la cooperazione, sostenere tutti i paesi per proteggere le vittime e assicurare i criminali alla giustizia e raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile».

Purtroppo, anche il paradigma delle cosiddette «quattro P» – prevenzione, protezione, persecuzione e partenariato -, condiviso a livello internazionale per la prevenzione del fenomeno, la protezione delle vittime, il perseguimento giudiziario dei criminali e la promozione di un lavoro più coordinato e in rete tra stati, ma anche tra pubblico e privato, viene disatteso a più livelli. La dimostrazione è che il fenomeno non solo continua a crescere, ma si aggrava, coinvolgendo, ad esempio, un numero sempre maggiore di minorenni. È questo l’altro elemento inquietante che emerge dall’ultimo rapporto di Unodc: un terzo delle vittime del traffico di esseri umani è costituito da bambini, il 5% in più rispetto al periodo compreso tra il 2007 e il 2010. Le bambine rappresentano più dei due terzi dei minori coinvolti (il 23% del totale) e il loro numero è in crescita: con le donne rappresentano il 72% delle vittime. Negli ultimi trent’anni, circa 30 milioni di bambini sono stati coinvolti nella tratta; molti di più, circa 152 milioni – secondo l’Organizzazione internazionale per il lavoro (Ilo) – sono schiavi nei loro stessi paesi di origine. Non sono, dunque, «tecnicamente» vittime di tratta, ma sono comunque costretti a lavorare in condizioni servili e di grave sfruttamento specialmente nei settori dell’agricoltura (70.9%), dei servizi (17.1%) e dell’industria (11.9%).

Lagos

Il traffico e la tratta di esseri umani

Anche l’Italia non può dirsi un paese libero dalle nuove schiavitù. E non da oggi.

Il fenomeno si è strutturato nell’arco di oltre trent’anni, ma ha assunto proporzioni più rilevanti negli ultimi tempi, in seguito all’arrivo di migliaia di migranti sulle coste meridionali del nostro paese. Tra di loro ci sono anche molte vittime di tratta, in particolare giovani donne nigeriane che vengono poi costrette a prostituirsi.

Bisogna però distinguere fra traffico e tratta. Secondo Europol, circa il 90% di coloro che hanno raggiunto l’Europa in questi ultimi anni lo ha fatto affidandosi a criminali (smuggler o passeur) che, in cambio di soldi, ha permesso loro di superare le frontiere degli stati dell’Est Europa o di attraversare il Sahara e il Mediterraneo. La fuga dei siriani dal loro paese in guerra – per fare un esempio – poteva arrivare a costare anche 10mila euro a testa.

Solo nel 2015, il traffico di migranti (smuggling) da Medio Oriente e Africa ha fruttato al crimine organizzato circa 6 miliardi di euro. Europol stima che questo business illegale sia il più lucrativo nel Vecchio Continente, ancor più del traffico di droga, e che vi sarebbero implicati circa 30mila trafficanti.

La tratta (trafficking) prevede non solo il traffico, ma il grave sfruttamento: ovvero la riduzione delle vittime in una condizione di vera e propria schiavitù. In Italia, il fenomeno riguarda soprattutto

due macro aree: quella dello sfruttamento sessuale e quella dello sfruttamento lavorativo. Anche se sono presenti situazioni gravi riguardanti l’accattonaggio forzato (in crescita), l’espianto di organi, le adozioni illegali e la servitù domestica.

Quello della tratta e dello sfruttamento sessuale in Italia è una piaga che riguarda dalle 30 alle 50mila donne straniere, tra le quali un numero significativo di nigeriane, ma anche di ragazze provenienti dall’Europa dell’Est, dall’America Latina e dalla Cina. Negli ultimi tempi, tuttavia, il fenomeno ha assunto caratteristiche inedite, soprattutto in seguito allo sbarco massiccio di migliaia di giovani nigeriane arrivate attraverso la rotta del Sahara, della Libia e del Mediterraneo centrale.

A partire dal 2014, e con punte record nel 2016 (11mila), il numero delle donne nigeriane è aumentato esponenzialmente. Sono, oltre 20mila, infatti, quelle arrivate con gli sbarchi, e tra di loro un numero significativo di minorenni e di donne incinte o con bambini molto piccoli.

La maggior parte – seguendo le istruzioni dei trafficanti – ha fatto richiesta di asilo ed è finita nei centri di accoglienza straordinari (Cas) o nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), in attesa del riconoscimento della protezione umanitaria (abolita dal decreto sicurezza, 5 ottobre 2018, poi trasformato in legge il 27 novembre) o dell’asilo. Mentre si trovavano in queste strutture – che per loro natura non sono ad alta protezione -, i trafficanti hanno trovato il modo di costringere molte di queste donne a prostituirsi per restituire un «debito» che attualmente si aggira in media attorno ai 25-30mila euro. Si tratta sostanzialmente della somma che queste donne riescono a racimolare nei tempi di permanenza nelle strutture (un anno e mezzo circa), mentre in passato, poteva anche andare dai 60 agli 80mila euro.

I trafficanti, in sostanza, hanno trovato il modo di «sfruttare» non solo le donne, ma anche il sistema di accoglienza italiano per realizzare i loro turpi guadagni.

Solo una piccola parte delle donne nigeriane sbarcate, infatti, sono state individuate come vittime di tratta o potenziali tali e indirizzate verso i percorsi specifici del «Piano nazionale anti tratta» che – messo a punto nel 2014 – è stato rifinanziato lo scorso marzo.

Agricoltura biologica? No, schiavista

In questi ultimi anni, si è molto aggravato in Italia anche il fenomeno dello sfruttamento lavorativo che, solo in campo agricolo, riguarda circa 132mila lavoratori. Si tratta in gran parte di giovani uomini immigrati, ma anche di italiani e italiane, che si trovano in condizioni di povertà, mancanza di opportunità e pesante vulnerabilità. Secondo il «Quarto rapporto agromafie e caporalato» pubblicato dell’Osservatorio Placido Rizzotto di Flai-Cgil del luglio 2018, sarebbero addirittura 400/430mila i lavoratori agricoli esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale. Non tutti possono essere definiti «vittime di tratta», perché tra essi si segnalano anche nostri connazionali, ma anche perché tra gli stessi migranti ci sono situazioni variegate e complesse. Tutti, però, possono essere considerati veri e propri «schiavi». Quando si parla di grave sfruttamento lavorativo, infatti, non si sta facendo riferimento semplicemente al lavoro nero. È lavoro in condizioni servili, in cui le persone sono private della loro libertà e dignità, subiscono abusi, minacce e ricatti, e ovviamente vengono retribuite in maniera del tutto inadeguata.

Oltre al settore agricolo, il lavoro in condizioni servili diffuso in tutto il paese riguarda diversi altri ambiti: edilizia, servizi domestici e di cura, settore turistico alberghiero, ristorazione, fabbriche e commercio ambulante.

La nuova legge sul caporalato dell’ottobre 2016 (n. 199), recante «Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo», riformula il reato di caporalato, introducendo una fattispecie base che prescinde da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori e prevede pene più severe (la reclusione da 1 a 6 anni) non solo per chi recluta la manodopera (il caporale vero e proprio), ma anche per chi utilizza, assume o impiega manodopera (ovvero il datore di lavoro), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno.

Un aspetto interessante di questa legge è il fatto che i proventi delle confische vengono assegnati al fondo anti tratta, le cui finalità sono state estese anche alle vittime del delitto di caporalato (oltre che alle vittime di sfruttamento sessuale): le due situazioni, infatti, sono ritenute simili, anche perché spesso le persone sfruttate nei lavori agricoli vengono reclutate usando mezzi illeciti come la tratta di esseri umani. Inoltre, in molti contesti, specialmente le donne subiscono una duplice forma di sfruttamento, lavorativo e sessuale. Nella provincia di Ragusa, solo per fare un esempio – migliaia di donne, in gran parte dell’Europa dell’Est, vivono segregate nelle campagne, spesso con figli piccoli, e lavorano per pochi euro nelle serre. E nel totale isolamento – anche se la cosa è stata denunciata più volte – subiscono ogni genere di violenza sessuale.

I danni del decreto sicurezza

L’entrata in vigore del decreto sicurezza ha ulteriormente complicato la situazione, creando un clima di grande confusione se non addirittura di criminalizzazione delle vittime. Un esempio è l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, che veniva riconosciuto alla maggioranza delle donne nigeriane vittime di tratta o potenziali tali, che oggi rischiano di ritrovarsi in una situazione di irregolarità e dunque di maggiore vulnerabilità rispetto alle reti criminali. Inoltre, l’impossibilità d’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo (e tra questi molte vittime di tratta), in attesa dell’audizione presso la commissione territoriale, fa sì che molti di loro si ritrovino in una situazione di ulteriore precarietà, non potendo accedere all’assistenza sanitaria, al sistema di welfare, a percorsi di formazione o ad altri servizi, finalizzati all’inserimento socio-lavorativo nel nostro paese. Infine, il processo di trasformazione degli Sprar (sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati), che hanno accolto anche molte vittime di tratta seppure non identificate necessariamente come tali, in Siproimi (sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e il relativo taglio dei fondi, sta contribuendo ad accentuare il clima di confusione e di incertezza. Da tutto ciò non traggono certamente beneficio le vittime di tratta, ma anche tutti coloro che stanno lavorando per realizzare significativi ed effettivi cammini di formazione e integrazione. Per non parlare del fatto che – specialmente nel caso delle donne nigeriane – molte di coloro che sono vittime di un crimine gravissimo, non solo non vengono identificate come tali, ma si ritrovano private di alcuni diritti fondamentali.

Ed è proprio questo uno dei temi centrali che deve essere messo a fuoco quando si parla di tratta e di grave sfruttamento: quello dei diritti umani. La tratta, secondo gli esperti dell’Unione europea, si realizza «attraverso la considerazione e il trattamento di esseri umani alla stregua di proprietà private o merci di scambio, deprivando l’individuo della possibilità di fruire dei diritti che invece gli sono garantiti costituzionalmente. In questo senso, la tratta viola la dignità e il diritto dell’autodeterminazione della persona. Uno stato che non agisce per prevenire e combattere la tratta di esseri umani viola indirettamente i diritti umani della persona trafficata».

Di conseguenza, anche tutte le azioni di prevenzione, contrasto e protezione delle vittime devono necessariamente tenere al centro la questione dei diritti umani e il rispetto della dignità della persona, specialmente quando si ha a che fare con minori, che richiedono una particolare tutela. Per tutte queste ragioni, il fenomeno della tratta non può essere semplicemente ricondotto a un problema di migrazione, di ordine pubblico o di criminalità organizzata. Ma è, innanzitutto, una questione di dignità e diritti fondamentali di tutti e di ciascuno.


Una piaga del mondo moderno

Cosa mette in campo la chiesa per combattere la tratta

«Un reato di lesa umanità», definisce così la tratta papa Francesco. Le religiose rispondono all’appello del pontefice a combattere questo flagello nutrendo una rete, nata 10 anni fa, attiva in 70 paesi dei 5 continenti. Si occupano di protezione delle vittime ma anche di fare pressione per avere leggi più idonee. E la Chiesa istituzione si dota di Orientamenti pastorali sulla tratta di persone.

«La tratta di esseri umani è una piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo». In moltissime occasioni papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato, si è espresso chiaramente per denunciare la tratta di esseri umani, un fenomeno che lui stesso ha definito «una delle ferite più dolorose, una moderna forma di schiavitù, che viola la dignità, dono di Dio, in tanti nostri fratelli e sorelle».

Per questo il pontefice ha spronato la Chiesa tutta a «intervenire in ogni fase della tratta degli

esseri umani», per «proteggerli dall’inganno e dall’adescamento; per trovarli e liberarli quando vengano trasportati e ridotti in schiavitù; per assisterli una volta liberati».

Su questo tema papa Francesco ha scritto anche diversi documenti, a cominciare dal testo della Giornata mondiale della Pace del 2015, significativamente intitolato «Non più schiavi, ma fratelli», in cui ha chiesto a tutti una «mobilitazione di dimensioni comparabili a quelle del fenomeno stesso». Nel messaggio, papa Francesco parla della schiavitù come di un «reato di lesa umanità», che continua a interessare, ancora oggi, «milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù».

Nel settembre dello stesso anno, partecipando all’Assemblea generale delle Nazioni unite, papa Francesco ha ammonito tutti i leader della terra affinché di fronte a mali quali «la tratta degli esseri umani, il commercio di organi e tessuti umani, lo sfruttamento sessuale di bambini e bambine, il lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione», non si risponda solo con vaghi «impegni assunti solennemente», ma si abbia «cura che le nostre istituzioni», come pure tutti i nostri sforzi, «siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli».

Le religiose scendono in campo

Ma se il monito del papa non è stato preso adeguatamente sul serio sul fronte delle grandi istituzioni internazionali, chi ha risposto prontamente al suo pressante appello è stato un altro network, quello delle religiose.

Impegnate in prima linea soprattutto nella prevenzione del fenomeno e nella protezione delle vittime, in Italia come in molti altri paesi del mondo, le religiose riunite nella rete di Talitha Kum – che fa riferimento all’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg) – ha dato vita, già l’8 febbraio del 2015, alla prima Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone fortemente voluta da papa Francesco.

La Tratta nel mondoL’obiettivo di questa giornata – che ormai si celebra in diverse parti del mondo – è innanzitutto quello di creare maggiore consapevolezza sul fenomeno e far riflettere sulla situazione globale di violenza e ingiustizia che colpisce milioni di persone in tutto il pianeta. Al contempo, si vogliono indicare piste concrete per dare risposte efficaci. Per questo, da un lato, viene ribadita la necessità di garantire diritti, libertà e dignità alle persone trafficate e ridotte in schiavitù e, dall’altro, di denunciare sia le organizzazioni criminali sia coloro che usano e abusano della povertà e della vulnerabilità di queste persone per farne oggetti di piacere o fonti di guadagno.

«La tratta di persone ferisce con efferata violenza l’umanità – dice suor Gabriella Bottani, missionaria comboniana e coordinatrice di Talitha Kum -. Per questo noi, come religiose, continuiamo a portare avanti cammini di libertà e speranza attraverso gesti quotidiani di ascolto e incontro che curano innanzitutto la dignità ferita. Sono gesti sovversivi e di denuncia che contrastano il male della tratta di persone con il bene».

Suor Gabriella ha alle spalle una lunga esperienza nella rete anti tratta del Brasile, prima a Fortaleza e poi in Amazzonia, dove si è resa conto, incontrando personalmente anche molte vittime, di come «tutto è sfruttato, al punto che non ci si rende più nemmeno conto che gli uomini stessi sono sfruttati». Rientrata in Italia, suor Gabriella coordina, dal 2015, il network internazionale delle religiose per continuare a combattere in ogni angolo del mondo la piaga della tratta. Lo scorso giugno è stata riconosciuta come «eroe» contro la tratta dal dipartimento di Stato Usa, in occasione della presentazione del «Trafficking in Persons Report» (Tip Report) che quest’anno ha declassato l’Italia tra i paesi di seconda fascia a causa del peggioramento nel contrasto alla tratta e nella protezione delle vittime.

La rete è nata nel 2009 in seno all’Uisg, in seguito a un «Programma di formazione per personale religioso alle azioni di contrasto alla tratta di persone», realizzato in cooperazione con l’Ambasciata americana presso la Santa Sede e gestito in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). «Il desiderio condiviso – spiega la religiosa – era quello di coordinare e rafforzare gli sforzi e le attività contro la tratta promossi dalle religiose nel rispetto dei diversi contesti e culture. Attualmente, ci sono 17 reti regionali in 70 paesi nei 5 continenti».

In occasione del decennale, Talitha Kum ha realizzato anche una mostra fotografica che è stata esposta in Vaticano e che sarà in settembre alle Nazioni unite, in occasione dell’Assemblea generale. «Nuns Healing Hearts» è il titolo di questo progetto dalle immagini molto evocative: «Suore che curano i cuori». «Ciò che desidero trasmettere attraverso queste immagini – afferma la fotografa Lisa Kristine, che ha visitato molte realtà di religiose impegnate contro la tratta in diversi paesi – è il potente lavoro che le suore di Talitha Kum stanno facendo in tutto il mondo in prima linea contro la schiavitù. Ma la cosa più significativa di questo progetto è stato lavorare intimamente con le suore e sperimentare come loro operano instancabilmente e umilmente, spesso con poche risorse, per aiutare i più bisognosi».

Come si combatte la tratta in Italia

La tratta In ItaliaAnche in Italia, le religiose sono state tra le prime a individuare il fenomeno della tratta e a farsi carico della protezione delle vittime, ma anche tra le più efficaci nel denunciarlo e nel promuovere azioni di advocacy nei confronti delle autorità. Questo impegno – portato avanti insieme ad altri – ha condotto all’approvazione dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione del 1998, una delle leggi più avanzate al mondo per quanto riguarda la protezione sociale delle vittime di tratta.

Purtroppo, in questi ultimi anni, le potenzialità dell’articolo 18 sono state gravemente disattese, per mancanza di risorse finanziarie e umane. «L’articolo 18 – ha denunciato in più occasioni Mirta Da Pra Pocchiesa del Gruppo Abele – è stato il frutto di un lavoro tra associazioni operanti sul campo e i ministeri degli Affari sociali, Pari opportunità e Interno, per aiutare le vittime a contrastare il traffico di esseri umani. Per un certo periodo l’Italia era diventata una terra difficile per i trafficanti: le ragazze denunciavano e le forze dell’ordine potevano colpire duramente le organizzazioni criminali. Da un certo punto in avanti, però, è iniziato lo sfacelo. C’è stato un disinvestimento generale: enti e associazioni che lavorano sul tema si sono trovati senza una regia, senza un coordinamento».

Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, è stata tra le pioniere, insieme a Mirta Da Pra, di queste battaglie. Dopo 24 anni in Kenya, rientrata in Italia all’inizio degli anni Novanta, suor Eugenia ha ritrovato nel suo paese giovani africane sfruttate barbaramente come non aveva mai visto. Lei che aveva sempre lavorato per la promozione delle donne in Africa, si è rimboccata le maniche anche qui per contrastare una delle peggiori violenze che potessero subire. Prima a Torino, poi per molti anni a Roma, come coordinatrice dell’Ufficio Tratta donne minori dell’Usmi (Unione superiori maggiori d’Italia) e dal 2014 come presidente dell’associazione «Slaves no More» (mai più schiave), suor Eugenia continua a portare avanti instancabilmente una battaglia per liberare queste donne non solo dalle catene della schiavitù, ma anche da quelle del pregiudizio e dell’indifferenza. Per questa ragione, papa Francesco le ha affidato quest’anno le riflessioni della via crucis che si è tenuta in Vaticano la sera del Venerdì Santo (cfr sotto: Incontro con suor Eugenia Bonetti, una suora contro la tratta).

Ma se fino a oggi, all’interno della Chiesa, il tema della tratta sembrava essenzialmente relegato alla dimensione religiosa femminile, un significativo passo avanti nel coinvolgimento di tutti i suoi membri e in una presa di coscienza sul fenomeno è stato fatto con la pubblicazione, lo scorso gennaio, degli «Orientamenti pastorali sulla tratta di persone», realizzati dalla «Sezione migranti e rifugiati» del Dicastero vaticano per il servizio dello sviluppo umano integrale.

«Gli Orientamenti pastorali sulla tratta di persone – spiegano i due sottosegretari della Sezione, padre Fabio Baggio, scalabriniano, e padre Michael Czerny, gesuita – si propongono di fornire una chiave di lettura della tratta e una comprensione che diano ragione e sostegno a una lotta necessaria e duratura».

Istituita il primo gennaio 2017 da papa Francesco, che ne ha assunto personalmente la guida ad tempus, la Sezione migranti e rifugiati è incaricata di affrontare il tema della tratta di persone assieme alle altre questioni relative alle migrazioni. La sua missione è quella di assistere in particolare i vescovi e quanti si sono messi a servizio di questi gruppi vulnerabili.

Come sono nati gli «Orientamenti»

«Per affrontare il problema della tratta e della schiavitù di esseri umani – precisano i due sottosegretari – durante il 2018, la Sezione ha organizzato due consultazioni con vescovi, coordinatori pastorali, ricercatori, operatori professionisti e rappresentanti di organizzazioni impegnate in questo settore. I partecipanti si sono scambiati esperienze e punti di vista, affrontando gli aspetti rilevanti del fenomeno. Si è pure analizzata la risposta globale della Chiesa, specificandone i punti di forza e le debolezze, le opportunità politiche e pastorali, come pure la necessità di un potenziamento del coordinamento a livello mondiale.

Questo processo, durato sei mesi, ha dato vita agli Orientamenti pastorali sulla tratta di persone, indirizzati alle diocesi, alle parrocchie e alle congregazioni religiose, alle scuole e alle università, alle organizzazioni cattoliche e altre organizzazioni della società civile e a qualsiasi altro gruppo disponibile a impegnarsi in questo campo».

Un esempio di questo impegno viene da Caritas italiana che a inizio luglio ha presentato i risultati di un monitoraggio svolto sul territorio nazionale di tutte le Caritas che si occupano del fenomeno della tratta. Ne è emerso un panorama complesso di una sessantina di realtà che, in modo diverso, si occupano del fenomeno, con servizi e attività più o meno ampi e organizzati: dalle unità di strada alle accoglienze, dalle azioni di sensibilizzazione ai processi di integrazione (cfr pag 40).

Questo lavoro viene svolto in diversi casi in collaborazione con le religiose che operano o direttamente nelle Caritas o in case di accoglienza. Questo servizio – tuttora coordinato dall’Usmi nazionale che ha svolto in parallelo un analogo monitoraggio – è diminuito in questi ultimi anni o si è diversificato. Molte case di accoglienza delle religiose, infatti, non sono più specifiche per vittime di tratta, ma si sono convertite in accoglienze per mamme e bambini con varie forme di disagio o vulnerabilità. La complessità del fenomeno e la fluidità – legata alla questione degli sbarchi come anche ai cambiamenti legislativi – chiedono a tutti coloro che operano in questo ambito difficile e delicato di mettersi continuamente in gioco, a cominciare dalla formazione, e di sperimentare nuove progettualità.

È l’invito che arriva anche da papa Francesco: «Mi ha sempre addolorato la situazione di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta di persone. Vorrei che si ascoltasse il grido di Dio che chiede a tutti noi: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). Dov’è il tuo fratello schiavo? […] Ci sono molte complicità. La domanda è per tutti!».


Il lavoro delle Caritas in Italia, una rete capillare sul territorio

Sono una sessantina le Caritas che in Italia si occupano di tratta, con servizi e attività più o meno ampi e organizzati. Molte di più sono quelle che in modo spontaneo e non strutturato intercettano – in particolare attraverso i centri di ascolto o i dormitori – le vittime di tratta o presunte tali e le orientano verso servizi o realtà più specifiche. È quanto emerge da un report di monitoraggio realizzato da Caritas italiana per avere una mappatura più aggiornata e articolata del lavoro delle Caritas in questo ambito. Ne emerge un quadro variegato di impegno e difficoltà su molti fronti.

Qualche dato: le Caritas in Italia gestiscono 18 unità di strada; 31 accoglienze e progetti di integrazione; 24 realtà con attività di sensibilizzazione/informazione rivolte al territorio e corsi di formazione; 17 sportelli/drop in con servizi legali, sanitari, psicologici e così via; una ventina di iniziative di sostegno ad altre realtà con aiuti economici o materiali, supporto burocratico o altro.

Un impegno consistente, che tuttavia in questi anni si è confrontato e talvolta scontrato con molti ostacoli: la complessità e la fluidità del fenomeno, nonché i recenti provvedimenti legislativi, hanno messo molte Caritas di fronte alla necessità di aggiornarsi costantemente per continuare a dare risposte efficaci nonostante il mutamento delle situazioni.

Come per tutti, infatti, anche le Caritas – che spesso operano in collaborazione con gli Istituti religiosi femminili – hanno dovuto far fronte, da un lato, alla grande urgenza legata alla presenza di numerose donne vittime di tratta o potenziali tali, dall’altro, a un cambiamento del fenomeno che ha richiesto uno sforzo ulteriore di riflessione, formazione e organizzazione.

Più in generale, si legge nel report, tra le difficoltà emerge «il problema di una burocrazia molto complessa, il non facile rapporto con le istituzioni e l’enorme complicazione del reperimento dei documenti. Per non parlare dei tempi lunghi del percorso legale e sociale, difficili da gestire all’interno di una struttura protetta».

Tra gli auspici condivisi, quello che maggiormente emerge è l’importanza di consolidare il lavoro in rete: tra le diverse Caritas, ma anche con altri enti pubblici e privati. Perché insieme si è più forti, anche nel contrasto alla tratta e nel difficile e complesso compito di proteggere e integrare le vittime nella nostra società.


Incontro con suor Eugenia Bonetti, una suora contro la tratta

È stata una delle pioniere in Italia della lotta contro la tratta di esseri umani. Con il suo piglio battagliero, ma anche con la sua capacità di compassione, suor Eugenia Bonetti si è messa senza indugio al fianco delle vittime, per riscattarle dalla schiavitù, ma anche per dare loro voce, denunciando così un fenomeno che molti non volevano neppure vedere. Purtroppo anche oggi.

Era il 1993, e suor Eugenia Bonetti – missionaria della Consolata, oggi ottantenne – era appena rientrata in Italia, dopo aver vissuto 24 anni di missione tra le donne del Kenya.

A Torino, dove era tornata a malincuore, è stata un’altra donna africana ad aprirle gli occhi con il suo grido di aiuto. Suor Eugenia si è ben presto accorta che il fenomeno che aveva di fronte non riguardava semplicemente la prostituzione, ma qualcosa di molto più grave e orribile: tratta e schiavitù.

Da allora ha condotto moltissime battaglie; ha contribuito a togliere dalla strada oltre 6mila giovani donne, soprattutto nigeriane; ha coordinato a lungo il network delle religiose italiane che operano nelle case di accoglienza – l’ex Ufficio tratta donne e minori dell’Usmi -; ha infine fondato l’associazione «Slaves no More», di cui è presidente, che ha realizzato un progetto pilota di rimpatri volontari assistiti di donne nigeriane, e che garantisce, grazie all’impegno di una quindicina di religiose, una presenza settimanale nel Cpr di Ponte Galeria a Roma (Il Cpr è il Centro di permanenza per il rimpatrio, ex Cie, Centro di identificazione ed espulsione, ndr).

Di tutto ciò ha parlato anche in diversi libri, ma la sua figura e il suo impegno sono diventati particolarmente noti soprattutto dopo che papa Francesco le ha chiesto di scrivere le meditazioni per la Via Crucis al Colosseo dello scorso 19 aprile.

Suor Eugenia Bonetti

Suor Eugenia, che cosa ha significato scrivere quei testi?

«Una grande responsabilità, ma anche un’opportunità unica. Quando ho ricevuto la telefonata del cardinale Gianfranco Ravasi che mi chiedeva di scrivere le meditazioni per la Via Crucis sono stata presa di sorpresa. Ho vissuto quel periodo nella preghiera, ripensando alle parole di papa Francesco che parla di tratta come di “un crimine contro l’umanità”. Ho pensato che la Via Crucis potesse scuotere le coscienze e per questo ho accennato a valori come l’uguaglianza, la fede, la fratellanza, la misericordia, l’amore in tutte le sue forme (di una madre, di un padre, di un fratello e di una sorella, di un amico, di un passante, di un soccorritore), l’accettazione del diverso e del malato, di chi è in difficoltà. Ho fatto tutto attingendo ai molti anni passati a camminare sulle strade con queste donne, anni in cui le ho ascoltate, ci ho parlato e le ho aiutate con il sostegno di molte altre religiose e laici».

Su cosa ha voluto insistere?

«Ho cercato di includere tutte le forme di schiavitù presenti nel fenomeno della tratta, ma soprattutto ho tentato di sottolineare la condizione delle giovani donne distrutte da questa enorme piaga. Mi è sembrato giusto anche fare un appello: ai poteri e alla Chiesa affinché si prendano le loro responsabilità e agiscano mettendo l’essere umano sopra ogni altro valore e principio; alla società civile che, pur facendo molto deve fare sempre di più; ai clienti che sono parte attiva del problema».

Non solo storie finite male, però…

«Ho cercato di far riaffiorare anche la speranza, l’Italia del riscatto, di tutti i volontari e operatori del terzo settore, capaci di stare accanto al prossimo e di aiutarlo. E di tutti coloro che rispondono alla richiesta del Signore di mettersi in ascolto dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Mi sembrava importante anche soffermarmi sulla forza di rinascita delle donne e sulla loro capacità di lenire il loro dolore e il dolore altrui».

Lei indica nel deserto e nel mare i nuovi cimiteri di oggi. Che cosa intende?

«Nel deserto e nel Mediterraneo, continuano a morire migliaia di uomini, donne, bambini: esseri umani bruciati dal caldo del deserto o annegati nel mare, senza un nome, senza un’identità, privati della dignità e dei diritti che tutti possediamo, nell’indifferenza quasi totale di paesi che preferiscono non decidere».

Lei continua a essere impegnata su più fronti, in quanto fondatrice e presidente dell’associazione «Slaves no More». Che cosa state facendo?

«L’associazione nasce principalmente per aiutare le donne a liberarsi da ogni forma di violenza; in particolare si concentra sulle vittime di tratta, costrette a prostituirsi sulle nostre strade. Le attività che porta avanti, grazie al sostegno di tanti che ci aiutano e ci supportano, vanno dai rimpatri volontari assistiti in Nigeria alle diverse forme di interventi legati alla formazione e all’informazione sui temi specifici della tratta. L’associazione intrattiene strette relazioni di collaborazione anche con le case di accoglienza delle religiose a Lagos e Benin City (Nigeria)».

E nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria?

Suor Eugenia Bonetti

«A Ponte Galeria, insieme a un gruppo di suore di molte nazionalità e lingue diverse, siamo presenti tutti i sabati pomeriggio. Cerchiamo di accompagnare, con preghiere, feste e canti, le molte donne che, trovate senza documenti, sono costrette a passare molto tempo lì dentro, spesso senza sapere che ne sarà di loro. Ponte Galeria è a tutti gli effetti un luogo di detenzione, con sbarre e cemento, lenzuola di carta, molto freddo e caldo estremo. E anche tanta solitudine. Qui le donne sono costrette a una condizione di inattività, costantemente sorvegliate, con una minima possibilità di contatti con l’esterno, sole con le loro paure e i loro traumi, in balìa degli eventi. Noi rappresentiamo l’unico momento, durante la settimana, di ascolto, comprensione e compassione».

Le sembra che in Italia sia cresciuta la consapevolezza circa la tratta degli esseri umani, e la presenza di schiavi e schiave anche nel nostro paese?

«La tratta e i fenomeni a essa connessa sono cambiati e si sono evoluti, così come gli interventi a livello legislativo e da parte dell’associazionismo. Anche la consapevolezza è sicuramente cresciuta ma, oggi, mi sembra che ci sia una battuta d’arresto. Viviamo in una società consumistica dove i valori sono il denaro, il prestigio, l’esteriorità e l’apparenza; dove tutto può essere venduto e acquistato; dove l’essenziale è pensare a se stessi; dove ci viene istillata la paura del diverso; dove l’odio viene urlato e propagandato. Anche le nuove leggi sono lo specchio di un pensiero e di un modo di fare che tende alla divisione, all’odio e alla prevaricazione. Tutto questo non va certamente nella direzione dell’unione, della fratellanza, dell’aiuto e della comprensione».

Vedi anche questa intervista su Vatican news


Le misure dello stato italiano: un piano anti tratta (e il numero verde)

In Italia esistono un numero verde anti tratta e anche un piano nazionale che dovrebbero contrastare le gravi forme di sfruttamento presenti sul territorio nazionale.

Il primo, attivato nel 2000, viene gestito dal 2006 dal comune di Venezia. Il secondo, è stato finanziato per la prima volta nel 2016 e viene coordinato dal Dipartimento per le pari opportunità (Dpo) della Presidenza del consiglio dei ministri. Sono gli strumenti messi in campo dal governo italiano per il contrasto alla tratta degli esseri umani e la protezione delle vittime.

Il numero verde (800 290 290), in particolare, dopo una prima fase, in cui ha funzionato con una postazione centrale e 14 periferiche, dal 2006 fa capo a un unico ente – il comune di Venezia, appunto – che fa riferimento ai vari attori che, a livello regionale, operano nei progetti anti tratta finanziati dal Dpo. Sono 21 e coprono tutte le regioni italiane. Il piano è stato rifinanziato lo scorso primo marzo con 24 milioni di euro per i prossimi 15 mesi. Nel 2018, sono state assistite 1.914 persone (al 90% donne, in gran parte nigeriane), e si sono registrate 820 nuove emersioni (l’11,23% minorenni). Nell’88% dei casi si tratta di vittime di sfruttamento sessuale.

«Il numero verde – spiega Cinzia Bragagnolo che ne è la responsabile – raccoglie le segnalazioni, ed effettua una prima valutazione del caso, offre informazioni e orienta sui territori, cercando di favorire l’emersione del fenomeno e di offrire indicazioni sulle possibilità di aiuto e assistenza. Innanzitutto, viene fatta una prima valutazione della pertinenza della chiamata e poi si orientano le persone ai servizi sul territorio. L’obiettivo è di supportare le vittime di tratta e sfruttamento, ma anche di ottimizzare le risorse presenti qualora, ad esempio, ci sia bisogno di spostare le persone da una regione all’altra per motivi di sicurezza o per mancanza di posti in accoglienza o per incompatibilità delle strutture».

Le telefonate arrivano da soggetti diversi. «Possono essere le stesse potenziali vittime di tratta a chiamare – continua Bragagnolo -, oppure forze dell’ordine, operatori di progetti, servizi sociali o sanitari. Ultimamente sono cambiati molto i soggetti segnalanti che afferiscono al numero verde. Molte chiamate, infatti, arrivano da commissioni territoriali e prefetture o da Cas e Sprar, in cui sono presenti potenziali vittime di tratta».

Questo perché, da un lato, non sono più state fatte campagne di promozione del numero verde anti tratta e dunque è poco conosciuto – l’ultima risale al 2016, seguita da una brevissima campagna nel 2017 -; dall’altro lato, perché il fenomeno degli sbarchi, in particolare di giovani donne nigeriane potenziali vittime di tratta, ha inciso significativamente anche su tutto il sistema di accoglienza.

«In questi ultimi anni – conferma Bragagnolo – nelle prese in carico c’è stato un grande aumento delle donne nigeriane. Il picco lo si è avuto un paio di anni fa; adesso, in strada, le donne nigeriane sono tornate a essere circa un terzo, ma nei progetti del Dpo sono quasi il 90% dei casi. Questo significa che sono stati probabilmente trascurati altri target, ad esempio, donne provenienti da altri paesi; soprattutto, però, significa che è stato trascurato un altro ambito altrettanto preoccupante, quello del grave sfruttamento lavorativo».

Solo tre progetti su 21, infatti, si occupano di questa piaga che ormai non riguarda più soltanto il lavoro agricolo o il Sud Italia, ma interessa un po’ tutte le regioni e tutti i settori dell’economia del nostro paese: dall’industria alla logistica, dall’assemblaggio alla ristorazione.

«Ci sono pochi interventi strutturati sul grave sfruttamento lavorativo – conferma Cinzia Bragagnolo – anche perché è molto difficile operare in questo ambito. Occorrerebbe un lavoro multi agenzia e in questo momento si è ancora troppo poco strutturati per essere incisivi su questo fenomeno».

Lo scorso 7 maggio, il sottosegretario con delega alle pari opportunità, Vincenzo Spadafora, ha presieduto la prima riunione della nuova cabina di regia per la prevenzione e il contrasto alla tratta degli esseri umani, affiancata da un nuovo comitato tecnico. La cabina è la sede di confronto e di raccordo politico, strategico e funzionale tra le amministrazioni statali, la direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, le forze dell’ordine, le regioni e gli enti locali per la definizione del nuovo piano nazionale anti tratta 2019-2021. Al comitato tecnico, invece, partecipano soggetti della società civile direttamente impegnati nel contrasto alla tratta e nella protezione delle vittime.

«Sarebbe importante – conclude Bragagnolo – che si possa mettere a punto il prossimo piano nazionale anche alla luce dei nuovi cambiamenti del fenomeno e delle recenti evoluzioni delle dinamiche della tratta. A mio avviso, occorrerebbe rivedere le connotazioni del programma di protezione sociale, dal momento che, in questi ultimi anni, la natura dell’art. 18 è andata in gran parte persa, poiché la maggior parte delle vittime ha seguito percorsi di richiesta d’asilo. Ma anche il contrasto alle reti criminali si è affievolito. Inoltre, bisognerebbe tenere aperto lo sguardo su altre forme di sfruttamento e non solo prevalentemente su quello sessuale».

Il nuovo piano nazionale anti tratta avrebbe dovuto essere presentato entro fine giugno, ma probabilmente slitterà di qualche mese.


Hanno firmato questo dossier:

  • Anna Pozzi – Giornalista professionista, collabora con diverse testate giornalistiche. Tiene incontri di formazione e seminari su politica, economia, società e cultura africana e sulle questioni di migrazioni e tratta. È tra i fondatori dell’associazione «Slaves no more» contro la tratta degli esseri umani. Ha collaborato alla realizzazione delle Giornate mondiali contro la tratta di persone (8 febbraio). Su questo tema ha scritto diversi saggi, tra cui Il coraggio della libertà (ed. Paoline, 2017) con Blessing Okoedion, Mercanti di schiavi (San Paolo, 2016), Spezzare le catene (Rizzoli, 2012). Ha inoltre realizzato due documentari: No place like home (2016) e Il coraggio della libertà (2017).
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • Archivio MC: