Vangelo senza quarantene


Vescovi in mezzo alla pandemia

Cinque missionari della Consolata raccontano la loro lotta contro il Covid-19. Da un punto di osservazione (e partecipazione) particolare: quello del vescovo. Cinque Chiese locali in cinque paesi tra Africa, Asia e America Latina. Cinque esperienze accomunate dallo spirito missionario, quello che va in cerca dei lontani e degli ultimi, anche in tempi di confinamento.

I vescovi missionari della Consolata oggi sono dodici. Tutti al servizio di Chiese presenti in territori poveri e a volte dilaniati dai conflitti, comunità colpite duramente anche dalla pandemia di Covid-19.

Nati in otto paesi diversi tra Europa, Africa e America Latina, hanno dai 47 ai 79 anni e operano in Brasile, Colombia, Eswatini, Kenya, Mongolia e Mozambico.

Dall’Africa alla Mongolia all’America Latina, il Covid-19 non ha risparmiato nessun paese e nessuna classe sociale, ma i primi a rimanere senza ossigeno sono stati, come sempre, i più poveri, gli esclusi, compresi quelli che nemmeno hanno potuto capire di cosa stessero morendo e sono rimasti fuori dalle statistiche per mancanza di tamponi, perché nel loro paese c’è un solo medico ogni 10mila persone.

Cinque di questi vescovi raccontano ai lettori di MC come stanno affrontando l’emergenza sanitaria nelle Chiese che servono. Monsignor Giorgio in Mongolia, mons. Joaquín in Colombia, mons. Diamantino in Mozambico, mons. José Luis in Eswatini e mons. Giovanni in Brasile.

Ciò che accomuna i loro episcopati è lo stile missionario, declinato in modo originale in ciascuna delle Chiese particolari nelle quali hanno operato e operano. L’annuncio a tutti, soprattutto a chi non ha ancora conosciuto Cristo, la scelta degli ultimi, la consolazione, la promozione della pace, il dialogo interreligioso, l’amore per Maria Consolata sono tra i pilastri della loro azione pastorale, anche in mezzo alla pandemia.

Sono volti di una chiesa che partecipa alla sofferenza e alla speranza del suo popolo.

Luca Lorusso

Grafico di Kreativezone


Confinati nelle steppe

Mongolia: Monsignor Giorgio Marengo

È diventato vescovo della giovanissima chiesa mongola nel mezzo della pandemia. Con tutti i luoghi di culto chiusi, dopo più di un anno, monsignor Marengo non ha ancora potuto celebrare l’eucaristia con il suo popolo. Ma la vicinanza ai mongoli, sia cristiani che non, è sempre viva.

La nomina a vescovo di Ulaan Baatar è arrivata a padre Giorgio Marengo il 2 aprile 2020, mentre era parroco della missione di Arvahieer, un piccolo centro rurale della Mongolia.

In quei giorni, le immagini della fila di camion militari che trasportavano le bare delle vittime bergamasche del Covid-19, facevano il giro del mondo. Il 27 marzo in Italia si era registrato il numero più alto di morti nella prima ondata, 919 in 24 ore, superato solo dai 993 del 3 dicembre successivo. La Mongolia sperimentava le chiusure anti-Covid già da febbraio, benché mancassero molti mesi al 29 dicembre, quando si sarebbe registrato il primo morto per Covid anche lì.

A causa delle chiusure, monsignor Giorgio non ha potuto essere ordinato vescovo in Mongolia e ha dovuto aspettare quattro mesi dopo la nomina. L’ordinazione è avvenuta l’8 agosto 2020 nella sua Torino, al santuario della Consolata.

È successore di mons. Wenceslao Selga Padilla, vescovo filippino della congregazione del Cuore immacolato di Maria, morto nel 2018, che, assieme ad alcuni confratelli, aveva rifondato la chiesa in Mongolia dal 1992, dopo 70 anni di comunismo. La Prefettura apostolica comprende l’intero territorio della Mongolia, 1,566 milioni di Km2 (quasi cinque volte l’Italia) nei quali vivono tre milioni di abitanti, e 1.300 cattolici. I sacerdoti sono 24, tutti, tranne uno che è locale, sono missionari stranieri. C’è un diacono che aspetta da due anni, a causa del Covid, di diventare prete, e 35 suore, anch’esse straniere.

A oggi, mons. Marengo non ha potuto ancora celebrare l’eucaristia con il suo popolo.

Monsignor Marengo, lei è diventato vescovo l’8 agosto 2020 nel bel mezzo della pandemia.

«La mia vita è cambiata in un anno strano. Molte delle cose legate al diventare vescovo, io le ho vissute fuori dagli schemi. Ad esempio: quando vieni nominato vescovo, entro 90 giorni devi essere consacrato. Ecco, per me non è stato possibile, perché in Mongolia non poteva venire nessuno, il paese era chiuso. Un altro esempio è la nomina: di solito vi è coinvolta molta gente, compreso il nunzio… per me, invece, eravamo quattro gatti, e tutto è stato fatto in sordina.

L’ho presa come un’indicazione di metodo, che poi è quello allamaniano di non fare rumore.

Oggi la Mongolia è ancora isolata e i luoghi di culto sono tutti chiusi da un anno e mezzo.

All’inizio, ho vissuto la pandemia in campagna, ad Arvahieer, come parroco. Quando è arrivato il momento di dare pubblicamente la notizia della mia nomina, sono andato in corriera a Ulaan Baatar. In quei giorni l’Italia era il paese più colpito dal coronavirus. Quando sono arrivato in capitale, è entrata la polizia nella corriera e, dato che io ero l’unico straniero, mi hanno chiesto di dove fossi. Quando ho risposto che ero italiano si sono spaventati tutti. Allora l’autista, che mi conosce, ha subito detto: “No no, lui vive qua, non era in Italia in queste settimane”».

Torino, consacrazione vescovile di Mons. Giorgio Marengo Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia

La chiusura ha riguardato solo le riunioni religiose, o tutti?

«A ondate è stata ridotta, fino a essere cancellata, anche la vita sociale in generale: le attività, i cinema, i teatri, ecc.

A intermittenza, le altre attività sono riprese, quella religiosa no. Non solo i luoghi di culto cristiani, ma tutti, anche i monasteri buddisti. Per noi cristiani è fondamentale recarci di persona in chiesa, per la celebrazione dei sacramenti, soprattutto l’eucaristia. È dunque un grande sacrificio quello che ci viene chiesto».

Ci fa una cronaca del Covid nel paese?

«Quando in Italia c’era il Festival di Sanremo, nel 2020, in Mongolia eravamo già chiusi.

Appena sono arrivate le prime notizie da Wuhan, il governo ha chiuso il confine con la Cina e ha bloccato tutte le comunicazioni interne.

In Mongolia sono molto bravi perché sono abituati a epidemie periodiche, per esempio alla peste bubbonica trasmessa dalle marmotte e dai roditori. Ogni anno d’estate ci sono dei luoghi in cui scoppia un focolaio, e allora chiudono tutto.

Per il Covid sono stati tempestivi, e sono riusciti a stare tranquilli per diversi mesi.

A marzo 2020 c’è stato il primo caso di un positivo: era un francese, lavoratore di una multinazionale. All’inizio è stato molto male, ma poi è guarito, e questa guarigione è stata vissuta dal paese come una vittoria. Si è diffusa un po’ l’illusione che la Mongolia fosse esente dalla pandemia. In effetti, i casi sono stati molto pochi per diversi mesi, fino all’autunno del 2020.

L’11 novembre è iniziato il primo lockdown serio, fino a Natale. Non si poteva uscire di casa. In quei mesi i mongoli hanno capito che non erano indenni neanche loro.

Con l’anno nuovo è iniziata la campagna vaccinale di massa. Questa primavera è stato un susseguirsi di lockdown e parziali riaperture.

Oggi (ad agosto, ndr) i casi sono molti e ci sono ancora decessi quotidiani, con picchi di 10 persone al giorno*».

Quali nuovi problemi e nuove opportunità ha portato la pandemia al paese?

«Nei momenti di chiusura sono emerse con più forza le grandi tensioni già presenti nella popolazione. Quelle che sfociano in piaghe sociali come l’alcolismo, che infatti ha avuto un boom.

La famiglia si sta sgretolando in Mongolia. Molte famiglie si sono trovate all’improvviso a stare “recluse” insieme nei pochi metri quadri della loro gher o appartamento, e sono venute fuori molte situazioni difficili, soprattutto laddove l’unità familiare era già minacciata dall’assenza di uno dei genitori, solitamente il padre. In generale, è balzata all’occhio di tutti la carenza del sistema sanitario. In un paese che sta crescendo, la sanità pubblica dovrebbe essere una priorità.

Il popolo mongolo, però, si compatta molto bene in caso di emergenza. Il sentimento di unità nazionale è molto forte, e si è visto chiaramente con la pandemia. Ad esempio, nessuno si lamenta della mascherina.

Sono anche emersi casi di eroismo civile: quando scarseggiavano ambulanze e autisti e lo stato ha chiesto aiuto alla popolazione, molta gente, anche con la propria macchina, si è offerta.

Come Chiesa abbiamo innanzitutto cercato di soccorrere le persone più in difficoltà, organizzando distribuzioni di generi di prima necessità. In questo, molti amici italiani sono stati di grande aiuto, rispondendo con generosità ai nostri appelli. Poi, trovandoci chiusi in casa, abbiamo potuto riflettere maggiormente sulle nostre attività, provando a intraprendere un discernimento. Da questo lavoro è nato, ad esempio, un progetto di catechesi in piccoli gruppi che possa andare avanti anche in caso di lockdown, perché le riunioni fino a cinque persone sono concesse. Una catechesi slegata dagli schemi del classico catechismo parrocchiale, quello fatto dall’autunno alla primavera, con la pausa estiva. Ci siamo inventati qualcosa di più adattabile.

E poi c’è tutto il discorso dei media: ancora adesso facciamo la trasmissione online della messa sul canale FB della prefettura apostolica della Mongolia. Anche le parrocchie la fanno. E i catechisti hanno iniziato a far circolare materiale sui social per sostenere i fedeli».

Qual è la peculiarità dell’essere un vescovo missionario della Consolata? Qual è il «valore aggiunto» che lei e i suoi confratelli vescovi offrite alle diocesi che guidate? E cosa offre il vostro essere vescovi all’Istituto?

«Alle chiese particolari i vescovi della Consolata offrono il loro essere missionari, quella spinta che va in ricerca non solo di chi è già cristiano, ma anche di chi è ancora fuori dal gregge cattolico. Penso anche alla nostra impostazione sacerdotale basata sulla spiritualità del beato Allamano, e quindi sui pilastri dell’eucaristia, della vita mariana e del fare bene il bene senza rumore. Sottolineerei soprattutto la dimensione della ricerca dell’annuncio. Cosa che magari in altri contesti, se il vescovo non viene da un’esperienza missionaria, può essere meno presente. Quindi un’attenzione particolare agli ultimi, e a quelli che, semplicemente, non sono cristiani, un atteggiamento di dialogo, una volontà di creare ponti nella società.

Per l’Imc avere dei vescovi tra i suoi missionari penso possa voler dire avere sott’occhio la situazione delle Chiese particolari da una prospettiva un po’ più ampia. Sono un po’ come delle voci che portano dentro l’Istituto tutta la Chiesa».

Il motto del suo episcopato è un versetto del salmo 34: «Guardate a Lui e sarete raggianti». In che modo ha vissuto questa esortazione nel suo primo anno da vescovo?

«Intanto mi sono piacevolmente stupito di come questo salmo ritorni molto spesso nella liturgia feriale. Ogni tanto nella messa quotidiana salta fuori questo “guardate a Lui e sarete raggianti”. Puntare lo sguardo del cuore verso il Signore penso sia la priorità del vescovo missionario.

Cerco, con tutta la mia povertà, di attaccarmi a questa Parola per viverla. La sproporzione fra le esigenze e le sfide della chiesa, e la mia povertà personale, mi mette con le spalle al muro, e mi rende più consapevole che la luce viene da Cristo. Se veramente guardiamo tutti a Lui, questa luce poi si espande nelle nostre realtà.

Poi c’è questa particolarità: “Guardate a lui e sarete raggianti” può essere tradotto anche con “guardate a lui e sarete luminosi”, oppure “illuminati”. Ecco, per noi l’illuminazione viene come pura grazia, non è il raggiungimento di un’intuizione nostra, è la luce di Cristo che ci raggiunge. L’illuminazione è anche il concetto centrale del buddismo. Quindi per me il versetto del salmo 34 ha anche il gusto del dialogo interreligioso.

Ho una grande stima dell’illuminazione come cammino di perfezionamento proposto dal buddismo, e nello stesso tempo sono felice di essere cristiano perché so che la luce viene e, semplicemente, noi la dobbiamo accogliere, e che arriva per chiunque, non è una cosa riservata a pochi intimi, ma è la proposta cristiana per tutti».

Luca Lorusso

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mongolia sono stati 236mila, 780 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 968, uno ogni 3.127 abitanti (in Italia uno ogni 470).


Scuola, sanità e narcos

Colombia: Monsignor Joaquín Humberto Pinzón Güiza

Monsignor Pinzón è il primo vescovo del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano. In un territorio «remoto», dove i confini sono percepiti come idee astratte, il Covid ha portato la durezza del confinamento, e la coscienza di essere uno spazio marginale per lo stato centrale. La pandemia ha evidenziato la carenza di sanità e scuola, ma anche il potere del narcotraffico e dei gruppi di guerriglieri. Nonostante questo, la resilienza e la speranza del popolo rimangono intatte.

Il nostro Vicariato di Puerto Leguizamo-Solano, costituito nel 2013, si trova nel Sud dell’Amazzonia colombiana. Comprende un territorio di 56mila km2 in cui convergono le comunità di tre dipartimenti colombiani: Sud di Putumayo, Sud di Caquetá e Nord dell’Amazzonia. La sua popolazione è di circa 59mila abitanti, di cui 49mila cattolici. Ci sono tredici sacerdoti, di cui 12 religiosi e uno diocesano, e 12 suore per 5 parrocchie. Uno dei suoi tratti peculiari è il suo carattere di confine (tra Colombia, Perù ed Ecuador), che consente lo sviluppo di dinamiche di scambio a tutti i livelli.

Frontiere immaginarie, frontiere reali

Quando papa Francesco dice che «tutto è connesso», ci aiuta a prendere coscienza che le dinamiche vitali che si generano sul pianeta riguardano tutti noi che lo abitiamo.

Essa è una verità ancora più evidente in questo tempo di pandemia da Covid-19. Chi avrebbe immaginato che il coronavirus, avendo avuto origine in terre lontane, avrebbe colpito anche questo angolo di mondo? Questo «luogo remoto», come è considerato da molti.

Possiamo dire che la pandemia non solo ha raggiunto il nostro territorio, ma ci ha anche colpito in modi sorprendenti e inaspettati*.

In questo spazio di vita colombiano dove i confini politici degli stati spesso sono più realtà immaginarie che effettive, dove le frontiere non entrano nella mentalità delle persone e dei popoli, ci è stato imposto un confinamento duro.

Improvvisamente le nostre interazioni e i nostri movimenti sono stati limitati.

Abbiamo capito che nonostante l’Amazzonia sia ampia, possono verificarsi condizioni che impongono limiti al movimento e alle relazioni.

Ora i confini nazionali e internazionali stavano entrando in vigore e in vita. Sì, la sfocatura e la relatività dei confini erano fortemente diluite davanti al nostro sguardo attonito e impotente.

Ora il fiume che ci ha sempre unito, non solo ci separava, ma sollevava nazionalismi che non aiutano nella ricerca di soluzioni ai problemi comuni che affrontiamo come persone, popoli e paesi.

Ora reciprocità e armonia lasciavano il posto all’isolamento e alle tensioni personali e comunitarie, locali, nazionali e internazionali.

Mons Pinzon con suor Gabriella Bono

Territorio trascurato: salute, scuola, fame

Il Covid-19 non solo ha messo in evidenza le differenze tra i paesi, ma ha anche e soprattutto rivelato le differenze all’interno del nostro paese. Abbiamo capito che quando veniamo chiamati «abitanti lontani» c’è qualcosa di vero, poiché in questo tempo di pandemia si è manifestato in modo chiaro lo storico abbandono dei luoghi periferici della Colombia da parte dello stato.

È così che il nostro territorio si rivela, pur con tutto il suo splendore, come territorio marginale, territorio di remota, vera frontiera. I servizi sanitari sono carenti: non esistono né le infrastrutture né il personale sufficiente, tanto meno le attrezzature e le forniture necessarie. Se la pandemia ha aiutato in qualcosa, l’ha fatto nell’evidenziare la precarietà del sistema sanitario.

Anche i servizi educativi sono stati travolti. Si è pensato di poter offrire un’educazione virtuale ai nostri bambini e ragazzi, ma qui, al di là dei cartelloni pubblicitari che affermano: «Leguizamo vive digitale», non c’è un servizio internet all’altezza. Non esistono apparecchiature informatiche che possano consentire ai ragazzi di connettersi. Se queste carenze sono state vissute nei centri urbani, che dire dei villaggi e delle comunità più remote?

È stato un fenomeno che ha esacerbato i problemi già esistenti di un sistema educativo di bassissima qualità, con molti limiti materiali e umani; un sistema che sopravvive grazie agli enormi sforzi degli insegnanti.

Purtroppo, tra i ragazzi c’è una grande diserzione della scuola: molti, demotivati dal fatto di non avere i mezzi per studiare, hanno iniziato a lavorare in fattorie, miniere o coltivazioni illecite.

Il confinamento ha portato anche la fame a coloro che vivono alla giornata (soprattutto nei centri abitati). A riguardo di questo, apprezziamo molto la generosità che è nata per soccorrere tante famiglie in difficoltà. Il valore della solidarietà è stato visibile.

Tarapaca, Colombia. Nov. 12, 2020. Aiuto a una famiglia in necessità. Credit: UE / ECHO / Nadège Mazars

Il traffico di droga non si ferma

Una realtà che non ha subito il confinamento è stata quella del traffico di droga. Anche durante la pandemia hanno continuato a esistere la coltivazione, la lavorazione e la commercializzazione delle droghe. È un fenomeno che rafforza un altro problema drammatico: la violenza.

Senza dubbio, quest’altra pandemia, quella della violenza, ha generato più morti del Covid-19, soprattutto tra i giovani.

Le coltivazioni illecite hanno la capacità di incoraggiare le nuove generazioni a entrare nel mondo del guadagno facile, di difondere quella che viene definita «narco mentalità», quella di chi vuole arricchirsi in fretta e con poco sforzo.

Tutto questo sta generando disgregazione familiare e sociale, sia nelle comunità contadine che in quelle indigene.

La guerriglia

Un’altra realtà, legata a quella della droga, che non ha vissuto il confinamento, è quella bellica. Essa ha continuato a seguire il suo corso «normale», uccidendo e provocando danni.

Gli effetti del processo di pace che si sta portando avanti con i guerriglieri delle Farc, li abbiamo sentiti nella fase di attuazione, quando il gruppo di insorti ha deciso di consegnare le armi. Abbiamo vissuto un periodo di armonia nel territorio e abbiamo potuto sperimentare una certa tranquillità. Ma è stato qualcosa di effimero, come ci ha detto un contadino: «Tanta felicità non può essere così duratura».

Ebbene, purtroppo, il processo di pace non ha previsto come fare per mantenere il controllo e garantire l’ordine nei territori precedentemente in mano alle Farc. Le istituzioni non sono state in grado di arrivare in quei territori. E i territori strategici per la loro collocazione geografica, come il nostro, sono diventati oggetto di contesa da parte di diversi attori, come i dissidenti delle Farc e i gruppi legati al narcotraffico (senza specifica identificazione), tutti motivati dal profitto che le economie illegali portano, e tutti generatori di paura, ansia, caos e morte.

La nostra gente vive consapevole che non c’è alternativa al resistere, e al resistere con saggezza e prudenza, come sa fare da decenni. È la stessa strategia che mette in atto per affrontare il Covid.

Fare del Covid un’opportunità per la vita

Le devastazioni della pandemia da Covid-19 e le altre pandemie che abbiamo descritto, fanno percepire alle persone la fragilità della vita, nonostante sia un dono così prezioso. La malattia, così come la violenza, non hanno remore a colpirci con forza. Ciò che risalta di più in questa lotta è la resilienza delle persone che guardano al futuro con speranza.

Scendendo dal fiume Caquetá sul deslizador, mezzo di trasporto fluviale di questi territori, ho assistito a una conversazione tra alcune persone. Mi ha colpito la frase di una donna: «A che ci è servito tutto questo, se non impariamo niente? Continuiamo come prima».

La verità è che, per molti, tutto quello che hanno vissuto in questo tempo di pandemia, è stato solo una parentesi da chiudere al più presto per tornare alla «vita normale». Ma c’è anche chi crede che questa esperienza ci abbia aiutato in qualcosa, soprattutto a pensare e ripensare il nostro stile di vita politico, economico e sociale.

La pandemia ha messo in luce lo splendore e la fragilità della vita, e la precarietà dei nostri servizi educativi e sanitari. Ecco perché l’imperativo che ne traiamo è quello di valorizzare la vita al di là di ogni altra realtà e di lottare per essa, individualmente e collettivamente.

L’incertezza è ciò che caratterizza il futuro del nostro territorio. Il destino della guerra e del traffico di droga è incerto; incerta la situazione di abbandono da parte dello stato, e la condizione dei servizi educativi e sanitari. Sì, tutto è incerto, e qualsiasi previsione sarà sempre inscritta nell’orizzonte delle probabilità, delle utopie che a volte si trasformano in chimere. Tuttavia noi, come Chiesa, crediamo che la situazione che stiamo vivendo sia uno spazio propizio per sviluppare una spiritualità che ci permetta di affrontare le difficoltà, per rafforzare le spiritualità dei popoli e, al loro interno, proporre la spiritualità della cura, della riconciliazione, della comunione e dell’accompagnamento.

Qui è urgente sognare, progettare e realizzare propositi evangelici che formino e alimentino la vita dei credenti come popolo e come discepoli.

Essere famiglia umana

La coscienza di essere un’unica famiglia umana si rafforza nella fraternità e nell’amicizia sociale.

Nel nostro Vicariato sarà urgente la formazione della coscienza comunitaria, e il rispetto della vita in tutte le sue manifestazioni.

Qui siamo sollecitati a capire che siamo tutti sulla stessa barca e che i problemi di alcuni riguardano tutti, come ha sottolineato papa Francesco. È necessario dare corpo all’utopia della fratellanza, quella tra gli uomini e quella tra l’uomo e la natura. A tal fine, cercheremo di fare delle nostre comunità spazi di vita e di comunione, spazi di trasmissione e coltivazione dei valori di un’umanità solidale.

I motivi per credere sono tanti, tanto da fare della resistenza la nostra forza e da trasformare la paura in speranza.

Joaquín Humberto Pinzón Güiza

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Colombia, su una popolazione di 48,6 milioni di persone, sono stati 4,9 milioni, 1.011 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 125.331, uno ogni 387 abitanti (in Italia uno ogni 470).

Casa distrutta dal ciclone Idai a Tete


Se non bastassero cicloni e terrorismo

Mozambico: Monsignor Diamantino Guapo Antunes

Successore del suo confratello, monsignor Ignazio Saure, divenuto arcivescovo di Nampula, mons. Diamantino è vescovo di Tete dal 12 maggio 2019. È il quinto da quando la diocesi è stata eretta nel 1962. Il Covid, in Mozambico, come in molti altri paesi, ha reso ancora più evidente l’insufficienza della sanità pubblica, e il bisogno di vicinanza e di gesti di consolazione.

La diocesi di Tete conta circa tre milioni di abitanti sparsi in un’area di 100mila Km2 (un terzo dell’Italia). I cattolici sono 750mila. Ci sono 35 parrocchie, 65 sacerdoti, tra cui 17 diocesani e gli altri missionari. I Missionari della Consolata sono sette, incluso il vescovo, responsabili di quattro missioni e un centro di formazione per catechisti.

Il territorio è molto vario, c’è una zona fertile molto popolata (altipiano di Angonia), e una zona secca e arida (lungo il rio Zambesi). Centro propulsore di tutta la regione è la città di Tete.

Le popolazioni appartengono alla stessa etnia bantu, ma sono differenti per lingua e tradizioni. Le principali lingue sono: cinyungwe (40%), cichewa (35%) e cisena (15%) e altre (10%).

La gente vive di agricoltura e, quando può, di commercio informale con bancarelle lungo la strada. Si vive a contatto con le popolazioni dello Zambia, Zimbabwe e Malawi. Il territorio di Tete è ricco di miniere di carbone e ha una delle più grandi centrali idroelettriche dell’Africa, la diga di Cabora Bassa sul fiume Zambezi.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Storia della diocesi

Possiamo dividere la storia dell’evangelizzazione nell’attuale diocesi di Tete in due periodi. Il primo fu iniziato nel 1562 da gesuiti e domenicani che rimasero nella zona fino alla loro espulsione nel 1910. Il secondo iniziò nel 1942, e fu un periodo di penetrazione e consolidamento della Chiesa nel vasto territorio. Esso portò alla creazione della diocesi nel 1962. L’opera di evangelizzazione continua a essere svolta dai gesuiti, dai Missionari d’Africa, dai Padri di Burgos, dai Missionari Comboniani e della Consolata, a diretto contatto con la popolazione, nel lavoro quotidiano e nell’assistenza sanitaria, con notevoli frutti.

La situazione pandemica

Il primo caso di infezione con il nuovo coronavirus in Mozambico è stato confermato il 22 marzo 2020. Si trattava di un uomo di 75 anni tornato dal Regno Unito. Nel 2020 i casi di infezione sono stati pochi, ma con l’allentamento di alcune misure di prevenzione alla fine dell’anno, e l’arrivo dei turisti sudafricani, i casi sono aumentati notevolmente*.

Il Mozambico a inizio agosto era il paese africano con il maggiore tasso di positività, il 16,7%. Le misure del governo si sono fatte più severe. Le scuole sono state chiuse in alcune città, i luoghi di culto pure, c’è il coprifuoco dalle 21 alle 4. Mercati chiusi la domenica. Funerali limitati.

Gli operatori sanitari sono vaccinati, ma la campagna di vaccinazione è lenta. L’intento è di estenderla a tutto il paese entro la fine del 2021.

I nuovi problemi

Il Covid-19 è arrivato in Mozambico in un momento di grande difficoltà. Eravamo nel mezzo della gestione dell’emergenza legata ai cicloni Idai e Kenneth, che avevano distrutto nel 2019 case, centri di salute e ospedali, oltre ad aver causato 600 morti e molti dispersi. Inoltre il terrorismo islamista nella provincia di Cabo Delgado era (ed è) un altro grave problema.

La pandemia ha avuto un grande impatto sull’economia e sulla società, in particolare sul turismo e l’esportazione di materie prime. Il 60% degli stabilimenti turistici ha chiuso. La caduta dei prezzi di materie prime, come carbone e gas, ha pregiudicato gli investimenti esteri, facendo perdere altri posti di lavoro ed entrate statali.

Le piccole imprese hanno immensa difficoltà a mantenere i propri impegni fiscali, divenendo un problema per il paese già abbastanza indebitato.

L’impossibilità dell’insegnamento in presenza ha avuto un profondo impatto sul settore educativo. Lo stesso possiamo dire in campo religioso con la sospensione delle celebrazioni pubbliche e delle altre attività pastorali.

Senza accesso a redditi o sussidi di disoccupazione, con un risparmio piccolo o nullo, e in uno scenario di aumento dei prezzi, la popolazione più povera di Tete, soprattutto urbana, è oggi vulnerabile alla fame. La povertà e l’insicurezza alimentare aumentano l’insicurezza pubblica e urbana, e la piccola criminalità.

Infine, si è ridotta la risposta dei servizi sanitari di trattamento e prevenzione di altre malattie comuni come malaria, tubercolosi, Hiv-Aids.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

La risposta della diocesi di Tete

La provincia di Tete è una delle più colpite dalla pandemia. Essa è, infatti, un corridoio di passaggio per i vicini Malawi, Zambia e Zimbabwe.

La diocesi ha cercato di mantenere viva la speranza tra la gente e di essere una presenza di consolazione e aiuto. Il vescovo ha visitato le missioni ed è stato in contatto con le comunità. Ha chiesto ai missionari di stare ancora più vicini ai fedeli, anche visitando le famiglie.

Siamo a stretto contatto con il ministero della Sanità a livello provinciale, partecipiamo ai tavoli tecnici per organizzare una risposta al coronavirus che metta al primo posto la prevenzione.

Nella Provincia di Tete c’è meno di un medico ogni 10mila abitanti (in Italia ce n’è uno ogni 247, ndr) e le strutture sanitarie sono poche e a volte prive di medicinali. Per questo la prevenzione e la formazione sono la chiave.

Gli agenti di pastorale si sono impegnati anche per diffondere messaggi di sensibilizzazione sul coronavirus, lavorando in piccoli gruppi per rispettare il distanziamento sociale. Abbiamo prodotto spot che sono trasmessi dalla neonata radio diocesana. Gli spot vengono diffusi in dialetti differenti, per arrivare a tutti. Alcuni missionari hanno montato degli amplificatori sulle macchine che girano per barrio e villaggi diffondendo le stesse raccomandazioni.

Diamantino Guapo Antunes

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mozambico, su una popolazione di 28,8 milioni di persone, sono stati 148mila, 51 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.881, uno ogni 15mila abitanti (in Italia uno ogni 470).


Una chiesa piccolo ma pronta

Eswatini: Monsignor José Luís Gerardo Ponce de León

Dal 2014 è vescovo dell’unica diocesi del piccolo Regno di Eswatini. Monsignor Ponce de León descrive una chiesa viva in un paese che, pur pacifico, ha manifestato negli ultimi mesi diverse tensioni, e palesato problemi sanitari, scolastici, economici e sociali rafforzati dal Covid.

Il Regno di Eswatini si trova tra Sudafrica e Mozambico. Il paese, che fino al 2018 si chiamava Swaziland, ha di recente fatto notizia a causa delle violenze dello scorso luglio. Conosciuta come una nazione pacifica, in pochi giorni ha visto la morte di una cinquantina di persone, il ferimento di altre centinaia, e la distruzione di molti negozi.

La diocesi di Manzini è l’unica del paese e, così, io sono l’unico vescovo cattolico. Su una superficie di 17mila km2 (come il Lazio, ndr) vivono 1,4 milioni di abitanti dei quali il 5% cattolici. Arrivato nel 2012 come «amministratore apostolico» dopo la morte di mons. Louis Ncamiso Ndlovu dell’Ordine dei servi di Maria, nel gennaio del 2014 sono diventato il suo quinto vescovo.

La piccola presenza cattolica, in questa nazione a maggioranza cristiana, è ben conosciuta, anche grazie al nostro servizio nel campo della salute (un ospedale, sette cliniche, un ospizio), dell’educazione (sessanta scuole) e della promozione di giustizia e pace (traffico di persone, rifugiati) coordinati dalla Caritas Eswatini.

Proteggere la popolazione

Non appena il presidente del Consiglio ha dichiarato, lo scorso marzo 2020, lo stato di emergenza, la nostra diocesi ha preso due iniziative. La prima è stata quella di interrompere la celebrazione delle funzioni religiose in tutte le parrocchie (17) e le comunità (un centinaio). La rapidità della decisione ha colto di sorpresa molti che hanno così capito la gravità della pandemia. La seconda è stata quella di identificare, insieme alla Caritas, le aree di intervento urgente. Ne abbiamo identificate sei: salute, cibo, acqua, rifugiati, comunicazione, casa.

Salute. Abbiamo fornito l’ospedale, i centri di salute e l’ospizio dei dispositivi di protezione individuale. La Conferenza episcopale italiana ci ha aiutati.

Cibo. La mancanza lavoro e la riduzione degli stipendi hanno inciso sulle famiglie. Le scuole, poi, nel nostro paese, sono una delle principali fonti di nutrimento per i bambini. Con le scuole chiuse, non ne potevano più beneficiare. Per questo, attraverso le nostre parrocchie, stiamo fornendo pacchi alimentari ai poveri della zona.

Acqua. Il messaggio «Lavati le mani» è stato uno dei primi che tutti abbiamo ricevuto e predicato. La domanda qui era: «Come fai quando l’acqua non c’è?». Abbiamo quindi offerto ad alcune famiglie una cisterna e delle grondaie per raccogliere l’acqua piovana. Avere un serbatoio consente anche di acquistare acqua da conservare per i tempi meno piovosi.

Informazione. Come in altri paesi, il governo ha utilizzato radio e Tv per informare sul virus. Con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che c’erano famiglie nelle zone rurali che non avevano nemmeno una radio. Pertanto è stato fatto un elenco di 500 famiglie cui fornirle. Le radio hanno aiutato anche i bambini che hanno potuto ascoltare i programmi radiofonici di insegnamento.

Case con due stanze. Questo programma è iniziato in diocesi molti anni fa grazie al supporto di Home Plan (Olanda). Il Covid-19 lo ha reso più urgente. Il distanziamento è essenziale nella lotta al virus, ma per alcune famiglie che vivono affollate in case di una sola stanza è un lusso.

Rifugiati. Ogni anno visitiamo il Centro per i rifugiati sostenendo le famiglie con pacchi alimentari. La metà dei rifugiati sono bambini. Quest’anno la richiesta del Centro è stata di fornire loro articoli da toeletta e materassi.

Cinquantesimo di padre Massa

Vicinanza social, ma non solo social

Come in altre nazioni, il Covid, oltre a creare dei nuovi problemi, ha portato allo scoperto quelli che già esistevamo ma stavano nascosti, come la mancanza di cibo e di acqua. Ne ha anche accentuati diversi, come la difficoltà delle famiglie di pagare la scuola: quando i giovani hanno potuto tornarci, tanti ci hanno chiesto una mano. La Chiesa cattolica qui è conosciuta come una chiesa al servizio di tutti, e il vescovo, in qualche modo, padre di tutti. Chiunque ne ha bisogno viene a trovarmi e, anche se non possiamo aiutare ogni volta, apprezzano di essere ascoltati.

Da sempre la diocesi ha saputo rispondere alle sfide sociali. Il Covid però ha portato nuove sfide come quella di accompagnare la fede dei cattolici che non potevano più andare in chiesa. La messa qui non è un’abitudine. Celebrare insieme è un elemento forte della nostra spiritualità.

Abbiamo allora preparato dei file audio da inviare via WhatsApp: preghiere e riflessioni sulle letture proposte dai preti della diocesi. Abbiamo anche offerto la messa della domenica su YouTube e, nella settimana santa, «le sette parole».

Con la pagina Facebook della diocesi sappiamo di aver raggiunto tanti.

Le sfide non finiscono

Al momento di scrivere questo articolo Eswatini si trova ad affrontare la terza ondata del Covid*, e soltanto il 10% della popolazione ha ricevuto le due dosi del vaccino. I numeri di coloro che possono entrare in chiesa è limitato. Chi vuole prepararsi per i sacramenti (battesimo degli adulti, comunione, cresima) non può farlo.

Per di più viviamo un tempo di violenza. Sembra che la calma sia tornata, ma è dovuta soltanto alla presenza dei soldati per le strade.

Un’altra sfida che rimane è quella della vicinanza a coloro che sono stati colpiti dal Covid. C’è bisogno di aiuto a livello spirituale e psicologico. Chi è stato contagiato e ha sentito la morte alle porte, chi ha visto i famigliari soffrire o morire a casa (una donna ne ha persi sette in due mesi), è rimasto con delle ferite non guarite.

Le chiese sono sempre il punto di riferimento più importante nei momenti difficili, e, allo stesso tempo, sono le prime a dover chiudere le porte…

Abbiamo bisogno, come diocesi, di ritrovarci (preti, religiose e laici) per riflettere su come essere chiesa in questo momento. La terza ondata probabilmente non sarà l’ultima e rischiamo di mancare di creatività, quella che ci porta lo Spirito, per continuare a testimoniare il Risorto.

José Luís Gerardo Ponce de León

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi registrati in Eswatini, su una popolazione di 1,5 milioni, erano 44mila, 302 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.158, uno ogni 1.267 abitanti (in Italia uno ogni 470).


È tempo di prendersi cura

Brasile: Monsignor Giovanni Crippa

Fin dall’inizio dell’emergenza Covid, dal marzo 2020, la Chiesa brasiliana si è spesa per soccorrere la popolazione, in particolare i poveri. Anche nella diocesi di Estância, dove monsignor Crippa è stato vescovo dal 2014 fino ad agosto, la pandemia ha colpito duro, ma la risposta della Chiesa è stata, ed è, forte e creativa.

La diocesi di Estância è stata eretta da papa Giovanni XXIII nel 1960. Il suo territorio fu il primo in Sergipe (Nord Est del Brasile, ndr) a essere toccato dall’azione missionaria dei Gesuiti (1575).

Situata nella parte centro meridionale dello stato di Sergipe, la diocesi ha una superficie di 6.650 km2 e una popolazione di 509.675 abitanti, di cui, secondo il censimento del 2010, il 50,56% vive in aree urbane e il 76,85% si dichiara cattolico.

La popolazione è il risultato dell’incrocio di indios, neri (ex schiavi) e bianchi figli dei colonizzatori, particolarmente dal Portogallo.

Abbiamo 28 parrocchie e 617 comunità, 41 sacerdoti, tutti diocesani, 22 seminaristi, 8 istituti religiosi femminili, con 52 religiose in 12 comunità.

Le frequenti situazioni di violenza, disoccupazione, illegalità e aggressione all’ambiente richiamano l’attenzione della diocesi, la quale risponde con progetti di formazione e di promozione umana, giustizia e salvaguardia del creato.

La realtà pandemica in Brasile

Tutti nel mondo stiamo vivendo un momento molto difficile a causa della pandemia. Un tempo che tocca la vita delle comunità nei suoi aspetti pastorali, liturgici, spirituali, sociali ed economici.

Il Brasile è uno dei paesi più colpiti, e fin da subito la Chiesa brasiliana si è mobilitata. Già il 15 marzo 2020, infatti, la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha diffuso un messaggio chiedendo l’osservanza delle indicazioni sanitarie per contrastare la diffusione del virus.

La pandemia, inoltre, ha aggravato la crisi politica già in atto da tempo nel paese. Il 30 aprile 2020, il Consiglio pastorale episcopale della Cnbb ha approvato una nota in cui dichiarava il proprio impegno per un «Patto per la vita e il Brasile», firmato con altre importanti entità brasiliane. Allo stesso modo, ha invitato la società e le autorità pubbliche a unirsi per prevenire e combattere la più grave crisi sanitaria degli ultimi tempi.

Ordinazione episcopale del vescovo Giovanni Crippa

In quello stesso mese di aprile 2020 la Cnbb e la Cáritas brasileira hanno avviato l’iniziativa «É Tempo de cuidar» (È tempo di prendersi cura) con l’obiettivo di promuovere la solidarietà a favore delle famiglie bisognose, prive di cibo, lavoro, casa e accesso alle cure mediche.

Un anno dopo, nella 58ª Assemblea generale della Cnbb dell’aprile 2021, è stata nuovamente discussa la realtà pandemica in Brasile, e si è deciso di proseguire con la campagna. L’iniziativa «É Tempo de cuidar» incoraggia anche il supporto spirituale, psicologico e religioso per chi ha vissuto il lutto a causa della pandemia.

Con il tema «Ogni vita è importante», la Cnbb ha poi organizzato il 19 giugno 2021 una giornata di sensibilizzazione e preghiera in memoria degli oltre 500mila morti per Covid-19. Per entrare in sintonia con la Cnbb e il popolo brasiliano, nello stesso giorno, alle ore 15, tutte le campane delle chiese hanno suonato assieme.

Il 9 luglio 2021, ancora una volta, la Cnbb ha alzato la voce per difendere le vite minacciate, i diritti violati e per sostenere il ripristino della giustizia, cosciente che la società democratica brasiliana sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia.

La tragica perdita di oltre mezzo milione di vite, fra le quali un grande numero di sacerdoti e alcuni vescovi, è purtroppo aggravata dal sospetto di illeciti e corruzione compiuti nella lotta alla pandemia. Il grande numero di contagiati* ha rivelato la precarietà del sistema ospedaliero brasiliano, nonché il rifiuto degli orientamenti della scienza da parte dell’attuale governo, particolarmente del presidente Jair Messias Bolsonaro.

Gli effetti nella diocesi

Anche la diocesi di Estância ha dovuto prendere decisioni che hanno segnato la vita delle comunità. Dal 18 marzo 2020, infatti, si è entrati in una sorta di quarantena generale: rapporti sociali ridotti al minimo, distanza di sicurezza tra le persone, manifestazioni di affetto da evitare, confinamento in casa, rinuncia a tutte le attività che comportano assembramenti, comprese le celebrazioni eucaristiche pubbliche.

La pandemia ci ha chiesto di essere più umili: con una maggiore coscienza dei nostri limiti e di non essere né onnipotenti né autosufficienti.

In questo tempo siamo chiamati a ricostruire la speranza, promuovere la solidarietà e incentivare la preghiera. È un tempo che ci ha chiesto una vita di austerità, sobrietà e semplicità.

Tutte le comunità hanno dato una testimonianza evangelica di solidarietà raccogliendo donazioni per i bisogni dei più poveri che bussano sempre più numerosi alle porte delle nostre chiese.

Se le porte delle nostre chiese sono rimaste «chiuse» per un certo tempo, la Chiesa ha però continuato la sua azione evangelizzatrice.

Le sfide in tempi di Covid

La condizione inedita in cui viviamo suscita molti interrogativi e, soprattutto, richiede un discernimento spirituale su ciò che il Signore vuole comunicarci in questo momento di tribolazione.

La pastorale ha bisogno in questo momento di reinventarsi, di usare la creatività. Le Linee generali per l’azione evangelizzatrice della Chiesa in Brasile (Dgae 2019-2023), sono strutturate sulla Comunità ecclesiale missionaria presentata con l’immagine della «casa». Una casa con le porte aperte per entrare (l’importanza dell’accoglienza) e anche per uscire (in missione).

La situazione che stiamo vivendo ci chiede di essere audaci cercando Gesù fuori dalle nostre case. Gesù non può essere ridotto al tempio. Le chiese dalle «porte ancora semi chiuse» ci provocano e ci sfidano a fare delle nostre case uno spazio per costruire la Chiesa domestica.

La Chiesa, anche attraverso i social media, ha davanti a sé la grande sfida di andare nelle periferie geografiche ed esistenziali e risvegliare tanti fratelli e sorelle alla vita di fede comunitaria.

La pandemia ha colpito tutti, anche se con impatti diversi. In questo momento, la Chiesa deve essere un «ospedale da campo» per sanare le ferite, offrire consolazione e speranza. Le situazioni di miseria, perdita del lavoro, vulnerabilità al contagio, interpellano la Chiesa a collaborare per il bene comune con le autorità pubbliche, a superare l’assistenzialismo e ad aiutare le persone a essere soggetti della propria storia.

Forse l’attuale «stato di emergenza» è un indicatore e anche un acceleratore del nuovo volto della Chiesa che Gesù vuole per questo nuovo tempo, che non può e non deve tornare indietro.

Giovanni Crippa**

* Al 7 settembre, i casi registrati in Brasile, su una popolazione di 207,6 milioni, erano 20,9 milioni, 1.006 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 584mila, uno ogni 355 abitanti (in Italia uno ogni 470).

** Pochi giorni dopo aver scritto queste righe, monsignor Giovanni Crippa, l’11 agosto, è stato nominato dal papa vescovo di Ilhéus, diocesi 600 km più a Sud.


Attuali vescovi IMC:

  1. Luis Augusto Castro Quiroga nato l’8/4/1942 a Santa Fe de Bogotá (Colombia). OE: 29/11/1986 a Santa Fe de Bogotá.
  2. Virgilio Pante nato il 16/3/1946 a Lamon, (Italia). OE: 6/10/2001 a Maralal.
  3. Anthony Ireri Mukobo nato il 23/9/1949 a Mufu – Kyeni (Kenya). OE: 18/3/2000 a Nairobi.
  4. Elio Rama nato il 28/10/1953 a Tucunduva (Brasile). OE: 30/12/2012 a São Paulo.
  5. Peter Kihara Kariuki nato il 6/2/1954 a Thunguri – Othaya (Kenya). OE: 11/9/1999 a Murang’a.
  6. Francisco Javier Múnera Correa nato il 21/10/1956 a Copacabana (Colombia). OE: 11/2/1999 a Santa Fe de Bogotá.
  7. Giovanni Crippa nato il 6/10/1958 a Besana in Brianza (Italia). OE: 13/5/2012 a Feira de Santana.
  8. Inácio Saure nato il 2/3/1960 a Balama (Mozambico). OE: 22/5/2011 a Maputo.
  9. José Luis Gerardo Ponce de León nato l’8/5/1961 a Buenos Aires (Argentina). OE: 18/4/2009 a Mtubatuba.
  10. Diamantino Guapo Antunes nato il 30/11/1966 a Albergaria dos Doze (Portogallo). OE: 12/05/2019 a Tete.
  11. Joaquín Humberto Pinzón Güiza nato il 3/7/1969 a Velez (Colombia). OE: 20/4/2013 a Bogotá.
  12. Giorgio Marengo nato il 07/06/1974 a Cuneo (Italia). OE: 8/8/2020 a Torino.

Hanno contribuito al dossier:

  • Monsignor Giorgio Marengo Vescovo di Ulaan Baatar, Mongolia, dall’8/8/2020.
  • Mons. Joaquín Humberto Pinzón Vescovo di Puerto Leguízamo-Solano, Colombia, dal 20/4/2013.
  • Mons. Diamantino Guapo Antunes Vescovo di Tete, Mozambico, dal 12/5/2019.
  • Mons. José Luís Gerardo Ponce de León Vescovo di Ingwavuma, Sudafrica, dal 18/4/2009; poi vescovo di Manzini, Regno di Eswatini, dal 26/1/2014.
  • Mons. Giovanni Crippa Vescovo ausiliare di São Salvador da Bahia, Brasile, dal 13/5/2012; poi vescovo di Estância, Sergipe, Brasile, dal 9/7/2014; ora vescovo di Ilhéus, Bahia, Brasile, dal 9/10/2021.
  •  Luca Lorusso Giornalista redazione MC che ha curato il dossier

 




Perù: 1821-2021. Duecento anni sono pochi

Sommario

 

 


Il maestro venuto dalle Ande

Le elezioni e un bicentenario difficile

Prima la pandemia con 200mila morti, poi un’elezione che ha portato il paese sull’orlo di un golpe  «trumpismo andino») e di una guerra civile. Il Perù festeggia il bicentenario (1821-2021) della propria indipendenza in un clima molto teso.

Era il 28 luglio del 1821 quando il generale José de San Martín, uno dei liberatori delle Americhe, da un palco in piazza Mayor (Plaza de Armas) di Lima proclamò l’indipendenza dall’impero spagnolo. Nell’anno della pandemia, il Perù celebra non soltanto il bicentenario della propria indipendenza da Madrid, ma anche l’inizio di un nuovo quinquennio presidenziale.

Le elezioni dell’11 aprile e del 6 giugno sono state vinte dal maestro Pedro Castillo, atipico e imprevisto candidato della sinistra. Secondo l’organismo elettorale peruviano (Onpe), la differenza in suo favore è stata di 44.176 voti. Pochi, ma sufficienti per un sistema democratico che rispetti il «principio di maggioranza». Keiko Fujimori, la candidata della destra, figlia prediletta dell’ex presidente e dittatore Alberto Fujimori (in carcere con una condanna di 25 anni per violazione dei diritti umani e corruzione), non ha però accettato la sconfitta dando il la a una lunga sequela di ricorsi legali al Tribunale elettorale nazionale (Jurado nacional de elecciones, Jne) e di pesanti azioni di disturbo (tentativi di corruzione del Jne, dichiarazioni golpiste di ex ufficiali delle Forze armate, manifestazioni di piazza, ecc.).

Eppure, anche gli osservatori dell’Organización de estados americanos (Oea) hanno sancito la regolarità del processo elettorale. Mentre Ned Price, portavoce del Dipartimento di stato degli Stati Uniti, si è felicitato con le autorità peruviane per «aver amministrato in sicurezza un altro turno di elezioni libere, giuste, accessibili e pacifiche, anche nel mezzo delle importanti sfide dovute alla pandemia di Covid-19» (22 giugno).

(Photo by Ernesto BENAVIDES / AFP)

Pedro Castillo

Il vincitore, José Pedro Castillo Terrones, maestro elementare, sindacalista e rondero (persona appartenente a gruppi rurali di autodifesa, ndr), ha prevalso principalmente nel Perù rurale, quello dimenticato dallo stato (soprattutto nei campi – fondamentali – della sanità e dell’istruzione) e impoverito da un sistema economico ingiusto.

Come abbiamo accennato all’inizio, la sua è stata una vittoria di stretta misura, ma ottenuta in condizioni proibitive. Contro di lui, candidato proveniente da Puña (Chugur, Cajamarca), un paesino della sierra (come è chiamata in Perù la regione delle Ande) dove anche le donne indossano un sombrero, è stata infatti orchestrata una campagna di disinformazione a tutto campo, sia in patria che all’estero (qui, sotto la guida del premio Nobel Mario Vargas Llosa). In Perù, si sono schierati contro Castillo i gruppi imprenditoriali, la classe medio alta di Lima, la quasi totalità dei media (per l’80 per cento appartenenti al gruppo de El Comercio) e quella parte di popolazione urbana abbagliata dall’assistenzialismo dei fujimoristi (finanziatori di «comedores» e «vasos de leche»). Castillo è stato chiamato «terruco» (terrorista) e «serrano» (peruviano di serie B), ma ha resistito a bugie e offese, rispondendo con grande moderazione.

Keiko Fujimori

La sconfitta, Keiko Fujimori, leader di Fuerza popular, è tuttora in libertà condizionata. Nell’aprile 2020 era stata rilasciata dalla prigione dove scontava la carcerazione preventiva a seguito di una lunga serie di capi d’accusa. Sconfitta nel segreto dell’urna (per la terza volta di seguito nella sua carriera politica), la signora Fujimori ha scatenato le sue truppe: un centinaio di avvocati, appartenenti agli studi più prestigiosi del Perù, e i suoi sostenitori, tra cui La Resistencia (un gruppo violento di matrice fascista), che protestavano per le strade di Lima. L’unico argomento utilizzato per attaccare l’avversario è stato il suo (presunto) comunismo. Se i seguaci di Keiko hanno mostrato cartelli del tipo «No al fraude comunista de la Onpe» o «Mi familia le dice no al comunismo», quelli di Castillo hanno issato cartelli che ricordavano l’essenza della democrazia: «Mi voto se respeta» (visto che i voti questionati sono quelli delle zone rurali, dove ha vinto il maestro).

L’azione destabilizzante di Keiko Fujimori non si spiega soltanto con la sua sete di potere, caratteristica probabilmente ereditata dal padre. Si spiega soprattutto sulla base dei suoi legami (anche finanziari) con l’oligarchia peruviana che domina il paese – materialmente e culturalmente – fin dal 1821.

Keiko Fujimori (Photo by Miguel Yovera / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

Il nuovo colonialismo

Il colonialismo non è finito con una data sui libri di storia. Ne ha parlato molto Aníbal Quijano, sociologo peruviano scomparso nel 2018. Il professore è andato oltre quel concetto generico per parlare di «colonialidad» (colonialità), intesa come «modello di potere».

Senza però fare ricorso al pensiero accademico, è sufficiente riportare quanto affermato in un’intervista da Eduardo Adrianzén, drammaturgo molto conosciuto nel paese: «C’è ancora una mentalità coloniale che non vuole considerare alla pari il cittadino amazzonico, andino o il peruviano che non è di una grande città o che non vive secondo i valori di questa. Il pensiero culturale egemonico-urbano-limegno pretende di essere l’unico e il solo corretto e proprio qui sta il problema, ed è per questo che vedi le élite dei dinosauri disperate perché non vogliono perdere il controllo. […] Oserei dire che il cittadino limegno medio ha quattro filtri che si attivano appena incontra qualcuno: il colorimetro (il colore della pelle), il vestimetro (i vestiti che indossa), l’odorimetro (l’odore che emana), il parlometro (come parla, se è istruito o no)» (La República, 27 giugno). Non si tratta di esagerazioni: il Perù è un paese razzista. «È un razzismo sotterraneo, ma che diventa esplicito sui social network», ha spiegato il sociologo Farid Kahhat (Bbc News, 2 luglio).

Golpe, stallo e resistenza

Per spiegare la situazione peruviana si è parlato di un «golpe lento», di un «trumpismo andino», paragonando il Perù agli Stati Uniti di Trump. Tutto vero com’è vera una pandemia che, soprattutto per carenze strutturali, ha già fatto oltre 200mila morti e mandato sul lastrico quell’enorme fetta di popolazione che vive di lavoro informale.

Le prime conseguenze dell’estenuante stallo politico sono state quelle solite, pesanti ma quasi noiose nella loro prevedibilità: svalutazione del sol, la moneta nazionale, rispetto al dollaro, caduta della Borsa (per mano degli immancabili speculatori), fuga di capitali (dei ricchi, ovviamente). Più una conseguenza più piccola, ma significativa: una decina di giornalisti delle televisioni Canal 4 (America Tv) e Canal N si sono dimessi o sono stati licenziati per non aver seguito la linea editoriale della proprietà (il citato gruppo de El Comercio) che imponeva di appoggiare Keiko Fujimori. Tanto di cappello – anzi, di sombrero (come quello sempre indossato da Castillo) – per questi giornalisti peruviani. Anche la Chiesa cattolica (approfondimento a pag. 39), dopo essere stata molto suggestionata dalla propaganda contro il (presunto) comunismo del vincitore, ha seguito la via indicata da papa Francesco chiedendo di riconoscere senza ulteriori indugi la vittoria di Pedro Castillo.

Dal 28 luglio 2021

Sono trascorsi duecento anni dall’indipendenza del Perù dalla Spagna, ma il processo di liberazione non è terminato. Come abbiamo visto, i retaggi del colonialismo (e della colonialidad) sono ancora ben presenti e radicati nel paese andino. Premesso questo, il 28 luglio 2021 segna un nuovo inizio, che sarà difficile, complicato, imprevedibile. Per ora è questa la sola certezza.

Paolo Moiola


Da una parte (e dall’altra)

La Chiesa cattolica peruviana e le elezioni

Sacerdoti e vescovi erano schierati in maggioranza contro il maestro Castillo. Poi, la rotta è stata corretta per merito dell’intervento (silenzioso) di papa Francesco.

Sono stati mesi complicati anche per la Chiesa cattolica peruviana, istituzione molto influente nel paese andino. Vescovi e sacerdoti sono intervenuti nel dibattito elettorale sia dai pulpiti delle chiese che da quelli dei social media. E sovente si sono schierati, scegliendo una parte.

Le avvisaglie di una lotta senza esclusione di colpi iniziano già a marzo quando il padre Jaime Ruiz del Castillo, missionario spagnolo e vicario generale della diocesi di Moyobamba (San Martín), fa parlare molto di sé per le feroci critiche all’«abortista» Veronika Mendoza, all’epoca principale candidata della sinistra, e per l’appoggio a Rafael López Aliaga (Renovación popular), membro dell’Opus Dei.

Un imprevisto di nome Castillo

Dopo il primo turno elettorale, celebrato l’11 aprile, la situazione cambia con il passaggio al secondo turno di Keiko Fujimori e, soprattutto, di Pedro Castillo, vincitore inatteso ed esponente di una sinistra vecchia maniera.

Si tratta di un cambiamento importante del quadro generale visto che Pedro Castillo e Keiko Fujimori hanno posizioni molto simili, se non coincidenti, sulle tematiche dirimenti in ambito religioso: aborto, matrimonio omosessuale, diritti Lgbt, eutanasia non rientrano nelle agende programmatiche dei due contendenti.

Tra vescovi e sacerdoti l’opposizione al maestro Castillo si concentra sulla sua adesione al marxismo, immediatamente declinato come adesione al comunismo duro e puro. E questo nonostante le ripetute smentite pubbliche dell’interessato: «Non siamo comunisti, non siamo chavisti, non siamo terroristi. Siamo lavoratori come ognuno di voi» (Andina, 28 aprile).

Una battaglia ideologica

Visto il clima esasperato, tra il primo e il secondo turno elettorale, la Conferenza episcopale peruviana (Cep) si unisce al Coordinamento nazionale per i diritti umani (Cnddhh), all’associazione civile Transparencia e all’Unione delle Chiese cristiane evangeliche del Perù (Unicep) per proporre ai due candidati l’accettazione di un accordo denominato «Proclama cittadino: giuramento per la democrazia», un patto in dodici punti per il rispetto della democrazia, delle istituzioni e dei diritti umani. Il 17 maggio, entrambi i contendenti firmano l’accordo durante un incontro pubblico trasmesso dalle televisioni. Il proclama, lodevole nelle intenzioni, non sortisce però gli effetti sperati e non abbassa i toni del confronto elettorale.

Nello stesso giorno, durante l’omelia nella parrocchia di Santa Mónica, a San Isidro, ricco distretto di Lima, il padre Pablo Augusto Meloni Navarro, sacerdote e medico, ricorda ai fedeli che «il comunismo è intrinsecamente perverso», come già aveva affermato papa Pio XI nell’enciclica Divini Redemptoris del 1937. Senza mai citarne il nome, il padre critica lo slogan «palabra de maestro» utilizzato da Pedro Castillo (di professione maestro), affermando che il solo maestro è Gesù Cristo.

Il 24 maggio, monseñor José Antonio Eguren Anselmi, arcivescovo di Piura e Tumbes e membro del Sodalicio de Vida cristiana, in una lettera aperta scrive tra l’altro: «Lo faccio come un qualsiasi peruviano, che non vuole per il suo paese che il totalitarismo comunista distrugga la nostra libertà, i nostri diritti e la nostra indipendenza».
Lo stesso giorno, in favore di telecamere, Keiko Fujimori si reca alla sede della Cep per incontrare monseñor Miguel Cabrejos, presidente della stessa e del Consejo episcopal latinoamericano (Celam).

Il giorno seguente, la Cep rende pubblica una Carta al pueblo de Dios in cui, al punto 6, si condanna il comunismo come «un sistema perverso» e, al medesimo tempo, «il capitalismo selvaggio che riduce l’essere umano al consumismo e alla ricerca del profitto a ogni costo».

Lo stesso 25 maggio, nell’infuocato dibattito interviene anche padre Omar Sánchez Portillo, segretario generale della Caritas di Lurín, molto presente su YouTube con omelie e interviste. Il sacerdote lamenta che il clero e i fedeli stiano zitti davanti al pericolo comunista che comprometterebbe il futuro del Perù e che è nemico della Chiesa come sancito dal numero 2.425 del Catechismo della Chiesa cattolica (che rifiuta sia il «comunismo ateo» sia «il capitalismo che privilegia il mercato sulla persona», ndd).

Il 30 maggio, a una settimana dal secondo turno elettorale, monseñor Javier del Río Alba, arcivescovo di Arequipa, afferma: «Sappiamo tutti che il marxismo-leninismo è un’ideologia atea. Di conseguenza, tutto il programma e tutte le idee partono dalla negazione dell’esistenza di Dio; e sappiamo anche che, per questa ideologia, la religione è considerata come un nemico che deve scomparire». Il prelato specifica che la firma sul «Proclama cittadino» non significa che la Chiesa cattolica appoggi il candidato Pedro Castillo.

Il crocefisso di Keiko

monseñor Pedro Barreto

Dopo i risultati del secondo turno e davanti all’escalation di recriminazioni (soprattutto da parte di Keiko Fujimori), interviene monseñor Pedro Barreto, cardinale e gesuita, arcivescovo di Huancayo e primo vice presidente della Cep, il più conosciuto e aperto tra i vescovi del paese: «Invito tutti i cittadini e i partiti politici ad aspettare e rispettare scrupolosamente i risultati ufficiali di questo secondo turno. Mettere in discussione e parlare di frode, di golpe, insomma di tante altre cose, è irresponsabile e non possiamo accettarlo» (9 giugno).

A stemprare la situazione ci pensa papa Francesco incontrando a Roma prima (il 16 giugno) monseñor Cabrejos e, il giorno seguente, monseñor Carlos Castillo Mattasoglio, arcivescovo di Lima. Il pontefice invia una benedizione speciale «perché ci sia pace, unità e si trovino le vie migliori per risolvere i problemi del Perù, pensando sempre agli emarginati e ai poveri». Circolano foto con grandi sorrisi e abbracci. Viste le divisioni create dalle elezioni, quello di papa Francesco è un intervento necessario ma non sufficiente.

Il 26 giugno Keiko Fujimori, brandendo un crocefisso, prega in Plaza Bolognesi davanti ai suoi sostenitori: «Signore Dio onnipotente, Signore Gesù, ti chiediamo, oggi che il nostro paese è così polarizzato, diviso, pieno di paura e incertezza, che tu ci dia forza, speranza, amore, gioia, fede nel nostro futuro. Oggi siamo qui riuniti perché vogliamo conoscere la verità, vogliamo giustizia elettorale e che il popolo venga rispettato».

Lo stesso giorno, in Plaza San Martín, non lontana da quella dell’antagonista, Pedro Castillo, vincitore (virtuale) delle elezioni, si dimostra più laico e, per l’ennesima volta, ripete: «Non siamo chiavisti, non siamo comunisti, siamo democratici», ribadendo che il suo obiettivo politico è «non più poveri in un paese ricco, parola di maestro».

Correzione di rotta e mediazione

Sempre il 26 giugno, la Cep dirama un comunicato in cui, al punto 2, si dice di rispettare il risultato indicato dagli organi elettorali. Quattro giorni dopo è mons. Carlos Castillo a parlare stigmatizzando l’utilizzo dei simboli religiosi e il ritardo nella proclamazione del vincitore (Vatican News, 30 giugno). È un’evidente correzione di rotta, che fa infuriare la destra fujimorista (Aldo Mariátegui, Perú21, 2 luglio). Pertanto, vista la situazione pericolosamente polarizzata, è molto probabile che papa Francesco dovrà far sentire ancora la sua voce.

Paolo Moiola


Perù, tempi di maccartismo

La conversazione

Dopo le elezioni del 6 giugno, abbiamo conversato con Wilfredo Ardito Vega, professore all’Università Pontificia di Lima, esperto di diritti umani e scrittore. Ecco cosa ci ha raccontato.

«È difficile capire cosa ha vissuto il Perù in questo ultimo anno e mezzo», esordisce Wilfredo Ardito Vega, da noi raggiunto via WhatsApp nella sua casa di Lima. Noto professore universitario e scrittore, il nostro interlocutore non vuole iniziare a rispondere su elezioni e politica senza prima aver ricordato i 200 mila morti causati dal virus nel suo paese, cifre che portano il Perù ad avere il record del più alto tasso di mortalità per Covid-19 al mondo.

(Photo by Carlos MAMANI / AFP)

Sono 44.176 voti in più

Professore, andiamo alla situazione politica. Secondo l’organismo elettorale (Onpe), tra i due candidati alla presidenza ci sono stati 44.176 voti di differenza. Pochi, ma questa è la democrazia. Perché Keiko Fujimori e i suoi alleati stanno facendo di tutto per sovvertire il risultato elettorale? È una mossa disperata o un preciso disegno politico?

«Perché Keiko e i suoi alleati non vogliono la democrazia: vogliono il potere. Per questo hanno usato e stanno usando tutti i mezzi a loro disposizione, dalle campagne di destabilizzazione sui social network all’incitamento al golpe. Gestiscono diversi scenari contemporaneamente: annullare i voti, annullare tutte le elezioni, generare terrore nella popolazione. Bisogna però distinguere diversi settori: il partito di Fujimori, chiamato Fuerza popular, in pratica una mafia legata a gruppi malavitosi; i settori della destra conservatrice, dove sono presenti uomini d’affari, militari e alcuni leader religiosi; infine, c’è un settore, formato principalmente da gente di classe media e alta, fortemente influenzato dai media come la televisione (America, Willax) e il gruppo de El Comercio (si veda tabella a pag.43, ndr), che crede davvero che il Perù debba essere salvato dal comunismo. Va notato che costoro identificano il comunismo con Sendero Luminoso, il gruppo maoista assetato di sangue che causò molte morti negli anni Ottanta».

Lei non parla di «lotta politica», ma di «maccartismo» (sviluppatosi negli Usa negli anni Cinquanta, fu un’avversione esasperata verso persone ritenute comuniste, ndr). Come spiega l’utilizzo di un termine tanto pesante?

«Lotta politica vuol dire usare mezzi legali per arrivare al potere, significa dibattito e idee. In Perù, si è aperta una scena violenta in cui molte persone che hanno votato per Keiko non solo attaccano in modo razzista e classista coloro che hanno preferito Castillo, ma anche quelli della propria classe sociale, se essi hanno votato per il maestro, se hanno votato in bianco, nullo o non votato. Tutti sono accusati di essere comunisti, terroristi e nemici del paese. C’è una violenza molto grande nelle reti sociali e in altri spazi con insulti e attacchi a familiari, amici di scuola, colleghi di Università e di lavoro. Hanno anche stilato liste per non comprare in negozi tenuti da “comunisti” o “traditori di classe”. Sui social network viene chiesto esplicitamente di protestare davanti alle case di artisti, giornalisti, politici che non hanno votato per Keiko fino a quando loro e le famiglie non lascino il paese. Il linguaggio dell’intolleranza è tipico dei peggiori momenti della Guerra fredda, ma la cosa patetica è che nessuna delle persone vessate è comunista, ma gli aggressori sono convinti che lo siano».

Giustizia: carcere sì, carcere no

La magistratura ha chiesto che la signora Fujimori torni in carcere. Prima di queste elezioni, lei ha affermato che la pratica giudiziaria della «carcerazione preventiva» verso Keiko e verso altri era una misura esagerata. La sua critica dipende dal fatto che lei è un difensore dei diritti umani e un garantista?

«Sì, è così. Come difensore dei diritti umani, mi sembra che l’applicazione della carcerazione preventiva nel nostro paese sia attuata in modo sproporzionato. Anche nel caso di Keiko Fujimori, all’inizio la misura mi sembrava esagerata, ma ora, dopo tutte le azioni golpiste che il suo gruppo sta promuovendo, penso che sarebbe stata una misura giustificata.

Il pubblico ministero, infatti, aveva già chiesto un intervento sul partito di Fuerza popular per aver costituito un’organizzazione criminale sotto la facciata di un’organizzazione politica. Il provvedimento non era però stato accolto dai giudici in quanto alcuni avevano ritenuto che potesse essere percepito come una persecuzione politica. Tuttavia, i fatti di oggi evidenziano che sarebbe stato un provvedimento necessario e che questo gruppo non avrebbe mai dovuto partecipare alle elezioni».

(Ad aprile 2020, la signora Keiko è stata messa in libertà condizionata; a giugno 2021, il pubblico ministero ha chiesto il suo ritorno in carcere per violazione della stessa, ma la misura non è stata concessa, ndr).

Il Perù è un paese con grandi potenzialità, ma con grandi o enormi diseguaglianze. Le diversità programmatiche tra Castillo e Keiko sono proprio sull’economia: il primo è per un cambio importante (che fa paura all’oligarchia), la seconda è per la continuità con l’attuale sistema di libero mercato. È così?

«In verità, il principale cambiamento che Castillo propone si riferisce a una nuova Costituzione che sostituisca quella approvata nel 1993 da Fujimori (Alberto, padre di Keiko Fujimori, ndr). Sul piano economico, vuole che le società estrattive paghino per i loro profitti e vuole anche porre fine all’interferenza dei gruppi del potere economico nelle decisioni della politica. Tuttavia, mi sembra che la sua forza più grande sia rendere visibili i discriminati e gli esclusi, la cui miseria è stata accresciuta dalle decisioni prese da Vizcarra (presidente da marzo 2018 a novembre 2020, seguito da Merino per soli cinque giorni e, infine, da Sagasti, ndr) per cercare di combattere la pandemia. Provvedimenti sproporzionati e disastrosi, ma accettati con calma dai settori medio e alto. Per i poveri si è invece evidenziata la lontananza dello stato dai loro problemi».

(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP)

Quel «comunista» di Pedro Castillo

Quasi nove milioni di voti a testa. Lima (11 milioni di abitanti) ha però votato in larga misura per Keiko Fujimori, mentre il Perù rurale e andino ha votato per Castillo. Si può dire che esistano due paesi diversi?

«Il Perù è una società molto complessa. Nelle proteste avvenute a Lima in favore di Keiko, alcuni giovani avevano magliette con scritte in inglese (Better dead than red, No commies) che mostravano la loro assoluta distanza dagli altri peruviani, ma erano convinti che fosse un modo efficace di esprimersi. Gli abitanti di Lima sono più suscettibili alle campagne mediatiche dei gruppi di potere. Sono stati terrorizzati da settimane di immagini nei media che mostravano la crudeltà della vita in Venezuela e Cuba. I mega cartelloni stradali pro Keiko non facevano riferimento direttamente a lei, ma alla democrazia versus il comunismo. Se a questo si aggiungono razzismo, classismo e centralismo, Castillo non era più visto come un uomo di sinistra, ma come un mostro. Va aggiunto che, sebbene la popolazione di Lima abbia sofferto molto per la pandemia, l’impatto economico sul resto del paese è stato atroce. Le persone che sentono di aver perso tutto (letteralmente) sono più aperte al cambiamento. Allo stesso modo, non l’intero Perù sostiene Castillo. Come successo a Lima, anche sulla costa Nord, dove ci sono le città più sviluppate (Piura, Chiclayo, Trujillo), ha vinto Keiko».

La religione e la famiglia peruviana

Lei sostiene che la sinistra moderata di Veronika Mendoza ha perso perché ha insistito troppo su temi (aborto, unioni omosessuali, eccetera) che ai peruviani non interessano per nulla. È così?

«In realtà, pochi considerano Mendoza come moderata o più moderata. I media l’hanno presentata ugualmente vicina al chavismo e al comunismo. La differenza principale con Castillo è che lei era una candidata più vicina ai settori urbani, ma ha commesso troppi errori. In un contesto di pandemia, disoccupazione e crisi economica, la sua insistenza sui diritti sessuali e riproduttivi è sembrata del tutto fuori luogo. Inoltre, ha ignorato i sentimenti religiosi della maggior parte della popolazione, duramente colpita dalla chiusura dei luoghi di culto. Le persone di fede ritengono che, nei governi di Vizcarra e
Sagasti, siano stati presenti gruppi ideologici per imporre l’ideologia di genere e osteggiare la religione. Questa convinzione sarebbe confermata, secondo costoro, dal fatto che i centri commerciali hanno aperto i battenti sette mesi prima delle chiese e per entrare in un luogo di culto sono stati stabiliti requisiti di biosicurezza molto più severi che per entrare in un mercato o in una banca. A ciò va aggiunto il grande rifiuto che esiste tra i peruviani all’aborto e la presenza di forti movimenti di ricusazione dell’ideologia di genere, soprattutto nei settori evangelici. Mendoza era associata a tutte queste idee ed è per questo che è stata vista, al primo turno, come una candidata contro il cristianesimo. Castillo invece si è presentato con una prospettiva più vicina alla maggioranza dei peruviani sostenendo la famiglia tradizionale. Ecco perché, sui temi (fondamentali) della famiglia e della religione, lui è stato visto da molti peruviani come un moderato. A tal punto che molti peruviani bianchi hanno persino giustificato il loro voto per Keiko dicendo che Castillo è un candidato contro i diritti civili. Un pretesto per nascondere il loro pregiudizio nei suoi confronti».

Un paese razzista

Lei è anche un esperto di razzismo. Castillo è stato chiamato non soltanto «terruco», ma anche con il termine offensivo di «serrano». Il Perù è ancora un paese razzista?

«Il Perù è un paese estremamente razzista nei confronti della popolazione indigena e degli afro-peruviani. Per i bianchi dell’alta borghesia è un affronto totale che Castillo possa essere presidente. Sono disgustati nel vederlo indossare un cappello, nel sentire come parla, nel vedere il colore della sua pelle. Per questo lo paragonano a un animale, insistono che è ignorante e il loro disprezzo è rivolto anche ai suoi elettori.

È vero che ci sono stati altri presidenti con tratti andini come Alejandro Toledo, Ollanta Humala e Martín Vizcarra, ma la differenza sociale è abissale: Toledo era insegnante negli Stati Uniti, Humala ha studiato alla costosa scuola francese di Lima, Vizcarra vive nel quartiere più ricco di Lima. In Perù, al razzismo si affiancano classismo e centralismo, motivo per cui Castillo è molto più andino degli altri presidenti».

La Chiesa cattolica e la «minaccia» del comunismo

La Chiesa cattolica è un soggetto ancora importante in Perù? Come si è schierata in questa contesa tra Castillo e Keiko?

«La Chiesa cattolica ha molto peso nel nostro paese e tradizionalmente ha parlato molto contro la corruzione. Purtroppo, negli ultimi mesi, ha emesso pronunciamenti in cui non accenna a questo problema e, invece, pensa a condannare il comunismo come se questa minaccia fosse reale (il riferimento è al comunicato del 24 maggio, ndr). In questo modo, molti cattolici hanno creduto che il voto per Keiko fosse il voto cattolico. Ci sono diversi sacerdoti e vescovi che hanno seguito questa linea in modo abbastanza esplicito e la signora Fujimori di solito cita Giovanni Paolo II e Dio nei suoi comizi. Pochi altri sacerdoti religiosi, molti meno in verità, hanno messo in guardia sui problemi della povertà e dell’ingiustizia sociale. Le dichiarazioni anticomuniste della Chiesa sono state ampiamente respinte dagli elettori di Castillo, per i quali è stato deplorevole che un’istituzione così credibile abbia preso sul serio un argomento assurdo. Insomma, secondo me, la Chiesa ha perso molta credibilità da quando ha firmato quel pronunciamento. Peggio ancora, i vescovi hanno accolto Keiko Fujimori e hanno fatto una sessione fotografica amichevole (lo scorso 24 maggio, ndr), come se il suo ruolo negli scandali della corruzione fosse sconosciuto. Non c’è stato un incontro simile con Castillo, ufficialmente perché non si è presentato. D’altra parte, Castillo ha incontrato diversi leader evangelici e in vari eventi ha invitato i pastori a predicare durante il raduno».

Quindi, Castillo è legato a qualche Chiesa evangelica?

«Non mi piace molto mettere etichette. Comunque, la sua appartenenza religiosa non si sa con certezza, mentre la moglie e le figlie dovrebbero essere evangeliche».

(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP)

Il machete, il crocifisso e l’arroganza di Vargas Llosa

A Lima sono arrivati dalla sierra gruppi di ronderos per difendere la vittoria di Castillo. Da parte sua, tra un reclamo e l’altro, Keiko ha esibito il crocifisso alla folla dei suoi sostenitori. Cosa ne pensa?

«Personalmente non ho visto alcun rondero con machete e non capisco perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi. Il crocifisso è una nuova dimostrazione che Keiko ha perso tutto il pudore e vuole il supporto della gente a qualsiasi costo. Penso che quel gesto sia stato troppo anche per i cattolici».

Il premio Nobel Mario Vargas Llosa, neo fujimorista, però non demorde. Sui giornali di mezzo mondo continua a ripetere che c’è stata una frode elettorale e che il Perù è in pericolo.

«Vargas Llosa non è stato mai un buon politico. Non capisce il Perù né lo vuole capire. E si circonda solamente di un’élite arrogante come lui».

Il futuro sarà complicato

Nell’ultimo anno e mezzo, il suo paese ha vissuto prima la crisi pandemica e ora anche la crisi politica. Come vede il futuro?

«Il Perù che conoscevo nel 2019, prima della pandemia, è in frantumi. Miseria, fame, malnutrizione, disuguaglianza sono avanzate come mai prima in pochi mesi. Ci sono molte persone che hanno perso tutti i contatti con gli altri, perché vivono in isolamento. Per i bambini, gli adolescenti e gli anziani sono stati tempi particolarmente duri. Sarà molto difficile per la società peruviana rialzarsi, anche in quelle aree personali o familiari, dopo tanti danni. Molti paesi hanno affrontato situazioni drammatiche nel corso della loro storia, ma sono andati avanti, perché avevano chiaro in mente che la società doveva essere ricostruita. In Perù, la situazione è più complicata: ci sono mafie che vogliono assumere il potere e che potrebbero frenare qualsiasi tipo di ricostruzione».

Lei insegna all’Università Pontificia di Lima, una delle più prestigiose del paese. Se i suoi alunni le domandassero qualche commento sulla situazione del Perù, cosa risponderebbe?

«Direi loro che hanno dovuto vivere momenti molto difficili ma che debbono metterli da parte per non essere sopraffatti dallo scoramento. Sopravvivere in Perù è un compito difficile e ogni giorno ci sono nuove sfide. Direi loro di lasciare gli schermi dei computer, di uscire dalle loro stanze, di parlare con altre persone, di allenarsi e combattere per recuperare una condizione umana. Molti ragazzi, che nella pandemia hanno perso i loro familiari o che dovranno lasciare il college, hanno necessità di un trattamento psicologico. Come ho già detto, non sappiamo se il paese potrà essere ricostruito. Però, è importante lottare per preservare la propria integrità psicologica, fisica e morale».

 Paolo Moiola


I padroni delle notizie


NOTE:

(1) Il gruppo, appartenente alla famiglia Miró Quesada, è egemonico, detenendo il 78% della stampa peruviana. E, elemento fondamentale, raccoglie la quasi totalità della pubblicità per la stampa, le televisioni e il web (anche attraverso il sito perured.pe). A fine giugno, Juan Ricardo Macedo Cuenca, giudice costituzionale, ha dichiarato che la concentrazione dei media nelle mani del Grupo El Comercio viola la Costituzione.
(2) Per ricordare la vicinanza a Keiko Fujimori, è popolare la trasformazione di alcuni nomi: El Komercio, Keiko21, ecc.
(3) A giugno una decina di giornalisti peruviani sono stati licenziati o si sono dimessi per aver contestato la linea editoriale pro-Keiko delle televisioni appartenenti al Grupo El Comercio.
(4) América Televisión è la più importante rete televisiva commerciale del Perù. L’alleanza con la messicana Televisa le consente di trasmettere telenovelas, molto seguite nel paese.
(5) Emittente televisiva di estrema destra di proprietà della famiglia Wong, che deve la sua fortuna ai supermercati. In Perù, vige un capitalismo dominato da una ventina di famiglie guidate dai Brescia e dai Romero.
(6) Secondo il Digital News Report 2021, in Perù il sito del quotidiano El Comercio è il più visitato.
(7) Il quotidiano ospita le opinioni di Mario Vargas Llosa. Il premio Nobel è uomo di destra. Si è schierato apertamente con Keiko Fujimori e ha sostenuto l’ipotesi della frode elettorale.
(8) È la rivista dell’«Instituto de defensa legal» (Idl), editore anche dell’emittente Ideele Radio e del sito investigativo idl-reporteros.pe.

FONTI:

Reuters Institute, «Digital News Report 2021»;
OjoPublico-Reporteros sin fronteras, «Media ownership monitor, Perù»;
Pedro Maldonado, «Un pulpo de los medios de comunicación», Ideele Revista, n. 234.

A cura di Paolo Moiola
(Luglio 2021)


(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP


Il nuovo colonialismo e l’arte di arrangiarsi

Il fenomeno delle «invasioni»

Le «invasioni» di terre sono una caratteristica del Perù, soprattutto a Lima. È l’arte di arrangiarsi del popolo dimenticato e impoverito. È la risposta all’ingiustizia storica perpetrata da un’élite che si comporta esattamente come i colonialisti scacciati 200 anni fa.

Il Perù ha raggiunto l’indipendenza 200 anni fa, ufficialmente il 28 luglio del 1821. Tuttavia, almeno fino a oggi, il paese è stato costruito sulla base della (ristretta) visione del mondo che aveva e ha il piccolo gruppo dell’oligarchia peruviana, quell’élite criolla (i criollos sono i creoli, persone di origine europea nate nelle colonie dell’America Latina) discendente dei bianchi che hanno sempre gestito il potere.

Un potere che prima, al tempo della colonia spagnola, questa élite esercitava attraverso la corte dei viceré e poi, a partire dall’inizio della repubblica, si è ritrovata a gestire in proprio. Ancora oggi, il Perù è nelle mani di un gruppo ristretto (una dozzina di famiglie, conosciute come i «12 apostoli»), erede dell’élite originaria, che detiene il potere economico, sociale e culturale e definisce pertanto come deve essere il paese.

La Lima bianca e l’altra Lima

Questa élite bianca, urbana, installata principalmente a Lima (capitale per quasi 300 anni del più prestigioso viceregno dell’America Latina), ha guardato sempre al mondo occidentale come modello, dando però le spalle al resto del paese. Questo storicamente spiega come le grandi necessità della popolazione delle periferie e dell’interno del paese siano state sempre ignorate se non addirittura criminalizzate, alla luce dell’accusa di perturbare l’ordine e la pace.

Alla fine degli anni Cinquanta, questo modello ha causato le prime migrazioni dalle zone rurali alle città e soprattutto a Lima. Migrazioni definite «invasiones» dall’élite aristocratica, i cui antenati, per ironia della storia, secoli prima avevano invaso il Perù.

Fiumi di persone che scappavano dal sistema feudale del latifondismo si sono dovute conquistare uno spazio vitale per iniziare una nuova vita, occupando i terreni della desertica costa peruviana, fuori della capitale, adeguandosi a costruire ripari che avessero la parvenza di quattro pareti e un tetto. Si iniziavano così a costituire quei cinturoni di baraccopoli (asentamientos humanos, pueblos jóvenes, barriadas) abitate da esclusi e impoveriti. Esclusi e impoveriti che ancora oggi sono ignorati o criminalizzati dalla Lima bianca.

La mancanza di una vera e propria politica di stato, dovuta all’assenza di una visione realistica del paese, ha fatto sì che Lima (come tutte le maggiori città) crescesse inglobando le baraccopoli, legalizzando con successivi titoli di proprietà l’informalità delle «invasiones». Di conseguenza, oggi queste costituiscono la maggior parte del territorio di Lima metropolitana.

La particolare storia demografica della città lo dimostra: dalla fine degli anni cinquanta, Lima è passata da poco piú di un milione di abitanti ai quasi 11 milioni di oggi. Il tutto su un paese che, con una superficie quattro volte l’Italia, ha una popolazione totale di circa 31 milioni di persone. Pertanto, un terzo della popolazione del Perù vive a Lima: al centralismo politico, economico e finanziario ha fatto seguito il centralismo demografico.

Questo fenomeno di «invasiones» dalle regioni andine ed amazzoniche del Perù alle città e soprattutto alla capitale, non si è mai fermato del tutto, ma ha solo alternato periodi di maggiore o minore flusso. Ultimamente alla migrazione interna, si è aggiunta anche la necessità di case per i discendenti dei primi migranti e, in parte, anche dei migranti venezuelani, che in Perù sono più di un milione di persone.

Le invasioni, come e perché

Le ultime occupazioni, in ordine di tempo, di terreni desertici liberi avvengono proprio in concomitanza con il primo turno delle elezioni politiche generali.

Domenica 11 aprile, circa tremila persone, spinte dalla necessità di un tetto sotto cui vivere, occupano un’area nella zona conosciuta come Lomo de Corvina a Villa El Salvador, uno dei 43 distretti di Lima metropolitana, anch’esso fondato e auto costruito dal nulla sulle terre sabbiose a Sud della capitale nel maggio del 1971.

Si tratta di intere famiglie, provenienti questa volta non dall’interno del paese, ma da altre zone popolari di Lima che, disperate per non poter più pagare l’affitto per la perdita del lavoro (informale, di solito la vendita ambulante di qualsiasi oggetto commerciabile) a causa della pandemia, hanno approfittato del contesto elettorale, quando gran parte della polizia era occupata a garantire la regolare realizzazione della consultazione.

In questi giorni, di notte, centinaia di persone arrivano per occupare un terreno che appartiene all’impresa mineraria Luren. Il direttore generale dell’’azienda, Alejandro Garland, chiede alle autorità di intervenire e sgombrare subito gli invasori, avvertendo anche che l’area non è edificabile e che si tratta di una zona sismica.

Dopo quattro giorni, gli «invasori» hanno già diviso la zona occupata e ciascuno di loro ha già separato e delimitato il proprio spazio, dormendo sulle stuoie sistemate sul suolo sabbioso della collina, in tende o baracche montate alla meno peggio, scavando buche da adattare a latrine per le necessità immediate, organizzando una olla común («pentola comune»), cucinando comunitariamente il poco cibo che hanno potuto portare con sé e illuminando la notte con candele e lumi a petrolio.

La maggior parte di loro sostiene che questo gesto disperato è stato fatto per la necessità di un luogo dove vivere con la propria famiglia. «Sono venuto qui perché non potendo più lavorare, non ho più i soldi per pagare l’affitto. Se c’è un proprietario, perché non si è mai occupato di questa zona abbandonata?». Una donna assicura di avere il sostegno degli abitanti della zona, perché si ridurrebbero i casi di rapina o aggressione. Pertanto, chiede al proprietario di venire a parlare con tutti per trovare insieme una soluzione. «Vogliamo un posto dove vivere. Siamo disposti a lottare affinché ci lascino questo spazio. Non abbiamo denaro perché abbiamo perso tutto a causa della pandemia. Supplichiamo la polizia di non attaccarci».

«Non siamo trafficanti di terreno, siamo soltanto persone con grandi necessità», aggiunge un’altra persona per rispondere alle accuse di essersi messi nelle mani della delinquenza organizzata.

Attorno alla zona occupata ci sono circa 150 soldati che sorvegliano il terreno, oltre alla polizia nazionale del Perù. Questa ha assicurato che il ritiro avverrà in maniera pacifica, mentre il ministro dell’Interno, José Elice Navarro, ha detto che stanno cercando il dialogo pacifico con tutti.

Neppure il tempo di affrontare questa situazione che alcuni giorni dopo, la mattina del 13 aprile, nel Morro Solar, appartenente al distretto di Chorrillos, un altro dei 43 di Lima metropolitana, quasi 1.500 agenti di polizia arrivano per sfrattare migliaia di persone (si parla di oltre novemila). Molti occupanti si ritirano, ma un gruppo di cittadini continuano a scontrarsi con la polizia per tutta la giornata.

Secondo il reportage di Tv Perù, la televisione pubblica del paese, la polizia è entrata con i lacrimogeni per cercare di obbligare gli occupanti ad abbandonare la zona. Alcuni di loro, però, hanno iniziato a lanciare pietre e altri oggetti contundenti, per impedire alla polizia di sfrattarli dai terreni che già avevano lottizzato per costruire le proprie abitazioni. Alla fine, la polizia è riuscita a prevalere evacuando gli occupanti e impedendo un ulteriore accesso al luogo.

«Al fondo hay sitio»

Va detto che le invasiones avvenute in questo periodo elettorale sono solo alcune delle centinaia che accadono ogni anno fin dagli anni Cinquanta. Prima per sfuggire al latifondismo, poi – a partire dagli anni Ottanta – alla violenza del conflitto armato interno tra Sendero Luminoso (e, in minor parte, Mrta) e le forze armate e la polizia del Perù. E, ultimamente, anche per la migrazione climatica e come conseguenza delle concessioni di varie zone del paese alle grandi imprese multinazionali impegnate nell’estrazione di minerali, gas e petrolio.

Storicamente, in Perù non c’è mai stata una vera e propria politica di urbanizzazione e di uso del territorio. Le invasiones, la pratica dell’occupazione dei terreni, rimangono quindi come l’unica strada della popolazione disperata che, per altro, molte volte diventa vittima della mafia dei trafficanti di terreni.

Costoro occupano i terreni liberi, li lottizzano e garantiscono agli interessati che, in cambio di una certa somma di denaro, presto avranno un regolare titolo di proprietà. Normalmente questa mafia agisce in collaborazione con funzionari dei municipi dove avvengono le invasiones. Se l’occupazione ha buon esito, questi signori possono guadagnare migliaia di dollari in poche ore.

Le invasioni sono però l’unica maniera per ottenere uno spazio in cui vivere, presentandosi davanti alle autorità a occupazione compiuta. E molte volte esse, quando i terreni non hanno un particolare valore, tollerano la situazione, frenando così le tensioni sociali. Questa prassi ribadisce semplicemente la cosiddetta politica a doppio standard: lotti per autocostruzione senza alcun tipo di assistenza e servizio (acqua, elettricità, fognature, strade) per i più poveri, mentre si garantisce un’autentica formalità, crediti e zone urbanistiche di alto livello per i settori medio-alti della popolazione.

Un solo esempio basta per capire il paradosso: su una collina a Sud di Lima c’è un muro lungo circa dieci chilometri che divide vari insediamenti umani della zona d’invasione di Pamplona Alta (nel distretto di San Juan de Miraflores) dal quartiere Las Casuarinas (appartenente al distretto di Santiago de Surco), una delle zone più esclusive del Perù. È universalmente conosciuto come il «muro de la vergüenza» (della vergogna).

Secondo un recente rapporto pubblicato da Periferia (un’organizzazione peruviana specializzata in soluzioni urbane con un approccio ecologico) e Wwf Perù, quasi la metà della popolazione urbana del Perù (45,9%) vive in baraccopoli, in alloggi scadenti o con servizi idrici e igienico-sanitari assenti o inadeguati.

La gente povera afferma che l’unica politica abitativa in Perù è l’«arte dell’arrangiarsi» e, con amara ironia, ripete uno slogan ormai famoso: «Al fondo c’è spazio. Chi arriva prima se lo prende».

Giovanni (Gianni) Vaccaro


Hanno firmato questo dossier

  • Paolo Moiola – giornalista, redazione MC.
  • Wilfredo Ardito Vega – giurista, professore presso la Pontificia Universidad Católica del Perú (Pucp) di Lima, è esperto in diritti umani. Scrittore, è autore di vari libri, tra cui anche tre romanzi.
  • Giovanni (Gianni) Vaccaro – nato in Sicilia, vive a Lima dall’agosto del 1992. Con la moglie Nancy e i quattro figli ha deciso di vivere a Tablada de Lurín, periferia Sud della capitale peruviana, dove è responsabile dell’«Asociación de desarrollo solidario “Yachay Wasi de Tablada”». È rappresentante in Perù per la Focsiv.

 




Venezuela – Colombia: le donne dell’esodo

Sommario

La migrazione femminile dal Venezuela alla Colombia

Uno zaino di sofferenza

Oggi si stima che la maggioranza dei migranti venezuelani in Colombia sia costituita da donne («migrazione femminizzata»). Per loro, conosciute come simbolo di bellezza, ci sono pericoli e insidie aggiuntive. Inclusa la morte violenta.

Bogotà. «Venezuela duele», il Venezuela fa male. Utilizzando un’espressione che l’indimenticato Eduardo Galeano aveva coniato con riferimento a Cuba («Cuba duele»), si riesce a rendere l’idea del dramma che sta vivendo il paese sudamericano, la sua gente e tutte e tutti coloro che a quella terra tengono particolarmente. Secondo l’Onu, sono più di 5,6 milioni le persone che hanno abbandonato la patria del Libertador Simón Bolívar, un paese in preda a una crisi umanitaria complessa della quale non si vede all’orizzonte una pronta risoluzione. Milioni di venezuelani hanno dato forma a un vero e proprio esodo, il più grande che la regione latinoamericana abbia sperimentato negli ultimi anni. Almeno due milioni di migranti si trovano nella vicina Colombia, un milione in Perù, e altre centinaia di migliaia sparsi tra Ecuador, Cile, Argentina, Brasile, Repubblica Dominicana, Panama, Costa Rica, Messico e anche fuori dalla regione, soprattutto negli Usa, in Spagna e, con una nutrita comunità, anche in Italia.

Il migrante venezuelano

Il trattamento ricevuto dai migranti venezuelani non è omogeneo e risponde a una serie di variabili e considerazioni che vanno dal loro status politico, sociale ed economico, all’età, al genere, al momento storico della migrazione, al titolo di studio o professionale che possiedono e al paese nel quale sono emigrati. Gli ultimi, coloro che appartengono a quella che gli esperti definiscono la terza ondata migratoria (iniziata nel 2015 ed esplosa nel 2018), sono i più vulnerabili. Hanno lasciato il paese solo con quello che sono riusciti a caricarsi sulle spalle iniziando a camminare, letteralmente a camminare. A piedi hanno attraversato ponti, fiumi, selva e montagne. Con la determinazione della ricerca di un futuro migliore per loro e per i loro figli, hanno fatto quello che nessun venezuelano avrebbe mai pensato di poter fare: lasciare la propria casa. Quella venezuelana non è infatti una comunità nella quale la migrazione faccia parte di un processo sociale e storico. Al contrario, il paese sudamericano è stato, fin dal 1800, una terra che ha accolto chiunque scappasse da fame, guerra e miseria. Per questo il Venezuela è, ad oggi, uno dei grandi esempi mondiali di meticciato etnico e culturale. Ora, però, le cose sono cambiate e da paese di accoglienza, il Venezuela si è trasformato nel più grande generatore mondiale di migranti, superato solo dalla Siria.

Migranti venezuelani attraversano il fiume Tachira, che segna il confine tra Venezuela e Colombia (19 novembre 2020). Foto Schneyder Mendoza – AFP.

Donna venezuelana, immagine e mito

In questo immenso e costante flusso migratorio le donne rappresentano quasi il 50% del totale, a volte arrivando anche a superare, come nel 2019 per il caso colombiano, questa percentuale. In questo senso, se pur è necessario riconoscere che la situazione migratoria rappresenta di per sé una sfida, è innegabile che per le donne sia il processo migratorio sia l’inserimento sociale nel paese di destinazione presentino delle insidie e dei pericoli aggiuntivi.

L’immagine della donna venezuelana nella regione latinoamericana (e non solo) è ipersessualizzata e, per decenni, è stata venduta come lo standard di bellezza da eguagliare. Se a questo aggiungiamo la situazione di estrema vulnerabilità e necessità con la quale la maggior parte di loro lascia il Venezuela e l’onnipresente machismo che permea le società latinoamericane, diventa purtroppo facile intuire a quali pericoli siano più esposte. Nello stesso Venezuela il traffico di esseri umani al fine dello sfruttamento sessuale è esploso negli ultimi anni, soprattutto verso Trinidad e Tobago, lo stato caraibico che si trova a soli undici chilometri dal porto venezuelano di Güiria (stato Sucre). La situazione è però particolarmente grave in Colombia, paese sul quale si concentra questo dossier. Già nel 2019, attraverso l’innovativo progetto di ricerca «Mappa interattiva dei casi di donne migranti e rifugiate venezuelane morte e scomparse all’estero», promosso dall’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’Università Carlos III di Madrid, la Colombia emergeva come il paese più pericoloso per le donne venezuelane. A seguito di quel progetto, la pubblicazione «Violencia contra mujeres migrantes venezolanas en Colombia, 2017-2019: Estado de la cuestión, georreferenciación y análisis del fenómeno» (luglio 2020) approfondisce e chiarisce i dettagli della particolare situazione di emergenza vissuta in Colombia dalle donne venezuelane migranti. Nel triennio oggetto di studio (2017-2019), i dati parlano di una «migrazione femminizzata», giacché a dicembre 2019, il 52% dei migranti nel paese erano donne. In termini geografici, la più alta concentrazione di migranti venezuelani in Colombia alla fine del 2019 si trovava nel distretto della capitale Bogotá: 352.431 persone, cioè il 19,9% delle 1.771.237 registrate nel paese dall’ente nazionale Migración Colombia. Analizzando i casi di morte scopriamo che, dal 2017 al 2019, nel paese si sono registrati 349 decessi di donne venezuelane: più di un terzo assassinate. In quel triennio si è registrato un femminicidio di una donna venezuelana in Colombia ogni 11,5 giorni e, se teniamo conto della cifra totale di decessi (morti violente dovute a incidenti, suicidi e morti naturali) osserviamo che, nei tre anni analizzati, in Colombia è morta una donna venezuelana ogni 3 giorni. I casi di morte però non seguono specularmente la concentrazione geografica della migrazione. Infatti, nonostante fosse il distretto della capitale Bogotà il luogo con la più alta concentrazione di migrazione venezuelana in Colombia, in relazione alle morti violente, osserviamo che i dipartimenti di confine di Nord di Santander e La Guajira rappresentano il 46,21% del totale, rispettivamente 38 e 23 casi. Il dato aumenta ancora di più se si considerano solo gli omicidi: in questo caso, i dipartimenti già menzionati, sommano il 52,17% del totale degli omicidi di donne migranti venezuelane nel triennio 2017-2019 in tutto il paese. Questi due dipartimenti corrispondono ai punti di origine delle rotte migratorie del Nord (frontiera di Maicao) e del Sud (frontiera di Cúcuta) della Colombia: rotte che, ad oggi, continuano a essere percorse e continuano a essere estremamente pericolose.

Un cartello dell’organizzazione «Hermanos caminantes», che ha istituito vari punti di aiuto lungo i percorsi dei migranti venezuelani. Foto Diego Battistessa.

Violenze, femminicidi e «sesso di sopravvivenza»

Le cifre relative alle donne migranti venezuelane morte in Colombia, analizzate nella pubblicazione del 2020, provengono da rapporti ufficiali dell’Istituto nazionale di medicina legale e scienze forensi della Colombia, dalla Direzione delle indagini criminali e Interpol – Polizia nazionale della Colombia (Dijin) e da rapporti di organizzazioni non governative e agenzie dell’Onu. Proprio partendo da un’analisi dei dati raccolti dalla Dijin, si può costruire un profilo tipico della donna venezuelana vittima di femminicidio in Colombia nel triennio 2017-2019: si tratta di una donna di circa 27 anni, con almeno studi elementari, non legata a gruppi illegali, non sposata e con una situazione lavorativa precaria.

Come visto, la situazione delle donne venezuelane migranti a fine 2019 presentava già un grado di estrema emergenza e, con l’arrivo del Covid-19 nel primo trimestre 2020, la loro condizione ha subito un notevole peggioramento. L’impossibilità di raccogliere i dati per le stringenti misure di confinamento, l’invisibilizzazione dei casi e l’impunità dei carnefici, hanno reso le donne ancora più vulnerabili.

Si è diffuso massivamente quello che è conosciuto come «sesso di sopravvivenza» e che consiste nel baratto del proprio corpo in cambio di beni di prima necessità: trasporto, alloggio, alimenti o medicinali vengono «pagati» con sesso.  In altre parole, questo diventa moneta di scambio in una pratica di violenza estrema che mira a togliere qualsiasi tipo di dignità all’altro, approfittando di un privilegio circostanziale. Troppo spesso le donne venezuelane non hanno scelta: con figli a carico (insieme a loro in Colombia o in attesa delle rimesse in Venezuela), subiscono questa brutale aggressione strutturale, sacrificando i loro corpi sull’altare del bene maggiore: il sostentamento dei loro figli e delle loro famiglie.

Lungo le rotte migratorie (le descriveremo più avanti), non è strano incrociare migranti venezuelani che provano a fare ritorno in patria (chiamati retornados) dopo un’esperienza fallimentare in un altro paese. Tra di loro molte donne che, oltre al faticoso e lungo processo migratorio, portano addosso il vissuto di esperienze traumatiche e umilianti, di sofferenza e di vergogna che non potranno mai condividere con i loro cari.

La mossa della Colombia

Il 2021 si è aperto però con una luce di speranza. Nonostante la recrudescenza della pandemia e dell’emergenza migratoria, qualcosa in Colombia si è mosso. Lo scorso 8 febbraio, il presidente del paese Iván Duque ha presentato una bozza di decreto che mette in moto lo «Statuto temporaneo di protezione per i migranti venezuelani» (Etpv, nella sua sigla in spagnolo). Questa misura copre legalmente quasi un milione di venezuelani che si trovano in Colombia in condizione di irregolarità migratoria e che sono entrati nel paese prima del 31 gennaio 2021. L’Etpv consiste in un meccanismo di protezione legale temporanea rivolto alla popolazione migrante venezuelana che integra il regime internazionale di protezione dei rifugiati con l’obiettivo di registrazione della popolazione migrante venezuelana nel paese e concede un beneficio temporaneo di regolarizzazione a chi possiede i requisiti stabiliti. L’Etpv sarà valido per 10 anni con possibilità di proroga o risoluzione anticipata a seconda del contesto futuro.

Un primo passo dunque verso la legalizzazione della permanenza delle persone venezuelane migranti in Colombia, condizione però che non risolve tutte le altre vulnerabilità intersezionali che pesano come macigni specialmente sui corpi delle donne.

Diego Battistessa

Folla di migranti al ponte internazionale Simón Bolivar, trecento metri che attraversano il fiume Tachira e collegano Venezuela e Colombia. Foto Cristal Montañéz.

La migrazione: la via di Cúcuta

Al di là del ponte Simón Bolívar

Passare in Colombia costa soldi e rischi e non risolve i problemi. In aiuto dei migranti è scesa in campo anche la diocesi di Cúcuta.

San José de Cúcuta, attuale capitale del dipartimento colombiano del Nord di Santander, è stata ed è una citta nevralgica del Sud America. Il nome stesso di questa città rispecchia l’incontro-scontro di due mondi, essendo composto da San José (in onore alla figura biblica di Giuseppe, padre putativo di Gesù) e Cúcuta, nome del cacique del popolo indigeno Barí che dominava quelle terre prima dell’arrivo dei conquistadores spagnoli. Un luogo di lotta e insorgenza, una città nella quale, oltre alle numerose placche commemorative del passaggio del Libertador Simón Bolívar, sono presenti due statue in ricordo di donne che ne hanno segnato le vicende e la storia: una è dedicata a Doña Juana Rangel de Cuellar, che nel 1733 donò 782 ettari di terreno al sindaco della città di Pamplona per promuovere la fondazione di Cúcuta; l’altra, all’interno del parco che porta il suo nome, è dedicata all’indipendentista Mercedes Abrego.

Una placca commemorativa racconta la sua storia: «Doña Mercedes Abrego de Reyes. Dama cucutegna, sarta che cucì e omaggiò al Libertador la sua elegante uniforme di Brigadiere con motivo del trionfo di Bolívar su Ramón Correa, nei pressi di Cúcuta. Quando le truppe realiste riconquistarono la città nell’ottobre 1813, fu condannata a morte per aver aiutato i ribelli. Fu giustiziata il 21 di ottobre del 1813 per ordine di Bartolomé Lizon. Fu portata di notte, in vestaglia e scalza, dalla sua casa in Urimaco fino al luogo dell’esecuzione. Camminò per le strade della città sotto forte scorta. Una volta giunta nel luogo predisposto, l’ufficiale a capo della scorta chiese a chiunque si sentisse capace di tagliare con un solo colpo la testa ad una donna, di fare un passo avanti. Ignacio Salas fu il suo assassino, che riversò la sua sete di sangue sulla donna, decapitandola con un solo colpo di sciabola: suscitando in quel modo gli applausi e gli encomi dei suoi compagni d’armi».

Più a Sud, nell’area metropolitana di Cúcuta, troviamo Villa del Rosario. Si tratta della città natale del generale José de Paula Santander e sede dello storico congresso del 1821 nel quale, sotto l’egida di uno dei grandi padri della patria colombiana, Antonio Nariño venne redatta quella che è passata alla storia come la costituzione di Cúcuta. A Villa del Rosario, in quello che oggi è il Parco Grancolombiano, oltre alla casa di Santander, si trova ciò che resta del Tempio del Congresso, semidistrutto dopo il terremoto del 18 di maggio 1875, passato alla storia come «il terremoto delle Ande».

L’entrata della «Casa de paso Divina Providencia», istituita dalla diocesi di Cúcuta e coordinata dal padre José David Cañas Pérez, a La Parada. Foto Diego Battistessa.

«Trochas» e «trocheros»

Proprio in questa cittadina così emblematica, oggi parte del conglomerato urbano di Cúcuta, si trova il quartiere chiamato «La Parada» (la fermata), punto di inizio della traversia di migliaia di venezuelane e venezuelani migranti. Si tratta del punto zero dell’esodo, uno dei luoghi simbolo del più grosso fenomeno migratorio che la storia recente dell’America Latina ricordi. Il rito di passaggio avveniva attraversando il ponte Simón Bolivar, costruito sul fiume Tachira, frontiera naturale tra due paesi che alternano amore e odio, fin dai tempi dell’indipendenza. Scaramucce diplomatiche prima, ed esigenze sanitarie poi, hanno reso terra desolata quei pochi metri di asfalto che uniscono due mondi così simili ma allo stesso tempo così diversi.

Se i ponti sono chiusi (ma la situazione è in cambiamento, ndr), non è così però per le frontiere informali. Decine infatti sono le trochas, stretti passaggi tra la selva e il fiume Tachira che permettono quotidianamente a centinaia di persone di passare illegalmente da un lato all’altro del confine. A guidare i gruppi di migranti in questi sentieri della speranza attraverso acqua e foresta, sono i trocheros, persone che conoscono la zona e che hanno ottenuto il beneplacito dei gruppi criminali che controllano il contrabbando di merci e persone. Chiunque voglia passare dal Venezuela alla Colombia (e viceversa) deve scendere a patti con i colectivos (gruppi armati al margine della legge, spesso conniventi con la polizia) nella città venezuelana di San Antonio del Tachira.

Una volta pagata la tariffa concordata e trovato un trochero, si può passare, pagando dal lato colombiano un’altra tariffa di «destinazione». A marzo 2021 i prezzi per il passaggio erano relativamente bassi, questo era dovuto soprattutto alla gravissima crisi economica del Venezuela, alla chiusura delle frontiere e alle misure di confinamento stabilite nel paese da Nicolás Maduro. Per passare da Sant’Antonio del Tachira a La Parada erano necessari 5mila pesos colombiani da ambo i lati (un totale di 10mila pesos che equivale a circa 2,5 euro). Il problema però per la maggior parte dei migranti venezuelani è arrivare a Sant’Antonio del Tachira, cosa per niente ovvia e potenzialmente molto pericolosa. Ecco, dunque, che per garantire un transito sicuro da Valencia, Barquisimeto, Merida o San Cristobal, bisogna sborsare l’equivalente di centinaia di dollari ai colectivos. Questo ovviamente vale anche per un eventuale viaggio di ritorno.

Padre José David Cañas Pérez alla «Casa de paso Divina Providencia». Foto Cristal Montañéz.

I problemi in territorio colombiano

Considerato quanto detto fino ad ora, ci si potrebbe immaginare che una volta arrivati dalla parte colombiana del fiume Tachira, il peggio sia passato e invece i problemi per i migranti venezuelani non faranno che moltiplicarsi. La Parada non è un luogo nel quale pensare di poter rimanere permanentemente e di fatto quasi nessun venezuelano considera questa opzione come un piano percorribile. L’idea è rimanere giusto il tempo necessario per racimolare qualche soldo e poi andare a Cúcuta. Da lì, diventa più facile trovare delle opportunità di guadagno e pianificare il resto del viaggio che passerà per la rotta stradale di 202 km che unisce la capitale del dipartimento del Nord di Santander con Bucaramanga. Una volta giunti a Bucaramanga, ogni scelta diventa possibile: rimanere in Colombia e dirigersi verso un’altra grande città o continuare il viaggio verso un altro paese (Ecuador, Perù, Cile e Argentina) più a Sud.

Nonostante ciò, negli ultimi anni La Parada si è trasformata in una sosta transitoria a medio termine, dove le famiglie venezuelane spendono oramai settimane o mesi. La pandemia ha poi peggiorato le cose, limitando la mobilità e costringendo diversi nuclei familiari a cercare una sistemazione semistabile. In questo contesto è sorta un’«architettura del migrante», promossa da persone locali che hanno visto la possibilità di fare business, trasformando degli stabili fatiscenti in case provvisorie per i venezuelani migranti. Stabili di un solo piano sono stati compartimentati con stanze di dieci metri quadrati ciascuna, nelle quali vivono intere famiglie, condividendo un patio e un bagno in comune. In queste misere, insalubri e promiscue soluzioni abitative, possono vivere anche 5 o 6 famiglie (una per stanza), fino a 30 persone condividendo una doccia e un bagno. Ogni nucleo familiare cucina nella stanza nella quale vive con una bombola di gas noleggiata, che deve pagare giornalmente: anche l’affitto è giornaliero (circa 10 pesos al giorno) e viene pagato ogni sera, chi non paga viene sbattuto fuori.

Per il corpo e per lo spirito

In tutta questa tenebra c’è però un punto di luce: la «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» della diocesi di Cúcuta. Questo spazio di ristoro, per il corpo e per lo spirito, è stato inaugurato il 5 giugno del 2017 e da allora si è trasformato in un luogo di speranza e sollievo per quanti arrivano a La Parada. L’idea della diocesi di Cúcuta era quella di provvedere un appoggio integrale alla popolazione migrante in transito e non, garantendo alimentazione, medicinali e cure mediche, attenzione psicosociale e assistenza legale. La chiesa cattolica di Cúcuta ha messo in marcia un incredibile progetto, appoggiato dallo stesso papa Francesco, che ha visto sommarsi alla causa il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur / Unhcr), Caritas internazionale, Adveniat (il programma della Conferenza episcopale tedesca che sostiene e finanzia progetti pastorali in America Latina e Caraibi), Caritas Colombia, Caritas spagnola, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America e la catena di radio spagnola Cope. Con l’aumento del flusso migratorio nel 2018 e, successivamente, con l’arrivo del Covid-19 a inizio 2020, l’attività della «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» è stata però fortemente rallentata. Negli ultimi mesi si è deciso di ridurre l’accesso alla struttura (che prima offriva servizio a 3.500 persone al giorno) dando la priorità all’alimentazione di bambini, donne e anziani: oggi vengono serviti 350 pasti quotidiani, cifra che non soddisfa la grande richiesta di cibo e assistenza integrale che continua a esistere nel quartiere.

Migranti venezuelani in cammino (si noti il cartello con le distanze). Foto Cristal Montañéz.

Cúcuta e prostituzione come necessità

A 15 minuti in auto da La Parada, tragitto che la maggior parte dei migranti venezuelani percorrono a piedi, si arriva a Cúcuta. La situazione in città è critica e questo non è dovuto solo al coronavirus (a partire da aprile 2020). Secondo i dati di Migración Colombia al 31 dicembre 2019, nella capitale del dipartimento del Nord di Santander si trovavano circa 105mila cittadini venezuelani su una popolazione totale di 700mila persone (e in tutto il dipartimento più di 200mila venezuelani, che corrispondeva all’11,5% del totale nazionale).

La saturazione degli spazi abitativi e lavorativi ha prodotto in città una precarietà senza precedenti, accompagnata da una situazione di grande vulnerabilità, specialmente per le donne e le bambine. Gli uomini, in mancanza di un’alternativa lavorativa, si dedicano al rebusque: un’attività di riciclaggio attraverso la quale, perlustrando tutte le strade delle città e ispezionando la spazzatura, riescono a raccogliere plastica, alluminio, vetro, cartone e metalli che poi rivendono nei centri preposti al riciclaggio. Per le donne la prima alternativa e la più remunerativa è la prostituzione. Alcune cercano di dedicarsi ad altre attività, come la vendita di caffè nella zona del Terminal dei bus, ma la pressione sociale e la promessa di facili guadagni spesso fa pendere la bilancia verso la vendita dei loro corpi. Oramai a Cúcuta è quasi impossibile trovare una donna in situazione di prostituzione che sia colombiana: «la piazza» è stata occupata completamente dalle donne venezuelane che hanno ridotto della metà le tariffe vigenti prima del loro arrivo. La maggior parte di queste ragazze (spesso di età compresa tra i 18 e 30 anni) non esercitavano la prostituzione in Venezuela ed è qui, lontane da casa, sole e senza alternative che cadono nella rete dei locali notturni che popolano la Septima avenida (Strada numero 7). Molte di loro hanno già svariati figli e alcune li hanno portati con loro nel viaggio. I bambini e le bambine passano le giornate in stanze d’albergo accanto a quelle dove le madri ricevono i clienti che trovano nei locali o per strada. Quasi nessuno di questi bambini è scolarizzato. Passano le giornate dormendo per ingannare la fame o guardando la televisione. Le madri sono coscienti che questa non è la situazione ideale, ma sanno che è l’unico presente che possono offrire, almeno per il momento, ai loro figli.

Sono centinaia le donne venezuelane che riempiono la «settima», e per le misure adottate in Colombia per contenere i contagi, sono costrette a scendere in strade fin dalla mattina per poter lavorare fino all’orario del coprifuoco, ogni giorno sempre più stringente. La polizia spesso entra nei locali facendo ronde e retate, soprattutto per assicurarsi che nessuna minore d’età venga prostituita.

Verso altre piazze

In Colombia, il commercio sessuale è tollerato e in ogni città esistono dei quartieri di tolleranza (veri gironi dell’inferno) dove, a volte, la polizia cerca di fare atto di presenza ricordando che la prostituzione minorile è un reato. A Cúcuta le tariffe sono bassissime e sono le stesse ragazze a pagare la pieza (la stanza d’hotel). Un cliente paga 30mila pesos (7,5 euro) per trenta minuti e considerando i costi che le venezuelane devono sostenere quotidianamente (cibo per loro e per i figli e la stanza dove dormire), molto spesso devono riuscire a trovare almeno tre clienti al giorno. Un’impresa davvero ardua di questi tempi e per questo, molto spesso, sono costrette a negoziare il prezzo fino quasi alla metà.

Però anche Cúcuta, come La Parada, è un luogo di passaggio, soprattutto per le donne che ascoltano le storie di altre compagne d’avventura che raccontano meraviglie, di Cali, Bogotà, Cartagena e Medellin: città dove si può lavorare di più e meglio, dove i clienti sono europei e statunitensi e, dunque, si può inviare più denaro alla famiglia rimasta in Venezuela. Ragione quest’ultima, che rappresenta il vero scopo del processo migratorio per molte di loro.

Per raggiungere queste città via terra da Cúcuta, (la stragrande maggioranza di loro non ha documenti d’identità validi e non può prendere l’aereo) bisogna però arrivare prima a Bucaramanga.

Le tende e la «lavanda» dei piedi

Sono 202 i km che separano Cúcuta-Villa del Rosario da Bucaramanga, capitale del dipartimento di Santander e circondata dalla cordigliera orientale delle Ande. Il cammino verso questa città è pieno di insidie e pericoli ma nonostante ciò, ad oggi, sono migliaia i migranti venezuelani che hanno realizzato a piedi (a volte scalzi) questa traversata. Lungo quella che è già stata ribattezzata la ruta de los caminantes («la rotta dei camminanti») sono stati installati nel corso degli ultimi anni almeno 13 punti di aiuto e supporto. I primi 9 si trovano nel primo tratto di 75 km (circa 16 ore di cammino) che collega Villa del Rosario con la cittadina di Pamplona. Si tratta di punti di ristoro, alberghi dove poter pernottare, tende nelle quali ricevere assistenza medica e cibo: un sollievo fisico e spirituale.

Sono molte le organizzazioni, confessionali e non, dedicate ad aiutare i camminanti. Tra queste spiccano sicuramente: Samaritan’s Pursue, con l’albergo situato nella località Don Juana a 35 km da Cúcuta, e la Carpa esperanza Jucum (Tenda speranza della gioventù), situata a pochi km da Pamplona, dove giovani volontari si dedicano alla «lavanda» dei piedi dei migranti, alla cura delle piaghe e a distribuire nuovi calzari.

Una volta giunti a Pamplona, i migranti devono riposare e recuperare energie perché li aspetta la parte più dura e pericolosa del viaggio: la scalata del «paramo de Berlin», un passaggio di montagna a più di 3mila metri d’altezza. Da Pamplona a Bucaramanga ci sono altri 4 punti di appoggio che cercano di provvedere i migranti con acqua, cibo e indumenti pesanti per far fronte al freddo delle Ande che alle volte raggiunge gli zero gradi. Le persone provenienti dal Venezuela sono abituate ad un clima caldo. Per loro la traversata di questo passaggio di montagna è qualcosa di sovrumano. Uomini e donne, spesso con bambini piccoli in braccio, in pantaloni corti e t-shirt, con ciabatte o scarpe sportive non adatte a quel clima. Questa è la scena che si ripete costantemente nel «paramo de Berlin», e che più di una volta ha rappresentato una condanna a morte per le persone più fragili, sfiancate dalle lunghe ore di cammino, già malate, o per i più piccoli. Superato il passo, inizia la discesa verso Bucaramanga, un punto di luce e speranza prima di decidere verso dove e come proseguire il cammino. Nel 2020 la pandemia da Covid-19 e le relative restrizioni alla circolazione hanno ridotto il flusso di camminanti, ma – nel primo semestre 2021 (specialmente tra gennaio e marzo) – si è tornati a vedere un fiume di persone che, in fila indiana, la maggior parte con lo zaino con i colori della bandiera bolivariana in spalla, camminano e camminano. Senza sosta.

Diego Battistessa

La migrazione: la via della Guajira

Quando il destino è la strada

Anche la penisola colombiana della Guajira è territorio di transito per molte migranti venezuelane. Tappa di un percorso verso altre città dove curarsi o partorire. O prostituirsi con i turisti del sesso.

La Striscia, «la Raya», così si chiama popolarmente lo spartiacque che, nella penisola della Guajira, divide ufficialmente la Repubblica bolivariana del Venezuela dalla Colombia. Si tratta di pochi metri che per migliaia di venezuelane e venezuelani rappresentano la possibilità di un nuovo inizio. Per lungo tempo questa frontiera (mentre scriviamo la situazione è in evoluzione, ndr), così come le altre tra Venezuela e Colombia, è rimasta chiusa. Le autorità permettevano solo il passaggio, a piedi, dei membri delle comunità transnazionali indigene Wayuú, nativi della penisola della Guajira, che vivono a cavallo dei due stati. Per tutti gli altri l’unico passaggio era attraverso las trochas (i sentieri), che comunque si trovano a pochi metri da «La Raya». Non esiste infatti un vero e proprio controllo militare di questa frontiera dal lato colombiano: gli unici funzionari presenti sono quelli di Migración Colombia, che non hanno funzione di ordine pubblico. È così che, nonostante la pandemia da Covid-19 e le restrizioni, centinaia di persone continuano ad arrivare in Colombia dal fluido confine nel Nord del paese.

Prima tappa a Maicao, Colombia

Una volta entrati in Colombia, nel dipartimento della Guajira (che prende il nome dalla stessa penisola), la prima sfida per i migranti è riuscire a raggiungere la città più vicina: Maicao. Sì, perché «la Raya» si trova nella frazione di Paraguachón, appartenente a Maicao, ma distante 12 km dall’urbe. A Paraguachón, esiste un primo centro di attenzione al migrante gestito da Acnur e dalla Croce rossa colombiana, ma si trovano anche decine di intermediari informali che offrono, a chi se lo può permettere, ogni tipo di servizio: trasporto, merce di contrabbando e cambio moneta, tra gli altri. Chi arriva a Paraguachón spesso viene dalla città venezuelana di Maracaibo (stato Zulia) e ha affrontato un lungo viaggio di più di 100 km con mezzi di fortuna (spesso sul sedile posteriore di una moto) e pagando i colectivos per avere «garanzia» di un passaggio sicuro. Una volta superata la frontiera, molti migranti decidono di proseguire a piedi per Maicao, sotto il sole inclemente della Guajira. Non è solo il sole però a costituire una sfida e un pericolo (soprattutto per le persone anziane e le donne incinte), ma sono anche le bande di predoni che popolano questa terra di nessuno. I taxisti che percorrono la rotta di collegamento tra la frontiera e Maicao sono sempre in allerta e, quando possono, viaggiano in convoglio per dissuadere possibili attacchi armati con fine di rapina.

Da questa frontiera, così come da quella di Cúcuta, solevano passare due tipi di migranti. I commercianti, che venivano per pochi giorni o settimane in Colombia per acquistare merci da poter poi introdurre in Venezuela, e coloro che, invece, zaino bolivariano in spalla, erano decisi ad abbandonare la terra di Bolívar. Dal 2018 in avanti, anno del totale collasso della moneta nazionale venezuelana (il bolívar), il potere d’acquisto dei venezuelani si è ridotto all’osso e il paese è ormai de facto dollarizzato. Questo, e la lunga chiusura delle frontiere, ha ridotto tantissimo il flusso di commercianti e oramai gli unici venezuelani in arrivo sono quelli che scappano da una delle peggiori crisi umanitarie della regione. Come succede per la rotta Sud a Cúcuta-Villa del Rosario, l’idea è quella di fare un breve stop a Maicao per continuare poi lungo la costa per Riohacha, Santa Marta, Barranquilla e, a volte, Cartagena.

Sulla strada di Cúcuta migranti venezuelani con mascherina attendono in fila per avere cibo e medicine dalla Croce rossa (2 febbraio 2021). Foto Schneyder Mendoza – AFP.

A Riohacha, capitale della Guajira

Riohacha è la capitale del dipartimento della Guajira ed è una cittadina che riunisce un crogiolo di etnie, tradizioni e conflitti sociali. Mestizos, afrodiscendenti e indigeni Wayuú abitano lo spazio urbano e rurale (in modo direttamente proporzionale al loro status economico e sociale), vivendo ora gomito a gomito con l’incipiente migrazione venezuelana. Acnur ha aperto in città un grande ufficio vicino al lungomare, cercando di supportare sia l’amministrazione locale che le organizzazioni che appoggiano i migranti. Il dipartimento della Guajira è però uno dei dipartimenti più depressi a livello economico di tutta la Colombia e, in questo contesto, sviluppare azioni di mitigazione della vulnerabilità dei migranti venezuelani, diventa molto difficile. Per questo anche Riohacha per la maggior parte dei migranti non rappresenta una meta, ma una tappa transitoria verso città economicamente più attive e che presentano maggiori opportunità. Inoltre, per quelle donne venezuelane che vedono nella prostituzione l’unico mezzo di sostentamento, Riohacha è un’ambiente ostile e inospitale, dove non è possibile prostituirsi per la strada alla luce del sole. In città prevale una mentalità proibizionista e anche se la prostituzione è implicitamente tollerata, non può però essere esibita in bella vista. Questo e la mancanza di un turismo internazionale, che nel Nord si concentra a Santa Marta e Cartagena, spingono le donne a continuare il loro viaggio verso Ovest.

Santa Marta, capitale del dipartimento di Magdalena, è una città conosciuta per le sue coste ed è meta di turismo nazionale e internazionale. I samari (questo il gentilizio per gli abitanti della città) sono molto fieri della loro tradizione e cultura, e di uno dei grandi figli della città: Carlos Alberto Valderrama (El Pibe Valderrama) famoso calciatore dalla folta capigliatura ossigenata che impressionava il mondo negli anni Novanta. A Santa Marta la migrazione venezuelana è molto presente, e il lungo mare è tristemente popolato da donne venezuelane in situazione di prostituzione. Da Riohacha a Santa Marta ci vogliono almeno tre ore e mezza di bus ma, anche in questo caso, per alcuni la rotta viene fatta a piedi. In questa città le donne venezuelane in situazione di prostituzione raccontano di una particolare dinamica che le vede impegnate in quelle che loro stesse definiscono «stagioni lavorative». Prima della pandemia e della conseguente chiusura delle frontiere e difficoltà di movimento, solevano venire a Santa Marta direttamente dalla zona di Maracaibo e qui si fermavano per circa due mesi. Con il denaro raccolto prostituendosi, tornavano in Venezuela dove le aspettava la famiglia (soprattutto madri e figli). Rimanevano in Venezuela fino a quando il denaro raccolto non cominciava a scarseggiare, momento nel quale diventava necessario tornare a Santa Marta per una nuova «stagione». Questa dinamica, come detto, si è interrotta con l’arrivo del Covid-19, quando decine di donne venezuelane sono rimaste bloccate in Colombia, senza poter vedere la loro famiglia da più di un anno.

In questo senso, oltre allo stile di vita estremamente logorante, l’aspetto psicologico sta passando loro una fattura molto salata. Lontane dai figli che avevano salutato pensando di poterli vedere solo dopo qualche settimana, molte di loro hanno perso familiari morti per la pandemia, persone care alle quali non hanno potuto dire addio. A Santa Marta la prostituzione è tollerata e accettata, tanto che si esercita fin dalle prime ore del giorno lungo tutto il lungomare, soprattutto nel centrale parco Bolívar e anche di fronte all’edificio dell’amministrazione centrale del dipartimento.

Due donne migranti allattano i loro piccoli in un punto istituito da «Hermanos caminantes». Tra le migranti venezuelane ci sono mamme e donne incinte. Foto Cristal Montañéz.

Le Ong di Barranquilla

Cento chilometri a Ovest di Santa Marta si trova Barranquilla, conosciuta anche come «la arenosa», capitale del dipartimento dell’Atlantico. Qui la situazione della migrazione venezuelana è completamente differente rispetto alle altre città che formano la rotta Nord: le persone che hanno lasciato il Venezuela cercano in questa città la possibilità di stabilirsi in modo permanente. Barranquilla è la quinta città più grande della Colombia, con una popolazione di un milione di abitanti, il 10% dei quali sono migranti venezuelani.

Si tratta di un polo commerciale importante dove, prima della pandemia, abbondavano le opportunità di lavoro e di commercio. Il clima costiero è un altro elemento di confort per i migranti venezuelani che, nel corso degli ultimi anni, hanno visto Barranquilla come una reale opportunità di ricostruzione di un futuro di speranza. In questa città si trova uno dei più brillanti esperimenti di supporto locale integrale alla popolazione migrante di tutta la Colombia: il «Centro di integrazione per i migranti», creato nel novembre 2019 dall’amministrazione comunale della città. Questo punto di supporto si trova tra la Carrera 45 e Calle 45, alle porte del centro storico della città. Adriana Padilla è la coordinatrice della struttura, che lavora in costante coordinamento con la direzione del Gruppo interagenzia sui flussi migratori misti (Gifmm) e con le diverse organizzazioni che lo compongono. Questo centro è davvero il fiore all’occhiello dell’assistenza alla migrazione venezuelana in Colombia. Al suo interno vengono svolte attività polivalenti portate avanti tra le altre da Oim, Acnur, Unicef e Croce rossa colombiana. Inoltre, la risposta alle diverse esigenze delle persone che accedono al centro è legata ad un accordo quadro con un’altra dozzina di Ong nazionali e internazionali (Plan international,  Danish refugee council e World vision), che svolgono attività specialistiche per rispondere a particolari situazioni di vulnerabilità. Nella struttura, grazie al finanziamento di Acnur e al lavoro svolto da alcune Ong locali (come De Pana Que Si e Fuvadis), si sono aperti anche canali di appoggio per rispondere alle particolari situazioni delle donne venezuelane migranti (in special modo gravidanze e situazioni di violenza familiare) e delle persone appartenenti al gruppo Lgbtiq+ (persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer).

La prostituzione a Barranquilla

Barranquilla è stata la meta di centinaia di donne venezuelane migranti che cercavano un posto sicuro dove partorire o dove poter essere visitate e accompagnate durante la loro gravidanza. Negli ospedali colombiani sette migranti venezuelani su dieci sono donne; a Barranquilla, città di riferimento della costa colombiana, il 70% dei parti è di madri venezuelane.

Per quanto riguarda le donne venezuelane in situazione di prostituzione, esse si concentrano nei locali che popolano il centro storico, nella zona del Parque de los enamorados (parco degli innamorati), lungo la Carrera 40, tra le strade 45 e 42. Camminando per quella zona, estremamente pericolosa nelle ore notturne, si possono intravedere decine di donne migranti venezuelane «ammassate» dentro i locali in attesa dei clienti di turno. A Barranquilla però, così come in altre città economicamente più attive (come, ad esempio, Medellin), la prostituzione si muove anche attraverso internet. Sono decine infatti le pagine di incontri dove le donne venezuelane offrono i loro servizi in appartamenti, centri di massaggi erotici, bar o direttamente a domicilio. Un «mercato» cresciuto in maniera esponenziale, soprattutto con le restrizioni per evitare i contagi da Covid-19 che hanno portato alla chiusura di molti locali e all’attivazione del coprifuoco a partire dalle venti.

«Io proteggo le donne», promette la frase sul cappellino. Foto Diego Battistessa.

… e a Cartagena de Indias

Come detto, per la maggior parte dei migranti venezuelani la rotta Nord si interrompe a Barranquila, ma non mancano coloro che, percorrendo altri 120 km verso Ovest, decidono di arrivare alla città di Cartagena de Indias, vero grande polo turistico internazionale del «Caribe colombiano». In questa città si vive praticamente solo di turismo e sono centinaia i venezuelani che lavorano per le strade come promotori di ogni tipo di servizio. Una delle grandi piaghe di Cartagena è però il turismo sessuale, dovuto in gran parte a uomini statunitensi ed europei che arrivano nella capitale del dipartimento di Bolívar solo alla ricerca di droga e prostituzione. Le autorità locali hanno combattuto, soprattutto nel 2018, questo fenomeno, ma ad oggi la situazione non è cambiata molto. Alla sera, la zona della torre dell’orologio, giusto all’entrata della cinta muraria della città, si popola di donne in situazione di prostituzione a caccia del turista di turno. Anche in questo caso, la maggior parte di loro sono venezuelane, giovani, avvenenti, con diversi interventi di chirurgia plastica per incarnare quello stereotipo così mercificato ed esportato in tutto il mondo dalla fabbrica della bellezza di Osmel Sousa (il padrino di Miss Venezuela). Le tariffe variano: si può passare dai 100 dollari per 30 minuti ai 500 dollari per tutta la notte. È per questo che Cartagena, soprattutto per le giovani migranti venezuelane che rispondono ai parametri del mercato del sesso, diventa il luogo dove i turisti sessuali sono disposti a comprare il loro corpo pagando in dollari sonanti.

Diego Battistessa

Ritratto di un giovane migrante venezuelano. Foto Diego Battistessa.

Inserti

Una baracca costruita da migranti. Foto Diego Battistessa.

«Ranchitos»

Capita spesso che famiglie di migranti venezuelani, trovandosi nell’impossibilità di pagare un alloggio nelle località colombiane nelle quali giungono, decidano di occupare un pezzo di terra in periferia e costruire un «ranchito» (baracca). Si tratta di costruzioni fatte di cartoni, lamiere, teloni e coperte. Luoghi senza acqua ed elettricità, insalubri, spesso in zone rischiose (come il costato di una montagna), ma che per i migranti sono ciò che di più può somigliare alla parola casa. Dopo l’arrivo di una o due famiglie si sparge la voce ed è così che altre decine di persone giungono per occupare il loro pezzetto di terra e potersi mettere un tetto sopra la testa. Di solito, gli abitanti delle città dove avvengono le invasioni non vedono di buon occhio questa pratica e le amministrazioni locali provano, spesso con la forza, a sfrattare gli occupanti non fornendo loro però nessuna soluzione alternativa. Questo è quello che sta succedendo nel quartiere San Matteo, periferia di Cúcuta, dove è sorto da due anni un insediamento di migranti venezuelani ribattezzato «Nuova Speranza». Si tratta di una ventina di baracche costruite su di un suolo argilloso e sull’orlo di un crepaccio: un accampamento dove vivono circa 70 persone (18 famiglie), metà delle quali minori d’età. Gli «invasori» hanno trovato il modo di collegarsi alla rete elettrica cittadina e anche per l’acqua hanno trovato il modo di diventare autosufficienti con un sistema (precario) di tubature. Non sono ben accetti dai vicini del quartiere San Matteo, specialmente dal centro di addestramento della polizia che si trova giusto sopra di loro, in cima alla collina. Ad oggi l’amministrazione della città di Cúcuta ha intimato lo sgombero della zona per motivi legati alla sicurezza e alla salute degli stessi migranti (soprattutto dei minori) ma senza offrire alternative, nessuno lascerà «Nuova Speranza».

Di.Ba.

Torturatori

Prostituzione venezuelana per le strade della Colombia. Foto Diego Battistessa.

A Bogotà esiste un quartiere dove ad ogni ora del giorno è possibile «comprare» un corpo di una donna venezuelana migrante. Si tratta di Santa Fe, zona di tolleranza della capitale colombiana, fiera della spoliazione dei diritti, luogo nel quale si commercia approfittando della miseria altrui. Donne e ragazzine (molte sono minorenni), praticamente nude, aspettano sui marciapiedi delle strade dalle 15 alla 22, il torturatore di turno. Sì perché, come ricordano María Galindo e Sonia Sánchez nel libro Ninguna mujer nace puta, una donna in situazione di prostituzione si incontra con prostituenti, stupratori e torturatori, non con clienti. Camminando per quelle strade, ciò che si vede è la nudità dei loro corpi, ma quello che molti non vedono (non vogliono vedere) è la nudità di diritti. Donne e bambine vestite solo di forza di spirito e dignità, tenute spesso in piedi dalla droga (che aiuta anche a non sentire la fame), mentre deambulano in una strada che oramai è tutto il loro mondo, tutto il loro inferno. Vivono negli hotel della zona (spesso con i loro figli), pagando una quota giornaliera. Inviano settimanalmente soldi ai parenti rimasti in Venezuela, che quasi mai sono al corrente della non vita che fanno queste donne nel quartiere di Santa Fe. Ombre, fantasmi di ciò che erano un tempo: in Venezuela molte di loro prima del collasso del paese, avevano davanti una promettente carriera professionale oppure stavano frequentando l’università.

 Di.Ba

I morti di Sonia

Si chiama Sonia Bermúdez Robles, ha 65 anni e per tutta la vita ha avuto a che fare con la morte essendo una tanatologa forense. Sonia è originaria di Riohacha e proprio nella capitale della Guajira ha lavorato per più di 40 anni nell’istituto di medicina legale, realizzando circa 5mila autopsie. Nel 1996, a dieci chilometri dalla città, sulla via per Valledupar, Sonia occupa un terreno di cinque ettari di proprietà del comune e inaugura il cimitero «Gente como uno» (Gente comune, come noi). Inizialmente il cimitero rispondeva all’esigenza di dare sepoltura agli N.N. e alle persone di bassa o nessuna capacità economica (persone che non sarebbero state sepolte nel cimitero centrale della città), ma con l’esplosione della crisi migratoria venezuelana le cose sono cambiate drasticamente. A partire dal 2018, sono state decine le richieste ricevute da Sonia per poter dare sepoltura ai migranti venezuelani morti nella Guajira: persone le cui famiglie non disponevano di risorse economiche per il funerale e delle quali né lo stato venezuelano, né quello colombiano, erano disposti a farsi carico. Di fronte a questa situazione Sonia ha risposto «presente», e da quel momento ha dato cristiana sepoltura a più di 500 migranti venezuelani nel suo cimitero, la maggior parte infanti e persone anziane. Il lavoro di Sonia è oggi riconosciuto internazionalmente, e anche l’Onu ha celebrato il suo esempio di solidarietà e costruzione della pace.

Di.Ba

Sonia Bermudez Robles, tanatologa forense, davanti ai loculi del cimitero. Foto Diego Battistessa.

 

 

 

 




South Africa Fifty (Il giubileo d’oro della Consolata in Sudafrica)

Indice

I tre aspetti salienti della consolata in Sudafrica

Nati in terra di frontiera

Sono gli anni dopo il concilio Vaticano II. Anche i Missionari della Consolata cercano un nuovo stile di evangelizzazione. Si aprono per loro nuovi paesi di missione, nuove culture con cui confrontarsi, ma anche nuove forme organizzative. Così si diffonde l’approccio delle piccole comunità missionarie, agili ad adattarsi alle situazioni. Fondamentale anche la componente formativa per i giovani che iniziano il cammino missionario.

La nascita della delegazione (chiamata così in quanto piccolo gruppo, ndr) del Sudafrica avvenne il 10 marzo 1971. Fu l’avvio di un cammino nuovo per l’Istituto, nella ricerca di nuove terre e di nuovi stili di evangelizzazione, e pertanto una vera «terra di frontiera». Erano gli anni che seguivano il concilio Vaticano II e la celebrazione del Capitolo generale del 1969. L’Istituto si sforzava di aprire nuove strade che potessero incarnare al meglio il carisma di Giuseppe Allamano in un’epoca di grandi cambiamenti nella Chiesa e nella società.

Terra di frontiera

Ai nostri primi missionari destinati al Sudafrica veniva affidato l’impegnativo compito di camminare su terre da noi non ancora esplorate, a contatto con nuove realtà missionarie e di evangelizzazione, capaci di arricchire il tradizionale stile missionario dell’Istituto.

Il 9 novembre del 1971, padre Mario Bianchi, superiore generale, a pochi mesi dall’inizio dell’avventura sudafricana, così scriveva in una lettera circolare all’Istituto: «[…] Ma già ora vi è uno sviluppo importante nell’Istituto, non di numero, ma di qualità; cioè di situazioni nuove in cui l’Istituto viene a trovarsi e a cui deve fare fronte: inserimento in nuovi campi di missione e quindi in confronto con popoli, culture e religiosità differenti (è il caso dell’Etiopia e Sudafrica); cambiamenti talora profondi nelle aree geografiche in cui già siamo inseriti, sotto il punto di vista di Chiesa, vita politica o sociale; cambiamenti e sviluppi anche nella sensibilità spirituale, vita comunitaria e organizzativa all’interno dell’Istituto. Queste nuove situazioni conducono a una crescita qualitativa e spirituale dell’Istituto se tutti noi sapremo affrontarle con coraggio, pazienza e saggezza».

Quanto padre Mario Bianchi proponeva all’inizio di questa avventura missionaria, penso che mantenga ancora oggi tutta la sua validità: l’invito a scoprire sempre nuove strade della missione nella comunione con il cammino delle chiese, nel cercare e trovare nuovi modi per rendere più efficace la comunicazione del Vangelo di Cristo e nel solidarizzare con i popoli. Nel fare tutto ciò in maniera efficace, è necessario che il nostro discernimento sia sempre accompagnato dalla preghiera costante allo Spirito Santo, e dal desiderio di rispondere al meglio allo spirito del nostro beato fondatore Giuseppe Allamano.

Piccoli gruppi

L’Istituto desiderò che le nuove aperture realizzate dopo il Concilio fossero tutte di piccole dimensioni. Simili a quella del Sudafrica furono le altre nuove aperture di quegli anni: Etiopia, Congo (Zaire) e Venezuela. Il fatto di andare in piccoli gruppi, sebbene possa apparire un elemento di fragilità e povertà, offre innumerevoli risvolti positivi: una maggiore agilità nell’attuare scelte nuove e migliorare situazioni, crescita costante nella comunione e fraternità comunitaria, ricambio facile di personale nelle nostre presenze pastorali, maggiori possibilità di collaborazione con la Chiesa locale evitandole inopportuni condizionamenti.

Siamo coscienti che l’elemento comunitario gioca un ruolo importante nella nostra crescita personale e nello svolgimento del nostro servizio.

Grazie alla ricorrenza dei 50 anni dalla nostra apertura in Sudafrica, abbiamo avuto l’opportunità di ripercorrere il cammino fatto dai confratelli negli anni passati, e le scelte da loro operate. Tutto ciò ci può servire a confrontare la situazione attuale della nostra missione con il sogno che l’Istituto ebbe nell’avviare la nostra presenza in Sudafrica e nel corso di questi cinquant’anni. Ogni celebrazione giubilare, come desiderava il Beato Allamano, deve attingere ispirazione dalle origini e alimentare gli impegni attuali con lo sguardo sempre aperto al futuro.

Una comunità formativa

Pensando alla delegazione attuale del Sudafrica, non posso dimenticare di sottolineare il privilegio che abbiamo avuto accogliendo la comunità del seminario di Merrivale, e la responsabilità che abbiamo nell’assicurare ai nostri giovani missionari l’ambiente migliore per la loro crescita e maturazione vocazionale. Li sentiamo come parte integrante e importante della delegazione. Gioiamo con loro per le varie tappe che ogni anno essi raggiungono. Li accogliamo volentieri nelle nostre comunità durante le loro esperienze pastorali. Sperimentiamo con loro la bellezza del fare missione in Sudafrica anche se poi la maggioranza emigrerà in altre terre di missione. La convivenza con i missionari li spinge a rallegrarsi per la scelta missionaria fatta e a un impegno sempre maggiore nella loro ultima fase formativa di base.

In conclusione, voglio riaffermare la convinzione profonda che l’efficacia apostolica, e quella missionaria in primo luogo, è basata sulla testimonianza dell’amore che lega le persone che proclamano il Dio della misericordia.

Stefano Camerlengo


Breve racconto di cinquant’anni di presenza

Le sei «fasi» della storia

Dai pionieri Jack Viscardi e John Berté a Piet Retief, e dal loro lavoro «ponte» con le famiglie dei migranti mozambicani, all’arrivo nelle townships di Newcastle e poi di Pretoria e Johannesburg. Con l’attività pastorale e di formazione di leader. E poi l’apertura del seminario di Merrivale, per arrivare alla «figliazione» con la nuova missione nel regno di Eswatini.

Alla fine degli anni Sessanta, il Capitolo generale dei Missionari della Consolata accettò la richiesta di iniziare una presenza missionaria nella prefettura di Volksrust (oggi diocesi di Dundee). I padri Giovanni (Jack) Viscardi e Giovanni (John) Berté furono i primi ad arrivare il 10 marzo 1971. La prima missione fu Piet Retief. Per 24 anni essi diffusero il Vangelo in diverse zone, nel territorio oggi conosciuto come diocesi di Dundee.

Giovanni Berté, durante un’intervista che gli feci nel 1996, per il venticinquesimo, divise in quattro fasi il lavoro dell’Istituto nei primi 24 anni passati unicamente nel territorio della diocesi di Dundee. Trovandoli attuali, voglio riportarli qui di seguito.

I primi quattro passi

Primo. La prima tappa in Sudafrica fu nella Prefettura di Volksrust, guidata dal vicario monsignor Marius Banks. I missionari iniziarono a Piet Retief, poi gradualmente andarono a Ermelo (Damesfontein), Evander, Secunda, Embalenhle, Kriel, Standerton e Bethal. Un importante atto di consolazione fu quello di diventare ponte tra alcuni mozambicani, lavoratori delle miniere del Transvaal, e le loro mogli e figli in Mozambico. Questo fu possibile perché i missionari della Consolata erano presenti anche nel paese di origine dei migranti.

Secondo. Al momento della creazione della diocesi di Dundee (anni Ottanta), i missionari andarono nelle aree rurali di Pongola e Pomeroy. Ci fu l’idea di andare a Amakhasi, ma non si materializzò. Tutte le attività erano volte a enfatizzare la presenza della consolazione tra i poveri. In quel periodo i missionari aiutavano anche il vescovo nella parrocchia di Dundee.

Terzo. Nel 1991 i Missionari della Consolata, incoraggiati dal vescovo Michael Paschal Rowland, andarono nelle townships (città riservate ai neri) di Newcastle. Le energie spese al centro pastorale di Damesfontein per la formazione di leader e catechisti, con la nuova area pastorale, iniziarono ad essere utilizzate a beneficio dell’area densamente popolata del decanato di Newcastle. Presto i segni dei tempi chiamarono i missionari a focalizzarsi su progetti, raduni di studio e ritiri in aiuto dei malati di Hiv.

Quarto. Il 20 giugno 1995 si iniziò una presenza missionaria a Waverley e Mamelodi West rispettivamente un sobborgo e una township di Pretoria, capitale del Sudafrica. Qui uno degli obiettivi era rafforzare la consapevolezza della responsabilità missionaria nella chiesa locale, e formare giovani a diventare missionari della Consolata dal Sudafrica al mondo.

Avendo lavorato per molti anni in aree rurali, dai primi anni Novanta, consapevoli del fenomeno di urbanizzazione, i missionari della Consolata iniziarono una presenza in diverse townships, inizialmente nella diocesi di Dundee e successivamente nell’arcidiocesi di Johannesburg (Daveyton 2004). Molti giovani furono accompagnati nel loro discernimento vocazionale, le comunità parrocchiali pregavano per le vocazioni e una squadra vocazionale diocesana fu attivata nella diocesi di Dundee, dove religiose e religiosi, preti e clero locale potevano incontrarsi e pianificare periodicamente. Una squadra simile fu realizzata pure in Eastern Deanery, Pretoria. Sfortunatamente queste due squadre dovettero sciogliersi per mancanza di nuove forze, dopo la tragica morte del padre comboniano Giorgio Stefani a Pretoria (20 ottobre 2005), e di suor Anna Thole, delle Nardini Sisters, nella diocesi di Dundee (1 aprile 2007).

Due passaggi ulteriori

Il padre John Berté (andato in Paradiso il 5 gennaio 2005), all’epoca, non mi aveva menzionato altri possibili passaggi storici.

Voglio però aggiungere due passaggi successivi che reputo importanti.

Quinto. Grazie all’intuizione del consigliere generale per l’Africa, padre Matthew Ouma, il primo settembre 2008 ha aperto i battenti il seminario teologico interculturale di Merrivale (Kwa Zulu Natal), e un anno dopo è stata pure aperta la parrocchia St. Martin de Porres, Woodlands, nell’arcidiocesi di Durban. Il seminario è composto dagli studenti religiosi professi della Consolata originari di diversi paesi dell’Africa, ma non ancora da sudafricani.

Sesto. Un nuovo capitolo della storia dell nostro istituto in Sudafrica è iniziato nel 2016, con l’apertura della missione nel piccolo regno di Eswatini (che si scrive pure eSwatini, ndr), dove il missionario argentino José Luis Ponce de León è diventato il vescovo della diocesi di Manzini, l’unica nel piccolo regno.

Passato remoto

Voglio ricordare qui due momenti storici che hanno anticipato la nostra presenza in Sudafrica e hanno legato l’istituto al paese.

Nel 1940, 89 missionari della Consolata furono portati dagli inglesi in Sudafrica dal Kenya, come prigionieri di guerra italiani. Furono rinchiusi a Koffiefontein, cittadina mineraria nel Free State al centro del paese, per tre anni.

Nel 1948 alcuni missionari, invece, furono mandati dall’Italia all’Università di Cape Town, per specializzazioni o per accreditare i loro titoli di studio secondo il sistema britannico, prima di partire per Kenya e Tanzania come insegnanti.

Devo infine ricordare che, anche se l’Istituto è presente nel paese da così tanti anni, non c’è ancora un missionario della Consolata sudafricano, perché inizialmente l’obiettivo fu lo sviluppo della chiesa sudafricana, attraverso la promozione del clero locale.

Rocco Marra


Un missionario «senior» fresco di Sudafrica

Riflessioni dell’ultimo arrivato

Padre Mario Barbero è un missionario della Consolata di lungo corso. Questo significa che conosce molti confratelli del passato e del presente. In Sudafrica era stato solo per brevi visite, quando lavorava in altri paesi del continente. Da poco più di un anno si è trasferito a Pretoria, dove si sente l’ultimo arrivato. Ci racconta le sue avventure con il calore che sempre lo contraddistingue.

Non è la prima volta che vengo in Sudafrica, ma adesso sono arrivato con un regolare permesso di lavoro e con visto di residente. La prima volta venni nell’ottobre 2003 proveniente dalla Repubblica democratica del Congo assieme a una coppia congolese per prendere parte all’incontro panafricano del Marriage encounter. Dal 1978, infatti, faccio parte del Wwme (Worldwide marriage encounter, in Italia Incontro matrimoniale), movimento familiare internazionale e, dovunque ho lavorato, mi sono sentito sostenuto da coppie, sacerdoti, consacrate e consacrati di questa associazione.

Andavo a Johannesburg con una coppia di Kinshasa per prendere parte a una settimana d’incontro con coppie e sacerdoti di nove paesi africani impegnati nella pastorale familiare. In quell’occasione avevo chiesto al superiore delegato, padre Ponce de León (ora vescovo di Manzini in Eswatini), di poter prolungare di una settimana il mio soggiorno per visitare le nostre missioni in questo paese. Così nel giro di una settimana visitai quasi tutte le comunità dei missionari della Consolata nel paese. Fu con grande emozione che nei pressi di Delmas pregai sul luogo dell’incidente mortale dei padri Paolino Ferreira e Alexius Lipingu.

Una seconda visita in Sudafrica, sempre con visto turistico, fu più lunga, da dicembre 2007 a giugno 2008, un soggiorno di sei mesi nella parrocchia di Daveyton, nell’arcidiocesi di Johannesburg, come aiuto al mio amico padre Ettore Viada, compagno di studi a Roma.

Sebbene fossi prete da oltre quarant’anni, era la prima volta che mi trovavo in una parrocchia a tempo pieno, e fu molto bello. Quasi ogni giorno, accompagnato da un parrocchiano, visitavo le persone malate e gli anziani nelle loro case, leggendo sui loro volti la gioia nel ricevere la visita di un sacerdote e soprattutto la Comunione. Indimenticabile la scena di una signora anziana che, vedendomi arrivare, esclamò: «I am so happy, father!». Sabato e domenica prestavo servizio nelle chiese succursali di San Martin e San Lambert.

Tre giorni dopo il mio arrivo a Daveyton, mi chiamò la responsabile della pastorale familiare di Johannesburg per invitarmi a pranzo e per farmi conoscere un salesiano impegnato nella pastorale giovanile e dei fidanzati, naturalmente non me lo feci ripetere due volte.

In quei sei mesi ebbi anche la possibilità di prendere parte alla celebrazione del trentesimo anniversario del Marriage encounter in Sudafrica (iniziò nel 1978 come in Kenya) e di animare due fine settimana del programma Retrouvaille.

Inoltre, con padre Tarcisio Foccoli, mio compagno di ordinazione e superiore delegato dell’epoca, vissi un’altra esperienza memorabile: andare a Merrivale, nell’arcidiocesi di Durban, per vedere una casa che sarebbe poi stata la prima residenza del seminario teologico che si progettava di aprire (e che di fatto si aprì il primo settembre 2008): una novità molto importante per la nostra presenza sudafricana.

Sorpresa gradita

Nel mese di novembre 2019, mentre da tre anni risiedevo nella nostra comunità di Rivoli (To), il padre generale, Stefano Camerlengo, mi propose una nuova partenza per il Sudafrica, questa volta con regolare visto di residenza. Era la terza destinazione in Africa dopo il Kenya e la RdC, inframmezzati da due «parentesi» di dodici anni ciascuna, in Usa e in Italia.

Mentre preparavo i documenti per richiedere il visto regolare, cercai di rinfrescare le mie memorie sull’Istituto in Sudafrica cominciando dalla sua preistoria.

Infatti la prima presenza di missionari della Consolata nel paese non era stata pianificata dai nostri superiori o da una decisione di un Capitolo generale, ma dal governo inglese che allo scoppio della guerra nel 1940, senza tanti complimenti, vi deportò ben 89 nostri missionari che lavoravano in Kenya (foto sopra), i quali da un giorno all’altro si trovarono con l’etichetta di nemici di sua Maestà britannica. Questi nostri confratelli, con la laboriosità tipica dei missionari, durante quasi quattro anni nel campo di concentramento di Koffiefontein pregarono, studiarono, si tennero aggiornati sulla Bibbia e sulla teologia, tessendo anche relazioni con altri prigionieri italiani confinati con loro, aiutandoli anche a rinfrescare la loro pratica religiosa. Scorrendo il loro elenco vidi che li avevo conosciuti quasi tutti in Italia o durante i miei dodici anni in Kenya, e alcuni di loro (in particolare fratel Guido Grosso, indimenticabile formatore al Consolata seminary di Langata) mi raccontarono come si erano tenuti occupati in quel periodo.

Nel 1948 c’era stata poi una presenza Imc programmata per il Sudafrica: l’apertura, a Cape Town, di una «casa di studi» per i missionari destinati a frequentare corsi di specializzazione per insegnare nelle scuole, soprattutto in Kenya. Tra i tanti, non posso non ricordare qui padre Giuseppe Bertaina (ucciso in Kenya nel 2009), che avrebbe lasciato memoria indelebile, e padre Carlo Capone che si laureò in medicina (cosa rara per un prete a quel tempo, per cui richiese un permesso speciale dal Vaticano) e svolse poi un grande lavoro nel coordinare i servizi del Catholic Relief Services (la Caritas degli Stati Uniti, ndr) in tutta l’Africa.

Mi ricordo bene quando l’Istituto, dopo il Capitolo del 1969, decise di programmare nuove aperture anche per snellire la presenza massiccia nelle nostre zone storiche d’Africa: Kenya, Tanzania e Mozambico.

E così vennero, nei primi anni ‘70, la riapertura in Etiopia, e le nuove aperture in Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo), e in Sudafrica. Conobbi i due pionieri, i padri Giovanni Berté e Jack Viscardi, fin da quando erano ancora studenti di teologia a Torino.

Quanti nomi conosciuti

Per prepararmi all’arrivo in Sudafrica, padre Rocco Marra, attuale superiore delegato, mi inviò la lista di tutti i confratelli che dal 1971 fino all’ultimo (che sarei io, credo) erano stati destinati a questa delegazione. Per me, scorrere quell’elenco fu come fare un pellegrinaggio nella storia del nostro Istituto. Essendovi entrato da ragazzino nel 1950, avevo avuto modo di conoscere buona parte di quei 68 nomi che erano sulla lista: missionari dapprima solo italiani poi di varie nazionalità, che avevano lavorato qui per brevi o lunghi periodi, ognuno con le proprie caratteristiche, dando ciascuno il suo contributo in questa Chiesa durante i passati cinquant’anni. Quattordici sono già stati «trapiantati» sull’altra sponda dal Signore.

Guardando alla lista dei missionari e alle zone dove l’Istituto aveva lavorato notavo una certa mobilità, sia di personale, sia geografica. Molte missioni erano state iniziate e poi cedute ad altri. All’inizio c’era stata una concentrazione nella zona del Kwa Zulu Natal e Mpumalanga, dove poi era nata l’odierna diocesi di Dundee. In seguito erano venute le aperture nelle arcidiocesi di Pretoria (1995) e Johannesburg (2004). Sono stati passaggi da una sola diocesi a varie diocesi, da zone prevalentemente rurali ad aree urbane.

Le novità più rilevanti negli ultimi quindici anni furono l’apertura del seminario teologico di Merrivale (2008) e l’apertura di una comunità nello Swaziland/Eswatini (2016), con il vescovo, monsignor José Luis Ponce de León (già dal 2013). Mi sembrano, ancora oggi, due segni di vitalità e di coraggio: l’impegno «ad gentes» in Eswatini, e l’impegno nella formazione di missionari per il mondo.

La decisione di aprire un seminario teologico internazionale e interculturale fu un dono per la nostra piccola delegazione, non solo per contribuire a formare missionari per l’Istituto, ma anche perché la presenza di seminaristi missionari, dà un volto giovanile e dinamico al nostro gruppo. I seminaristi infatti trascorrono dei periodi di servizio nelle varie parrocchie portando una testimonianza dell’universalità della Chiesa. In dodici anni, il seminario di Merrivale ha «prodotto» diciassette sacerdoti missionari, che ora servono in dieci paesi di quattro continenti, ognuno portando qualche impronta di quanto ricevuto dalla società e Chiesa sudafricana.

Negli ultimi vent’anni il nostro gruppo di missionari della Consolata ha cambiato visibilmente composizione sia come provenienza che come età. Nei primi trent’anni di presenza in Sudafrica i missionari erano europei e latinoamericani, dopo, la maggioranza ha iniziato a provenire da paesi del continente.

La nostra è una delegazione giovane, con un’età media dei sacerdoti di 45 anni, quella dei seminaristi di 30 anni.

Chissà se i nostri primi missionari, arrivati in Sudafrica nel 1940 come prigionieri di guerra dal Kenya, avrebbero mai immaginato che in pochi decenni vari confratelli proprio del Kenya sarebbero stati le nuove forze della Consolata ad annunciare il Vangelo nel paese.

Covid relief projects

«Lockdown in Pretoria»

Sono arrivato in Sudafrica il 26 febbraio 2020, con uno degli ultimi voli Alitalia, Roma-Johannesburg, in tempo per concelebrare con padre Rocco la messa serale del mercoledì delle Ceneri. Un mese dopo, anche qui è scattato il lockdown e le chiese sono state chiuse alla partecipazione dei fedeli. La quaresima si è interrotta alla terza domenica, quando avevo appena conosciuto alcuni parrocchiani. Ho vissuto questi lunghi mesi come un regalo del Signore per prepararmi meglio al ministero parrocchiale, ricordando che «la preghiera è il nostro primo dovere». Per me la chiesa non era chiusa e potevo, non solo celebrare messa ogni giorno, ma anche passare un po’ più di tempo a pregare per i miei parrocchiani. Anche se non li conoscevo ancora, il Signore sapeva dove indirizzare le mie preghiere! Ho cominciato a comunicare con loro con messaggi whatsapp e con video quasi settimanali di commento alle letture liturgiche. Ho potuto apprezzare anche la generosità di famiglie che (come i corvi per il profeta Elia, in 1 Re 17,6) mi portavano da mangiare. Con il passare delle settimane ho migliorato la mia competenza culinaria e sono diventato sempre più esperto a preparare gli spaghetti al dente.

La parrocchia dove mi trovo, Queen of the most holy Rosary di Waverley, Pretoria (capitale della nazione), è la prima nostra presenza in città dal 1995. Nel 2020 era in programma la celebrazione del Giubileo d’argento (25 anni dalla fondazione). Naturalmente, a causa della pandemia, non si è fatta nessuna festa, se non il ricordo nella preghiera.

Il primo parroco della Consolata è stato padre Jack Viscardi, che era in comunità con padre Alexius Lipingu, tanzaniano, responsabile di St. Mary’s Mamelodi West, una parrocchia della township a mezz’ora di macchina da Waverley. I due confratelli prestavano il loro servizio pastorale nelle due parrocchie come coparroci.

Padre Alexius lo avevo accolto in seminario a Nairobi nel 1978, e accompagnato all’ordinazione nella sua parrocchia nel 1987. Destinato al Sudafrica nel 1993, era diventato superiore della delegazione, e nel 1999, a 43 anni, è morto in un incidente stradale. Mai avrei immaginato di diventare suo successore in questa parrocchia dove egli è ricordato con simpatia e gratitudine.

In questi 25 anni, vari confratelli di varie nazionalità si sono succeduti qui nel servizio pastorale. Oltre a padre Lipingu, altri due sono già in Paradiso, Jesus Ossa, colombiano, e Jack Viscardi. Li ho frequentati in Italia negli ultimi anni della loro vita: padre Jesus lavorava con la comunità latinoamericana a Torino e padre Jack era nella casa di Alpignano (To). Quando prego il rosario passeggiando su e giù nella chiesa del Santo Rosario e quando celebro la messa, quasi sento la loro presenza fisica nel mistero della comunione dei Santi a intercedere per i loro (ora miei) parrocchiani.

Mario Barbero

St. Gabriela Healin Center, a Mtubatuba: centro di prevenzione e cura dell’Hiv/Aids,


Il vescovo di Manzini indica i fattori di successo

Piccole comunità, grandi greggi

Piccoli gruppi missionari, anziché presenze ingombranti. E la capacità di aderire con dinamismo al mutare delle esigenze del contesto. Ma anche un’attività pastorale dominante, che ha favorito la formazione di leader della chiesa locale. Questi gli aspetti determinanti nei cinquant’anni di missione appena trascorsi.

Era il 1992 quando ho scritto a padre Giuseppe Inverardi, prima della fine del suo secondo mandato come superiore generale, chiedendo di essere destinato altrove. Da sei anni ero in Argentina, dove sono nato. Ero entrato nell’Istituto «per essere inviato» e non per rimanere. È vero che avevo anche la curiosità di sapere se sarei riuscito ad imparare un’altra lingua (avevo fatto il noviziato e la teologia in Colombia), e a inserirmi in un’altra cultura, diversa di quella dell’America Latina.

Durante una sua visita in Argentina lui mi ha chiesto: «Dove vorresti andare?». Anche se mi ero reso disponibile per andare in qualsiasi nazione, ho detto: «Preferirei un gruppo piccolo». Dietro la mia risposta c’era l’immagine delle nostre presenze dove, dopo tanti anni di servizio missionario, siamo cresciuti nel personale ma anche nelle strutture, cose che possono rendere più difficile una nostra disponibilità a rispondere alle nuove sfide.

Lui aveva già un’indicazione: «Abbiamo pensato al Sudafrica». Mesi dopo, nel 1993 sono stato ufficialmente destinato al Sudafrica dove sono arrivato all’inizio del 1994 dopo alcuni mesi passati a Londra per migliorare la lingua inglese.

Quasi trent’anni dopo, penso che quella intuizione sia stata importante.

La nostra presenza in Sudafrica è stata marcata da due elementi particolari: è sempre stata «piccola» nel numero dei sacerdoti missionari (la delegazione non ha mai avuto fratelli) e non è mai stata legata a una infrastruttura. Questo ha permesso ai missionari di spostarsi con facilità per dare una risposta alle diverse sfide.

È stato così che nel 1991, in risposta al vescovo della diocesi di Dundee, l’Istituto ha preso in consegna le parrocchie del decanato di Newcastle, per sviluppare un lavoro d’équipe secondo il nostro carisma missionario.

Qualche hanno dopo, nel 1994, è stata decisa la prima presenza fuori della diocesi di Dundee: due parrocchie nell’arcidiocesi di Pretoria (Waverley e Mamelodi) e nel 2003 la prima presenza nell’archidiocesi di Johannesburg.

La comunità dei professi è nata nel 2008 seguita da una parrocchia «a fianco» nell’arcidiocesi di Durban nel 2009, e poi una seconda parrocchia a Mamelodi (Pretoria) nel 2015.

Più tardi, nel 2016, è iniziata la presenza dell’Istituto nella diocesi di Manzini, nel Regno di Eswatini(*).

Quando guardo indietro vedo una grande dinamicità in un gruppo così piccolo e una grande capacità di risposta ai bisogni della diocesi e alle proposte dei vescovi.

Una presenza pastorale

Un altro elemento di questi 50 anni è che la nostra è sempre stata una presenza «pastorale». In molti luoghi sono state costruite delle cappelle o delle chiese, ma non c’è mai stato il bisogno di costruire delle scuole o centri di salute (realizzati questi dal governo). La nostra chiamata è sempre stata quella di creare o consolidare delle comunità, nella visita alle famiglie e nella formazione dei loro leader.

Per tanti anni, la Conferenza episcopale ha offerto corsi di formazione per i laici attraverso il centro pastorale Lumko. Ancora oggi ricordo quella volta in cui una delle incaricate del centro ha incontrato padre Pietro Trabucco, in visita in Sudafrica, e gli ha raccontato: «Voi, missionari della Consolata, non soltanto avete curato la formazione dei laici ma, in tutti i corsi, i religiosi erano seduti in mezzo alla gente. Anche loro hanno voluto essere formati insieme al popolo». Ed è vero. Diverse generazioni di missionari sono passate in Sudafrica, arrivate dall’Europa, dall’America Latina e dal resto dell’Africa, ma la cura della formazione dei laici è stata sempre presente nel cuore di ciascuno, forse nella consapevolezza che noi siamo di passaggio e sarà la gente del posto a portare avanti la crescita della chiesa.

L’anno scorso, un sacerdote diocesano al quale è stata affidata una delle nostre missioni, mi ha scritto dicendo: «Sono io oggi a godere dei frutti del lavoro dei Missionari della Consolata. Posso contare su leader preparati con grande cura».

Anche se tutto questo è parte essenziale della nostra identità, non è sempre facile vedere dei frutti quando si lavora in un contesto dove le chiese cristiane si moltiplicano come funghi, il senso di appartenenza a una chiesa è spesso debole, o quando uno dei laici formati sceglie di andare via e di dare inizio alla propria chiesa.

Ho sempre il ricordo di un incontro del nostro gruppo di missionari, una ventina di anni fa. Nella condivisione riguardo al nostro essere in Sudafrica era presente, in quasi tutti, la sensazione di non essere stati di grande aiuto alla chiesa locale. Io ero superiore delegato e ho guardato tutti in silenzio senza dire una parola. Eravamo già presenti in tre diocesi e i vescovi parlavano benissimo di tutti i nostri missionari, ma eravamo noi stessi a non riuscire a vedere l’impatto della nostra presenza.

Il Sudafrica è sempre una realtà molto sfidante, ed è soltanto la convinzione che è lo Spirito di Gesù risorto che si occupa dei frutti, la forza che ci guida e ci sostiene.

José Luis Ponce de León

 (*) Nota: dal 2018 lo Swaziland ha assunto il nome regno di eSwatini, ovvero terra degli Swazi. In questo dossier si è scelta la scrittura alternativa Eswatini.

foto dell’icona della Consolata che secondo una nostra tradizione e` stata donata dal Fondatore ai suoi missionari, conservata nell’ufficio di Mons. Luigi Santa, il quale l’ha data ai primi missionari che sono arrivati a Cape Town nel 1948, quando abbiamo aperto una casa per missionari destinati a fare corsi di specializzazione. Da Cape Town e` stata portata a Damesfontein, probabilmente nel 1981 e infine nell’attuale casa della delegazione a Waverley-Pretoria in aprile 2004.


Il partito di Nelson Mandela è spaccato in due

Alta tensione,  tra i figli di Madiba

Il presidente Ramaphosa cerca di fare pulizia nel partito al potere. Ma non è cosa facile, perché la corruzione è radicata e lui ha una maggioranza interna ristretta. Intanto la xenofobia verso gli immigrati africani non sembra diminuire. Anche a causa della crisi economica dovuta alla pandemia da Covid-19. Riuscirà il presidente nel suo intento? Ne parliamo con un esperto di Cape Town.

«Il presidente Cyril Ramaphosa sta facendo un buon lavoro, ma lentamente. Penso che non ci sia nessuno nell’Anc (African national congress, ndr) che potrebbe fare un lavoro migliore del suo, ma allo stesso tempo, lui non può fare il migliore lavoro di cui avrebbe le capacità, a causa del fatto che è in un partito molto diviso». Chi parla è padre Peter John Pearson, dell’arcidiocesi di Cape Town, contattato telefonicamente. Padre Pearson è incaricato dalla Conferenza episcopale del Sudafrica dei rapporti con il parlamento, ed è coinvolto in una dinamica democratica che prevede la partecipazione della società civile nella definizione di policy e nell’osservazione del lavoro legislativo.

L’African national congress è il partito al governo dalla fine dell’apartheid e le prime elezioni libere nell’aprile 1994. «È uno dei principali partiti che hanno portato alla liberazione del Sudafrica, non l’unico – ricorda padre Pearson -, ma quello con la storia più lunga. È molto vicino alla gente». In quelle elezioni vinse Nelson Mandela che fu presidente fino al 1999. Gli succedette Tabo Mbeki, sempre storico personaggio dell’Anc, per due mandati. Nel 2009 venne eletto Jacob Zuma, controverso personaggio, già indagato per corruzione quando era vicepresidente di Mbeki.

Zuma fu poi obbligato a dimettersi prima della fine del secondo mandato, nel febbraio 2018, per le pressioni dell’Anc, perché eraè coinvolto in troppi casi di corruzione.

L’Anc scelse Cyril Ramaphosa, diventato segretario generale del partito nel 2017, per sostituirlo. Alle elezioni generali del 2019 Ramaphosa fu confermato.

South African President Cyril Ramaphosa is briefed by a nurse before getting inoculated with a Covid-19 vaccine shot at the Khayelitsha Hospital in Cape Town on February 17, 2021. (Photo by GIANLUIGI GUERCIA / POOL / AFP)

La corruzione, «benefit» del potere

«L’Anc è fortemente diviso – spiega padre Pearson – tra chi pensa che il potere sia l’occasione per approfittare [per arricchirsi], come fecero i bianchi prima, e chi ha una visione diversa. Il precedente presidente, Jacob Zuma, è accusato di molti casi di corruzione e irregolarità negli appalti. Secondo una stima, a causa della corruzione, sia nel pubblico che nel privato, il paese avrebbe perso tre trilioni di rand (circa 170 miliardi di euro, ndr), una cifra molto elevata per un paese a medio reddito come il nostro. Ogni atto di corruzione è un furto ai poveri. Rubando questi soldi si è sottratto un enorme investimento in servizi sociali per la gente, casa, educazione».

Nel mondo della politica è difficile togliere la corruzione, perché chi è dentro si è abituato a beneficiare dei suoi frutti.

La fazione del presidente attuale non è nel filone della corruzione, ma di chi lotta contro essa. Ramaphosa, sindacalista prima e poi uomo d’affari, è stato molto attivo nella lotta anti apartheid. «Purtroppo è arrivato al potere con una maggioranza molto piccola, per cui se vuole fare qualcosa, lo deve fare a piccoli passi, altrimenti mette a rischio il suo futuro politico».

Ramaphosa lavora molto con le commissioni, che si occupano dei casi di corruzione nelle diverse istituzioni di governance: «Verificano ad esempio i flussi di reddito di persone con incarichi importanti. Per cambiare le persone, il presidente usa le commissioni, in questo modo non può essere accusato di favoritismi. Però il processo ha bisogno di più tempo. Intanto almeno non sacrifica il suo avvenire politico nel breve periodo».

Suo feroce oppositore è Ace Magashule, segretario generale dell’Anc che guida una fazione del partito legata a Zuma. «Il presidente ha chiesto a Mashule e altri di dimettersi dai loro incarichi di partito. Ma questi non ne hanno intenzione. Si andrà allo scontro che potrebbe arrivare alle aule del tribunale. È un momento molto delicato», sostiene padre Pearson. «C’è un gruppo di persone nell’Anc che difende la democrazia. Ci sono alcuni veterani del partito che dicono: “Questa gente sta buttando tutto quello per cui abbiamo lottato e siamo finiti in carcere”. Per cui appoggiano Ramaphosa affinché faccia pulizia».

«Fortunatamente in Sudafrica abbiamo istituzioni molto indipendenti: il sistema giudiziario, la stampa, la libertà accademica, il diritto di organizzarsi e criticare il governo. Sono tutte cose che stanno ancora funzionando molto bene. E noi come chiesa stiamo appoggiando queste istituzioni, affinché la democrazia resti forte».

Migranti africani? No grazie

Il Sudafrica, essendo una delle economie più importanti del continente, attira molti africani dei paesi confinanti, e non solo, alla ricerca di lavoro e di una vita migliore. Padre Pearson si occupa della tematica: «La legislazione e la Costituzione in Sudafrica su migranti, rifugiati e richiedenti asilo è abbastanza liberale, sulla carta. Nella pratica c’è la tendenza a ridurre le possibilità e i diritti della gente che viene nel paese. Non sappiamo quanti siano, ma si stima intorno ai 4 milioni da altri paesi africani, dei quali la maggior parte ha passato la i confini di stato illegalmente, evitando i posti di frontiera».

Atti di xenofobia ricorrente occupano spesso le cronache. «Le cause sono molte, tra le quali complesse ragioni storiche. Uno dei motivi è il lavoro. Il tasso di disoccupazione nel paese è di circa il 32%, ovvero una persona su tre non lavora, senza contare i sotto occupati, che sono un’altra categoria. La gente pensa che i pochi lavori che ci sono siano minacciati dai migranti, i quali sono disposti a lavorare per salari più bassi e per più tempo, non appartenendo a sindacati. In realtà analisi e studi mostrano che non è esattamente così», sostiene Pearson.

«Anche a livello governativo, ci sono molti segnali, nelle politiche e nelle leggi, di chiusura verso gli stranieri, principalmente nei confronti degli africani. Per un europeo o un indiano, venire a vivere in Sudafrica non è così difficile, mentre per un nero africano sì. La chiamiamo esclusione strisciante, ovvero attuata poco alla volta».

Molti migranti fanno dei lavori, creano piccoli business, come la vendita di bevande e frutti per strada, altri hanno competenze e trovano lavoro in aree nelle quali i sudafricani non sono qualificati. «Vengono nella speranza che qui le cose siano un po’ migliori, perché nei loro paesi se la passano male, ad esempio in Zimbabwe. Sappiamo che ci sono circa due milioni di zimbabwesi che vanno e vengono dal Sudafrica. Alcuni lavorano sei mesi poi tornano indietro. Prendono i rischi per venire qui, perché nel loro paese non c’è nulla. Molti migranti però arrivano e non trovano lavoro, così aumentano il numero dei poveri», conclude padre Pearson.

La pandemia che preoccupa

Il lockdown a causa della pandemia è stato rigido in Sudafrica e solo adesso è meno restrittivo. «La pandemia è sotto controllo ma c’è molta preoccupazione per una terza ondata, a causa delle varianti e della stagione invernale che si avvicina», indica padre Pearson, «inoltre è chiaro che l’economia non può affrontare un altro lockdown duro».

Il nostro interlocutore termina con un monito: «L’anno prossimo ci sarà il congresso dell’Anc. Ramaphosa dovrebbe essere rieletto dal partito. In quell’occasione i falchi sperano di farlo fuori».

Marco Bello

Covid relief projects


Pennellate di Sudafrica

Il Sudafrica si trova all’estremo Sud del continente africano. I primi europei a toccare le coste di questo paese, grande quattro volte l’Italia, furono i portoghesi nel 1487. Da allora se ne servirono come scalo obbligato gli inglesi, i francesi e gli olandesi diretti verso oriente. I primi che ne rivendicarono il possesso, costruendo una base fortificata, furono i coloni olandesi che arrivarono a Città del Capo nel 1652. Essi cominciarono subito a espropriare la terra agli indigeni (Boscimani e Ottentotti).

Questi coloni, con 200 ugonotti francesi, formarono la comunità boera, che cercò poi l’indipendenza dall’Olanda.

Nel 1795 l’Olanda, occupata dalla Francia, chiese aiuto all’Inghilterra, e questa decise di occupare una parte del Sudafrica. Seguirono poi lunghe tensioni e guerre fra boeri e inglesi che si conclusero con la vittoria di questi ultimi. Nel frattempo in Inghilterra avveniva la rivoluzione industriale e le fabbriche necessitavano di molti minerali: l’Africa del Sud poteva darglieli.

I coloni, padroni di tutte le miniere, avevano però il problema della manodopera. La popolazione africana viveva ancora esclusivamente di agricoltura. Il governo locale, composto di soli bianchi, emanò delle leggi fatte apposta per costringere la popolazione a lasciare le terre e andare a lavorare in miniera. Così però i raccolti diminuirono e le famiglie s’impoverirono. Dall’Asia poi, soprattutto dall’India, arrivarono in cerca di lavoro numerosi immigrati.

Agli inizi del XX secolo, i bianchi decisero, sulla base di conquiste militari, di impadronirsi di quasi tutta la terra dei neri.

Nel 1951 si sancì la divisione dei bianchi dal resto della popolazione, e poi la separazione degli africani in gruppi linguistici. Nacque così l’apartheid: un’astuta struttura politica che assicurava alla minoranza bianca di avere il dominio su tutto il paese e sulla maggioranza nera.

Nel 1991, grazie anche alle pressioni internazionali, il governo del Sudafrica si aprì alla formazione di un governo di transizione multietnico e nel 1993 fu pubblicata una bozza della Costituzione per l’abolizione di ogni forma di discriminazione. Con le elezioni popolari del 1994, il paese iniziò a respirare una nuova aria di libertà e tranquillità, sotto la guida del presidente Nelson Mandela. La strada percorsa è stata lunga, ma il Sudafrica di oggi è un paese pacifico, affrancato dal suo passato e consapevole del suo potenziale economico.

Economia

Le potenzialità economiche del Sudafrica sono impressionanti. Tra di esse, una delle principali è il settore minerario che produce il 30% delle entrate totali di valuta straniera. Grazie a esso il Sudafrica è uno dei paesi più ricchi al mondo e le sue compagnie di estrazione sono molto importanti e di notevoli dimensioni (sono presenti vasti giacimenti di oro, zinco, uranio, platino, piombo, ferro, argento e miniere di diamanti).

Molto importanti sono l’industria chimica, della lavorazione della plastica e l’industria dei mezzi di trasporto. Quest’ultima ha registrato una crescita pressoché continua anche grazie alle società multinazionali dell’automobile attratte dagli incentivi del governo di Pretoria. La Fiat, ad esempio, ha avviato nel ’99 la produzione in Sudafrica delle sue automobili destinate ai mercati emergenti.

Un altro settore importante è quello agricolo che ha notevoli potenzialità, data la grande estensione di terreno coltivabile e un clima temperato. I prodotti del Sudafrica stanno ora conquistando i maggiori mercati africani, e non solo.

Altri due settori sono quello delle attrezzature mediche, in forte espansione grazie all’estensione dei servizi sanitari alla popolazione nera, e quello dei sistemi di sicurezza, provocato dalla piaga, purtroppo molto diffusa nella realtà sudafricana, della criminalità.

Il visitatore straniero è subito colpito dagli alti muri di recinzione e dai fili elettrici che circondano le abitazioni della popolazione bianca e delle fabbriche. Con la fine dell’apartheid, nel 1994, i bianchi hanno abbandonato i centri cittadini delle principali città andando a insediarsi nelle periferie che nel tempo si sono trasformate in confortevoli centri residenziali e commerciali. La popolazione di colore invece ha intrapreso il percorso inverso, uscendo dalle townships in cui era stata relegata (anche se tuttora esse sono vicine alle grandi città e mostrano dimensioni impressionanti) per occupare i centri città svuotati.

Il turismo è un’altra realtà importante e ancora poco sviluppata in rapporto al potenziale esistente: i parchi a Nord di Johannesburg, la natura tropicale e il mare dell’area di Durban, la bellezza di Città del Capo con i vigneti a perdita d’occhio, le montagne dolomitiche, una fauna e una flora che lasciano senza fiato, sono solo alcuni aspetti che testimoniano la varietà della bellezza di questo paese.

Alle prospettive positive esistenti nel campo economico e politico, si oppongono però aspetti negativi, che gettano un’ombra sulle speranze di sviluppo di questo paese: l’altissimo livello della disoccupazione (32%), diffusa soprattutto nella popolazione nera, la scarsa formazione dei lavoratori, una situazione sociale con una forte disparità, la criminalità dilagante, la piaga dell’Aids che pare colpisca circa il 18% della popolazione.

Pietro Trabucco

 

Padre Benedetto Bellesi che ha servito in Sudafrica per molti anni e poi redattore e direttore di MC

Hanno firmato il dossier:

Archivio MC

 

 

 




Uruguay. Una parentesi tranquilla

Indice

 

L’Uruguay, un «cuscinetto» tra Brasile e Argentina

Una scelta di laicità

Si dice che gli uruguaiani discendano dai migranti, soprattutto gli spagnoli e gli italiani, che arrivarono nell’Ottocento. È un dato di fatto, però parziale. I Guaraní e gli altri popoli indigeni sono scomparsi da tempo, ma hanno lasciato la loro impronta. Reportage dal paese più laico dell’America Latina.

Montevideo. L’Uruguay è la parentesi tranquilla tra i giganti Brasile e Argentina. È il paese più ricco (assieme al Cile) e più laico dell’America Latina, con i partiti politici più vecchi del mondo, il Partido blanco e il Partido colorado. Rinomata la sua stabilità in una regione caratterizzata da grandi passioni e grandi delusioni, «siamo argentini col valium», sentenziò Eduardo Galeano, scrittore uruguaiano di fama internazionale. Nel Novecento, era la «Svizzera d’America Latina», «un paese piccolo e felice, con istituzioni sociali esemplari» secondo Albert Einstein che lo visitò nel 1925, quando era già presente il divorzio, il divieto del lavoro minorile, i permessi di maternità e le pensioni di invalidità.

È curiosa la storia di questo paesito, come lo chiamano affettuosamente i suoi abitanti, esteso come mezza Italia, ma con meno degli abitanti della Toscana (3,5 milioni contro 3,7), metà dei quali concentrati nella capitale, Montevideo.

«Il nostro padre fondatore, José Artigas, a inizio Ottocento non lottava per l’Uruguay indipendente, ma sognava una federazione delle province del Rio de La Plata, una patria grande. Anche culturalmente non c’erano ragioni perché nascesse uno stato qui, siamo molto simili agli argentini. La storia andò diversamente: la diplomazia inglese sostenne la nascita di uno stato cuscinetto tra l’impero spagnolo e quello portoghese, tra Argentina e Brasile, in una zona chiave per la navigazione dei fiumi che portano al cuore dell’America Latina», spiega a MC Luis Bertola, storico economico presso la Universidad de la República dell’Uruguay.

Rodeo di cavalli alla festa della «Patria Gaucha» nel dipartimento di Tacuarembó. Foto Mauricio Zina.
20190316 – Ruedo de doma de caballos durante la fiesta de la “Patria Gaucha” en el departamento de Tacuarembó, Uruguay.

Un paese di soli immigrati?

«I messicani discendono dai Maya, i peruviani dagli Incas, gli uruguaiani discendono dalle navi», recita un detto nazionale. Nel 1860, un terzo della popolazione era composto da migranti. E sono loro, soprattutto spagnoli e italiani, arrivati a fine Ottocento, che hanno fatto il paese. Letteralmente hanno costruito l’Uruguay, e soprattutto la sua capitale cosmopolita, Montevideo: i suoi palazzi liberty, il porto, i sindacati, le squadre di calcio, le imprese. E hanno cambiato i gusti e affermato le mode: a inizio Novecento circolano automobili Fiat, si beve vino spagnolo e Fernet di Milano. E ancora oggi, nella cucina si riconosce quell’impronta: si può mangiare una torta pascualina, torta salata di bieta secondo la ricetta ligure, o una milanesa napolitana, un incontro tra una cotoletta e una pizza.

Bertola però avverte «la storia dei migranti che arrivano con le navi a fondare l’Uruguay è un po’ un mito. Com’è un mito che tutta la popolazione indigena, i Guaraní, sia stata sterminata dagli spagnoli, che serve a rafforzare l’idea che siamo purosangue “europei”. Gli studi genetici dicono che il 30% della popolazione attuale è di discendenza indigena. Pensate al calciatore Edison Cavani, che ha giocato in Italia, a Palermo e Napoli: i tratti del suo viso sono indigeni. Esiste ancora oggi una segregazione, un’esclusione per origine, che passa anche dal discorso storico prevalente», afferma Bertola, che ha dedicato parte dei suoi studi alle origini della popolazione per spiegare la storia economica dei paesi latinoamericani.

Panoramica del porto di Montevideo, capitale dell’Uruguay. Foto Leandro Ubilla.

Garibaldi e i colorados

È certo però che la relazione tra migrazione e Uruguay è inscindibile, come mostra la storia di un italiano: Giuseppe Garibaldi. Il quale visse circa un decennio, negli anni ’40 dell’Ottocento, a Montevideo, a stretto contatto con la grande comunità italiana. Per sostenere la famiglia si impegnò nei lavori più disparati, fu anche insegnante di matematica. Fondò la Legione italiana, impegnata nell’attività rivoluzionaria e militare a favore del giovane stato uruguaiano. La Legione, oltre che per il coraggio in battaglia, si caratterizzava per un particolare: le camicie rosse. L’origine dell’indumento simbolo delle cause patriottiche, sembra si debba più che altro alla necessità: una spedizione di stoffa rossa destinata agli operai di Montevideo che il generale italiano acquistò a basso costo per vestire i suoi soldati. È in Sud America, tra Brasile e Uruguay, che Garibaldi maturò il polso di comandante carismatico e affinò la tattica della guerriglia poi utilizzata nel Risorgimento italiano. Ed è lì che «l’eroe dei due mondi» crebbe nel suo amore per la libertà: nelle sue memorie racconta come lo affascinassero le immense praterie della Pampa e il modo di vivere libero e indipendente dei suoi abitanti, i gauchos.

Un biglietto di 10 pesos del 1887 con il ritratto di Giuseppe (José) Garibaldi, che in Uruguay visse per quasi dieci anni. Foto Museo Histórico Nacional-Casa de José Garibaldi.

La storia del paese si è sviluppata nella relazione, spesso conflittuale, tra Montevideo e l’interior, tra la metropoli e la campagna. È un paese «macrocefalo», afferma Bertola, «con una capitale sproporzionata, per dimensioni e rilevanza, rispetto al resto. Già nell’Ottocento, l’urbanizzazione cresceva rapidamente, poca gente era impiegata nell’agricoltura e nell’allevamento, la maggior parte lavorava nei servizi e nel settore terziario. Abbiamo avuto grandi classi medie prima di avere una grande classe operaia», così Bertola spiega la nascita di una società liberale e moderna per l’epoca. L’espressione politica di queste classi medie, in particolare della borghesia commerciale, era il Partido colorado, mentre il Partido blanco, più conservatore, era il riferimento degli interessi rurali dell’interior. Si tratta di due partiti dell’establishment, ma sono formazioni pigliatutto, alternatesi al potere ininterrottamente dal 1828 fino al 2004, con la parentesi della dittatura militare 1973-1988. Il conflitto tra i due partiti ha diviso a lungo la società. Ne è un esempio proprio Garibaldi, considerato un eroe dai colorados, per le sue vittorie nella Guerra grande (1839-1851), una guerra civile e internazionale, che ha visto blancos e colorados schierati sui fronti opposti. Garibaldi era schierato con i colorados, che ancora oggi espongono un suo ritratto nella loro sede e gli hanno dedicato una statua sulla rambla del porto della capitale.

Molto dell’Uruguay odierno lo si capisce attraverso la figura del colorado José Batlle y Ordóñez, presidente della Repubblica nel 1903-1907 e nel 1911-1915, che ha lasciato un’impronta ben più profonda di quella dei suoi due governi. A lui si deve la modernizzazione dello stato, i diritti dei lavoratori, dei minori, delle donne, la divisione tra stato e chiesa. La sua eredità, il «battlsimo» (ci si riferisce così all’ala sinistra dei colorados, e ad una tendenza socialdemocratica o anche di sinistra anticlericale) ha marcato a fondo cultura e politica del paesito per tutto il Novecento. Ed è da questa tendenza che sorge il Frente amplio, una coalizione di partiti che, nel 2004, romperà il secolare monopolio blancos-colorados.

I cinquant’anni del Frente amplio

Il Frente amplio (Fa), di cui quest’anno si celebrano i cinquant’anni di storia, è un pezzo del mosaico delle stranezze del paesito. Un movimento di partiti di sinistra di ogni tendenza, dai democristiani agli ex guerriglieri tupamaro, è anche un modo di essere, un’identità per gli uruguaiani. In una società altamente politicizzata, dove il voto è obbligatorio, è comune che le persone dichiarino la loro adesione politica. E oggi, passeggiando per le strade della capitale, è frequente vedere le bandiere tricolore del Fa ai balconi dei condomini o i murales con slogan e i volti dei suoi leader. «È un piccolo mistero l’esistenza di un soggetto politico così variegato, che unisce culture così diverse. Un po’ si deve al pragmatismo e alla maturità dei dirigenti politici, che hanno sempre messo a valore ciò che li univa, anziché ciò che li divideva. Il Fa, ad esempio, non si è mai definito socialista, benché al suo interno vi siano molti gruppi di tale tendenza. I leader politici hanno fatto concessioni ideologiche a favore dell’unità. L’altra ragione dell’unità è l’origine: il Fa è nato come unione dei militanti di base, con i comitati di quartiere, movimenti cattolici, studenti e operai. C’è una mistica dell’origine, le radici popolari e i movimenti di base, che spinge molti a sentirsi frenteamplisti, prima che a identificarsi con uno dei suoi molti partiti. Gli elettori cambiano il loro voto tra i partiti del Fa, ma restano leali al Fa. I partiti lo sanno e restano leali al patto di unità», spiega Bertola. Il Frente amplio è stato al governo per quindici anni, dal 2005 al 2020, cambiando profondamente il paese. Nel quindicennio, si sono alternate due figure, fondamentali nella storia del paese: José «Pepe» Mujica e Tabaré Vázquez.

L’allora presidente Pepe Mujica, ex tupamaro, con Michelle Bachelet, all’epoca presidente del Cile. Foto: Gobierno de Chile.

Pepe Mujica, la semplicità al potere

José Mujica, «el Pepe» come lo chiamano nel Rio de La Plata, è un leader affascinante e sobrio, sopravvissuto alle torture della dittatura, che lo chiuse in un pozzo per dodici anni, come racconta il film La noche de 12 años. Mujica, che di recente ha abbandonato la politica attiva, è uno degli esponenti tupamaro, il movimento di sinistra rivoluzionaria che ha dato vita ad azioni di guerriglia urbana tra metà anni ’60 e inizio anni ’70. I tupamaro si fecero conoscere con iniziative contro la corruzione e per la giustizia sociale, come il furto di un carico di alimenti di proprietà di una grande impresa poi distribuito agli abitanti di un quartiere povero. I «Robin Hood della guerriglia», come li definì il New York Times, godevano dell’appoggio di una parte importante della popolazione. È grazie a questo appoggio, ad esempio, che nel 1971, centoundici tupamaro, tra cui lo stesso Mujica, scapparono dal carcere di Punta Carretas, realizzando l’evasione di detenuti politici più grande della storia. Nei primi due anni di dittatura l’organizzazione fu sostanzialmente smantellata, i leader arrestati, uccisi o in esilio. La dittatura nel paese fu una notte lunga dodici anni, durante i quali, scrive Galeano, «Libertà è stato solo il nome di una piazza e di un carcere. In quel carcere, tutti erano prigionieri, eccetto i secondini e gli esuli. C’erano tre milioni di detenuti, benché sembrasse fossero solo qualche migliaio. Capucci invisibili coprirono gli uruguaiani, condannati all’isolamento e al silenzio, benché non vivessero la tortura. Paura e silenzio furono le regole della vita quotidiana. La dittatura, nemica di tutto ciò che cresce e si muove, ricoprì di cemento i prati delle piazze e tagliò tutti gli alberi che poté».

Con il ritorno alla democrazia, gli ex tupamaro, deposte le armi, hanno accettato la sfida elettorale e si sono riuniti in quello che oggi è il primo partito del Fa per consensi: il Movimiento de participación popular (Mpp).

Nella politica del Mpp ai tempi della democrazia, c’è un elemento di fondo che fa rumore: una relazione di vicinanza e rispetto con i militari. Proprio con gli esponenti dell’armata responsabile delle torture e della repressione nei tempi della dittatura, Mujica e i suoi tengono aperto un dialogo. Le interpretazioni di questa relazione – apparentemente una «sindrome di Stoccolma» per la quale i torturati si innamorano dei torturatori – sono le più disparate, da quella cospirativa (un accordo siglato ai tempi della dittatura, benché non vi siano prove né evidenze), alla vicinanza di idee, «la comunione del ferro», tra ex combattenti. Quel che è certo è che, una volta arrivati al governo, gli ex guerriglieri hanno optato per il ministero della Difesa, con Fernández Huidobro, «el Ñato», anche lui sopravvissuto a un decennio di carcere in isolamento. Mujica ha raccontato di un pranzo con «i pezzi grossi dell’armata, generali, colonnelli, militari fascisti, c’era di tutto» finalizzato a creare un clima di cordialità. E ancora oggi Mujica tiene aperto il dialogo con Guido Manini, ex generale, ora leader di Cabildo Abierto, partito di estrema destra attualmente al governo. Qualunque sia l’origine e la natura di questa curiosa relazione, è una delle tante stranezze di un paesito solo apparentemente tranquillo.

Il successo elettorale del Mpp si deve «soprattutto alla figura di Mujica», afferma Bertola, che da studente fu un attivista tupamaro.

Eletto presidente nel 2009, Mujica promuove politiche sociali ed economiche di successo, con la riduzione di disoccupazione e povertà, e legalizza l’aborto e il consumo della cannabis. Ma il consenso popolare è probabilmente più legato al suo modo di essere, di interpretare il suo ruolo pubblico, lontano dagli schemi tradizionali, anche per gli standard della sinistra latinoamericana. Nel 2014, a un giornalista spagnolo stupito nello scoprire come il presidente dell’Uruguay viva in una casa di due stanze, Mujica semplicemente risponde: «Il vantaggio di avere una casa così piccola è che tra me e mia moglie spazziamo e riordiniamo tutto in un lampo».

L’oncologo Tabaré Vázquez, morto a dicembre 2020, è stato presidente dell’Uruguay per due mandati. Foto: Presidencia de la República Mexicana.

Tabaré Vazquez, il medico riformatore

Prima e dopo Mujica, presidente è un uomo la cui storia racconta molto dell’anima dell’Uruguay: Tabaré Vazquez. Il Frente vince le elezioni del 2004 e arriva per la prima volta al governo nazionale con quest’uomo, un medico socialista figlio dell’Uruguay popolare, nato nel 1940 nel quartiere operaio La Teja. Tabaré Vazquez cresce in una casa con le pietre sul tetto per non farlo volare via quando c’è vento forte, gioca come portiere nei campetti di terra battuta. All’università sceglie medicina e, nel frattempo, si innamora di Maria Auxiliadora Delgado, con la quale resterà unito tutta la vita. Siamo a metà degli anni ’70. L’Uruguay, come tutto il Cono Sur, vive la dittatura militare, i morti e gli scomparsi caduti nella rete di repressione della polizia politica.

La vita di Tabaré si divide tra la famiglia, l’impegno sociale e il mestiere di medico. Si specializza in oncologia, perché «ho perso i miei genitori e mia sorella per il cancro. Ho un nemico e lo voglio combattere», e diventa uno degli specialisti più importanti della regione.

Nel 1979 diviene presidente del Club Progresso, la piccola squadra di calcio de La Teja. Tabaré usa il calcio per promuovere attività sociali nel quartiere e porta la squadra alla consacrazione. Nel 1989, il Progresso vince lo scudetto e gioca la Coppa libertadores, la Champions league latino-americana.

In quell’anno ci sono le elezioni a sindaco di Montevideo e il Frente amplio cerca una figura fuori dagli schemi. Scelgono lui. Tabaré presenta un programma di proposte concrete e lo slogan è «consideralo fatto». Va in giro a piedi. Nelle assemblee è lui che passa il microfono per ascoltare più che per parlare. La politica, dice, è come la medicina: «Bisogna ascoltare chi vive un problema poiché spesso ne conosce la soluzione, come il malato conosce la sua malattia». Vince e diventa il primo sindaco di sinistra della capitale, è la prima vittoria nella storia del Frente amplio. Mantiene le promesse e raggiunge livelli di consenso altissimi, smentisce la leggenda nera per cui il ruolo di sindaco di Montevideo è una tomba per la carriera politica. E la sua carriera fa un balzo: nel 1994 è candidato del Frente amplio a presidente della Repubblica. Perde, ma il Fa diventa un attore politico alla pari dei partiti storici. Tabaré comincia a modellare la coalizione sulla sua idea di riformismo pragmatico.

Il suo riferimento era Salvador Allende, anche lui medico, socialista e massone. «Da lui, possiamo apprendere molto. Anche gli errori da non ripetere», diceva riferendosi al presidente cileno eletto democraticamente e poi rovesciato da un golpe sostenuto dagli Stati Uniti.

Quando si va alle elezioni presidenziali del 2004, il paese non si è ancora rialzato dalla crisi bancaria del 2002, trasformatasi nella peggiore crisi economica della sua storia, spingendo due persone su cinque in povertà. Tabaré come candidato del Fa deve scontrarsi con la propaganda della destra: «Con la sinistra arriveranno povertà e conflitti sociali, le istituzioni saranno distrutte, finiremo come Cuba». Lui non è certo un estremista, ma questa retorica ha sempre funzionato in Uruguay.

Stavolta però l’aria è diversa, lo si capisce nella chiusura della campagna elettorale a Montevideo, un immenso fiume di persone riempie l’Avenida del Libertador, mentre suona «Todo cambia» di Mercedes Sosa. Il Frente amplio vince e finisce il bipolarismo che durava dal 1828.

L’attuale presidente Luis Alberto Lacalle Pou del Partido blanco, storico partito conservatore tornato al potere nel marzo 2020, dopo 15 anni di Frente amplio. Foto Presidencia de la Republica.

Dopo 15 anni, tornano i conservatori

Comincia un’azione di governo su due assi. Primo: verità e giustizia per i crimini della dittatura militare. E poi le riforme: immediato sostegno ai poveri. Tabaré risponde alle critiche: «C’è chi dice che i poveri useranno il denaro del piano di Emergenza per comprarsi il vino. E io chiedo: perché i poveri non possono bersi un vino?». La gestione dell’economia è sapiente, viene approvata una riforma fiscale in senso progressivo, i conti tornano in ordine e il paese riparte. Nasce poi il Sistema di salute universale, la legge sul lavoro domestico, l’Agenzia per l’innovazione e la ricerca, gli investimenti sulla digitalizzazione. Ma la riforma che tutti ricordano è il Plan Ceibal: un computer per tutti i bambini. Molti, durante la pandemia di Coronavirus e la quarantena, hanno ricordato il primo governo del Fa, la salute pubblica e l’educazione digitale grazie alle quali il paese ha reagito bene al Covid-19. La critica principale al suo primo governo è il veto presidenziale posto alla legge pro-aborto, già votata dal Parlamento, che lo porterà a dimettersi dal Partito socialista (componente del Frente).

Con il secondo governo Tabaré, tra il 2015 e il 2020, viene estesa la copertura pubblica per le cure ad anziani, bambini, disabili; si decreta l’educazione come bene essenziale; col Plan Ceibal arriva un tablet a tutti gli anziani. Secondo la Confederazione sindacale internazionale, l’Uruguay diventa il paese più avanzato nelle Americhe, da Nord a Sud, per rispetto dei «diritti del lavoro, della libertà di associazione, della contrattazione collettiva e dello sciopero».

Nel 2019 muore la moglie e quello stesso giorno Tabaré annuncia che sta lottando contro un cancro al polmone. Una beffa: l’uomo colpito dal male che ha studiato da medico e combattuto da presidente, con le sue leggi antifumo. A fine anno, il Partido blanco – grazie a una vittoria risicata – torna al governo. Cala il sipario sul lungo quindicennio del Fa, senza una polemica né un ricorso da parte degli sconfitti. La transizione è esemplare: un altro dei falsi miti sulla sinistra rotti da Tabaré.

Tabaré muore il 6 dicembre 2020, a ottant’anni. Il governo dichiara tre giorni di lutto nazionale, le strade si riempiono di persone emozionate, fiori e messaggi. Uno dice: «Una maestra, grata di aver vissuto mentre eri presidente». La sua figura è la personificazione della saga della sinistra uruguaiana, una storia di molte sconfitte ma che alla fine trova la strada per la vittoria, assicurando stabilità democratica, crescita con uguaglianza e redistribuzione del potere. Un ciclo lungo 15 anni, conclusosi con la morte di Tabaré e il ritiro dalla vita pubblica di Pepe Mujica. Oggi il Frente amplio cerca nuove strade.

 Federico Nastasi

Mappa dell’Uruguay, paese stretto tra l’Argentina e il Brasile. Illustrazione Treccani.

Uruguay

  • Forma di governo: Repubblica presidenziale.
  • Presidente: dal 1 marzo 2020, Luis Alberto Lacalle Pou (Partido blanco, di centro destra).
  • Superficie: 176mila km² (circa metà dell’Italia).
  • Abitanti: 3,4 milioni (circa 40% sono di origine italiana).
  • Popoli indigeni: sono quasi estinti come popoli autonomi.
  • Città principali: Montevideo (capitale con 1,9 milioni di abitanti), Salto, Punta del Este (principale centro turistico), Colonia del Sacramento (città storica).
  • Religioni principali: 58% cristiani (42% cattolici, 16% protestanti); 17% credenti senza affiliazione; 16% atei; 5% agnostici; 5% altre religioni.
  • Economia: agricoltura (soia) e allevamento (bovino e ovino); Pil pro capite 22.400 Usd (secondo paese dell’America Latina dopo il Cile).
  • Vaccino anti-Covid principale: Sinovac.

L’arcivescovo cardinale Daniel Sturla durante una messa nella parrocchia della Annunciazione, nel quartiere Cerrito de la Victoria, a Montevideo. Foto Mauricio Zina.

La Chiesa cattolica

Piccola (eppure presente)

Meno della metà della popolazione si dichiara cattolica. Eppure, il cattolicesimo è componente essenziale della cultura nazionale. I cattolici sono tra i conservatori, ma anche nel Fronte ampio. E c’erano tra i tupamaros.

Il 25 dicembre in Uruguay si festeggia il giorno della famiglia, la Settimana santa è la settimana del turismo. «La chiesa cattolica è piccola e povera. E un prete che cammina per strada attira l’attenzione», spiega Eduardo Murias, ex seminarista, funzionario pubblico e «fervente cattolico». Nel paesito, meno della metà della popolazione si dichiara cattolica, un unicum in un’America Latina dove il cattolicesimo è sempre stato molto diffuso.

«La nascita dell’Uruguay non è frutto dell’evangelizzazione dei popoli indigeni, come in altri paesi della regione. I migranti arrivati dall’Europa erano liberali, socialisti e anarchici, riuniti in logge massoniche anticlericali. E inoltre, con la separazione chiesa-stato iniziata a metà Ottocento, presto la religione divenne un fatto privato e i poteri pubblici pienamente laici. Il presidente José Batlle y Ordóñez canalizzò il liberalismo radicale delle classi medie urbane e accelerò la laicizzazione dello stato», spiega a MC Juan Pablo Martí, professore di storia economica della Universidad de la Republica, e «cattolico poco praticante, aderente alla Comunidad de Vida Cristiana dei gesuiti». «Qui, essere sacerdote non eleva a nessuno status particolare. Ricordo quando dissi alla mia famiglia e agli amici che volevo essere sacerdote: “Che peccato, che spreco”, mi dissero. Nessuno mi incoraggiò, sembrava una scelta senza senso», racconta Murias, che ha abbandonato il seminario, ma non la fede.

All’opposizione della dittatura

Nonostante queste premesse, il cattolicesimo è una delle principali componenti della cultura nazionale. «L’azione pubblica tra fine ‘800 e inizio ‘900 nasceva dall’impulso dei cattolici: si pensi alle società di mutuo soccorso; alle cooperative di risparmio, alle casse popolari, ai sindacati di lavoratori cristiani», spiega Martí. «E anche se l’educazione del mio paese è assolutamente laica, storicamente, le scuole delle congregazioni gesuite e domenicane sono state fondamentali, molti presidenti passarono da quelle aule», afferma lo storico.

Politicamente, non vi è un partito cattolico di riferimento, vi sono settori cattolici nei partiti tradizionali, nel partito conservatore blanco soprattutto. Ma anche tra i colorados e il Frente amplio, nato nel 1971 grazie al contributo della Democrazia cristiana e della gioventù cattolica di sinistra. E anche tra i guerriglieri tupamaro c’erano cattolici.

Durante la dittatura, la Chiesa divenne uno spazio di militanza e mobilitazione sociale contro il regime, grazie all’impegno del clero e dei fedeli. A differenza dell’Argentina, qui le gerarchie non supportarono i militari: l’arcivescovo Carlos Parteli di Montevideo fu – discreto ma inarrestabile – una spina nel fianco della dittatura. Marcelo Mendiharat, vescovo della diocesi di Salto, fu perseguitato e se ne andò in Argentina, altri sacerdoti furono perseguitati come oppositori alla dittatura. Le parrocchie aprirono le porte agli incontri politici, in un’epoca in cui sindacati e partiti erano vietati. Fu in quei saloni che crebbe una parte della classe dirigente del Frente amplio. «Un quarto dei deputati del Fa sono cristiani, alcuni cattolici altri evangelici. Si riconoscono come militanti cristiani. Javier Miranda, presidente del Fa, figlio di un comunista desaparecido, è cresciuto in un collegio gesuita e spesso afferma che la sua militanza si deve alla sua formazione religiosa», spiega Martí.

«Durante i cacerolazos contro la dittatura, le chiese facevano suonare le campane a sostegno della protesta. Nel 1983, nel salone della chiesa Los Capuchinos San Antonio y Santa Clara, nel centro di Montevideo, si tenne uno sciopero della fame per la scarcerazione di Adolfo Wassen, dirigente tupamaro affetto da un cancro mortale, perché potesse passare in casa gli ultimi giorni della battaglia contro la malattia», mi racconta Martin, maestro di yoga e cattolico.

Offerta durante una cerimonia dell’Umbanda celebrata sulla spiaggia Ramírez, a Montevideo. Foto Mauricio Zina.
20200202 – Mae Susana de Oxum realiza una ofrenda a la diosa de Umbanda Iemanjá en la Playa Ramírez de Montevideo, Uruguay

Pro o contro Francesco

Il rinnovamento della Chiesa con il Concilio Vaticano II (1962-1965) trovò terreno fertile in Uruguay, dove già da inizio Novecento si anticipavano alcune delle conclusioni del Concilio, in particolare l’idea di una «Chiesa vicina ai bisognosi e lontana dal potere». Spiega Martì: «Negli anni Sessanta, la gioventù cattolica, l’Azione Cattolica in particolare, era molto attiva nel sociale ed era molto progressista, il Concilio formalizzò questo impegno». E, all’epoca, non mancavano i preti operai «come il mio, nel quartiere la Blanqueda, che lavorava in fabbrica perché non voleva essere mantenuto dalla Chiesa», ricorda Martin.

Quella che si conosce come teologia della liberazione, in Uruguay ha diversi esponenti, tutt’ora in gran forza. E genera diffidenza verso chi, come Eduardo Murias, vive la fede in maniera diversa. Un punto di dissidio tra i fedeli è la figura di Francesco. Il papa argentino qui divide: «A volte lo chiamo Bergoglio, non Francesco, mi viene difficile riconoscerlo come papa. Non lo critico, ma le sue posizioni teologiche mi generano confusione, non danno certezze a noi fedeli. E la Chiesa dev’essere di tutti, la sua figura ha diviso più che unire. In Argentina lo accusano di essere peronista, a me non interessa la politica, mi chiedo però perché stia cambiando le nostre tradizioni liturgiche», si anima Eduardo e aggiunge: «La Chiesa è di tutti. Io vengo dalla tradizionale spiritualista, ma ho fatto molte azioni per i più deboli. Non voglio vivere in una Chiesa di soli seguaci della teologia della liberazione. Per me la fede è azione e preghiera insieme».

A Murias piacerebbe una Chiesa meno legata al prete e con più attivismo dei fedeli, «come dice Francesco», afferma, dopo aver chiarito le sue critiche al papa. «Durante la pandemia, ho fatto molto volontariato e la gente l’ha apprezzato, adesso alcuni vengono in chiesa con me. Per superare la diffidenza verso il cattolicesimo, bisognerà sviluppare di più l’impegno dei fedeli e non aspettare le iniziative del prete. Ci sono pochi movimenti di base, bisognerebbe rafforzarli». E bisognerebbe «sanzionare con forza i preti che commettono violenze sessuali, non solo cambiarli di parrocchia», continua Eduardo, riferendosi ai recenti scandali che hanno riguardato abusi sui minori nella chiesa di Minas. «Siamo una iglesia chica e molte cose si sanno prima che scoppino gli scandali, la vox populi corre più della giustizia ordinaria. La nostra è una Chiesa apatica che non ha preso le dovute misure in tempo», critica Eduardo. Bisognerebbe «dare ai preti la formazione adatta sul voto del celibato. Ricordo che quando ero in seminario, un prete spagnolo ci disse che quando incrociavamo una bella ragazza per strada, dovevamo cambiare marciapiede. Ma non si può scappare tutta la vita», conclude Eduardo.

Federico Nastasi

Daniel Manuelian, a Casa Armenia, nel quartiere Prado, a Montevideo. Foto Mauricio Zina.
20210304 – El Presidente de la Colectividad Armenia Daniel Manuelian, posa para un retrato en la Casa Armenia del barrio Prado en Montevideo, Uruguay

La comunità armena

Uruguay, un paese accogliente

«Sono armena», mi dice con il suo spagnolo rioplatense Silvana, una libraia della Ciudad Vieja di Montevideo. Silvana, benché sia nata in Uruguay, non parli armeno e non abbia mai messo piede in Armenia, ci tiene alla sua identità. E come lei ci sono circa quindicimila armeni nel paesito, grati all’Uruguay per essere stato il primo paese al mondo ad avere riconosciuto il «Medz Yeghern», il genocidio armeno, con una legge nel 1965.

Tra il 1915 e il 1916, l’Impero ottomano, guidato dal governo dei «Giovani Turchi», pianificò e realizzò la deportazione della popolazione armena dal proprio territorio, autorizzata con la legge Tehcir del 29 maggio 1915, provocando la morte di un milione e mezzo di armeni. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 a Costantinopoli, con un’operazione che decapitò l’intellighenzia armena, più di mille tra giornalisti, scrittori, poeti, delegati al parlamento, furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada. Nelle marce della morte, che coinvolsero 1,2 milioni di persone, centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento. I maschi delle famiglie, adulti e bambini, vennero trucidati, e le donne trascinate attraverso atroci marce forzate e campi di prigionia.

Malgrado l’esodo e le prove fotografiche che testimoniano l’accaduto, la Turchia non riconosce quello che molti storici definiscono il primo genocidio moderno, basato sulla programmazione «scientifica» dello sterminio.

Nel 2016, in occasione del centenario del genocidio, papa Francesco ha visitato l’Armenia, condannando il genocidio e ha pregato per evitare che questa tragedia possa ripetersi. Durante la visita a Erevan, ha sottolineato come la memoria possa essere «fonte di pace» per portare i due paesi sulla strada della riconciliazione.

Il paese che chiedeva migranti

«Negli anni ‘20 e ‘30, l’Uruguay faceva propaganda pro immigrazione: arrivarono italiani, spagnoli, e anche sette-ottomila armeni. Partivano dal Libano, dalla Francia o dalla Siria. Erano cresciuti negli orfanotrofi, poiché il genocidio si era già perpetrato. «Erano smarriti, non avevano idea di dove fossero arrivati, non avevano niente in mano», spiega a MC Diego Karamanukian, intellettuale della comunità armena di Montevideo, che parla un perfetto armeno e dirige Radio Arax, programma radiofonico di cultura armena.

Com’è possibile che dopo un secolo dal genocidio, quattro generazioni e 13mila chilometri di distanza dal luogo degli avvenimenti, l’identità armena sia ancora così forte sulla sponda nord del Rio de La Plata? «Sono cresciuto con i racconti di terrore di mia nonna, che è stata serva di una famiglia turca. Arrivò qui non per cercare lavoro, ma per non farsi ammazzare. Curare questa identità è una reazione al genocidio e al negazionismo che dura tutt’ora», spiega Daniel Manuelian. Lui e Diego sono dirigenti di Hnchakian, il partito socialdemocratico armeno presente in molti paesi, tra cui Libano, Usa e anche Uruguay. Per questa intervista, ci ricevono a Casa Armenia, un bell’edificio con giardino nel quartiere residenziale del Prado, nella parte Ovest di Montevideo. È sede del partito, luogo di cultura, sport e feste.

«È incredibile pensare come un gruppo di persone, arrivate coperte solo di stracci, in poco tempo non solo trovò lavoro e mise su famiglia, ma organizzò la comunità, fondò scuole, chiese, associazioni, giornali, radio, cori, festival musicali. Così curarono l’identità perseguitata dall’Impero ottomano, la misero in salvo dall’oblio», ragiona con orgoglio Diego, descrivendo l’attività dei primi armeni di Uruguay. «Sono arrivati sapendo che non c’era un biglietto di ritorno, hanno costruito qui la patria che avevano perso. Si sono riuniti attorno al centro di Montevideo, dove c’erano le industrie. E forse c’è anche una ragione geografica e nostalgica: andarono lì perché cercavano le montagne del loro paese», continua Diego. I primi arrivati, all’inizio, lavoravano come operai, in attività che non richiedevano la conoscenza dello spagnolo. Poi, si dedicarono ai piccoli commerci e alle botteghe, agli almacenes. Nei vecchi edifici nella parte occidentale della città, ci sono ancora insegne in spagnolo e armeno. L’ex presidente Tabaré Vazquez raccontava che nel suo quartiere, La Teja, la sua famiglia, in un periodo di ristrettezze, aveva ricevuto aiuto e cibo da un commerciante armeno.

«Qui gli armeni si sono fatti volere bene e hanno contribuito alla costruzione del paese. Non ci siamo ghettizzati, al contrario. Prima di tutto siamo armeni, ma siamo uruguaiani: tifiamo Nacional e Peñarol (i due club di calcio più seguiti del paese, ndr), abbiamo visto l’Uruguay due volte campione del mondo. La nostra cucina si è mescolata con quella uruguaiana: qui puoi mangiare un buonissimo lehmeyun (una specie di pizza armena, ndr) con aggiunta di mozzarella locale. Abbiamo ricevuto accoglienza e riconoscimento: a Montevideo si può passeggiare su Rambla Armenia, ci sono monumenti e targhe che ricordano il genocidio, e il 24 aprile è il Giorno della Memoria. Se in Armenia dici che sei uruguaiano, ti si aprono le porte», spiega Diego.

Difendere l’identità armena

«È il negazionismo che mi fa rabbia. Io sono la prova viva del genocidio. Se non ci fosse stato, semplicemente non sarei qui. Me lo ha spiegato uno psicologo: ci teniamo così tanto alla nostra identità perché il nostro è un trauma non riconosciuto», racconta Daniel. Ma oggi l’identità della comunità in Uruguay è a rischio: «Mio figlio non parla l’armeno, non si interessa molto alla storia, non vive il mio stesso trauma. Ma se per strada gli gridano “armeno” si gira. È la quarta generazione, l’identità col tempo si perde», confessa un po’ sconsolato Daniel.

«In Libano, Turchia, Siria, l’identità armena si mantiene attraverso la religione cristiana ortodossa: essere armeni è un modo per non essere musulmani. Qui in Uruguay, un paese così laico, il tema religioso non è conflittuale. Quindi, è più difficile curare l’identità», ragiona Diego. Che prosegue un po’ sconfortato: «La lingua è un problema, è difficile, pochi la parlano e pochissimi la insegnano, non si parla più in famiglia». Ma poi ha un guizzo: «A volte la curiosità risorge. C’è chi segue corsi online di armeno, adesso c’è anche un corso universitario. E poi, con internet, molti seguono le notizie dell’Armenia, come adesso con il conflitto del Nagorno Karabakh. Si sta affievolendo l’identità, ma non scomparirà. L’identità è volontà», conclude con un po’ di speranza.

Federico Nastasi

L’entusiasmo di un gruppo di tifosi della nazionale. Foto Jimmy Baikovicius.

Il calcio, una religione laica

È celeste il colore della passione

In Uruguay, il calcio è una vera religione laica. Lo gioca chiunque, ovunque, con qualunque clima, a qualunque ora. Anche per questo un paese tanto piccolo ha mietuto successi.

Viaggiando per l’Uruguay, un giorno sono arrivato a Mercedes, un paese sulla riva del Rio Negro, il fiume che fa da frontiera con l’Argentina. Pochi giorni prima, il fiume aveva esondato e rimaneva fango e acqua stagnante sulla sponda, attrezzata con panchine, altalene e (naturalmente) griglie per la carne. Quella volta mi sono incantato a fissare una partita di pallone, zaini per terra a indicare le porte, undici contro undici con l’acqua fino alle caviglie.

Il calcio è la vera religione dell’Uruguay, lo gioca chiunque, ovunque, con qualunque clima, a qualunque ora. Così si spiega come un paese così piccolo abbia vinto due Coppe del mondo (1930 e 1950) e due medaglie dei Giochi Olimpici (1924 e 1928), quattro trofei come le stelle che la Celeste, la nazionale uruguaiana, espone sulla maglia. Dal paesito provengono campioni in ogni epoca, da Juan Alberto Schiaffino – campione del mondo nel 1950 con l’Uruguay e titolare anche della nazionale italiana – a Luis Suarez, centravanti dell’Atletico Madrid e massimo realizzatore con la nazionale. È la Celeste che accende la passione degli uruguaiani, quando finalmente possono vedere tutti insieme i loro campioni, normalmente impegnati nei club europei. Da quindici anni, alla guida della nazionale c’è Óscar Tabárez, detto il Maestro, ex insegnante di scuola e filosofo del pallone. Lui ha costruito un modello di selezione di giovani campioni (El proceso) che ha permesso la crescita costante degli atleti, dalle giovanili, fino all’affermazione in nazionale. Il suo motto, «il cammino è la ricompensa», esemplifica la dedizione e la passione grazie alla quale è diventato l’allenatore di nazionale più longevo del mondo.

Ed è nel paesito che si è giocata la prima edizione della Coppa del mondo, al Estadio Centenario, nel 1930. Oggi lo stadio ospita il Museo del calcio che, insieme ai cimeli delle imprese della Celeste, mostra i numeri della passione: 598 club di calcio per bambini con 60mila aderenti, si giocano duemila partite a settimana, recita un tabellone con malcelato orgoglio.

Di recente, la passione si è diffusa anche tra le donne. Jessica, trentenne funzionaria del ministero della Cultura, mi racconta che da bambina le piaceva giocare a calcio, ma negli anni ’90 non era ben vista una bimba con gli scarpini e dovette rinunciare. Oggi finalmente si possono osservare partite di calcio femminile sulla rambla e l’Uruguay ha ospitato il mondiale under-17 di calcio femminile nel 2018.

Un’immagine storica del «Maracanazo» quando l’Uruguay sconfisse per 2 a 1 i padroni di casa del Brasile nella finale della Coppa del mondo, a Rio de Janeiro (16 luglio 1950).

Il calcio e la dittatura

Le vicende calcistiche si legano anche alla storia politica del paese. Nel 1980, l’Uruguay ospitò il Mundialito, un torneo a inviti per le sei nazionali vincitrici della Coppa del Mondo. Ad un mese dall’inizio del torneo, il 30 novembre, si svolse un referendum costituzionale, che nelle intenzioni dei militari avrebbe dovuto legittimare il governo dittatoriale di Aparicio Méndez. Il risultato fu sorprendente: la giunta al potere fu sconfitta. La dittatura cercò di evitare che il torneo si trasformasse in un megafono per l’opposizione, provando a strumentalizzarlo a proprio favore, secondo l’esempio di due anni prima offerto dalla giunta militare di Videla con i mondiali argentini. Al Mundialito, l’Uruguay giocò alla grande, superò l’Italia di Bearzot per 2-0, e in finale incontrò il Brasile. Si ripeteva una sfida epica, con lo storico precedente del campionato del mondo 1950, il Maracanazo, che vide la Celeste festeggiare la sua seconda Coppa del mondo, e la Seleção vivere una delle sue peggiori tragedie sportive. Anche al Mundialito, la Celeste uscirà vincitrice per 2-1 contro un Brasile di campioni, guidato da Santana. E la dittatura militare, perso il referendum e fallito il tentativo di strumentalizzazione del torneo, si avviò sul viale del tramonto, sancito con il ritorno della democrazia quattro anni dopo.

Panoramica sullo stadio del Centenario, a Montevideo. Foto Rodrigo Soldon.

Una passione interclassista

Al calcio è dedicato Splendori e miserie del gioco del calcio, uno dei libri più famosi di Eduardo Galeano, nel quale si chiede: «In cosa il calcio rassomiglia a Dio? Nella devozione dei suoi fedeli, nello scetticismo di molti intellettuali».

Nel paesito, a dire il vero, la passione per il pallone è interclassista e negli stadi si mescolano persone di ogni origine. «L’Uruguay è uno di quei paesi dove dovrebbero mettere delle porte di calcio alle frontiere. Al visitatore sarebbe chiaro che quel paese altro non è che un gran campo di football con l’aggiunta di alcune presenze accidentali: alberi, mucche, strade, edifici», ha scritto l’argentino Jorge Valdano. Ripensando alla partita vista sul lungofiume di Mercedes, con la palla che neanche rimbalzava nel prato zuppo d’acqua, credo che Valdano avesse proprio ragione.

Federico Nastasi

Un momento di Uruguay-Messico, Coppa America 2011. Foto Sam Kelly.

Archivio MC

Hanno firmato questo dossier:

Federico Nastasi – dottorando in economia, ricercatore presso il Cepal (Comisión económica para América Latina), giornalista indipendente. Vive in America Latina, tra Montevideo e Santiago del Cile, collaborando con radio, riviste, quotidiani in italiano e spagnolo. Ha raccontato il referendum cileno con la newsletter «Plaza Dignidad – Lettere dal Cile». È alla sua seconda collaborazione con MC dopo il dossier Cile dello scorso marzo.

A cura di Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.

Due bambine a cavallo alla «Rural del Prado», a Montevideo. Foto Mauricio Zina.
20190420 – Niñas montan un caballo durante la Rural del Prado en Montevideo, Uruguay




Colombia: La pace teorica

testi di  Angelo Casadei, Paolo Moiola e Mauricio A. Montoya Vásquesz |


Parole di pace, fatti di guerra

Colombia.

Perdono, riconciliazione e… indifferenza

«Ricercato, vivo o morto» (l’ultima intervista)

Storia di Isabel, guerrigliera per forza.

 


L’interminabile conflitto colombiano

Parole di pace, fatti di guerra

Dagli accordi di pace siglati nel 2016 sono trascorsi oltre quattro anni. Il lunghissimo conflitto colombiano è mutato, ma non è terminato. E le cause che lo hanno prodotto sono ancora irrisolte.

Le parole sono importanti, ma spesso insufficienti, sopravvalutate o inutili. La Costituzione colombiana, promulgata nel luglio del 1991, parla di pace in tre circostanze: nel preambolo, nell’articolo 22 e nel 95. Nel preambolo si dice che il potere sovrano assicura ai cittadini «la vita, la convivenza, il lavoro, la giustizia, l’eguaglianza, l’istruzione, la libertà e la pace». L’articolo 22 afferma che «la pace è un diritto e un dovere di realizzazione obbligatoria». Infine, secondo l’articolo 95, tra i doveri della persona e del cittadino c’è quello di «promuovere il raggiungimento e il mantenimento della pace». Eppure, nonostante le parole solennemente scritte nella Carta costituzionale, in Colombia la pace è largamente incompiuta. Ancora oggi essa rimane una promessa di molti e una speranza di tanti.

I numeri del conflitto possono cambiare a seconda delle modalità di raccolta dei dati e dei soggetti che li raccolgono. In tutti i casi si tratta di numeri impressionanti. Il Centro nacional de memoria histórica, tramite l’Observatorio de memoria y conflicto, conta le vittime del conflitto distinguendo tra undici modalità di violenza: azioni di guerra, danni a beni civili, uccisioni selettive, attacchi alla popolazione, attacchi terroristici, sparizioni forzate, massacri, mine antiuomo, ordigni esplosivi improvvisati e ordigni inesplosi, reclutamento e utilizzo illeciti di bambine, bambini e adolescenti, sequestri, violenze sessuali.

Le informazioni, raccolte e minuziosamente catalogate dall’istituzione, disegnano un quadro dettagliato di cosa abbia significato e significhi il conflitto interno per i colombiani. Secondo questa fonte, nel periodo 1958-2020 le vittime mortali (víctimas fatales) della guerra sono state 266.988.

Gli attori principali del conflitto sono quelli conosciuti: la guerriglia (politicamente di sinistra), i gruppi paramilitari (politicamente di destra), gli agenti dello stato, banditi, altri gruppi non identificati.

Leggendo i dati dell’Observatorio de memoria y conflicto, non mancano però le sorprese. Per esempio, la vulgata comune, sia in Colombia che all’estero, ha sempre attribuito le maggiori responsabilità del conflitto alla guerriglia (Farc, in primis). Invece, i colpevoli principali pare siano stati i gruppi paramilitari. Questi sarebbero i primi responsabili delle uccisioni mirate, delle sparizioni forzate, delle violenze sessuali e dei massacri. La guerriglia (Farc, Eln, M-19, Epl, Cgsb), invece, sarebbe in testa per i sequestri, gli attacchi a centri abitati, la distruzione di infrastrutture pubbliche e l’arruolamento nelle proprie file di minori. Gli agenti dello stato sarebbero i protagonisti della maggior parte delle azioni belliche. Dopo la firma dell’accordo di pace del 2016 (prima respinto dal referendum, poi modificato e approvato dal Congresso), la situazione sul campo è mutata, ma non i risultati. In alcune zone sono tornate le Farc con gruppi di dissidenti (identificati come Gao-r), mentre vari attori legati al narcotraffico hanno esteso il proprio dominio.  Perché dunque, dopo decenni di lutti e devastazione, la guerra non ha ancora termine? Una delle cause principali è il persistere nel paese di condizioni di povertà e diseguaglianza. Per citare soltanto un dato, nel 2019 la povertà interessava il 35,7% dei colombiani (Departamento administrativo nacional de estadística, Dane). Con percentuali molto più alte in alcune regioni (con un massimo di 68,4% nel dipartimento del Chocó) e nelle zone rurali e amazzoniche.

Queste ultime ospitano anche le zonas cocaleras. Secondo il White House office of national drug control policy (Ondcp, marzo 2020), nel 2019 erano coltivati a coca 212mila ettari per una produzione di 951 tonnellate di cocaina. Invece, secondo lo United Nations office on drugs and crime (Unodc), gli ettari coltivati sono di meno (154mila), ma la produzione maggiore (1.136 tonnellate nel 2019). Quali che siano i dati corretti, la realtà mostra una produzione enorme di cocaina con il coinvolgimento di migliaia di famiglie contadine costrette a coltivare piante di coca non per arricchirsi ma per sopravvivere.

Secondo l’organizzazione non governativa Planeta paz, la pace va costruita e suppone la creazione di condizioni politiche, sociali ed economiche. Essa non significa semplicemente superare il conflitto armato. È necessario «sradicare dalla vita sociale colombiana lo stato di guerra in cui vive la maggior parte dei suoi abitanti a causa dell’incertezza sull’ottenimento dei mezzi necessari per garantire la vita biologica e una vita dignitosa».

In questo quadro, nell’ultimo anno si è anche inserita la pandemia da coronavirus. Una tessera in più da sistemare nel complicato puzzle colombiano.

Paolo Moiola


Colombia

  • Forma di governo:
    Repubblica presidenziale.
  • Presidente: Iván Duque Márquez del
    partito conservatore Centro democratico, guidato dall’ex presidente Álvaro Uribe.
  • Superficie: 1.141.748 km² (quasi quattro volte l’Italia).
  • Abitanti: 49,9 milioni.
  • Etnie: 1.905.614 (4,4%) indigeni; 2.950.072 (6,7%) afrocolombiani (fonte: Dane, 2018).
  • Città principali: Bogotá (capitale), Medellín, Cali, Barranquilla, Cartagena de Indias.
  • Religioni: 79% cattolici, 12% protestanti; in rapida crescita le chiese evangeliche e pentecostali.
  • Economia: agricoltura molto varia, con il caffè e la coca al primo posto; allevamento, in primis di bovini; risorse minerarie come oro, smeraldi e petrolio; il paese ha sostituito il Venezuela come primo esportatore sudamericano di petrolio verso gli Usa.

Vista dal palazzo del Congresso nella Plaza de Bolívar, nel centro storico di Bogotá, la capitale colombiana. Foto Andres Martinez – Pixabay.


Conversazione

Perdono, riconciliazione e… indifferenza

Nel conflitto e nel processo di pace colombiano, le variabili in gioco sono numerose. Proviamo a fare ordine con il professor Mauricio A. Montoya Vásquez, studioso del conflitto.

Per chi ha pagato sulla propria pelle le conseguenze di un conflitto, dimenticare e magari perdonare sono passaggi complicati o forse impossibili. «In primo luogo – ci spiega il professor Mauricio A. Montoya Vásquez, storico e studioso del conflitto -, occorre differenziare tra perdono e riconciliazione. Il perdono è una cosa più personale, che può includere anche caratteristiche religiose. La riconciliazione è una cosa più ampia, che include l’instaurazione di legami di fiducia. È meglio non iniziare un processo di pace con la parola perdono e utilizzare invece la parola riconciliazione».

Chiediamo se la società colombiana sia in grado di dimenticare oltre sessant’anni di conflitto interno. Il nostro interlocutore ha un’opinione particolare. «Non credo – dice – che il problema sia dimenticare, che, a volte, può essere in qualche misura un elemento salvifico. Io credo che, per la maggior parte dei colombiani, il grande problema sia quello dell’indifferenza, come abbiamo visto bene nel plebiscito del 2016. Erano più di 30 milioni le persone aventi diritto, ma solamente 13 milioni hanno partecipato. Inoltre, le persone che hanno votato per il “Sì” (all’accordo di pace) erano quelle che vivevano nei territori più colpiti dalla violenza. È qui che si è deciso di voltare pagina».

Mauricio Montoya ricorda Tzvetan Todorov. «Secondo il filosofo bulgaro – spiega -, ci sono due memorie: una letterale e una esemplare. Ci sono società che vogliono rimanere legate a una memoria letterale, che è quella che ricorda, commemora e – sfortunatamente – mette il dito nella piaga e in ogni occasione cerca vendetta. Con la seconda invece si commemora e si ricorda. Non dimentica, ma è disposta a voltare pagina perché la società del futuro non soffra e non ripeta queste situazioni. Perché la società vecchia sia d’esempio a quella nuova».

Dissidenti e banditi

Una bottiglietta della birra artigianale «La Roja», prodotta da ex combattenti delle Farc. Foto rtve.es.

«Già all’inizio c’erano persone che non erano disponibili ad accettare il processo di pace. In seguito altri – come Iván Márquez, Jesús Santrich, el Paisa y Romaña – si sono ritirati dicendo che non c’erano garanzie sufficienti e che non si stava compiendo quanto stabilito».

«Secondo me, questo è stato un errore. Avrebbero dovuto aspettare visto che il nostro sistema è lento e per questo richiede pazienza. Costoro sono dunque tornati alle armi formando la dissidenza che sta tentando di occupare il territorio che un tempo era dominio delle Farc. In molte zone sono in competizione con bande criminali dedite al narcotraffico. Io penso che i dissidenti abbiano un progetto politico sempre meno visibile e si avvicinino ai Bacrim (acronimo di Bandas criminales come los Urabeños, ndr), ovvero i gruppi paramilitari che non hanno accettato il processo di smobilitazione».

Tuttavia, non c’è soltanto la dissidenza. Ci sono anche notizie incoraggianti: «Un 70 per cento di ex combattenti delle Farc – precisa Mauricio – sta scommettendo sulla pace, anche con vari progetti produttivi: i cento ex guerriglieri e rispettive famiglie che si sono trasferiti su una terra di Mutatà, quelli impegnati nel turismo ecologico, o quelli che hanno aperto fabbriche di abbigliamento (marca “Manifiesta-Hecho en Colombia”) e di birra artigianale (“La Roja”)».

Si tratta di progetti d’inserimento nella società civile da incoraggiare, ma anche da difendere visto che, al 7 gennaio 2021, erano già stati assassinati almeno 252 ex membri delle Farc (un film già visto negli anni Ottanta quando i paramilitari sterminarono gli iscritti al partito Unión patriótica). Ancora più alte sono le cifre riguardanti l’assassinio di líderes sociales (difensori dei diritti umani, ambientalisti, attivisti indigeni e afrocolombiani). Negli ultimi quattro anni sarebbero stati 421, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Mentre la Defensoría del pueblo riporta oltre 700 morti. «Eppure – precisa Mauricio -, secondo alcuni, questi líderes sociales sono stati uccisi a causa di lios de faldas (letterale, “litigi per le gonne”, ndr) come fossero cioè problemi amorosi che non hanno nulla a che vedere con il contesto politico».

Chi vuole il fallimento?

Oltre ai dissidenti delle Farc e ai gruppi paramilitari, ci sono molti altri attori che lavorano per far fallire il processo di pace. Il nostro interlocutore non ha dubbi al riguardo.

«Dagli anni Ottanta – spiega – la pace è un tema elettorale. In questo senso, molti lo hanno manipolato per arrivare alla presidenza. È chiaro che ci sono persone che non vogliono che gli accordi si compiano nei modi sottoscritti a l’Avana e, dopo la sconfitta nel plebiscito, al Congresso. Il problema è quello degli approfittatori, dei mercenari che cercano di portare confusione e di preservare i propri interessi particolari. Costoro lavorano affinché le cose non si sappiano e da qui nascono gli attacchi alle istituzioni che operano per il processo di pace».

Logo del Tribunale speciale per la pace (Jep).

Dall’accordo di pace firmato dall’allora presidente Manuel Santos e dai vertici delle Farc-Ep, è nato il «Sistema integrale di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione» (Sistema integral de verdad, justicia, reparación y no repetición, in sigla Sivjrn). Incorporato nella Costituzione attraverso il decreto legislativo 01 del 2017, il Sistema è fondato su tre componenti: la «Commissione di chiarimento della verità, convivenza e non ripetizione» (Comisión de esclarecimiento de la verdad, la convivencia y la no repetición, Cev); l’«Unità per la ricerca delle persone date per scomparse» (Unidad para la búsqueda de personas dadas por desaparecidas, Ubpd) e la «Giurisdizione speciale per la pace» (Jurisdicción especial para la paz, Jep).

Logo dell’Unità per la ricerca delle persone ritenute scomparse .

Tra i maggiori oppositori del processo di pace c’è Álvaro Uribe, l’uomo forte della Colombia, fondatore del partito Centro democrático (Mano firme. Corazón grande, «Mano ferma. Cuore grande») del quale è militante anche l’attuale presidente Iván Duque. «È ovvio – conferma Mauricio Montoya – che l’ex presidente Uribe ha avuto ed ha influenza. Ha guadagnato appoggio e popolarità tra una fetta importante della popolazione per la sua opposizione ai gruppi armati, per la sua volontà di non negoziare con essi. La sua scelta militare ha però portato anche a violazioni ed eccessi come per i “falsi positivi” (civili innocenti assassinati dall’esercito che li faceva passare per guerriglieri per ingigantire i propri successi militari, ndr). Uribe continua ad essere molto influente in ambito politico, cosa che gli permette di far eleggere senatori, governatori, sindaci. Oggi rimane popolare tra la popolazione più anziana, ma non tra i giovani colombiani».

Come fare giustizia?

Dopo gli accordi del 2016, le Farc si sono trasformate in partito politico, mantenendo la denominazione ma con un significato diverso: da «Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia» a «Fuerza alternativa revolucionaria del Común». Lo scorso 24 gennaio i responsabili hanno annunciato di aver cambiato il nome in «Comunes» per non confondere il gruppo firmatario degli accordi di pace con il gruppo dei dissidenti. Il leader Rodrigo Londoño, alias Timochenko, ha ammesso che mantenere il nome di Farc non è stata una buona idea e che il nuovo nome del partito fa riferimento alla gente comune.

Questo non significa però che gli ex guerriglieri non verranno giudicati. Gli accordi di pace non sono infatti una patente d’impunità, una rinuncia a fare giustizia e a punire i responsabili.

«I media e i social – spiega Montoya – hanno creato un ambiente negativo attorno alla Jep. Dicendo che è una giustizia dei guerriglieri e che è contro i militari. Tutti argomenti che a poco a poco sono caduti». Anzi, lo scorso 29 gennaio il tribunale speciale creato con gli accordi di pace (la citata Jep, Jurisdicción especial para la paz) ha accusato l’antica cupola della guerriglia di crimini di guerra e di lesa umanità per i sequestri commessi per decenni. Sono stati incriminati otto membri delle ex Farc, tra cui lo stesso Rodrigo Londoño e due senatori.

«A dimostrazione – chiosa Montoya – che il compito che sta svolgendo la Jep è reale».

Vista della città caraibica di Cartagena de Indias. Foto neufal54-Pixabay.

L’irrisolta questione della terra

In Colombia la diseguaglianza è visibile e confermata da tutti gli indici. Chiediamo al professor Montoya il peso della questione della terra.

«Durante i colloqui e il processo di pace – risponde -, la questione della terra è stata un tema ricorrente. “Perché ancora una volta il tema della terra?”, domandava molta gente. La risposta è semplice: perché in realtà il problema della terra non è stato mai risolto. Sta scritto negli accordi, ma la soluzione ancora non si vede. Un passaggio fondamentale è la trasformazione e attualizzazione del catasto rurale, che significa riuscire a sapere quanti ettari di terra possiedono le persone, quante imposte pagano e se queste sono coerenti con le terre possedute, perché ci sono territori vuoti che non vengono consegnati ai contadini e alle comunità agricole che li richiedono. Molti ritengono che il problema della diseguaglianza e della terra non sia una causa della guerra. Forse non è l’unica, ma è fondamentale».

Il narcotraffico

Legata al tema della terra è la questione delle piantagioni di coca e del commercio della stessa. «Il narcotraffico – spiega il professore – ha attraversato il conflitto dagli anni Settanta. Le coltivazioni di coca continuano sotto il controllo dei gruppi armati, illegali e legali. È infatti comprovato che in questo lucroso business ci sono anche politici. In molti territori ci sono combattimenti tra i vari gruppi armati per controllare le rotte della droga. Un esempio tra i tanti possibili: l’ex paradiso dell’arcipelago di San Andrés, Providencia e Santa Catalina (davanti alle coste del Nicaragua, ndr) ha altissimi livelli di violenza essendosi convertito in un ponte per il traffico con Stati Uniti ed Europa. Accanto a queste rotte c’è poi il microtraffico all’interno delle città colombiane dove le bande si contendono con le armi il traffico non soltanto di droga ma anche di persone».

L’attuale presidente colombiano Iván Duque. Foto Marcel Crozet.

Con il Venezuela e gli Stati Uniti

Lo scorso febbraio il presidente Iván Duque ha annunciato la regolarizzazione (tramite il nuovo Estatuto nacional de protección) per dieci anni di oltre due milioni di immigrati venezuelani, che permetterà loro di accedere ai sistemi pubblici della salute e dell’educazione e di lavorare regolarmente. Il presidente colombiano ha sempre usato (furbescamente) la lotta contro il Venezuela di Maduro come strumento di lotta politica interna e internazionale.

«Duque usa quel paese – spiega Mauricio Montoya – in termini elettorali per spaventare la popolazione su certi candidati o modelli politici o idee per supposte affinità al Venezuela o, come viene spesso detto, al castrochavismo. Credo perciò che le relazioni tra i due paesi si manteranno tese, instabili e polarizzate».

Nel frattempo, negli Stati Uniti, storico alleato del paese, la presidenza è passata da Donald Trump a Joe Biden. «Non cambierà molto – osserva Montoya -. Alcuni media dicono che, avendo il governo colombiano appoggiato Trump, Biden presenterà il conto. Non credo sarà così. La Colombia non perderà l’appoggio statunitense né in termini economici né di lotta al nartraffico. Credo però che gli Usa avranno un ruolo nella competizione per la prossima presidenza la cui campagna inizierà ancora quest’anno».

In effetti, l’ex presidente ed ex senatore Álvaro Uribe ha già iniziato le audizioni per selezionare i propri candidati.

Paolo Moiola

L’ex presidente Álvaro Uribe, l’uomo forte della Colombia. Foto Casa de América.


Incontro con un dissidente Farc

«Ricercato, vivo o morto» (l’ultima intervista)

Abbiamo incontrato Dúver, uno dei leader dissidenti delle Farc. È stata una conversazione unica. Due mesi dopo, Dúver è stato ucciso in un’operazione militare che ha avuto una grande eco sui media locali.

Solano (Caquetá). Ho ricevuto un invito da parte di Dúver Guzmán, nome di battaglia di Marco Tulio Salcedo, importante guerrigliero delle Farc-Ep, a Mononguete, lungo il fiume Caquetá. Il luogo prescelto è presso il distributore galleggiante di benzina, situato nel porticciolo principale del paese. L’appuntamento è per venerdì 18 settembre, alle 10,30.

Con Rito, il motorista della parrocchia, arrivo in anticipo, alle 9,30. Mentre attendo, vedo arrivare dall’altra parte del fiume, in territorio della regione del Putumayo, altri guerriglieri che non fanno però parte di coloro che sto aspettando.

Un disegno di Marulanda, il fondatore delle Farc-Ep. Immagine di Sergio Muñoz – Bernardo Londoy.

La guerriglia vuole sapere tutto

All’ora concordata arriva Dúver. Viene verso me, mi dà la mano e mi offre da bere una gazzosa. Ci accomodiamo uno di fronte all’altro: io su una panca, lui su una sedia. Alla cintura porta una pistola. Indossa una maglietta con la mappa della Colombia e l’immagine di Marulanda: il contadino che fondò le Forze armate rivoluzionarie della Colombia è raffigurato che impugna un fucile, mentre nel mezzo della mappa campeggia la sigla Farc-Ep.

Iniziamo a parlare. Subito mi chiede: «Padre, mi parli del progetto». Non capisco, o meglio, fingo di non capire quello a cui vuole riferirsi Dúver, e così inizio a parlargli del progetto di evangelizzazione che portiamo avanti nel Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano con mons. Joaquin Humberto Pinzón, il nostro vescovo; dell’équipe missionaria in parrocchia, composta da quattro suore, due seminaristi, un laico missionario e me come parroco e coordinatore.

Proseguo la mia descrizione: «Dúver, il territorio della parrocchia è molto vasto, visto che comprende 106 comunità, 90 villaggi di coloni e 16 popoli autoctoni. In esso ci sono la parrocchia San Francisco d’Asis formata nel 2019, il centro di missione Assunzione, il centro di missione San José, la parrocchia Nuestra Señora de las Mercedes. Per la vastità del territorio in futuro sono previste quattro parrocchie».

Dúver ascolta attentamente, anche perché la guerriglia vuole sapere tutto ciò che succede nell’area in cui essa opera. «Come missionari della Consolata – continuo -, siamo presenti in questa regione dal 1951 e a Solano in modo permanente dal 1959, mentre la parrocchia è stata istituita nel 1969. La nostra presenza ha come sua prima finalità l’annuncio di Gesù Cristo, ma abbiamo sempre tenuto presente l’educazione scolastica, e oggi proseguiamo il lavoro appoggiando e proponendo alcuni progetti sociali».

Gli spiego la nostra filosofia: «L’annuncio del Vangelo non è scollegato dall’aspetto sociale: evangelizzazione e promozione umana, che come missionari della Consolata, le abbiamo nel sangue».

Dúver mi interrompe dicendo: «Il Vaticano ha molti soldi!». Gli rispondo: «Non so quanti soldi abbia il Vaticano. Io so solo che il nostro Vicariato e il nostro vescovo di soldi non ne hanno. Viviamo alla giornata, di quello che si riceve dalle offerte delle persone semplici del nostro popolo caqueteño e da aiuti di alcuni benefattori sia colombiani che di altri paesi».

Insiste che gli parli del progetto, però di nuovo chiedo che mi dica a quale progetto si riferisce. Alla fine, gli suggerisco: «Il progetto cambio climatico?». Annuisce. «Il nome completo è “Miglioramento sostenibile della situazione socio-economica e ambientale della popolazione amazzonica nelle regioni del Caquetá e Putumayo”. È appoggiato dalla Cooperazione tedesca e dalla Caritas tedesca, ed è coordinato dalla Pastorale sociale colombiana».

«Sosteniamo 60 famiglie della zona, con supporto tecnico nell’area agroforestale e con un adeguato allevamento del bestiame nei pascoli. Ne deriva quindi un lavoro anche di formazione al lavoro comunitario e impegno politico».

A Dúver però queste informazioni non bastano: vuole sapere l’ammontare in denaro degli aiuti economici che arrivano. Minaccia che, se non gli darò l’informazione, parlerà con il vescovo.

Per evitare di esporre mons. Joaquin gli dico che «più o meno il progetto ha una base di appoggio di 200 milioni di pesos colombiani (50mila euro, ndr) all’anno per un periodo di tre anni». Dúver commenta: «Pensavo molto di più!».

Membri dell’esercito colombiano presentano i corpi (in sacchi) di tre dissidenti delle Farc uccisi durante uno scontro ai confini con l’Ecuador (dicembre 2018). Foto Carlos Ayala / AFP.

Dall’età di 12 anni nella guerriglia

Dopo aver raggiunto il suo obiettivo, la conversazione si apre a vari argomenti. Gli chiedo: «Da quanto tempo si trova nelle Farc?». «Da quando avevo 12 anni. Sono originario del Caguán. Ho vissuto nella regione del Meta. Ora vivo in questo territorio, in una zona tra il fiume Caquetá e il fiume Caguán».

Domando: «Quando finirà questa guerra che dura da più di 60 anni?». «Quando – risponde – il popolo aprirà gli occhi e avrà in mano il potere». «Ma come pensate di arrivare al potere?», insisto io. «L’unica soluzione sono le armi. È il linguaggio più chiaro per farsi capire, sentire, e rispettare anche se noi tuteliamo la giustizia a favore della comunità».

«Le racconto, padre, che, poco tempo fa, un grande proprietario terriero ha venduto una grandissima finca (fattoria). Noi gli abbiamo chiesto una percentuale ma lui ci ha negato il denaro. Lo abbiamo processato davanti al popolo ed abbiamo lasciato decidere alla stessa comunità che lo ha graziato». E continua: «Padre, ha visto quanti líderes delle comunità sono stati assassinati perché hanno aperto gli occhi al popolo?»

Allora gli chiedo: «Dúver dov’era quando si sono fatti gli accordi di pace?». «Nel “monte”, in foresta a continuare la guerra. Non possiamo lasciare scoperti spazi che altri potrebbero occupare».

«Che altri gruppi ci sono oltre le Farc nella zona?», domando. «Il gruppo narcotrafficante messicano di Sinaloa: il loro territorio è un po’ più giù verso Curillo. Ma sono interessati solo ai soldi. Noi paghiamo 2.300 pesos (circa 0,55 euro, ndr) al grammo la pasta di coca, mentre loro la pagano molto meno. Se il contadino non si adegua alle regole da loro imposte, viene ucciso senza chiedere il parere alla comunità».

Dopo quasi due ore di chiacchierata, ci salutiamo. Mi accorgo che, dietro a me, ci sono altre persone in attesa di parlare con il dissidente delle Farc. Li saluto. Poi, con Rito salgo sulla barca e ci dirigiamo dal porto verso il paesino per salutare la gente. Con tutte le precauzioni possibili.

Angelo Casadei

Vista dall’alto di un tratto di Amazzonia colombiana. Foto Mauricio Romero Mendoza.

L’UCCISIONE

Manifesto dei ricercati del gruppo Eln, dei dissidenti Farc (Gao-r) e del Clan del Golfo; sopra ogni nome, è riportata la ricompensa promessa. Foto Autorità colombiane.

Il 24 novembre 2020 le autorità colombiane hanno annunciato la morte di Marco Tulio Salcedo Pinilla alias Dúver, responsabile («cabecilla») delle finanze di un gruppo dissidente delle Farc (ufficialmente, «Grupo armado organizado residual», Gao-r), struttura Míller Perdomo, operante nei dipartimenti di Caquetá, Putumayo e Meta.

L’operazione è stata effettuata dalla Sesta divisione dell’esercito nazionale nella vereda Mononguete, nel municipio di Solano, Caquetá.

Sulla testa di Dúver vigeva una taglia di 150 milioni di pesos (circa 35mila euro) per la sua cattura o morte.

Secondo le autorità competenti, la struttura criminale era incaricata di raccogliere denaro tramite estorsioni e sequestri, traffico di droga, reclutamento forzoso, soprattutto di minori, attacchi a strutture militari.

Pa.Mo.

Una giovane migrante venezuelana al lavoro come raccoglitrice di foglie di coca («raspachina») nella regione di Catatumbo (Norte de Santander). Foto Luis Robaio / AFP.


Il reclutamento forzato

Storia di Isabel, guerrigliera per forza

Reclutata, arrestata, condannata, liberata e ancora reclutata. In questo cammino disperante, Isabel ha trovato l’aiuto della Chiesa. Eppure, oggi è scomparsa di nuovo, persa nel gorgo di un conflitto infinito.

Solano (Caquetá). Siamo in piena novena della festa patronale Nuestra Señora de la Mercedes (Nostra Signora della Misericordia), che ricorre il 24 di settembre. Lunedì 21 settembre arriva in canonica una donna (la chiamerò Isabel) con un bambino di quattro anni, mezz’ora prima dell’eucaristia delle 18,00. «Padre, provengo dal villaggio Yurilla che è lungo il fiume Mecaya – mi dice -. La prego, deve aiutarmi a mettermi in contatto con i militari della Forza aerea».

«Nella finca (fattoria) dove vivo, ci sono 24 ragazzini dai 12 ai 14 anni che le Farc-Ep stanno addestrando alla guerra. Quattro di loro sono gravemente feriti. Vi è stato un violento scontro con il gruppo Sinaloa (potente cartello di narcotrafficanti messicani, ndr) lungo il fiume Putumayo un po’ più in giù della nostra finca».

«Uno dei ragazzi mi ha chiesto di cercare un sacerdote e chiedergli aiuto. Sono qui a Solano perché ho dei seri problemi ginecologici e il medico, dopo la visita, mi ha indirizzata a Florencia per degli accertamenti più approfonditi, ma non posso andarci finché non avrò l’autorizzazione del comandante Danilo. Vivo qui nel Mecaya dall’inizio dell’anno con mia sorella. Lei è la moglie di un comandante delle Farc».

«Un giorno è venuto Danilo e mi ha imposto di essere parte del movimento. Avevo due possibilità: o m’inserivo come guerrigliera militare o collaboravo come guerrigliera “civile”. Vedendomi costretta, ho deciso per questa seconda scelta».

«Mi ha proposto di andare con lui in un loro centro per fare da cuoca a sessanta persone promettendomi che mi avrebbe dato 750mila pesos il mese (circa 170 euro, ndr), e la possibilità di poter uscire dalla finca ogni due mesi».

«Non ho ancora visto un soldo e sono quattro mesi che sono chiusa in quel posto».

«Prima di trasferirmi nel Mecaya sono stata quattordici anni in prigione. Ero stata condannata a trentacinque anni ma, per buona condotta e per i vari corsi a cui ho partecipato, mi hanno condonato gli anni rimanenti».

«Padre, io voglio salvare questi ragazzini: me
l’hanno chiesto e, come le ripeto, quattro sono feriti gravemente e hanno bisogno di cure immediate. Per favore mi metta in contatto con il colonnello della base aerea, e anche con il vescovo. Con lei e con loro, attorno a questo tavolo, posso indicare il luogo preciso dove si trova la finca di addestramento delle Farc. Devo parlare velocemente con la Forza aerea perché intervenga immediatamente, domani potrebbe essere troppo tardi! Nella Farc ho fatto parte dell’équipe di strategia militare, quindi sono in grado di dare le coordinate dove si trovano i ragazzi. Mi aiuti, padre».

«Isabel – le rispondo -, mi lasci pensare questa notte per vedere cosa fare, e domani ci sentiremo». Mi dà il suo numero di cellulare, anche se mi dice che è senza caricabatterie.

Contatto con il «personero»

Non dormo tutta notte con il pensiero di quei ragazzini. Devo e dobbiamo fare qualcosa. Ne parlo con il vescovo Joaquin che mi suggerisce di mettere Isabel in contatto con il «personero» (figura giudiziale dello stato presso la quale chiunque, anonimamente, può fare ricorso per eventuali denunce soprattutto quando sono violati i diritti umani, ndr).

Alle otto contatto la segretaria che mi dà il suo numero. Gli telefono subito e mi dice che sarà libero alle nove. Chiamo Isabel che viene nell’ufficio della parrocchia per continuare il dialogo.

La aggiorno dicendole che ho parlato con il vescovo e che la cosa migliore è metterla in contatto con il personero. Isabel insiste però che vuole parlare con un colonnello della Forza aerea per intervenire immediatamente.

Ha anche delle esigenze pratiche: «Padre, mi può prestare il caricabatterie. Inoltre, sono rimasta senza soldi. Mia sorella mi ha dato 50mila pesos (11 euro, ndr), ma li ho spesi per l’alloggio e la cena per me e il mio bambino. Questa mattina, quando sono uscita dalla casa dove abbiamo dormito, la signora che gestisce il posto aveva una colazione prenotata per una persona che poi non è arrivata. Quando ha visto che il bambino piangeva perché aveva fame, ce l’ha regalata».

Testa bassa e manette ai polsi

Isabel ripercorre gli anni della sua esistenza. «Quando avevo 8 anni, i miei genitori sono stati uccisi a San Vicente del Caguán. Allora il vescovo Luis Augusto Castro mi ha accolta alla Finca del niño (Fattoria del bambino) con mia sorella e mio fratello, e lì sono rimasta quattro anni».

«Terminate le scuole elementari nella Finca del niño, sono tornata a casa dalla nonna. Avevo soltanto 12 anni, ma su di me, allora non lo sapevo, erano puntati gli occhi della Farc che mi ha preso e mi ha introdotta nelle loro fila, per addestrarmi a combattere».

È un’esistenza difficile quella di Isabel. «Mi hanno fatto abortire molte volte, perché i bambini sono un “peso” e un pericolo per i guerriglieri. Noi viviamo nella foresta, ci nascondiamo, combattiamo. Ed è proprio a causa di questi aborti che ora ho questi seri problemi di salute. Ho avuto però un figlio da un compagno guerrigliero, il quale è morto in uno scontro a fuoco e in quel contesto l’esercito mi ha fatto prigioniera. Le dicevo, padre, che sono stata condannata a 35 anni, ma per buona condotta ne ho scontati soltanto 14».

Mi accorgo che Isabel si sta commuovendo mentre continua a raccontare: «Mi trovo in carcere. Ho la testa bassa e le manette ai polsi. So che si stanno svolgendo i colloqui per trovare un accordo di pace. Il vescovo Luis Castro visita i carcerati. Appena lo vedo lo riconosco. Lo vorrei abbracciare, come feci da bambina quando mi uccisero i genitori, ma non posso farlo perché sono custodita da due guardie e devo rimanere seduta. Allora lo saluto alzando le mani e le muovo come se fossero ali di una farfalla, perché, padre Angelo, facevo questo gesto quando il vescovo veniva a trovare me e tutti gli altri bambini alla Finca del niño. Il vescovo mi guarda, mi riconosce, mi chiama per nome. E io piango».

Durante i lunghi dialoghi per trovare un accordo di pace tra la Farc e lo stato colombiano, mons. Luis Castro è il rappresentante della Conferenza episcopale colombiana. Da quel momento tra Isabel e mons. Castro si ristabilisce il contatto e il vescovo la aiuterà per buona parte della sua lunga detenzione. Isabel è molto riconoscente di quel provvidenziale appoggio.

Contadini a Cáceres (Antioquia). Foto Thomas Cristofoletti.

Dubbi (tra fedeltà e tradimento)

Dopo aver ascoltato il suo drammatico racconto, le offro del denaro per comprare vestiti al bambino, per pagare la camera e il cibo. Si convince anche a chiamare il personero.

Chiamo la segretaria che si mette in contatto con lui. Così, finalmente, tutti e tre ci sediamo attorno al tavolo del suo ufficio.

Il personero, Carlo Mario, dice subito che lui è un tramite. Non può coinvolgersi direttamente vivendo in un territorio ad alto rischio. Può «aprire porte» e offrire contatti e propone autorità a livello nazionale come il procuratore. Tuttavia, Isabel insiste che ci deve essere un intervento immediato dell’esercito.

Carlo Mario allora fa un esempio chiarificatore: «Se tu – spiega – dai un pezzo di carne a un cane affamato, lui lo addenta e se lo divora immediatamente senza tenere in conto chi sta attorno e le eventuali conseguenze. In questo territorio, in questo momento, le forze dell’esercito cercano dei risultati. Se vi è un obiettivo preciso e chiaro, loro arrivano con un potente spiegamento di uomini, senza tener conto di chi si trova nel luogo: civili bambini, donne… Così possono andarci di mezzo le stesse persone che la guerriglia obbliga con la forza di stare dalla loro parte. Oppure può accadere che la stessa guerriglia le elimini per non lasciare testimoni».

Isabel mi chiede dei fogli e incomincia a disegnare la posizione della finca, dove si trovano i ragazzi e le postazioni della guerriglia attorno e nel resto del Putumayo e Caquetá.

Carlo Mario allora si mette in contatto con la base aerea di Tres Esquina e parla direttamente con il colonnello, che non può venire, ma invierà il vice che nel pomeriggio arriverà a Solano. Il luogo dell’incontro con l’intelligence della Forza aerea sarà nel salone della catechesi.

A questo punto Isabel mi prende la mano e me la stringe forte. Sente che, in qualche modo, sta tradendo il movimento guerrigliero dopo tanti anni di fedeltà e mi dice: «Lo faccio per i ragazzi che sono stati strappati alle loro famiglie e arruolati contro la loro volontà, per la durezza del comandante Danilo verso loro e verso me».

«Un giorno mi ha colpito violentemente con il calcio della pistola sul viso facendomi cadere per terra e per questo sono svenuta. Mio figlio di quattro anni si è messo in piedi, davanti al comandante, e con autorità l’ha minacciato e gli ha detto di smettere di picchiare la sua mamma».

Sicuramente il tempo trascorso fuori dalle file della guerriglia, quando era in carcere, i corsi di studio e il contatto con altre persone hanno fatto pensare Isabel.

È forte il desiderio di non collaborare più con il movimento guerrigliero. Non può scappare perché il figlio di sedici anni è sequestrato. L’ha dovuto lasciare nella fattoria come garanzia che sarebbe ritornata.

Le chiedo: perché, dopo il carcere, sei tornata in questo territorio? «La mia famiglia è qui, dove potevo andare? Sono uscita di prigione che non avevo assolutamente niente. Sono venuta da mia sorella che vive come guerrigliera civile in un paesino del fiume Mecaya con un guerrigliero che, ogni tanto, la viene a trovare».

Raccolta del frutto del cacao («cabossa»). Foto Elias Shariff Falla Mardini.

I colloqui, il ritorno, la scomparsa

In attesa dei militari andiamo a pranzo. Nel pomeriggio Isabel mi vuole mostrare quello che ha comprato per il figlio e mi ringrazia.

All’ora stabilita inizia l’incontro con i due militari della base aerea. A un certo punto, uno esce per confermarmi che il dialogo è iniziato, ma Isabel non ha voluto dare il suo numero di telefono. Mi domanda se posso fare da intermediario con il mio cellulare, e naturalmente accetto. La conversazione dura sino alle sei del pomeriggio.

Alla fine, i militari mi dicono che vi sarà un nuovo incontro però ancora non sanno quando.

Il giorno dopo, mercoledì, mi chiamano e mi dicono che ci troveremo quello stesso giorno o il successivo ma che, in ogni caso, devo attendere una conferma.

Nel pomeriggio Isabel viene in parrocchia mentre mi trovo in un incontro. Vado a parlarle. È preoccupata perché ancora non la chiamano, e insiste a chiedermi di vedere il vescovo. Tramite il mio cellulare la metto in contatto con i militari. Nel frattempo parlo con il vescovo, che la incontra poco dopo. Isabel gli chiede una benedizione e gli affida i suoi due figli se dovesse succederle qualcosa.

Ha piena fiducia nella Chiesa perché, nella sua vita, è stata aiutata con mons. Castro. Una storia che sembra ripetersi.

Giovedì mi richiamano i militari perché contatti la muchacha per continuare il dialogo. L’appuntamento è per le nove del mattino. Isabel non mi risponde. Nel frattempo arriva il vice colonnello. Isabel chiama. Arriva dopo qualche minuto. La conversazione si protrae sino alle cinque del pomeriggio. In seguito i militari mi chiamano e mi dicono che si è creata una certa fiducia e, quindi, continueranno il contatto.

Venerdì mattina presto Isabel mi chiama e mi avvisa che cercherà di viaggiare in giornata per rientrare alla finca dove ancora si trova il figlio più grande. È lui la ragione per la quale lei fa ritorno in foresta.

Durante il suo viaggio, Isabel mi invia vari messaggi Whatsapp. Dopo quel giorno, non ho più saputo nulla.

Angelo Casadei

Archivio MC

 Paolo Moiola, Colombia: Contro l’odio la scommessa del perdono, agosto 2018;
Paolo Moiola, La pace bussa due volte. Incontro con mons. Luis Augusto Castro, maggio 2017;
Paolo Moiola (a cura di), Colombia. Un paese alla ricerca della pace, dossier, novembre 2016.

Video su YouTube

● Mauricio A. Montoya Vásquez, 100 preguntas y respuestas Para comprender el conflicto colombiano, 2018;
Paolo Moiola, La paz llama dos veces. Incontro con mons. Luis Augusto Castro, 2017.

Deforestazione illegale nel parco La Macarena, dipartimento del Meta, settembre 2020. Foto Raul Arboleda / AFP.




Cile. Ora si chiama Plaza Dignidad


Indice

«Le strade si aggiustano. I morti non ritornano» dice il cartello di un manifestante (foto Camera Memories).

Le conseguenze della rivolta cilena

La dignità e il risveglio di un paese

Sottotraccia da tempo, la rivolta cilena è scoppiata nell’ottobre del 2019.  È costata molto, ma ha raggiunto un obiettivo impensabile: la formazione (ad aprile 2021) di un’assemblea che dovrà redigere una nuova Costituzione, sostitutiva di quella del 1980 voluta dal generale Augusto Pinochet.

Santiago del Cile, Metro Estación Central, 18 ottobre 2019. Il governo ha annunciato l’aumento di 30 pesos del biglietto della metro, meno di 4 centesimi di euro. Una ragazza salta il tornello ed entra senza pagare. La segue un altro, poi una ragazza. In breve, si diffonde l’evasione massiva in decine di stazioni della metro di Santiago: «Evadir es otra forma de luchar», «non pagare è un’altra forma di lottare», gridano i giovani.

È il primo smottamento, al quale il governo risponde con la repressione. La protesta aumenta e viene imposto il coprifuoco. La rabbia esplode e in poco tempo l’urlo indistinto si traduce in una voce chiara che domanda un radicale ripensamento del paese. Il 25 ottobre 2019 si riuniscono pacificamente nella piazza centrale di Santiago, Plaza Italia o Plaza Baquedano, ribattezzata «Plaza de la Dignidad», due milioni di persone nella marcia «más grande de Chile» per chiedere un nuovo patto sociale, per ridefinire le regole del gioco da cima a fondo. In questa giornata si saldano le proteste degli studenti, delle femministe, dei lavoratori della salute, dei movimenti indigenisti, ma soprattutto il malessere della gente comune.

«Chile despertó», gridano i manifestanti, il Cile si è risvegliato, cantano uomini e donne di tutte le generazioni, nelle piazze di tutto il paese, dai deserti del Nord fino alle città della Tierra del Fuego. Nelle piazze convivono manifestanti pacifici, gruppi musicali, performance teatrali, assemblee improvvisate e frange più violente. Il paese arde: bruciano edifici di banche, fondi pensione, supermercati, infrastrutture pubbliche e anche qualche chiesa (il clero cileno è scosso da scandali di abusi sessuali, sui quali sta cercando di far luce papa Francesco, e di cui parliamo nell’ultima parte di questo dossier). Il governo di centro destra, guidato dal magnate Sebastian Piñera, sembra sul punto di crollare quando cede a una richiesta che fino a poco fa sembrava irrealizzabile. Il 15 novembre 2019 «l’Accordo per la pace e la nuova Costituzione», sottoscritto trasversalmente dai partiti, disegna uno scenario inedito: l’apertura di un processo costituente che porterà a superare la Costituzione del 1980, imposta dalla dittatura militare e architrave del modello neoliberista che ha dato forma al Cile odierno.

Comincia così il percorso costituente che il paese da oltre un anno sta sperimentando. «La protesta di ottobre 2019 nasce da un movimento ampio, senza leader né richieste precise. Va inquadrata nella dinamica dei grandi movimenti globali, dagli Usa a Hong Kong. Ci sono importanti aspettative verso la nuova Costituzione, ma è bene chiarire che molte richieste di cambiamento non riguardano la Carta, ma politiche pubbliche e cambi culturali: «Penso alle pensioni basse», spiega a Missioni Consolata Josè Antonio Viera-Gallo, primo presidente della Camera del Cile della transizione democratica, tra il 1990 e il 1993. Fa poi un parallelo con l’Italia, paese dove – insieme a migliaia di connazionali – trovò rifugio dalla dittatura di Pinochet. «Il momento costituente cileno è privo dell’epica della Costituente italiana, della volontà di ricostruire il paese distrutto dalla guerra e dal fascismo. E privo dei grandi leader della Costituente spagnola che, pur di superare la dittatura accettarono la monarchia, la stessa che combatterono nella guerra civile. Per questo credo si debba puntare sull’essenziale: un ruolo più ampio dello stato in economia; ridurre i quorum ipermaggioritari; decentralizzare lo stato; riconoscere i popoli originari, un dramma del Cile odierno; allargare i diritti sociali e politici. Fare queste cose sarebbe già tanto, cambierebbe il paese. Tuttavia, il processo ha una sua originalità: l’assemblea che dovrebbe redigere la nuova Costituzione avrà perfetta parità di genere, un unicum al mondo. Questo è il risultato di un voto trasversale in parlamento che mi fa pensare che alcuni risultati per l’uguaglianza di genere siano ormai irreversibili», conclude il politico cileno.

La pandemia di Coronavirus rallenta il processo costituente, ma senza interromperlo. Inizialmente previsto per aprile, il referendum viene celebrato il 25 ottobre 2020. E i risultati sono incontrovertibili: i «Sì» per la nuova Costituzione raggiungono il 78,25%. Il secondo quesito, «Quale organo dovrà redigere la nuova Costituzione?», vede prevalere con il 79% l’opzione di un’assemblea interamente eletta dai cittadini. L’affluenza è stata la più alta dal ritorno alla democrazia, ma comunque inferiore al 50%. Adesso la sfida è trasformare la forza del risultato elettorale in un nuovo patto sociale, passare dal «voto destituente al patto costituente», ha scritto il politologo Juan Pablo Luna.

Il magnate Sebástian Piñera, nel 2018 eletto presidente del Cile per la seconda volta. La sua mascherina ricorda che il Covid-19 ha colpito duro anche qui (foto Claudio Reyes / AFP).

Un occhio della testa

Plaza de la Dignidad è l’epicentro del processo costituente cileno. Lì, nei mesi della protesta, si ritrovano mamme con i passeggini, coppie di innamorati, anziani che ricordano i tempi di Pinochet. E, quasi a ogni corteo, volano pietre, si costruiscono barricate, si respira aspro l’odore dei lacrimogeni, crepita il fuoco. C’è certamente una componente di violenti organizzati tra i manifestanti. La rabbia però trabocca oltre questa organizzazione e coinvolge anche i manifestanti a volto scoperto, le persone comuni che assistono agli abusi della polizia. Agli occhi di un europeo abituato alle categorie di buoni e cattivi, al Pasolini di Valle Giulia che difende i poliziotti contro gli studenti borghesi, quel che succede in Cile non è comprensibile. Per due motivi: primo, qui i manifestanti non sono studenti borghesi, ma i rappresentanti di un malcontento condiviso dalla maggioranza della popolazione; secondo, qui la polizia ha una lunga e consolidata tradizione di abusi di potere al proprio attivo, come testimonia il report della missione Onu sulla violenza durante la protesta. Un libro dell’orrore che ripercorre, col linguaggio formale del resoconto, l’insieme di violenze, abusi, torture, morti sospette. La specialità della polizia cilena è generare danni permanenti alla vista, con l’uso di proiettili di gomma. Analisi ex post sui bossoli mostrano la presenza di piombo dentro le cartucce. Così, 472 persone sono ferite agli occhi dall’inizio delle proteste. Tra queste c’è Gustavo Gatica, uno studente di psicologia di 21 anni. Il pomeriggio dell’8 novembre 2019 passeggia per Plaza de la Dignidad insieme al fratello e scatta delle fotografie con la sua nuova macchina Sony. Viene colpito dagli spari dei carabineros a entrambi gli occhi. Resterà cieco per sempre. «In Cile, la dignità vale un occhio della testa», recita una scritta di vernice in Plaza Dignidad.

Lo stato di diritto europeo qui non esiste. Pertanto, non si possono applicare le stesse categorie interpretative per capire ciò che avviene. Pasolini ci viene in aiuto quando dice che «chi viene odiato inizia a odiare»: questa è una buona chiave per intendere il clima d’odio che attraversa il paese. Un odio tra manifestanti, polizia, classi sociali.

La violenta repressione delle forze dell’ordine si accompagna con le azioni di resistenza della primera línea, l’avanguardia delle manifestazioni, composta da giovanissimi che costruiscono barricate, affrontano le forze dell’ordine con pietre, fionde e si difendono con caschi e scudi di plastica. Molti di loro provengono da uno dei più grandi fallimenti delle politiche pubbliche cilene, il Sename, «Sistema nazionale dei minori», che dovrebbe prendersi cura dei minori soli, ma che, invece, è un inferno in terra: violenze sessuali, adozioni illegali, vendita di organi. Chi entra al Sename è condannato a una vita di marginalità, dalla quale è quasi impossibile venir fuori. Una parte di questi ragazzi ha trovato nella primera línea un luogo di rappresentanza, scrive la giornalista Carolina Rojas. «Ragazzini cresciuti nella violenza si esprimono con il linguaggio della violenza, impossibile chiedere loro un elenco delle riforme urgenti per il paese», afferma la politologa Javiera Arce. La grande maggioranza dei manifestanti è assolutamente pacifica, ma tra alcuni di loro prevale un sentimento di tolleranza della violenza della primera línea. «Ci proteggono dai carabineros, permettono a tutti di manifestare pacificamente», racconta Marcia, manifestante in Plaza de la Dignidad.

Kissinger e Pinochet nel 1973

Frustrazione e consapevolezza

La domanda è: perché nel paese più florido e pacifico dell’America Latina, che si vantava di essere il più europeo, è bastato l’aumento di pochi spiccioli del biglietto della metropolitana per far detonare un processo di radicale ripensamento sfociato nell’avvio di una nuova fase costituente? Per lungo tempo considerato un caso di successo tra i paesi latinoamericani, il Cile ha sconfitto la povertà assoluta, ma ha fallito nella redistribuzione della ricchezza. Oggi fa parte del club dei paesi ricchi Ocse e ha un reddito pro capite di circa 24mila $, la soglia attorno alla quale un paese si considera di reddito medio, ma le diseguaglianze sono profonde: il 75% dei lavoratori guadagna meno di 700 $ al mese e la pensione media è di 300 $. Come mostrano i dati Cepal (Comisión económica para América Latina), un quarto del totale della ricchezza è nelle mani dell’1% della popolazione, mentre il 10% concentra il 66% della torta. All’estremo opposto, la metà delle famiglie più povere detiene il 2% della ricchezza.

Per tutti gli anni Novanta, il Cile ha davvero sognato di toccare il cielo con un dito. Il sogno si materializzava in consumi di massa: televisori, case, auto, assicurazioni sanitarie, università per i figli e vacanze, grazie a un sistema di credito al consumo che ha permesso anche alle classi più umili di consumare al di sopra delle proprie possibilità. Così è nata la bolla dell’iper-indebitamento nella quale la famiglia media cilena ha un debito di circa il 75% del proprio reddito. Con il rallentamento della crescita mondiale, il peso del debito è aumentato e si è persa l’idea di un futuro migliore. «I cileni ricchi vivono come i ricchi in Germania, i poveri come in Mongolia», nota Branko Milanovic, ex capo economista della Banca mondiale.

La disuguaglianza tra ricchi e poveri si riconosce anche dal diverso sguardo sul futuro. Le élite cilene hanno sempre a disposizione opportunità personali o di corporazione, mentre i ceti popolari senza aspirazioni collettive e gravati dal peso del debito individuale sono spinti verso l’impoverimento. L’uguaglianza materiale è una delle basi su cui poggia la domanda popolare per una nuova Costituzione.

«Ci trattano come consumatori, non come cittadini», ci spiega Claudia Heiss, direttrice del corso di Scienza politica della Universidad de Chile. La frustrazione è forte soprattutto nei giovani professionisti, cresciuti con la democrazia, che non hanno conosciuto la povertà né la dittatura, e hanno creduto alla promessa della meritocrazia: «Sei padrone del tuo destino, dipende tutto da te». Sono «l’eroe sconfitto del paese. Lavorano in ambiti diversi da quelli per cui hanno studiato, si sono rassegnati a un futuro più piccolo di quello che avevano sognato», li descrive il sociologo Manuel Canales.

«I giovani professionisti frustrati sono la coscienza sociale del movimento popolare del 2019», continua Canales, che ha promosso dei laboratori di ricerca su questo segmento di popolazione. Hanno studiato, affogano nei debiti per pagarsi la laurea, ma è grazie all’educazione se parlano il linguaggio della scienza e della legge, grazie all’educazione hanno preso coscienza dell’ingiustizia di una società dove le relazioni contano più di titoli di studio e sacrifici. Con la protesta del 2019 hanno compreso che il loro malessere non è un fallimento individuale, ma un fatto collettivo. La protesta li ha liberati dal senso di colpa, da debitori sono diventati creditori, chiedono indietro le promesse tradite. «Abbiamo aperto gli occhi», «Ci siamo tolti la benda», spiegano al gruppo di ricerca di Canales. La teoria neoliberista, di cui sono impregnate la Costituzione vigente e la società, non è stata sostituita da un’ideologia diversa. Ma qualcosa è cambiato, si è liberata un’energia, una forza di cooperazione, come nel caso delle ollas comunes, i pasti organizzati dai vicini durante la quarantena. «C’è rabbia e c’è speranza in questi giovani professionisti», conclude la ricerca di Canales.

Vista dall’alto della Plaza Italia-Plaza Baquedano a Santiago, ribattezzata Plaza de la Dignidad all’inizio della protesta cilena, nell’ottobre del 2019 (foto Christian Van Der Henst S.).

Provare a inventare un paese

Di cosa è fatta l’energia sprigionata dalla frustrazione dei cileni? Si è posta la stessa domanda Clelia Bartoli, filosofa del diritto presso l’Università di Palermo, che ha raccolto in un libro, «Aquí se funda un país», i suoi studi sul paese. La ricercatrice siciliana ha visitato il Cile durante la rivolta e ha potuto fare esperienza di quella felicità pubblica di cui parlava Hannah Arendt, che nasce dalla scoperta collettiva che ciò che esiste può essere messo in discussione, tentando una riconfigurazione della comunità tramite la comunità stessa. La differenza, spiega Bartoli, è che la felicità privata si gusta solo quando l’oggetto del desiderio è stato conquistato, mentre la felicità pubblica è un processo. L’improvviso moltiplicarsi di iniziative di mobilitazione, resistenza e dibattito in Cile si può spiegare con il fatto che le persone abbiano assaporato l’inatteso piacere dell’agorà. Lo sforzo di trasformare il mondo in un posto migliore è gratificante già in corso d’opera, durante la lotta per raggiungerlo.

«Così, la percezione improvvisa (o l’illusione) che posso agire per cambiare la società in meglio, e che inoltre posso unirmi ad altri con lo stesso obiettivo è, in tali circostanze, piacevole in sé. Per assaporare questo piacere non è necessario che la società venga effettivamente trasformata nel breve periodo: è sufficiente agire come se il cambiamento fosse possibile», ragiona l’autrice. Lo slogan «Chile despertó» è una maniera per descrivere questo insight collettivo: l’eccitante scoperta che la realtà non è un copione già scritto dalle autorità, ma qualcosa di cui si può divenire artefici insieme ad altri.

Il titolo del libro della professoressa Bartoli – Qui si fonda un paese – riprende quello di un’esperienza di teatro di cittadinanza ideata da un gruppo di giovani attori cileni. La performance, che dura un giorno intero, invita gli spettatori a inventare insieme la bandiera, l’inno, le regole, i principi, i diritti e i servizi di uno stato immaginario. «Quando ho chiesto a quei ragazzi e a quelle ragazze come era venuta loro in mente questa idea, mi hanno risposto: “Reimmaginare insieme il paese che vorremmo abitare è esattamente quello che stiamo provando a fare adesso qui in Cile”», racconta Bartoli.

Il generale Pinochet con il presidente Allende (foto Archivo General Histórico del Chile).

Un processo costituente sui generis

Il processo cileno è interessante anche perché mostra le contraddizioni e le relazioni tra poteri costituiti e il potere costituente. I poteri costituiti sono, nel caso cileno, tutto ciò che era riconosciuto come legittima autorità fino allo scoppio della rivolta del 2019: il governo, i carabineros, il parlamento, la Costituzione del 1980. Il potere costituente è invece Plaza de la Dignidad, una potenza distruttrice del vecchio assetto e creatrice di quello venturo. Esso è, per definizione, indisciplinato ed extralegale. «Nei cambi di sistema, chi si impadronisce del potere costituente stralcia le vecchie norme e permane in una dimensione priva di legge, finché una nuova Costituzione non verrà emanata e, con essa, il nuovo ordine», prosegue Bartoli. Il problema è ciò che avviene nella transizione tra il vecchio e il nuovo ordine. Si pensi al passaggio tra il regime fascista e la Repubblica italiana, nella transizione tra il vecchio potere e la costituente, la resistenza diede vita ad atti extralegali (ad esempio, Mussolini appeso per i piedi a piazzale Loreto), finché, tramite la Costituzione repubblicana, furono reinventate le regole, i principi della comunità e nacque una nuova legittimazione. «ll momento di transizione da un ordinamento a un altro, è il vero scoglio per i filosofi del diritto poiché avviene uno spiazzante sovvertimento del rapporto tra fatti e norme. In tempi di ordinaria amministrazione, la legge giudica i fatti e decreta se questi siano legittimi o meno. In tempi di profonda crisi politica, il rapporto tra regole e realtà si inverte. Sono i fatti che imperiosamente dettano legge alla legge, che determinano l’abrogazione e la sostituzione dei poteri fino ad allora vigenti», spiega Bartoli.

Tornando al Cile, il caso è un unicum poiché il parlamento e il governo – i soggetti titolari dei poteri costituiti – hanno ceduto alla possibilità che si avvii una nuova fase costituente, ma hanno trovato la maniera di indirizzare il potere costituente, mantenendo il controllo della situazione, attraverso l’«Accordo per la pace e la nuova Costituzione» firmato a novembre 2019. È piuttosto scontato che i custodi dello status quo provino a non lasciarsi scalzare, mentre gli insorti tentino di riscrivere le regole del gioco senza i vincoli imposti da chi ha governato fino a ora. «La stranezza del caso cileno consiste quindi nel fatto che i poteri costituiti – che la rivolta popolare addita come illegittimi – siano riusciti a dare norme al potere costituente, ammansendolo e disciplinandolo. Evitando che vi sia quell’intervallo extralegale che solitamente si frappone tra il vecchio e il nuovo corso», conclude la ricercatrice palermitana.

Un addetto mostra la scheda con la prima domanda del referendum tenutosi il 25 ottobre 2020: «Vuole lei una nuova Costituzione?» (foto Felipe Vargas Figueroa / NurPhoto / AFP).

Verso l’Assemblea costituente

Monumento al presidente Salvador Allende, a Santiago (foto Paolo Moiola).

L’11 aprile 2021 si terranno le elezioni dei 155 membri della Convenzione costituzionale (Cc), la prima Assemblea costituente con perfetta parità di genere al mondo. Vi saranno anche seggi garantiti per i dieci popoli originari (il 10,8% dei 18 milioni di cileni), tra questi gli Aymara dei deserti del Nord, i Rapanui dell’isola omonima, e il più grande: il popolo Mapuche. Vi è un grande dibattito sulla possibilità di eleggere membri indipendenti dai partiti tradizionali nella Cc, poiché, come spiega lo storico cileno di origini liguri Sergio Grez Toso, «la legge che regola le elezioni per la Costituente è la stessa per il parlamento, favorisce dunque i partiti tradizionali, i quali non devono raccogliere firme per presentare le liste». Ma «il problema non è escludere i politici di professione a favore degli indipendenti, né escludere le élite di Santiago, o che un settore politico schiacci un altro. Il dilemma è come rappresentare proporzionalmente la diversità del paese, dato il clima di diffidenza, le regole e l’iniqua distribuzione di risorse economiche e reti relazionali», afferma il politologo Juan Pablo Luna.

Una volta eletta, la convenzione costituente lavorerà da maggio 2021 a maggio 2022 per redigere la proposta di nuova Costituzione, il testo dovrà essere approvato con 2/3 dell’assemblea – clausola imposta dai partiti di destra per consentire l’avvio del processo costituente – e sarà poi sottoposto a voto referendario di ratifica nell’agosto 2022. Se la proposta dovesse essere respinta, resterà in vigore la Costituzione del 1980.

Il processo costituente è complesso, ma tutto sommato lineare. L’esito non scontato, la domanda di fondo è se si raggiungeranno i 2/3 della Cc per approvare un testo minimo che metta d’accordo tutti sull’essenziale, rischiando così però di deludere le aspettative popolari. O se invece, si possa osare di più, accordarsi su un testo costituzionale più ricco che risponda alle pressanti esigenze di cambiamento che sono venute dal movimento del 2019.

Federico Nastasi

La «wenüfoye», la bandiera dei Mapuche (Foto Diego Marin).


Il popolo dei Mapuche

Combattuti e discriminati (ma mai sconfitti)

Incas e conquistatori spagnoli non riuscirono a sottometterli. Dopo l’indipendenza dalla Spagna, furono traditi. La dittatura di Pinochet non riconobbe mai i loro diritti e li escluse dalla Costituzione. Oggi la scrittura di una nuova carta fondamentale potrebbe dare ai Mapuche un po’ di giustizia.

Tra le mille bandiere che sventolano a Plaza Dignidad, spiccano gli stendardi mapuche: l’unico popolo indigeno che è riuscito a tener testa ai conquistadores, sebbene a carissimo prezzo, e tuttora vittima di plurime discriminazioni. Nella wenüfoye, la bandiera mapuche, è riassunta la cosmogonia di quel popolo: le tre fasce orizzontali rappresentano le diverse dimensioni dell’esistenza (la blu si riferisce a quella celeste, la verde a quella terrestre, la rossa alla dimensione interiore, della natura e dell’uomo); al centro, c’è il tamburo sacro, le cui decorazioni alludono ai punti cardinali e al ciclo delle stagioni.

Cosa simboleggia la wenüfoye per gli insorti cileni? Per intendere il Cile e il momento costituente in atto, è indispensabile comprendere cosa rappresenta il popolo mapuche nella cultura cilena.

Torres del Paine, tra cielo e terra (foto Paolo Moiola).

Due visioni del mondo opposte

La questione mapuche risale ai tempi della colonizzazione, un conflitto secolare basato su due visioni del mondo inconciliabili: quella europea legata all’idea di progresso, a una concezione del tempo lineare e fondata sulla proprietà privata; e quella mapuche che pensa il tempo in maniera circolare e non conosce l’idea di progredire. I Mapuche vivono in comunità, vedono come un abominio la proprietà privata della terra. Il mapu è la terra, vi sono terre sacre ed è lì che vivono gli antenati. È, dunque, inconcepibile che qualcuno recinti i boschi, mettendoci un cartello «proprietà privata» e separando i Mapuche dai loro predecessori e dalle terre ancestrali del Wallmapu, la terra mapuche.

I Mapuche resistettero prima agli Incas, poi ai conquistatori spagnoli, i quali, non potendoli sconfiggere, nel 1641 firmarono con essi un trattato di pace. Come fece a resistere una popolazione nomade e apparentemente meno potente di altri regni indigeni, i quali invece furono travolti dagli invasori? La forza dei Mapuche sembra stia proprio nell’assenza di un’organizzazione politica centralizzata. Tradizionalmente, questa popolazione si aggregava in nuclei piccoli, sparpagliati e mobili, con una leadership fluida, a metà tra la sfera politica e spirituale. Ciò li avrebbe resi più sfuggenti alla capacità del conquistatore di sconfiggerli, sottometterli o corromperli.

All’inizio del XIX secolo, le diverse comunità indigene ebbero un ruolo determinante nel conseguimento dell’indipendenza cilena dal dominio spagnolo. Ma una volta che la nuova nazione fu costituita, ne furono traditi. Le terre nelle quali i Mapuche e gli altri popoli originari vivevano di agricoltura e allevamento, furono un po’ alla volta vendute «legalmente» o addirittura donate dalla classe dirigente cilena a magnati locali e stranieri e a multinazionali in cambio di appoggio e favori. Da metà Ottocento, i Mapuche si trovarono a combattere contro le truppe del nuovo Cile indipendente. E contro i coloni, migranti europei ai quali era stato promesso un sogno di prosperità, un pezzo di terra e che invece si ritrovarono in mezzo a un conflitto che non conoscevano. Il governo socialista di Allende (1970-1973) avviò una riforma per l’esproprio dei latifondi e la loro statalizzazione o redistribuzione ai contadini e ai popoli originari. La dittatura, sostenuta dai grandi proprietari fondiari, non solo interruppe questo processo, ma varò una controriforma agraria attraverso cui le terre confiscate vennero restituite ai vecchi detentori. E i Mapuche, in gran numero contadini e comunisti, furono tra i primi obiettivi della repressione seguita al golpe.

Le ferite procurate da secoli di conflitti sono profonde: sottomissione, razzismo, conversioni forzate, culture cancellate.

Lo scontro tra stato e movimenti indigenisti è ancora vicenda di cronaca. Uno dei casi che ha destato maggiore indignazione nell’opinione pubblica cilena è stato quello dell’uccisione di Camilo Catrillanca per mano del comando Jungla, una squadra speciale di carabineros, addestrata tra Colombia e Stati Uniti per svolgere operazioni preventive nelle regioni del Bio Bio e dell’Araucania, dove è più presente la popolazione mapuche. Il giovane contadino mapuche è stato freddato mentre lavorava il suo campo, esattamente un anno prima dello scoppio della protesta di Plaza de la Dignidad.

La mapuche Juanita Millal con in mano un «kultrun» (strumento tradizionale indigeno); la Millal è una candidata mapuche della «Lista del pueblo» che si presenterà alla competizione elettorale per la formazione dell’Assemblea costituente (foto Claudio Reyes / AFP).

Il «colonialismo giuridico» dello stato cileno

Oggi, nel processo costituente in atto, i Mapuche vedono un’opportunità. Il «colonialismo giuridico» si manifesta anche nella grande omissione della Costituzione, l’unica in America Latina a non menzionare i popoli indigeni. In tal modo non sono tutelate le lingue e le culture, né tantomeno riconosciuti – anche solo parzialmente – gli istituti, le norme e le consuetudini che caratterizzano la vita dei nativi del subcontinente americano fin dall’epoca precolombiana. Ecco perché una delle richieste più condivise della mobilitazione attuale è per una nuova Costituzione «plurinazionale».

«Partecipiamo al processo, vogliamo una nuova Costituzione che riconosca le varie nazionalità presenti in Cile, come è successo in Brasile e Bolivia di recente», spiega Jessica Cayupi, avvocata e portavoce della Rete delle donne mapuche. E continua: «Chiediamo diritti collettivi come popolo: libertà di insegnamento della nostra lingua, di cultura, autodeterminazione. E terre. Non vogliamo essere indipendenti, è un risarcimento per tutto ciò che ci è stato tolto in passato. La nuova Costituzione, scritta con la partecipazione diretta dei popoli originari, è il primo passo».

Una cultura di libertà e dignità

«I Maya e gli Aztechi hanno lasciato templi e piramidi, gli Incas il Cuzco. Perché dovremmo essere orgogliosi della cultura mapuche? – si chiede il filosofo Gastón Soublette -. Sono gli unici che non si sono arresi agli spagnoli. A questa resistenza è dedicato “La Araucana”, poema epico in lingua spagnola della fine del XVI secolo. Ma cosa hanno difeso per tre secoli? La loro cultura materiale era povera, la ceramica banale. L’opera magna dei Mapuche è immateriale: è una cultura di libertà e di dignità umana. I Mapuche sono come il popolo di Israele: non ha lasciato tracce materiali rilevanti, ma ha dato il monoteismo al mondo». Forse anche per questo la wenüfoye è diventata uno dei simboli della grande protesta sociale di fine 2019.

Isola di Chiloé, colori e palafitte. (foto Rodrigo Rioseco-Pixabay).

Visione europea e cosmovisione mapuche

In mapudungún (letteralmente, parlare della terra), la lingua dei Mapuche, esistono quattordici verbi per descrivere modi e gradi del risvegliarsi. Questa attenzione meticolosa al passaggio tra sonno e veglia è legata alla cosmovisione di questo popolo. Nella cosmologia mapuche, l’uomo – Wenchu, da wen (cielo) e chu (contrarre; cfr. Diccionario Mapuche), traducibile come «l’uomo è un cielo contratto in un corpo» – cascò dal cielo perdendo i sensi nell’impatto sulla terra. Allora la donna – Dhomo, cioè «lei per la quale siamo di più», poiché dà luce, ma anche perché eleva, risveglia l’uomo – scese dal cielo a risvegliarlo, ma dimenticò di svegliare il cuore. Da allora la missione dell’essere umano è fare in modo che la propria anima torni a essere pienamente vigile e cosciente.

La cultura mapuche, la lingua in particolare, è stata per lungo tempo un elemento di discriminazione. Jessica Cayupi è una warriachi, una Mapuche nata in città. «Sono nata a Santiago in una famiglia mapuche. I miei non mi hanno insegnato il mapudungun, perché non volevano trasmettermi lo stigma di essere indigena. Ho vissuto il razzismo e sono cresciuta con il mito della discendenza europea. Un cognome spagnolo è più prestigioso di uno mapuche. Ma ci si dimentica che gli spagnoli qui arrivavano spesso come uomini soli. Non si sono riprodotti tra loro, hanno trovato le donne indigene, molte sono state violentate. E i battesimi forzati hanno cancellato i nostri nomi. Ci hanno imposto lo spagnolo e la loro religione, cancellando la nostra lingua e la nostra cosmovisione. La nostra cultura è per certi versi superiore a quella europea, che mette l’uomo al centro del mondo. Per noi si deve vivere in armonia con tutte le forme di vita, umane e non. Tutto ha uno spirito. Da bambina litigavo con i miei coetanei quando spezzavano il ramo di un albero per gioco. Per me è un abominio. È superiore alla nostra, la cultura dell’accumulazione e dell’individualismo che ha prodotto il disastro ambientale in atto?», si chiede Cayupi.

Violenza e camion

Nella divisione amministrativa odierna, la Wallmapu corrisponde all’Araucania, la regione più povera del paese dove industrie estrattive, spesso straniere, hanno un comportamento predatorio, distribuiscono poca ricchezza e lasciano siccità e inquinamento. In Wallmapu si respira un clima di violenza latente: zone militarizzate, fondi agricoli protetti dai carabinieri, camion bruciati, blocchi stradali. Ogni tanto la violenza esplode e qualcuno muore. È successo a una coppia di anziani proprietari terrieri, discendenti di europei, bruciati vivi in casa. Ed è successo a diversi Mapuche, colpiti alle spalle dalle pallottole dai carabinieri, i quali hanno poi messo in piedi goffi tentativi di depistaggio.

Ad agosto 2020, numerosi tir hanno bloccato importanti snodi stradali del paese, richiamando alla memoria quanto avvenne nell’ottobre del 1972 (paro de los camioneros), quando quarantamila autisti incrociarono le braccia per quasi un mese. Allora si trattò di un piano per destabilizzare il governo Allende, promosso dal padronato economico e industriale, supportato dagli Stati Uniti di Richard Nixon e Henry Kissinger (come confermano gli archivi Usa desecretati a fine 2020) e realizzato d’intesa con gli apparati militari che, infatti, non intervennero a bloccare la protesta.

La manifestazione degli autotrasportatori del 2020, come quella del 1972, è uno sciopero padronale in quanto promosso dai proprietari dei camion più che dai camioneros stessi. I tir che trasportano i prodotti di quelle aziende sono stati sovente il bersaglio degli attacchi di membri di gruppi radicali mapuche. Le organizzazioni di categoria hanno promosso l’agitazione reclamando e ottenendo maggiori interventi e investimenti per incrementare la sicurezza nelle rotte verso il Sud del paese, nonché drastiche misure repressive nei confronti dei riottosi.

Passata la tormenta dei giorni di protesta di agosto, è tornato il quotidiano: nei disegni dei bambini dell’Araucania, insieme al prato alla casa e al cielo, ci sono gli elicotteri e le camionette dei militari. I figli degli opposti fronti crescono dentro un contesto di violenza. Per fare la pace, conclude Jessica Cayupi, «serve giustizia innanzitutto. Il processo costituente è il primo passo, non l’ultimo. La nostra lotta durerà ancora».

Federico Nastasi

La particolare facciata della chiesa di Castro, capoluogo dell’isola di Chiloé (foto Paolo Moiola).

La Chiesa cattolica cilena durante la dittatura

Solidarietà (ma anche connivenza)

La Chiesa cattolica cilena ha conosciuto luci ed ombre. Le prime sono legate alle azioni meritorie della Vicaría de la solidaridad, le seconde ad alcuni scandali per i quali papa Francesco ha chiesto perdono.

Durante la lunga notte della dittatura militare di Pinochet (1973-1990), la chiesa cilena ha vissuto due esperienze completamente diverse, opposte tra loro.

Ha visto nascere la Vicaría de la solidaridad, un centro di aiuto giuridico, di coordinamento dei familiari delle vittime della dittatura, dove la fede si intrecciava con l’azione sociale, spesso con veri e propri atti di eroismo. Contemporaneamente, un’altra parte della chiesa è stata refugium peccatorum dei sostenitori della dittatura, offrendo un porto sicuro a quella parte di società cilena conservatrice che la notte del golpe militare aveva brindato con champagne per celebrare la fine del governo di Unidad Popolar del presidente Allende.

Due sono le figure che rappresentano questa dualità: Fernando Karadima e Raúl Silva Henríquez.

Il Rasputin di Santiago

Fernando Karadima Fariña, sacerdote dal 1958, era il parroco della chiesa El Bosque, nella provincia di Santiago, punto di riferimento delle élite cilene. La sua figura è un enigma nella storia del paese: un uomo «volgare e illetterato» che è giunto a «dominare il settore conservatore della società cilena», diventando il responsabile di molti giovani rampolli di quel mondo. Molti di essi sono poi diventati vittime dei suoi abusi sessuali per anni.

La parrocchia El Bosque era l’opposto della chiesa post conciliare di Medellin e Puebla, ovvero di quella chiesa latinoamericana che univa la fede alla prassi assumendo un ruolo sociale. Il «Rasputin di Santiago» non si preoccupava delle ingiustizie sociali e infantilizzava i fedeli pretendendo sottomissione, minacciando continuamente l’inferno e disprezzando le donne, per le quali era previsto un ruolo di obbedienza e subalternità. L’accesso al paradiso era garantito solo dalla fede cieca ne «El Rey» o «El Santito», come si faceva chiamare Karadima. Assistevano alle sue messe consiglieri di Pinochet, ricchi impresari, ex terroristi di estrema destra, e soprattutto un gruppo di adolescenti fragili, spesso cresciuti senza padre. Quest’ultimo elemento era una delle chiavi che Karadima utilizzava per annichilire quei ragazzi e ottenerne favori sessuali, sfruttando il suo ruolo di padre spirituale e i segreti della confessione. Le vittime avrebbero in seguito dichiarato di essersi sentite colpevoli di aver svegliato in lui il desiderio sessuale, a riprova della pervasività del controllo psicologico del loro carnefice.

Il prete svolgeva poi un ruolo fondamentale: induceva – con ogni mezzo – «la vocazione» al sacerdozio nei giovani. El Bosque era un’oasi nel deserto delle vocazioni che la chiesa cilena stava attraversando. Karadima era il direttore spirituale di giovani brillanti che venivano da famiglie di destra, i quali poi scalavano facilmente le gerarchie. Si stima abbia indirizzato una cinquantina di giovani al sacerdozio e che, grazie a loro, abbia costruito una ragnatela di potere nella nomenklatura ecclesiastica cilena, «una rete di protezione attorno ai suoi abusi, l’alibi della sua perversione», dice Luis Lira (in J.A. Guzmán, G. Villarrubia, M. González, Los secretos del imperio Karadima, 2011). Grazie a questa rete, alla conoscenza degli indicibili segreti di molti prelati e alla sua consuetudine con il potere, Karadima è entrato in relazione con Angelo Sodano, nunzio apostolico in Cile tra il 1977 e il 1988, l’epoca feroce della dittatura militare. Sodano lo avrebbe promosso negli ambienti romani, cercando i suoi consigli nelle nomine dei vescovi. Il punto di contatto tra Karadima e Sodano sarebbe stato Rodrigo Serrano Bombal, funzionario della Dina, la polizia segreta di Pinochet, secondo quanto ha raccontato il medico James Hamilton, una delle vittime del prete, che ha aggiunto: «Karadima era ultra pinochettista».

Sodano era assai vicino alla dittatura di Pinochet. È stato lui a coordinare, nel 1987, la visita di Giovanni Paolo II in Cile. Soltanto nel dicembre 2019, il prelato è stato allontanato da incarichi di responsabilità da papa Francesco, per la copertura che aveva fornito all’ex padre messicano Maciel Marcial, fondatore dei Legionari di Cristo, pedofilo e abusatore seriale.

La ragnatela di Karadima è stata squarciata da una donna: Veronica Miranda. È stata lei, la sposa di James Hamilton, che ha cominciato a rifiutarsi di obbedire agli ordini del sacerdote, il quale l’aveva accusata davanti al marito di essere posseduta dal demonio. È stata lei che prima è riuscita a far parlare il marito in casa, poi ha sporto pubblica denuncia. Quando il matrimonio tra i due si è rotto, i coniugi sono stati inizialmente isolati dal loro circuito sociale e accusati di mentire. Ma ormai il guscio era rotto. Insieme ad Hamilton, molti altri uomini hanno denunciato Karadima per gli abusi subiti. La verità è venuta a galla, nonostante numerosi tentativi di insabbiamento del clero cileno: Karadima (condannato nel 2011 dal tribunale ecclesiastico e nel 2018 ridotto allo stato laicale da Francesco) è stato il punto più evidente di una rete di perversione presente dentro la chiesa cilena.

Vista parziale della torre campanaria di una chiesa in legno dell’isola di Chiloé. Costruite dai gesuiti, 16 di esse, nel 2000, sono state dichiarate dall’Unesco patrimonio dell’umanità (foto Paolo Moiola).

Il viaggio di Francesco

Nel suo (difficile) viaggio nel paese (15-18 gennaio 2018), papa Francesco ha incontrato una delegazione delle vittime di abusi: «Sento dolore e vergogna per il danno irreparabile causato ai giovani da alcuni ministri della Chiesa. È giusto chiedere scusa e appoggiare con ogni mezzo le vittime, e impegnarsi perché non accada mai più» ha detto il pontefice.

Come si spiega dunque l’enigma Karadima? Come ha fatto un uomo «di tanta poca luce e tante meschine ambizioni» ad arrivare a guidare la spiritualità della élite cilena, a costruire una rete di favori, abusi e silenzi? Lo ha fatto solo «grazie a giganteschi aiuti arrivati dalle convinzioni politiche e morali delle élite degli anni ’80, le quali erano attratte dal suo messaggio semplice: il peccato peggiore è quello sessuale, la salvezza e la bontà si raggiungono pregando in una cappella, senza occuparsi di ciò che accade al di fuori del proprio circolo sociale». Nell’ambiente di El Bosque, la predicazione di Karadima permetteva alle élite di conciliare la ricchezza materiale, la condizione di classe dominante e la fede, dentro un sistema di protezione garantita dalla dittatura militare. Il messaggio di Karadima «riscaldava le loro anime», conclude l’inchiesta del libro I segreti dell’impero Karadima.

L’arcivescovo della Solidaridad

Mentre le élite cilene accorrevano al pulpito di Karadima e si tappavano occhi e orecchie di fronte ai mormorii di abusi e di corruzione, nella stessa città di Santiago vi era un’altra chiesa.

Il 4 ottobre 1973, nel giorno di San Francesco, meno di un mese dopo il golpe militare, è nato il «Comitato di Cooperazione per la pace», promosso dall’arcivescovo di Santiago, Raúl Silva Henríquez, per la chiesa cattolica, insieme ai rappresentanti dell’ebraismo e delle confessioni luterana e ortodossa e alcuni pastori evangelici. L’obiettivo era quello di vigilare in modo stabile sulla violazione dei diritti umani perpetrati fin dal primo giorno dell’insediamento di Augusto Pinochet. Per due anni, questo gruppo ha offerto assistenza sociale e legale ai detenuti, a coloro che subivano le torture e le crudeltà degli agenti del generale.

Nel 1975, a causa delle pressioni della dittatura, il Comitato è stato sciolto. L’arcivescovo Raúl Silva Henríquez ha però reagito chiedendo e ottenendo da Paolo VI la creazione della «Vicaría de la solidaridad».

Così, mentre la repressione di Pinochet non conosceva pause, la Vicaría, grazie alla protezione della Chiesa cattolica, ha potuto continuare il lavoro interrotto del Comitato per la pace. Le sue attività erano divise in quattro dipartimenti: giuridico, del lavoro, agricolo e territoriale, arrivando a impiegare fino a 300 persone, tra giuristi, medici, psicologi e altro personale. Oltre a offrire difesa giuridica, promuoveva attività lavorative e di formazione, pubblicava la rivista Solidaridad, organizzava mense sociali che alimentavano migliaia di persone al giorno durante la crisi del 1982. Ed è diventata il punto di raccolta delle denunce di sparizione, permettendo così di costruire un archivio dei desaparecidos. In almeno due occasioni, nel 1978 e nel 1984, ha promosso eventi pubblici a favore dei diritti umani. Non potendo chiuderla, il governo militare ha provato a più riprese a terrorizzare i suoi membri, tramite minacce, persecuzioni, espulsioni e anche assassinii. Ciononostante, la Vicaría ha continuato ad operare durante tutta la lunga notte della dittatura e si è sciolta solo nel 1992, con il ritorno della democrazia. Oggi esiste una Fondazione  che ne conserva l’archivio e ne promuove la memoria.

Due modi di intendere la fede

Raúl Silva Henriquez e Fernando Karadima sono le due facce della Chiesa in America Latina. Nelle differenze tra queste due figure, vi è la differente concezione della fede, del ruolo del pastore, del Concilio Vaticano II, del rapporto con le ingiustizie sociali. Una differenza che ha attraversato la Chiesa latinoamericana nel corso della seconda metà del Novecento e che è tuttora vigente.

Federico Nastasi

Bandiera cilena nel deserto (foto Cissa Ferreira-Pixabay).


Archivio MC

  • Paolo Moiola, «Buon lavoro, presidenta», maggio 2014;
  • Paolo Moiola, Il peso della memoria, giugno 2014;
  • Paolo Moiola, Forse Darwin piangerebbe, luglio 2014;
  • Paolo Moiola, Eroi e terroristi in un paese ingiusto, gennaio 2011;
  • C. Meneses – L. Rubino, Dietro i sorrisi, l’ombra del generale, aprile 2010.

Hanno firmato questo dossier:

  • Federico Nastasi – Dottorando in economia, ricercatore presso il Cepal (Comisión económica para América Latina), giornalista indipendente. Vive in America Latina, tra Montevideo e Santiago del Cile, collaborando con radio, riviste, quotidiani in italiano e spagnolo. Ha raccontato il referendum cileno con la newsletter «Plaza Dignidad – Lettere dal Cile».  È alla sua prima collaborazione con MC.
  • A cura di Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.

Ali dispiegate sull’isola di Chiloé (foto Paolo Moiola).




Cina, Xinjiang. Autonomia made in Pechino

testo e foto di Piergiorgio Pescali | A cura di Paolo Moiola |


Indice


Le scelte di Pechino

Unità e armonia: lo stato viene prima

Il paese deve muoversi all’unisono e sotto la stessa direzione. Gli obiettivi da perseguire sono gli stessi ovunque. Per questo non sono ammissibili spinte separatiste come ad Hong Kong, in Tibet e nello Xinjiang.

Nell’ottobre 2012 il New York Times pubblicò un articolo che rendeva noti documenti fuoriusciti dal Partito comunista cinese in cui si denunciava che la famiglia del primo ministro Wen Jiabao e il premier stesso avevano accumulato un’immensa fortuna pari a 2,7 miliardi di dollari. Wen Jiabao avrebbe dovuto lasciare la carica di primo ministro il marzo successivo (2013), quindi la fuga di documenti sembrava poco significativa. In realtà questo scoop funzionò da volano a un emergente Xi Jinping per fare piazza pulita di una classe politica cinese che, sin dal IV Plenum del XI Congresso del Pcc del settembre 1979, stava lasciando sempre più spazio ai privati.

Un mese dopo lo scoop del New York Times, Xi Jinping venne nominato segretario del Partito comunista cinese, presidente della Commissione militare centrale e, nel marzo 2013, presidente della nazione, ruoli che occupa tuttora.

Conversazione tra uomini al mercato degli animali di Hotan, città agricola nel bacino idrografico del Tarim, in gran parte occupato dal deserto di Taklamakan. Foto Piergiorgio Pescali.

La Cina di Xi Jinping

In sette anni Xi Jinping ha stravolto la Cina riproponendo una nazione al centro dell’economia mondiale, ha lanciato Pechino verso una contrapposizione militare nel settore dell’Oceano Pacifico e ha realizzato con successo ciò che Mao Zedong aveva iniziato negli anni Sessanta: diventare, specialmente per le nazioni asiatiche, un polo d’attrazione alternativo sia agli Stati Uniti che alla Russia.

Tutto questo è stato possibile concentrando su un unico nucleo il fulcro decisionale del paese. Comunque la si voglia guardare, Xi ha mosso, almeno sino a oggi, con sapienza e cinismo i propri pezzi sulla scacchiera geopolitica mondiale. Il pensiero di Xi Jinping, ufficializzato dal 19° Congresso del partito nel settembre 2017, ha elevato il presidente cinese a nuovo timoniere. Non un nuovo Mao, come spesso lo si preferisce definire, ma una nuova guida che miscela con attenzione il totalitarismo maoista con l’iniezione di liberismo economico introdotta da Deng Xiaoping. Carburando con cura le due idee, diluendole con mirati interventi economici statali, il razzo cinese lanciato da Xi è riuscito a decollare superando anche le prove più critiche che si sono via via frapposte: il programma nucleare nordcoreano, la crisi con gli Stati Uniti e, ultima in ordine cronologico, il coronavirus.

Per permettere la gestione ottimale della spinta economica e politica cinese al di fuori dell’orbita nazionale, occorre in primo luogo che tutto il paese cooperi all’unisono per gli stessi obiettivi e sotto un’unica direzione. Ogni tentativo di deriva nazionalista, di autonomia più accentuata, di critica verso la cabina di comando, potrebbe interrompere il flusso di carburante o il giusto equilibrio dei vari elementi, e deviare il missile cinese dalla propria traiettoria rischiandone la distruzione.

In un discorso chiave tenuto all’Università di Pechino il 4 maggio 2014, il presidente cinese affermava che «i valori fondamentali che la nostra nazione e il nostro stato devono difendere sono quelli di prosperità, democrazia, civiltà e armonia; libertà, uguaglianza, giustizia e governo della legge; patriottismo, dedizione al lavoro, affidabilità e amicizia al fine di coltivare e mettere in pratica i valori fondamentali del socialismo. Prosperità, democrazia, civiltà e armonia sono i valori richiesti allo stato; libertà, uguaglianza, giustizia e governo della legge sono i valori richiesti alla società; patriottismo, dedizione al lavoro, affidabilità e amicizia sono i valori richiesti al cittadino».

La risposta alle rivolte centrifughe

Quelle parole invocavano maggiore unità dei cinesi a tutti i livelli (e, al tempo stesso, una maggiore responsabilità dello stato), ma anche la consapevolezza che, in un paese così diversificato, multiculturale e multireligioso come la Cina, occorreva sacrificare parte della propria libertà per progredire nel campo economico e sociale. Non era un concetto nuovo: la socializzazione e la cooperazione collettiva sono alla base dei valori asiatici, ma la volontà di democrazia, di benessere individuale, di edonismo portata dalle aperture politiche avvenute sin dagli anni Ottanta, avevano sfaldato parte di queste fondamenta e rischiavano di privare il gigante cinese delle solide basi su cui era stata costruita la nazione dopo l’avvento di Mao Zedong.

Da qui alle repressioni delle rivolte centrifughe nelle aree più delicate, come il Tibet, la Mongolia interna e Hong Kong, il passo è breve.

Tra tutte queste richieste di maggiore autonomia o addirittura di indipendenza, e il loro conseguente soffocamento, quella dello Xinjiang è la meno conosciuta al di fuori della Cina per i non addetti ai lavori. La storia che lega Hong Kong all’Occidente ha permesso ai media di cavalcare l’onda delle proteste, mentre la grande diffusione di pratiche legate al buddhismo e la fortuna della figura del Dalai Lama hanno permesso di mantenere vive le manifestazioni a favore del popolo tibetano. La stessa attenzione non è stata concessa agli Uiguri, la cui lotta non appassiona gli animi di chi accusa Pechino di ledere i diritti umani e di opprimere le istanze autonomiste di interi popoli.

Piergiorgio Pescali

Mappa della Cina con la suddivisione in province e regioni autonome. Immagine Pixabay.

Lo Xinjiang

  • Divisione amministrativa: regione autonoma dello Xinjiang.
  • Superficie: 1,66 milioni km2, con un’estesa parte desertica (deserto del Taklamakan).
  • Abitanti: 24,5 milioni.
  • Gruppi etnici (2018): Uiguri (46,4%), Han (39%), Kazaki (6,5%), Hui (4,5%), altri (Tagiki, Kirghizi, Russi, Mongoli; 2,67%).
  • Segretario Pcc locale: Chen Quanguo.
  • Città principali: Ürümqi (capitale), Kashgar.
  • Religione principale: islam (63%), praticata dagli Uiguri e dagli Hui.
  • Economia: agricoltura e allevamento, industria estrattiva (gas, petrolio, carbone, berillio, mica); produzione di energia solare, eolica e idroelettrica.
  • Siti web: www.globaltimes.cn;
    www.uyghurcongress.org;
    https://uhrp.org.

Yurte della popolazione di etnia kirghiza lungo la Karakorum Highway, a pochi chilometri dal confine con il Pakistan. Foto Piergiorgio Pescali.


Storia e attualità dello Xinjiang

Una frontiera tormentata

È il territorio più esteso e meno popolato della Cina, della quale fa parte dal 1884 con due (brevi) pause. Dal 1955 regione autonoma, un tempo trascurata, oggi lo Xinjiang è di fondamentale importanza.

Xinjiang – 新疆, «nuova frontiera» – è un toponimo relativamente recente, coniato tra il XVIII e il XIX secolo dalla dinastia Qing e inizialmente riferito a cinque regioni situate lungo le frontiere dell’impero. Solo nel 1884 venne a identificare quella che oggi è la regione più grande e meno popolata della nazione cinese. Nei secoli precedenti, il territorio era noto con il nome persiano di Turkestan, «luogo abitato dai turchi». Non una nazione, ma un’area occupata da un coacervo di popoli che assimilarono usanze e lingue di genti provenienti dalle steppe mongoliche di cui una parte, a partire dal I millennio a.C., si spostarono verso Ovest sino a raggiungere l’attuale Turchia

Le diverse popolazioni mantennero peculiarità che ancora oggi le differenziano tra loro: Kazaki, Kirghizi, Uiguri, Uzbeki, Kazari, Hazari. Erano per la maggioranza popolazioni nomadi, dedite alla pastorizia, eccellenti cavallerizzi che mantennero gelosamente la propria indipendenza per coalizzarsi tra loro solo in occasione di pericoli provenienti dall’esterno. In questo modo, almeno sino a pochi decenni fa, non vi fu nessun impero o stato centralizzato chiamato Turkestan. Certo, nel corso dei secoli, popoli turchi e turcofoni formarono imperi che, seppur molto fluidi nella loro amministrazione e nei loro confini, riuscirono a ritagliarsi grandi fette di territorio minacciando e sconfiggendo regni regolati secondo gestioni più ortodosse. Nessuno di questi imperi, però, si diede un’amministrazione centralizzata, se non dopo aver assorbito le caratteristiche della gerenza che avevano sconfitto. Il più delle volte, compiute le conquiste e gli obiettivi concordati tra i vari clan, ognuno di questi tornava poi a reggersi secondo regole e consuetudini proprie.

In questa situazione assai mutevole e incerta, tra l’inizio del VII e la metà del IX secolo d.C., un impero dominato dagli Uiguri, una delle tante stirpi turco-mongoliche, giunse a occupare il territorio tra i monti Altai e i monti della catena del Tien Shan includendo il bacino del Tarim. Per due secoli il khaganato (cioè il territorio governato dal khan, re, imperatore) uiguro gareggiò con la Cina dei Tang e con l’impero tibetano per il dominio dell’Asia orientale, ma l’organizzazione militare ed economica degli Han alla fine ebbero la meglio. Gli Uiguri si stanziarono nelle regioni attorno al deserto del Taklamakan sovrapponendosi alle popolazioni indoeuropee già presenti nell’area e sviluppandosi attorno a due centri culturali: Turpan a Nord e Kashgar a Sud.

Uiguri: una lingua, una religione

Proprio attorno alla città di Kashgar, tra il X e il XIII secolo, si affermarono quelli che sarebbero poi diventati due ingredienti essenziali dell’anima uigura moderna e che sono, ancora oggi, strettamente legati tra loro: la religione islamica e la lingua. Nel 934, dopo che il khan Abdulkarim Satuq Bughra si convertì all’islamismo, la nuova religione iniziò ad espandersi su tutto il territorio soppiantando il buddhismo. Al tempo stesso si venne a formare una lingua locale uigura che, pur mantenendo radici turcofone, adottò caratteri arabo persiani. Sei secoli più tardi, Afaq Khoja sviluppò il movimento sufi Naqshbandiya, fondato nel XIII secolo a Bukhara da Abd al-Khaliq Ghijduvani. Il sufismo si innestò nella religione islamica uigura sino a modellarne la dottrina e la visione del potere. Da una parte confermò e rafforzò la grande tolleranza religiosa e culturale già presente tra gli Uiguri e dall’altro invocò un regime di vita più austero per la classe nobile e amministratrice del paese. In una popolazione che faceva del nomadismo il proprio stile di vita, la frugalità espressa dal Naqshbandiya si inseriva a pennello.

In mancanza di un sentimento nazionalista, la lingua e la religione divennero gli elementi coesivi del popolo uiguro e la leva su cui i vari movimenti indipendentisti e autonomisti premettero per contrastare le interferenze esterne. Questo è uno dei motivi per cui ancora oggi il governo centrale di Pechino vede proprio in queste due espressioni culturali i due cardini contro cui focalizzare la sua repressione.

L’interno di una casa uigura nei pressi di Kashgar, la principale città nel deserto del Taklamakan. Foto Piergiorgio Pescali.

Anno 1884: l’annessione cinese

Nella storia dello Xinjiang un altro fattore determinante è la sua posizione geografica: un’immensa regione di sutura tra la Cina e l’Asia centrale, solcata dalle numerose vie commerciali che collegavano le coste orientali dell’Asia con le rive del Mediterraneo. Queste rotte, che nel 1877 il geografo tedesco Ferdinand von Richthofen chiamò «Via della seta», si incontravano a Kashgar per poi diramarsi in una miriade di direzioni. Marco Polo, uno dei tanti mercanti che l’attraversò lasciandone ampia testimonianza ne Il Milione accennò anche a una comunità di cristiani nestoriani, presenti nella regione sin dal VI secolo e che sarebbe rimasta attiva fino al XIV secolo. Gli imperi europei e del Centro Asia vedevano lo Xinjiang come regione nevralgica, se non da sottomettere, almeno da sorvegliare per tenere sotto controllo la Cina; dal canto loro gli Han guardavano all’area come a una zona cuscinetto per respingere eventuali rivalse di altri. Al centro di questa regione c’era il cuore arido e terrificante del deserto del Taklamakan, uno dei luoghi più ostili in cui l’uomo potrebbe vivere e che molti definiscono come «il luogo dove si entra, ma da cui non si esce» (in realtà, il significato etimologico è incerto e varia da «posto abbandonato» a «posto di rovine»). Il deserto, frequentemente spazzato dai violenti venti del buran, occupa un quinto dell’intera provincia attuale dello Xinjiang (337mila km2 su 1.665mila km2) e le sue temperature oscillano tra i 40 gradi estivi e i -20 in inverno. Sino all’arrivo del treno, degli aerei e delle automobili, le difficili condizioni del Taklamakan erano un valido baluardo naturale che ponevano quasi al sicuro la Cina da un’invasione proveniente da Occidente. Nel 1895 lo svedese Sven Hedin fu il primo esploratore occidentale ad attraversarlo, ma dei quattro uomini, otto cammelli, tre montoni, dieci polli, un gallo e due cani che partirono da Kashgar, solo Hedin, un altro carovaniere e un cammello riuscirono a raggiungere il fiume Khotan-Daria.

Dal 1759 i Qing iniziarono a espandersi verso occidente inglobando sempre più vaste regioni e trasferendo nelle aree da loro controllate, specialmente nel Nord della provincia, popolazioni mongole e han. Il tentativo di ribellione dell’uzbeko Yakub Beg, all’inizio appoggiato da Russia e Gran Bretagna che speravano di poter gestire il nuovo stato entrando nel subcontinente cinese, si esaurì nel 1884 con la definitiva annessione dello Xinjiang all’impero Qing.

Fu certamente un intervento militare, ma gran parte della popolazione accolse il ritorno dei cinesi con sollievo dopo che Yakub Beg aveva respinto le offerte russe e britanniche di costruire strade che collegassero l’area con l’Asia centrale e meridionale gravando i commercianti di ulteriori tasse, e aveva imposto una sharia più restrittiva.

Il dominio cinese sullo Xinjiang continuò anche dopo il crollo dei Qing e l’avvento della repubblica. L’indebolimento della Cina a causa della colonizzazione giapponese permise al nascente movimento nazionalista uiguro di creare una prima Repubblica islamica del Turkestan orientale, che ebbe vita effimera (1933-1934) e una più longeva seconda Repubblica del Turkestan orientale di ispirazione vagamente socialista e appoggiata da Stalin (1944-1949) in funzione anticinese.

La vittoria delle forze comuniste guidate da Mao Zedong su quelle nazionaliste di Chiang Kai-shek riportò le truppe cinesi nello Xinjiang ribadendo il dominio di Pechino sulla regione. Per lo Xinjiang, che dal 1955 divenne regione autonoma, si chiuse un ciclo storico e se ne aprì un altro.

La moschea Id Kah, a Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.

Gli Uiguri, dal 75 al 46 per cento

Il processo di trasferimento di popolazioni Han e Hui, già iniziato sotto i Qing, venne potenziato da Mao Zedong inaugurando così il primo dei tanti problemi che, sommati l’uno all’altro, avrebbero scatenato il risentimento degli Uiguri nella provincia.

Nel 1949 la popolazione totale dello Xinjiang ammontava a 4.333.000 abitanti, di cui il 75% Uiguri, 7% Kazaki, 6% Han e il restante 12% suddiviso tra Tagiki, Kirghizi, Russi, Mongoli e Hui. Questi ultimi, pur essendo musulmani, appartengono all’etnia han e rimangono fedeli al governo centrale. Sono quindi spesso considerati dagli Uiguri come una sorta di cavallo di Troia, di collaborazionisti, diffidati dai loro correligionari.

La frontiera comune con l’Unione Sovietica, amica di nome, ma ritenuta pericolosa da Pechino che non aveva dimenticato l’appoggio dato da Mosca alla Repubblica del Turkestan orientale e la necessità di controllare un territorio non ancora completamente assoggettato, indusse il timoniere ad inviare, oltre ai circa 200mila militari di stanza nella provincia, altri 175mila lavoratori appartenenti ai Bingtuan, i Corpi di produzione e costruzione dello Xinjiang a cui si aggiunsero 300mila giovani con le loro famiglie e 200-250mila lavoratori «volontari» ed un numero imprecisato fra tecnici, insegnanti e antirivoluzionari.

Il flusso migratorio continuò a ondate alterne; non fu mai costante e anzi, in alcuni periodi (dopo il fallimento del Grande balzo economico all’inizio degli anni Sessanta e poi subito dopo la morte di Mao negli anni Ottanta), il saldo fu addirittura leggermente negativo. Alla ricerca di nuove prospettive economiche e attirati dalla liberalizzazione di Deng Xiaoping, molti giovani han, ma anche uiguri, preferirono lasciare lo Xinjiang per trasferirsi nelle città orientali.

La prima grande ondata migratoria si verificò alla metà degli anni Sessanta, quando, dopo il primo test atomico, si diede impulso al programma nucleare cinese. Migliaia di persone vennero spedite nella provincia e nel poligono di Lop Nur dove, dal 1964 al 1996, gli scienziati cinesi fecero esplodere 45 bombe, di cui 23 in superficie (un recente rapporto del dipartimento di Stato Usa afferma però che test a basso livello sarebbero ancora in corso). Tra il 1964 e il 1980 la popolazione immigrata crebbe molto più di quella uigura. Nel 1964 la popolazione dello Xinjiang ammontava a 7,4 milioni di abitanti, di cui 4 milioni Uiguri (54%), 2,4 milioni Han (32,8%) e 271mila Hui (3,6%). Nel 1982 su 13 milioni di abitanti, 6 milioni erano Uiguri (45,8%), 5,3 milioni Han (40,4%) e 567mila Hui (4,3%).

Il rapporto tornò a invertirsi nel decennio seguente, quando, nel 1990 la percentuale di popolazione di etnia han era scesa al 37,6% (5,7 milioni Han su 15,2 milioni di abitanti) e, viceversa, quella uigura era salita al 47,5% (7,2 milioni Uiguri). Con l’inizio della nuova industrializzazione dello Xinjiang che coincise con il passaggio dal XX al XXI secolo, la politica di reinsediamento voluta da Pechino riportò il rapporto Han e Uiguri ai livelli degli anni Ottanta rimanendo così stabile sino ad oggi.

Nel 2018 su 24,9 milioni di abitanti, il 46,4% erano Uiguri, il 39% Han e il 4,54% Hui, e il tasso di crescita demografica dovuta alla natalità era calato dal 10,71‰ del 2010 al 6,13‰ (contro un tasso nazionale del 3,81‰). In particolare, la natalità degli Uiguri nel 2018 era pari al 10,69‰ contro il 9,42‰ degli Han.

I soli numeri però non bastano per descrivere l’enorme differenziazione territoriale rappresentata nello Xinjiang. La regione è etnicamente spaccata in aree nelle quali vivono precisi gruppi di popolazioni. Se gli Han sono concentrati principalmente nelle zone che fanno capo a Urumqi, la città più grande e capoluogo della regione dello Xinjiang, gli Uiguri si disperdono attorno alla città meridionale di Kashgar, loro capitale storica e culturale, e a Hotan e Aksu. Più a Nord, al confine con il Kazakhstan nei distretti di Altay e Tacheng troviamo i Kazaki, mentre gli Hui vivono nel distretto di Ili e mischiati agli Han.

Sono divisioni che rispecchiano gli stanziamenti ancestrali, fissati ancora prima dell’arrivo dei Qing, e che generalmente non seguono un disegno geopolitico storicamente determinato o una precisa volontà di segregazione economica. Anzi, è esattamente l’opposto: è lo sviluppo economico dello Xinjiang che si è modellato sulla base della dispersione etnica.

La costosa strada del nucleare

Lo Xinjiang è la provincia più povera della Repubblica popolare e, fino alla fine degli anni Ottanta, anche tra quelle che ricevevano meno sovvenzionamenti statali. Pechino la considerava solo un ottimo cuscinetto per ammorbidire le tensioni con gli stati limitrofi, in particolare l’Unione Sovietica. Inoltre, l’esiguità della popolazione, in contrasto con l’ampiezza del suo territorio e la grande quantità di superfici disabitate, rendevano lo Xinjiang la base ideale per la ricerca e lo sviluppo nucleare. Il già citato poligono di Lop Nur fu il primo grande nucleo industriale che attirò investimenti economici da Pechino verso la periferia del paese e anche il primo argomento di scontro con gli Uiguri. Oggi i disastri ambientali e umani causati da questa corsa al nucleare cinese sono evidenti: una ricerca effettuata da Jun Takada della Sapporo Medical University ripresa anche dall’Iaea e dal Ctbto (Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organization – Organizzazione per l’applicazione del Trattato per il bando completo della sperimentazione nucleare) e pubblicata da Scientific American, stima che circa 194mila persone sarebbero morte nello Xinjiang a causa dell’esposizione a radiazioni dovute ai fallout nucleari e che altre 1,2 milioni avrebbero assorbito radiazioni tali da poter provocare danni genetici, leucemie e cancri. Inoltre il poligono di Lop Nur ospita ancora oggi parte delle scorie nucleari non solo degli esperimenti militari, ma anche dei quarantasei reattori in funzione nel paese (nel 2041 è previsto lo stoccaggio di tutti i rifiuti nucleari cinesi in un impianto in corso di costruzione nel deserto del Gobi).

Fedeli islamici nella moschea Altyn, a Yarkand, città-oasi che prende il nome dall’omonimo fiume, affluente del Tarim. Foto Piergiorgio Pescali.

Pechino e il pericolo islamico

 

Solo dopo gli anni Novanta il «caso Xinjiang» scoppiò in tutta la sua dirompenza: mentre in Occidente si festeggiava la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’Urss, Pechino si preparava a fronteggiare la minaccia terroristica causata dai buchi neri lasciati dalle amministrazioni delle nuove entità nazionali con le quali lo Xinjiang si trovò a condividere i propri confini. I nuovi paesi, infatti, non avevano nessun controllo del proprio territorio, e cellule armate organizzate vi avevano stabilito i loro rifugi sicuri.

La Cina dovette fronteggiare una minaccia che considerava ancora più grave di quella tibetana perché minava l’impianto unitario dello stato, e lo faceva trovando linfa in quel crogiolo di ideologie e di melting pot religioso che andava sotto il nome di jihad islamica. I gangli della rivolta uigura si ramificavano all’esterno dei confini nazionali insinuandosi tra le pieghe di una rivendicazione di autonomia nazionale che fino ad allora era stata solo un accenno. Il nascente movimento autonomista tradusse le richieste sociali del popolo uiguro in una letteratura separatista puntellando le sue rivendicazioni sulle uniche due caratteristiche che identificavano una improbabile nazione uigura: l’islam e la lingua.

Pechino reagì nel modo più sbagliato: sperando di tranciare il cordone ombelicale con il nazionalismo e il movimento armato, chiuse gran parte delle moschee e vietò l’insegnamento della lingua uigura nelle scuole. Il risultato fu, come era da aspettarsi, una controreazione ben più violenta anche da parte di quella fetta di popolazione che guardava con diffidenza l’estremismo e il fanatismo.

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Le (troppe) organizzazioni uigure

Nel tentativo di catalizzare l’interesse internazionale sulla questione uigura nacquero diverse organizzazioni, alcune delle quali appoggiate – per motivi politici o strategici – da altre nazioni, in particolare Stati Uniti e Turchia. Quest’ultima si inserì nelle pieghe della dissoluzione sovietica riproponendosi come guida culturale e politica dei popoli panturchi dell’Asia centrale. L’idea di Ankara di espandere la propria influenza su una regione di cui ritenne avere dei diritti di discendenza genetica e linguistica trovò sfogo nella protesta uigura. Circa 40mila Uiguri ancora oggi vivono in Turchia, paese che ha sempre storicamente appoggiato i movimenti nazionalisti ospitando leader leggendari some Yusup Alptekin ed Emint Bugra. Seguendo l’emigrazione turca in Germania, anche la diaspora uigura ha spostato il proprio centro dirigente nel paese europeo esprimendosi in una miriade di movimenti che fanno capo al World Uyghur Congress e all’East Turkestan Information Center (Etic). Le forti divisioni in seno alla comunità uigura facilitano però il compito cinese di deplorare le organizzazioni nazionaliste e denunciare attività illegali.

Gli Stati Uniti, invece, conobbero un’immigrazione uigura solo a partire dagli anni Novanta del XX secolo. A differenza della Turchia, l’ospitalità di Washington si esprime maggiormente in termini politici e di diritti umani esponendo come figura di punta Rebiya Kadeer, appoggiando e finanziando movimenti estremamente politicizzati e anticinesi come la Uyghur American Association e la Uyghur Human Rights Project.

Pechino, dal canto suo, ha sempre cercato di contrastare queste attività extraterritoriali associandole al pericolo, più o meno reale, di un terrorismo di matrice islamica.

Sin dal 1990 le autorità cinesi denunciano numerosi incidenti collegandoli al separatismo uiguro. Tra questi diverse bombe esplose su autobus di linea, assalti a stazioni di polizia, a stazioni ferroviarie, a centri commerciali, scontri organizzati tra manifestanti e forze dell’ordine. La maggior parte di questi atti violenti sono attribuiti all’East Turkestan Islamic Movement (Etim), un gruppo separatista di ispirazione jihadista formatosi nel 1988, ma di cui non è mai stata chiarita la genesi e la storia e che nel 2004 fu iscritto nella lista delle organizzazioni terroristiche dalle Nazioni unite. Il 6 novembre 2020, quando ormai era chiara la vittoria presidenziale di Biden, l’amministrazione Trump, in un ultimo rigurgito anticinese, ha deciso di depennare l’Etim dalla lista nazionale di movimenti del terrore con la motivazione che l’organizzazione non dava più segni di attività da almeno dieci anni. La mossa è stata naturalmente deplorata dalla Cina la quale meno di ventiquattr’ore dopo, attraverso il Quotidiano del Popolo, organo del Pcc, ha salutato la dichiarazione di Trump «Ho vinto io queste elezioni e anche di molto» con l’emoticon ridens accompagnata da un esplicito «HaHa!».

Pochi giorni dopo, al meeting dello Shanghai Cooperation Organization (Sco), ha chiesto agli stati membri (Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Uzbekistan, India, Pakistan e Russia) un livello di cooperazione e solidarietà più forte per opporsi alle interferenze provenienti dall’esterno.

Mercato degli animali a Hotan, centro agricolo nel bacino del Tarim. Foto Piergiorgio Pescali.

Case uigure contro case han

Nell’ottica di Pechino, il modo migliore per indurre gli Uiguri ad accettare la presenza del governo centrale e abbandonare le richieste di maggiore autonomia (o indipendenza) era quella dello sviluppo economico. Nel 1999 venne così inaugurato il Great Western Development, un programma di iniziative sociali, culturali ed economiche che avrebbe dovuto dare un forte impulso di modernizzazione all’intera provincia dello Xinjiang. Iniziarono ad essere costruite nuove infrastrutture, venne potenziata la linea ferroviaria, furono realizzate autostrade e nuovi aeroporti internazionali mentre attorno alle città sorsero fabbriche e industrie. Il governo investì in Xinjiang, nei primi dieci anni del XXI secolo, più che in qualunque altra provincia cinese. Inutilmente. Gli Uiguri, così come avevano fatto i Tibetani, accolsero il Great Western Development come un progetto per accelerare la distruzione della loro cultura.

Le vie di comunicazione? Un modo per spostare più velocemente i reparti dell’esercito per soffocare ogni tentativo di protesta secondo gli Uiguri. E in parte era vero.

Le fabbriche? Un modo per arricchire gli Han e gli Hui, visto che la gestione era affidata a loro e si preferiva assoldare manodopera che non fosse uigura. E in gran parte era vero.

Il potenziamento dell’istruzione scolastica? Un modo per costringere gli Uiguri a imparare il mandarino per svilire e dimenticare la propria lingua e le proprie radici. Parzialmente vero.

A Kashgar sorse un movimento che ebbe risonanza anche all’estero per arrestare la demolizione di edifici tradizionali abitati dagli Uiguri. Erano case singole in legno per lo più fatiscenti, fredde d’inverno e torride d’estate, senza rete idrica e fognaria. In cambio l’amministrazione cittadina concedeva a ogni famiglia uigura un appartamento nuovo dotato di tutti i confort moderni: corrente elettrica, bagno in casa, riscaldamento, ampie finestre, ascensori. Dal punto di vista cinese era un’offerta vantaggiosa che non si poteva rifiutare. Ma le case che venivano distrutte erano le case in cui gli Uiguri amavano abitare perché consentivano loro di instaurare un rapporto sociale porta a porta; in quelle case, vecchie, a volte pericolanti, con spifferi da tutte le parti si erano succedute generazioni di famiglie. In questa lotta, in questo modo di vedere il futuro e la socializzazione c’era tutto il divario e l’incomprensione tra le due culture: gli Han modellavano il futuro dello Xinjiang (e, quindi, anche degli Uiguri) secondo il loro modo di vedere, sulla base delle loro esigenze e di quelle nazionali. Logico, allora, che non ci fosse alcun incontro tra le diverse comunità.

Cammelli nella città vecchia di Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.

Chen Quanguo, dal Tibet allo Xinjiang

Un ulteriore drastico cambio della politica cinese nello Xinjiang avvenne tra il 2013 e il 2016. La prima data corrisponde all’ascesa di Xi Jinping alla presidenza della Repubblica popolare. Egli da allora avocò a sé sempre più poteri. La seconda data vide la nomina di Chen Quanguo a segretario del Partito comunista locale. Chen Quanguo si era fatto le ossa nel Tibet dove aveva rafforzato il sistema di sicurezza e di sorveglianza aumentando la presenza della polizia e dell’esercito, ma introducendo anche il sistema della sorveglianza di quartiere: semplici cittadini, possibilmente dello stesso gruppo etnico che doveva essere controllato, erano investiti del ruolo di vigilante riferendo tutto quanto accadeva attorno a loro. Il cambio al vertice del potere nello Xinjiang era assolutamente funzionale agli ambiziosi programmi lanciati a partire dal 2013 da Xi Jinping: la Belt and Road Initiative (Bri, nota come «nuova Via della seta») e il rilancio economico della Cina guardando con maggiore attenzione al rispetto ambientale.

La proposta della Bri era stata avanzata dal presidente cinese in due importanti conferenze: prima quella tenuta nell’Università Nazarbayev, in Kazakhstan (non a caso paese confinante con lo Xinjiang) nel settembre 2013, e poi al parlamento di Giacarta nell’ottobre dello stesso anno. Nella prima si prospettava una serie di collegamenti via terra con l’Europa e il Medio Oriente; nella seconda si lanciava l’idea di nuove rotte marittime verso l’Africa e l’Europa. Nel 2015 le due iniziative vennero accorpate nella Belt and Road Initiative e accolte nello statuto del Partito comunista cinese durante il 19° Congresso del partito nell’ottobre 2017.

Lo Xinjiang diventava, dunque, il baricentro necessario al programma di sviluppo e di espansione dell’economia cinese nel Medio Oriente e in Europa voluto da Xi Jinping per trasformare la Cina in una nazione forte dal punto di vista economico, militare, culturale, sociale, politico e diplomatico.

Per sostenere la propria espansione, il sistema produttivo cinese aveva disperata necessità di trovare fonti energetiche. Dall’inizio degli anni Novanta, lo Xinjiang si era rivelato una delle principali sorgenti da cui ricavare energia senza rivolgersi fuori dai confini nazionali. In pochi anni, la «Nuova frontiera» si trasformò, da arida terra e utile baluardo contro eventuali invasioni provenienti da Occidente, a uno dei cofani più preziosi a cui attingere per far funzionare la macchina economica.

Oggi la regione autonoma è il primo produttore nazionale di petrolio (22% dell’intera produzione cinese), di gas naturale (23%), di carbone (38%), di berillio (usato nell’industria nucleare e aerospaziale), di mica (usata nel settore edilizio e in agricoltura). È il secondo produttore in Cina di energia eolica (20%) ed energia solare e il quarto produttore di energia idroelettrica (5%).

Secondo la road map di Xi, le infrastrutture già esistenti dovrebbero fare da supporto per un ampliamento delle iniziative economiche e commerciali inserite nella Bri. Una ragnatela di oleodotti, gasdotti e reti ferroviarie attraverseranno lo Xinjiang per diramarsi a Nord verso la Russia e a Ovest verso il Mar Caspio, il Medio Oriente, l’Iran e l’Europa. Pur essendo lontano da ogni sbocco marino, dallo Xinjiang parte il corridoio economico Cina-Pakistan, un progetto da 57 miliardi di dollari che collegherà la Cina con il porto di Gwadar e con l’Iran per permettere alla provincia di aprire una via verso l’Oceano Indiano e attingere direttamente al petrolio iraniano.

È quindi iniziata un’intensa campagna di investimenti statali e di propaganda per favorire l’arrivo di industrie straniere e private, con il risultato che, dal 2012 al 2018, il Pil dello Xinjiang è aumentato del 38% (da 750 a 1.220 miliardi di yuan). Oggi una dozzina di industrie europee – tedesche, spagnole, ceche, slovacche, ungheresi e bulgare – hanno uffici, rapporti commerciali o stabilimenti nello Xinjiang.

Piergiorgio Pescali

Ronda di militari per le strade di Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.


La deriva tecnologica

Quando sorvegliare diventa oppressione

Forze di polizia, ma anche controlli biometrici e intelligenza artificiale. Nello Xinjiang si stanno sperimentando tecniche di tracciamento e identificazione molto invasive.

Affinché i progetti di sviluppo vadano a buon fine, occorre che lo Xinjang sia stabile e sicuro. E in questo campo l’esperienza di Chen Quanguo, segretario del Partito nella regione autonoma, è esattamente quel che Xi Jinping cerca. Alla fine del 2016, gli uffici della Pubblica sicurezza dello Xinjiang hanno iniziato a reclutare Uiguri come assistenti di polizia. I candidati venivano allettati dagli alti stipendi (sino a tre volte quello che guadagnava mensilmente un uiguro). Inoltre, l’altissima disoccupazione giovanile, in particolare tra neolaureati nelle università provinciali garantiva un ampio e costante bacino di manodopera da cui attingere tra gli strati medio alti della popolazione.

Molti di coloro che sono stati scelti per il nuovo lavoro si sono ritrovati a controllare direttamente i loro stessi conterranei scendendo nelle strade, frequentando i mercati, sorvegliando i vicini di casa o di quartiere. Si sono spesso dovuti spendere a convincere i loro conoscenti, amici, parenti ad accettare la campagna «Diventare una famiglia», lanciata da Pechino, e ospitare nelle loro stesse case quadri di partito per almeno cinque giorni ogni due mesi. Questi quadri hanno il compito di verificare l’affidabilità delle famiglie e di identificare eventuali elementi sospetti.

Altri Uiguri, invece, sono stati assoldati per una nuova mansione: esaminare e ispezionare filmati, fotografie, intercettazioni audio e video dei loro conterranei.

Chen Quanguo ha inaugurato un nuovo modo di controllo della popolazione utilizzando le più sofisticate tecnologie, compresi i controlli biometrici, e l’intelligenza artificiale (Ai). Lo Xinjiang sembra sia il test preliminare prima di allargare questo sistema di controllo sulle zone più calde della Cina, come Hong Kong.

Parte integrante del processo è un’infrastruttura di aziende hi tech di cui fanno parte, seppur indirettamente, anche aziende europee. La Hikvision, l’azienda specializzata in video sorveglianza e che ha installato telecamere usate dalla polizia nello Xinjiang, ha collaborazioni con la Sony, la Intel, la Texas Instruments. La China Electronic Technology Group, l’azienda che detiene la Hikivision, ha stretto legami commerciali con la Siemens nello sviluppo di tecnologie avanzate nella digitalizzazione, nel networking e nell’automazione. La Xiamen Meiya Pico Information Co, una compagnia del Fujian, ha ideato la «MFsocket», l’app che rileva immagini, audio, geolocalizza, individua contatti telefonici e registra numeri in entrata e in uscita. Dal 2019 si è specializzata anche in Ai e big data e, dal 2004 a oggi, ha addestrato cinquantamila ufficiali del ministero della Pubblica sicurezza nel programma National Cyber Police Training Center oltre che in Indonesia, Malesia, Myanmar, Thailandia, Sri Lanka, Russia, Hong Kong, Singapore, Brasile.

Un venditore di «naan» (pane uiguro) nel quartiere uiguro di Kashgar, in via di demolizione per lasciare posto a nuovi complessi residenziali di stampo cinese. Foto Piergiorgio Pescali.

Terrorismo e campi di rieducazione

Accanto al controllo, al tracciamento e all’identificazione tecnologica dei cittadini, Chen Quanguo ha perfezionato e potenziato ciò che già da tempo esisteva: i campi di rieducazione, di cui Chen non è né l’ideatore e neppure l’iniziatore. Gli ormai celebri Xinjiang papers, pubblicati dal New York Times e che avrebbero svelato l’esistenza di campi di detenzione per i cittadini riottosi alle leggi emanate dal governo, hanno solo rivelato ciò che da tempo si sapeva. Già alla fine degli anni Novanta, si parlava diffusamente di zone, campi, villaggi dedicati alla rieducazione e dove confluivano quelli che il governo chiamava «terroristi» o banditi che erano stati «deviati» dai «tre demoni»: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. All’inizio del XXI secolo era stata ufficializzata la politica del «Colpisci duro, massima pressione» ipotizzata nel 1999 da Qiao Liang e Wang Xiangsui nel loro saggio Guerra senza limiti.

Nel 2006, la Laogai Research Foundation affermava che nello Xinjiang esistevano 69 istituti penali in cui gli internati erano obbligati a lavorare per conto di fabbriche, fattorie sia private che statali, tre campi di internamento riservati ai giovani e dieci campi di rieducazione tramite il lavoro. Gli Xinjiang papers, oltre a confermare questo arcipelago Laogai, hanno fatto scalpore perché erano carteggi fuoriusciti direttamente dal Partito comunista. Secondo i documenti, dal 2017 più di un milione di persone sarebbero state trasferite in un migliaio di campi all’interno dello Xinjiang. Questi erano suddivisi in quattro categorie: campi di rieducazione a bassa sicurezza, campi di rieducazione, centri di detenzione e campi di detenzione di massima sicurezza. Negli anni precedenti, gli attentati terroristici attribuiti agli Uiguri non solo erano aumentati, ma avevano valicato anche i confini dello Xinjiang. Nel 2013 un’auto con tre Uiguri a bordo si era scagliata contro gruppi di turisti in piazza Tienanmen uccidendo due persone e ferendone una quarantina; nel 2014 otto attentatori dello Xinjiang, muniti di coltello, erano entrati nella stazione ferroviaria di Kunming causando la morte di 33 persone e ferendone 140. Nel frattempo, all’interno della provincia si susseguivano altri atti terroristici: nel solo 2014 in totale ci furono una quarantina di morti e più di 100 feriti in diverse azioni compiute da Uiguri.

È in quell’anno che il governo ha deciso di intensificare quello che esso stesso definisce «programma di rieducazione». Pechino, dopo un primo blando tentativo di negare la realtà dei campi, ha ammesso la loro esistenza trovandone la giustificazione nella sicurezza nazionale: è innegabile, infatti, che dal 2017, anno in cui è stata rafforzata la politica di Xi Jinping e di Chen Quanguo, le violenze nello Xinjiang sono pressoché scomparse. Secondo le ormai numerose testimonianze raccolte da autori e ricercatori (molti dei quali con trascorsi decisamente ostili alla politica cinese), i cittadini sospettati di essere «infettati» da uno o più dei «tre demoni» hanno le seguenti caratteristiche: sono di etnia uigura, un’età tra i 15 e i 55 anni, disoccupati, credenti praticanti, hanno almeno un parente in uno stato straniero e hanno visitato o tentato di visitare uno dei 26 paesi considerati politicamente delicati. Particolarmente sotto osservazione sono i villaggi più poveri e isolati. La vita nei campi varia a seconda della persona che la racconta. Per alcuni, i campi sono caratterizzati dalle condizioni più misere e derelitte, una vita fatta di ingiustizie, violenze gratuite, torture, esecuzioni sommarie. Secondo altri, nei campi si vivono invece giornate abbastanza serene, passate effettivamente a studiare e lavorare nelle quali non manca anche il tempo libero.

Dopo essere stata per lungo tempo, terra ignorata e isolata, oggi lo Xinjiang da nuova frontiera si è trasformata in una nuova porta attraverso cui dovrebbe passare il futuro sviluppo economico non solo cinese, ma di tutta l’Asia.

Tuttavia, affinché questo progetto possa essere accolto positivamente, ci sarebbe bisogno che venga costruito coinvolgendo in modo attivo e propositivo tutti gli attori a cui Pechino afferma di rivolgersi.

Piergiorgio Pescali

Volti di etnia kirghiza. Foto Piergiorgio Pescali.


Archivio MC

Hanno firmato questo dossier:

  • PIERGIORGIO PESCALI – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.
  • A cura di Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.

Una statua di Mao Zedong, il «grande timoniere», a Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.




Corridoi umani

testi di  Mario Marazziti, Marco Gnavi e Luca Lorusso |


Rifugiati siriani raccontano l’accoglienza ricevuta in Italia

«Grazie, fratelli italiani»

Giovani sposi di Houla, in Siria, nel 2012 fuggono in Libano dai massacri e dalla minaccia del carcere. Negli occhi, l’immagine di un’amica sgozzata insieme ai suoi quattro bambini. Per cinque anni vivono in un garage ai margini del campo profughi di Tel Abbas. Nel 2018 giungono in Italia grazie ai Corridoi umanitari. Oggi si dicono felici e grati per i loro «fratelli» italiani.

Arriviamo a Mondovì (Cn) alle 17. È fine ottobre e il sole è già basso. Amira e Farid (nomi di fantasia), sposi siriani con lo status di rifugiati, vivono qui da poche settimane con i loro gemelli di 5 mesi, Iman e Mahdi, al primo piano di una modesta palazzina. Prima sono stati un anno e mezzo a Cuneo e, prima ancora, nove mesi a Rosbella, frazione di Boves (Cn).

Ad aspettarci c’è Farid, uomo sui quarant’anni, grande e grosso, viso tranquillo e bonario, barba incolta, vestito con una tuta grigia. Tra le braccia tiene Iman: tutina rosa, orecchini ai lobi, occhi che sembrano chiari e molto vivaci.

Farid ci invita a entrare con modi molto cordiali. L’ingresso dà su un piccolo soggiorno occupato da una credenza e tre sofà disposti uno accanto all’altro. Al centro, un tavolino con un piatto di biscotti, uno di arachidi, e un cesto di frutta.

I tre vani che dal soggiorno portano agli altri ambienti, sono chiusi da tende di velluto verdi. Sentiamo dietro una di esse la voce di Amira che dà la pappa a Mahdi.

Farid ci fa accomodare e ci chiede se prendiamo un caffè o un tè, e va in cucina. Quando ricompare, porta un vassoio con due bicchieri di tè caldo, zucchero e cucchiaini. Intanto arriva Amira: occhi nerissimi in un viso giovane, sulla trentina, incorniciato da un velo nero. Tiene in braccio Mahdi, che ci guarda. Il Covid non ci permette contatti fisici, non ci stringiamo la mano, ma sorridiamo molto.

foto Luca Lorusso

Cinque anni in un garage in Libano

foto Luca Lorusso

Amira e Farid sono scappati otto anni fa dalla loro terra con le immagini negli occhi (e negli incubi) di un’amica e dei suoi quattro bambini sgozzati durante un’incursione di forze filogovernative nella loro città di Houla, vicino Homs.

L’uomo tranquillo che abbiamo di fronte, in Siria è considerato disertore, e per questo ricercato dalla polizia. Lui e sua moglie sono arrivati in Italia nel 2018, dopo cinque anni di apolidia in Libano, tramite i «Corridoi umanitari» organizzati dalla comunità di Sant’Egidio e dalla Papa Giovanni XXIII in accordo con lo stato italiano.

«In Siria ci sono problemi grandi», racconta Farid nel suo italiano semplice ma comprensibile. «Anche in Libano è molto pericoloso: i siriani non hanno documenti e sono sempre cercati dalla polizia. In Italia, invece, stiamo bene».

I due sposi, in Libano hanno vissuto in un garage appena fuori dal campo profughi di Tel Abbas. La loro condizione di rifugiati non è mai stata riconosciuta, e, con il tempo, è cresciuto il rischio di essere arrestati e rimandati in Siria.

Per un po’ di tempo hanno potuto vivere grazie ai soldi che Farid aveva messo da parte in Siria con la sua ditta, ma quando quelli sono finiti, ha dovuto cercare lavori in nero, mal retribuiti e pericolosi, per pagare l’affitto del garage, la luce, il cibo. Poi ha conosciuto i volontari dell’Operazione Colomba: «Ho incontrato tanti amici italiani in Tel Abbas. Loro sono molto forti e anche molto gentili». Farid sorride. «Loro venivano da noi, mangiavamo assieme. Anche quando c’era il ramadan. Conosci il ramadan?», ci chiede. Poi prosegue: «Per loro era difficile fare il digiuno», e sorride. «Lo facevano due giorni. Poi basta».

Una vita nuova in Italia

Chiediamo ad Amira e Farid come si trovano in Italia. «Per me, sono felice», risponde Farid, «perché non c’è il rischio che c’era in Libano. Poi in Italia ci sono tante persone amiche che sempre ci aiutano e sono molto gentili».

«Per me, quando sono arrivata in Italia, avevo paura», dice invece Amira, «perché pensavo che la gente era come in Libano. Ma poi, piano piano, ho visto che andava tutto bene». Amira ride e incrocia timidamente il nostro sguardo. «È cambiata la nostra vita. Ora non voglio più tornare in Libano e neanche in Siria».

Farid riprende il discorso degli amici, ed elenca alcuni nomi dei molti italiani che li hanno aiutati: «Giorgio e sua moglie Elisa sono molto bravi. Anche Alessandro, anche Abu Tony e tanti altri. Loro si preoccupano sempre per noi. Adesso in Italia la mia vita è nuova. Ci sono due gemelli: è una famiglia nuova, una vita nuova. Siamo felici!». Farid ci invita a guardare i suoi bimbi, pieno di orgoglio. «Dieci anni fa, eravamo già sposati, ma non c’erano figli. Era un problema», dice grave, poi sorride ironico: «Anche adesso è un problema: loro non dormono tutta la notte».

AFP PHOTO/HO/SHAAM NEWS NETWORK

«Tutti in Siria a fare guerra»

Quando chiediamo loro di raccontarci della Siria, si fanno entrambi seri: «Veniamo da Houla, Homs», la cittadina nella quale furono uccise 108 persone nel maggio 2012, tra cui molte donne e bambini inermi.

Farid si consulta in arabo con Amira: «Il presidente è un criminale di guerra», dice abbassando la voce, «un criminale di guerra. In Siria molte persone sono morte per le bombe. In strada ho visto un braccio così, un piede là». Farid ci mostra a gesti quello che ha visto dopo i bombardamenti e l’incursione delle forze sciite nella sua città. «Un uomo con la testa così», fa un segno all’altezza della tempia, «oh… mamma!».

«Anche l’Italia ha avuto la guerra tanti anni fa», prosegue, «ci sono stati tanti morti. Quanti anni è durata la guerra in Italia? Adesso, in Siria, da 10 anni. E poi sono arrivati Turchia, Russia, Iran, Hezbollah, Iraq: tutti in Siria a fare guerra», ride amaramente, «Morti, morti, morti».

«Io ho visto la guerra in Siria per due anni», aggiunge Amira. «Poi è arrivato l’aereo, sono arrivate le bombe, e io sono scappata in Libano. Poi è venuto anche Farid, perché era pericoloso. Io pensavo: questo mese finirà, poi un altro mese… però no! Anche la nostra casa è stata distrutta».

Si zittiscono entrambi. Amira e Farid sembrano a disagio, fanno fatica a raccontare della guerra.

Dopo un anno dal loro arrivo in Italia, Amira è andata in una scuola a parlare agli studenti: «Due volte. È stato difficile. I ragazzi hanno fatto tante domande. Mi hanno chiesto della guerra, cosa ho visto in Siria. Quello è difficile per me: raccontare cosa ho vissuto. Sono andata due volte, però la terza no. No. Basta». E conclude: «I ragazzi erano tristi per noi in Siria, per i bimbi, per tutti».

AFP PHOTO / HO / SHAAM NEWS NETWORK

L’accoglienza italiana

Lasciamo cadere il discorso della guerra. Amira e Farid preferiscono parlare della loro nuova vita. Soprattutto degli amici italiani, alcuni dei quali sono diventati come fratelli per loro. «Tutte persone italiane: cento per cento», dice Farid. «Giorgio è bravissimo», aggiunge Amira riferendosi a Giorgio di Rosbella che li ha accolti, grazie all’aiuto di altre cento persone, quasi in casa sua. «Quando siamo arrivati qua, piano piano, parlando con lui, l’ho sentito come mio fratello. Poi abitavamo uno sopra l’altro. Quando c’era qualche problema lo chiamavo, e lui ci aiutava».

«Per favore, scrivi grazie, grazie molte, grazie agli amici italiani che ci hanno aiutati. Molto molto gentili», aggiunge ancora Farid.

I due sposi parlano dell’Italia solo in termini positivi. Domandiamo loro se è proprio tutto bello, se non ci sono difficoltà: ad esempio con la lingua, con lo stile di vita, la cultura.

«Per la lingua», racconta Amira, «prima pensavo che è difficile, però ho studiato tantissimo grazie a un gruppo bellissimo di maestre: una veniva al mattino e poi l’altra al pomeriggio». «Tredici maestre», precisa Farid: «Io ho studiato tre mesi, poi ho iniziato a lavorare. Il problema è stato che nel primo lavoro come muratore non c’erano italiani: erano rumeni, albanesi. Anche per loro era difficile l’italiano. Ci dicevamo: “Va bene”, “ciao”, “grazie”, “vuoi caffè?”», Farid ride ricordando quel periodo. «Adesso, grazie a Dio, lavoro in un’azienda che fa porte qui vicino. Ho un contratto di tre mesi. Purtroppo in Italia non c’è tanto lavoro, e ho paura di rimanere senza».

Chiediamo se, oltre alla lingua, hanno avuto altre difficoltà: «Per me tutto bello», risponde Amira.

Photo by Haitham Mussawi / AFP

Il futuro da costruire

«Io spero in un contratto lungo di lavoro», dice Farid quando chiediamo come vedono il loro futuro, «e spero di comprarmi una casa».

«Io spero di aprire un negozio per fare la sarta», aggiunge Amira, «mi piace molto cucire. Io per il futuro penso anche ai miei bimbi che conosceranno due lingue: arabo e italiano».

La piccola Iman si sta addormentando in braccio alla mamma. «Se in Siria finisse la guerra, tornereste?», chiediamo. «Io no, mai!», risponde decisa Amira: «No no no! Io ho visto il massacro: in cinque minuti sono morte cento persone. Bimbi e donne. Solo bambini e donne».

«Loro non sono morti per una bomba», aggiunge Farid, riprendendo il discorso della guerra che avrebbero voluto entrambi lasciare da parte, ma che forse è ancora troppo vivo, anche dopo otto anni. «Loro non sono morti per una bomba, ma con il coltello. Coltello! Tutti! L’ho visto: due bambini di due mesi. Perché con il coltello? Perché i bimbi?», Farid si commuove e ha la voce rotta. Anche per la rabbia.

«E così non voglio tornare in Siria», conclude Amira, ma Farid riprende: «La mia famiglia è quasi tutta in Siria. È difficile adesso per loro. Ho tre fratelli avvocati, ma non c’è lavoro per loro: solo guerra. È difficile. Difficile tanto: non c’è cibo, non c’è acqua, non c’è luce. Da nove anni è così. Non ci sono soldi, non c’è lavoro. Il lavoro è la guerra. Così lavorano».

«La gente qua in Italia è gentilissima», torna a dire Amira. «Per me, io voglio rimanere sempre qua. Abbiamo trovato una famiglia grande. Gli italiani sono grandi».

Un bicchiere di mate

foto Luca Lorusso

Ci rendiamo conto che fuori è oramai buio. La piccola Iman dorme, Mahdi invece è sveglio, ma irrequieto. È tempo di togliere il disturbo.

Mentre però iniziamo a salutare, Farid ci chiede se ci piace il mate. Rispondiamo di sì, l’abbiamo bevuto in Argentina diversi anni fa.

«Bravo», ci incalza lui, «io bevo il mate sempre», e aggiunge che poco fa ha bevuto il tè solo per cortesia nei nostri confronti. «In Siria, se vieni a trovarmi e non bevi il mate, per me è un problema. Come il caffè per gli italiani», si alza sorridente e va in cucina. Dopo poco, torna con un vassoio sul quale ci sono due bicchieri pieni di yerba mate, una teiera e due bombillas, le cannucce tradizionali.

Farid versa l’acqua bollente nel bicchiere. È molto contento che beviamo il mate insieme. «Tutti i siriani bevono il mate. Se io non bevo il mate, non vado al lavoro. È la mia colazione. Lo bevo sempre. Mattina, notte, pranzo».

Farid parla ad Amira in arabo per chiederle qualcosa, poi va di nuovo in cucina. Quando torna, ha un pacchetto di yerba mate tra le mani, e una bombilla. «È difficile trovare italiani a cui piace il mate», ci dice, e ce li regala.

Beviamo parlando del più e del meno: dove comprano la yerba mate, quanto costa, quanto è bella l’Italia, quanto era bella la Siria prima della guerra, con i monti, il mare, la gentilezza delle persone, luoghi pieni di storia come Palmira.

Quando salutiamo per andare, Farid ci ripete per la terza volta: «Per favore tu scrivi sul giornale: grazie ai miei fratelli. Grazie, grazie!».

Luca Lorusso


 

foto Luca Lorusso

Una famiglia e cento volontari per Amira e Farid

Accogliere come stile di vita

Rosbella è una bellissima frazione di Boves (Cn) a mille metri d’altitudine, abitata da 15 persone. Giorgio, Elisa e loro figlio Davide, vivono in comodato al primo piano della vecchia scuola addossata alla chiesetta di Santa Pazienza. Al piano terra, per nove mesi, hanno ospitato Amira e Farid, siriani fuggiti dalla guerra. Un’accoglienza corale, fatta assieme ad altre cento persone, che prosegue ancora oggi e fa parte di un percorso di vita tra parrocchia, nonviolenza, commercio equo, fraternità.

Ci troviamo a Rosbella con qualche minuto di anticipo. È un mattino di inizio autunno. Siamo a quasi mille metri e fa freddo. Il posto è splendido: un piccolo borgo di poche case molto ben tenute che sorgono ai due lati della strada.
La prima costruzione che incontriamo è la vecchia scuola parrocchiale addossata alla chiesetta di Santa Pazienza. Qui, al primo piano, vivono Giorgio ed Elisa con il loro bimbo Davide di 8 anni. Al piano terra hanno vissuto Amira e suo marito Farid per nove mesi.

Oltre la chiesa c’è un piccolo locale dal nome ironico, «RosBettola, osteria di infimo ordine». Pare che qui si beva una birra artigianale molto buona. Vediamo un Bed & Breakfast, abitazioni e, in fondo, un recinto con due cavalli.

Per arrivare a Rosbella bisogna fare qualche chilometro nel bosco, su per la montagna a Sud di Boves (Cn). L’isolamento del borgo, che d’inverno si accentua notevolmente, non ha spaventato le decine di volontari che si sono presi cura di Amira e Farid nei mesi della loro vita qua.

foto Luca Lorusso

Accogliere come stile

«Noi siamo arrivati a Rosbella nel 2005». Giorgio, infreddolito come noi, sta dentro un grosso maglione grigio, ha capelli ricci, lievemente brizzolati, mani sottili e calme, come il viso, sguardo profondo e accogliente. È appena tornato da Castellar dove suo figlio frequenta la scuola primaria. Lui è infermiere domiciliare: uno di quelli in prima linea contro il Covid. Sua moglie è educatrice e fa teatro: ora è in casa che lavora.

Ci accomodiamo nella cucina del piano terra, dove hanno vissuto Amira e Farid e dove si sono consumati pasti, svolte riunioni, a volte discussioni accese, sia prima dell’arrivo della coppia, sia insieme a loro.

«Questa casa è del 1910, era la scuola del paese. Qui sotto c’erano le aule. Sopra abitava la maestra. Quando don Gianni Riberi, allora parroco di Boves, ci ha chiesto di venire qua, era abbandonata da tempo. Inizialmente eravamo un gruppo di tre famiglie con il desiderio di fare fraternità. Quando gli altri ci hanno detto che non se la sarebbero sentita di venire a vivere qui, il parroco ci ha incoraggiati: “Va bene lo stesso. Una parte l’abitate voi, l’altra la usiamo per fare ospitalità”.

Don Gianni ha provato a dare nuova vita alle strutture abbandonate della parrocchia: qui a Rosbella, ad esempio, ma anche al santuario di Sant’Antonio (dove la famiglia Bovani offre da 20 anni percorsi di spiritualità domestica per famiglie, ndr), e a San Mauro, in una struttura che ora è gestita dalla comunità Papa Giovanni XXIII».

Fino al 2016, Elisa e Giorgio, attraverso la loro associazione «Sentieri di pace», hanno accolto in questi spazi gruppi parrocchiali, scout, campi del Mir (Movimento internazionale della riconciliazione). «Eravamo legati alla bottega del commercio equo di Cuneo, e facevamo anche iniziative di educazione alla mondialità. Abbiamo cercato di declinare la vita in questo luogo come occasione per costruire pace e nonviolenza». E l’accoglienza del Corridoio umanitario si è inserita in questo percorso: dal 2017, infatti, Elisa e Giorgio, insieme al parroco attuale don Bruno Mondino, hanno deciso di accogliere a Rosbella famiglie in difficoltà.

«La prima “ospite” nel 2017 è stata Carla, una donna senza tetto di Torino. È stata qui tre mesi. Poi ci è arrivata la richiesta dall’Operazione Colomba per una famiglia siriana. Io ero già legato a Operazione Colomba perché 20 anni fa ho fatto esperienze in Bosnia, Kosovo e Chapas con loro».

foto Luca Lorusso

Cento persone per un corridoio

Dopo aver accettato di buttarsi nell’avventura, Giorgio è andato in Libano con Matteo, un amico muratore che ha messo a posto gratuitamente l’alloggio per l’ospitalità. Era giugno 2017. Sono stati 10 giorni nel campo profughi di Tel Abbas, vivendo con i volontari di Operazione Colomba. In quei giorni hanno conosciuto Amira e Farid che sarebbero arrivati a Rosbella quasi un anno più tardi. «La mamma di Amira era malata di tumore, non aveva potuto curarsi, e stava morendo. Lei voleva aspettare».

Giorgio ci spiega come si organizza chi vuole accogliere una famiglia tramite i corridoi umanitari. «Funziona così: tu individui una casa; poi costruisci un gruppo per raccogliere i soldi per garantire alla famiglia un anno e mezzo di vitto, alloggio, scuola di italiano, cure, documenti, e così via. L’indicazione generale è di aiutare la famiglia a diventare autonoma nel giro di un anno e mezzo, però poi dipende dai percorsi: qualche famiglia arriva all’autonomia prima, altre non ci sono ancora dopo tre anni. I soldi, in ogni caso, si raccolgono in maniera privata, senza pesare sullo stato o gli enti pubblici».

Quando la mamma di Amira è mancata a fine 2017, Giorgio, Elisa e altri sei amici, hanno organizzato incontri e cene per raccogliere fondi e, soprattutto, aggregare volontari. «Le persone le abbiamo contattate tramite Facebook, altre associazioni, amicizie, e abbiamo raccolto tutti i soldi necessari per partire: 10mila euro».

Più avanti, quando l’esperienza di Rosbella era già in corso, Giorgio avrebbe partecipato all’avvio di altri due corridoi: uno a Cervasca, vicino Cuneo, nato da don Mariano Bernardi e dal gruppo giovani della parrocchia, e uno a Trinità, a Sud di Fossano, nato da Marina, membro del gruppo di Rosbella che voleva far partire un corridoio anche dalle sue parti. «Abbiamo costituito tre gruppi, ciascuno di circa cento persone. La ricchezza del gruppo è che ogni volta che c’è bisogno di qualcosa, un vestito, un mobile, un passaggio in auto, per fare scuola di italiano… arriva sempre una persona. Noi siamo partiti in otto, ma da soli non ce l’avremmo fatta. Quando ti manderò qualche foto, te ne manderò di collettive, dove si vede il gruppo. Infatti, quando si parla di questa esperienza, molte volte si dice che la famiglia di Elisa e Giorgio, insieme ad altri volontari, hanno accolto Amira e Farid, mi piacerebbe, invece, far capire che è stata un’esperienza e un’accoglienza corale. Se non fosse stata corale, non sarebbe esistita. È stato grazie al lavoro di tutti che l’esperienza è andata bene».

Chiediamo a Giorgio come hanno fatto con la lingua, soprattutto i primi tempi dell’accoglienza. «Nel gruppo ci sono una famiglia marocchina e una tunisina, migranti di lunghissimo corso. Sono parte del gruppo fin dall’inizio, e, parlando arabo, sono tra i protagonisti, perché sono quelli che fanno più lavoro di socialità, accompagnamenti, ecc. La sera in cui Amira e Farid sono arrivati, erano qua con del cibo arabo».

foto Luca Lorusso

La storia di Amira e Farid

Giorgio parla con grande affetto di Amira e Farid, con cui la sua famiglia ha vissuto a stretto contatto dal maggio al dicembre del 2018. «Loro sono di Houla, nel governatorato di Homs. Sono una bella coppia. Contenti. Lui aveva una ditta di piastrellisti. Dal punto di vista economico stavano bene. Lei racconta che si occupava dei nipoti: era la zia preferita, e preparava cibo per frotte di bambini. Vivevano in un nucleo di case che ospitava la famiglia allargata di lei.

Non hanno conservato nulla della loro casa: è finito tutto sotto le macerie».

Giorgio mette insieme i tanti pezzi del puzzle della storia di Amira e Farid raccolti qua e là negli ultimi due anni e mezzo. «Nel 2011 è arrivata la primavera araba e la crisi economica. La crisi ha portato le manifestazioni, le manifestazioni il disastro. Tutto questo, loro lo raccontano come qualcosa che è successo senza che se ne rendessero conto. Amira è venuta una volta a parlare a scuola: ha raccontato di questa loro vita molto bella e serena che a un certo punto è stata stravolta, perché, in quanto sunniti, hanno iniziato a essere perseguitati da governo e filogovernativi.

foto Luca Lorusso

Un giorno Houla è stata circondata dagli alawiti che hanno cominciato a bombardare per cercare i terroristi. Era il 2012, maggio.

 

Racconta Amira che a un certo punto si sono rifugiati nelle cantine, ma suo marito era rimasto fuori. Allora è uscita in mezzo al fumo e alle macerie per cercarlo, gridando a gran voce, finché non l’ha trovato. Poi si è resa conto che la casa della sua migliore amica era stata bombardata, però non era distrutta. Allora è corsa a cercarla. Quando è entrata in casa, l’ha trovata sgozzata con i suoi quattro bimbi.

Questo è il massacro di Houla: centootto persone, soprattutto bambini e donne, massacrate con la scusa di cercare i terroristi. A quel punto, Amira, davanti ai ragazzi a scuola, ha detto: “Io non capisco perché cercavano terroristi e hanno ammazzato una donna con quattro figli”.

Quell’immagine terribile, la sogna ancora adesso.

Farid ci manda ogni anno su WhatsApp il video di loro che portano i corpi dei bambini in braccio durante il funerale. Ce lo manda per condividere il ricordo, per non scordare da dove arrivano».

Dopo il massacro, Amira è partita per il Libano con la madre, attraversando di notte il confine a piedi, mentre Farid sperava che la guerra finisse presto, ed è rimasto a Houla. «Dopo sei mesi, è andato in Libano anche lui. Pare che in quel tempo lui sia stato arrestato, e che per tre mesi si siano perse le sue tracce. Di questa cosa, però, lui non vuole raccontare. Dice solo che tutti i sunniti dovevano arruolarsi per combattere i ribelli e i terroristi, ma che in realtà venivano mandati a massacrare i loro fratelli, come avevano fatto a Houla, e allora è scappato».

Amira e Farid sono arrivati in Libano nel 2012: un paese di quattro milioni di abitanti che ha accolto nell’arco di pochi mesi un milione e mezzo di profughi, ma non ha mai riconosciuto il loro status di rifugiati. «Essendo una famiglia benestante, per un po’ hanno ricevuto soldi dalla Siria. Poi però i soldi sono finiti, e allora Farid è andato a fare il muratore con degli amici libanesi: era una vita molto povera».

Vivendo in un garage non lontano dal campo di Tel Abbas, la coppia ha conosciuto i volontari di Operazione Colomba, il cui lavoro era quello di difenderli dagli arresti arbitrari, e di aiutarli dal punto di vista sanitario. «Stando fuori dal campo, il rischio di essere arrestati ed espulsi cresceva, quindi sono entrati nell’elenco dei corridoi, e sono stati fatti conoscere a Sant’Egidio. Il criterio principale con cui Sant’Egidio decide quali persone far venire in Italia, è quello della fragilità: problemi di salute, famiglie numerose e con figli piccoli, e poi persone che rischiano la vita. Amira e Farid erano tra questi ultimi».

foto Luca Lorusso

Dialogo interculturale

Giorgio ripercorre le tappe della vita di Amira e Farid come se stesse raccontando le vicende della propria famiglia, e ci racconta com’è stata la «convivenza» con loro: «Abbiamo potuto parlare molto, anche di religione. Noi siamo cattolici e lui ha sempre chiesto che gli spiegassimo le nostre usanze. La prima Pasqua, lui ha voluto sapere tutto sul triduo: cosa si faceva, perché si ricordava la morte di Gesù, perché poi risorgeva, cos’è la comunione. Ha sempre chiesto tanto senza mai giudicare, ad esempio il modo in cui stanno assieme uomini e donne. Diceva il suo pensiero: “Da noi funziona così, e penso che sia giusto così”. Ma non mi ha mai detto: “Tu con tua moglie fai delle cose che non sono giuste”.

Un po’ per volta abbiamo capito che rapportarsi con un’altra cultura è diverso dal dire: “Qui funziona così e, dato che ti accolgo, ho diritto di dirti che devi fare come me”. Quando accogliamo qualcuno, rischiamo di credere di poter pensare e decidere per lui, e di dire questo va bene, questo non va bene. Ma questa non è accoglienza».

Come fratelli

A gennaio 2019, Farid ha trovato un lavoro in un’azienda agricola difficile da raggiungere da Rosbella. La coppia ha quindi cercato, con l’aiuto del gruppo, una casa a Cuneo. «Lì era tutto più facile: fare la spesa, muoversi… e sono diventati autonomi su molte cose».

Finito il contratto di lavoro di un anno, Farid ha fatto poi diversi altri lavoretti. Ora è in prova per un’azienda di serramenti dalle parti di Mondovì, dove il gruppo li ha aiutati a trovare un’altra casa in affitto. «Adesso sono completamente autonomi, e pagano tutto loro. Poi Amira è rimasta incinta di due gemelli che sono nati a maggio, e questa è stata un’altra tappa importante del loro percorso per ritrovare la serenità».

Nonostante le difficoltà della lingua, spesso affrontate attraverso Google translate, Giorgio racconta del bel clima che si era creato con Amira e Farid quando vivevano a Rosbella. Una bella relazione che tutt’ora continua.

«Alla fine, il gruppo è diventato una famiglia. Lei, per esempio, si confida molto con una delle maestre d’italiano. E lui si confida con Guardini, l’amico originario del Marocco. Per Amira e Farid, noi siamo la loro famiglia: ci chiamano fratelli e sorelle. Ed è proprio così, nel senso che ci trattano così. Per noi è stata un po’ la realizzazione della convivenza che avevamo cercato quando siamo venuti qui nel 2005. È stato un bel trauma quando se ne sono andati. Poi loro sono proprio amabili, molto delicati, molto rispettosi dei rispettivi spazi, ma anche molto coinvolgenti. Loro erano contenti che ci fossimo noi qui sopra, si sentivano protetti, non si sentivano soli. La convivenza è stata proprio bella, una ricchezza enorme.

Penso che una delle persone che ha beneficiato di più di questa esperienza sia stata nostro figlio Davide, che non ha mai vissuto l’accoglienza come una cosa strana. Due persone diverse, con un modo di fare diverso, con una lingua diversa sono entrate dentro la sua famiglia in modo naturale: sono semplicemente arrivate, e basta.

Secondo me, la rivoluzione che possiamo fare attraverso l’accoglienza, è far vivere ai nostri bimbi, giovani, ragazzi, questa cosa come normale: non un’emergenza, un’esperienza eccezionale, un far fronte all’ondata che arriva; non una cosa eccezionale, super, per persone in gamba, ma una cosa normale.

Per la nostra famiglia è stato bello, e continuo a dire: vale la pena farlo».

Luca Lorusso


foto Marco Pavani

Storia e numeri dei corridoi umanitari

Un varco possibile

Una via legale e sicura per mettere in salvo i profughi in cerca di protezione umanitaria c’è. Una via che sottrae denaro ai trafficanti ed evita le morti in mare. Sono i Corridoi umanitari, immaginati dalla Comunità di Sant’Egidio e realizzati da migliaia di volontari, grazie anche alla collaborazione tra chiese, in dialogo tra loro e con le istituzioni.

Lampedusa, 5 ottobre 2013. Nell’hangar azzurro, all’aeroporto, c’era odore di disinfettante. C’erano la polizia scientifica e i corpi delle persone recuperate in mare nei sacchi neri, pronti per la sepoltura. Ricordo anche quelli di quattro bambini.

Un anno dopo, la Comunità di Sant’Egidio, sarebbe riuscita a dare almeno un nome a tutte le vittime, compresi i 350 e più che sono stati poi recuperati dal fondo del mare.

Erano partiti tutti dall’Eritrea e dal Corno d’Africa due anni prima. Duemila dollari e molti mesi di quasi schiavitù per raccogliere gli altri soldi necessari per il viaggio della morte o della vita.

Non era possibile che per vivere, non essere perseguitati, ricattati, minacciati, si dovesse morire così. Era inaccettabile che quello fosse, per i profughi, l’unico modo per raggiungere l’Europa, per ritrovare dignità e sicurezza. E non andava accettato. Ma dalla commozione collettiva italiana ed europea si sarebbe passati presto alla «globalizzazione dell’indifferenza», e all’impotenza.

È stato allora, lì a Lampedusa, che ho letto per la prima volta su un lenzuolo la scritta, metà grido e metà preghiera, «Corridoi umanitari».

foto Marco Pavani

Un modello che apre strade nuove

Il merito straordinario dei Corridoi umanitari creati nel 2015 da Comunità di Sant’Egidio, Tavola valdese e Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), è quello di avere aperto un varco nelle politiche migratorie europee, e di indicare un modello praticabile per un’immigrazione verificata, sicura, fuori dall’illegalità a dalle maglie dei trafficanti.

Essi offrono un modello anche per il «dopo approdo», cioè per l’accoglienza e l’integrazione delle persone dopo il loro arrivo. E forniscono una risposta al grande rischio che, per veti incrociati della politica, l’Ue rinunci al suo cuore, alla «democrazia inclusiva» e «umanitaria» che è alla base stessa della genesi e della necessità storica ed economica dell’Europa unita.

Il paradosso europeo

Se si guardano le nazionalità delle persone i cui corpi vengono recuperati nel Mediterraneo, risulta una verità asciutta e terribile: molti erano profughi, meritevoli di protezione internazionale.

Il sistema europeo per i rifugiati è paradossale: per accedervi è necessario presentarsi alla frontiera dell’Ue, ma alla frontiera si può arrivare solo come turisti – dissimulando quindi il proprio bisogno di protezione – oppure come irregolari.

Zygmunt Bauman scriveva: «Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti di “immigrati illegali”, e a dispetto di occasionali ed effimere ondate di orrore e indignazione provocate dalla vista di “emigranti economici” [morti] nel vano tentativo di raggiungere la terra in grado di sfamarli».

Il primo protocollo di apertura di «Corridoi umanitari» promossi dalla Comunità di Sant’Egidio sulla base di norme vigenti (l’art. 25 del Regolamento europeo n.810/2009 che prevede la possibilità per gli stati della Ue di emettere visti umanitari a territorialità limitata, cioè validi per un singolo paese), è stato firmato con i ministeri degli Esteri e dell’Interno, assieme alla Federazione delle chiese evangeliche italiane (Fcei) il 15 dicembre 2015. Successivamente, altri protocolli sono stati firmati anche con la Conferenza episcopale italiana (Cei) e la Caritas.

Oggi, dopo cinque anni, ci sono corridoi attivi anche in Francia, Belgio, Andorra e San Marino, nella speranza di creare un «Corridoio europeo».

foto Marco Pavani

Il «dopo approdo»

I Corridoi umanitari, che sarebbe meglio definire semplicemente «umani», rappresentano una buona pratica non solo per l’arrivo, ma anche per l’inclusione dei rifugiati. Quella dei percorsi di accoglienza e integrazione dopo l’arrivo è, infatti, la parte forse meno conosciuta del progetto, ma non per questo meno significativa.

Nel «modello italiano» dell’accoglienza, il «dopo approdo» è il punto più dolente: straordinari nella prima accoglienza, siamo deficitari nella seconda, mostrando scarsa capacità di promuovere autonomia e integrazione delle persone accolte. I Corridoi umanitari, invece, per loro natura, promuovono una rete di persone che accompagna i rifugiati passo dopo passo, senza lasciarli soli e smarriti in un mondo per loro sconosciuto e a volte ostile.

La grande avventura dei Corridoi inizia come una favola, anche se non la è: si sale su un aereo di linea, invece che su un barcone; si vede dall’alto il mare bello e amico; si scende a Fiumicino stralunati e col cuore che batte, e si è accolti come in una festa da volti che poi diventeranno amici. Due giorni dopo si viene già accompagnati da qualcuno che mostra come si raggiunge la scuola dove i bambini sono già iscritti, come si prende l’autobus, dove sono i negozi. Qualcuno che aiuta a fare la spesa e a essere conosciuti in paese, nel quartiere.

Lo stupore del «modello adottivo»

Di solito con i Corridoi, non arrivano singoli, ma gruppi, famiglie più vulnerabili di altre. Nonne con ragazzi che hanno perso i genitori in guerra, donne e adolescenti, chi ha bisogno di cure urgenti. Ciascuno con la sua storia già «verificata» prima di partire.

Il viaggio, l’accoglienza, l’accompagnamento all’autonomia, tutto è a carico della società civile. Su base volontaria. Viene così svuotato in radice l’argomento, miope ma popolare, che dice: «Basta spendere soldi pubblici per gli stranieri!». In più, si mettono insieme risorse umane, professionali, spirituali, civili altrimenti inutilizzate.

Invece di dare per scontata la frammentazione sociale, ci si mette insieme, si riduce la solitudine: giovani, adulti, pensionati, anziani, diventano il nerbo di un’esperienza che trasforma i problemi – di lingua, inserimento, diffidenza, paura – in una rinascita, spesso allegra, appassionante, di pezzi di società civile.

I gruppi che accolgono, si assumono gli oneri materiali e relazionali necessari per favorire l’inserimento sociale «simpatetico» dei rifugiati. Questo «modello adottivo» suscita spesso nelle persone accolte una risposta che va oltre le speranze di chi accoglie: è normale infatti che chi arriva da anni di inganni e di offerte di aiuto interessate, resti stupito del fatto che non c’è nessuna trappola nei Corridoi.

foto Marco Pavani

Burocrazia senza paura

Il parlamento italiano ha definito la «sponsorship» privata di questa esperienza «un modello esemplare di accoglienza diffusa». Papa Francesco l’incoraggia sottolineando l’«immaginazione» che ha aperto questo varco di umanità.

A differenza dei programmi di «resettlement» (reinsediamento), che si rivolgono a persone già riconosciute dall’Unhcr come rifugiate, i Corridoi umanitari prevedono che, al loro arrivo sul territorio italiano, i beneficiari presentino la domanda di asilo e seguano l’iter comune a qualsiasi richiedente. Le loro storie sono state già in larga parte verificate prima della partenza, e le domande superano presto l’esame delle Commissioni territoriali. Le persone vengono accompagnate dal gruppo anche in questo percorso, perché non si trovino sole davanti alla burocrazia, agli avvocati, e al tam tam dei passaparola.

I punti di forza dei Corridoi

I punti di forza di questo modello sono, quindi, diversi: innanzitutto la verifica delle storie personali prima della partenza; poi la creazione di un canale di fiducia nei rifugiati che viene confermato al loro arrivo in Italia (quello che è stato promesso prima del viaggio, si realizza davvero); la creazione di una rete di persone che accoglie e attiva un processo di integrazione che riduce il rischio di isolamento sociale; l’assenza di costi a carico dello stato e del bilancio pubblico; infine la sicurezza di tutto il processo, e lo svuotamento del potere dei trafficanti umani.

A ben pensarci, questo modello potrebbe essere utilizzato per riqualificare il sistema pubblico di assistenza, migliorandone l’efficienza e la capacità di integrazione con investimenti modesti.

Tremilacinquecento

Ad oggi quasi 3.500 persone sono arrivate in Europa in questo modo, più di quante ne abbiano accolte 21 stati europei con le ricollocazioni: 2.700 in Italia, di cui quasi 2.000 dai campi in Libano, 623 via Etiopia e Giordania e 67 dalla Grecia. Altri 659 sono in Francia e Belgio, 8 nella piccola Andorra.

Solo in Italia si sono coinvolti 162 «attori» in 18 regioni, famiglie, gruppi, associazioni, parrocchie, Caritas, Sant’Egidio, Migrantes, Tavola valdese, Federazione delle chiese evangeliche in Italia, collegi, congregazioni religiose, privati. Quasi 3.500 volontari e almeno altre 30mila persone danno convintamente un contributo.

A settembre 2020 è stato firmato un nuovo accordo con l’Italia che permette alla Comunità di Sant’Egidio di avviare ufficialmente il Corridoio da Lesbo e dalla Grecia per i primi 300 (si veda il reportage da Lesbo a pag. 59).

Per questo c’è bisogno di altre persone che mettano a disposizione quello di cui dispongono: una piccola cifra, del tempo, una casa inutilizzata, una professionalità. Chi aiuta non è lasciato solo: Sant’Egidio si assume anche questo ruolo, oltre all’ospitalità diretta.

Si può fare ancora molto

In un mondo attraversato dalla brutalità del Covid-19, in un’Europa spaventata dall’incertezza, c’è il rischio che questa risposta intelligente e umana alle migrazioni si fermi. Sarebbe un errore. Per l’Europa è di primario interesse la creazione di un Corridoio europeo per i profughi di Lesbo, che è già Europa, e dei lager libici.

In Italia andrebbe rinnovato il decreto flussi per gli ingressi legali, ormai ridotti quasi solo ai ricongiungimenti familiari.

È positiva la parziale apertura sul cambiamento del permesso di soggiorno, che può riavviare una integrazione oggi bloccata anche dai controproducenti «decreti sicurezza» che avevano creato da 30 a 70mila «irregolari» incolpevoli.

Sarebbe necessario introdurre permessi di soggiorno di un anno per la ricerca del lavoro, accanto a quelli di lavoro: sono più realistici.

Sarebbe opportuno fare emergere quanti sono diventati irregolari come «overstayers» (perché rimasti sul territorio italiano oltre il tempo consentito), attraverso il ravvedimento operoso, non solo con regolarizzazioni a ondate.

Ci vorrebbe un ampliamento dei ricongiungimenti familiari che tenga nel debito conto la diversa ampiezza dei legami familiari nei paesi di provenienza, non limitabili solo alla moglie, ai figli, ai nonni o ai fratelli.

E sarebbe sensata una riqualificazione professionale di profughi e rifugiati presenti da tempo in Italia, con investimenti in collaborazione con il settore privato: sarebbe una risposta anche al declino e all’invecchiamento della popolazione.

Ci si può arrivare. Intanto, i Corridoi umanitari ci aiutano a rimanere umani.

Mario Marazziti

foto Marco Pavani


Ecumenismo dell’accoglienza

La ricerca dell’unità dei cristiani ha attraversato stagioni diverse. Dal Vaticano II a oggi, si è conosciuto entusiasmo, ma anche crisi e nuove distanze, che hanno rallentato il cammino.

La stessa preghiera sacerdotale di Gesù e l’imperativo a essere una cosa sola, sgorga dal cuore della Passione, dentro un confronto agonico con il male. Il Male è anzitutto divisione. E i suoi frutti sono terribili. Il Concilio Vaticano II è stato una risposta dello Spirito, dopo la tragedia della II Guerra Mondiale.

La ricerca dell’unità si oppone alle derive centrifughe che lacerano i cristiani e i popoli. Oggi, in un tempo di rinascenti nazionalismi, appare necessario un sussulto di audacia, per porre la questione dell’unità in un mondo globalizzato e drammaticamente diviso. L’indifferenza o la disunione tra le Chiese suonano troppo simili alle chiusure nazionali di fronte alle migrazioni, ai conflitti, carestie, disastri ambientali.

Per questo i cristiani non possono condividere – anche se dolorosamente accade – il cinismo e il rifiuto opposto da populismi e paura.

Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, ha offerto un antidoto alla separazione e alla cultura dello scarto: la fraternità universale, sola medicina per le grandi piaghe dell’umanità.

Le stesse confessioni cristiane, «insieme», sono invitate a non conformarsi al pensiero corrente e a lavorare per un’umanità riconciliata e inclusiva, di cui loro stesse siano segno. Per questo, il tema dei rifugiati e dei migranti, del superamento delle barriere, dell’integrazione e dell’accoglienza, incrocia e provoca il cammino ecumenico per una risposta profonda e contagiosa alla «globalizzazione dell’indifferenza».

Il 6 marzo 2016, all’Angelus, papa Francesco citava come segno concreto di impegno per la pace e la vita, proprio «l’iniziativa dei Corridoi umanitari per i profughi, avviata ultimamente in Italia. Questo progetto pilota, che unisce la solidarietà e la sicurezza – diceva -, consente di aiutare persone che fuggono dalla guerra e dalla violenza, come i cento profughi già trasferiti in Italia, tra cui bambini malati, persone disabili, vedove di guerra con figli, e anziani». E concludeva: «Mi rallegro anche perché questa iniziativa è ecumenica, essendo sostenuta da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle chiese evangeliche italiane, Chiese valdesi e metodiste».

Si sarebbe aggiunta in seguito, tramite un accordo con la Comunità di Sant’Egidio, la Cei per un Corridoio dal Corno d’Africa.

Tutta l’esperienza dei Corridoi umanitari rappresenta un esempio evangelico e di ecumenismo della solidarietà e della giustizia. Un esempio per le persone di buona volontà, per non abbassare la soglia del nostro «rimanere umani», in un tempo difficile.

È l’immaginazione evangelica nella storia.

Conosco, con le sorelle e i fratelli valdesi, la fatica costruttiva di aprire varchi di disponibilità nella compagine delle Chiese in Europa.

Oltre all’Italia, la Francia ha visto la collaborazione della Chiesa riformata, mentre partner in Europa sono anche diversi vescovi luterani tedeschi.

A Lesbo, un protocollo di collaborazione è stato siglato con la Metropolia ortodossa di
Mitilene.

Si prosegue l’impegno perché in modo creativo e efficace, si possa ecumenicamente offrire il diritto al futuro e alla pace ai profughi siriani, eritrei, sud sudanesi, e a tutti coloro che soffrono violenza, persecuzione e tortura, e all’Europa una opportunità per non allontanarsi dall’umanesimo che è alle sue fondamenta.

mons. Marco Gnavi,
parroco di Santa Maria in Trastevere

foto Marco Pavani


Hanno firmato il dossier:

Mario Marazziti
Giornalista e scrittore, è stato editorialista per il «Corriere della Sera», «Avvenire», «Famiglia Cristiana», «Huffington Post» e portavoce della Comunità di Sant’Egidio. Presidente del Comitato per i diritti umani e poi della Commissione affari sociali della Camera dei deputati dal 2013 al 2018, è stato promotore e primo firmatario della legge di cittadinanza per i bambini immigrati (ius soli e ius culturae) e ha portato a termine la riforma delle professioni sanitarie, la legge di sostegno ai disabili gravi «Dopo di noi», e quella sul recupero degli sprechi alimentari. È cofondatore della Coalizione mondiale contro la pena di morte.

Monsignor Marco Gnavi
Parroco della parrocchia di Santa Maria in Trastevere e direttore dell’Ufficio per l’ecumenismo, il dialogo interreligioso e i nuovi culti del Vicariato di Roma, tra i responsabili internazionali della Comunità di sant’Egidio.

Luca Lorusso
Giornalista redazione MC curatore del dossier.

Archivio MC sui corridoi umanitari:
Enrico Casale, Per vincere il traffico (di migranti), MC novembre 2018.
Enrico Casale, Ecumenismo per le migrazioni, MC marzo 2019.

foto Luca Lorusso




Côte d’Ivoire, 25 anni di Consolata: In Cammino con la gente


Sommario

Il seme che dà frutto.

Storia di una presenza importante Un nuovo metodo missionario.

La Côte d’Ivoire in date Cronologia essenziale

La Consolata oggi in Côte D’ivoire Interculturalità e riconciliazione

La via della bellezza

La Cote d’Ivoire verso le elezioni presidenziali Gli spettri del passato

Hanno firmato questo dossier

 


Il seme che dà frutto

Un quarto di secolo di missione, mai solitaria, ma comunitaria, ecclesiale. In un paese straziato da crisi e guerre civili tra etnie diverse. I missionari della Consolata hanno accettato i rischi e sono rimasti con la gente. Sempre.

L’approssimarsi del 25° anniversario del nostro arrivo in Côte d’Ivoire (23 gennaio 1996) ci offre l’opportunità di raccontarvi la nostra missione in questa stupenda terra, benedetta e martoriata. Nel mio servizio all’Istituto, ho avuto la grazia di accompagnare da vicino il cammino dei nostri missionari, discernendo insieme stile, priorità e sfide della loro testimonianza e del loro servizio. Ho visto crescere il seme gettato dalla fantasia di Dio e dei nostri fratelli, e ne ho potuto contemplare i primi frutti. Anche con queste mie parole, desidero incoraggiare i passi di un percorso in cui il Signore ci chiede audacia per seguirlo e servirlo sui sentieri dell’ad gentes.

In queste pagine faremo memoria grata dei doni ricevuti e accolti in mezzo alle ripetute crisi attraversate, ci soffermeremo sulla passione con cui oggi le nostre comunità sfidano un presente non facile, e faremo nostro lo sguardo di speranza con cui i nostri missionari scrutano l’orizzonte del futuro, dandosi priorità chiare e prospettive coraggiose.

Visitando le missioni del Sud e del Nord della Côte d’Ivoire in questi anni, ho sempre incontrato un gruppo di giovani missionari che non ha mai smesso di sognare una missione «diversa», marcata da semplicità nelle strutture, desiderio di camminare al ritmo della gente e chiarezza nel pensare che la missione non sia mai un’avventura solitaria, ma un’impresa comunitaria, ecclesiale, fraterna. Inoltre – ed è questa una luce che ha rischiarato l’oscurità della recente storia di questo paese – pur essendo stati questi nostri 25 anni di missione in terra ivoriana segnati da una serie interminabile di crisi politico militari, i nostri missionari hanno scelto di non abbandonare mai la loro gente e le loro missioni. Hanno accettato tanti rischi – della ribellione e della guerra prima, dell’instabilità e dell’incertezza croniche poi – pur di restare accanto alle persone, di esserci, di non scappare. Credo che questa eredità preziosa sia un dono all’Istituto e ci indichi con semplicità che la missione è prima di tutto e soprattutto lo stile di una presenza che rende visibile la prossimità di Dio dentro ogni situazione. Buona lettura!

Stefano Camerlengo

Nell’ottobre 1985 il governo ivoriano chiese che il paese fosse conosciuto in ogni lingua come Côte d’Ivoire. Malgrado ciò, purtroppo, continuiamo a tradurlo nelle varie lingue (Ivory Coast, Costa de Marfil, Costa d’Avorio, ecc.). Solo in ambito Onu la Côte d’Ivoire fa applicare con tenacia questa sua volontà: in quella sede il nome non è mai tradotto, neanche in inglese. È per questa ragione che neanche noi lo tradurremo in queste pagine.


Storia di una presenza importante

Un nuovo metodo missionario

I primi tre missionari arrivarono tra fine ‘95 e inizio ‘96. La prima missione fu in una grande bidonville del Sud. Poi ne seguirono altre, e l’apertura al Nord. E le opere di consolazione iniziarono ad arrivare, come frutti di un grande lavoro di semina e concimazione.

Correva l’anno 1993, i missionari della Consolata celebravano il IX Capitolo generale a Roma. L’Istituto era presente in Africa fino dalla sua fondazione, ma le aree alle quali aveva offerto consolazione erano state l’Africa dell’Est, quella australe e quella centrale. Si volevano allargare gli orizzonti.

È così che è stata fatta la scelta di un paese francofono. Si voleva «esprimere la novità nello stile e nelle espressioni dell’azione evangelizzatrice dell’Istituto» (cfr. atti IX Capitolo generale).

Dopo uno studio e svariati viaggi della Direzione generale in Camerun, Repubblica Centrafricana e Côte d’Ivoire, lo Spirito Santo ha indicato quest’ultimo paese. La proposta della chiesa locale era di andare in una diocesi nuova, eretta da sei anni, per contribuire alla formazione della comunità cristiana, in una realtà di bidonville dove provare un metodo di missione nuovo.

La bidonville… per iniziare

Nel territorio della diocesi, i missionari della Consolata hanno scelto la periferia di una grande città sulla costa: San Pedro. Si tratta di una vasta bidonville chiamata Bardot (dal termine in krou «badô», ovvero «venire»). I missionari hanno cercato un luogo per inserirsi in un ambiente povero e urbano, nella semplicità di vita, di mezzi e di strutture, e con una grande prossimità alle condizioni di vita della popolazione.

È stato così che padre Armando Olaya è arrivato il 15 dicembre 1995 ad Abidjan e ha in seguito
accolto, come responsabile del gruppo, i padri Manolo Grau e Andrés García, il 22 gennaio 1996, accompagnati dal padre Richard Larose, consigliere generale. Il giorno dopo tutti e tre sono arrivati al centro Cossé-a-Dio (che vuol dire, la casa di Cossé, uno dei primi missionari della regione), un centro diocesano di accoglienza gestito dalle suore dell’Immacolata concezione di Notre Dame di Lourdes.

Poco tempo dopo l’arrivo dei missionari,
il vescovo di San Pedro, monsignor Barthélémy Djabla ha chiesto loro un impegno nella parrocchia cattedrale e ha nominato padre Armando parroco.

I frutti visibili del servizio dei missionari nel quartiere sono stati la grande sala dove la comunità cristiana della parrocchia cattedrale ha tenuto le sue celebrazioni per oltre 20 anni, fino a oggi, perché la cattedrale di San Pedro è ancora in costruzione.

Un altro frutto è stata la scuola primaria di Watté, un piccolo villaggio dell’interno, difficile da raggiungere durante la stagione delle piogge, e la scuola di Magnéry, altro villaggio. Esse offrono ognuna, ancora oggi, la scolarizzazione a più di 250 bambini. Una terza opera di consolazione è stata la maternità Consolata, vicino al terreno della parrocchia cattedrale, che ha migliorato la salute della popolazione di San Pedro e dintorni.

Tutte queste realizzazioni della missione di Bardot sono ora in gestione alla diocesi, perché la Consolata cerca di essere il lievito della pasta. È stato questo il nuovo stile che abbiamo cercato di incarnare con la nuova apertura nel paese.

Al di là delle infrastrutture, i missionari hanno sviluppato tutto un lavoro di formazione di
leaders e agenti pastorali. Hanno messo in piedi le comunità ecclesiali di base che si riuniscono ancora oggi ogni mercoledì nei diversi quartieri del territorio parrocchiale. Hanno organizzato i diversi gruppi parrocchiali, come anche l’evangelizzazione, con delle visite regolari nei villaggi dell’interno nonostante l’impraticabilità delle strade a causa della pioggia.

Babele linguistica

Una delle prime sfide per i missionari è stata l’apprendimento della lingua locale. Essendo un ambiente urbano, San Pedro era (ed è) un crocevia di culture e lingue. All’inizio, i missionari hanno fatto la scelta di imparare ognuno una lingua. Sono state selezionate il baoulé, il krou e il mooré. La prima essendo la lingua dell’etnia più numerosa in Côte d’Ivoire, la seconda è la lingua della popolazione originaria di San Pedro e la terza è la lingua dei mossì, il gruppo etnico del Burkina Faso più numeroso in Côte d’Ivoire e maggioritario nella chiesa cattolica ivoriana. Ma questo impegno, con il tempo, è diventato troppo pesante perché le comunità sono miste, con persone di lingue e origini diverse e occorreva leggere le letture e tradurre l’omelia in quattro lingue affinché tutti potessero capire.

Altri missionari che hanno partecipato attivamente allo sviluppo di questo stile di missione a Bardot sono stati padre Pietro Villa, padre Martín Serna e padre Clovis Audet.

La parrocchia cattedrale è stata riaffidata alla diocesi nel giugno 2002 e la missione chiusa nel 2003.

In mezzo alle piantagioni di palma

Un anno e mezzo dopo l’arrivo dei primi missionari, padre Flavio Pante ha raggiunto il gruppo per aprire con padre Andrés García la missione di Sago (che in godié vuol dire «il riso che abbiamo seminato»), località isolata nella foresta ivoriana, in un territorio dove le piantagioni di palme sono numerose a causa della raffineria situata a Bolo.

Sago è stata la prima parrocchia in quanto tale affidata ai missionari della Consolata in Côte d’Ivoire ed è ancora gestita dall’Istituto. Si tratta di un vasto territorio con strade molto degradate a causa delle piogge ricorrenti. In questa parrocchia la popolazione locale è dell’etnia Godié, ma la maggior parte dei cristiani sono immigrati del Burkina Faso che sono venuti a lavorare nelle piantagioni di palma.

Padre Zachariah King’aru ha completato la comunità di missionari quattro mesi dopo. I tre abitavano in una piccola casa e hanno cominciato la costruzione della missione e della chiesa sotto la direzione del fratello Pietro Menegon, arrivato a questo scopo.

La realtà pastorale di Sago era molto sfidante, perché la popolazione locale, i Godié, frequentava molto poco la chiesa cattolica e gli agenti pastorali più presenti erano burkinabè. Questo creava difficoltà nella continuità del lavoro pastorale, perché gli agenti più impegnati viaggiavano sovente per andare al loro paese di origine. Era complicato programmare le attività della pastorale.

I missionari hanno fatto un lavoro instancabile per arrivare a tutti i villaggi con una certa frequenza e per stabilire una pastorale d’insieme su tutto il territorio della parrocchia, malgrado le difficoltà nelle vie di comunicazione. Il lavoro di formazione dei leaders e l’impegno dei laici sono stati fondamentali per l’evangelizzazione e la formazione della gente del posto.

Altri missionari hanno integrato nel tempo l’équipe di Sago: padre Victor Kota (dal gennaio 2000), padre Joseph Oguok (2001) e p. Killian Muli (settembre 2002). È stato quello un tempo di grande creatività e scoperta pastorale perché l’Africa Occidentale è molto diversa dall’Africa dell’Est nell’espressione della sua religiosità e nella sintesi che è stata fatta con le religioni tradizionali.

Sul bordo del mare

Nel 1999 monsignor Djabla ha chiesto ai missionari la loro disponibilità a gestire la parrocchia Notre Dame de la Mer di Grand-Béréby. Questa parrocchia era stata fondata dai missionari Sma (Società missioni africane) che l’avevano resa alla diocesi. Ma il vescovo non aveva preti diocesani da inviare. Si trattava di una parrocchia immensa con molte sfide per la missione.

Dopo un discernimento, e come servizio alla chiesa locale, l’Istituto ha accettato la richiesta del vescovo, mettendo come condizione che dopo un certo tempo la parrocchia sarebbe tornata nuovamente alla diocesi.

Quella di Grand-Béréby (che significa in Krou «l’imbarco di Bébé») era una missione paradisiaca. Era costruita in cima a una collina, mentre il villaggio era ai piedi della stessa. In fondo, il mare si apriva verso l’infinito. Quando si stava seduti sulla terrazza della missione, il cuore era pieno di pace e di speranza per la costruzione del Regno di Dio.

Sono stati i padri Pietro Villa e Willy Ipan con il fratello Rombaut Ngaba che hanno cominciato il lavoro in questa missione. Si sono spesi per arricchire la pastorale con un servizio di consolazione concreto, cosa che caratterizza i missionari della Consolata. Così, fratel Rombaut che è infermiere, ha realizzato un dispensario, che ha portato molta consolazione alle popolazioni di Grand-Béréby.

Malgrado la vastità della parrocchia e la difficoltà legata alle vie di comunicazione per arrivare a tutte le cappelle, i missionari sono riusciti a costruire insieme alla gente la chiesa di Adjaméné, dedicata al beato Giuseppe Allamano, che resta un punto di riferimento ancora oggi.

I missionari hanno anche costruito una scuola primaria nel villaggio di Ménéké. È così che poco alla volta ha preso forma la caratteristica fondamentale dei missionari della Consolata in questo paese: le opere di consolazione in zone isolate, sempre ascoltando i bisogni della popolazione. La parrocchia è stata resa alla diocesi nel 2006.

Apertura a Nord

Nel febbraio 2001, i missionari della Consolata in Côte d’Ivoire hanno tenuto la loro prima conferenza, nella quale hanno deciso di passare da Gruppo a Delegazione, un passaggio importante che esprime la stabilità della presenza nel paese. L’hanno messa sotto la protezione del beato
Giuseppe Allamano e hanno fatto questo passaggio in presenza del consigliere generale, padre Norberto Louro. Durante quella stessa conferenza, i missionari hanno deciso che era il momento di rispondere affermativamente a una lettera mandata loro dal nunzio in Côte d’Ivoire nel 1997. Essa chiedeva la presenza della Consolata in una nuova diocesi che era stata eretta il 19 dicembre 1994 nel Nord del paese. Ma in quel momento la Consolata era appena arrivata e non aveva del personale per fare quel passo. Ora però, dei nuovi missionari erano appena arrivati: i padri Michael Wmunyu e il sottoscritto Ramón Lázaro Esnaola.

I criteri che hanno motivato la scelta, al di là della richiesta del nunzio, sono stati: la ricerca di un dialogo interreligioso concreto e nella vita quotidiana (il Nord è a prevalenza musulmana); una realtà culturale più uniforme che permettesse l’apprendimento e l’utilizzo di una lingua e uno sforzo significativo d’inculturazione; un servizio alla chiesa locale, in quanto all’arrivo dei missionari nella diocesi, non c’era neppure un prete diocesano.

La prima sfida è stata quella dell’apprendimento della lingua, così i due missionari sono andati a Korhogo, nel Nord, per imparare il tchébaara presso i missionari d’Africa, che erano gli unici a celebrare nell’idioma locale. Non esisteva né un dizionario, né una grammatica. L’unico aiuto era un sillabario e molto entusiasmo e amore per la missione ad gentes. Solo il Nuovo Testamento e i Salmi erano tradotti.

Alla fine di maggio 2001, i due missionari sono arrivati a Dianra («leone» in tchébaara) per fondare la nuova missione, la parrocchia Saint Paul. Due mesi dopo si è unito loro padre Flavio Pante, che era in missione a Sago, per contribuire con la sua esperienza e saggezza missionaria in questo nuovo contesto.

I primi cristiani erano arrivati a Dianra nel 1980, non c’era ancora una seconda generazione di cristiani, quindi si trattava di una missione di prima evangelizzazione.

I missionari hanno cominciato un lavoro immenso di conoscenza della lingua, delle strade, dei villaggi, dei responsabili dei villaggi. Il territorio della missione era scarsamente popolato in confronto a quello di Bardot, Sago e Grand-Béréby, ma era più esteso. C’erano delle comunità a 75 km a Sud e a 95 km a Nord della missione. La prima strada asfaltata era a 100 km. Le popolazioni locali erano molto legate alle loro tradizioni, come ad esempio il «poro» (iniziazione tradizionale delle popolazioni senoufo che dura sette anni). Le sfide erano tutte nuove ma con un’intensa vita di fraternità e un forte lavoro di équipe, i nostri hanno saputo rispondere. Hanno subito realizzato una scuola di alfabetizzazione per i bisogni più urgenti, e hanno iniziato a tradurre i testi liturgici e catechetici in tchébaara per avvicinare la parola di Dio alla gente. Sono arrivati a celebrare l’eucarestia in questa lingua come anche tutti i canti liturgici.

Alla frontiera della Mecca

Un anno dopo l’apertura di Dianra, i missionari hanno aperto una nuova missione in quell’area, situata a 80 km Sud Est. Si trattava di Marandallah (in koro significa «alla frontiera della Mecca»). Questa missione era in territorio Koro, una delle etnie Mandé caratterizzate dal fatto di essere tutti musulmani. La popolazione cristiana che abitava in questo territorio, una minoranza, apparteneva a diverse etnie del gruppo Senoufo, quindi si poteva utilizzare la lingua tchébaara che i missionari conoscevano.

Gli inizi della parrocchia Saint Jean Baptiste di Marandallah non sono stati per nulla facili, perché una parte della popolazione locale vedeva con diffidenza l’installazione di una missione cattolica sul suo territorio. Pensavano che i missionari venissero per convertire i musulmani e sconvolgere l’equilibrio del villaggio.

È stato padre Flavio a cominciare questa missione insieme a padre Martin Serna. A un certo momento la popolazione si è resa conto che i missionari venivano per condividere la loro fede e migliorare la qualità di vita della popolazione attraverso la salute, l’ascolto, l’alfabetizzazione dei bambini.

In entrambe le missioni del Nord, il Vangelo era arrivato recentemente e la diocesi si stava formando, per cui le iniziative erano lasciate alla creatività e alle forze di ogni parrocchia. Anche le visite erano complicate, e occorreva almeno una giornata di viaggio per arrivare dalla sede dell’episcopato a Dianra o Marandallah, quando la pista era praticabile.

Oltre ad alfabetizzazione e salute, le opere di consolazione sono state mettere in piedi un programma di microcredito per le donne che ha molto aiutato a migliorare l’economia famigliare. Nato nel 2005, continua tutt’oggi.

Tutte queste iniziative hanno reso più naturale il dialogo interreligioso in questo contesto del Nord della Côte d’Ivoire. Questo dialogo è compreso nella chiesa a quattro livelli: il dialogo nella vita, il dialogo per la pace e la giustizia, il dialogo teologico e il dialogo spirituale. I missionari della Consolata hanno cominciato nel Nord con i primi due livelli e ci sono stati momenti in cui hanno messo in pratica il quarto livello.

La crisi politica

Un fatto ha condizionato la storia dei missionari della Consolata in Côte d’Ivoire: la guerra civile scoppiata il 19 settembre 2002, che ha diviso il paese in due durante otto lunghi anni (cfr. MC ottobre 2003 e MC agosto 2004). I ribelli hanno preso il controllo della metà Nord del paese, mentre l’esercito fedele al governo controllava la metà Sud. La missione delle Nazioni unite, l’Onuci, insieme al contingente francese Licorne, ha occupato la «zona di fiducia» che si interponeva tra i belligeranti, impedendo così gli scontri.

Il conflitto ha tagliato in due anche la presenza della Consolata nel paese. Sia nel Nord come nel Sud, i missionari hanno fatto la scelta di rimanere con la popolazione. Questa scelta ha marcato la loro presenza in quanto hanno vissuto le stesse privazioni della gente. Ha inoltre dato valore e autorevolezza ai missionari, non solo al Sud, ma anche al Nord, dove rappresentavano una minoranza. L’inserimento, che era stato uno stile voluto dalla Consolata all’inizio, è stato vissuto nuovamente, in particolare nelle due missioni del Nord. In quel momento non c’erano infermieri né medici, né rete telefonica o internet, nessuna banca era aperta nel Nord del paese e non c’erano che rari trasporti pubblici per spostarsi. È stato grazie ai missionari che sono rimasti al Sud, che quelli del Nord hanno potuto restare al servizio della popolazione.

I padri Michael Wamunyu e il sottoscritto sono rimasti isolati dall’esterno per quattro mesi a Dianra. È stato a metà febbraio del 2003 che il padre Zachariah King’aru, superiore della Delegazione in quel momento, ha accompagnato nel Nord i padri Pante, di ritorno dall’Italia, e Serna, che doveva inserirsi a Marandallah, e ha portato un telefono satellitare con il quale è stato possibile comunicare con l’estero per i restanti sette anni di crisi. Una volta alla settimana i quattro missionari rimasti al Nord chiamavano il superiore al Sud per dargli notizie.

Nel viaggio di ritorno padre King’aru è stato bloccato dai ribelli prima della zona di «fiducia» e arrestato per una notte. La sua auto è poi stata confiscata.

È importante notare che le due missioni della Consolata al Nord sono state le sole missioni cattoliche in quella parte del paese a non essere state saccheggiate dai ribelli in quegli anni. Quando, diversi anni dopo, i missionari hanno fatto delle ricerche presso la popolazione locale, hanno saputo che le autorità tradizionali li avevano protetti dicendo ai ribelli che «toccare i missionari sarebbe stato come toccare le loro famiglie». Nel momento del conflitto, i nostri si erano messi nelle mani della Provvidenza.

Il direttore del collegio pubblico di Dianra, dopo il conflitto, ha chiesto ai missionari di aiutarlo per la ripresa dei corsi. Così i padri hanno dato corsi di spagnolo, il che ha permesso loro di entrare in contatto con molte famiglie che non erano cristiane.

A Sud i missionari hanno vissuto momenti molto difficili, perché la popolazione accusava gli immigrati (come i burkinabè) di essere responsabili della ribellione, e dato che la maggior parte dei cristiani è del Burkina Faso, ci sono stati molti massacri nei villaggi della missione di Sago. I missionari, in seguito, hanno fatto un lavoro di riconciliazione che si è dimostrato molto complicato a causa delle ferite profonde rimaste nella popolazione.

Grand-Zattry

La missione, comunque, non si è fermata e la Consolata ha continuato il discernimento per definire la propria presenza nel paese. La missione di Bardot era stata chiusa nel 2003 e il vescovo chiedeva ai missionari la gestione di una nuova parrocchia. Si trattava di Saint Joseph Travailleur di Grand-Zattry, situata a circa 160 km a Nord di San Pedro. Era l’ultima parrocchia nella parte Nord della diocesi, con una grande estensione e con zone per le quali era necessaria la piroga per raggiungere tutte le comunità.

Il padre Michael Miano è andato a formare la comunità di Grand-Zattry con il padre Victor Kota. I due missionari hanno realizzato una pastorale di prossimità in un contesto in cui il gruppo etnico proprietario della terra, i Bété, era una minoranza nelle comunità cristiane che, anche qui, erano caratterizzate da una forte presenza dei Mossì del Burkina Faso. Anche qui la sfida di avere molte lingue sullo stesso territorio era presente. La formazione dei laici e la realizzazione di una pastorale coerente sono state le priorità.

Alla morte prematura del vescovo, monsignor Paulin Kouabenan (2008), al padre Victor Kota è stato chiesto di assicurare l’interim come vicario generale, fino all’arrivo del nuovo vescovo monsignor Jean-Jaques Koffi Oi Koffi.

Ritorno a San Pedro

Con l’arrivo di nuovi missionari nel 2010, nuove sfide si sono aperte. In particolare si è visto possibile il ritorno alla città di San Pedro, dove si voleva creare la sede della Delegazione e un Centro di animazione missionaria e vocazionale. Nel 2007 i missionari avevano comprato un terreno, quando padre Willy Ipan era superiore, ma non si era avuta la possibilità di costruire e di trovare il personale.

Quando la Direzione generale ha approvato il progetto, nel 2011 i missionari della Consolata hanno inaugurato la «Maison Joseph Allamano» di loro proprietà, sede della Delegazione, casa di accoglienza e Centro di animazione. Questa casa è situata al centro di un quartiere di San Pedro, Château, in continuità con lo spirito di inserimento che aveva caratterizzato l’apertura della Consolata in questo paese.

I padri Villa, Miano, Baiso, Boniface Sambu-Sambu e il sottoscritto hanno marcato l’identità di questa casa che è aperta alla realtà multi religiosa del quartiere. Inoltre hanno tessuto il dialogo interreligioso attraverso attività trasversali che toccano tutta la popolazione, come la scolarizzazione, la pace, la salute, la pulizia, il rispetto della natura.

Ramón Lázaro Esnaola


La Côte d’Ivoire in date: Cronologia essenziale

  • 1960, 7 agosto – La Francia concede l’indipendenza al paese, ma mantiene un sistema di controllo neocoloniale, applicando il modello economico di produzione di materie prime per l’esportazione (caffè, cacao, cotone, ecc.) che ha l’effetto di impoverire la popolazione rurale. Vengono attratti 4,5 milioni di lavoratori stranieri per lavorare nelle piantagioni.
  • 1960, 27 novembre – Félix Houphouët-Boigny, uomo legato alla Francia, viene eletto presidente. Verrà rieletto per sette mandanti consecutivi, rimanendo presidente fino alla morte, nel 1993.
  • 1980, 10-12 maggio – Visita di papa Giovanni Paolo II, che tornerà nel paese nel 1985 e nel 1990 (quando consacra la basilica di Yamoussoukro).
  • 1983, 21 marzo – Yamoussoukro diventa la capitale politica e amministrativa del paese.
  • 1988, 8 maggio – Ritorno nel paese di Laurent Gbagbo, che è stato in esilio per sei anni dopo le manifestazioni studentesche del 1982.
  • 1989, 5 maggio – Instaurazione ufficiale del multipartitismo, su stimolo della Francia. Fino a questo momento il partito unico Pdci ha favorito l’etnia baulé (di Boigny) ma lasciato autonomia ai capi locali, fatto regalie ed eliminato gli oppositori più ostici. Intanto dilaga la corruzione e il nepotismo nella classe politica. Sul mercato mondiale crollano i prezzi di caffè, cacao e cotone. Il debito estero è quadruplicato e il paese accetta le politiche di aggiustamento strutturale della Banca mondiale. La crisi economica costringe molte etnie del Nord (in maggioranza musulmani) a migrare al Sud. Nascono attriti con la popolazione locale.
  • 1993, 7 dicembre – Muore Félix Houphouët-Boigny e assume la presidenza Henri Konan Bedié, anche lui baulé, presidente dell’Assemblea nazionale.
  • 1994, 8 dicembre – Nuovo codice elettorale che prevede regole stringenti sull’ascendenza ivoriana dei candidati. È l’inizio dell’«ivoirité».
  • 1995, 22 ottobre – Bedié vince le elezioni presidienziali, cavalcando il malcontento delle etnie del Sud. Grazie all’ivoirité, Bedié mette fuori gioco Alassane Ouattara, già primo ministro di Boigny, che ha un genitore burkinabè.
  • 1999, 24 dicembre – Colpo di stato del generale Robert Gueï.
  • 2000, 23 luglio – Adozione di una nuova Costituzione e un nuovo Codice elettorale.
  • 2000, 22 ottobre – Elezioni presidenziali: vince Laurent Gbagbo, ma il generale Gueï si dichiara vincitore. Scoppiano disordini tra i sostenitori di Gbagbo e quelli di Alassane Ouattara, il cui partito Rdr, aveva boicottato lo scrutinio a causa dell’ivoirté. Inizia una stagione di discriminazioni e persecuzioni ai danni degli ivoriani del Nord e degli stranieri. Gbagbo organizza un forum per la riconciliaizone (dicembre 2001) ma non metterà mai in pratica le proposte dei delegati.
  • 2002, 19 settembre – Scoppia una rivolta di militari fedeli a Gueï, che il governo vuole smobilitare. È il pretesto per il Movimento patriottico della Côte d’Ivoire (Mpci), parte dell’esercito che controlla il Nord del paese, per tentare un colpo di stato. Gueï viene ucciso, Ouattara si rifugia in ambasciata. Scatta la repressione per chiunque sia del Nord o di origini straniere. Molti immigrati lasciano il paese. Ad Ovest si formano altri due gruppi ribelli che si alleano con l’Mpci creando le Forces Nouvelles con a capo Guillaume Soro. Gbabgo, contrappone le Fanci e impiega mercenari sudafricani. La Francia mobilita i suoi militari con l’operazione Licorne, blocca l’avanzata dei ribelli da Nord e il paese rimane diviso in due.
  • 2003, gennaio – La Francia tenta una mediazione e coinvolgendo Cedeao e Nazioni unite. Si firmano gli accordi di Marcussis, che però sono disattesi da Gbabgo. Gli accordi prevedono il dispiegamento di una forza militare dell’Onu, l’Onuci. La guerra civile continua tra governi di coalizione, impossibilitati a lavorare e massacri con tanto di fosse comuni. L’Onu parla di un milione di sfollati interni. Le elezioni del 2005 non si riescono a tenere, Gbagbo si mantiene al potere.
  • 2007, 4 marzo – Firma degli accordi di Ouagadougou tra Gbagbo e Soro. Quest’ultimo diventa primo ministro. Nel luglio una cerimonia sancisce la fine ufficiale della guerra. Un anno dopo si inizia il disarmo dei ribelli e un censimento elettorale.
  • 2010, novembre – Elezioni presidenziali che contrappongono Ouattara a Gbagbo. Secondo la Commissione elettorale e l’Onu è il primo a vincere, ma per il Consiglio costituzionale è Gbagbo il vincitore. Si apre una crisi post elettorale, con violenti scontri tra i sostenitori dei due politici, nei quarieri di Abidjan e in altre città, che porterà a circa 3mila morti. I massacri termineranno con la fine della battaglia di Abidjan, nel maggio 2011.
  • 2011, marzo – L’Unione africana riconosce Ouattara presidente. Nell’aprile Laurent Gbagbo e la moglie Simone sono arrestati. Saranno processati dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità. Arrestato anche Charles Blé Goudé, il capo della milizia pro Gbagbo. Ouattara è rieletto nel 2015 per il secondo mandato.
  • 2016, ottobre – Promulgata la nuova Costituzione. È la fine dell’ivoirité. Ma.Bel.


La Consolata oggi in Côte D’ivoire

Interculturalità e riconciliazione

La presenza della Consolata nel paese è oggi consolidata, con 4 comunità al Sud e 2 al Nord. Una casa di formazione e un percorso che sta portando ad avere missionari ivoriani nell’Istituto. Intanto le priorità per il futuro sono chiare e lo stile di missione è sempre la vicinanza alla gente e la semplicità di vita.

La nostra missione e presenza in Côte d’Ivoire oggi è costituita da sei comunità missionarie: quattro al Sud e due al Nord. Partendo dal Sud, dalla capitale economica Abidjan, abbiamo la nostra casa di formazione Bienheureuse Irene Stefani. L’impegno nell’ambito dell’accompagnamento vocazionale dei giovani è stato sancito dalla terza conferenza della Delegazione, nel 2012. Da allora, un numero crescente di giovani – che già da tempo bussavano alla porta del nostro carisma – è stato accolto nelle nostre comunità per un tempo di conoscenza, approfondimento e discernimento. Questo cammino ci ha progressivamente orientati dapprima a iniziare l’esperienza dell’anno propedeutico e, in un secondo momento, ad avviare la comunità del nostro seminario filosofico: comunità che ha effettivamente preceduto la casa che l’accoglie. Questa è stata inaugurata il 31 ottobre 2016, giorno della festa della beata Irene Stefani, di cui porta il nome. Attualmente, insieme ai padri formatori John Baptist Ominde Odunga (keniano) e Legowa André Nekpala (congolese), ci vivono tre giovani che frequentano l’anno propedeutico e quattro studenti di filosofia. Di questo percorso al servizio delle nuove vocazioni il frutto più maturo è Léon Gomé Dékry che attualmente, dopo l’anno di noviziato in Kenya, sta preparandosi a iniziare la teologia in Italia: Léon è il primo ivoriano missionario della Consolata.

Una casa aperta

Le altre tre comunità del Sud sono tutte situate nella diocesi di San Pedro, la prima in cui, come missionari della Consolata, abbiamo iniziato il nostro lavoro e la nostra evangelizzazione.

Una di queste comunità è situata in uno dei quartieri più popolari di San Pedro, il quartiere Château, che si congiunge e perde nel Bardot, la bidonville dove nel 1996 si è inserita la nostra prima comunità. Qui, a poche centinaia di metri dal Château (e cioè dall’acquedotto), abbiamo la sede della nostra Delegazione ed il Centro di animazione missionaria. I due missionari che attualmente qui condividono vita e testimonianza sono l’amministratore della Delegazione, padre Daniel Yoseph Baiso, etiope, e il responsabile dell’animazione missionaria vocazionale, padre Boniface Sambu-Sambu, originario della Rdc.

Sorgendo nel territorio della parrocchia della cattedrale, questa nostra presenza si inserisce in modo particolare nel tessuto pastorale della comunità locale, ma si pone anche al servizio delle altre parrocchie della grande città portuale di San Pedro. I nostri missionari offrono un contributo prezioso alla chiesa locale nell’ambito della pastorale delle comunità di base e della pastorale del mare, di cui sono i referenti diocesani. Ciononostante, il servizio più significativo che questa comunità offre al quartiere e alla chiesa di San Pedro si situa ad un altro livello, più proprio del nostro carisma ad gentes. Infatti, la nostra casa è un luogo aperto e accogliente, dove i giovani di ogni credo ed etnia (allogena o straniera) trovano la «loro» casa. I nostri locali sono aperti (malgrado i rischi di furti che ogni tanto si verificano) per chi volesse trovare spazi illuminati e raccolti per lo studio personale come anche per chi decidesse di iscriversi ai corsi di alfabetizzazione serale. Quest’attenzione a un’apertura costante e senza stretti vincoli ci ha permesso di essere accolti senza pregiudizi da parte delle varie componenti umane del quartiere e, anche attraverso iniziative mirate (proiezione di film e cartoni animati dopo cena, settimane di giochi per i bambini vissute e programmate con gli stessi giovani del quartiere, giornate a tema per la formazione dei giovani sulle tematiche più attuali e diverse, ecc.), sta crescendo il raggio d’influenza della nostra discreta presenza di servizio gratuito e consolazione.

Negli ultimi anni è anche sorto un gruppo di Amici della Consolata che si sta progressivamente aprendo al nostro carisma e al nostro stile di vivere il Vangelo di Cristo che è vita e consolazione per tutti. In questo senso, la comunità di San Pedro sta studiando la modalità di dar forma a una struttura capace di accogliere meglio e moltiplicare queste iniziative di animazione, formazione ed «evangelizzazione di prossimità».

Sago e Grand-Zattry

Le altre due presenze sono due parrocchie: una a Sago, nel cuore della foresta pluviale tropicale, tra i Godié, e l’altra a Grand-Zattry, in pieno paese Krou, tra i Bété (l’etnia dell’ex presidente Laurent Gbagbo).

Attualmente a Sago vivono tre padri: Michael Mwatha Miano, originario del Kenya, Celestino Marandu e Gregory Cyprian Mduda, entrambi tanzaniani. Questa missione, iniziata il 14 novembre 1997, si caratterizza per essere la prima presenza fuori da San Pedro, dopo quasi due anni dall’arrivo dei primi tre missionari della Consolata nel Bardot. La sua vastità impressiona: comprende infatti 41 cappelle suddivise in ben sei zone pastorali. Nonostante i numerosi cambiamenti e l’innegabile processo di miglioramento delle infrastrutture di quest’ultima decade, Sago resta ai margini delle principali vie di comunicazione e gli oltre 20 km di pista, spesso quasi impraticabile, la isolano ancor di più. I servizi di base (acqua, corrente, presidi sanitari, scuole di qualità) restano un miraggio per la maggior parte della sua popolazione, che vive prevalentemente di agricoltura (piantagioni di cacao, palma da olio e caucciù, oltre che di prodotti alimentari di consumo domestica) e di piccolo commercio.

In questo contesto, i missionari hanno accompagnato l’evangelizzazione con uno stile di vicinanza e di attenzione ai bisogni concreti della gente, promuovendo in particolare l’educazione dei più piccoli. In tal senso, dal 2005 è nata la scuola elementare «Consolata», che oggi è un’eccellenza educativa del distretto e della regione. Nel solo anno scolastico 2018-2019 la scuola ha avuto 261 studenti, di cui 123 bambine. Dei 50 che si sono presentati all’esame per passare alla scuola secondaria, nessuno è stato bocciato: tutti (26 ragazzi e 24 ragazze) hanno ottenuto il loro diploma di Cepe (Certificat d’études primaires élémentaires). Si pensi che il tasso nazionale di riuscita al Cepe nel 2019 è stato dell’84,48%. La nostra scuola elementare «Consolata», oltre a garantire un’istruzione di qualità per tutti, a partire dai più poveri (i missionari, attraverso una rete di solidarietà internazionale, riescono a trovare borse di studio per chi è economicamente più svantaggiato), è un autentico laboratorio di incontro e dialogo tra piccoli (e famiglie) di credo, tradizioni ed etnie differenti.

Il mosaico etnico di Grand-Zattry

Un mosaico di gruppi etnici costituisce anche il sottofondo socio culturale della missione di Grand-Zattry. Eretta nell’aprile del 2004, conta oggi 25 cappelle in un territorio di circa 1.750 km2 e 120mila abitanti. I musulmani rappresentano il 35% della popolazione, mentre i cristiani circa il 40%. Di questi ultimi, solo il 2% sono cattolici. Oltre il 20% della popolazione segue la religione tradizionale africana. Attualmente la missione è animata da una comunità di due padri: James Mwangi Gichane, keniano, e Fidelis Francis Massawe, tanzaniano. Fino al mese di agosto, vi operava anche il missionario italiano padre Silvio Gullino, rientrato in patria per salute dopo ben 17 anni vissuti nel paese, di cui i primi 14 a Sago e gli ultimi 3 proprio a Grand-Zattry.

Una delle sfide maggiori di questa nostra presenza è quella dell’inculturazione del Vangelo nella grande famiglia del popolo Krou (e dei suoi sottogruppi). La maggior parte dei cristiani proviene infatti da altre latitudini del paese o è addirittura di origine straniera (del Burkina Faso in particolare). La chiesa rischia di essere dunque una comunità estranea al contesto autoctono.

La convivenza tra locali, allogeni e stranieri – soprattutto a partire dagli anni Novanta e dalla disputa sull’ivoirité – è divenuta molto complessa. Le sue cause socio economiche sfidano in profondità la nostra testimonianza evangelica e ci provocano a una sempre maggiore immersione nell’intricato ed incandescente mondo interculturale che ci accoglie.

Negli ultimi anni, l’impegno di promozione umana ha visto la comunità crescere nella lettura della realtà educativa e sanitaria, impegnandosi in un sostegno puntuale e mirato ad alcune strutture pubbliche (scuole primarie e dispensari), migliorando in tal senso il servizio offerto alla popolazione sia attraverso la creazione di infrastrutture di appoggio come nell’impegno di mediazione per l’arrivo di fondi per la lotta alla malnutrizione.

Missione tra gli islamici

Jarden de l’Amitié a Marandallah

Nel Nord della Côte d’Ivoire siamo stati accolti nel 2001 nella diocesi di Odienné. Attualmente siamo presenti a Dianra e Marandallah.

Alla comunità di Marandallah – composta dai padri Alexander Ashivaka Likono, Zachariah King’aru entrambi keniani, e Wema Meta Duwanghe, tanzaniano – è affidata una parrocchia in cui i cattolici sono circa 700 e rappresentano poco più dell’1% della popolazione. Le piccole comunità cristiane sono circa 25, di cui soltanto 10 possono radunarsi in una chiesetta, e sono sparse in una superficie di 4.427 km2, estensione che corrisponde al territorio della nostra immensa missione. Nel Nord del paese la popolazione è prevalentemente musulmana: ad esempio a Marandallah, lo sono ben l’80% degli abitanti. I missionari, inseriti in un contesto in cui i cristiani sono degli allogeni senufò ospiti dei Korò (un sottogruppo dell’etnia malinké), si ritrovano spesso a mediare e accompagnare un clima di non facile convivenza interetnica e intercomunitaria. Ciononostante, le differenti fedi non sono mai state sorgenti di conflitto, ma piuttosto di fraternità cordiale, stima reciproca ed amicizia. Un segno eloquente di questo rispetto tra differenti fedi è il «Giardino dell’amicizia», realizzato dai missionari in un terreno donato loro dai notabili musulmani e che ospita uno spazio di preghiera con al centro Nostra Signora di Fatima, oltre che un percorso ludico e ricreativo nel verde della savana erbosa. Infine i padri amministrano il centro sanitario Nostra Signora della Consolata che, nato nel 2007, è il primo presidio sanitario della prefettura. Eccellenza nel distretto sanitario per la qualità dei vari servizi offerti, è anche il centro di riferimento per le trasfusioni di sangue, l’accompagnamento dei malati di Aids e la lotta alla malnutrizione.

Parola d’ordine: «interculturalità»

A Dianra la fraternità missionaria è fortemente segnata dall’interculturalità in quanto è composta da tre padri di tre nazionalità e tre continenti diversi: Ariel Osvaldo Tosoni, argentino, Raphael Njoroge Ndirangu, keniano, e il sottoscritto Matteo Pettinari, italiano. Questa diversità si fa comunione nel servizio alla missione nella realtà concreta delle comunità cristiane di Dianra e Dianra Village. Anche qui i cattolici sono una minoranza che si aggira intorno al 4% e sono disseminati in 50 villaggi (dove talvolta sono soli o in piccoli nuclei di meno di 5 persone) e sono sparsi su 3.009 km2. A Dianra Village i missionari amministrano un’opera di consolazione, il centro sanitario Giuseppe Allamano. I passi dell’ad gentes percorrono anche qui i sentieri del dialogo interreligioso, fatto di fraternità feriale e semplice con il mondo «altro» che ci circonda. Ogni progetto e iniziativa di consolazione (microcredito per donne, alfabetizzazione serale, impegno nel mondo della salute, sensibilizzazioni di vario tipo nei villaggi…) si colora di attenzione verso l’altro e la sua tradizione spirituale. In vari di questi ambiti, fratelli e sorelle musulmani non sono soltanto destinatari delle iniziative della missione, ma anche corresponsabili e partecipi della loro ideazione e realizzazione. In un quotidiano semplicemente condiviso e nel servizio alla vita, le barriere e gli steccati cadono con naturalezza e lasciano posto alla spontaneità della fiducia e della prossimità concreta.

Per un futuro di speranza

Da quanto condiviso, emerge che quattro sono le priorità e prospettive della nostra attuale presenza missionaria. L’ultima conferenza della Delegazione (2018) e la riflessione avviata per il venticinquesimo della nostra presenza, ci stanno permettendo di riscoprire in esse innanzitutto uno stile di presenza e di missione che ci contraddistingue come missionari della Consolata in Côte d’Ivoire. Questo stile – che raccoglie come eredità preziosa una memoria condivisa – ci proietta nel futuro ed è fatto di prossimità e vicinanza alla gente, in semplicità di vita e fraternità apostolica. Questa prossimità non è mai venuta meno nei tanti momenti di crisi che hanno costellato i primi 25 anni della nostra presenza in questo paese ed è stata capace di attraversare innumerevoli difficoltà, ostacoli e contraddizioni.

Scrutando l’orizzonte della missione, con questo stile ci sentiamo dunque di continuare a percorrere i quattro sentieri del nostro ad gentes in Côte d’Ivoire:

  • la prima evangelizzazione, e cioè l’essere presenti come una comunità che vive la diversità e pffre testimonianza evangelica in un contesto prevalentemente non cristiano;
  • la consolazione, che per noi è l’altro nome della promozione umana, attraverso progetti e opere concrete, nell’ambito educativo e sanitario in modo particolare;
  • il dialogo interreligioso, inteso soprattutto come fraternità interreligiosa intessuta intorno al servizio della vita;
  • infine, ma non ultima, l’animazione missionaria della chiesa locale: una chiesa giovane e ricca di potenzialità, che desideriamo servire ed aprire agli orizzonti sconfinati della missione di Cristo. Gli orizzonti, appunto, della missione.

Matteo Pettinari


La via della bellezza

Il perché della missione coincide con il desiderio infinito del Padre di rigenerare umanità, creazione e storia in Cristo e nel suo amore tenero e fedele. Il suo come varia attraverso epoche, contesti e coordinate di vario tipo (antropologiche, socio economiche, psico sociali, ecc.). Eppure, se «la bellezza è lo splendore della verità» e se «Dio è Amore» (1Gv 4, 16), la concretezza dei gesti della carità e lo stupore che genera la bellezza, saranno sempre e ovunque i sentieri attraverso i quali il Vangelo potrà fecondare cuori e culture. Forti di questa convinzione, nel 2012 abbiamo intrapreso un lungo cammino che ci ha condotti alla dedicazione della nuova chiesa San Giuseppe Mukasa di Dianra Village il 3 marzo 2019. Questo progetto è nato e si è sviluppato innanzitutto nel cuore della comunità di Dianra Village che, nascendo come nuova parrocchia e avendo un importante numero di fedeli, non aveva però ancora una chiesa come sede e centro della nuova comunità parrocchiale.

 

Questo desiderio è stato accolto dal vescovo diocesano e fatto proprio dai missionari. In realtà, i padri ne hanno approfittato per mettere tutta la comunità in «stato di cantiere», e hanno trasformato il cantiere stesso in laboratorio di catechesi, fede e lavoro condiviso. E così la liturgia e la catechesi si sono sposate con l’architettura, mentre la Parola si faceva di nuovo visibile attraverso la bellezza dei colori e delle forme. Ora lo stupore prende la mano di chi si avvicina ed entra nella chiesa, mentre la comunione colorata dei santi e della Gerusalemme celeste sembra scendere nel cuore della savana, trasfigurando materiali, forme e stili culturali tradizionali che sono a loro volta integrati nella storia della salvezza. Sottolineiamo inoltre che tutto ciò ha potuto realizzarsi grazie alla comunione di amicizia con tanti che ci hanno appoggiato spiritualmente, tecnicamente e finanziariamente. Tutta questa storia ci parla di un percorso bello, lungo e faticoso, fatto di slanci e piccoli passi, di Provvidenza e incontri inaspettati, di sorprese e gratuità… in una parola, del mistero di comunione missionaria che è la Chiesa, segno vivente dell’inizio del Regno nel cuore del mondo. Un segno di cui questa chiesa è un’ulteriore testimonianza fatta architettura e arte, capace di parlare della bellezza di Dio e della vita nuova in Cristo a chiunque la contempli.

Matteo Pettinari


La Cote d’Ivoire verso le elezioni presidenziali
Gli spettri del passato

In questo mese gli ivoriani saranno chiamati a eleggere il presidente della repubblica. In momenti storici recenti, le elezioni sono state foriere di scontri, uccisioni e di una guerra civile. Oggi si ripresentano i politici del passato. Sullo sfondo una riconciliazione mai avvenuta del tutto. Vediamo cosa può succedere.

Il 24 agosto scorso il presidente Alassane Dramane Ouattara ha depositato la sua candidatura per le elezioni presidenziali del 31 ottobre prossimo. Nulla di nuovo, sembrerebbe, se non fosse che Ado (come viene chiamato dai connazionali) si candida per la terza volta al posto di capo dello stato, quando la nuova Costituzione prevede un limite di due mandati.

In effetti Ouattara, presidente dal 2011, vincitore delle elezioni del novembre 2010, che avevano precipitato il paese in violenti disordini, è stato rieletto senza problemi per un secondo mandato nel 2015. Nel novembre dell’anno successivo è stata promulgata la nuova Costituzione, in quanto la vecchia aveva diversi articoli controversi, che erano stati strumentalizzati e avevano portato a una guerra civile durata quasi otto anni (2000-2008).

Dostenitori di «Ado» / Foto di Issouf SANOGO / AFP)

Parola di politico

Nonostante l’abitudine africana di mantenersi al potere, Ouattara, solo nel marzo scorso, aveva solennemente promesso di fronte ai parlamentari in seduta unificata, che non si sarebbe ricandidato alla sua successione, con l’obiettivo di passare il testimone alle «nuove generazioni». Allora cosa è successo? Il suo partito al potere, l’Rhdp (Raggruppamento dei houphouëtistes per la democrazia e la pace), aveva indicato come candidato il primo ministro Amadou Gon Coulibaly, che però è morto improvvisamente, in seguito a un infarto, lo scorso 8 luglio. A quel punto il partito ha chiesto ad Ado di tornare in pista, ma lui ha preferito attendere alcune settimane prima di dare l’ok.

«I partiti di opposizione sono contrari alla ricandidatura di Ouattara, e la vedono come una violazione della Costituzione», ci racconta il giornalista Innocent Beugré, raggiunto telefonicamente ad Abidjan. L’opposizione ha lanciato l’appello a manifestare in tutto il paese, e giovedì 13 agosto c’è stata una prima violenta manifestazione: «Ha avuto come effetto la distruzione di molti beni pubblici ed edifici. Un commissariato è stato distrutto, diversi autobus incendiati e si contano quattro morti e oltre un centinaio feriti.
I rischi di ulteriori disordini sono reali, perché l’opposizione non vuole mollare».

I partigiani di Ouattara non stanno a guardare e, scesi pure loro in piazza, hanno dato origine a veri scontri con gli oppositori di diverse città della Côte d’Ivoire.

Ma vediamo come è composta l’opposizione politica.

Alassane Ouattara. presidente della Côte d’Ivoire / Foto di Issouf SANOGO / AFP

Dinosauro africano

Candidato del Pdci (Partito democratico della Côte d’Ivoire) ritroviamo l’ottantaseienne Henri Konan Bedié. Già presidente dell’Assemblea nazionale dal 1980 e primo presidente della Repubblica dal 1993 dopo la morte di Félix Houphouët-Boigny, il padre della patria. Fu poi destituito dal golpe di Robert Guëi alla vigilia di Natale del 1999. Ha sempre calcato la scena politica ivoriana.

Ci dice ancora Beugré: «Bedié si è candidato, il suo partito lo sostiene e la Costituzione all’articolo 55 lo autorizza a competere. Lui si sente pronto, inoltre non è solo, è alla testa del Pdci, che è un grande partito che ha molti quadri e candidati potenziali. Inoltre è sostenuto da molti ivoriani e sta facendo alleanze. Adesso è alleato con la fazione di Laurent Gbagbo. Il Pdci ha la sua parola da dire e Bedié candidato peserà nella competizione e sui risultati finali».

Il grande sconfitto del 2010

L’altro grande assente-presente è Laurent Gbagbo. Presidente dal 2000 al 2010, ha perso le elezioni del novembre 2010 contro Ouattara, ma non ha voluto farsi da parte, così ha scatenato sanguinosi disordini, finiti nel marzo del 2011 (anche grazie all’intervento dei caschi blu dell’Onuci e dell’operazione Licorne francese) con il suo arresto e quello della moglie Simone Gbagbo. Incarcerato all’Aia è stato processato per crimini contro l’umanità. Assolto, è oggi in libertà condizionata, in attesa di un secondo grado di giudizio e non può lasciare Bruxelles. Gbagbo, però vuole tornare in Côte d’Ivoire e correre per le presidenziali, e ha fatto richiesta di un passaporto, senza – ad oggi (mentre scriviamo) – ottenerlo. Gbagbo è stato pure processato e condannato a 20 anni di prigione dalla giustizia del suo paese per furto alla banca Bceao (Banca degli stati dell’Africa dell’Ovest). Il suo partito, l’Fpi (Fronte patriottico ivoriano) si è scisso all’indomani dei disordini post elettorali del 2011, in due fazioni: una la sua e l’altra, che gli si oppone, ha candidato Pascal Affi N’Guessam, già ministro, per le presidenziali di ottobre.

«I partigiani di Gbagbo, che sono ancora molto attivi sul terreno, aspettano che lui rientri nel paese, ed è chiaro che [qualcuno] gli impedisce di rientrare perché peserebbe sulla bilancia. Se rientrasse si moltiplicherebbero le forze di opposizione. Quindi per il potere in carica, Gbagbo non deve rientrare, al contrario l’opposizione vuole averlo nel paese», sostiene il giornalista.

Una fonte della società civile, legata a un’associazione che opera per la riconciliazione, ci dice: «La questione del ritorno di Gbagbo è spinosa, ma la sua presenza in Côte d’Ivoire contribuirebbe alla ricostruzione del tessuto sociale, alla ricostruzione nazionale. Molti partiti preferirebbero che tornasse, dopo aver fatto l’esperienza della prigione all’Aia. C’è il desiderio di raggruppare tutti i figli della Côte d’Ivoire, senza condannare uno o l’altro.

Ogni partito è per sé, ma i sostenitori della fazione di Gbagbo, se lui non torna, non potranno contribuire alla riconciliazione. Occorre che tutti i leader possano ritrovarsi e discutere insieme. Mentre dal punto di vista giuridico si può impedire il suo rientro».

Sostenitori dell’ ex presidente ivoriano  Laurent Gbagbo, / foto di SIA KAMBOU / AFP

L’ex ribelle

Un altro candidato famoso, attualmente in esilio, è Guillaume Soro. Già capo dei ribelli durante la guerra civile degli anni 2000, poi primo ministro grazie agli accordi di Ouagadougou (2007-2012) e presidente dell’Assemblea Nazionale (2012-2019) durante la prima presidenza Ouattara, è oggi in Francia, in quanto condannato a 20 anni nel suo paese per appropriazione di denaro pubblico (aprile 2020) durante un processo, giudicato da alcuni un processo «politico». Successivamente è stato inquisito per crimini di guerra per fatti durante la guerra civile e anche durante la crisi post elettorale del 2011.

Ci dice ancora Innocent Baugré: «Guillaume Soro è in esilio, è incriminato per attentato alla sicurezza dello stato, lo aspettano qui per processarlo. Ci sono dei deputati a lui vicini che sono stati arrestati, durante le manifestazioni la presidente delle sezione femminile del suo partito è stata arrestata con alcuni dei suoi membri. I suoi partigiani vogliono il suo ritorno e lui dice che tornerà, ma il potere è pronto ad accoglierlo? Può essere che aspetti il momento opportuno. Occorrerebbe che a livello politico togliessero l’accusa, soprattutto perché è candidato alle elezioni presidenziali».

Anche Soro ha i suoi sostenitori che non esitano a manifestare in piazza.

Completano la rosa dei candidati due dissidenti del Rhdp, Marcel Amon Tanoh e Albert Mabri Toikeusse, un’ex miss Cote d’Ivoire, Marie Carine Blandi, e Danièle Boni Claverie, giornalista e già ministra della donna e della comunicazione.

Arresto di un dimostrante anti Quattara ad Abidjan 13/08/2020 / Foto di SIA KAMBOU / AFP

Il rischio di violenze

Il dibattito politico in queste settimane è monopolizzato sulla candidature di Ado. Secondo Innocent Beudré: «Sarebbe bastato che Ouattara rispettasse la Costituzione e anche la parola data, perché Ouattara ha detto che non si sarebbe candidato, e il presidente francese Emmanuel Marcon gli ha fatto i complimenti. E adesso si candida. La gente non capisce: perché la morte di Coulibaly può portare il presidente a violare la Costituzione? C’è poi il valore della parola data. Anche il ministro della giustizia, sotto di lui, aveva detto che non è candidabile. C’è l’onore. Questo gli ivoriani non lo accettano».

La nostra interlocutrice della società civile, che preferisce mantenere l’anonimato è dell’idea che: «Sembra che quando si cambia la Costituzione inizia una nuova Repubblica, questa è la III Repubblica in Côte d’Ivoire. I sostenitori di Ado dicono che si presenta come primo mandato della terza repubblica. L’opposizione dice che il contatore dei mandati non va a zero».

I costituzionalisti sono divisi, ma la cosa più grave è il reale rischio di deriva violenta delle manifestazioni, a causa degli scontri tra sostenitori delle due fazioni. Contrapposizioni che in Côte d’Ivoire sono spesso strumentalizzate dai politici e possono assumere una connotazione inter etnica o inter comunitaria.

Ricorda l’attivista: «La Côte d’Ivoire è stata resa fragile dalla varie crisi, a partire dal 1999, e una vera riconciliazione è ancora da fare. La divisione Nord Sud resta una realtà, così come la divisione tra i diversi partiti. L’associazione Arusia (Associazione per la ricerca dell’unità, la solidarietà e l’unità africana), di cui faccio parte, lavora per contribuire a raccogliere i diversi “pezzi” e scongiurare lo scoppio di una nuova situazione di violenza. Occorre ricordare che Ado ha iniziato diversi progetti di riconciliazione, che porteranno a dei risultati. Ogni ivoriano o organizzazione deve contribuire a saldare la struttura sociale».

I fantasmi del passato

Innocent Baugré ci ricorda la delicata situazione dei media ivoriani, già indicati, negli anni 2000, come veri «media dell’odio»: «I media in Côte d’Ivoire sono radicalizzati, ognuno secondo la sua linea editoriale, niente è cambiato. La Rti (Radiotelevisione nazionale, ndr) è controllata dal partito al potere. Ci sono altri canali Tv, più recenti, che hanno creato un dibattito con contraddittorio nei loro programmi e questo è un elemento nuovo.

A livello della stampa scritta invece è come in passato: ci sono giornali vicini al partito al potere, e altri vicini all’opposizione, e mostrano i muscoli. C’è una cristallizzazione dell’ambiente. Ci sono 2-3 giornali indipendenti che tengono però per l’opposizione. La stampa contribuisce ad accentuare le cose, a rendere il dibattito più duro. Non accusiamo i giornalisti, perché riportano quello che i politici dicono, ma ognuno le riporta secondo la sua parrocchia».

«Quello che fa paura è che si ritorna un po’ sul cammino del 2010. È lo stesso comportamento che ha portato agli avvenimenti di quell’epoca: la stampa, i politici, le dichiarazioni incendiarie, gli appelli a manifestare, la repressione. Oggi gli ivoriani hanno paura, noi tutti vogliamo evitare questo».

Il 31 agosto, il cardinale Jean-Pierre Kutwa, arcivescovo di Abidjan, ha lanciato un appello al rispetto della Costituzione, di fatto negando l’appoggio alla candidatura di Ouattara.

Marco Bello

Violenta represssione poliziesca contro i dimostranti ad Abidjan il 6/08/2020 / Foto di SIA KAMBOU / AFP


Hanno firmato questo dossier

  • Stefano Camerlengo
    Superiore generale dei missionari della Consolata.
  • Ramón Lázaro Esnaola
    Spagnolo, missionario della Consolata in Côte d’Ivoire dal 2001, dal 2020 nella nuova missione in Messico.
  • Matteo Pettinari
    Italiano, missionario della Consolata a Dianra dal 2011.
  • Ariel Tosoni
    Argentino, missionario della Consolata a Dianra dal ‘07. Sono sue le foto del dossier.
  • Marco Bello
    Giornalista redazione MC.

I missionari in Côte D’ivoire

  • San Pedro: Daniel Yoseph Baiso, Boniface Sambu-Smabu.
  • Abidjan: André Legowa Nekpala, John Baptist Ominde Odunga.
  • Dianra: Raphael Njoroge Ndirangu, Matteo Pettinari, Ariel Osvaldo Tosoni.
  • Grand-Zattry: James Mwangi Gichane, Silvio Gullino, Fidelis Francis Massawe.
  • Marandaallah: Wema Meta Duwanghe, Zachariah King’aru, Alexander Ashivaka Likono.
  • Sago: Celestino Marandu, Gregory Cyprian Mduda, Michael Mwatha Miano.

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