In Ucraina, dove Caritas è speranza


foto di padre Luca Bovio


Con l’avvicinarsi dell’inverno, con don Leszek e Rika, un gruppo ormai ben collaudato e affiatato, mi metto in viaggio per l’Ucraina per portare aiuti e raccogliere testimonianze. Con l’auto piena di aiuti umanitari e con i permessi della Caritas passiamo la frontiera senza grandi difficoltà. Appena entrati in Ucraina ci colpisce immediatamente la mancanza di luce, non solo di quella naturale per le giornate ormai molto corte, ma anche e soprattutto di luce elettrica. Le strade sono buie. Ci raccontano che il 40 % della produzione di energia in tutto il paese è fuori uso a seguito degli ultimi attacchi avvenuti alle centrali elettriche nel mese di ottobre. Il carburante e i generi alimentari, invece, si trovano senza difficoltà, soltanto a prezzi raddoppiati.

Trascorriamo la prima notte nella città di Lutsk, a meno di due ore dal confine con la Polonia. Siamo ospitati dal vescovo della diocesi, S.E. Vitalij Skomarovs’kyj. Durante la cena ci racconta circa la situazione attuale dalla sua diocesi. Lutsk, pur trovandosi lontano dai territori dei conflitti che avvengono ad Est e a Sud del paese, è stata colpita le scorse settimane per danneggiare la centrale elettrica causando così la perdita parziale di corrente. Oltre a questo, il problema più grande che qui si deve affrontare è l’accoglienza dei profughi arrivati dall’Est del paese. Ogni settimana presso il centro della Caritas della diocesi vengono distribuiti aiuti per oltre 300 nuclei familiari. Grazie alla generosità di diversi benefattori possiamo lasciare una somma che aiuterà l’acquisto di generi alimentari e di beni di prima necessità.

Con il vescovo di Lutsk, mons Vitalij Skomarovs’kyj

Il giorno successivo, di buon mattino, ci mettiamo in macchina per raggiungere la capitale Kiev, dove, negli ultimi giorni, il numero degli attacchi è diminuito. A differenza di luglio, quando arrivammo qui l’ultima volta, notiamo un minor numero di controlli stradali. La città mostra ancora le ferite degli attacchi precedenti ai palazzi e alle infrastrutture. Facendo una passeggiata alla sera vediamo nel centralissimo parco della città il nuovo ponte distrutto da un razzo poche settimane fa. Gli abitanti della città vivono normalmente, ci racconta il nunzio apostolico, mons. Visvaldas Kulbokas, che gentilmente ci ospita. La corrente elettrica è collegata solo per poche ore al giorno e i grandi quartieri della città devono fare a turno per riceverla. Sono tantissimi i palazzi popolari molto alti, a volte di 30 piani, dove vivono migliaia di persone. La mancanza di energia interrompe l’uso degli ascensori obbligando a raggiungere a piedi il proprio appartamento. Il giorno successivo, prima di lasciare la città, visitiamo brevemente una parrocchia in costruzione dei padri Pallottini.

Dopo alcune ore di viaggio e dopo esserci assicurati sulla situazione raggiungiamo Charkiw, la seconda città per grandezza dell’Ucraina. La città è all’estremo Est del paese a soli 30 km dal confine con la Russia. Prima dello scoppio del conflitto, Charkiw contava più di 3 milioni di abitanti, oggi poco più di un milione. Qui gli attacchi sono quasi ininterrotti da febbraio e la città, così come la provincia, mostra tutte le sue ferite.

Arriviamo in serata avvolti da una nebbia molto fitta. La città è completamente al buio non solo a motivo del razionamento elettrico, ma anche e soprattutto per non dare riferimenti agli aggressori che sono stati respinti fino al loro confine a soli 30 km. A settembre erano arrivati a soli 10 km dal centro città per essere poi respinti di nuovo dietro al confine. Don Wojciech, sacerdote polacco che lavora qui da 6 anni, è il direttore diocesano della Caritas, attraverso la quale gli aiuti vengono distribuiti alla popolazione.

Dopo l’arrivo siamo accompagnati da due volontari della Caritas in una zona popolare della città pesantemente colpita. In quei palazzi vivono centinaia di persone nelle cantine. Lì le incontriamo. Scendendo una scaletta illuminata dalla torcia del telefonino, incontriamo le prime famiglie che qui vivono da ormai otto mesi. Sono nuclei familiari grandi, composti dai nonni, dai genitori e da bambini, a volte anche molto piccoli. I locali sono scaldati o dai tubi del sistema principale di riscaldamento ancora intatto, oppure da alcune stufette a legna. I letti sono costruiti sopra dei bancali di legno usati per le merci e ammorbiditi da materassi o da coperte. Quello che colpisce è la semplicità con cui vivono queste persone che riescono a sorridere incontrandoci e ringraziano continuamente per tutto quello che facciamo. Una tra queste ci dice: «Padre ci sono persone che stanno peggio di noi». Siamo guidati per i corridoi delle cantine. Su ogni porta con un gessetto ci sono scritti i cognomi e il numero della famiglia che in quella cantina vive. Una cantina è attrezzata con un wc rialzato da dei bancali e serve per decine di famiglie.

Una famiglia ci spiega che nella propria cantina hanno l’accesso a internet grazie a un vicino che abita al pian terreno e che ha messo il router in una posizione favorevole affinché il segnale arrivi. Un’altra cantina è organizzata come spazio di incontro per i bambini. Chi vive in queste condizioni in varie parti della città sono coloro che hanno la casa completamente distrutta o gravemente danneggiata. Una signora ci spiega che il suo appartamento al sedicesimo piano è del tutto senza finestre distrutte dall’onda d’urto delle esplosioni. Se anche le finestre fossero intere o riparate, lei sceglierebbe comunque di stare in cantina perché i piani alti dei palazzi sono quelli più esposti alle esplosioni.

Dopo questa toccante visita, conclusasi con abbracci e con la promessa che non li avremmo dimenticati, andiamo a trovare un parroco in un quartiere periferico della città. Ci racconta che nella sua parrocchia c’erano circa mille cattolici. Ora solo 4 o 5 vengono ancora per la Messa domenicale, tutti gli altri sono scappati. Nelle sale della parrocchia vivono alcuni anziani che qui si sentono più al sicuro che nelle proprie case. Nel garage ci mostra i resti di alcuni razzi caduti nei pressi della chiesa che per fortuna non è stata seriamente danneggiata. Ci fa vedere un mucchio di schegge affilate come rasoi delle bombe a grappolo. Colpiscono tutto nei dintorni dell’esplosione.

La notte, nonostante le allerte che arrivano sui telefonini, trascorre tranquilla e finalmente il giorno successivo alla luce del giorno possiamo vedere la città coi nostri occhi. Siamo accompagnati dal giovane vescovo Pavlo Hončaruk. I grandi palazzi centrali della città sono quasi tutti senza finestre a motivo delle esplosioni. Alcune sono riparate con dei pannelli di legno, altre sono distrutte e senza vetri.

Scuola bombardata a Korobochkyne

Ci dirigiamo rapidamente nei villaggi fuori città in direzione Sud Est. Raggiungiamo un villaggio, Korobochkyne, accompagnati da una troupe televisiva polacca che avendo saputo della nostra presenza ci ha raggiunto per fare delle registrazioni. Andiamo in una scuola pesantemente colpita. La direttrice ci dà il benvenuto e ci mostra i danni dell’edifico. Ci racconta che i soldati russi hanno portato via anche le scarpe degli alunni più grandi lasciando solo quelle piccole. Alla domanda di che cosa più urgente ha bisogno, ci risponde che i suoi bambini possano ritornare al più presto nel paese e a scuola. Oltre alla distruzione degli edifici il problema più grande, ci spiegano due soldati, è quello delle mine. Nei campi attorno alla città sono state collocate molte mine che rendono impossibile e molto pericoloso ogni tentativo di coltivazione. Riceviamo un appello affinché l’esercito si possa occupare della messa in sicurezza del territorio. Ora capiamo inoltre perché nei campi tantissimo granoturco e frumento sono rimasti non raccolti.

Nel pomeriggio abbiamo ancora la possibilità di vedere in città dove vengono distribuiti gli aiuti dalla Caritas. La fila di persone è impressionante. Ci raccontano che mediamente in un pomeriggio distribuiscono aiuti a più di 2000 persone, 30mila in due settimane. Per aiutare il numero più grande possibile di persone la distribuzione è regolarizzata con un sistema di tagliandi per cui i beneficiari possono ritirare i beni una volta ogni due settimane. Ognuno riceve 1 kg di pasta, latte, conserve di carne. I bambini in fila sono invitati a fare dei disegni e per questo ricevono cioccolata, caramelle e quaderni. Non solo gli anziani ricevono questi aiuti, ma anche adulti rimasti senza lavoro, una vera piaga lasciata dalla guerra. Tra questi un insegnante ci dice che con vergogna deve ricevere questo aiuto per sopravvivere, ma preferirebbe lavorare e pagare di tasca sua la spesa. Sono 4 i punti di questo tipo organizzati dalla Caritas nella città Charkiw.

Alla fine della giornata ritorniamo a Kiev prima delle 23.00 appena in tempo per evitare il coprifuoco che dura fino alle 5 del mattino.

Il penultimo giorno del nostro viaggio lo viviamo in una casa di bambini orfani gestita dalle suore Benedettine in un villaggio nel centro ovest del paese di Balyn. Per raggiungerli passiamo vicino alle città di Zytomyr e di Vinnica. Nella casa vivono 9 bambini dai 3 ai 12 anni senza genitori oppure con difficolta che non permettono loro di vivere in un normale clima familiare. L’attesa per il nostro arrivo è trepidante. Riceviamo durante il viaggio video e messaggi dai bambini che ci incoraggiano a raggiungerli al più presto. Alla sera siamo accolti con una grande festa. Una squisita cena preparata dalle suore, e il dono di bellissimi vestiti ricamati a mano secondo la cultura tipica di quelle regioni, fanno da contorno alla compagnia festosa e rumorosa dei bambini.

Il giorno dopo rientriamo in Polonia, per fortuna senza essere fermati a lungo alla frontiera (la volta scorsa furono ben dieci ore di attesa). Durante il viaggio abbiamo ricevuto tante altre richieste di aiuto tra queste alcune dalla città di Kherson liberata pochi giorni fa. L’inverno e solo all’inizio ma siamo sicuri che tanti di voi continueranno ad aiutare. Qualcuno ci ha detto: «Padri, avete degli ottimi angeli custodi che vi hanno sempre protetto durante questo viaggio». È vero lo abbiamo avvertito. Tuttavia, agli angeli custodi ci proteggono ancora di più quando qualcuno li prega e per questo ringraziamo anche per le tante preghiere che non sono mancate e che non mancheranno.

padre Luca Bovio imc

Leggi anche:

Ucraina: la solidarietà sfida l’inverno

da https://www.ildialogodimonza.it/ucraina-la-solidarieta-sfida-linverno/

Campi minati attorno a Korobochkyne




Missione donna

Scrivo queste righe durante il mese missionario. Un mese che comincia con la memoria di santa Teresa di Lisieux e si conclude con quella della beata Irene Stefani. La prima, vissuta solo 24 anni, è protettrice delle missioni, pur non essendoci mai stata; la seconda, missionaria della Consolata, è morta di peste in Kenya a 39 anni, mentre serviva i poveri. Due giovani donne innamorate di Dio, due che hanno fatto della dedizione incondizionata lo scopo della loro vita. Due donne consumate dall’amore.

A esse, voglio aggiungere suor Carola Cecchin, beatificata il 5 di questo mese. Un’altra missionaria di inizio Novecento in Kenya, detta «mamma buona». Anche lei bruciata dall’amore e «sepolta» nelle acque del Mar Rosso.

Nonostante debba tantissimo a suor Irene e ai suoi scarponi logori (ho letto la sua biografia «Gli scarponi della gloria» quando avevo 12 anni), non mi è mai venuto spontaneo pensare alla missione al femminile. Ma sempre di più è doveroso farlo, a maggior ragione in questi giorni segnati da figure femminili che, nel bene o nel male (lasciamo a voi giudicarlo), segnano la storia: la
regina Elisabetta; la leader della nuova maggioranza parlamentare in Italia, Giorgia Meloni; le donne iraniane che non si lasciano intimorire dal maschilismo violento mascherato di religione di alcuni loro connazionali. Senza contare tutte le donne che costituiscono lo zoccolo duro e la maggioranza dei membri attivi delle parrocchie.

Come scordare, poi, che noi missionari della Consolata abbiamo la nostra ispirazione e il nostro modello proprio in una donna, la madre di Gesù, che noi, con i torinesi, chiamiamo affettuosamente Consolata?

In questo nostro tempo le donne sono protagoniste. Anche se a volte mi lasciano quantomeno confuso, come nella battaglia per far riconoscere l’aborto un diritto, oppure come nell’accettazione acritica di mode, spesso determinate da stilisti uomini, che di rispetto per la dignità della donna hanno ben poco.

Sono protagoniste, purtroppo, anche della cronaca che ci racconta un crescendo di violenze contro di loro, indice di grande confusione negli uomini, impreparati a una relazione paritaria con esse. Questo disagio è ancora più evidente in paesi del Sud del mondo, dove, grazie all’educazione e a tanti progetti mirati al loro empowerment, le donne stanno scoprendo una nuova dignità con la quale gli uomini non riescono a tenere il passo, aumentando comportamenti violenti e alcoolismo e lasciando sulle donne il peso della famiglia. Peso che, con la crisi che tutti stiamo vivendo, diventa sempre più gravoso.

Un altro ambito di violenza sulle donne è quello del traffico di persone, che vede proprio in loro la «merce» primaria da buttare nel vortice della prostituzione e nel mercato della pornografia online. Questi si nutrono, come ricordato da un recente rapporto presentato al parlamento francese, di violenze estreme proprio su donne e bambini. Non ultimo, in questo scenario, è l’aumento della schiavitù, anche nei nostri paesi che si ritengono così orgogliosamente superiori agli altri (vedi pag. 56). Corollario di questa nuova schiavitù è l’utero in affitto, che pure è rivendicato come diritto da alcuni che hanno grande influenza sui social.

Il nostro paese ha incoronato capo della nuova maggioranza in parlamento una donna. Non credo che questo basti da solo a risolvere i problemi di discriminazione e violenza. Come non basta lo scrivere aggettivi che finiscono con un asterisco o senza l’ultima consonante per creare nuove relazioni di rispetto della dignità di ogni persona. Chi è stato come me in Africa, ha usato lingue inclusive, ma ha sperimentato quanto maschilismo e sessismo ci fosse nella società. Senza un reale cambio di mentalità, espedienti linguistici come l’omissione delle ultime lettere delle parole per indicare un genere «neutro» rischia di essere solo un intervento cosmetico.

Le tre sante che hanno fatto da corona al mese missionario, non hanno fatto teorie, ma hanno vissuto una mentalità nuova centrata sull’amore, facendosi serve – non padrone – degli altri, fino a dare la propria vita perché le persone che hanno incontrato potessero essere vive, libere e amate. Ci hanno mostrato la strada, quella che Gesù indica per «farsi servi» gli uni degli altri.

L’augurio è che tutti la percorriamo.




Io sono tutte le donne


In queste pagine sono riportati alcuni dei racconti che hanno vinto il XIII Concorso Lingua Madre del 2018. Dello stesso Concorso, MC ha già pubblicato diversi testi nell’agosto 2016. Ringraziamo Daniela Finocchi, ideatrice del concorso, per averci offerto questi scritti. Siamo felici di pubblicarli proprio in questi giorni in cui le donne, a cominciare da quelle iraniane, sono protagoniste e promotrici di grandi cambiamenti.

Il Concorso letterario nazionale Lingua Madre

È un progetto permanente di Regione Piemonte e Salone internazionale del libro di Torino, ideato da Daniela Finocchi, nato nel 2005 per dare voce a chi spesso non ce l’ha. Diretto alle donne migranti (o di origine straniera) e alle italiane che vogliano raccontare l’incontro con l’altra, promuove la relazione. Si può partecipare con un racconto o/e una fotografia, da sole, in coppia o in gruppo e ci si può far aiutare da un’altra donna se non si ha dimestichezza con l’italiano scritto.

Ma non si esaurisce con il Premio letterario e fotografico (per chi volesse partecipare, è in corso la XVIII edizione che si concluderà il
15 dicembre). Durante l’anno, infatti, vengono realizzati incontri e iniziative proprie o sviluppate in collaborazione con altri soggetti pubblici e privati, che coinvolgono direttamente le autrici e le rendono protagoniste. E ancora un podcast, la sezione audioracconti, una borsa di studio annuale destinata a una giovane, speciali online, produzioni video e spettacoli teatrali tratti dai racconti.

A questo si aggiunge l’attività di ricerca su letteratura e migrazione femminile svolta da docenti – straniere e italiane – che fanno parte del gruppo di studio. Un lavoro poi divulgato con volumi di approfondimento, seminari, convegni.

Le 17 antologie con i racconti selezionati delle autrici – da cui sono tratti i racconti qui pubblicati – rappresentano un vero patrimonio della letteratura della migrazione, il 4 novembre verrà presentato il libro Lingua Madre Duemilaventidue – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27), presso il Circolo dei lettori di Torino.

Il bando e tutte le novità si possono trovare sul sito www.concorsolinguamadre.it

Daniela Finocchi

Sommario

 


Storie vere di donne migranti

Valeria Rubino

Nasce e cresce a Verona. Studia giornalismo e dopo una breve esperienza lavorativa a Londra, nel 2015 – al culmine dell’emergenza sbarchi dei richiedenti asilo giunti tramite la Libia – torna nella sua città. Da allora lavora per una Cooperativa sociale all’interno del progetto «Immigrazione», occupandosi dell’accoglienza dei cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale sul territorio di Verona e provincia.

Il suo racconto, «K.19», ha vinto il premio «Sezione speciale donne italiane» della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per la capacità di raccontare senza sconti le violenze subite dalle donne migranti dall’Africa all’Europa. Per lo sguardo di lucida empatia con cui ogni storia è narrata nella sua unicità, mettendo tuttavia in evidenza la comune deumanizzazione che la violenza contro le donne in quanto donne produce in chi la subisce. Per l’azione politica svolta dalla denuncia di crimini contro l’umanità che chi racconta svolge con prosa attenta, senza concedere nulla al pietismo e alla commozione. Malattie, leggi, gravidanze, guerre, stupri diventano voci di tante piccole carte d’identità a cui si aggiunge quella dell’autrice che si riconosce in tutte e soprattutto nell’affermazione della dignità femminile presente in ogni storia».

K.19

K.

K. è nigeriana ed ha 19 anni. È cresciuta senza madre, della quale non sa nulla, con il padre. Il padre che, fin da bambina, la chiudeva a chiave in casa usciva per andare al lavoro, poi tornava la sera pretendendo che la figlia avesse preparato la cena e sistemato la casa. Beveva e si approfittava sessualmente di lei. Un giorno K. è riuscita a fuggire. Non avendo nessuno, ha vagabondato per le strade per mesi. Poi qualcuno le ha offerto la salvezza: un viaggio pagato per l’Europa e un lavoro al suo arrivo. Così K., attraversando Nigeria e Niger è arrivata in Libia. Poi i barconi. Poi la costa. È Italia.

K. arriva alla città cui è stata destinata, in qualità di richiedente asilo.
Una casa, dei pasti caldi, assistenza burocratica e sanitaria, scuola, scoperte.
E un uomo che inizia a chiamarla, per «quel lavoro» che le era stato promesso.
Prostituzione.
Io non sono una prostituta.

Devi restituire ventimila euro.
Per cosa.
Per il viaggio che ti è stato pagato.
Io non sono una prostituta.
Se non accetti faremo del male a tuo padre.
Non mi importa, è un uomo cattivo.
Faremo del male a tua madre.

Ho perso mia madre quando ero bambina, non l’ho mai conosciuta.
L’abbiamo ritrovata, se non vuoi che le venga fatto del male fai quello che ti viene chiesto. Puoi parlarle al telefono, se non ci credi.
A questo punto K. ha parlato con una donna per telefono. Piangeva. La pregava di ascoltarli, di fare quello che le stavano chiedendo, perché avevano minacciato di ucciderla.

K. è una bambina. I traumi che ha subito non le hanno permesso di crescere. Con l’ingenuità di chi ha dieci anni e la consapevolezza di chi ha vissuto la violenza si rivolge all’operatrice della struttura di accoglienza, e le chiede cosa fare.
Nulla. Quella non è tua madre. Vogliono fartelo credere per ricattarti. K., qui c’è qualcuno che può aiutarti.
Rete anti-tratta.

E.

E. è nigeriana e ha 21 anni. È rimasta nel centro di accoglienza dieci giorni, poi è scomparsa. Due mesi dopo ha contattato telefonicamente il centro.
Prostituta. Incinta di una violenza. Aiutami.

La rete anti tratta, contattata con il numero verde, l’ha trovata dove aveva detto di essere. Era fuggita da chi la stava costringendo a vendersi per restituire quello stesso debito che affligge tutte, o quasi tutte, le ragazze nigeriane che arrivano in Europa.

E. è stata inserita in una struttura protetta. I suoi sfruttatori non hanno più saputo nulla di lei, né nessun altro. Chi viene protetto semplicemente scompare.

D.

D. è burkinabè e ha 23 anni. Quando è arrivata in Italia era analfabeta. Ha lasciato in Burkina Faso le violenze della sua famiglia. E la tristezza.

In un anno ha imparato a leggere, scrivere, e l’italiano.
sorride sempre. Aiuta chiunque a fare qualsiasi cosa.
D. è forza e meraviglia.
Ha trovato con le sue sole forze un lavoro, e con il suo contratto in mano ha lasciato il programma di accoglienza, per occuparsi a tempo pieno di una signora anziana, che le vuole bene.

L.

L. è nigeriana e al suo arrivo in Italia ha dichiarato di avere 21 anni. Ma L. aveva il viso di una quindicenne.
Quando è arrivata era incinta. Non se n’era accorto nessuno, in Sicilia. Una ragazzina magrissima, chiusa in un giaccone troppo grande per lei.
Arriva al centro di accoglienza una sera di dicembre.

L., come stai? Di quanti mesi sei? Ti hanno controllata? Il tuo bambino si muove?
L. sorride e risponde bene. Sette. Sì. Sì.

Due ore dopo inizia a stare male. Ambulanza. Ospedale.
Altre due ore dopo L. partorisce un bambino. È maschio. Ed è morto da due o tre giorni.
Funerale.

L. torna al centro, e si aggira come un fantasma.
Dopo qualche tempo, raccoglie le sue quattro cose e senza dire nulla sparisce. Il numero di telefono già dal giorno dopo risulta staccato. L’ennesima carta sim buttata per non farsi più trovare.

S.

S. è nigeriana e ha 3 anni. Quando è arrivata, con i suoi genitori, ne aveva due ed era una bambina inavvicinabile. Respingeva qualunque tipo di contatto iniziando a graffiare, spingere, schiaffeggiare e urlare con tutta la forza della sua voce stridula. La madre sorrideva tristemente dei modi della figlia.

A un anno dal suo arrivo S. corre in braccio alle persone che ha imparato a riconoscere. Gioca, ride, è allegra e impara in fretta. Ha adottato a fratello un bambino di 10 mesi che ha vissuto con lei, e se ne è presa cura.

F.

F. e B. sono eritree e hanno 20 e 23 anni. Al loro arrivo F. era incinta di otto mesi e B. aveva partorito M. pochi giorni prima, in Libia. Si era imbarcata con questo bambino di sei giorni e la ferita del parto non curata, che si era infettata male.
Durante la loro permanenza nel centro F. ha avuto A., una bambina sana e bellissima.

F. è stata curata e il suo bambino ha lentamente preso peso.
Poco tempo dopo, secondo la deroga della legge «Dublino III» che prevede il ricollocamento di richiedenti protezione internazionale in uno degli stati che hanno aderito a tale legge, sono state rilocate e hanno raggiunto i loro parenti, in Europa.

P.

P. è nigeriana e ha 23 anni. Al suo arrivo era debole. Ha scoperto in un ospedale siciliano di essere positiva a Hiv ed Epatite B, probabilmente contratte a causa delle varie, troppe, violenze subite nel suo tentativo di arrivare in Europa.

P. oggi è in cura, e sta bene. È eccentrica e ha un carattere potente. È sorprendentemente positiva e trascina chiunque le si avvicini in una risata.

Si rabbuia quando va alle visite. Quando chi la segue le fa domande sulla sua situazione. Ma ha individuato di chi fidarsi, e queste poche persone godono del privilegio di poter entrare dentro la sua personalità trascinante.

In Italia questo tipo di infezioni, per quanto al momento incurabili, possono essere trattate. Le cure garantite permettono a chi ne beneficia di avere una vita assolutamente normale e di poter decidere di avere bambini senza infettare il o la partner.

P., con le cure e queste informazioni, è rinata. E investe le persone di benessere.

F.

F. è per metà ghanese e per metà nigeriana, e ha 2 anni. Quando è arrivata non li aveva ancora compiuti, e con lei c’era il papà. Storia strana. Le statistiche dimostrano che la stragrande maggioranza di minori che arrivano con un genitore solo sono con la madre.

S., il papà, fatica a prendersi cura della bambina.
Mia moglie è rimasta in Libia. È incinta. C’è stata un’incursione nella nostra casa, hanno iniziato a sparare. A casa c’eravamo solo io e mia figlia, mia moglie era uscita. Ho preso la bambina e sono scappato. Non so come fare. Ho bisogno di aiuto.
La moglie non si trovava.

Sei mesi dopo S. dice che C., sua moglie, è sbarcata in Sicilia.
Partono le pratiche per il ricongiungimento.
F. arriva, devastata dall’esperienza e dalla gravidanza di ormai otto mesi.

L’incontro con F. è emozione strana, perché la bambina sulle prime non la riconosce. È scettica, e si rifugia tra le braccia del padre.
Nei giorni successivi C. riconquista la fiducia di F., piano piano. E un mese dopo nasce S., minuto, ma sano.

M.

M. è nigeriana e ha 24 anni.
Non sto bene, non ho forze, dice.
Pronto soccorso. È malaria. E una gravidanza recente. La malaria non si può curare definitivamente in una persona in gravidanza, perché le cure danneggiano il feto.

M. sapeva. Temeva.
Mi hanno stuprata. In Libia. Non posso tenere il bambino.

Il passo successivo è l’accompagnamento per l’interruzione della gravidanza.
Poi la malaria è stata curata.

M. al suo arrivo era schiacciata dalla vita. Con lentezza si è ripresa.
In Nigeria ero infermiera, dice. Potrei esserlo anche qui.

M. ha iniziato a studiare. Ha ricostruito la sua vita passo a passo.
E avanza, fiera.

J.

J. è gambiana e ha 17 anni. È arrivata con colui che si era dichiarato suo fratello, e che non la lasciava sola un attimo. J. è stata subito ricoverata in ospedale per problemi vari. H., suo fratello, le è rimasto sempre appresso.

Due giorni dopo il rientro dall’ospedale J. è sparita.
H., interpellato, non ne so nulla, diceva.
Non c’era preoccupazione in lui.

Sale, negli operatori del centro, la rabbia. È rabbia di impotenza. È rabbia per aver perso una ragazza minorenne avendo la sensazione che colui che dice di essere suo fratello non lo sia, e l’abbia venduta.
Parte una denuncia che non porterà a nulla. J. è in un buco nero.
H., pressato dalle richieste, dopo qualche giorno scompare anche lui.

W.

W. è eritrea e ha 22 anni. Nel suo paese era un soldato.
Durante l’addestramento ha dovuto subire un’iniezione «per non rimanere incinta». Da allora non le viene la mestruazione.

Questo tipo di pratica viene applicata per evitare di perdere soldati per colpa delle gravidanze, sia che si tratti di una donna che ha avuto un rapporto consensuale sia che si parli di una violenza sessuale. Cose che succedono.

A causa delle esperienze vissute in addestramento (W. non è mai stata in guerra) ha dei problemi di vista e di udito. Dice di sentire qualcosa che le martella dentro la testa.
Le visite hanno escluso problematiche reali.
Traumi, dicono.

U.

U., V., C., H., U., J. sono chi della Nigeria, chi del Camerun e hanno tra i 21 e i 29 anni. Sono tutte mamme e mogli. Sono arrivate con i loro mariti e i loro bambini.

Nella grande casa che è il loro centro di accoglienza sono state fin da subito trattate come invasori. Il paese nel quale vivono non ha mai accettato queste sei famiglie, in tutto dodici adulti e undici bambini, di età compresa tra i due mesi e i tre anni.

Un giorno due uomini, italiani, hanno fatto irruzione nella casa spaventando i bambini, insultando le donne e aggredendo uno dei ragazzi. U. ha bloccato la porta e ha chiamato i carabinieri. Poi ha sporto denuncia, insieme agli altri.

Gli aggressori si sono difesi sostenendo di essere stati trascinati in casa dagli ospiti.
Video girati sul posto dimostrano la loro colpevolezza.

V.

V. è italiana e ha 30 anni. Da due anni e mezzo lavora come operatrice in diversi centri di accoglienza per richiedenti asilo. V. non è straniera, non in Italia, non nel senso stretto del termine. Ma per il tipo di lavoro che fa si ritrova a interiorizzare storie ed esperienze di donne straniere. A subire espressioni razziste per la parte presa in questa invasione.

Eppure, V. pensa che non ci siano parti da prendere. Che non ci sia un noi e un loro.
V. sono io. Io sono tutte le donne che hanno creduto di poter meritare una vita diversa.
Sono chi sa di valere quanto e come un uomo, e per questo non vuole vivere sottomessa.

Sono tutte le donne che sanno di avere diritto all’istruzione. Alla felicità. Alla salute. A un equilibrio mentale.
Sono quelle donne che sanno di non essere prostitute e di poter combattere per fermare il traffico di esseri umani.
Sono chi vuole poter decidere quando e come avere un bambino.
Sono chi ha partorito bambini morti o malati perché ha dovuto affrontare la gravidanza in viaggio.
Sono le donne che hanno dovuto abortire e quelle che hanno voluto abortire, perché era l’unica scelta che era rimasta nelle loro mani. Perché quando il corpo è oggetto e viene usato, e non è rispettato, alle donne rimane solo l’aborto.
Sono le donne che non hanno potuto abortire perché era troppo tardi. Sono le donne che hanno messo al mondo figli indesiderati, e li hanno amati.

Sono tutte le donne che trovano la forza di denunciare le aggressioni che hanno subito.
Sono coloro che sono sfruttate. Che sono state vendute. Che sono sparite. Che sono morte.
Sono le donne oggi bloccate nei centri di detenzione in Libia.

Sono le donne traumatizzate; traumatizzate e segnate, e quelle che dai traumi hanno trovato la forza di reagire. Sono le donne che conoscono i propri diritti e combattono per vederli rispettati.
Io sono tutte le centinaia di donne che ho incontrato, sfiorato, conosciuto in questi anni.
Sono le donne che non ho incontrato, che non incontrerò e che continueranno a prendere parte a questo fisiologico flusso mondiale di affermazione della dignità femminile.

Valeria Rubino


Sul filo della memoria e delle radici

Dunja Badnjević

Nasce a Belgrado nel 1945 e vive in Italia da più di cinquant’anni. Ha lavorato come redattrice e attualmente si occupa di traduzione e promozione della letteratura serba, croata e bosniaca. Ha tradotto per Adelphi, Guanda, Editori riuniti, Bordeaux ed., Newton Compton e altre case editrici. Per la collana meridiani della Mondadori ha curaro e tradotto Ivo Andric, romanzi e racconti. Con il suo primo libro, L’isola nuda, edito da Bollati Boringhieri, ha ottenuto diversi riconoscimenti nazionali.

Il suo racconto, Ricordi rubati, ha vinto il Premio speciale Torino Film Festival della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Costruito in maniera secca ed essenziale, sa raccontare in poche pagine una storia complessa e animata da più personaggi, tutti con fisionomie ben definite. Ha ritmo, tempo, senso della narrazione. E non perde mai di vista il filo della memoria e delle radici, che rappresentano la base, intelligente e attuale, della storia».

Ricordi rubati

«Ha ucciso un uomo per delle foto?», chiese il poliziotto.
Rigirai i polsi stretti nelle manette: «Sì, l’ho fatto… Non potevo non farlo».

Sono arrivati al tramonto. Avevo chiuso le stalle e i pollai, stavo per preparare la cena. Il mio vecchio era in cortile, da quando i figli se ne sono andati si mette sempre sotto il ciliegio, dove una volta c’era la loro altalena. È lontana l’Australia, non possono venire a trovarci spesso. Ci mandano le fotografie, tutte a colori, con i nipotini che si vede che crescono bene. Noi le sfogliamo, le abbiamo tutte sistemate negli album e così li sentiamo più vicini. Ci bastano i ricordi. L’importante è questo, che loro stanno bene. La nostra è sempre stata una terra povera, difficile viverci.

Dicevo, sono arrivati senza preavviso. Una decina di uomini robusti, con i fucili in mano. Dietro a loro, nascosto, il mio vicino, Kresimir. Un uomo arcigno, mingherlino, la moglie come lui, inacidita, non hanno avuto figli. Veniva spesso a controllare: le vostre pecore sono più grasse, le vostre mucche danno più latte, i vostri alberi danno più frutti.

«Se hai bisogno serviti pure», gli dicevo. «Tanto a noi due vecchi ormai basta poco». Lui mugugnava qualcosa fra sé e se ne andava.

«Avete poco tempo per andarvene», ci ordinarono quelli in uniforme. «Siete serbi e questa non è più la vostra terra. Prendete il vostro carro e via!».

«Come, via, come andarsene? La nostra famiglia vive qui da secoli. Ci ha portato qui Maria Teresa per difendere i confini del suo impero e da allora è la nostra casa. La casa dei nostri padri, nonni, bisnonni…».

«Poche chiacchiere, vecchia! Le cose sono cambiate! Tu e i tuoi avete perso la guerra. Ora questa terra deve ripulirsi dai bastardi!».

«Sì, ripulirsi!», ripeteva anche Kresimir, gli occhi lucidi dalla contentezza.

«Dove ci porterete», chiesi, «e per quanto tempo? Il mio uomo è vecchio ormai, non ce la farà a fare molta strada».

«Prendete il carro e sparite. In Serbia, andrete, dove vi aspettano i vostri!».

I nostri, i loro. Questa guerra noi non l’abbiamo voluta. Ne sentivamo parlare, il vecchio teneva la radio sempre accesa e si faceva il segno della croce. «Basta che non arrivino qui», diceva.

Io ringraziavo Iddio che i figli erano lontani, molti giovani sono morti in questi pochi anni. Senza nemmeno sapere perché morivano.

«Forza», l’uomo in uniforme ormai si era spazientito. «Ci resta poco tempo». Ci fecero montare sul carro, io presi le redini e il cavallo si mosse. Feci per chiudere la casa, ma me lo impedirono. «Ora via, poi si vedrà!». Dietro a loro il vicino Kresimir ridacchiava.

Viaggiammo una notte intera. Un convoglio di vecchi, con poche masserizie accatastate sui carri. Fu il viaggio più lungo della mia vita. All’alba arrivammo alla periferia di una grande città. Qualcuno disse che quella era Belgrado. Ci fermarono e ci fecero spostare sul ciglio della strada.

«Mia moglie sta male!», si sentì da uno dei carri. Dalle case vicine cominciò ad arrivare la gente con brocche d’acqua e qualche panino. Ringraziammo con un groppo in gola.

«Che ci facciamo qui?», si lamentava un altro vecchio. «Voglio morire là dove sono nato. I giovani possono anche rifarsi una vita, per noi ormai è tardi…».

Ci fecero rimanere lì fermi per diverse ore. Non entrammo in città. La sera vennero dei soldati in altre uniformi. Ci scortarono, come vergognandosi, verso Sud, in campagna. Ci sistemarono nei prefabbricati tutti insieme, poi col tempo ci dettero case di mattoni. Vuote. Due letti, un fornello. Qualche coperta. I nuovi vicini senza tante parole portavano quel che potevano. Erano gentili, ma si vedeva che soffrivano anche loro.

Si fece qualche conoscenza. Si parlò delle nostre vite passate, dei figli. «Avete qualche foto?», ci chiesero.

«Le foto, le foto», ripeteva ormai in continuazione anche il mio vecchio. Ormai tutto ingobbito, seduto su uno sgabello davanti alla casa, lo sguardo fisso in lontananza. «Le foto!», supplicava.

Un giorno mi decisi. Presi il treno e dopo diverse ore mi ritrovai al confine. Dopo molte spiegazioni mi fecero un «passi» per l’estero. Quell’estero che era la casa in cui avevo vissuto. La vita che avevo vissuto. Un po’ a piedi, un po’ sui camion di brava gente, arrivai a casa mia.

Trovai il vicino Kresimir sotto il ciliegio e la sua famiglia in casa nostra. Non l’avevano nemmeno ripulita, tutto era rimasto uguale. Le piante si stavano seccando, i fiori erano appassiti. Mi si strinse il cuore ma mi avvicinai. Sulla sedia accanto all’uscio, un fucile. Cattiva coscienza?

«Finalmente ce l’hai fatta!», gli dissi. «Ora hai quello che hai sempre invidiato».

«Questa ora è casa nostra e tu te ne devi andare. Altrimenti chiamo la polizia!», mi rispose.

«Niente polizia, ormai l’ho capito e non chiedo giustizia. E non ti chiedo nemmeno quel poco di valori che sono rimasti fra quelle mura. Voglio solo i miei album, il vecchio ne ha bisogno!

«Quali album? Non li ho visti qui».

«Ce n’erano tanti, con delle foto, ben rilegati, tanto tu che ci fai con le foto della nostra vita?».

«Marija!», gridò Kresimir e uscì la moglie, piccola e mingherlina come lui. «La vecchia cerca le foto, le hai viste forse?».

«Le nostre foto», ripetei «quelle dei miei figli, dei miei nipoti, della nostra giovinezza, dei nostri giorni felici, della nostra casa, delle nostre vite». Ormai piangevo.

«Non ci sono», rispose Marija, incerta «e se c’erano le abbiamo buttate».

«Dove buttate, perché buttate?», balbettai.

«Dai, vecchia, vattene», mi apostrofò Kresimir. «Hai perso tutto, che te ne fai delle foto?».

Sentii la mia testa girare. Come stessi morendo. Qui, davanti alla mia casa, con degli estranei che mi negavano anche la memoria. Che uccidevano anche il ricordo. Che mi privavano della mia vita.

Non so come, presi il fucile. Non ho mai sparato in vita mia. Vidi Kresimir alzarsi e correre verso casa. Premetti il grilletto. Lui cadde e Marija gridò.

Poi siete arrivati voi. Fate quel che volete. Io sono già morta.

Dunja Badnjević

Immagini della città di Mostar distrutta dalla guerra – 1994


Adozioni internazionali: l’amore più forte del sangue

Dorota Czalbowska

Nasce a Varsavia, in Polonia, nel 1962. Compie gli studi in pieno regime comunista. Nel 1989 si trasferisce in Italia per lavoro, dove, con il tempo, forma anche la sua famiglia. Negli anni porta a termine la sua specializzazione linguistica ed entra in contatto con la complessa realtà delle adozioni internazionali. Il suo racconto La ragazza con le trecce, è pubblicato nell’antologia Lingua Madre Duemilaquattordici. Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27).

Con Parole perdute, ha vinto il secondo premio (Premio speciale consulta femminile regionale del Piemonte) della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per la disinvoltura narrativa con cui l’impresa della genitorialità è rappresentata senza retorica e senza idealizzazione, ma quale occasione di comprensione dell’umano nell’esperienza dell’adozione: tema complesso, estremamente e da tempo connesso con la migrazione, sempre attuale. Per la capacità di narrare, con prosa evocativa, il valore delle origini senza farne una questione di appartenenza, bensì un passato da condividere fra genitori e figlio, perché «le storie irrisolte» non ostacolino le possibilità di esistenza».

Parole perdute

A tutti i genitori coraggiosi, che ho avuto il grande privilegio di conoscere e che mi hanno permesso di fare una piccola parte nella loro meravigliosa avventura di vita…

La macchina sobbalzava sull’asfalto malridotto, ma non mi importava nulla dei colpi che mi scuotevano, sorpassavo le vetture presenti quella mattina sul mio tragitto come se fossero avversari da sconfiggere. L’aria fuori dal finestrino era soffocante come lo erano i miei pensieri. Mi era venuta voglia di fumare. La ripetizione di quel gesto, un tempo usuale, mi era riapparsa con l’impetuosità di un uragano. Al cervello non erano bastati cinque anni di astinenza da quel vecchio vizio del quale non andavo fiero.

Nei momenti di panico più assoluto, la mente richiama automatismi a lei confidenziali; è un inganno in grado di calmare i nervi.

In testa mi rimbalzavano le parole della tua maestra: «C’è stata una rissa con i compagni di classe, suo figlio ha battuto la testa e ha perso i sensi. Abbiamo già avvisato sua moglie, sta andando in ospedale».

Dovevamo aspettarcelo, non era la prima volta che ci facevi preoccupare. Trovarsi a soli nove anni lontano dalla propria terra e doversi fidare di due sconosciuti, che neppure parlavano la tua lingua, sarebbe stato difficile per chiunque.

La corsa in ospedale sembrava interminabile, così come lo è il tuo cammino attraverso un paese a te sconosciuto, un transitare da una lingua a un’altra, un fluttuare tra idiomi vecchi e nuovi, una continua ricerca di parole capaci di riempire il vuoto della tua identità. Sei in un incessante tumulto di emozioni e laddove le tue fuoriescono con l’irruenza di un fiume in piena inducendoti a comportamenti a volte insopportabili, le nostre devono tacere per calmare le tue.

Correvo per salvarti un’altra volta. All’interno della macchina e con le mani serrate sul volante sembravo un animale in gabbia. Se solo fossi riuscito a trovare il modo per comunicare con te. Una violenta raffica di immagini affollava la mia mente che, senza alcuno sforzo, cercava di ripercorrere la tua vita prima di noi. Pensavo al tuo mondo, definito dalle mura della tua casa, dove gli odori della minestra e dell’alcool si confondevano in un tutt’uno e dove le urla e le violenze tra tuo padre e tua madre, ubriachi e ruvidi, facevano parte del tuo quotidiano.

Hai visto cose che nessun bambino dovrebbe mai vedere e che hanno fatto precipitare la tua vita in un abisso senza più riferimenti. La tua famiglia non era più in grado di crescerti e come un soffio di vento ti è stata portata via.

Sei rimasto solo e senza più parole.

Come esprimere così tanto indicibile smarrimento? Forse pensavi che dimenticando la tua lingua e sradicandoti da essa, avresti fatto scomparire anche i ricordi. Così, da quando sei stato portato all’orfanotrofio, ti sei ammutolito. Per non annegare nel vortice che ti ha inghiottito, hai fatto come hai potuto, sostituendo il parlare con singhiozzi, suoni stonati, inciampi, rabbia. Le parole d’affetto di un tempo le hai rimpiazzate con altrettante vuote e assordanti come tamburi nel deserto. È stato così che, solo osservandoti, ho capito che il cambiare la propria lingua è un processo paragonabile a una guerra. Per trovare un modo nuovo di esprimerti e per ricostruirti hai dovuto prima sacrificare pezzi di te; per te non è stata un’opportunità, è stato un incubo.

Ho abbandonato la macchina nel piazzale dell’ospedale ed ho attraversato le porte scorrevoli del pronto soccorso. Eri in coma.

In una frazione di secondo un pensiero mi ha abbagliato come fosse stato un lampo; quando ti risveglierai in quale lingua parlerai, in quale lingua ti dovrò parlare io? E se non fossi in grado di capirti? Il polacco risiede nelle viscere più profonde del tuo essere, è la tua conoscenza inconscia, la tua vera identità e nessuno potrà mai portartelo via, nemmeno tu.

Mentre stavo per telefonare ad Anna, la nostra insegnante di polacco, per dirle di tenersi pronta in caso di necessità, ho sentito una voce rassicurante che mi invitava a sedermi vicino al letto dove eri sdraiato. Tua madre era già lì, più silenziosa del solito, assorta nei suoi pensieri che sistemava meticolosamente le lenzuola del tuo letto. Ci avevano consigliato di parlarti, di farti sentire le nostre voci e di raccontare storie per cercare di risvegliare la tua memoria. Cosa potevamo raccontarti noi, mi domandavo? Un padre e una madre che non condividevano con te alcun passato, a cosa potevano appellarsi, cosa potevano rievocare? Non avevamo ricordi, soltanto la strada ancora da costruire e da percorrere insieme a te.

Ci sentiamo affaticati, stremati, impotenti ma sappiamo che quello che stai vivendo tu è mille volte peggio.

Sono rimasto immobile senza dire una parola. Fissavo i macchinari ai quali eri attaccato osservando la tua quiete del tutto insolita. Vederti in quello stato mi faceva uno strano effetto e accelerava in me il bisogno di trovare una storia da raccontare. All’improvviso mi è apparso il ricordo del nostro viaggio verso di te, il ricordo di quanto volessimo sentirci pronti ma anche di quanto non ci rendessimo conto dell’utopia delle nostre aspettative.

Non si è mai pronti del tutto per questo tipo di esperienze.

Volevamo che diventassi nostro figlio e che rimanesse traccia di quanto tenessimo a te e per questo abbiamo varcato la soglia del nostro coraggio iniziando a studiare il polacco. Una lingua difficile, è vero, ma non aveva importanza visto che era l’unico modo che avevamo per addentrarci nel tuo mondo, nella tua storia, nelle tue radici. Pensavamo che entrando in confidenza con essa sarebbe stato più facile comprendere le esperienze e i dolori che ti portavi dentro. Durante le lezioni, immaginavamo e improvvisavamo situazioni impensabili, dalle più divertenti alle più difficili, alternando frasi di uso comune e giornaliero a frasi più profonde e intime. Per noi Anna era diventata una specie di ponte che ci avrebbe aiutati a raggiungerti e ad accorciare le distanze. Gradualmente, insieme a lei, abbiamo incominciato anche ad apprezzare il tuo paese, nonostante fosse difficile farlo fino in fondo, ma allo stesso tempo sapevamo che il nostro compito, un giorno sarebbe stato anche quello di accompagnarti nel tuo passato. Saresti cresciuto e avresti cercato le tue origini, lungo un percorso inverso, ma necessario per fare pace con chi la pace te l’aveva negata.

Il nostro primo incontro con te è stato sorprendente, sei stato all’altezza della situazione e noi siamo riusciti a contenere le nostre paure e le nostre emozioni. Anna ci ha sempre raccontato di quanto il tuo popolo fosse ospitale e accogliente. E così è stato. Ci hanno fatto molti complimenti per il nostro polacco, anche per le parole pronunciate in modo buffo e goffo, ma piene di sentimento e di affetto. Ogni nostro tentativo di intavolare un discorso che avesse un minimo di senso, aveva come unico scopo quello di essere compresi da te. Ci scrutavi come se stessi facendo un calcolo di probabilità della riuscita dell’operazione, misuravi il grado di fiducia da concederci e parlavi con occhi attenti ai quali nulla sfuggiva, nemmeno la più impercettibile smorfia. A volte accennavi un sorriso. Eravamo avvolti da un uragano emotivo in grado di spazzare via un intero paese, tanto che mentre cercavamo di risultare disinvolti, i nostri nervi erano tesi come corde di violino.

Noi grandi siamo fatti così, spesso ci vergogniamo di mostrare le nostre fragilità per paura di risultare ridicoli.

L’averti conosciuto ci ha confermato ciò che già sapevamo, che saremo ritornati in Polonia a prenderti per portarti via con noi. Ci sentivamo leggeri e felici. Abbiamo continuato a studiare la tua lingua, ma questa volta tutto ci sembrava diverso, anche i suoni delle parole, una volta ostili, erano diventate la più bella delle musiche. La nostra motivazione e la determinazione erano cresciute a dismisura. Ci stavamo preparando con precisione ingegneristica a costruire non solo ponti, ma vere e proprie opere architettoniche, fatte di parole inedite e di sentimenti nuovi.

Purtroppo, con il tuo arrivo in Italia, inaspettatamente tutto è diventato difficile al punto di dare pugni contro i muri, fino a farci sentire svuotati; ci sfidavi, alzavi la voce, cercavi lo scontro, i tuoi improvvisi attacchi di aggressività erano diventati sempre più frequenti.

La tua rabbia era provocante, a volte addirittura autolesiva, sapevi che, facendo del male a te stesso, avresti ferito anche noi. Era il tuo modo di chiederci di non abbandonarti perché, al contrario di ciò che dimostravi, avevi bisogno di noi per cercare di cancellare quel senso di colpa che sentivi dentro. Volevi essere amato incondizionatamente, volevi essere accettato anche se picchiavi e mordevi, anche se non facevi i compiti e ritenevi stupide le tue maestre. Il tuo inconscio ti restituiva scenari impressi nella tua mente, come la mia che richiamava l’odore della sigaretta. In questo siamo uguali, smarriti, indifesi e spaventati, ma non possiamo più permetterci di lasciare al passato le nostre storie irrisolte. Non si può restare aggrappati alle cose, bisogna dare un senso a tutto, anche al dolore, per lasciarlo andare, per permettere alle parole di rifiorire e di scrivere un nuovo capitolo della stessa storia.

Sentivo la gola secca che strozzava ogni mio tentativo di dare forma verbale ai miei pensieri, come quando fai un brutto sogno e vorresti gridare ma rimani intrappolato nel tuo spasmo. Ma mentre stringevo la tua mano guardando il vuoto oltre il vetro della finestra, ho percepito le tue piccole dita agitarsi e poco dopo anche un filo della tua voce. Una scossa improvvisa ha attraversato il mio corpo e solo in quel momento ho avuto la chiarezza che il nostro e il tuo senso di appartenenza non sarebbe più stato soltanto un paese o una lingua, ma il sentire e percepire la vita insieme a te.

Dorota Czalbowska


Aicha Fuamba

Nasce nel 1994 in Congo. Giunta in Italia, nel 2014 si iscrive al liceo di scienze umane a Rovigo. Dopo un anno, per il desiderio di ricongiungersi con la sua famiglia, si trasferisce a Pantelleria, con l’intento di terminare gli studi liceali. Problemi economici costringono il nucleo familiare a ripartire per recarsi a Genova. Rimasta sola, accanto a sé ha una persona che la sta aiutando in attesa di sostenere gli esami di maturità, per poi cercare la sua strada, forse altrove.

Con Sofia Teresa Bisi (insegnate, nata nel 1970 a Rovigo) ha scritto a quattro mani il racconto Per Aspera ad Astra, vincendo il primo premio della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per il racconto dell’orrore dell’esperienza dell’Africa, del Mediterraneo, dell’Europa, reso possibile dalla relazione di affidamento tra docente e discente. Per la capacità narrativa di trasformare, con il racconto, l’esperienza soggettiva di atrocità, a cui la cronaca drammaticamente abitua, in memoria collettiva. Per il senso civico che presiede all’idea che la condivisione del racconto del dramma migratorio attivi la sopportabilità del ricordo, nell’agire dell’ascolto in relazione. Il racconto è una sorta di Odissea al femminile, in cui la guerra è di altri e la patria e la famiglia sono luoghi frammentati dove non è possibile tornare. Una babele, anche linguistica, all’interno di rapporti di sangue; il tutto narrato in modo mosso e contraddittorio, dove le parole e lo stile ricalcano ed esprimono i sobbalzi dell’animo, le discordanze e le incongruenze dei sentimenti. Il modo in cui viene descritta la storia rispecchia il coraggio di chi lo narra, tenendo il lettore con il fiato sospeso fino alle ultime parole».

Per Aspera ad Astra

L’inizio

Mia mamma Leonnie è nata e cresciuta in Congo, cattolica; papà è del Niger, musulmano. Si sono conosciuti e innamorati in Congo; nel 1992 sono nati due gemelli: i miei fratelli hanno nomi islamici, Hassan e Housseini, e altri con cui li chiamava mamma: Rolly e Roland. Nel 1994 sono nata io e nel 1996 mia sorella Kerene.

Un giorno papà dice a mamma: «Voglio andare in Niger a far visita alla mia famiglia. Porto i bambini». Solo Kerene resta a casa, perché troppo piccola. Papà ha deciso: dobbiamo restare in Niger e avere una cultura come la sua. Mamma aspetterà sei anni il nostro ritorno.

Papà mi affida alla nonna paterna, che mi vuole bene, e anch’io inizio ad amarla. I gemelli invece restano dal fratello di papà, perché lui e sua moglie non hanno figli. Nonna insiste che papà si risposi con una donna musulmana. Così, per rispetto, accetta: è una festa bellissima, dove io non riesco a non essere felice. Poi papà porta tutta la sua famiglia in Niger, anche Kerene.

Mamma sembra impazzita, si dispera, rompe gli oggetti in casa, anche se è in gravidanza. Viani nasce dopo poco; mamma è sola a partorire. Quando il piccolo ha sei mesi, mamma e papà si vedono e litigano; lui la caccia e va a vivere in Francia. La situazione per mamma si fa gravissima: ha un figlio non riconosciuto, vivono per strada. Poi in Niger incontra Camille, un insegnante del Congo, si innamorano: lui accoglie lei con Viani; dalla loro unione nasce Raiss. Per cambiare vita decidono di andare in Libia, ma prima la mamma vuole vedere me e mia sorella: staccarsi da noi le dà un grande dolore. Ci diciamo poche parole, ma è davvero bello! Sento che il legame di sangue può sistemare tutto. In Libia mamma e Camille hanno aiuti e lavoro: la loro vita sembra perfetta.

Io mi rendo conto di non capire la lingua di mia madre, ma quando mi chiama le basta sentire la mia voce, nel dialetto Jarma che uso con la nonna.

Il villaggio

Arrivarci è un’avventura. Viverci una sfida quotidiana. Dove vivo non ci sono più di dieci capanne. Ogni giorno faccio provvista d’acqua e le pulizie; nei boschi invece cerco legna per il fuoco. Ho paura dei temporali: tremo perché potrebbero portarsi via tutto. Quando piove il paesaggio si fa lussureggiante, gli alberi crescono veloci offrendo cibi buonissimi che io corro a cercare.

In quelle comunità la vita trascorre metodica: gli uomini lavorano la terra e le donne si occupano di attività manuali come cucinare. Chi può tiene degli animali, ma la nonna è troppo anziana per accudirli. I negozi non ci sono, neppure la scuola. Qualche volta passa qualcuno con la stoffa, così le donne confezionano vestiti. Non ci sono neppure gli ospedali, ma le donne più esperte sanno curare con le piante. Ricordo una medicina amarissima ma eccezionale per farmi stare bene. Le donne partoriscono in casa, aiutate da abili levatrici. Ci si sposta con dei carretti trascinati da ann, simili agli asini; nessuno ha la bicicletta. Solo adesso mi rendo conto di aver perso tempo inutilmente. La nonna è vecchia e io la accudisco, la aiuto in tutto. Mi piace anche andare a trovare i miei amici, ma lei ha paura che qualcuno mi faccia del male, non vuole sentire odore di un ragazzo addosso a me.

La mia vita cambia nella più grande Kiota, che ha persino un ospedale: una struttura fatiscente e sporca. Una volta devo andarci perché sto male, ma mi rifiuto di stendermi sul lettino! A Kiota c’è il capo dei musulmani del Niger e mantiene salde le tradizioni legate a religione e famiglia.

Qui succede un fatto terribile. Vivo vicino a mio zio e a sua moglie, hanno cinque figli. Un giorno, tornando da scuola, la sua bambina di sette anni è presa e violentata: io e la zia la troviamo in un lago di sangue, con ferite sul corpo e nell’anima. A lungo discuto perché sono vittime di maldicenze. Rimasta di nuovo incinta, il giorno del parto, mia zia è accompagnata all’ospedale con problemi di salute: il bambino non respira; lei è distrutta e malata. Da quel giorno decido che da grande farò l’ostetrica.

Sposarsi?

A 15 anni i miei fratelli chiamano spesso la mamma e le chiedono di venire a prenderci: c’è il rischio che ci facciano sposare; là decidono le famiglie. Così mamma, da sola, riattraversa il deserto e ci chiede di seguirla in Libia. Non so descrivere l’emozione che provo in quel momento: sento la mia vita, le certezze, gli affetti, tutto in totale confusione! «Non so cosa fare», dico, con la bocca così secca che sembra legata con una corda. «Sto bene qui con la nonna. Lei mi ama».

La nonna mi conosce e avverte qualcosa di strano. «Cos’hai bambina mia?», mi chiede. «Cosa ti preoccupa?». Io provo un nodo in gola quando mi fa domande, mi sembra di tradirla. Nonostante ciò, siamo decise a partire.

La fuga

Il piano ha così inizio. Mamma ci invita ad accompagnarla nella capitale. «È solo per fare alcune commissioni», diciamo. Così usciamo da casa senza niente, ma un dolore e un senso di vuoto mi appesantiscono il respiro e le gambe. Di notte saliamo su un pullman che ci porta al famigerato camion per la traversata del deserto. Per il viaggio, mamma compera tutto il necessario, come gli spaghetti e il gari di manioca, cibi che si preparano velocemente, ma il bagaglio permesso è minimo.

Il guidatore è di poche parole, si sottopone a ritmi incredibili. Intorno a noi c’è solo deserto, raramente si vede qualche albero. Non avrei mai pensato di trovarmi in una situazione così difficile. Improvvisamente vedo la precarietà della vita, lo sforzo, la fame, il freddo, la sete, il sonno. Tutti insidiosi e insopportabili. Il mio carattere ottimista mi fa considerare tutto come un gioco, senza farmi domande. Mamma invece è terrorizzata. Spesso capita di dover fare dei tratti a piedi sulle dune di sabbia; lei è grossa e fa tanta fatica, così io e Kerene la aiutiamo. Per dormire ci si appoggia per terra, tutti vicini, sopra i vestiti di ricambio.

Il viaggio è lungo e a un tratto ho dolori lancinanti alla pancia: senza medicine inizio a temere il peggio. C’è però un ragazzo vicino a me, che parla un dialetto diverso dal mio: prende un tappo d’acqua, dice delle preghiere e me la fa bere. Non so se sia magia o miracolo, ma poi sto meglio!

I momenti più bui si presentano al centro del deserto, nella città di Dirq. I soldi sono finiti ma il viaggio è ancora lungo. Mamma finge che vada tutto bene, ma deve vendere gli oggetti più utili, anche la torcia.

A un controllo perdiamo le speranze. Le guardie non credono alla nostra parentela, perché mamma parla in francese e noi in dialetto e temono che ci abbia rapite. Dopo tanta paura, sono i gemelli a confermare per telefono la nostra sincerità. Ma le difficoltà non vogliono finire. Non torna nessuno a prenderci, a farci risalire sul camion. Bisogna avere soldi, molti soldi. E così ci troviamo rinchiusi in un recinto, dietro un muro altissimo. Dopo qualche giorno in quell’inferno, papà trova i soldi per il viaggio. Un suo amico ci permette di lavarci e cambiarci, ci dà vestiti puliti, cibo e un’auto.

In Libia

Siamo stanchissimi, ma alla frontiera ci aspettano nuovi problemi: siamo senza soldi e documenti. Rischiamo, preghiamo. Alla fine, arriviamo a Saba e si avvera un desiderio: ci laviamo e mangiamo tutti fino a scoppiare! Incontro i miei fratelli: Viani, Raiss ed Hernst, il più piccolino. «Sono bellissimi», penso, «ma non so come parleremo: non conosco la loro lingua». Ci sistemiamo con persone di tante zone dell’Africa, ma io soffro di nostalgia, vorrei tornare in Niger. Così io e Kerene pensiamo a salvarci con un gesto vile: rubiamo dei soldi a mamma e di nascosto andiamo a telefonare alla zia.

«Zia, sei tu?»

«Aicha, Kerene?» la voce le trema ma sembra felice.

«Chi vi ha portate via?» Le spieghiamo l’accaduto e le diamo informazioni per trovarci.

Il nostro unico pensiero è tornare, ma ancora oggi non mi so perdonare un gesto così vile.

Un’altra vita

Dopo poco io e mia sorella confessiamo a mamma il nostro gesto. Lei piange e basta. «Dobbiamo sbrigarci», dice «Non c’è un attimo da perdere». Lei sa quanto stiamo rischiando, così partiamo subito: un’altra avventura, un altro camion. Ricordo con terrore la sensazione di soffocamento là dentro. Prego, spero, aspetto. Sono giorni interminabili: fuori dalla città, in attesa di sconosciuti.

«Loro sono malvagi», sento dire degli uomini che gestiscono i camion.

«Vogliono soldi, tanti soldi».

«Non li abbiamo per tutti», sussurrano mamma e Camille. «Come faremo? Quelli là non hanno pazienza!».

Alla fine, è deciso: io, mamma e Viani stiamo alle porte di Tripoli ad aspettare il carico successivo. Così inizia il mio incubo. Di notte ci portano in un luogo lontano da tutto, orribile. Ci picchiano a sangue e abbandonano. «Mamma, dove siamo?» sussurro, nella speranza che lei mi conforti. La sua voce trema. «Corriamo, dai!», ci dice. Le ferite sarebbero rimaste per sempre, ma il dolore non la ferma. Corriamo piangendo e tenendoci forte per mano. Dopo un po’ ci separiamo: Viani è veloce e leggero come una piuma, mamma non ce la fa. Siamo senza scarpe e impauriti. «Ci saranno case, persone, animali feroci?»

A un certo punto vediamo un alto recinto.

«Dai, saltiamo!»

Io lo scavalco per prima, in fretta e agile.

«Coraggio!», dico. «Non è difficile».

Viani mi segue, ma la mamma si blocca.

«Andate. Vi raggiungo tra poco» ci dice. Ci vuole solo vedere salvi. Invece l’aspettiamo e andiamo insieme.

È tardissimo, abbiamo fame e sonno, non sappiamo quanti altri pericoli ci aspettano.

Camminiamo fino al giorno successivo, poi vediamo una casa.

«Sarà abitata?», ci chiediamo

«Non importa», risponde mamma. «Chi sa parlare l’arabo come me, qui è al sicuro bambini miei». Lei ci rassicura, non lascia trasparire lo sconforto.

Ci avviciniamo e troviamo qualcuno con cui parlare. Sono minuti lunghissimi, in cui ci pare di contrattare il nostro destino.

«Davvero ci portano?». Esultiamo io e Viani.

Forse è il nostro giorno fortunato. Troviamo un passaggio per la capitale, e anche un paio di scarpe! Ci sono tante persone, africani di diverse etnie, ognuno con una storia diversa, ma siamo preoccupate di non riuscire a trovare Camille e i miei fratelli. Che strano! Le amicizie fatte nei momenti più difficili sembrano destinate a essere più forti e a durare.

Dopo due giorni, ritroviamo i nostri familiari. Un’emozione immensa!

«Non dobbiamo più separarci!», è la nostra promessa.

La nuova amica del Congo ci ospita per un po’, mentre cerchiamo di sistemarci.

Mamma e papà trovano un impiego e noi una scuola. Mamma però mi preoccupa: mangia poco, dimagrisce, ha paura che qualcuno dell’ambasciata ci porti via. Cerchiamo allora di organizzarci un’identità nuova: decidiamo di non usare più la lingua del Niger e ci diamo dei nuovi nomi: Kerene diventa Habiba e io, invece di Aicha, mi faccio chiamare Bellevie.

Nuovi incubi

Sembra troppo bello per essere vero. Nel 2011 la Libia viene sconvolta dalla guerra.
I bombardamenti sono sempre più frequenti, così decidiamo di sospendere la scuola.
Intanto ci giunge notizia che ci sono dei ponti aerei per il ritorno degli stranieri nelle loro nazioni.

«Non ci torno più!», dicevamo tutti.

«Tornare in Niger vuol dire azzerare tutto. Ammettere di essere scappati. Essere puniti».

«Che ne dite dell’Italia?», dicono mamma e Camille.

«Italia» ci risuona nella mente a vuoto.

«La Francia è il mio sogno», dice mamma. Forse dall’Italia sarà facile arrivarci.

Bisogna sbrigarsi e preparare tutto. Il problema sono ancora i soldi: ne servono tantissimi. Iniziamo quindi la procedura per la partenza. Chi gestisce i migranti li ammassa fuori città, in case disabitate in attesa del momento per partire. Sono strutture terribili: usiamo gli alberi come bagno e stiamo in silenzio, anche se la solidarietà che si crea è unica.

È il 9 aprile 2011. È il cuore della notte. Nascondendoci dalla sorveglianza armata ci imbarchiamo mentre intorno a noi si sente minaccioso il rumore delle bombe che ci gela il sangue.

All’inizio il mare è calmo e il vento appare buono. L’arrivo a Lampedusa è previsto per la mattina successiva. L’indomani, però, la barca è ancora in alto mare. Gira voce che sia rotta o che chi la sta guidando abbia perso la rotta.

All’improvviso ci arriva l’ordine di liberarci di gioielli e oggetti preziosi, perché siamo vittima di un incantesimo e dobbiamo gettare in mare tutto. Adesso mamma è davvero spaventata.

Da musulmana inizio, dunque, a pregare con il Corano in mano e mia sorella accanto. Per questo litigo con mamma, che è cattolica e attribuisce la colpa dei problemi di viaggio al Corano.

«Buttatelo in mare se volete arrivare sani e salvi». Ci dice sempre più forte.
«No! Non faremo un gesto simile. Se vuoi buttare qualcosa, lancia in mare la tua Bibbia», diciamo offese.

La lite fa emergere vecchie tensioni; il nostro legame non è mai stato del tutto «normale»; ho vissuto troppo a lungo lontana da lei; non riesco nemmeno a darle del tu.
Affrontiamo quattro lunghi giorni in condizioni spaventose. Già dal terzo non c’è più da mangiare: la fame e la sete si aggiungono a sonno e paura.

All’improvviso si scorgono delle luci: sembra uno scoglio, invece si delinea l’aspetto di una piccola città.

«È Pantelleria! Siamo arrivati!».

Il mare però sembra fare di tutto per non permetterci di sbarcare: è agitatissimo, ci fa urtare tra di noi. Le onde sbattono contro la barca che si impenna vistosamente. 192 vite si sentono più fragili che mai; poi da una piccola imbarcazione pochi marinai di Pantelleria ci vedono in difficoltà, ci raggiungono e ci invitano a seguirli al porto. Ma la nostra barca sembra non voglia essere guidata: in un’ora e mezza le nostre vite vengono segnate per sempre.

Il mare è davvero troppo agitato: ci fa sbattere tra di noi e colpisce spaventosamente il barcone che sembra impazzito. Mamma è pallida e non parla: guarda Camille. Dopo poco mi dà la mano: sento che mi è impossibile rifiutare quel gesto, che poi fa anche con Kerene.

Le onde sono sempre più alte, impediscono di vedere intorno; ma vicino ci sono gli scogli: un impatto forte, terribile causa uno squarcio sulla fiancata dell’imbarcazione. Trattengo il fiato, ho il cuore in gola, mi sento viva e quindi mi metto a pregare: «Dio, ti prego, fa’ che non succeda più…». La barca incontra un’onda enorme, tutto cambia prospettiva in un attimo: siamo catapultati in mare. È tutto un gridare, agitarsi, aggrapparsi a qualunque cosa. Chi si cerca, chi nuota, chi resta immobile: molti di noi non sanno nuotare e sopportano il loro atroce destino. Io ho un salvagente che papà ha comprato prima di partire; all’improvviso sento che qualcuno me lo vuole strappare. Per reazione decido di afferrarlo con più forza: non so nuotare.

La Guardia Costiera e i volontari arrivano e ci aiutano a uscire dall’acqua. «Non mi sembra vero», mi viene da dire. «Grazie», dico in un modo che forse si capisce solo nel mio sguardo.

«Kerene! Camille! Mamma!» iniziamo a cercarci.

«Mamma! Mamma! No!»

Non l’ho salvata, nessuno la trova. Sento sirene e vedo ambulanze. Mi mancano le forze, Kerene sviene, ci portano in ospedale. Vedo un’amica di mamma, lei mi abbraccia forte, in silenzio. Poco dopo vedo un ragazzo conosciuto in Libia. «Prega», mi dice, ma io sento al petto un male cattivo e profondo. Non riesco a prendere sonno: i capogiri, la paura, le tensioni sembrano sfogarsi su di me tutti insieme. Incontro i bambini, salvi per fortuna, e poi papà, su una sedia a rotelle, con lo sguardo perso e senza forze. Nessuno però ha visto mamma.

Nell’isola dobbiamo ripensare la nostra vita, anche se non ci fanno mancare niente. Il giorno peggiore è quando ci accompagnano in obitorio per riconoscere la nostra mamma bella e giovane, stesa in un tavolo, ghiacciata, con i suoi vestiti addosso. È la prima volta che vedo una persona morta. «Non c’è più, non la rivedremo mai più», è tutto quello che riesco a pensare. Al funerale ci sono tante persone: i militari, il sindaco e gli altri superstiti.

Dopo pochi giorni, decido di telefonare a papà per informarlo della scomparsa della mamma. Lui è dispiaciuto ma non dice altro, neanche che ha voglia di incontrarci.

Per un po’ restiamo ospiti da una famiglia di Pantelleria: Mariano e Giuseppina ci trattano come parenti. Dopo sei mesi, andiamo a Trapani per i documenti di soggiorno. A me sembra una specie di prigione: si sta nelle stanze e si mangia tutti assieme in una sala grandissima. Qualche volta si fanno i turni per mangiare. Nel campo di Trapani, dopo qualche settimana, arriva papà dalla Francia, con la nuova moglie e una figlia.

«Ho già parlato con l’assistente sociale: ha detto che è giusto che veniate con me».

Io, Kerene e Viani siamo preoccupati. Al telefono con la nonna ho capito che papà vuole riportarci in Niger, non in Francia con lui. È difficile dirgli di no: lo dobbiamo fare in tribunale a Palermo, per restare con Camille, che ora lavora in aeroporto e così è riuscito ad affittare una casa per tutti noi.

Io e Kerene ci iscriviamo in terza media, Viani e Raiss alle elementari ed Ernest all’asilo. Per noi la lingua italiana è difficilissima, l’assenza di mamma è penosa e abbiamo tante responsabilità. Io e Kerene vogliamo prendere i sacramenti, come desiderava la mamma, ma soffro perché io e Camille litighiamo spesso.

Il mio più grande desiderio è andare a trovare la nonna per Natale: lei mi dà pace e affetto. Il visto è difficile da avere; aspetto notizie dall’ambasciata. Al telefono dico: «Nonna, tra un po’ ritorno da te!».

«Bambina mia, che notizia meravigliosa. Ho voglia di abbracciarti!».

Ma l’ennesima tragedia non si fa aspettare: lei muore l’11 novembre. Non serve più il visto. Dolori e rimpianti mi creano incubi e crisi di pianto. Non riesco a trovare pace, e la scuola, iniziata con ritardo, è una preoccupazione forte.

Oggi frequento il Liceo delle scienze umane a Pantelleria. La mia famiglia è sparsa per il mondo. Resto con i miei sogni: laurearmi, diventare ostetrica, sposarmi, avere dei gemelli e vivere in una città movimentata.

Aicha Fuamba
e Sofia Teresa Bisi


Hanno firmato il dossier:

Daniela Finocchi, ideatrice e direttrice del Concorso nazionale Lingua Madre.

Dorota Czalbowska (Polonia), Aicha Fuamba (Rd Congo) e Sofia Teresa Bisi (Italia) Dunja Badnjević (Serbia), Valeria Rubino (Italia), partecipanti e concorrenti al Clm 2018.

Gigi Anataloni, direttore di MC, ha curato e coordinato questo dossier.

___________________

Il prossimo concorso sarà nel 2023. I racconti vanno presentati entro il 15 dicembre 2022. Per maggiori informazioni:

 

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Uccisa Ambasciatrice di pace

Il 24 settembre, in un remotissimo angolo del Kenya, nel Turkana Est, nelle zone semiaride della Suguta Valley, un centinaio di chilometri a Sud del Lago Turkana, nelle savane di Kamuge, sono state massacrate una decina di persone, tra cui sette soldati, un autista, un chief e una mamma di famiglia, Mary Kanyaman Ekai. Il massacro, ad opera di Pokot razziatori di bestiame, è indice dell’alto grado di insicurezza che esiste nella regione in cui, nel 1981, era stato ucciso anche padre Luigi Graiff (vedi MC 12/2021, p. 6).

Perché riportarvi questo fatto che non ha toccato i nostri giornali e che ha fatto notizia in Kenya, dove gli scontri tribali nel Nord semidesertico non interessano molto il resto del paese, solo perché la giovane signora ammazzata aveva una qualche notorietà?

Racconto qui questa vicenda perché Mary era una ragazza turkana che ha potuto studiare solo grazie al nostro programma di sostegno a distanza. La famiglia di Mary era arrivata a Loikas, lo slum turkana di Maralal, nel 1992, quando aveva più o meno dieci anni. La sua famiglia era dovuta fuggire dalla Suguta Valley a causa di un attacco di Pokot che aveva ucciso ben dieci persone del villaggio e rubato tutti gli animali. Aiutata dalla missione, ha studiato nella scuola secondaria santa Teresa di Wamba, diretta allora dalle Missionarie della Consolata, ed è arrivata a laurearsi in biochimica.

Si era poi impegnata a migliorare l’ambiente, promuovere le condizioni della sua gente, entrando nel governo della contea Samburu (lei, turkana, in una contea dominata dai Samburu) come responsabile del comitato esecutivo centrale per la salute, dove si era impegnata molto per elevare lo standard dei servizi medici. Finito il suo mandato, si era buttata nella promozione della donna e nel costruire la pace e la cooperazione tra i vari gruppi etnici della regione. Memore dell’aiuto ricevuto, lei stessa sosteneva ragazzi poveri per la scuola. Aveva anche aiutato la sua famiglia a tornare nelle terre ancestrali da dove erano fuggiti tanti anni prima.

Trent’anni dopo quel massacro, quel villaggio è stato assalito ancora una volta. Mary, che era tornata a visitare suo padre, è stata uccisa con i giovani soldati, nel tentativo di recuperare il bestiame rubato, così essenziale per la vita in quelle terre. Lascia quattro figli e un grande ricordo. Sui social la chiamano «ambasciatrice di pace» e «campionessa della giustizia, dell’armonia e della coesistenza pacifica».

Per me, Mary è stata un motivo di gioia, perché splendido risultato del programma di sostegno a distanza che ha come scopo fondamentale quello di costruire persone più che strutture. Persone che, come Mary, diventino soggetti del loro stesso riscatto e aiutino la loro gente per uno sviluppo di giustizia e pace.
(nella foto, Mary è la prima in piedi da destra, era il 1998, studiava alla St. Teresa’s Secondary a Wamba, Kenya)

padre Gigi Anataloni
Torino, 29/09/2022

La diga in Etiopia

Si sente parlare troppo poco della diga che si sta costruendo in Etiopia e che cambierà l’economia anche di Egitto e Sudan. Non è nemmeno chiaro chi presta i soldi (penso la Cina). Se ne sa molto poco, però gli etiopici stanno cominciando a riempire il loro invaso e i cinesi stanno facendo importanti progetti agricoli nel paese. Non è nemmeno chiaro se la diga di Assuan (in Egitto, ndr) sia ancora operativa o se sia troppo piena di sabbia. Quel che è certo è che toglie l’acqua del Nilo all’Egitto che supera i 100 milioni di abitanti e sarà una catastrofe, peraltro ben meritata dal loro regime militare. Mentre il Sudan, poco popolato e subito dopo l’Etiopia nel corso del Nilo non dovrebbe avere dei grandi problemi. Non mi è nemmeno chiaro se l’Egitto ha accesso a pozzi di petrolio nel Mediterraneo. Ma certo che la nostra politica estera dovrà occuparsi seriamente di questo imminente problema. Sarei anche curioso di sapere come la vedono gli Israeliani, che hanno un ottimo rapporto con l’Etiopia, da cui hanno trasferito parecchia popolazione, perchè Israele ha bisogno di gente in qualche modo collegabile con l’ebraismo. Insomma si direbbe che i cinesi sono meglio informati e più attivi degli europei.

Claudio Bellavita
24/08/2022

I problemi elencati sono tutti di grande interesse, anche se in Italia li si guarda da lontano e con una certa indifferenza, perché apparentemente non ci toccano.

 

Esplosione demografica in Africa

Gentile direttore,
vi seguo da molti anni e cerco anche di sostenervi con qualche offerta liberale.

Ho veramente una grande ammirazione per le vostre idealità, per quanto avete fatto e continuate a fare, per l’impegno a trasmettere ai vostri sostenitori notizie sui progetti realizzati e preziose informazioni su tanti paesi del Terzo Mondo (si dice ancora così?).

Credo che la vostra rivista costituisca un prezioso canale di conoscenza su tanti problemi in genere ignorati dalla stampa e altre fonti «ufficiali».

Penso che in tutti voi sia presente un impegno personale veramente bellissimo.

Ciò premesso – e avendo io ormai raggiunto un’età ragguardevole – vorrei citare un argomento fondamentale che è sostanzialmente assente dalla pubblicistica sull’Africa: non solo quella vostra, ma anche di tutte le altre Onlus e Ong, dalla stampa e dai dibattiti di ogni genere.

Il tema è l’esplosione demografica, in tutto il continente.

I motivi sono i più svariati, e non devo certo elencarli a voi: tradizioni locali, timore di urtare presunti precetti religiosi per i cristiani e per gli islamici, paura di attirare critiche di stampo ideologico/politico, e così via. Ma questo silenzio è veramente assordante.

Riflettiamo un attimo, senza preconcetti o paraocchi.

Mentre da noi si assiste ad un triste e inarrestabile calo delle nascite, in Africa la popolazione – in soli ottant’anni – si è moltiplicata per cinque o sei volte! E continua così, come se ci trovassimo di fronte a risorse illimitate.

In questa situazione si incrementano azioni meritorie e doverose per curare, sfamare, costruire, come fate voi e gli infiniti gruppi di provenienza «occidentale».

Ma nel contempo – oltre alle fughe disperate verso l’Europa – dilagano le guerre locali, il terrorismo e le bande armate, la rapina e la svendita dei beni ambientali, l’ignoranza e la corruzione, la disoccupazione e l’assistenzialismo di intere popolazioni.

I meritevoli sforzi delle Ong cadono come gocce solitarie nell’oceano. Le belle fotografie di torme di bambini sorridenti rallegrano lo spirito, ma quale sarà il loro futuro tra qualche anno?

Di fronte a queste realtà numeriche è fisicamente impossibile che una crescita realistica dell’economia locale riesca a farvi fronte, ed allora ciascuno cerca una via d’uscita personale, persino di tipo criminale.

Questi sono ragionamenti puramente matematici, non collegati ad alcuna ideologia. Perché ne scrivo a voi?

Perché su questi temi cala il silenzio, o al massimo compare qualche vaghissimo accenno.

Meglio fare finta di nulla.

Paura di toccare un tema scottante? Sensazione di impotenza? Rischio di essere fraintesi?

La regolazione delle nascite dovrebbe diventare invece il tema n.1, se vogliamo immaginare un possibile futuro per questi disgraziati fratelli!

Sarà un’impresa immane che richiederà l’azione concorde di organizzazioni di ogni tipo, origine e dimensione: ma qualcuno, anche una realtà minore, deve lanciare la prima pietra e cercare di far rumore, sperimentando metodi efficaci e dedicando una parte delle proprie (e scarse!) risorse a questo aspetto vitale.

Ho cercato di sintetizzare al massimo quanto penso.

Vi invio i saluti più cari e gli auguri per il successo delle vostre attività. Cordialmente.

Giorgio Berutti
12/09/2022

Caro signor Giorgio,
grazie della lettera e della lunga amicizia e supporto. Il tema che ci sottopone è di grande attualità, anche se probabilmente non concordiamo nell’analisi delle cause e dei rimedi. Non è questa rubrica il luogo per affrontare questo tema così vasto, ma accettiamo la sua provocazione e le prometto che ci torneremo.

Intanto mi permetto solo di dire che non è con la regolazione delle nascite che si risolve questo problema, ma anzitutto con un cambio di mentalità e con una maggiore giustizia ambientale ed economica. Fino a quando il 10% della popolazione mondiale produce il 48% delle emissioni di carbonio (indice chiaro del livello di consumo delle risorse del nostro pianeta), un’altro 40% ne produce il 40%, e il restante 50% solo il 12%, (3,6% prodotto dall’Africa) non si aiuteranno certo i più poveri a migliorare la qualità della loro vita, e a convincerli che il loro futuro non sarà assicurato soltanto dal numero di figli.




Brasile. Voci di donne dalle favelas


Povertà, criminalità e promiscuità: di solito, sono queste le parole che descrivono le «favelas», luogo simbolico del Brasile. Proviamo a capirle attraverso donne di favela come Carolina Maria de Jesus (morta nel 1977) e Marielle Franco (assassinata nel 2018). Oggi altre donne seguono il loro esempio di lotta e speranza.

Delle favelas si parla molto, e forse ancora di più è stato scritto: libri, articoli e indagini accademiche. Ma quante voci hanno parlato della favela dalla favela? Quante volte abbiamo avuto la possibilità di ascoltare, direttamente e senza filtri, un racconto autentico proveniente da quel luogo «non luogo», incastonato nell’immaginario collettivo e diventato sinonimo, per molti, di povertà, criminalità e promiscuità? Si potrebbe rispondere poche, o quantomeno poche sono quelle arrivate dal Brasile fino alle nostre latitudini, permettendoci di aprire una finestra su quel mondo. Un mondo troppo spesso raccontato proprio da coloro che hanno contribuito a creare e alimentare l’emarginazione sociale materializzata nelle favelas.

Un nome che ha brillato negli ultimi anni per averle raccontate dal di dentro è sicuramente quello della compianta Marielle Franco: donna appartenente al collettivo Lgbtiq+, afrobrasiliana, madre single, politica, attivista per i diritti delle donne e baluardo contro tutte le discriminazioni del sistema capitalista, colonialista e patriarcale ben personificate dal presidente Jair Bolsonaro.

Ricordando Marielle Franco (1979-2018), durante una delle ricorrenti manifestazioni popolari celebrate a Rio in suo onore e per chiedere giustizia. Foto Mauro Pimentel – AFP.

Marielle, favelada di Rio de Janeiro

Marielle Franco, cria da favela da Maré (figlia della favela Maré) con una laurea in sociologia in tasca, ha rappresentato per molti anni una voce forte e determinata contro i soprusi vissuti dai favelados (abitanti della favela) di Rio de Janeiro.

Le parole di Marielle, prima come attivista, poi come consigliera comunale (vereadora) di Rio de Janeiro, avevano colpito l’apparato di repressione della polizia che, fino a quel momento, aveva operato quasi completamente nel silenzio delle autorità amministrative (e spesso con il loro beneplacito). Parole tanto forti da essere silenziate con 13 colpi di pistola. Era il 14 marzo del 2018. Quella notte, in un vile attentato le cui responsabilità sono ancora da chiarire, Marielle è stata uccisa insieme al suo autista Anderson Gomes.

Si spegneva dunque un baluardo delle rivendicazioni di una popolazione emarginata, non solo a Rio de Janeiro e non solo nelle favelas. Allo stesso tempo, però, fiorivano migliaia di altre Marielle che dal sangue del suo martirio hanno trovato forza, ispirazione e coraggio.

Carolina, favelada di São Paulo

Lo stesso giorno in cui Marielle Franco veniva uccisa, si celebravano i 114 anni della nascita (14 marzo 1914) di Carolina Maria de Jesus, la prima voce afrobrasiliana delle favelas a ottenere rilevanza mondiale. Un filo conduttore, dunque, ci porta da Rio de Janeiro a São Paulo e lega due donne afrobrasiliane che hanno vissuto la favela ma soprattutto hanno usato la loro voce come strumento di lotta politica, denuncia sociale e rivendicazione di diritti umani fondamentali. Negli anni Sessanta,
Carolina ha preso «a pugni» il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados. Dal cuore della favela Canindé, sulla riva del Tietê nella metropoli di São Paulo, la voce di Carolina è emersa in modo prepotente raccontando senza filtri il dolore e la fame.

Nata il 14 marzo del 1914 a Sacramento, nello stato di Minas Gerais, successivamente emigrata nella metropoli paulense per lavorare come domestica e raccoglitrice di carta e ferro per la strada (lavoro ancora molto comune), Carolina ha vissuto di stenti e patimenti, lottando ogni giorno contro un mondo ostile, fatto di difficoltà, discriminazione, violenza e precarietà. Il suo unico rifugio era la scrittura, passione alla quale dedicava il poco tempo nel quale non lavorava, non doveva preoccuparsi dei suoi figli e non era così stanca da crollare sul giaciglio della sua baracca.

Carolina ha coltivato sempre la speranza di vedere un giorno pubblicati i suoi scritti e di poter abbandonare la favela, luogo del suo quotidiano supplizio, un vero e proprio inferno in terra. Sapeva di non essere una raffinata ed erudita intellettuale, non aveva avuto accesso alle migliori scuole dell’élite bianca che governava (e che governa) quel Brasile in piena rivoluzione modernista, ma lei sapeva leggere e scrivere quanto bastava per consegnare a un diario le sue riflessioni, paure, speranze e sogni. Dopo alcuni tentativi falliti di pubblicizzare il suo lavoro di scrittrice, è stata scoperta dal giornalista Audálio Dantas che stava lavorando a un articolo sulle favelas. Quell’articolo, dove si parlava di Carolina e si faceva cenno ai suoi scritti, è stato poi pubblicato sul giornale O cruzeiro il 10 giugno 1959: Carolina Maria de Jesus aveva 45 anni e finalmente aveva realizzato il suo sogno. Ciò però che lei ancora non sapeva era che quello sarebbe stato solo l’inizio del suo viaggio. Infatti, tutto il suo diario, pubblicato inizialmente suddiviso in articoli sullo stesso giornale, sarebbe poi stato redatto in forma di libro nel 1960, causando un vero terremoto letterario.

Il sorriso di Carolina Maria de Jesús (1914-1977), favelada di San Paolo e scrittrice.

La fame è questa

Preso il titolo di Quarto de despejo: Diário de uma favelada («Stanza della discarica: diario di un’abitante della favela»), l’opera di Carolina è stata tradotta in più di dieci lingue, arrivando a vendere oltre 100mila copie.

Il libro è di una crudezza che ferisce, le parole vengono usate con una ingenuità che lacera e stordisce. I messaggi sono diretti, essenziali, ma di una forza che obbliga molte volte a distogliere gli occhi dal libro, prendere fiato e lasciare che i sentimenti prendano il sopravvento. Carolina scrive e parla all’altro Brasile, quello che non vive nella favela e che non la conosce, il Brasile bianco, «educato», che non deve preoccuparsi ogni giorno di procurarsi un pezzo di pane.

Racconta la sua vita, la sua quotidianità, la fame. Questa parola, «fame», ritorna in modo costante, scandendo le giornate che si susseguono nel diario, quasi fosse la routine di una condannata: una litania che ci accompagna tra le pagine che raccontano la favela di Canindé, a São Paulo, tra gli anni 1955 e 1959.

Sono riflessioni asciutte, a volte semplici ma taglienti e penetranti, come le seguenti:

«21 luglio 1955 – Quando sono tornata a casa erano le 22:30. Ho acceso la radio. Ho fatto una doccia. Ho scaldato il cibo. Ho letto un po’. Non so dormire senza leggere. Mi piace avere tra le mani un libro. Il libro è la migliore invenzione dell’uomo».

«8 maggio 1958 – È necessario conoscere la fame per saperla descrivere».

«10 maggio 1958 – Il Brasile ha bisogno di essere gestito da una persona che ha già provato la fame. La fame è una grande maestra. Chi soffre la fame impara a pensare agli altri e ai bambini».

«13 maggio 1958 – Sono andata a chiedere del lardo alla signora Alice. Mi ha dato il lardo e il riso. Erano le 21 quando finalmente ho potuto mangiare. E così il 13 maggio 1958 (settantesimo anniversario dell’abolizione della schiavitù in Brasile, ndr) io ho combattuto contro l’attuale schiavitù, la fame!».

Uno dei tanti murales in ricordo di Marielle Franco. Foto Diego Battistessa.

«Esiste una favela in paradiso?»

Carolina era molto credente, anche Dio è spesso presente nelle sue riflessioni che provano a giustificare una situazione difficile, di estrema povertà e abbandono da parte delle istituzioni. I suoi sentimenti, tracciati esplicitamente nelle pagine del diario o comprensibili attraverso ciò che non è scritto ma che traspare dalle parole da lei usate, sono altalenanti. Passa da una fiducia cieca nella Divina Provvidenza a uno sconforto profondo che le fa pensare al suicidio. Uno dei passaggi più duri ed eloquenti su questo tema si trova alla data del 3 giugno 1958: «Quando sono a corto di soldi, cerco di non pensare ai miei bambini che chiederanno pane, ancora pane e caffè. Devio i miei pensieri al paradiso. Penso: ci sono persone lassù? Sono migliori di noi? Il loro dominio supererà il nostro? Ci sono nazioni così varie come qui sulla terra? O è un’unica nazione? Esiste una favela? E se c’è una favela lì, io vivrò nella favela anche quando morirò?».

Il diario di Carolina è stato ripubblicato più volte. In Italia, è famosa l’edizione del 1962 di Bompiani, con la prefazione di uno dei più importanti intellettuali italiani del XX secolo, Alberto Moravia.

Dopo Stanza della discarica, Carolina ha pubblicato altri testi che, seppur ben accolti dalla critica e dal pubblico, non hanno replicato il successo del primo.

Carolina, scrittrice afrobrasiliana, donna coraggiosa e insorgente, è scomparsa all’età di 62 anni (era il 13 febbraio del 1977) senza aver mai potuto abbandonare del tutto la povertà e la precarietà.

La notorietà acquisita con Quarto de despejo non le ha procurato la ricchezza sperata, anche se le ha permesso di migliorare la sua condizione e di lasciare la favela di Canindé nel 1963, dove era arrivata 16 anni prima, nel 1947, all’età di 33 anni e incinta.

«Cenerentola negra»

Dopo la sua morte, sono stati pubblicati postumi una serie di lavori editoriali che raccoglievano il materiale prodotto da Carolina e che non aveva ancora visto la luce in forma di libro. Carolina Maria de Jesus ha inaugurato un nuovo filone nella tradizione nella letteratura brasiliana, partendo dall’appropriazione della lettura da parte delle classi popolari. Il suo lavoro è stato una grande fonte d’ispirazione per altre donne non appartenenti alle classi agiate, che hanno cominciato a scrivere sotto l’influenza di Carolina.

Un elemento che colloca la sua voce tra le grandi personalità della letteratura brasiliana, come riconosciuto nel 2021 anche dall’Università federale di Rio de Janeiro che ha concesso alla scrittrice afrobrasiliana il titolo di dottore honoris causa postumo.

São Paulo e il Brasile riconoscono oggi il valore storico, culturale, antropologico e simbolico di quelle parole arrivate dalla Stanza della discarica. Parole che mostravano una «razzializzazione» della povertà (una povertà cioè che aumenta di pari passo con la tonalità più scura della pelle) e che, per la prima volta, provenivano da dentro la favela, aggirando le fredde analisi urbanistiche, statistiche e sanitarie di giornalisti, politici e specialisti.

Diversi sono stati gli omaggi riservati a Carolina Maria de Jesus in questo 2022. Uno dei più importanti è stato sicuramente la mostra ospitata dal prestigioso Instituto Moreira Salles, che si trova nell’Avenida Paulista, luogo simbolo del potere economico brasiliano: «Carolina Maria de Jesus: un Brasile per brasiliani».

L’istituto Moreira Salles aveva già contribuito in passato a riconoscere l’importanza della figura di Carolina Maria de Jesus, quando ad esempio, il 14 marzo 2014 (per il centenario della sua nascita) proiettò per la prima volta in Brasile un documentario, realizzato nel 1975 dalla televisione tedesca West Germans intitolato «Favela: la vita in povertà», con la stessa Carolina protagonista.

Altro omaggio è stato fatto il 23 aprile, durante il primo carnevale post pandemia di São Paulo, nel quale la sua figura è stata onorata dalla scuola Colorado do Brás con il tema: «Carolina, a Cenerentola Negra do Canindé». La scuola ha raccontato, in un corteo emozionante, la storia della scrittrice di Sacramento, passando per la città di Franca (dove Carolina aveva iniziato a vivere con un gruppo circense) e arrivando poi a São Paulo nella favela di Canindé. Svelando un volto doloroso del Brasile, la vita di Carolina è stata raccontata con serietà e rispetto dalla scuola, cosa che non ha impedito al corteo di essere colmo di bellezza e colori.

Diego Battistessa

Veduta di una favela a San Paolo. Foto Danilo Alvesd – Unsplash.


Nascita del termine «favela»

All’inizio era (soltanto) una pianta

Forse pochi sanno che favela è il nome dato in Brasile a una pianta endemica (cnidoscolus quercifolius) e che la diffusione di questo termine in ambito urbano si relaziona con la «Guerra de Canudos» (1896-1897) che ebbe luogo nel sertão di Bahia. La città di Canudos, scenario di uno scontro politico religioso si ergeva in mezzo ad alcune colline, tra le quali vi era il Morro da Favela (Collina della Favela), così battezzato perché ricoperto dall’omonima pianta.

Dopo la guerra, una parte dei soldati reduci dal conflitto, fecero ritorno a Rio de Janeiro ma, trovatisi senza stipendio, decisero di stabilirsi dentro alloggi precari da loro costruiti nel Morro da Providência (Collina della Provvidenza). Data una certa similitudine tra lo scenario di questa nuova sistemazione e la Collina della Favela vista a Canudos, i soldati battezzarono il nuovo insediamento Morro da Favela.

È da quel momento che gli insediamenti di alloggi e case di fortuna, dove risiedono persone con un basso (o quasi nullo) potere d’acquisto, passarono a essere chiamati favelas. Le favelas sono presenti in tutto il Brasile (circa 800 solo a Rio de Janeiro) e si stima che siano abitate da 15-20 milioni di persone.

WIKIFAVELA

Considerati questi numeri non c’è da stupirsi che si parli tanto di favelas brasiliane. Vale la pena di segnalare un progetto dedicato a Marielle Franco, ovvero il portale «Wikifavela», un dizionario virtuale che combatte la discriminazione in Brasile. Proprio dal sito, disponibile in portoghese, inglese e spagnolo, possiamo leggere che: «Il Dizionario della favela è una piattaforma virtuale ad accesso pubblico per la produzione e la diffusione della conoscenza delle favelas e delle loro periferie. Mira a stimolare e consentire la raccolta e la costruzione delle conoscenze esistenti sulle favelas, collegando una rete di partner nelle università e nelle istituzioni e collettivi esistenti in questi territori. Il Dizionario della favela continua la lotta della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco e di molti altri leader della comunità contro il pregiudizio e l’esclusione, costruendo una società più giusta ed egualitaria».

Importante ricordare anche l’Instituto Marielle Franco, uno spazio creato dalla famiglia della defunta attivista che vuole continuare a lottare per la giustizia, difendendo la sua memoria, moltiplicando la sua eredità e annaffiando i suoi semi.

D.B.

L’attivista e politica Renata Souza per le strade della favela Maré, a Rio de Janeiro (2 settembre 2022). Foto Andre Borges – AFP.

Chi è la possibile erede

«Mi chiamo Renata Souza»

Renata Souza è già un simbolo. Lei è una «favelada» della Maré, figlia cioè dello stesso complesso di favelas al Nord di Rio de Janeiro dove è nata e cresciuta Marielle Franco, sua grande amica e fonte di ispirazione. Souza, 40 anni, deputata dell’Assemblea legislativa di Rio de Janeiro dal 2018, è già una figura politica di spicco, un grimaldello che apre i palazzi del potere e che permette l’accesso della periferia marginalizzata ed esclusa nelle sale dove si prendono le decisioni importanti.

Niente è stato facile (e non lo è tutt’ora) per Souza, nel Brasile governato da Jair Bolsonaro dove razzismo, classismo e machismo sono all’ordine del giorno. Renata ricorda che una delle decisioni più importanti della sua vita la prese quando aveva solo 15 anni: decise che sarebbe diventata giornalista perché voleva raccontare la favela in modo diverso da come i media la dipingevano, senza pregiudizi, senza spettacolarizzazione della povertà e della violenza.

Nel percorso universitario conobbe Marielle, e tra le due nacque un’amicizia forte, mischiata a militanza, attivismo e lotta politica. Nel 2006 Souza, che già svolgeva il suo lavoro/missione di reporter dalla favela, accettò di unirsi alla campagna elettorale di Marcelo Freixo (il 3 ottobre candidato di sinistra a governatore di Rio de Janeiro). Da quel momento non lasciò più la politica accompagnando la sua amica Marielle durante le elezioni e diventando il suo capo di gabinetto. Fino al 14 marzo del 2018, quando per lei il mondo cambiò completamente. L’omicidio di Marielle le provocò una ferita che ancora non si è rimarginata. Il dolore fu enorme, il più grande della sua vita, ripete Souza nelle interviste, ma la spinse a fare un ulteriore passo in avanti. Nelle elezioni del 2018 fu la candidata di sinistra più votata e da quel momento è stata una delle voci più determinate nell’emiciclo dell’assemblea di Rio de Janeiro.

Per il suo impegno ha ricevuto minacce di morte da gruppi affini al «bolsonarismo» e ha dovuto abbandonare la favela. Da deputata ha promosso una legge per dare priorità alle indagini sugli omicidi di bambini e adolescenti oltre a varie misure per combattere «la violenza ostetrica» contro le donne afrodiscendenti. Alle elezioni dello scorso 3 ottobre è stata eletta deputata statale di Rio de Janeiro con 174.132 preferenze. In questo ruolo cercherà di portare ancora più in alto la voce della favela, le rivendicazioni del femminismo afrodiscendente e la lotta per i diritti umani.

D.B.

Una vista panoramica della favela di Rocinha, sempre a Rio de Janeiro. Foto Helena Masson – Unsplash.




Maralal. Servire con «gioia»


Una storia da uomo tranquillo, ma costantemente in ricerca. Il che lo mette di fronte a scelte importanti. Un passo dopo l’altro diventa missionario, poi, con la forza della mitezza, continua il suo servizio a vari livelli. E non smette mai di formarsi. Fino a quando papa Francesco lo chiama.

La diocesi di Maralal occupa una superficie di 20.800 chilometri quadrati, di territorio in prevalenza desertico. Vi sono alcune montagne, sulle quali le precipitazioni rendono il clima un po’ più umido e la zona più arborata. In questo lembo di terra nel centro Nord del Kenya vivono diversi popoli, in prevalenza allevatori nomadi: Samburu, Turkana, Pokot, Rendille, Gabbra, a cui si sono uniti, specialmente nei centri principali, Somali, Kikuyu, Luo e Akamba.

Una diocesi relativamente giovane, creata nel 2001 scindendo in due quella di Marsabit. Le uniche cittadine sono l’omonima Maralal, Wamba e Baragoi. Il primo vescovo è stato monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, uomo molto attivo e presente sul territorio. Nel luglio scorso papa Francesco ha nominato padre Hieronymus Joya (pronuncia: gioia), 57 anni, come successore di monsignor Pante. Il 22 ottobre monsignor Joya è stato consacrato.

Pure lui missionario della Consolata, è originario della diocesi di Bongoma, nell’Ovest del Kenya, in particolare di un villaggio, Asinge, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Uganda. Ha un parlare pacato e riflessivo il neo vescovo, che raggiungiamo telefonicamente. Si rivela subito molto disponibile.

«Vengo da una famiglia molto cattolica», ci dice, «i miei nonni ebbero difficoltà a essere battezzati, perché durante il periodo coloniale non c’erano missioni nella nostra zona, quindi dovettero andare nella vicina Uganda. Poi i coloni decisero che la gente non poteva più passare la frontiera liberamente. Così il mio villaggio fu unito alla parrocchia di Kakamega, a circa 100 km da casa. I miei genitori furono battezzati lì. In seguito, nel 1926, fu aperta una parrocchia a Nangina, a circa 50 km dal nostro villaggio. Si andava a piedi, e talvolta occorrevano quattro settimane per andare, restare per il catechismo e poi tornare».

Nel 1948 alcuni missionari aprirono la missione di Chakol, a sette km dal villaggio. Una parrocchia ancora attiva oggi.

Monsignor Joya ci racconta che fu lì a Chakol che partecipò al catechismo e poi divenne chierichetto quando frequentava la scuola primaria. Durante l’ultimo anno il parroco chiese a lui e agli altri bambini se fossero interessati a proseguire gli studi nel seminario minore.

«Nel dicembre 1981 feci domanda con altri quattro chierichetti. Passammo un colloquio, così nel 1982 iniziammo il seminario. Avevo passato il test anche in tre scuole pubbliche, ma scelsi il seminario: forse si può dire che è qui che comincia la mia vocazione».

Il neovescovo ci racconta un aneddoto famigliare: «Anche mio padre aveva fatto il seminario, ma non aveva potuto continuare, perché era l’unico maschio di cinque figli, quindi i suoi genitori preferirono che restasse a casa per occuparsi delle questioni di famiglia. Le figlie, nella tradizione, si sposano e lasciano la famiglia di origine. Così mio padre dovette lasciare il seminario. Poi si sposò e nascemmo noi, tre sorelle e cinque fratelli».

E, sospirando, aggiunge: «Penso che sia stata la volontà di Dio, che uno dei suoi figli diventasse prete. E sono stato scelto io».

Dopo la messa con le donne di Azione Cattolica s Maralal.

La chiamata

Poi ci racconta il suo primo incontro con i missionari della Consolata: «Nel 1985 eravamo in seminario, e, con i compagni, andavamo a leggere nella biblioteca. Padre Luigi Bruno della Consolata, portava la rivista The Call, e noi la leggevamo con interesse. Era il direttore vocazionale della Consolata. Noi eravamo curiosi. Gli scrivemmo una lettera per capire meglio chi fossero questi missionari della Consolata. Lui ci rispose, ma la sua lettera fu intercettata dal rettore del seminario che ci chiese perché avevamo scritto alla Consolata e se, quindi, avevamo rinunciato a diventare diocesani».

Alla fine del periodo di studi, la scelta di fronte al giovane Joya era tra continuare per due anni la scuola superiore e diplomarsi, oppure andare in seminario a studiare teologia. Ma i suoi genitori gli dissero che non avevano abbastanza risorse e che avrebbe dovuto trovare un lavoro per aiutare a pagare gli studi alle sorelle e ai fratelli più piccoli. Nel frattempo, padre Bruno lo aveva invitato al seminario di Kisumu per una settimana di conoscenza per aspiranti missionari. Hieronymus riuscì a parteciparvi, ma poi dovette scegliere il lavoro.

Alla St. Theresa Secondary School

La strada in salita

«Andai a Kisumu, da uno zio, e iniziai a lavorare in una stazione di benzina. In questo modo misi da parte dei soldi e mi pagai il college, dove studiai marketing e strategie di vendita. Continuai gli studi anche grazie a un insegnante che mi pagò la metà dei costi d’iscrizione. Una volta finito, nel 1987, trovai subito lavoro come contabile in un hotel».

Il giovane Hieronymus non aveva problemi a trovare lavoro. Ne cambiò parecchi passando dall’ufficio vendite di una assicurazione alla gestione di un progetto che portava l’acqua potabile nella sua zona.

Intanto padre Bruno continuava a scrivergli e nel 1989 lo invitò a visitarlo a Langata, nella periferia di Nairobi, dove gli aspiranti missionari della Consolata studiano. «Andai a visitare padre Bruno, che mi disse che se l’ostacolo era finanziario, non avrebbe chiesto nulla alla famiglia. Lui avrebbe potuto aiutarmi per fare la formazione con la Consolata».

Visita a Baragoi, incontro alal grotta della Madonna.

Il bivio

«Quando tornai a casa, si era creata un’opportunità: la Henkel oil company, cercava un responsabile delle vendite per tutta la regione Ovest del Kenya. Feci il colloquio e lo passai.

A quel punto il bivio era chiaro: andare alla Henkel o entrare dai missionari della Consolata? Andai un po’ in crisi. Ne parlai con mio padre e lui disse: «Sei tu che devi scegliere, ma parla anche con tua madre». Anche lei mi disse che la decisione era solo mia. Così io decisi di andare al corso di orientamento della Consolata, che si teneva nel marzo 1990. Dopo l’orientamento fui invitato al seminario della Consolata per iniziare ad agosto».

Così l’esperto di vendite e marketing affrontò gli studi di filosofia e poi il noviziato tra il ‘93 e il ‘94. Fece la sua professione religiosa ad agosto di quell’anno e completò gli studi di teologia nel 1998. Nel frattempo era diventato diacono e venne ordinato sacerdote il 5 settembre 1998 nella sua parrocchia a Chakol. La sua prima missione fu a Loyangalani, cittadina sul Lago Turkana nel grande Nord, allora nella diocesi di Marsabit.

L’Italia a piedi

Monsignor Joya ricorda con fierezza la prima esperienza in Italia: «Nel 2000 andai in Italia per la celebrazione del Giubileo. Un gruppo di Lamon (Belluno), paese di monsignor Pante, aveva chiesto un sacerdote per essere accompagnato in un pellegrinaggio a piedi da Lamon a Roma. Percorremmo 650 chilometri in tre settimane». Fu durante quel soggiorno in Italia che poi andò a Torino, a visitare i luoghi storici del beato Allamano e il santuario della Consolata. Al ritorno in Kenya, divenne parroco a Loyangalani e fu chiamato da monsignor Ambrogio Ravasi a fare parte del consiglio presbiterale della diocesi di Marsabit.

In seguito, dal 2003, fu superiore del seminario filosofico della Consolata a Nairobi. A fine 2007 lo troviamo responsabile del centro pastorale di Maralal, che lasciò nel 2009 perché eletto vice superiore regionale (lavorando con padre Franco Cellana, superiore) e, dal 2011 al 2016, divenne superiore regionale dei missionari della Consoalta di Kenya e Uganda. Ritornato poi come formatore al seminario filosofico di Langata, ricevette l’incarico dal consiglio generale di valutare e preparare la nuova apertura in Madagascar, avvenuta nel 2018.

Riprese pure gli studi, portando a termine un dottorato di ricerca in pastorale. «La mia missione è stata nel Nord del Kenya, con i nomadi, e a Nairobi, per gli studi. Speravo, dopo il dottorato, di poter andare via da Nairobi e dal Kenya, ma… il santo padre mi ha riportato dai nomadi», dice il monsignore, chiudendo con una risata.

Una diocesi desertica

Oggi la diocesi di Maralal conta 15 parrocchie, alcune con un’estensione molto vasta. Ad esempio, a Wamba ci sono 28 cappelle sul territorio parrocchiale. Ci sono 25 preti diocesani e dieci missionari, di cui quattro della Consolata. Sono presenti anche diverse congregazioni di suore.

Monsignor Joya conosce bene il territorio e ci descrive le sfide principali con le quali dovrà misurarsi.

«Una delle sfide principali è il clima. La zona è desertica, con mancanza cronica di acqua per uomini e animali, a eccezione delle zone di montagna. C’è una stagione delle piogge, ma nella zona arida non piove quasi mai. Una situazione che crea conflitti tra comunità, in particolare tra gruppi di allevatori, che sono la maggioranza. C’è una vera lotta per l’acqua: a volte quella che viene usata è presa da torrenti, e non è pulita. Anche scavare pozzi è impegnativo, perché spesso si trovano falde di acqua salata e allora bisogna scavare a grandi profondità.

Un altro problema sono le strade. La sola strada asfaltata è attualmente quella che porta a Maralal città. Le altre sono pessime, talvolta impossibili da percorrere. A questo si aggiunge la difficoltà di comunicazione. In alcune zone si riesce a telefonare con i cellulari, ma nella maggior parte del territorio non c’è copertura.

E poi la mancanza di elettricità: a parte i centri principali, come Maralal e Wamba, dove arriva la rete nazionale, molte missioni devono usare sistemi solari o generatori.

I conflitti tribali si sommano a quelli per l’acqua e per i pascoli. Sono frequenti i furti di animali tra i gruppi. Questo causa molti problemi tra le comunità, lotte e uccisioni (come quella riferita a p. 5 di questo numero, ndr)».

A Suguta Marmar.

Territorio ad gentes

Nel territorio diocesano, che conta circa 350mila abitanti, i cattolici superano i 100mila, seguiti dai protestanti evangelici. I musulmani sono pochi, circa duemila. La maggioranza della popolazione segue le religioni tradizionali, anche quando sono battezzati. «Per questo motivo, ci spiega mons. Joya, possiamo dire che si tratta ancora di una zona di prima evangelizzazione, ad gentes».

Una delle sfide del vescovo è quella di creare altre parrocchie per servire la gente e ridurre la difficoltà dei preti nel coprire grandi distanze: «Non abbiamo risorse per supportare le parrocchie – ci dice -. E anche le altre istituzioni per l’educazione, la salute, hanno bisogno di fondi.

La diocesi ha due scuole secondarie per ragazze, che funzionano bene, due per ragazzi, il seminario minore, due scuole primarie. La maggioranza delle altre scuole primarie e secondarie sono state iniziate dai nostri missionari, ma sono passate al governo, e molte hanno dei problemi: mancanza di insegnanti, edifici deteriorati, materiali didattici insufficienti. Inoltre, molti insegnanti non vogliono andare a lavorare in aree rurali così sperdute».

La Chiesa ha anche una buona presenza nel settore sanitario: «In ogni parrocchia c’è un dispensario o un centro di salute, e c’è un grande ospedale della diocesi a Wamba, che attualmente ha diversi problemi perché mancano soldi per farlo funzionare, per pagare il personale, comprare le medicine. È il più grande di tutta diocesi. Il secondo, gestito dallo stato, è a Maralal, anch’esso non funziona molto bene per mancanza di risorse».

I progetti del vescovo

Con il vescovo Virgilio Pante a Barsaloi presso la statua della Consolata samburu

Il nuovo vescovo ha entusiasmo e tanti progetti per la diocesi: «Voglio continuare nel solco del cammino aperto dal vescovo Pante. Lui ha lavorato affinché le strutture della diocesi funzionassero bene e fossero organizzate.

Poi vorrei migliorare le strutture di gestione e amministrazione delle istituzioni della diocesi, e fare un piano su come rivitalizzare quelle che non funzionano, che possano iniziare a fornire servizi di qualità, e amministrarli correttamente.

Un altro programma è sviluppare collegamenti con i finanziatori, alcuni dei quali erano presenti sul territorio, ma poi, a causa di alcune difficoltà, hanno interrotto il supporto. Ad esempio, c’erano medici specialisti che venivano ad aiutare nell’ospedale di Wamba, ma ora non vengono più. Vorrei ricontattare le organizzazioni non profit, nazionali e internazionali che avevano programmi nella diocesi, per convincerle a tornare.

È mia intenzione chiamare congregazioni di donne e uomini, per venire a fornire servizi alle persone nelle zone più difficili».

Grazie forse alla sua formazione, il vescovo è molto sensibile alla sostenibilità economica: «Vorrei utilizzare alcune specificità delle istituzioni per produrre reddito che possa servire a tutta la diocesi». Senza dimenticare la formazione per gli agenti di evangelizzazione: i catechisti, i laici, i preti, i membri del consiglio pastorale diocesano, ma anche delle associazioni cattoliche, perché «ce ne sono molte, di donne, di giovani, in favore dei bambini in difficoltà».

Monsignor Joya sottolinea anche l’importanza del programma di animazione vocazionale, per stimolare nuove vocazioni missionarie.

Marco Bello

Nella missione di Lodokejek.




Wagner e i suoi fratelli


Operano da oltre dieci anni, ma solo di recente si è iniziato a parlare di loro. Agiscono nell’ombra, ma calcano i principali teatri di guerra. Sono organizzazioni strutturate, e orientate al business, nelle quali l’ideologia non c’entra. Facciamo il punto sulle compagnie dei contractor russi.

Su un punto tutti sono d’accordo: il Gruppo Wagner esiste. Su un altro punto tutti sono altrettanto d’accordo: il mistero avvolge ogni cosa riguardi questa società di mercenari. Su di essa si rincorrono voci, si parla di interessi e influenze importanti, ma anche di una sorta di invincibilità. Tutto però è avvolto in quella nebbia tipica degli ambienti militari o paramilitari che flirtano con i servizi segreti, la politica, l’industria. A maggior ragione se si parla di Russia, un paese che vanta, fin dagli anni sovietici, una tradizione di assoluta riservatezza e opacità in materia militare. Per parlare del Gruppo Wagner, bisogna, quindi partire da quelle poche cose certe che si conoscono sulla sua esistenza.

Wagner in Centrafrica (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Le origini

Secondo l’intelligence militare britannica, la nascita di questa moderna compagnia di ventura risale alla fine degli anni Duemila per iniziativa di un ex ufficiale dell’esercito russo di 51 anni, tal Dmitri Utkin. Si pensa che sia stato lui a fondare questo gruppo e gli abbia dato il nome di Richard Wagner, suo compositore preferito e molto apprezzato anche negli ambienti dell’estrema destra europea.

Utkin è un veterano delle guerre cecene, un ex ufficiale delle forze speciali e del Gru, il servizio di intelligence militare russo.

Il battesimo del fuoco di Wagner sarebbe avvenuto (ma non è certo) nel 2014, nella guerra che ha portato all’annessione russa della Crimea. «Si pensa che i suoi mercenari siano alcuni di quegli “omini verdi”, senza alcuna insegna addosso che occupavano la regione – ha spiegato alla Bbc, Tracey German, professore di Conflitto e sicurezza al King’s College di Londra -. Un migliaio di suoi mercenari ha poi sostenuto le milizie filo russe che combattevano per il controllo delle regioni di Luhansk e Donetsk».

La nascita e l’impiego del Gruppo Wagner è però controverso fin dall’inizio. In Russia, come in Italia e in molti altri paesi occidentali, le attività militari «private» sono espressamente vietate dalla Costituzione. Anche se una forza militare ben addestrata e di pronto impiego può tornare utile in caso di operazioni nelle quali la Russia non voglia esporsi ufficialmente. «Wagner può essere coinvolto all’estero e il Cremlino può dire: “Non ha nulla a che fare con noi”», ha detto alla Bbc, Samuel Ramani, membro associato del Royal United Services Institute.

Anche se la questione è più complessa di quanto sembri. «In Russia – osserva Mattia Caniglia, ricercatore dell’European Council on foreign relations -, a differenza di quanto possa apparire a un occhio esterno, non c’è un soggetto unico a prendere le decisioni. Il sistema del governo è molto competitivo, al suo interno c’è una grande gara fra centri di poteri: ministero della Difesa, ministero degli Affari esteri, le diverse agenzie di intelligence, ecc. In questo contesto, il Gruppo Wagner e le altre agenzie private agiscono in collaborazione con alcuni di questi centri, oppure si muovono addirittura da sole. Bisogna pensare che sono società strutturate, come conglomerati di industrie e aziende che si occupano non solo di difesa, ma anche di minerali, comunicazione, formazione. Questo conglomerato opera con uno spirito imprenditoriale e cerca i business laddove pensa possano esserci. Se il business porta a far crescere la rete della Russia, Mosca sostiene le compagnie mercenarie. Altrimenti ne prende le distanze».

Proteste in Mali (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Aree d’influenza

La Russia, è l’analisi di Mattia Caniglia, al contrario dell’Unione europea, della Cina, della Turchia, non ha strumenti di soft power (cioè la fornitura di aiuti economici e influenza culturale). Quindi, queste compagnie di mercenari (Wagner non è l’unico gruppo di contractor russo) si configurano come uno strumento di influenza non ufficiale per Mosca in aree in cui può avere interessi geostrategici. Nell’Africa occidentale, per esempio, la Russia può infastidire la presenza dell’Unione europea (che in loco ha la sua missione più grande) e la Francia. Wagner e altre compagnie simili possono facilitare i rapporti tra Russia e paesi africani. Una volta in Africa poi, le società dei mercenari si ritagliano uno spazio nell’economia locale.

E proprio in questo contesto si inseriscono i legami di Utkin e il Gruppo Wagner con Yevgeny Prigozhin, l’oligarca russo noto come «lo chef di Putin», perché in passato ha fornito i servizi di ristorazione e catering al Cremlino. Prigozhin ha sempre negato ogni legame con Wagner, ma a fine settembre scorso, sui social della sua società Concord, ha detto di aver fondato il Gruppo. Sono infatti i contractor a proteggere gli interessi dell’oligarca in diverse parti del mondo e, in particolare, in Africa.

Nel 2020, il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha affermato che Wagner ha agito da «security» in diverse nazioni per le società minerarie di Prigozhin, come M Invest e Lobaye Invest. Tanto è vero che Washington le ha poi sanzionate.

«Ci viene detto che i soldati di ventura sono un fenomeno tipico dell’Occidente e che il mercenarismo è un prodotto dell’idra capitalista, ma anche noi (la Russia, ndr) ce ne siamo serviti per promuovere gli interessi del nostro paese all’estero – ha scritto Marat Gabidullin in Io, comandante di Wagner (Libreria Pienogiorno, euro 18,90, pp. 288) -. I nostri uomini politici mantengono un silenzio pudico sull’esistenza di compagnie militari private russe e respingono in blocco qualunque allusione al ricorso a tali formazioni non governative. Da parte loro, i propagandisti indottrinano pesantemente i russi inculcando loro l’idea di una politica estera propria della Russia ed eludendo qualunque risposta diretta alle domande riguardanti l’uso dei mercenari».

Former Russian mercenary of the Wagner group Marat Gabidullin poses during a photo session on May 11, 2022 in Paris. (Photo by STEPHANE DE SAKUTIN / AFP)

Chi sono

Il Gruppo Wagner, secondo quanto riportano i servizi di intelligence britannici, è composto principalmente di veterani dei reparti speciali russi. L’analista Samuel Ramani afferma che l’organico attuale dovrebbe contare su un totale di cinquemila mercenari. Si tratta di personale ben addestrato sia all’uso delle armi (anche di sistemi d’arma complessi) sia sotto il profilo tattico. Secondo quanto trapelato da fonti interne, Wagner recluterebbe principalmente ex militari che hanno bisogno di saldare debiti e che provengono da zone rurali dove ci sono poche altre opportunità per fare soldi. Sono quindi soldati di professione che non hanno alternative e che sono disposti a continuare il mestiere delle armi una volta congedati dalle forze armate. La paga si aggirerebbe sui due-tremila euro al mese, ma la cifra varierebbe a seconda del tasso del rublo e non sarebbe mai stata costante negli anni. Si sa che Wagner ha dato vita anche a un sistema di «assistenza sociale» per i propri uomini. Chi rimane ferito in combattimento dovrebbe ricevere, a seconda della gravità delle ferite, tra i 500 e i tremila dollari di indennità. E alle famiglie dei caduti verrebbe promessa una cifra tra i 35mila e i 50mila dollari.

I contratti sono sempre «a tempo determinato» o, meglio, «a progetto». Per la campagna nel Donbass, sono stati offerti contratti di pochi mesi, per la Siria fino a un anno (con ferie ogni sei mesi). La formazione è affidata a ex ufficiali russi e, durante il periodo di addestramento, gli uomini prenderebbero circa mille dollari. Sono cifre e condizioni che rappresentano un incentivo notevole per uomini che non hanno prospettive nella vita civile. Ma, sebbene nei ranghi di Wagner siano presenti emarginati e disadattati, ciò non toglie che il Gruppo abbia grandi capacità militari. Secondo quanto riporta il New York Times, in Siria, proprio i mercenari russi sarebbero stati in grado di resistere per più di quattro ore a una formazione statunitense composta da uomini della Delta Force e dei Berretti Verdi. Le forze speciali Usa, per avere la meglio sui russi, avrebbero dovuto chiedere l’intervento dell’aviazione. Prima di far bombardare l’area, però, avrebbero chiesto al comando delle forze armate russe in Siria di ritirare i propri uomini. Ma Mosca avrebbe negato di avere propri militari nell’area condannando, di fatto, i contractor a morte certa.

Ma chi finanzia il Gruppo Wagner? Su questo punto la nebbia è fittissima. Secondo fonti dell’intelligence britannico, sarebbe il Gru, i servizi segreti militari russi, a sostenere economicamente e a supervisionare segretamente Wagner. Fonti mercenarie hanno confessato ad alcuni media che la base di addestramento di Wagner si trova a Mol’kino, nel Sud della Russia, e sarebbe vicina a una base dell’esercito russo.

Bangui, Centrafrica. Manifestazione a sostegno della Russia (Photo by Carol VALADE / AFP)

Dove ha operato e opera

Nel 2015 il Gruppo Wagner ha iniziato a operare in Siria, combattendo al fianco delle forze filogovernative e facendo la guardia ai giacimenti petroliferi. Un’operazione condotta con le truppe di Mosca, per la quale i mercenari avrebbero pagato un prezzo altissimo. È ancora Marat Gabidullin a descrivere la situazione: «I generali russi in Siria hanno messo in campo con successo una strategia che avrebbero potuto battezzare “qui non ci sono”, creando l’illusione di vittorie poco costose in termini di vite umane nei ranghi dell’esercito. Ma le cifre reali dei cittadini russi morti nella guerra contro lo Stato Islamico non corrispondono ai dati ufficiali. Il numero dei mercenari morti è superiore, e di gran lunga, a quello dei soldati regolari. E tuttavia, ai russi viene tenuta nascosta perfino la partecipazione della compagnia militare privata, sempre per alimentare il mito di una guerra non sanguinosa. I militari russi di ogni grado presenti in Siria si crogiolano nella gloria e si lasciano adulare dal popolo ignorante».

Ma è in Africa che Wagner ha iniziato a farsi conoscere. «La strategia russa in Africa si muove su due livelli – sottolinea Mattia Caniglia -. Quello ufficiale, lavora attraverso diversi strumenti: diplomazia, scambi culturali, accordi che prevedono lo scambio di sistemi d’arma per risorse naturali, ecc. Poi c’è un livello non ufficiale. Di questo fanno parte le azioni di disinformazione portate avanti attraverso la collaborazione tra i media russi e quelli africani. Ma anche le azioni delle compagnie militari private. Uso volutamente il plurale perché se il Gruppo Wagner è la compagnia russa di mercenari più famosa, non è la sola. La presenza di mercenari russi, in questo momento, è forte in Botswana, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Libia, Mali, Mozambico, Madagascar, Zimbabwe, Centrafrica».

Che ruoli ha

Come si muovono sul terreno? «Noi abbiamo in mente i mercenari come soldati combattenti. In realtà, spesso svolgono ruoli di addestramento e di formazione. In altri casi, come in Libia e in Centrafrica sono schierati sul campo, ma a protezione di impianti.

Nel 2016 i contractor russi sono stati impiegati in Libia a supporto delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Rapporti delle agenzie di intelligence occidentali stimano che nel 2019 siano stati impiegati fino a mille mercenari Wagner nell’avanzata di Haftar verso Tripoli. Un’avanzata fallimentare, fermata dalle milizie fedeli al presidente Fayez al Sarraj, sostenuto dall’esercito e dagli armamenti forniti dalla Turchia.

Nel 2017, il Gruppo Wagner è stato invitato nella Repubblica Centrafricana. Testimonianze di missionari cattolici in loco parlano di una presenza massiccia di un gruppo di uomini determinati e senza scrupoli. «Nella Repubblica Centrafricana abbiamo il coltello dalla parte del manico – osserva Marat Gabidullin -: i leader dipendono totalmente dai mercenari». Ciò fa sì che la compagnia possa fare affari milionari sfruttando le miniere di diamanti senza minimamente curarsi del rispetto dei diritti umani della popolazione locale.

«Il continente africano rimane terreno vergine per la diplomazia russa e gli intrallazzatori politici – è ancora Gabidullin a parlare -. Il potere è in mano a leader senza scrupoli che hanno saputo apprezzare l’aiuto fornito da Mosca a Damasco e si sono mostrati pronti a lasciare che la Russia mettesse le mani sulle risorse naturali dei loro paesi ricchi d’oro, diamanti e petrolio. Il ricorso ai mercenari da parte della Russia è un fatto assodato, irrefutabile».

Con la stessa logica, Wagner è stata impegnata in Mozambico per contenere la ribellione jihadista nel Nord. Dietro l’operazione militare, che è stata un fallimento, c’erano interessi economici forti. Nella regione sono presenti ricchi giacimenti di rubini, ora, in parte, sfruttati da imprenditori conniventi con gli islamisti.

Più recentemente, il Gruppo Wagner è stato invitato dal governo del Mali, nell’Africa occidentale, sempre per fornire sicurezza contro i gruppi militanti islamisti. Il suo arrivo nel 2021 ha influenzato la decisione della Francia di ritirare le proprie truppe dal paese. In Mali, il Gruppo Wagner avrebbe circa 600 effettivi che avrebbero compiuto azioni brutali. Il ministero degli Esteri francese ha diffuso un comunicato nel quale ha fatto sapere di essere «preoccupato per informazioni che parlano di massicce esecuzioni nel villaggio di Moura da parte di elementi delle forze armate maliane accompagnate da mercenari russi del Gruppo Wagner che avrebbero causato la morte di centinaia di civili» (fine marzo 2022, ndr).

Contractor russi avrebbero inoltre partecipato all’operazione antiterrorismo realizzata a fine marzo dall’esercito maliano nel Sahel. Secondo il quotidiano francese Le Monde, nel paese sarebbero presenti «paramilitari bianchi identificati da fonti locali e internazionali come appartenenti alla società di sicurezza privata russa Wagner».

Tripoli, Libia (Photo by Hazem Turkia / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

L’ultimo fronte

In Ucraina, il Gruppo Wagner ha avuto il suo battesimo del fuoco nel 2014, e vi è tornato a febbraio allo scoppio della guerra tra Mosca e Kiev. Reparti di mercenari sono stati segnalati da diverse fonti di intelligence occidentale sul territorio ucraino. Secondo quanto riporta il quotidiano britannico The Times, almeno 400 avrebbero operato intorno a Kiev nelle prime settimane del conflitto. Il loro obiettivo era di uccidere il presidente Zelensky e altre importanti figure politiche governative e locali.

La Brigata delle tenebre, come viene anche chiamata la compagnia di ventura, avrebbe poi spostato i suoi effettivi verso il Donbass, nell’Est del paese, e cioè nell’area strategica balzata in cima alla lista degli obiettivi russi. Non ci sono certezze, ma pare che la Wagner abbia inviato in Ucraina seimila uomini, mille dei quali attivi proprio nel Donbass. Combattono a fianco delle forze regolari del Cremlino e di altri combattenti provenienti da Medio Oriente e Siria e, anche in questo quadrante, si sono distinti per le atrocità.

Secondo quanto riporta il settimanale tedesco Spiegel, l’intelligence tedesca avrebbe intercettato trasmissioni radio del personale militare russo in cui si discuteva di omicidi di civili a Bucha. Alcune delle conversazioni sarebbero legate a specifici cadaveri fotografati a Bucha e il materiale dimostrerebbe anche come membri del Gruppo Wagner sarebbero coinvolti nelle atrocità. Gli omicidi di civili, secondo gli 007 tedeschi, non sarebbero stati né casuali, né azioni di singoli soldati, ma operazioni abituali delle forze armate russe e dei mercenari loro alleati.

Anche su questo fronte però i soldati della Wagner sono come ombre e come tali trattati dallo stato maggiore di Mosca. «I mercenari russi – scrive Marat Gabidullin nel suo libro – sono scritti in una colonna a parte dell’elenco delle vittime, coperta dal segreto. E in Ucraina sono molto numerosi, in tutte le ramificazioni della cosiddetta operazione speciale. Le formazioni militari delle repubbliche del Donbass, riconosciute solo dalla Russia e che in otto anni hanno perseguito unicamente una strategia difensiva, non sarebbero in grado di condurre operazioni offensive senza il supporto di un’altra forza, quella dei contractor. Fino a poco tempo fa, attorno a Kiev c’erano almeno due distaccamenti di mercenari, assegnati specificamente a questa operazione. Inoltre, tre distaccamenti di Wagner partecipano ai combattimenti a Mariupol e Kharkiv.
I mercenari sono pagati in dollari. La nuova tendenza, all’interno delle forze d’invasione, è scambiare il patriottismo con i dollari. L’ideologia non c’entra, quello che conta è riempirsi le tasche».

Enrico Casale

 




Sperimentare il centuplo


Dei tre fratelli Barbero missionari della Consolata, padre Mario è quello di mezzo. Ha accompagnato oltre la metà della storia dell’Imc, tra Italia, Kenya, Usa, Congo e Sudafrica. Suoi amori: la Bibbia, i confratelli e le famiglie del «Marriage encounter» che ha promosso nel mondo.

Padre Mario Barbero, classe 1939, entra nel nostro ufficio con la sua solita discrezione.

Il suo sorriso gentile e il suo sguardo attento non sono mutati dall’ultima volta che ci siamo incontrati a inizio 2020.

Cominciava allora, a 81 anni, una nuova avventura, ed era pronto a prendere, senza saperlo, l’ultimo volo per il Sudafrica prima della chiusura delle frontiere per la pandemia da Covid-19.

Missionario della Consolata nato a Marene (Cn), nei suoi 70 anni vissuti tra i figli dell’Allamano, ha operato in cinque paesi di tre continenti: Italia, Kenya, Usa, Congo Rd e Sudafrica.

Formatore di seminaristi, ha sempre amato lavorare con le famiglie tramite l’esperienza del Marriage encounter («Incontro matrimoniale») di cui è un entusiasta promotore nel mondo.

Padre Mario Barbero durante l’ordinazione sacerdotale di missionari della Consolata nel 2003. Kinshasa, Congo RD. / © Mario Barbero.

Settant’anni di gioia

«La prima volta che sono stato in Casa Madre a Torino avevo 12 anni. Era maggio 1951, e l’Istituto missioni Consolata compiva 50 anni. Ora ne ha più di 120».

Padre Mario si siede di fronte a noi e, con la sua voce bassa e affabile, ci offre subito il quadro di quello che racconterà: una lunga esperienza personale che s’intreccia con gratitudine alla ricca storia della famiglia Imc. «Sono entrato in seminario in prima media, alla Certosa di Pesio (Cn). Ero accompagnato da mio fratello Antonio, di undici anni più grande di me, e già seminarista. Io dico sempre che, prima del Covid, nella mia famiglia c’è stato un altro virus che ha colpito tre fratelli su sei facendoli diventare missionari della Consolata».

Oltre a padre Antonio Barbero, nato nel 1928, missionario in Canada e Congo Rd, morto nel 1982, infatti, un altro fratello è stato parte dell’Imc, Tommaso (chiamato Masino), nato nel 1946, missionario in Tanzania e Kenya e mancato poco più di un anno fa, nel settembre 2021.

«Eravamo cinque fratelli e una sorella. Gli altri si sono sposati regalandomi nipoti e pronipoti. Quando Antonio aveva 12 anni, ha sentito un’ispirazione che gli diceva “fatti missionario”. Lui non sapeva cosa fosse un missionario, allora l’ha chiesto al parroco, che gli ha detto: “I missionari sono quelli che vanno in Africa, e sono di due tipi: i sacerdoti che studiano, e i fratelli che lavorano”. Mio fratello non aveva tanta voglia di studiare, e allora dice: “Va beh, sarò di quelli che lavorano”. Poi va a casa, lo dice a mio papà, e lui gli risponde: “Se vuoi lavorare, qui c’è una cascina…”. E Antonio: “Allora mi farò missionario di quelli che studiano” – ride padre Mario -. Quando poi Antonio veniva a casa una volta all’anno dal seminario, portava sempre con sé una rivista: “Missioni Consolata”».

Guardando al fratello, Mario è cresciuto pensando che anche lui sarebbe diventato missionario e, finite le elementari, è entrato in Certosa nel ‘50.

Padre Mario Barbero con un gruppo di coppie a Kinshasa, Congo RD. / © Mario Barbero.

La chiesa che cresce

Padre Mario segue il filo dei suoi ricordi più di quello delle nostre domande. Ci confida che negli ultimi tempi ha avuto modo di pensare molto alla sua vita passata. Anche il lockdown, scattato tre settimane dopo il suo arrivo in Sudafrica nel 2020, e il Covid, contratto nell’estate 2021, che l’ha costretto a trasferirsi per le cure da Pretoria a Nairobi, sono stati per lui situazioni provvidenziali che gli hanno permesso di pregare e riflettere di più.

«Quando sono guarito, ho girato un po’ il Kenya dove ero stato dal ‘76 all’88. Ho visto il grande sviluppo della chiesa: tante parrocchie, ognuna con il suo prete locale, trent’anni fa erano impensabili. Poi sono andato a Tuthu, il primo posto in cui erano arrivati i missionari nel 1902. Lì non c’era la chiesa. Adesso ci sono tanti preti. Oggi più della metà dell’Imc è composta di africani che vanno nel mondo».

Dopo la convalescenza, è tornato in Sudafrica, ma un nuovo problema di salute l’ha fatto rientrare in Italia.

«Da quando sono arrivato a Torino a inizio 2022, sono andato diverse volte al santuario della Consolata e ho pensato all’Allamano: io non credo che avesse immaginato tutto quello che sarebbe successo. Mandando i suoi missionari, ha allargato le dimensioni dell’Africa, l’ha fatta diventare missionaria».

Fratelli

Il volo dei ricordi fa attraversare a padre Mario decenni e continenti avanti a indietro.

Tornando alla sua famiglia, ci dice che lui è il quinto dei sei fratelli, e che l’ultimo era proprio Tommaso, il terzo che si sarebbe fatto missionario. «Ha fatto più di 40 anni di Tanzania e Kenya. Poi è stato gli ultimi 7-8 anni in Italia per problemi di salute.

Ultimamente ho pensato tanto a lui. Aveva un forte zelo missionario, una grande sensibilità. Ha fondato missioni nelle quali, prima delle strutture, pensava alla formazione dei vari ministeri della gente. Negli anni che ha trascorso qui in Italia, quando ci sentivamo, mi diceva tutte le volte: “Ti penso sempre, ogni volta che celebro messa mi sento unito a te”.

Quando sono diventato prete, la sera prima di essere ordinato, mi sono confessato con mio fratello Antonio, che mi ha detto: “Da domani saremo fratelli due volte. Non solo di sangue, ma anche di sacerdozio”. Ed è stato così anche con Masino.

Quando Antonio era malato, gli ultimi sette mesi li ha passati in Casa Madre a Torino. Masino, che allora era in Spagna, l’ultimo mese gli è stato vicino. Era il 1982. Tre giorni prima che mancasse, io sono venuto dal Kenya e mi ha ancora riconosciuto. Quando è morto io e Masino eravamo uno di qua e l’altro di là a tenere il suo polso. Eravamo sereni, perché lui ci aveva preparati. Era tranquillo, e continuava a pensare allo Zaire.

Quella notte, accanto ad Antonio c’era Maria Stocco, un’infermiera che aveva desiderio di andare in Africa. Antonio le aveva detto “vai a prendere il mio posto”, e lei, dopo la sua morte, è partita. Quando nel 2005 io ero in Congo, sono andato a predicare gli esercizi spirituali ai nostri missionari nel Nord, a Isiro. Lei era ancora lì. Dall’82. Antonio aveva fatto nove anni di Congo. Lei ne ha fatti quasi trenta».

Incontro matrimoniale in Usa con il team mondiale, nel 2000

Il Concilio da vicino

«Più divento vecchio e rifletto sulla mia storia, più vedo che il Signore mi ha messo accanto tante persone di tutti i tipi, preti, suore, laici, famiglie che hanno reso possibile la mia missione», continua padre Mario.

«Finito il noviziato nel 1959, sono stato a Roma dieci anni. Ho fatto filosofia, teologia e poi la specializzazione in Bibbia. Ma soprattutto sono stato a Roma nel tempo del Concilio. Dieci giorni dopo la sua conclusione, sono stato ordinato prete.

È stata un’epoca stupenda. Alcuni dei nostri professori erano nelle commissioni teologiche che lavoravano ai testi. In casa nostra, poi, avevamo otto vescovi che ci aggiornavano su cosa succedeva in San Pietro.

Io vedo il Concilio come una grande benedizione.

Quando sento persone che dicono che la chiesa è stata rovinata dal Concilio, penso che non hanno idea di cos’era la chiesa prima e di cos’è la chiesa oggi.

Quando si parla di crisi della chiesa, c’è uno sguardo solo occidentale. In Africa al tempo del Concilio c’erano una cinquantina di vescovi neri, adesso sono centinaia. Quando sono arrivati i nostri primi missionari a inizio Novecento, l’Africa avrà avuto sì e no due milioni di cattolici, oggi sono 250-300 milioni. Mai c’è stato uno sviluppo così rapido della chiesa. Eravamo abituati ad avere tanti cardinali italiani e adesso ci si stupisce che il papa li nomini in altri paesi. Ma la gran massa di cattolici non è qua, e perché non avere la voce di quelle chiese? Anche di quelle che vivono in minoranza e perseguitate? Sono questi piccoli gruppi che conservano la forza della Parola di Dio che è Gesù che si diffonde».

In team di formatory al Consolata Seminary di Nairobi nel 1977

 

Il Kenya

La prima destinazione di padre Mario è stata a Torino per insegnare Bibbia. «Sono stato formatore e insegnante qui dal ‘69 al ‘75. Insegnavo al Cottolengo, dove c’era la sede della scuola di teologia per diversi istituti, anche il nostro. È stato bello. Facevo anche animazione missionaria. Alcuni di quei giovani (tra cui il direttore di MC, ndr) sono poi diventati preti, altri sono diventati padri di famiglia».

Il primo mandato missionario fuori dall’Italia è arrivato nel 1976. «Sono stato 12 anni in Kenya. Dal ‘76 al 1982 ho insegnato al Consolata seminary di Nairobi. Poi sono stato eletto superiore regionale. In quegli anni si è dato molto sviluppo alla formazione dei missionari africani. Il primo keniano Imc è stato Anthony Ireri Mukobo che ora è vescovo di Isiolo. Anche l’attuale vescovo di Marsabit, Peter Kihara Kariuki, è stato tra i primi che erano entrati nel 1976.

L’anno scorso il Consolata seminary ha compiuto 50 anni. Dei ragazzi passati da lì, 152 sono diventati missionari della Consolata, ora sparsi nel mondo. Altri sono diventati preti diocesani, altri ancora padri di famiglia».

Padre Mario Barbero a un incontro matrimoniale in Togo nel 2008

Marriage Encounter

È stato in Kenya che padre Mario ha incontrato il programma per famiglie Marriage encounter.

«Nel 1978 sono arrivate in Kenya alcune coppie missionarie dall’Irlanda invitate dal cardinale Maurice Michael Otunga di Nairobi.

Incontro matrimoniale forma gli sposi a vivere meglio il loro amore. È basato sul dialogo. Vi partecipano anche preti e suore.

Io non sapevo cosa fosse. Mi hanno invitato. C’erano tre coppie e un prete che davano degli spunti di riflessione. Per me è stata una scoperta bellissima. Dopo ogni conferenza c’è una domanda, e ognuno è invitato a riflettere e a scrivere una risposta personale. Poi marito e moglie si trovano insieme (io mi trovavo con un altro prete). Si dialoga, ci si scambia gli scritti. È una cosa semplicissima. È incredibile cosa può fare il semplice scriversi e parlarsi. Le coppie, dopo i due giorni d’incontro, sono tornate a casa avendo scoperto molte cose, tanti sogni che non si erano mai detti.

È stata una grazia per me. Scherzando, dico sempre che la mia seconda ordinazione da prete è stata il 27-29 di ottobre del ‘78.

Dopo quel weekend, mi sono fatto coinvolgere, e ho anche contagiato mio fratello Masino che allora era in Spagna. Quando è tornato in Tanzania, lo ha impiantato anche lì, dove adesso ci sono migliaia di coppie di Incontro matrimoniale.

La stessa cosa è successa nel Nord Italia: non potevo tenere questa esperienza per me, e ho coinvolto i miei amici più cari.

Allora in Italia c’era già qualcosa a Rimini. Qui a Torino invece è nato da Mario e Annamaria Tenna che hanno invitato i loro amici, poi il loro parroco, e da lì si è allargato in Piemonte e in Italia. In questo momento la coppia responsabile di Incontro matrimoniale in Europa è italiana.

Quando sono andato negli Usa, Incontro matrimoniale c’era già, e mi hanno subito coinvolto. Per 12 anni ho girato una volta al mese per tutto il paese. Quello che mi ha colpito è che funziona ovunque. L’ho vissuto con i keniani, con gli italiani, poi con gli americani, sia ispanici che inglesi, poi in Congo».

Padre Mario Barbero durante un incontro matrimoniale a Johannesburg in Sudafrica nel 2003

Gli USA e Retrouvaille

Quando padre Mario parla delle coppie incontrate grazie al Incontro matrimoniale ha gli occhi che brillano.

Negli Usa è andato subito dopo il Kenya: prima nella casa di
Somerset, vicino a New York, come superiore regionale Imc dal 1988 al ‘94, poi, fino al 2001, a Washington Dc, di nuovo dedicato alla formazione dei seminaristi. In quegli anni, il suo coinvolgimento in Incontro matrimoniale gli ha fatto conoscere una nuova esperienza nata in Canada, quella del Retrouvaille.

«Nel 1994 mi hanno invitato a un weekend del Retrouvaille, parola che significa ritrovarsi, un programma specifico per le coppie separate o divorziate che, a un certo punto, cercano di aggiustare le relazioni. È stata una cosa incredibile. Per me, anche come prete, l’esperienza del perdono vissuta nel programma
Retrouvaille è la più forte.

Quando sono tornato nel 2001 in Italia, la Cei era interessata a farlo approdare anche qui, così il programma è partito nel 2002.

Gli animatori di questo percorso sono coppie che hanno sperimentato il fallimento in prima persona e poi si sono riconciliate. Quando portano la loro testimonianza, sia del fallimento sia della ripresa, ha un grande impatto su chi li ascolta.

In Italia abbiamo fatto oramai oltre 200 di questi weekend».

Congo

Nel 2001 padre Mario è partito dagli Usa destinato al Congo Rd. «Sono passato dall’Italia per rinfrescare il francese, e sono poi andato in Congo nel 2002, a Kinshasa, dove sono rimasto fino al 2007 per fare il formatore dei nostri seminaristi e il professore in un altro centro. Insegnavo anche nel seminario diocesano.

Anche in quel paese ho lavorato con Incontro matrimoniale: lì era già presente, ma da qualche tempo non andava più molto bene, perché le coppie non riuscivano più a pagare il contributo richiesto per i weekend. Fatto sta che ha ripreso, e ora va ancora avanti. Quasi tutti i giorni ricevo ancora messaggi da là».

Padre Mario Barbero (il primo a destra) negli Usa con le due coppie responsabili di Marriage Encounter a livello mondiale e Usa / © Mario Barbero.

Italia

Nel 2008, dopo aver lasciato il Congo e aver trascorso sei mesi in Sudafrica, padre Mario è tornato in Italia dove ha lavorato nell’animazione missionaria fino al 2019, prima a Bedizzole (Bs), poi a Castelnuovo don Bosco (At), infine a Rivoli (To).

«Ho fatto tanti incontri biblici e naturalmente ho lavorato con le famiglie. Poi, nel 2019 mi hanno chiesto di andare in Sudafrica e io ho accettato.

Sono partito a inizio 2020 per fare il parroco per la prima volta nella mia vita. Tre settimane dopo il mio arrivo, c’è stato il lockdown anche lì, e per il primo anno la gente non poteva venire in chiesa. In quella situazione ho riscoperto la preghiera, e facevo un video ogni settimana per i parrocchiani. È nato un bel rapporto con loro, anche se limitato.

Poi ho avuto il Covid, e sono stato mandato in Kenya per curarmi. Dopo tre mesi, sono tornato per altri tre mesi, quando mi è venuta una forte sciatalgia e ho iniziato ad avere difficoltà a camminare. Allora sono ripartito per l’Italia nel febbraio del 2022.

Due anni sono stati pochi, ma sufficienti per iniziare delle belle relazioni. Con alcuni mi sento ancora. È nato un affetto speciale con tante persone.

È stato bello, anche se diverso da quello che immaginavo, come spesso capita nella nostra vita. Adesso sono qui in Casa Madre e sto meglio: ho tanto tempo per pregare, riflettere, ricordare».

Padre Mario Barbero a un incontro matrimoniale a Kinshsa nel 2004

Famiglia e missione

Data la sua esperienza, chiediamo a padre Mario qual è secondo lui la missione delle famiglie.

«Innanzitutto, la loro vita famigliare, il parlarsi tra di loro e la formazione dei figli.

Ora che rifletto molto sulla mia vita, mi rendo conto che, pur avendo studiato tanto, le cose più importanti me le hanno insegnate mio papà e mia mamma.

La famiglia è presente in tutte le realtà. Io sono stato fortunato ad avere una famiglia unita, ma anche nelle famiglie nelle quali magari c’è una separazione, i genitori ti accolgono, ti tirano su. Questa è la cosa principale: il primo impegno di una famiglia è quello di avere cura della famiglia. Tutto il resto viene da lì.

Mentre ero a Washington ho fatto un dottorato, e nel 2001 ho scritto la mia tesi su Priscilla e Aquila: una coppia che ha lavorato con san Paolo e ha fondato con lui la chiesa di Corinto e di Efeso. È stato il mio coinvolgimento con le coppie che mi ha fatto scoprire il Marriage encounter anche in san Paolo».

Bibbia

L’altro grande amore di padre Mario è la sacra Scrittura. Gli chiediamo allora, per concludere la chiacchierata, un brano che gli sta particolarmente a cuore.

«Quando Pietro chiede a Gesù: cosa ne avremo noi a seguirti? E Gesù risponde che avremo il centuplo. Ecco, io il centuplo l’ho sperimentato: prima con l’Imc, dove mi sento bene con tutti i miei confratelli; poi con Incontro matrimoniale, che mi ha aperto migliaia di case».

Luca Lorusso

Nel Consolata Seminary di Nairobi con un gruppo di studenti nel 1983


Fratelli due volte

Antonio Barbero

I tre fratelli Barbero all’ordinazione di padre Masino

Nato il 12-2-1928 a Marene (Cuneo), tredicenne fu accolto nell’Istituto Missioni Consolata e ricevette l’ordinazione sacerdotale il 20-6-1954. Per sei anni svolse attività di insegnamento e di formazione in Italia. Nel 1961 partì per il Canada: quattro anni di intensa pastorale giovanile. Rimpatriato svolse ancora attività formative nelle case Imc d’Italia, poi nel 1972 raggiunse la missione dello Zaire come superiore del gruppo della nascente delegazione: dieci anni di lavoro missionario ardito e intelligente (cfr. dossier in MC 6/2022). Missionario ottimista e guida saggia, sembrava, talora, spregiudicato, invece di fatto il suo comportamento si rivelava stimolante ma equilibrato. La sua arte era semplice ma non sempre facile: ascoltare, riflettere, rispondere, sorridere; un’arte che faceva sempre presa nel cuore dei giovani. Morì a Torino il 9 febbraio del 1982.

Tommaso (Masino) Barbero

Nato l’8-10-1946 a Cervere (Cn), fece la professione temporanea il 2-10-1966 alla Certosa di Pesio, e quella perpetua il 2-10-1969 a Rosignano. Fu ordinato diacono il 16-2-1972 a Torino e sacerdote il 25-3-1972 a San Lorenzo di Fossano.
Dopo i primi due anni tra Cork (in Irlanda) e Biadene (Treviso), partì per il Tanzania dove rimase tra il 1974 e il 1979. Fece animazione missionaria a Saragoza, in Spagna, tra il 1979 e il 1983. Tornò in Tanzania come vice parroco a Kisinga e come parroco a Ng’ingula tra il 1983 e il 1988.
Tornato in Europa, nel 1989 partì per il Kenya. Fu rettore dell’Allamano House a Nairobi fino al 1992, poi fondatore e parroco di Kahawa (Nairobi) fino al 2000, viceparroco e poi parroco a Likoni-Mombasa fino al 2005, direttore della casa di ritiri Bethany House a Sagana tra il 2005 e il 2008, e poi direttore del Centro pastorale di Maralal fino al 2013. Contemporaneamente fu due volte consigliere regionale del Kenya: nel 2005-2008 e nel 2011-2013. Rientrato in Italia nel 2014, lavorò a Platì, Rivoli, Cavi di Lavagna e Torino. Morì il 16 settembre del 2021.

Antonio Giordano e Luca Lorusso

Archivio:

– Padre Mario dal 2015 pubblica mensilmente la rubrica «Bibbia on the road» sul sito di Amico.
South Africa Fifty, Dossier MC giugno 2021.
Amoris Laetitia famiglia missionaria, MC dicembre 2016.

Padre Masino all’inaugurazione dei saloni per le attività parrocchiali a Kahawa West, Kenya.




Dio tra l’uomo (Es 40)

Ci è capitato più volte, nella lettura del libro dell’Esodo, di ricordare che alcuni sottintesi culturali antichi non sono i nostri e quindi abbiamo bisogno di una «traduzione» per comprenderli. A volte ci verrebbe da pensare che questi antichi sottintesi siano davvero difficili, mentre noi ci capiamo immediatamente, mettendo tutto in chiaro. In realtà, anche noi utilizziamo determinati linguaggi culturali, zeppi di sottintesi e «scorciatoie», che però impariamo fin da piccoli, in un lungo apprendistato, e che quindi poi ci suonano assolutamente naturali, come la lingua che abbiamo imparato dai genitori.

Ad esempio, noi siamo abituati a pensare che in un racconto, in un film, in una barzelletta, l’ultimo momento sia il più importante. L’ultima pagina di un libro, l’ultima scena ci devono lasciare il gusto buono, finale, o addirittura la sorpresa che dà improvvisamente senso a tutto il resto. Invece sono rari i contesti in cui ci comportiamo diversamente, come, ad esempio, con le canzoni di musica leggera, che spesso puntano a impressionare soprattutto all’inizio, prendono ancora quota in una parte centrale che spesso è quella che ricordiamo meglio, e poi finiscono ripetendo e sfumando.

Il modo di narrare dell’antichità, come abbiamo già scritto, assomiglia a quest’ultimo «linguaggio culturale»: le cose importanti sono all’inizio o semmai al centro. Le conclusioni spesso ci sembrano mosce, poco significative, e così se le aspettavano gli antichi. E questa è l’impressione che, a una lettura superficiale, potrebbe lasciarci anche il libro dell’Esodo.

Ciò non toglie che anche per l’antichità un libro finisce all’ultima riga, e che il retrogusto lasciato non può non risentire anche delle ultime pagine. I contenuti più importanti del libro dell’Esodo sono già arrivati, eppure anche il capitolo 40 non è semplicemente banale, e chi l’ha composto ha pensato di renderlo in qualche modo significativo. Come?

Capitolo noioso? (Es 40)

Una cosa è chiara: certamente noi non avremmo scritto quell’ultimo capitolo dell’Esodo così come lo leggiamo. In esso si raccontano tutte le indicazioni che Dio affida a Mosè per costruire la tenda del convegno, quel luogo di incontro tra il cielo e la terra che idealmente proseguirà nel Santo dei santi, il punto più interno, intimo e sacro del tempio. È molto probabile che questa pagina per noi suoni noiosa e con poco nerbo. Non l’avremmo messa in un luogo del libro così importante, visibile.

La scelta degli autori è però interessante. All’inizio dell’Esodo non si era parlato di preghiera o di culto, né del Dio creatore. La vicenda era iniziata con un incontro, e costantemente il Dio d’Israele si era presentato innanzi tutto in relazione con il suo popolo. Non aveva esordito chiedendo di pregarlo in certi modi, tempi o parole, non aveva offerto in primo luogo indicazioni morali, ma si era concentrato completamente sulla relazione: «Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio» (Es 6,7). Non sembrava esserci spazio per il rito che, lo sappiamo, si ripresenta sempre uguale e prevedibile, ma rischia di essere difficile da capire, da vivere: tranquillizzante per gli anziani, che sanno come si snoda e come va a finire, noioso per i giovani, perché sembra che non succeda mai nulla di nuovo.

La quotidianità del rito (Es 40,1-33)

Se il rito sembra negare la passione della vita vera, che parrebbe sfuggirle, nello stesso tempo quando l’entusiasmo delle grandi scelte umane deve farsi concretezza, la vita stessa  inizia spesso a parlare quel linguaggio: sono i due fidanzati che riascoltano «la nostra canzone», i due sposi che ritornano nello stesso luogo in cui si sono incontrati la prima volta, i due amici che scherzano con le stesse parole che avevano un senso e un’origine anni prima, e ora rinviano «semplicemente» a tutti gli anni in cui sono state ripetute. Con il recupero di quei gesti e parole che rimandano alla passione dell’inizio, si giustifica e rende profondo il cammino quotidiano.

Chi compone il libro dell’Esodo conosce bene queste dinamiche umane, e dopo aver dato all’incontro tra Dio e l’uomo (faticoso, tormentato, non sempre lineare) tutta la centralità che merita, ricorda che per la maggior parte del tempo della vita umana questo incontro non viene vissuto nell’eccezionalità di un roveto che brucia senza consumarsi o del passaggio tra mura d’acqua nel mare, ma nel quotidiano del cammino fatto passo dopo passo, giorno per giorno, senza paure o gioie eccessive.

Chiudendosi con il luogo del rito (quel luogo che accompagnerà Israele nel deserto, ma arriverà fino al centro del tempio), il testo ci dice che quelle vicende straordinarie, vissute solo dalla generazione dell’esodo e richiamate ogni anno a Pasqua, si prolungano nel quotidiano, nell’ordinario, il quale comprende in sé quelle ritualità che rimandano all’evento dell’origine e che quell’evento mantengono presente e vitale.

Ed è significativo che il cuore del rito venga effettivamente colto nella tenda del convegno, nel luogo dell’incontro. Perché il succo del libro non è nella salvezza umana (che pure c’è), né nel riconoscimento della grandezza divina (che non manca), ma nell’incontro tra i due. Ciò che sta a cuore a Dio, che ne dice la gloria e garantisce la vita dell’uomo, è l’incontro, ritualmente garantito da un luogo e da sacerdoti che si prendano cura di mantenerlo simbolicamente vivo.

L’ultima scena (Es 40,34-38)

Ma l’uscita di scena definitiva deve ancora darsi. Semplice e solenne insieme, è una sigla finale adeguata al gran libro che chiude.

Quando tutto è pronto per l’incontro, quando Mosè ha eseguito tutto ciò che il Signore gli ha ordinato di fare, finalmente la nube copre la tenda del convegno. Non c’è neppure bisogno di ricordare quale nube sia e perché non sia una come tutte le altre. È quella presenza divina che ha accompagnato il popolo fin dall’Egitto, che aveva minacciato più volte di abbandonarlo, e che ora invece copre la tenda del convegno, riconoscendola come il proprio luogo. Infatti, la gloria del Signore riempie la dimora.

La gloria di Dio

Abbiamo già parlato della «gloria» di Dio (vedi MC 8-9/2022 p. 33). Non è, dicevamo, la sua esaltazione, ma il suo volto autentico, il suo mostrarsi per ciò che è. E il Dio dell’Esodo decide di mostrarsi nel con-venire, nel radunarsi con altri, nell’alleanza stretta con il popolo. Dio si riconosce innanzi tutto non come creatore del mondo, non come vincitore di nemici, non come garanzia di vita e salvezza (tutte sue caratteristiche vere e autentiche, certo), ma come colui che dimora nell’incontro con l’uomo. Il Dio creatore, che non aveva sopportato di stare da solo, si compie autenticamente vivendo in comunione con noi, in una relazione che può essere soltanto scelta e accolta e mai imposta, perché fatta non di sovrano e suddito, ma di alleati che si trattano alla pari (cosa che l’uomo non può pretendere, ma solo accogliere come un dono divino). Di fronte all’essere umano che sceglie di stare con Lui e gli prepara una dimora per l’incontro, finalmente anche Dio può restare, fermarsi, riposare. Come in una nuova creazione, il punto d’arrivo è lo smettere di fare, e lo stare insieme.

Come per il racconto della creazione in Genesi 1, questo diventa, senza volerlo, un appello a noi, spesso presi dalle tante cose che sentiamo di dover fare. Dio, nostro creatore e modello, riconosce il punto d’arrivo della sua creazione nel riposare.

In cammino

Eppure, ciò non deve far pensare che, finalmente, siamo arrivati a un punto fermo, stabile, definitivo.

Gli israeliti non sono ancora arrivati alla dimora, e quindi non c’è arrivato neanche Dio, che ha deciso di camminare con loro.

Potremmo essere tentati di immaginarlo mentre li prende miracolosamente e li fa volare nella terra promessa, come spesso ci piacerebbe che facesse anche con noi, liberandoci magicamente da paura e fatica (a volte, addirittura, lo accusiamo di non volerci bene, siccome non ci risolve così i problemi).

Eppure, Dio non lo fa, non toglie loro il sudore e l’angoscia di quaranta anni di cammino nel deserto. Resta però con loro, condivide l’instabilità, la stanchezza, le preoccupazioni. Non al loro posto, ma insieme a loro.

Aperti alla sorpresa

Di più. Li invita a non fidarsi della routine, a restare sempre aperti alla novità, alle sorprese. Ci saranno mattine in cui la nube non si alzerà dalla dimora, e allora anche gli ebrei rimarranno nell’accampamento, ad aspettare. Altre in cui invece partirà, e gli israeliti la seguiranno. Ma ci sarà sempre, lungo le notti (e le notti nel deserto sono cupissime e fredde!), la sua presenza come un fuoco nella dimora, un fuoco che illumina e riscalda.

Dio non promette al suo popolo che avrà sempre le farfalle nello stomaco, né la conclusione delle favole, «e vissero tutti felici e contenti». Dio promette di esserci, di camminare insieme a lui, di non abbandonarlo. Prospetta un percorso anche faticoso, lungo, pieno insieme di pericoli, di gioie e di noie. Invita a restare aperti alle novità che possono arrivare, anche se solo sotto la veste del guardare se anche oggi si parte o si resta fermi.

La scoperta del senso

Il lungo cammino del libro, che nella prossima ultima puntata vorremmo riprendere per coglierlo nella sua globalità e attualità, non ci ha portati a «una fine», ma «al fine», che è l’incontro pieno di Dio con l’essere umano. E che non cancella ma anzi dà sapore, gusto e senso a una vita quotidiana, «normale», ma finalmente libera perché in unione rispettosa con chi guida e illumina le vite dei suoi fedeli.

Coloro che servivano il faraone da schiavi, ora prestano un servizio libero, adulto e dignitoso a un Dio che vuole la loro vita e la loro gioia. Non c’è che un passo piccolo per sentirsi dire: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).

Angelo Fracchia
(Esodo 19 – continua)




Schiavitù. C’era una volta (e c’è ancora)


Nel mondo sono cinquanta milioni le persone in schiavitù. In questo numero (incredibile) rientra chi lavora forzatamente e chi si sposa contro la propria volontà. La maggior parte delle vittime sono donne e bambini.

Non occorre andare a rileggere i libri di storia e, spesso, non occorre neppure andare lontani: la schiavitù esiste ancora oggi e si può trovare vicino a noi, in Italia.

Saman aveva 18 anni. Di famiglia pakistana, la ragazza è scomparsa nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021 a Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Probabilmente uccisa dal padre Shabbar Abbas e altri familiari per non aver accettato le nozze «combinate» con un cugino. Un tentativo di matrimonio forzato finito in tragedia.

Sempre in Italia c’è il fenomeno dei minori vittime di sfruttamento sessuale. Secondo l’annuale rapporto di Save the children esso riguarda, in grande maggioranza, ragazze nigeriane, ma anche della Costa d’Avorio e di alcuni paesi dell’Europa orientale (Romania, Bulgaria, Albania). La Ong li chiama «piccoli schiavi invisibili».

Se in Italia, eventi come il matrimonio forzato o il traffico di minori sono molto rari (il primo) o con numeri in crescita ma ancora contenuti (il secondo), diffuso è invece lo sfruttamento del lavoro nelle campagne italiane. Nel caso sussista anche coercizione (violenza, minacce, sequestro dei documenti, restrizione della libertà personale), esso si trasforma in lavoro forzato. Difficile dire quante siano le persone in condizioni di schiavitù nei campi di Sicilia, Calabria, Puglia, ma anche di Maremma, Veneto e Lombardia. Pagate 3 o 4 euro all’ora e in nero, sono in gran parte immigrati nordafricani e asiatici, spesso senza documenti. Stesse condizioni vengono sovente alla luce in aziende tessili di piccole dimensioni operanti sul territorio nazionale. Come, ad esempio, è stato scoperto a Prato e nel napoletano.

C’è anche la Apple

Lo scorso settembre è uscito il rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo, nell’acronimo inglese) sulla schiavitù moderna.

«La schiavitù moderna – si legge nelle prime pagine – è composta da due componenti principali: il lavoro forzato e il matrimonio forzato. Entrambe si riferiscono a situazioni di sfruttamento che una persona non può rifiutare o non può abbandonare a causa di minacce, violenza, inganno, abuso di potere o altre forme di coercizione. Le stime globali indicano che nel 2021, ogni giorno, circa 49,6 milioni di persone si trovano in condizioni di schiavitù moderna, costrette a lavorare contro la propria volontà o in situazione di matrimonio forzato».

In entrambe le condizioni, le vittime preferite sono le donne e i minori. Il lavoro forzato riguarda soprattutto i migranti, a causa della loro condizione di vulnerabilità e ricattabilità (quando sono irregolari). I settori d’impiego sono l’agricoltura, le fabbriche manifatturiere e il lavoro domestico.

I datori di lavoro sono in maggioranza privati, ma ci sono anche entità statali. Accade, per esempio, in Myanmar, con la giunta militare al potere dal febbraio 2021. O nella regione dello Xinjiang, dove la Cina – secondo il rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu uscito il 31 agosto – costringerebbe al lavoro forzato le minoranze uigure (di fede islamica).

In questo scandalo, sono rimaste coinvolte anche aziende fornitrici della Apple. La multinazionale californiana si è sempre difesa affermando di avere tolleranza zero verso il lavoro forzato e che, nei cinquanta paesi dove operano i suoi fornitori, i controlli sono molto severi. Stesse accuse sono state rivolte ad altri big del mondo digitale come Amazon, Google, Microsoft e Facebook.

Le mani degli sposi; il fenomeno del «matrimonio forzato» vige soprattutto nei paesi arabi e dell’estremo oriente. Foto Khadija Yousaf – Unsplash.

Tra le mura domestiche

Ancora meno noto è il lavoro schiavo nei servizi e, in particolare, nell’ambito domestico. In Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrain, Kuwait, Oman, ma anche Giordania e Libano, esso si basa su una interpretazione distorta del sistema di regole noto come «kafala», nato inizialmente come adozione islamica e poi estesosi ai rapporti lavorativi tra famiglie locali (gli «sponsor») e immigrati assunti come domestici (la Ilo ha stimato oltre tre milioni di persone).

Sono conosciuti gli abusi sulle donne etiopi impiegate in Libano o sul personale filippino in Arabia Saudita (paese che, in teoria, ha abolito la kafala nel marzo 2021). Per parte sua, Amnesty
International ha denunciato con forza le condizioni disumane imposte in Qatar ai lavoratori stranieri (da India, Nepal e Bangladesh) impiegati nella preparazione del mondiale di calcio in programma in questi mesi di novembre e dicembre.

Lo sfruttamento dei lavoratori domestici avviene anche nei paesi latinoamericani, in particolare in Perù. Prima della pandemia di Covid-19 (che ha portato a moltissimi licenziamenti), la Ilo stimava in 450mila i collaboratori familiari (quasi tutti donne, trabajadoras del hogar) nel paese andino.

In Perù, il lavoro domestico è regolato dalla legge e sono attive varie organizzazioni sindacali, ma permangono situazioni di sfruttamento se non di schiavitù. Soprattutto in presenza di contratti verbali o di minori.

In molti paesi, intere famiglie – genitori e bambini – lavorano come braccianti nelle campagne. Foto Zeyn Afuang – Unsplash.

Sfruttamento online

La condizione di schiavitù – sia nella forma di lavoro che di matrimonio – diventa ancora più intollerabile quando i soggetti coinvolti sono minori.

Due su cinque di quelli costretti a sposarsi erano bambini quando il matrimonio ha avuto luogo. Tra questi, il 41% è stato costretto a sposarsi prima dei 16 anni, con una netta prevalenza di ragazze (87% contro 13%). Il matrimonio forzato – più frequente nei paesi arabi e nei paesi asiatici – produce altre forme di violenza: sfruttamento sessuale, servitù domestica, abusi fisici e psicologici, sia dentro che fuori casa.

Impressionante è poi il numero di bambini vittime di sfruttamento sessuale commerciale: 1,7 milioni su 6,3, circa un quarto del totale. Il genere è un fattore determinante: quasi quattro persone su cinque intrappolate nello sfruttamento sessuale forzato sono ragazze o donne. Inoltre, con il Covid-19 si è notevolmente amplificato il rischio di mercimonio sessuale dei minori online. Internet sta creando nuovi canali di comunicazione per la tratta dei bambini e per collegare le vittime con i loro abusatori.

Il rapporto Ilo del 2022 conferma che i due obiettivi di porre fine alla schiavitù infantile entro il 2025 e alla schiavitù in tutte le sue forme entro il 2030 rimangono lontani. I ricercatori spiegano la situazione attuale in questi termini: «Le crisi che si sono sommate negli ultimi anni – la pandemia di Covid-19, i conflitti armati e i cambiamenti climatici – hanno portato a un’interruzione senza precedenti dell’occupazione e dell’istruzione, a un aumento della povertà estrema e delle migrazioni forzate, nonché a un’impennata delle denunce di violenza di genere. Tutto questo contribuisce ad aumentare il rischio di schiavitù moderna nelle sue diverse forme. Come di solito accade nei periodi di crisi, sono coloro che si trovano già in situazioni di maggiore vulnerabilità – tra cui i poveri e gli emarginati sociali, i lavoratori dell’economia informale, i lavoratori migranti irregolari e le persone soggette a discriminazione – a pagare il prezzo più alto».

Lo sfruttamento del lavoro agricolo è una pratica diffusa in tutto il mondo, anche nei paesi ricchi. Foto Aamir Mohd Khan – Pixabay.

Il prezzo del mercato

Lo scorso 14 settembre, due giorni dopo l’uscita del rapporto dell’Ilo, la Commissione europea ha proposto di proibire nei paesi dell’unione l’importazione e la vendita di prodotti realizzati con il lavoro forzato. La proposta è importante, ma realizzarla sarà complicato. Sono infatti tante le multinazionali e le aziende che sfruttano il lavoro schiavo per abbassare i costi dei prodotti e aumentare i loro profitti. Perché, come sempre, è il mercato che prevale sull’uomo.

Paolo Moiola

Fonti principali

Due rapporti scaricabili dal web e un libro:
Ilo (International labour organization), Forced labour and forced marriage, settembre 2022;
Save the children, Piccoli schiavi invisibili. XII Edizione, luglio 2022;
● Benedetto Bellesi e Paolo Moiola, Il prezzo del mercato, Emi, marzo 2006.

Logo dello sciopero dei lavoratori domestici del Perù.