Angelelli e Gerardi


Il tempo delle giunte militari in America Latina ha visto fiorire molte esperienze di lotta nonviolenta per la giustizia. Tra queste, quelle del vescovo argentino Enrique Angelelli (1923-1976) e del vescovo guatemalteco Juan Gerardi (1922-1998), entrambi per una Chiesa dei poveri. Entrambi ammazzati dai regimi.

Anselmo Palini, insegnante e saggista di San Giovanni di Polaveno, Brescia, attivo sui temi dei diritti umani e della nonviolenza, ha pubblicato diverse biografie, quasi tutte per l’editore Ave, di testimoni del nostro tempo impegnati per la giustizia e la pace.

Tra questi, ci sono, oltre ai più noti Oscar Romero e Hélder Câmara, altri due vescovi latinoamericani, assassinati dalle giunte militari dei loro Paesi perché testimoni scomodi del Vangelo.

Sono l’argentino Enrique Angelelli (1923-1976) e il guatemalteco Juan Gerardi (1922-1998).

Enrique Angelelli

Enrique Ángel Angelelli Carletti, rettore del seminario di Cordoba, Argentina, e assistente della Joc (gioventù operaia cristiana) e della Juc (gioventù universitaria cristiana), diventa vescovo ausiliario della diocesi nel 1960 schierandosi subito a fianco di campesinos (contadini) e operai.

Durante il Concilio Vaticano II, che lo segna profondamente, è uno dei firmatari del «Patto delle

Catacombe» (16/11/’65), nel quale «i vescovi si impegnano a vivere in povertà, rinunciare ai simboli del potere, mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale, operare per la giustizia e per un nuovo ordine sociale».

Nel 1968, la seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellin, in Colombia, conferma questa direzione di impegno e, quando viene nominato vescovo di La Rioja, celebra la messa nel barrio Cordoba Sud, uno dei più poveri della città.

A causa delle sue denunce, le autorità proibiscono la trasmissione per radio della messa. Viene allora diffuso un documento nel quale si afferma: «È possibile far tacere una trasmissione radiofonica, ma non la Chiesa, perché la forza e la ragione stessa della sua esistenza sono radicati nella presenza misteriosa dello Spirito di Cristo, che è vivo in ciascun uomo di questa terra, bagnata dal sangue dei suoi figli, versato per difendere la propria dignità».

Nel 1973, durante la festa in onore di Sant’Antonio, nella parrocchia di Anillaco, Angelelli viene aggredito a sassate da sicari dei latifondisti. Il papa Paolo VI gli fa sentire il suo sostegno attraverso una visita del superiore dei Gesuiti, Pedro Arrupe, e di Jorge Mario Bergoglio.

Già prima dell’avvento della giunta militare, gli squadroni della morte della Tripla A (la neofascista Alleanza anticomunista argentina) uccidono preti e laici impegnati, finché, nel 1976, il golpe militare instaura la dittatura che durerà fino al 1983.

Dopo l’ennesimo assassinio di due preti, padre Gabriel Josè Rogelio Longueville e fratel Carlos de Dios Murias, nell’orazione funebre Angelelli invoca: «Mi rivolgo a coloro che hanno preparato, organizzato ed eseguito l’assassinio dei due sacerdoti: aprite gli occhi, fratelli, se vi chiamate cristiani! Rendetevi conto del sacrilegio e del crimine che avete commesso».

Nei giorni successivi raccoglie dai parrocchiani testimonianze e prove di quanto accaduto e prepara un rapporto da trasmettere alla Conferenza episcopale, per evitare che tutto sia insabbiato.

Il 4 agosto 1976, mentre ritorna a La Rioja accompagnato dal vicario episcopale, Arturo Pinto, la sua auto è affiancata da un’altra che la spinge fuori strada facendola ribaltare.

Nonostante i tentativi di farlo passare per un incidente stradale, la verità del crimine non potrà essere nascosta a lungo.

Dopo l’assassinio del vescovo Angelelli, la repressione in Argentina continua. Migliaia di persone sono arrestate e scompaiono, sono rinchiuse nelle caserme, torturate, gettate in mare con i voli della morte. I familiari non riescono ad avere notizie.

Il 30 aprile 1977 un gruppo di quattordici donne, le Madres de Plaza de Mayo, si presentano davanti alla Casa Rosada, il palazzo del Governo, in silenzio e con le foto di figli, mariti, fratelli scomparsi, per avere notizie.

Tutte le settimane, per anni, queste donne saranno lì, con la loro muta presenza, a denunciare l’orrore della dittatura, inaugurando una protesta nonviolenta che risuonerà in tutto il mondo.

Un colpo per la giunta golpista sarà il riconoscimento del Premio Nobel per la pace nel 1980 all’attivista nonviolento cattolico Adolfo Perez Esquivel, che è imprigionato per quattordici mesi e liberato nel 1978.

Dopo la fine della dittatura, nel 1985, il rapporto Nunca Mas, che ricorda anche l’assassinio del vescovo Angelelli, consentirà di avviare i processi contro i militari accusati di gravi violazioni dei diritti umani e porterà alla condanna all’ergastolo dei generali Videla, Massera e altri.

Il 27 aprile 2019 monsignor Enrique Angelelli viene beatificato da papa Francesco.


Juan Gerardi

Il testo di Palini su Juan José Gerardi Conedera riporta nel sottotitolo: «Nunca mas. Mai più».

Anche il Guatemala, infatti, come altri stati latinoamericani, ha vissuto sul proprio territorio la stagione delle dittature militari sostenute dagli Stati Uniti.

Richiamandosi alla dottrina Monroe del 1823 che affermava la supremazia degli Stati Uniti sul continente americano, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, la politica statunitense guarda all’America Latina come al «cortile di casa», da controllare contro il pericolo comunista rappresentato dalla rivoluzione cubana del 1959.

Anche in Guatemala si crea così una stretta alleanza tra gli interessi dell’oligarchia terriera latifondista e le multinazionali statunitensi come la United fruit company, per controllare le monocolture di caffè e banane contro le rivendicazioni contadine e la riforma agraria realizzata dall’unica esperienza democratica guatemalteca, tra il 1945 e il 1954, sotto i governi di Juan José Arevalo (1945-52) e Jacobo Arbenz Guzman (1952-54).

Durante questa breve parentesi viene varata una Costituzione democratica e creato un Codice del lavoro, nasce il Partito guatemalteco del lavoro e la riforma agraria aiuta 100mila famiglie contadine.

Nel 1954, però, un’invasione dall’Honduras guidata dal colonnello guatemalteco Carlos Alberto Castillo Armas, con un gruppo di mercenari e con il diretto aiuto della Cia per respingere il «pericolo rosso», costringe alle dimissioni il presidente Arbenz Guzman.

La giunta militare che si instaura elimina tutte le conquiste democratiche, ripristina il lavoro gratuito degli indigeni, incarcera tutti i sospetti di «comunismo», inaugura un nuovo periodo di repressione e di violazioni dei diritti umani, soprattutto nei confronti delle popolazioni native.

Se in un primo periodo la Chiesa guatemalteca sostiene la dittatura, in seguito, soprattutto dopo il Concilio e la citata Conferenza di Medellin, si diffonde l’«opzione preferenziale per i poveri», di cui Gerardi diventa uno degli esponenti più autorevoli.

Ordinato prete nel 1946, vive tutta l’esperienza del passaggio da una Chiesa schierata con le forze conservatrici a una Chiesa conciliare, attraverso il contatto con le popolazioni rurali, lavorando con le comunità dei popoli indigeni, promuovendo l’uso delle lingue locali nell’alfabetizzazione e nel movimento dei «delegati della parola». Perché, osserva Gerardi, il fatto che esistano culture distinte è una manifestazione della diversità in cui Dio si rivela e agisce all’interno di tutta la cultura umana.

È presidente della Conferenza episcopale del Guatemala dal 1972 al 1976, e poi dal 1980 al 1982. Nel 1976 è il primo firmatario di un documento nel quale i vescovi «denunciano le situazioni di violenza istituzionalizzata, caratterizzate da strutture sociali ingiuste, da emarginazione e miseria».

Per far fronte a tutto ciò, la Chiesa indica la necessità di una radicale riforma agraria, e imputa alle profonde disuguaglianze sociali l’estendersi della rivolta armata, che a sua volta determina l’inasprirsi della repressione. Dunque una spirale di violenza senza fine. Denuncia poi l’esistenza di gruppi paramilitari, l’uso sistematico della tortura, la violazione dei più elementari diritti umani.

Anche la radio diocesana denuncia le violenze e gli assassinii, come lo stesso Gerardi ricorderà: «In quel periodo eravamo vittime di una persecuzione continua. La radio della diocesi era stata accusata dall’esercito di fiancheggiare la guerriglia. Un giorno trovammo un cadavere davanti all’ingresso della radio, con un cartello sul quale era scritto “Padre Lans è morto. Così moriranno tutti gli altri della radio”».

In un anno, dal 1977 al 1978, sono assassinati 143 leader contadini, preti e catechisti.

Nel 1980, anno dell’assassinio in El Salvador di monsignor Oscar Romero, le forze di sicurezza del regime del generale Fernando Romeo Lucas Garcia compiono il massacro all’ambasciata di Spagna: 37 vittime tra contadini e studenti che ne hanno occupato i locali, compresi quattro diplomatici spagnoli.

Lì perde la vita anche il padre di Rigoberta Menchù, futura premio Nobel per la pace nel 1992.

La diocesi di Santa Cruz, guidata da Gerardi, da cui provenivano i contadini che avevano occupato l’ambasciata, emette un duro comunicato di condanna: «Da quattro anni il Quichè sopporta il peso di una violenza estrema, aggravato dall’occupazione militare della zona nord e da altre misure che, di fatto, colpiscono il popolo a beneficio di una minoranza. Come causa di fondo scopriamo uno schema di sviluppo economico, sociale e politico che non tiene conto degli interessi dei poveri e si appoggia alla Dottrina della sicurezza nazionale, che sottomette le persone a un regime di terrore. […] Per questa ragione facciamo nostra la denuncia dei contadini che sono morti per il popolo del Quichè, nell’ambasciata di Spagna».

Ma le uccisioni di dirigenti sindacali, preti, operatori pastorali continuano, compresa la madre di Rigoberta Menchù, rapita, torturata e lasciata agonizzante per giorni.

Sfuggito a un attentato, nello stesso anno Gerardi decide di chiudere la diocesi per mettere al riparo sacerdoti e catechisti, e si rifugia presso vari conventi, mentre molte famiglie contadine vanno in montagna, dove formano le Comunità di popolazione in resistenza (Cpr) «che sviluppano forme di convivenza e sistemi di lavoro collettivi e che, grazie alla perfetta conoscenza del territorio, sono in grado di difendersi dall’esercito».

Dopo un viaggio a Roma, a colloquio con papa Giovanni Paolo II, monsignor Gerardi, per sicurezza, non rientra in Guatemala (si scoprirà in seguito, infatti, che era è stato preparato un attentato contro di lui), e si rifugia in Costa Rica fino al 1982.

Nel 1981, una missione di Pax Christi internazionale, guidata da monsignor Luigi Bettazzi, visita Nicaragua, El Salvador, Honduras e Guatemala. Nel rapporto che ne segue si legge: «Sono gli interessi dell’economia occidentale a spingere i sedicenti Paesi liberi e democratici a tenere in piedi quei regimi dittatoriali che assicurano vendite di materie prime e scambi economici in termini vantaggiosi per i Paesi industrializzati che dominano il mondo. Che in questi Paesi del Centroamerica non esista la democrazia, che piccoli gruppi di famiglie straricche dominino e sfruttino la maggioranza della popolazione in miseria, questo non sembra avere molta importanza. Così l’assurda e spietata dittatura del Guatemala serve da punto di riferimento e di ritrovo degli interessi economici e militari di diversi Paesi dagli Stati Uniti a Israele».

Nel 1983, sia il Tribunale permanente dei popoli in seduta a Madrid, sia Amnesty international, condannano le gravissime violazioni dei diritti umani compiute dalla dittatura guatemalteca, in particolare dopo il colpo di stato di Efrain Rios Montt del 1982, che persegue l’annientamento delle comunità Maya, facendo terra bruciata intorno a loro e reclutando a forza i ragazzi per contrastare la guerriglia. Prima di essere deposto da un ennesimo colpo di stato nell’agosto 1983, i suoi diciassette mesi di governo sono tra i più sanguinari della storia del Guatemala.

Il mutato clima internazionale induce ad avviare un processo di transizione politica che consegni il potere ai civili: nel 1985 si svolgono elezioni generali che portano alla vittoria del democristiano Vinicio Cerezo Arévalo, ma il Paese è ancora dilaniato dalla guerra tra esercito e gruppi della guerriglia.

Il vescovo Gerardi, nel 1986 fa parte della Commissione nazionale di riconciliazione, frutto dei primi passi verso un processo di pace nel Paese.

Nel 1989 l’arcivescovo di Città del Guatemala, Prospero Penado del Barrio, gli affida il compito di creare un Ufficio per i diritti umani nella diocesi.

Nella veste di coordinatore di questo ufficio, negli anni parteciperà alla Commissione Onu per i diritti umani, con sede a Ginevra, denunciando l’impunità che regna nel suo Paese.

Dopo il Premio Nobel per la pace a Rigoberta Menchù nel 1992, anche Gerardi riceve diversi riconoscimenti internazionali.

Nel 1994 a Oslo viene sottoscritto un accordo tra il governo del Guatemala e la Unidad Revolucionaria nacional guatemalteca (Urng), che prevede l’istituzione di una Commissione di indagine sulle violenze perpetrate nel Paese. Gerardi propone di integrarla con il progetto Remhi (Recuperacion de la memoria historica), un lavoro da lui coordinato, che si concluderà con la pubblicazione di quattro volumi dal titolo Guatemala. Nunca mas, per documentare le uccisioni, le sparizioni, la repressione e le violazioni dei diritti umani tra il 1956 e il 1996.

L’arcivescovo Penado del Barrio, nella Presentazione del rapporto scrive: «Con questa guerra in cui si è torturato, si è assassinato e si sono fatte scomparire intere comunità, che sono rimaste terrorizzate e indifese in questo fuoco incrociato, in cui si è distrutta la natura, che nella cosmovisione indigena è sacra, la madre terra, è anche stata spazzata via, come un uragano impetuoso, la parte più viva dell’intellighenzia del Guatemala. Il Paese è rimasto improvvisamente orfano di cittadini autorevoli».

Nel 1995 Gerardi partecipa in Italia alla Marcia Perugia-Assisi.

Nel 1996 è firmato finalmente l’accordo di pace, e nel 1998 il rapporto Nunca mas è consegnato a Rigoberta Menchù.

Due giorni dopo la presentazione dei risultati del progetto Remhi, il vescovo Gerardi è assassinato nel suo garage.

Per il delitto saranno condannati il colonnello Byron Lima Estrada, suo figlio, il capitano Byron Lima Oliva, il soldato Obdulio Villanueva e il viceparroco Mario Orantes in qualità di complice, ma i mandanti, gli alti vertici militari e politici, rimarranno liberi.

Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis


I LIBRI DI ANSELMO PALINI

  •  Hélder Câmara. «Il clamore dei poveri è la voce di Dio», Ave, Roma 2020, pp. 240, 14,00 €.
  •  Don Pierino Ferrari. «Vestito di terra, fasciato di cielo», Ave, Roma 2020, pp. 304, 14,00 €.
  •  Teresio Olivelli. Ribelle per amore, Ave, Roma 2018, pp. 318, 20,00 €.
  •  Oscar Romero. «Ho udito il grido del mio popolo». Ave, Roma 2018, pp. 290, 20,00 €.
  •  Una terra bagnata dal sangue. Oscar Romero e i martiri di El Salvador, Paoline, Milano 2017, pp. 224, 16,00 €.
  •  Marianella Garcìa Villas. «Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi», Ave, Roma 2014, pp. 272, 12,00 €.

Primo Mazzolari. Un uomo libero, Ave, Roma 2009, pp. 304, 16,00 €.




Russia. Il multilateralismo non vale un Brics

Il XVI vertice dei Brics – acronimo dei cinque paesi fondatori (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) – si è tenuto a Kazan, in Russia, dal 22 al 24 ottobre. Al Summit hanno partecipato 41 delegazioni: 6 rappresentavano organizzazioni internazionali e 36 paesi, 24 dei quali erano capi di stato e di governo. Numeri importanti, ma risultati effettivi molto scarsi, come si può facilmente dedurre leggendo i 134 punti della «Dichiarazione di Kazan», spesso (ma non sempre) apprezzabili ma troppo vaghi per trovare una concreta e rapida applicazione.

È positiva la volontà (punto 8) di riformare l’Onu, incluso il Consiglio di sicurezza. Elementi positivi possiamo trovarli nei punti dal 15 al 19 in cui si ribadisce – almeno a parole – la necessità di affrontare il cambiamento climatico e la desertificazione, difendere la biodiversità e l’acqua. Anche la preoccupazione per la grave situazione in Medio Oriente (punti 30-31) è condivisibile, salvo che sui punti in cui si giustificano Siria (34) e Iran (35), paesi alleati della Russia. Per l’Ucraina (36), paese aggredito da Mosca, la vaghezza dei termini utilizzati per descrivere la situazione assume livelli sublimi: «Sottolineiamo che tutti gli stati dovrebbero agire in modo coerente con gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite nella loro interezza e interrelazione. Prendiamo atto con apprezzamento delle pertinenti proposte di mediazione e buoni uffici, volte a una risoluzione pacifica del conflitto attraverso il dialogo e la diplomazia».

Altrettanto acrobatica (punto 56) è la dichiarazione sul problema (sempre più grave) delle notizie false e sulla libertà d’espressione: «Esprimiamo – si legge – seria preoccupazione per la diffusione esponenziale e la proliferazione di disinformazione, cattiva informazione, inclusa la propagazione di false narrazioni e fake news, nonché di discorsi d’odio, in particolare sulle piattaforme digitali, che alimentano la radicalizzazione e i conflitti. Mentre riaffermiamo l’impegno per la sovranità degli Stati, sottolineiamo l’importanza dell’integrità delle informazioni e di garantire il libero flusso e l’accesso pubblico a informazioni accurate basate sui fatti, inclusa la libertà di opinione ed espressione». Vale la pena di ricordare che la più grande fabbrica mondiale di trolls (software di hackeraggio) ha sede a Mosca e che né in Russia né in Cina – paesi fondatori dei Brics – esiste libertà d’espressione.

Nel documento, si accenna anche alla questione – molto complicata (anche se non campata in aria) – della riforma dell’architettura finanziaria internazionale e della de-dollarizzazione del sistema.

Dal primo gennaio 2024 si sono uniti ai Brics altri cinque paesi – Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti -, nessuno di loro guidato da un governo democratico. A Kazan, altri tredici si sono uniti in qualità di «partner»: Algeria, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Indonesia, Kazakistan, Malaysia, Nigeria, Thailandia, Uganda, Uzbekistan, Vietnam e la Turchia (forse il paese più «pesante», vista la sua appartenenza alla Nato). La commistione di paesi dittatoriali (Russia e Cina, in primis) con altri a conduzione democratica (il Brasile, ad esempio) pare costituire un vulnus per l’organizzazione che si vorrebbe porre come alternativa al cosiddetto Nord del mondo.

A Kazan, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha incontrato Vladimir Putin, suscitando molte polemiche. (foto Faces of the World)

Da notare, infine, che l’evento più chiacchierato della XVI riunione dei Brics è avvenuto a latere del convegno: l’incontro tra il padrone di casa Vladimir Putin e il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, un evento molto discusso visto che l’autocrate russo è un criminale di guerra che ha scatenato il conflitto in Ucraina. Vedremo se questo incontro porterà dei frutti, ma pare altamente improbabile.

Paolo Moiola




Giappone. La rivoluzione delle urne

Ci si aspettava qualche cambiamento, ma è stata quasi una rivoluzione. Le elezioni legislative di domenica 27 ottobre in Giappone si sono concluse con un risultato clamoroso. Il Partito liberaldemocratico (Pld), forza conservatrice al potere per 65 degli ultimi 69 anni, ha perso la maggioranza assoluta. Non solo. Per arrivare ai 233 seggi della Camera bassa del parlamento necessari a governare, non basta nemmeno l’aiuto del Komeito, partito di ispirazione buddhista e storico partner di coalizione. Si tratta di una vera e propria batosta, andata al di là delle più nefaste aspettative di Shigeru Ishiba, premier da nemmeno un mese.

È stato lui a decidere di convocare elezioni anticipate, sconfessando la sua stessa parola, con l’obiettivo di consolidare la leadership conquistata a settembre al voto interno al Pld. La scommessa di Ishiba si basava su due convinzioni. Primo: il poco tempo concesso all’opposizione avrebbe evitato l’ascesa del Partito costituzionale democratico (Pcd), appena riunitosi sotto la guida dell’ex premier Yoshihiko Noda. Secondo: la sua lunga carriera di outsider e critico interno al partito gli avrebbe garantito di evitare le conseguenze dello scandalo sui finanziamenti che ha portato alle dimissioni il predecessore, Fumio Kishida. Entrambe le convinzioni si sono rivelate sbagliate.

Da una parte, Noda ha portato il Pcd da 98 a 148 seggi, grazie a un audace programma di riforme sociali mirate a contrastare l’ormai atavico problema dell’aumento del costo della vita. Dall’altra, le varie retromarce di Ishiba su una serie di promesse lo hanno reso agli occhi degli elettori meno in discontinuità rispetto alle precedenti gestioni del suo partito. Durante la campagna elettorale, Ishiba ha infatti sconfessato due promesse in materia di diritti civili, che lo avevano reso popolare tra i più giovani: la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso e la cancellazione della norma che impone ai coniugi di adottare lo stesso cognome. La mazzata finale è arrivata dalle notizie di stampa, secondo cui il Pld avrebbe continuato a pagare per la campagna elettorale di diversi parlamentari allontanati per il coinvolgimento nello scandalo dei finanziamenti.

Ishiba ora deve affrontare un futuro politico incerto. Il suo mandato potrebbe essere il più breve dalla Seconda Guerra Mondiale. I suoi (unici) vantaggi sono che il Pld non ha tempo di cercare immediatamente un nuovo leader, peraltro di non facile individuazione, e che per Noda sarà quasi impossibile unire tutte le forze di opposizione, che vanno dal Partito comunista alla destra radicale.

Entro 30 giorni, il parlamento si riunirà per conferire l’incarico di governo.

Ishiba sta cercando nuovi alleati, ma lo scenario più plausibile è quello di un esecutivo di minoranza, la cui azione potrebbe essere ampiamente limitata e rivolta soprattutto all’approvazione del bilancio suppletivo di fine 2024 e (forse) di quello dell’anno fiscale 2025 il prossimo aprile. L’orizzonte temporale del possibile gabinetto di Ishiba potrebbe non andare molto più in là, mentre l’ala ultranazionalista del Pld chiede già una riorganizzazione attorno alla figura di Sanae Takaichi.

L’impatto del voto potrebbe farsi sentire anche sulla politica estera e sulle relazioni internazionali del Giappone. La contemporaneità tra l’inedita instabilità di Tokyo e le elezioni presidenziali americane è parecchio sfortunata. Il fatto che il Giappone si trovi in uno stato di incertezza non aiuta a prepararsi a un possibile Trump due o anche a un’amministrazione Harris probabilmente più aggressiva sulla Cina. A risentirne anche la proiezione di Tokyo, che negli scorsi anni era diventato un punto di riferimento per il sistema di alleanze americane e per i vicini asiatici. Nella regione appare quindi un nuovo, imprevisto, punto di domanda. Le risposte del Giappone potrebbero non arrivare così presto.

Lorenzo Lamperti




Perù. Gustavo Gutiérrez, un piccolo gigante

È morto a Lima, sua città natale, lo scorso 22 ottobre. Padre Gustavo Gutiérrez Merino, sacerdote, filosofo e teologo peruviano, aveva 96 anni. In gioventù, parroco nel distretto del Rímac, nel 1971 divenne conosciuto a livello mondiale per la sua «Teología de la liberación: perspectivas», un lavoro di enorme portata, non soltanto per la teologia e la Chiesa cattolica. Nel 1974, fondò l’istituto Bartolomé de Las Casas, che in breve tempo si sarebbe affermata come una prestigiosa istituzione di ricerca su teologia e povertà. Nel 2001 entrò nell’ordine dei Domenicani.

23 ottobre 2024: un momento della cerimonia funebre per padre Gutiérrez nella Basilica di San Domenico, a Lima. (Foto Gianni Vaccaro)

Nel corso della sua vita, padre Gutiérrez si è dedicato all’analisi e alla denuncia della povertà e delle disuguaglianze nel continente latinoamericano. La sua proposta centrale è così riassumibile: di fronte all’ingiustizia strutturale creata dall’ordine sociale ed economico prevalente, i cristiani debbono non soltanto denunciare ma anche agire. E proprio da qui, da questo concetto rivoluzionario, sono scaturite tutte le polemiche e le accuse – da parte del potere e dei settori più conservatori della società – di aver trasformato la teologia in teoria politica e, per di più, di sinistra.

Abbiamo avuto modo di constatare di persona quanto le sue idee potessero suscitare reazioni di fastidio all’interno della stessa Chiesa cattolica. Una volta il cardinale Augusto Cipriani (all’epoca, primate del Perù), in risposta a una domanda su padre Gutiérrez, ci disse: «L’ho incontrato. Non è mio compito valutare la sua coscienza, il suo mondo interiore. Credo però che egli abbia un obbligo di giustizia importante: scrivere un libro per spiegare i concetti fraintesi nelle sue prime opere».

Per due volte, nel 1998 e nel 2004, nella capitale peruviana abbiamo incontrato padre Gutiérrez. C’impressionò subito per la forza che sprigionava dalla sua figura minuta. Nel 2004, quando lui era professore alla facoltà di teologia della statunitense University of Notre Dame, nell’Indiana, gli chiedemmo come – a suo parere – stesse la Teologia della liberazione. «Sta bene – rispose -. In questi anni stiamo lavorando su nuove dimensioni e approfondendo un’intuizione originale, che nei nostri primi scritti avevamo chiamato “la complessità della libertà”. Questo significa, in sintesi, prestare attenzione non solo agli aspetti economici della realtà ma anche a quelli etnici, culturali, di genere, ecc. Un’altra dimensione che stiamo sottolineando è la critica al pensiero unico neoliberista. Il nostro punto di partenza è l’opzione preferenziale per i poveri (opción preferencial por los pobres) che, ancora oggi, costituisce il centro della Teologia della liberazione».

Sempre durante quell’intervista, padre Gutiérrez spiegò: «Una volta un giornalista mi chiese se fossi pronto a scrivere di Teologia della liberazione come avevo fatto vent’anni prima. Io gli chiesi se fosse sposato. Lui mi rispose di sì, allora gli chiesi di nuovo: scriveresti a tua moglie una lettera d’amore come hai fatto vent’anni fa? Per me è lo stesso. Per me scrivere teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa a cui appartengo, al mio popolo, e questo è il mio progetto».

Padre Gutiérrez era consapevole delle difficoltà: «C’è – ci disse nel 1998 – una povertà che persiste, che dura, che continua nel tempo. Credo che la distanza tra i più poveri e i più ricchi si faccia più grande». Nel 2010, in un’intervista per l’Università cattolica di Lima (Pucp), osservò: «Il continente più diseguale del mondo è l’America Latina, eppure la stragrande maggioranza della popolazione latinoamericana è cristiana, cattolica ed evangelica. Il cristiano sa che deve amare il prossimo e preferibilmente il più povero. La realtà non sembra rispondere a questa richiesta».

Papa Francesco e padre Gutiérrez, un rapporto di stima e amicizia.

Cosa rimane oggi della Teologia della liberazione? Rimane l’«opzione preferenziale per i poveri» – la scelta di una società in cui i meno fortunati siano al centro – che ne è un principio fondante. L’espressione, che risale ai documenti ufficiali dei vescovi dell’America Latina (Conferenza di Medellìn del 1968, Conferenza di Puebla del 1979), è stata infatti fatta propria da papa Francesco già al momento del suo insediamento, nel marzo 2013.

Sei mesi dopo quella data, esattamente il 12 settembre, Francesco e padre Gutiérrez si ritrovarono in un incontro privato a Casa Santa Marta, in Vaticano. Un grande atto di stima e affetto del pontefice argentino nei confronti del teologo peruviano.

Paolo Moiola




Italia. Israeliani e palestinesi per la pace

 

Nonviolenti palestinesi e israeliani in Italia per testimoniare il loro lavoro comune per la pace e chiedere la fine della guerra.

Due attivisti israeliani e due palestinesi, accomunati dall’obiezione alla guerra, dal 16 ottobre stanno girando l’Italia per portare le loro testimonianze e il loro appello alla pace in diverse città dal Nord al Sud, incontrando cittadini, studenti, istituzioni.

Chiedono alle istituzioni, all’Unione europea, al nostro governo, di riconoscere lo status di rifugiati politici a tutti gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che fuggono dalle guerre e chiedono asilo e protezione.

«Vengono da Israele e Palestina, dove il diritto internazionale viene calpestato – recita un comunicato del Movimento nonviolento, organizzatore del tour nell’ambito della Campagna di obiezione alla guerra -, per rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza! Lavorano insieme e rifiutano la guerra, l’esercito, le armi, l’odio».

Sono gli israeliani Sofia Orr e Daniel Mizrahi e le palestinesi Tarteel Al-Junaidi e Aisha Omar.

Sofia Orr ha rifiutato di arruolarsi per il servizio militare obbligatorio nell’Idf, l’esercito israeliano, nel febbraio 2024, ed è stata condannata al carcere militare. Daniel Mizrahi, figlio di coloni ebrei nei territori occupati, ha fatto anche lui obiezione di coscienza, subendo la stessa sorte. La palestinese Tarteel Al-Junaidi è attivista nonviolenta per i diritti umani. Aisha Omar, cresciuta nella Territori palestinesi occupati, sostiene gli obiettori israeliani e ne fa conoscere ai palestinesi l’attività contro la guerra e l’occupazione.

I quattro rappresentano due importanti movimenti: Mesarvot, una rete di giovani israeliani obiettori di coscienza al servizio militare, e Community peacemaker teams (Cpt), sezione palestinese, che sostiene la resistenza nonviolenta contro l’occupazione israeliana.

Mesarvot è una rete che si oppone al regime di occupazione dei territori palestinesi con manifestazioni congiunte israelo-palestinesi in tutto il Paese, chiedendo un accordo sugli ostaggi, la fine del genocidio a Gaza, del conflitto in Medioriente e il raggiungimento di una soluzione diplomatica.

I suoi attivisti portano l’attenzione sui crimini commessi dall’esercito e incoraggiano i giovani israeliani ad assumersi la responsabilità personale di disobbedire al governo. In più forniscono sostegno, anche legale, a chi decide di rifiutare il servizio militare in un paese nel quale gli obiettori subiscono lunghe detenzioni e le voci dissidenti vengono represse brutalmente.

Il Cpt è uno tra i molti gruppi palestinesi di resistenza nonviolenta. Lavora contro la violenza dell’occupazione israeliana, in particolare in Cisgiordania, ad esempio con il monitoraggio dei posti di blocco israeliani attraversati dai bambini palestinesi per andare a scuola, documentando le continue violazioni dei diritti umani. Il docufilm «Light», proiettato durante il giro italiano dei quattro attivisti, racconta proprio l’impegno del Cpt.

Il tour è partito il 16 ottobre da Milano, ha toccato le città di Verona, Bologna, Parma, Reggio Emilia e Firenze, ed è arrivato a Roma il 23. Si concluderà domani a Bari in coincidenza della Giornata di mobilitazione nazionale per la pace, «Fermiamo le guerre, il tempo della pace è ora!» organizzata da Rete italiana pace e disarmo in diverse città italiane, tra cui, oltre a Bari, Torino, Firenze, Cagliari, Palermo, Roma, Milano.

Nelle varie tappe (di cui si può leggere il diario sul sito di «Azione nonviolenta»), i quattro testimoni hanno incontrato la cittadinanza durante incontri pubblici, studenti, giornalisti, sindaci, vescovi.

Ieri, 24 ottobre, hanno fatto un’audizione alla Commissione permanente per i diritti umani della Camera dei deputati seguita da un incontro pubblico, un incontro presso il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano e integrale e da una conferenza stampa a Montecitorio.

Come ha scritto Pasquale Pugliese, già presidente del Movimento nonviolento, su Comune.info, «Mentre nessuna organizzazione internazionale sembra essere in grado di fermare la violenza cieca dell’esercito israeliano, che dopo oltre 42.000 vittime palestinesi tra Gaza e Cisgiordania invade il Libano, attacca le basi Unifil, colpisce la Croce Rossa, cerca la guerra con l’Iran; mentre nessun governo occidentale, anche apparentemente dissentendo in pubblico con le sue scelte belliche, si decide in verità a interrompere l’invio di armi al governo di Netanyahu; mentre da oltre un anno grandi manifestazioni in ogni parte del mondo, e nella stessa Israele, non riescono a spezzare la spirale di violenza e di odio; mentre accade tutto questo c’è chi trova il coraggio di resistere dal basso, proprio dentro il cuore di tenebra della guerra, rifiutando la logica della violenza, del nemico e dell’odio: ha il volto di giovanissimi israeliani che rifiutano il servizio militare e di altrettanto giovani palestinesi impegnati nella resistenza nonviolenta».

Luca Lorusso




Il popolo di san Giuseppe Allamano in festa

 

Roma, 21 ottobre. «Questa mattina, alla sessione del sinodo, sono andato a ringraziare il Santo Padre, che era lì con noi, per il dono della canonizzazione», racconta il cardinale Giorgio Marengo, in chiusura alla sua omelia della messa di ringraziamento. Nella splendida cornice della basilica di san Paolo fuori le mura, si ritrovano i missionari, le missionarie e centinaia di pellegrini che domenica 20 ottobre hanno partecipato alla canonizzazione di Giuseppe Allamano. «Mi ha colpito – continua Marengo -, perché, sedutomi davanti a lui, mi ha preso le mani e mi ha detto “Coraggio, avanti”. Quello che ci diceva sempre san Giuseppe Allamano».

La celebrazione inizia con una danza africana realizzata da suore e novizie, che scalda subito l’atmosfera. Sfilano vestite con colori africani, a dominante azzurra. Dietro alle danzatrici, fanno il loro ingresso centodieci sacerdoti vestiti di bianco, due fratelli missionari, seguiti da ventidue vescovi e, in ultimo, dal cardinale Marengo. È lui che, con la sua solita semplicità, ma al tempo stesso profondità, prende la parola: «Oggi è un giorno di ringraziamento per san Giuseppe Allamano. È il primo giorno nel quale possiamo chiamarlo così». Le sue parole, quasi emozionate, scatenano l’euforia dei presenti.

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Marco Bello).

Sono di tanti Paesi, svariate lingue e culture a ritrovarsi, oggi pomeriggio, nella basilica.

Spicca una folta delegazione di fedeli di Roraima, lo stato del Brasile dove è avvenuto il miracolo della guarigione dell’indigeno yanomami Sorino. Sono riconoscibili per la maglietta che indossano, con il motto dell’Istituto Missioni Consolata scritto in portoghese: «Annunziate la mia gloria alle nazioni» (Is 66,19), e con i loghi della diocesi di Roraima e quello ufficiale della canonizzazione. Poi tante fedeli africane, con vestiti dai tipici colori sgargianti, e moltissime religiose. Ci sono anche i laici missionari della Consolata, e i tanti amici del nuovo santo venuti da quattro continenti. Quasi tutti hanno al collo il foulard realizzato per la canonizzazione.

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Marco Bello).

Iniziano le letture. Poi il salmo viene recitato da uno studente e una studentessa missionari, e il coro risponde cantando in maniera delicata «Popoli tutti, lodate il Signore».

Dopo la seconda lettura, parte di nuovo il coro, diretto dall’accalorato padre Douglas Lukunza del Kenya. I musicisti – tastiera, batteria, due djembé (tamburi africani) e pure un bravo violino – sono altri studenti missionari, tutti africani. Il coro variegato segue i movimenti del direttore, che non si limita a muovere le braccia, ma dirige il canto ballando con tutto il corpo. Una danza che, in pochi secondi, contagia tutti i presenti. È l’espressione dell’entusiasmo della grande festa.

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Marco Bello).

Con la preghiera dei fedeli torna la calma. Alcuni lettori e lettrici si alternano nelle diverse lingue: italiano, inglese, portoghese, spagnolo, coreano, kiswahili e francese. A leggere quest’ultima è una ragazza migrante del Burkina Faso, attualmente a Oujda in Marocco (dove c’è una missione della Consolata). La sua è una supplica toccante, forse perché nasce dall’esperienza personale: chiede di pregare affinché i governi rendano più vivibili i Paesi del mondo, in modo tale che i giovani non siano più costretti a partire.

Anche durante questa celebrazione di ringraziamento, come nei giorni scorsi, il collegamento con l’Amazzonia è forte: all’offertorio, oltre al pane e al vino, viene portato anche un tipico copricapo indigeno, fatto di piume blu e gialle del grande pappagallo ara, mandato da coloro, spiega la voce di commento, «che sono assetati di fede e di giustizia».

Ma oltre alla festa, il ringraziamento è pure un momento di riflessione, stimolata dalle parole, talvolta provocatorie, del cardinale Marengo che nella sua omelia si sofferma sull’importanza della contemporaneità: l’impegno deve essere «una successione continua di oggi e qui», e occorre «attingere la forza per la missione dalla contemplazione».

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Marco Bello).

«Dobbiamo dircelo: la sua santità (di Allamano, ndr) ci deve scuotere, altrimenti non ci gioverà. I nostri istituti attraversano un momento delicato della loro storia, con incertezze nei cammini del mondo. Oggi non è solo un punto di arrivo, deve essere anche un punto di ripartenza».

Considerando il percorso e gli sforzi fatti per arrivare a questa canonizzazione, «tutto sarà ripagato se prenderemo sul serio questo oggi, l’avere gli occhi fissi sul Signore, teneramente amato e servito da san Giuseppe Allamano, e realizzeremo davvero il suo desiderio di vederci famiglia della Consolata che si vuole bene e che arde di zelo apostolico».

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Marco Bello).

La cerimonia si avvia alla conclusione con il canto del Magnificat in versione africana, danzato e cantato da tutti i presenti. Il cardinale incensa lo stendardo con il volto di Giuseppe Allamano, che pare sorridente come non mai. Anche lui, oramai coinvolto nella festa.

La messa di ringraziamento conclude la fase romana delle celebrazioni per la canonizzazione di san Giuseppe Allamano, iniziate con la veglia di preghiera di sabato 19 ottobre.

Nei prossimi giorni seguiranno eventi e celebrazioni a Castelnuovo don Bosco (At), paese natale di Allamano (il 23 ottobre) e a Torino, alla Consolata (il 24) e nella chiesa del santo in corso Ferrucci 18 (il 25).

Marco Bello

HIGHLIGHTS MESSA DI RINGRAZIAMENTO (Fr. Adolphe Mulenguzi)

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Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).




Giuseppe Allamano è santo

 

Oggi, 20 ottobre 2024, Giuseppe Allamano è ufficialmente santo. La messa di proclamazione, in piazza San Pietro, è stata intensissima.

Città del Vaticano. Fin dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia, necessari per entrare nella piazza.

Il popolo di Giuseppe Allamano è arrivato dai quattro continenti il giorno prima. Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma anche l’Asia c’è, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.

Su alcune bacchette viene issata l’immagine del futuro santo, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.

Oggi saranno, infatti, «canonizzati», termine tecnico, anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni).
Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con l’effige di Allamano e della Consolata.
L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato ad hoc per questo giorno.

Entriamo tra i primi, dopo il controllo metal detector.
La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.
I pellegrini sono assonnati, ma si vede la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.

Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.
È ancora un momento di attesa, e si approfitta per farsi delle foto, dei video, scambiarsi un contatto o un sorriso.

Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio.
A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte anche alcune migranti subsahariane.
Vediamo anche il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità.

Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.
Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.

Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcune canzoni diffuse con i potenti altoparlanti in tutta la piazza.
L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone da tutto il pianeta, spaccato di umanità.

Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva Papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «Papa Francisco», per culminare con un grande applauso.

Nel frattempo è comparso un tenue sole.
Scorgiamo evidente, in prima fila del gruppo di sedie delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.

La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.

«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno.
«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere».
E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».
Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.
«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.

All’Angelus papa Francesco mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».

Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo Santo.

Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si affollano alle transenne per salutare il Santo Padre.

Una volta passato, inizia il lento deflusso di alcune migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della Basilica di San Pietro sulla quale spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.

testo di Marco Bello
foto di Jaime Patias

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I missionari e il «Piano Mattei»

Milano 19 ottobre 2024.

Sul rapporto fra l’azione dei missionari/e in Africa e il Piano Mattei urge chiarezza. L’occasione per farla ce le dà la prossima, cosiddetta «Conferenza dei missionari italiani», che si svolgerà il prossimo 23 ottobre su impulso del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e nell’ambito della riunione ministeriale G7 sullo sviluppo.

L’incontro, si legge sul sito della Farnesina, «avrà come tema il contributo delle realtà missionarie allo sviluppo sostenibile delle popolazioni presso cui prestano la propria missione, sottolineando l’impatto delle loro opere attraverso la condivisione di storie di successo e buone prassi. L’evento incentrerà i propri lavori sul rafforzamento delle opportunità di istruzione e formazione in Africa sub-sahariana a favore dei giovani, anche in virtù dei collegamenti con il Piano Mattei e con il nesso migrazioni-sviluppo».

Iniziamo col dire che il nome di questa iniziativa è fuorviante: dapprima perché rischia di sovrapporsi alla «Conferenza degli istituti missionari italiani» (Cimi), che è altra cosa e che non prenderà parte alla conferenza abruzzese. Più generale, il titolo di questo incontro lascia pensare che tutto il mondo missionario voglia parteciparvi e condivida la sua prospettiva positiva rispetto al Piano Mattei, quando così non è.

La questione centrale però va oltre i titoli e le parole. Punta dritto al cuore del Piano Mattei e al suo approccio nei confronti dell’Africa, che noi non ci sentiamo di condividere, vista la sua mancanza di prospettive e di ascolto verso le vere necessità del continente.

Saremo sempre pronti a discutere di sviluppo sostenibile in Africa e a fornire il nostro punto di vista, condividendo la nostra lunga esperienza sul campo. Preferiamo farlo però in altre sedi, meno vincolate ai promotori del piano e per questo più inclini a produrre riflessioni libere e costruttive.

Conferenza degli Istituti Missionari in Italia

www.istitutimissionari.it




Il potere debordante delle multinazionali

 

Senza consapevolezza non ci sono speranze di cambiamento. Potrebbe essere riassunta così la motivazione che spinge il Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms) a predisporre ogni anno (siamo alla 14a edizione) un report sulle 200 multinazionali economicamente più importanti. L’argomento di per sé sarebbe molto complesso, ma il Cnms coordinato da Francesco Gesualdi (da anni collaboratore della rivista Missioni Consolata, ndr) riesce a renderlo comprensibile a tutti, con testi chiari, tabelle e grafici esplicativi.

Il confronto tra la situazione del 2013 e quella del 2023 indica le tendenze in atto. I dipendenti delle 200 più grandi multinazionali sono aumentati in dieci anni da 39 a 42 milioni (+7,8%), il fatturato da 20mila a 27mila miliardi di dollari (+33%) e i profitti da 1.438 a 2.114 miliardi di dollari (+47%). Tra le Top200 soltanto 9 chiudono il 2023 con perdite anziché profitti. La peggiore è la russa Gazprom che nel 2023 con un fatturato di 100 miliardi di dollari, ha registrato un disavanzo di 7,3 miliardi.

Tra le Top200 ce ne sono 60 con sede negli Usa, 55 in Cina, 16 in Giappone, 12 in Francia e 11 in Germania. Le italiane sono 2: Enel al 97° posto (61mila dipendenti, 103 miliardi di fatturato e 3,7 miliardi di profitti) e Eni al 98° (33mila dipendenti, 102 miliardi di ricavi e 5,1 miliardi di utili).

La multinazionale statunitense Walmart si è confermata al primo posto nell’annuale classifica Top200 del Cnms.

Restringendo il campo di osservazione alle prime 10 multinazionali, si scopre che 6 hanno la sede principale negli Usa, 3 in Cina e 1 in Arabia Saudita. L’Europa è fuori dalla Top10. Al primo posto della classifica troviamo stabilmente Walmart, nel settore del commercio e dei trasposti, con 2,1 milioni di dipendenti, 648 miliardi di dollari di fatturato e 15,5 miliardi di profitti. Al secondo posto si colloca Amazon con 1,5 milioni di lavoratori, 575 miliardi di ricavi e 30,4 miliardi di dollari di guadagni. Sul terzo gradino del podio c’è la cinese State Grid (che fornisce gas, luce e acqua) con 1,3 milioni di dipendenti, un giro d’affari di 545 miliardi e 9,2 miliardi di utili.

Al di là della fotografia della situazione attuale è utile cercare di comprendere l’evoluzione della classifica delle multinazionali. Ad esempio, si può notare come Amazon in un decennio sia passata dal 112° al 2° posto della graduatoria. State Grid dieci anni fa era al 7° posto ed ora è al 3°. Apple raggiunge il 7° posto provenendo dal 15°. La finanziaria americana UnitedHealth Group sale dal 39° all’8° posto. A fare evidenti passi indietro sono invece le principali società multinazionali che si occupano di energia e petrolio: Shell che scende dal 2° al 13° posto, Exxon Mobil dal 5° al 12° e BP dal 6° al 25° posto.

Dai dati presenti nel report si può calcolare il rapporto tra profitti e fatturato, evidenziando i relativi margini di utile. In questa logica al 1° posto troviamo la Taiwan Semiconductor Manufacturing con profitti pari al 39,4% del fatturato, seguita dalla banca svizzera Ubs con il 39%, dalla Johnson & Johnson nel settore della chimica con il 36,9% e dalla Microsoft con il 34,1%.

In alcuni settori si nota una predominanza cinese. Ad esempio, sono cinesi 6 delle 7 multinazionali delle costruzioni inserite in Top200, 6 su 8 della metallurgia e minerali, 6 su 9 della chimica e farmaceutica. Nel settore bancario, assicurativo e della finanza ai primi 14 posti troviamo 8 multinazionali degli Usa e 6 della Cina.

Particolarmente illuminante è il confronto tra i fatturati delle multinazionali e le entrate degli stati. In una classifica unificata ai primi 100 posti troviamo 70 stati nazionali e 30 multinazionali. La Walmart ha ricavi superiori alle entrate dell’Australia e di poco inferiori a quelle della Spagna. La Saudi Aramco ha un fatturato nettamente superiore alle entrate dello stato dell’Arabia Saudita.

Larry Fink, il fondatore di Black Rock, il gigante statunitense che gestisce un ammontare di risorse finanziare in grado di condizionare il mondo.

Le classifiche sulle multinazionali in realtà rappresentano soltanto la prima parte del report predisposto dal Cnms, che contiene alcuni approfondimenti davvero interessanti. Il primo focus è sulle più importanti società «multifondo», che investono denaro in partecipazioni societarie: in particolare vengono analizzate le multinazionali statunitensi Black Rock, Vanguard, Fidelity e State Street, che complessivamente gestiscono patrimoni per quasi 30mila miliardi di dollari. Si tratta di una cifra enorme che può condizionare fortemente la finanza, l’economia e la politica mondiali.

Un altro approfondimento ricostruisce le vicende e le contraddizioni dell’impero economico e patrimoniale di Elon Mask, oggi considerato l’uomo più ricco del mondo. Molto attuale è anche la pagina dedicata alle azioni di boicottaggio delle multinazionali che conducono affari in Israele, che mostra come in alcuni casi stiano funzionando.

Non mancano i dati sulle multinazionali di origine europea, oltre alla preziosa informazione che l’Unione europea ha recentemente approvato una normativa che impone alle aziende che producono e vendono in tutto il mondo l’obbligo di verificare che lungo tutte le proprie filiere produttive e commerciali siano rispettati i diritti umani e l’ambiente.

Il sottotitolo del report Top200 è inequivocabile: «La crescita del potere delle multinazionali». Dopo averlo letto è più facile capire le pressioni e i condizionamenti che le multinazionali possono esercitare nei confronti del potere pubblico. «Possiamo – ha detto il giudice Louis D. Brandeis (membro della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1916 al 1939) – avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose»

Rocco Artifoni




Pillole «Allamano» /10. Prima di tutto santi


Carissimo Padre, buon Natale.
Uso l’appellativo Padre invece di Canonico (oggi un po’ demodé), o di Rettore (troppo accademico), per sottolineare la paternità spirituale che hai avuto e continui ad avere su di noi, missionari e missionarie della Consolata. Grazie per queste pillole di spiritualità che, oggi come ieri, ci aiutano a dare un senso alla nostra vita, per poterne essere i protagonisti e non dei comprimari. I tuoi consigli hanno permesso a missionari e missionarie di camminare diritti e spediti durante tanti anni e in moltissime parti del mondo; crediamo che possano servire anche a noi, nella nostra Europa attuale, per riproporci come persone che hanno a cuore il Regno di Dio, e lo vogliono promuovere lì dove si trovano. In fin dei conti, questo è lo spirito con cui abbiamo provato ad assumerle durante questi mesi e chissà se ci aiuteranno ad alzare un po’ il tiro, iniziando da questo periodo natalizio.

A Natale si dovrebbe essere tutti più buoni o, come forse suggeriresti tu stesso, un pochino più santi. Ti è sempre piaciuta questa parola: santo.  Hai parlato tanto di santità, ma soprattutto hai vissuto in modo da rendere esplicito, visibile, toccabile con mano ciò che cercavi di esprimere a parole. Hai soprattutto cercato di mostrare che la santità è nient’altro che il coronamento di un cammino nella fede «fatto bene», con rispetto del ruolo che si occupa nel mondo, senza pensare di essere Dio, ma soltanto povere creature che cercano di fare al meglio la Sua volontà (a dirla tutta, se c’è qualcosa che veramente contraddice lo spirito del Natale è proprio questa tendenza a credersi dei padreterni; altro che spirito dell’incarnazione!).

La Torino dei tuoi tempi poteva vantare degli esempi di santi mica da ridere: ci si sarebbe potuta fare una squadra di calcio con tanto di riserve contando tutte le persone che hanno dato la loro vita per la causa del Vangelo, e a tale ragione sono assurti alla gloria degli altari. Altri ancora hanno vissuto la loro vita cristiana in maniera più nascosta, o forse meno «eroica», e non vengono ricordati liturgicamente, ma hanno comunque lasciato un segno che rimane vivo ancora oggi, eredità di una vita dedicata a Dio e al servizio dei fratelli. Alcuni parlano di loro come «santi sociali», proprio per sottolineare il loro forte impegno al servizio dei poveri del tempo, fra i giovani, gli operai, i carcerati, gli ammalati…

Molti li hai incontrati tu stesso di persona. In particolare non si può non citare le due figure a te più vicine, non fosse altro per la comune provenienza, visto che eravate tutti originari di Castelnuovo, in provincia di Asti: Giuseppe Cafasso, tuo zio, e Giovanni Bosco. Oggi il tuo paese, adagiato sulle colline del Basso Monferrato astigiano, ha preso il nome di Castelnuovo don Bosco, dal concittadino più famoso, anche se dovrebbe essere battezzato «Castelnuovo dei Santi» perché ben quattro (va aggiunto infatti anche Domenico Savio) sono i santi che lì hanno avuto i loro natali in uno spazio di tempo davvero ristretto.

Santi vicini, santi in famiglia, santi le cui vite si sono sfiorate lasciando segni indelebili sulle altrui esistenze. Sì, diciamo che sei anche stato un po’ fortunato ad avere la possibilità di entrare in contatto con persone di quel calibro. Da loro hai attinto molto, pur conservando una tua precisa personalità, che non si è confusa né con lo spirito, né tantomeno con la missione altrui. Da Giovanni Bosco, anche se soltanto per un breve periodo di tempo, sei andato a scuola nell’Oratorio da lui fondato, luogo da cui poi ti sei allontanato alla chetichella, per non dare un dispiacere a chi ti aveva ospitato fra i suoi ragazzi e che probabilmente, vedendo la pasta di cui eri fatto, aveva iniziato a pensare che un giorno avresti potuto dargli una bella mano. Del resto, non lo hai fatto per capriccio (le persone capricciose non ti sono mai andate troppo a genio e non ti sei stancato di ripeterlo in continuazione a tutti coloro che erano affidati alla tua formazione), ma per seguire quella che a te sembrava essere la tua strada, indirizzandoti verso il Seminario metropolitano di Torino.

A Giuseppe Cafasso devi sicuramente molto di più, pur avendolo personalmente incontrato tutto sommato poche volte. Hai respirato sin da piccolo la sua presenza e hai sempre saputo e creduto di avere un «Santo zio» in famiglia, al punto che quando è stata l’ora ti sei dedicato anima e corpo, fra mille altre cose, anche ai processi di beatificazione e canonizzazione, dando così alla Chiesa intera un modello di prete a cui ispirarsi.

Creazione di David Ongaro per la chiesa di Maria Regina delle Missioni in Torino: san Giuseppe Allamano con i suoi santi. Da sinistra a destra: s. Chiara regge con lui il quadro della Consolata, s. Ignazio di Loyola, s. Caterina da Siena, s. Giovanni Bosco, s. Francesco di Sales, s. Teresa d’Avila, s. Francesco, s. Teresina di Gesù Bambino, s. Fedele da Sigmaringen, s. Giuseppe Benedetto Cottolengo, s. Francesco Saverio e s. Giuseppe Cafasso, suo zio.

La santità che hai conosciuto tu, di cui hai fatto esperienza diretta vedendola riflessa nelle esistenze degli altri, era la conseguenza di una vita buona, vissuta bene, con sacrificio, determinazione, fede, perseveranza. Dio lancia il seme, e questo cade in una terra più o meno fertile. Nel vostro caso terra fertilissima, perché preparata, lavorata, concimata quotidianamente con la pazienza e anche la fatica del contadino. Niente di eccezionale, verrebbe da dire, una santità alla portata di tutti, fatta di piccoli gesti buoni ripetuti nel tempo. È la santità di tante nostre famiglie, quella che non fa rumore ma permette al bene di incunearsi nel tessuto della società e lo fa scorrere a dispetto di tanti messaggi a esso contrari, segnali di male, morte, disperazione che mettono in pericolo la speranza.

L’eccezionalità sta appunto in questo lavoro costante su di sé, sulla propria crescita umana e spirituale. «Vivere l’ordinario in modo straordinario» è il motto che hai proposto a chi guardava a te come modello di uomo e prete. Lo hai attinto dalla spiritualità di San Giuseppe Cafasso, ma lo hai fatto diventare come parte del tuo stile di vita. Il tuo punto di riferimento era Cristo, ma il tuo terreno di gioco è sempre stato il quotidiano, le ventiquattro ore della giornata, cui dare un senso, giorno dopo giorno, con l’Eucaristia a fare da metronomo: preparazione, celebrazione e ringraziamento; e così via, in una serie continua di istanti in cui la vita dell’uomo si fonde in quella di Dio.

Il santo è la persona che vive in profondità questa unione di Dio con la sua storia passata, presente e futura; è colui o colei che permette a Dio di incarnarsi nel suo vissuto, di vivere nella sua famiglia, di frequentare la stessa scuola o di interessarsi degli stessi problemi di lavoro degli altri. Il santo è la persona della porta accanto, quella capace di praticare iniezioni di bene con la sua presenza discreta e silenziosa, che permette a Dio di essere Dio, e lo fa lasciando che questi entri nella propria vita, concedendogli spazio e diventando a sua volta strumento di salvezza.

Caro don Giuseppe, tu sei stato questo tipo di persona per molti tuoi contemporanei, che istantaneamente hanno riconosciuto in te i segni di una presenza più grande. Il tuo spirito di preghiera, l’amore per l’eucaristia, la relazione cuore a cuore con Maria Consolata. Tuttavia, la tua santità ha assunto dei connotati speciali che restano un’eredità unica per noi missionari e per tutti gli amici che, a vario titolo e in varie occasioni, si sono avvicinati al nostro carisma e ne sono rimasti affascinati.

Innanzitutto, la tua è stata una santità extra large; hai guardato oltre i confini di Torino, dell’Italia, più in là sempre e comunque. Sicuramente più in là dei tuoi comodi – avresti potuto infatti vivere un’esistenza decisamente tranquilla e rilassata invece di perdere pace, salute e soldi nel correre dietro all’ideale missionario – a cui hai però volentieri rinunciato per rispondere all’imperativo che sentivi dentro di te di annunciare a tutti la consolazione del Vangelo. In questo momento storico in cui la chiesa è invitata a uscire, ad andare alle periferie, a essere lì dove la gente si trova, a non perdere la voglia di annunciare, ci offri un modello di santità molto attuale. Dà coraggio pensare che hai vissuto in maniera totale la tua missionarietà senza mai allontanarti, se non per brevi viaggi, dal tuo amato Santuario della Consolata. Sei un invito vivente per tante persone e famiglie che forse non ce la fanno proprio a trovare tempo e risorse per «partire» e vivere la loro vocazione missionaria in terre lontane. C’è chi dona partendo e chi parte donando. Da sempre la missione si è nutrita del dono del tempo, dei beni materiali, della preghiera di tanti benefattori che pur senza oltrepassare l’uscio di casa hanno reso l’attività dei missionari possibile, partecipando a tutti gli effetti, pienamente, della missione della chiesa.

Inoltre la tua è stata una santità «inclusiva», che si è nutrita e arricchita dei contributi di culture nuove e lontane, di cui leggevi attraverso i racconti dei tuoi missionari. Il senso di vicinanza all’altro che hai trasmesso ai tuoi, l’enfasi posta sulla necessità di imparare, e imparare bene, le lingue straniere per meglio comunicare con le persone, la passione di capire l’altro per entrare nel profondo della sua cultura, con rispetto, in punta di piedi… sono elementi che hanno caratterizzato il tuo insegnamento e restano parte di quello spirito che sempre hai voluto trasmettere personalmente ai tuoi missionari. I nostri confratelli che lavorano in Asia sempre ripetono l’importanza di essere sul posto, presenti, sussurrando il Vangelo, con tatto, rispetto e discrezione, senza imporre, ma proponendo coraggiosamente la buona notizia di Gesù.

In questo mondo così controverso e contraddittorio, alla cui tensione verso la globalità rispondono movimenti di chiusura e intolleranza assolutamente non evangelici, la ferma delicatezza della tua parola è garanzia di un messaggio di accoglienza e di fraternità che rincuora e dà coraggio.

Grazie caro Padre per quest’ultima tua pillola che, in fondo, contempla tutte le altre. Siate santi missionari; anzi, «prima santi, poi missionari», come ripetevi instancabilmente allora e continui a ripetere anche a noi oggi. Ai nostri giorni il tuo appello assume una valenza particolarmente pregnante perché immettersi in un cammino di santità significa andare due volte contro corrente. Mentre noi missionari e missionarie della Consolata desideriamo profondamente che tu, già beato, possa essere riconosciuto finalmente santo, tu vuoi soprattutto che siamo noi a santificarci, anche senza riconoscimento ufficiale da parte della chiesa. Ci chiedi soltanto di condurre una vita evangelicamente certificata e di testimoniare con coerenza i valori del Vangelo attraverso il carisma speciale che ci hai lasciato.

Penso che, corroborati da un anno di pillole ricostituenti da te fornite, possiamo tentare di metterci su questo cammino chiedendoti, ancora una volta, di essere padre e guida dei tuoi missionari e degli amici fraterni che ne accompagnano le iniziative apostoliche. Siamo convinti che, diventando più santi, noi spianeremo anche a te la strada per il riconoscimento universale della tua santità. Prendi questo nostro impegno come un piccolo regalo di Natale. E ancora tanti auguri.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole

Per finire con gioia

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