Haiti. Contro il governo, contro le gang

 

Haiti vive lo stato di «peyi lòk» (paese bloccato) da metà gennaio, quando le manifestazioni popolari scoppiate in diverse città hanno bloccato tutte le attività. Dalle scuole, alla sanità, ai trasporti e le attività commerciali. La popolazione è scesa in piazza per chiedere che il primo ministro de facto Ariel Henry, faccia un passo indietro.

Henry aveva preso il potere, grazie all’appoggio degli Stati Uniti, il 20 luglio 2021, pochi giorni dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moise. Il suo governo – de facto perché non rispetta le procedure costituzionali, in quanto le elezioni non si tengono da diversi anni – non è riuscito a dare risposte dal punto di vista della sicurezza. I gruppi armati (chiamati in creolo gang) hanno preso il controllo gran parte della capitale Port-au-Prince, di diverse città e delle principali vie di comunicazione del Paese. Le guerre tra gang nei quartieri, inoltre, hanno causato centinaia di morti e circa 313.000 sfollati. Si tratta di cittadini costretti a lasciare i propri quartieri, perché diventati insicuri o perché obbligati dai banditi. Durante il solo 2023 circa 8.400 persone son state uccise, ferite o rapite, secondo dati del Binh (Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti). Sempre dati Onu indicano un aumento di assassinii, con circa 5mila persone uccise, mentre i rapimenti sono quasi raddoppiati rispetto all’anno precedente, portandosi a 2.490.

Un accordo del 21 dicembre 2022, chiamato Consenso nazionale per la transizione, firmato da alcune parti in causa (partiti e società civile), prevedeva che Henry lasciasse il potere il 7 febbraio, data simbolo nella storia haitiana (giorno della cacciata di Jean-Claude Duvalier nel 1986). Non essendoci nessun progresso o segnale di dimissioni la gente è scesa in piazza. Ma le agitazioni popolari sono degenerate in violenza. Strade bloccate con pneumatici incendiati e pietre, saccheggi e incendi, in diverse città. La polizia ha represso le manifestazioni con violenza e lacrimogeni, causando alcuni morti e diversi feriti.

L’8 febbraio, il primo ministro Henry ha dichiarato che il suo scopo è portare il paese ad elezioni, che però non si possono organizzare in una situazione come quella attuale. Non ha quindi senso «sostituire una transizione con un un’altra transizione» e per questo motivo è deciso a non lasciare.

Pneumatici incendiati per bloccare le strade a Port-au-Prince. Foto AlterPresse.

In questo contesto, il progetto di Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas) guidata dal Kenya, approvato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu del 2 ottobre 23, avrebbe dovuto portare ad Haiti un migliaio di poliziotti keniani e altrettanti di altri paesi disponibili già il mese scorso. Missione con lo scopo di appoggiare la polizia haitiana a riportare la sicurezza. Ma il 26 gennaio scorso la Corte suprema del Kenya ha dichiarato incostituzionale la decisione di dislocare ufficiali di polizia al di fuori dei confini nazionali. Mentre il presidente del Kenya, William Ruto si dice ottimista, di fatto l’impasse sullo spiegamento della Mmas è totale.

L’8 febbraio l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, Ocha, ha espresso la sua preoccupazione per la chiusura di oltre mille scuole, l’aumento dei prezzi di generi alimentari di base a causa del blocco del commercio, e l’impossibilità del lavoro di assistenza umanitaria agli sfollati. L’organizzazione ha lanciato un allarme sul rischio di una crisi alimentare sempre più ampia.

Nella stessa data, in una nota, la Conferenza episcopale di Haiti ha lanciato un chiaro appello per «mettere fine alla sofferenza del popolo, la cui volontà si è espressa su tutto il territorio, in particolare il 7 febbraio. Il sangue, le lacrime sono colate attraverso assassinii, rapimenti, stupri perpetrati nel corso degli ultimi tre anni. Ne abbiamo abbastanza! […]».

E rivolgendosi direttamente al primo ministro: «Testimoni della miseria e della sofferenza dei nostri concittadini nei dieci dipartimenti del paese, noi vescovi della Ceh lanciamo un appello vigoroso al primo ministro, Ariel Henry, affinché si renda conto della gravità della situazione attuale e prenda una decisione saggia per il bene di tutta la nazione che è seriamente minacciata nelle sue stesse fondamenta». Una richiesta ad Henry di passare la mano.

Marco Bello




Da Gaza ad Haiti. Bambini nei conflitti

Più di 400 milioni di minori vivono oggi in aree di conflitto. Tra il 2005 e il 2022, secondo le Nazioni Unite, almeno 120mila bambini sono stati uccisi o mutilati.
In poco più di un mese, dal 7 ottobre al 15 novembre, il conflitto tra Israele e Hamas ha ucciso 4.642 bambini (di cui 33 israeliani e 4.609 nella striscia di Gaza) e ne ha feriti almeno 9mila.
I dati dell’Unicef su sei conflitti che oggi si consumano in diverse regioni del mondo.

Erano 56 i conflitti armati nel mondo nel 2022 secondo l’ultimo Sipri Yearbook 2023. Per la maggior parte guerre interne ai singoli paesi.
Dal 7 ottobre scorso un nuovo conflitto si è aggiunto alla lista, quello tra Israele e Hamas, assumendo da subito i contorni di una guerra tra le più sanguinose e spietate degli ultimi anni.

In occasione della giornata dedicata ai diritti dei minori, il 20 novembre, l’Unicef ha diffuso un breve report nel quale fa il punto sulla situazione dei bambini in sei paesi in conflitto: Palestina, Haiti, Siria, Sudan, Ucraina, Yemen.

Più di 400 milioni di minori vivono oggi in aree di conflitto. Tra il 2005 e il 2022, secondo le Nazioni Unite, almeno 120mila bambini sono stati uccisi o mutilati.

In poco più di un mese, dal 7 ottobre al 15 novembre, il conflitto tra Israele e Hamas ha ucciso 4.642 bambini (di cui 33 israeliani e 4.609 nella striscia di Gaza) e ne ha feriti almeno 9mila. Altri 1.500 bambini risultano dispersi nella striscia di Gaza, presumibilmente sotto le macerie, scrive l’Unicef. Sono 30 i bambini israeliani prigionieri.

Questo in un contesto di ferocia che vede nella Striscia più di 3 milioni di persone ridotte in stato di necessità (di cui 1 milioni di minori), 1,5 milioni di sfollati (dei quali i bambini sono la metà) che non hanno accesso all’acqua e a condizioni igieniche sicure.
A Gaza un ospedale su tre e due strutture sanitarie primarie su tre sono chiusi. «155.000 donne in stato di gravidanza e allattamento necessitano di assistenza sanitaria primaria – scrive ancora il brief dell’Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia – e 337.000 bambini sotto i 5 anni sono a rischio di malnutrizione acuta. […] Almeno il 55% della rete idrica è stata danneggiata. […] 275 edifici scolastici hanno subito danni […]. Si tratta di oltre il 56% di tutte le infrastrutture scolastiche».

Il brief dell’Unicef offre altri dati su altri conflitti: in Ucraina, dal 24 febbraio 2022 all’8 ottobre 2023 oltre 560 bambini sono stati uccisi e quasi 1.200 feriti, soprattutto a causa dei bombardamenti, in un contesto di guerra che vede oggi quasi 11 milioni di persone in fuga: 5,1 milioni di sfollati interni e 5,8 milioni di rifugiati in altri paesi.

In Siria, a causa di oltre 12 anni di conflitto e del terremoto di inizio febbraio 2023 che ha provocato 6mila morti e più di 12mila feriti, ci sono 15,3 milioni di persone che necessitano di assistenza (quasi il 70% della popolazione), «7 milioni di bambini, 2,6 milioni di persone con disabilità, 5,3 milioni di sfollati interni», scrive l’Unicef. «Oltre la metà degli sfollati si trova nella Siria nord occidentale. Il 90% delle famiglie vive in povertà e il 55% è in condizioni di insicurezza alimentare. […] Secondo i dati delle Nazioni Unite dall’inizio del conflitto, circa 13.000 bambini in Siria sono stati uccisi o feriti. […] oltre 609.900 bambini sotto i 5 anni, soffrono di malnutrizione cronica. […] Il numero di bambini tra i 6 e i 59 mesi che soffrono di malnutrizione acuta grave è aumentato del 48% fra il 2021 e il 2022».

In Yemen «tra marzo 2015 e novembre 2022, le Nazioni Unite hanno verificato che oltre 11.000 bambini sono stati uccisi o gravemente feriti. Oltre 4.000 bambini sono stati reclutati e utilizzati dalle parti in conflitto e si sono verificati oltre 900 attacchi e uso militare di strutture scolastiche e sanitarie». Oltre 2,3 milioni di bambini vivono in campi per sfollati interni nei quali hanno uno scarso accesso all’acqua, al cibo, ai servizi sanitari, all’istruzione; 2,2 milioni soffrono di malnutrizione acuta.

In Sudan, il conflitto esploso il 15 aprile 2023 ha provocato un numero elevatissimo di sfollati interni (arrivati a 7,1 milioni ad agosto, 4,4 milioni a ottobre) e 1,2 milioni di rifugiati in altri paesi. Tra questi, si stima che i bambini siano circa 3 milioni. «700.000 bambini colpiti da malnutrizione acuta grave rischiano di non ricevere le cure e hanno un rischio di morte 11 volte maggiore rispetto ai loro coetanei. 7,4 milioni di bambini non hanno accesso all’acqua potabile», scrive l’Unicef, e prosegue: «Sono ben 19 milioni i bambini sudanesi che non possono tornare nelle aule scolastiche, il che fa di questa situazione una delle peggiori crisi dell’istruzione al mondo».

Haiti è il sesto paese preso in considerazione dalla pubblicazione del Fondo della Nazioni Unite per l’infanzia (ne abbiamo parlato qui e qui). Nel paese caraibico «circa metà della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria, compresi quasi 3 milioni di bambini, vittime di una complessa storia di povertà, instabilità politica e rischi naturali». Circa 2 milioni di persone vivono in aree del paese che risultano controllate da gruppi armati. Da inizio 2023 al 30 settembre «sono stati registrati 5.599 casi di violenza legati a gruppi armati, tra cui 3.156 uccisioni». Molti bambini sono stati feriti o uccisi durante scontri a fuoco, altri sono stati reclutati nei gruppi armati.
Oggi sono circa 115mila i bambini che soffrono di malnutrizione acuta grave, il 30% in più rispetto al 2022.

Se i dati non offrono la comprensione dei motivi politici, economici, ideologici dei molti conflitti che insanguinano il mondo, né suggerimenti per la loro risoluzione, offrono però la possibilità di considerare la loro violenta assurdità.

Luca Lorusso




Haiti, a un passo dalla fine


«La situazione non è mai stata così grave. Siamo molto colpiti sul piano personale, famigliare e professionale», ci dice una nostra fonte giornalistica locale, contattata a Port-au-Prince.

Haiti vive una crisi senza precedenti, peggiore, sembra alle tante vissute nella sua storia.

Dal 7 luglio 2021, quando il presidente Jovenel Moise è stato assassinato, e un governo de facto, ovvero non leggitimo, presieduto da Ariel Henry, è stato insediato con l’avvallo di Usa, Canada e altri stati «amici», nel paese non ci sono più istituzioni repubblicane elette. Fanno eccezione dieci senatori non scaduti (la camera alta viene eletta nella misura di un terzo ogni due anni), mentre il presidente del senato, Joseph Lambért, è l’unica figura eletta attualmente in carica. Moise infatti, si era premurato di ritardare le elezioni amministrative locali e quelle parlamentari, portando a scadenza tutte le istituzioni nazionali.

Il paese è, di fatto, controllato da bande criminali (gang), che si dividono il territorio, sia in capitale Port-au-Prince, sia nelle altre città e nelle vie di comunicazione principali. Sono legate a ricche personalità politiche ed economiche e si finanziano anche con l’uso massiccio del rapimento a scopo di estorsione (abbiamo approfondito questa situazione su MC nei mesi di gennaio e marzo 2022, articoli reperibili sul sito).

Ultimo atto

Dal 12 settembre scorso, una potente gang, G9 an fanmi ak alye, controlla e blocca il terminale petrolifero di Varreux, nel porto della capitale, dove sono presenti gli stock di carburante (già successo nell’ottobre 2021). Benzina e gasolio sono diventati introvabili, e la super reperibile sul mercato nero ha raggiunto i 5.000 gourd al gallone (circa 9 dollari al litro). In questo modo il paese è bloccato. I mezzi di trasposto sono paralizzati, le scuole non hanno potuto riaprire, gli ospedali hanno iniziato a chiudere i reparti, gli uffici non funzionano (l’energia elettrica è prodotta con generatori a gasolio).

Il governo de facto, non ha fatto nulla per riportare la sicurezza nel paese, mentre ha annunciato il raddoppiato il costo dei carburanti a metà del mese scorso (sarebbe il secondo raddoppio dopo quello del dicembre 2021). Da allora, forti movimenti di protesta di strada sono cominciati, molto spesso degenerati in saccheggi e violenze.

In ultimo, dall’inizio del mese di ottobre, ha fatto la sua ricomparsa sull’isola il vibrione del colera, e i casi di malati e decessi si stanno moltiplicando, anche a causa della difficoltà, talvolta l’impossibilità, di fornire cure, a causa del blocco del paese.

Una nuova occupazione?

Così, in un consiglio dei ministri, il 6 ottobre scorso, il governo de facto ha autorizzato il primo ministro a «sollecitare e ottenere dai partner internazionali un supporto effettivo per il dispiegamento di una forza armata specializzata, per fermare su tutto il territorio la crisi umanitaria causata, tra l’altro, dall’insicurezza, risultato dell’azione delle bande armate […]».

Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha girato la richiesta di aiuto al Consiglio di sicurezza.

Una richiesta illegittima da parte di un governo de facto, per chiedere una nuova occupazione militare del paese. Un atto anticostituzionale, questo hanno denunciato i diversi settori della società civile e dell’opposizione politica.

Il gruppo nato da società civile e alcuni partiti di opposizione, il 30 agosto 2021, noto come l’accordo del Montana (firmato appunto in quella data), aveva tentato una negoziazione con il potere de facto, per una gestione più concordata e aderente alla Costituzione della crisi degenerata con l’assassinio del presidente Moise. A inizio 2022, però, ha gettato la spugna, vista la reticenza di Henry ad ascoltare altri settori della società, per raggiungere un consenso più ampio su un governo di transizione.

Si ricorda che le occupazioni militari di Haiti, Usa 1915-1934, Usa 1994 poi sostitutita da Nazioni Unite (fino al 1997), e ancora caschi blu dell’Onu dal 2004 al 2017, hanno portato enormi problemi, non hanno risolto quelli presenti e, di fatto, hanno contribuito a portare il paese alla situazione attuale aumentandone, nei decenni, la dipendenza dall’estero.

Tra il 12 e il 13 ottobre, una delegazione statunitense, guidata dal vice segretario di stato per gli affari dell’emisfero occidentale Brian A. Nichols, è stata ad Haiti dove ha incontrato separatamente il governo de facto, il gruppo di Montana, e alcuni settori imprenditoriali e sociali. Intanto, una delle maggiori navi guardacosta Usa, ha iniziato a incrociare al largo di Port-au-Prince.
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Sebbene gli haitiani abbiano mostrato nella storia una grande resilienza, la popolazione è oggi davvero allo stremo. La fame, la violenza, l’insicurezza, le malattie, stanno colpendo tutti. Il rischio, ben visibile, è quello di un’insurrezione popolare generalizzata. A breve.

Marco Bello




Haiti, la transizione può attendere


Dopo l’assassinio del presidente, alla guida del paese si è insediato un governo de facto. È sostenuto dalla comunità internazionale e dal maggiore Gruppo di potere. Lo fronteggia una larga coalizione alternativa. Ci sarà scontro o negoziato?

Scaduto il parlamento (ad eccezione di 10 senatori, un terzo del senato, che da soli non possono legiferare), scadute le autorità locali, assassinato il presidente della repubblica (il 7 luglio scorso), ad Haiti il vuoto istituzionale sembra toccare i massimi livelli.

Dopo la morte del presidente Jovenel Moise, una fazione del suo partito, il Phtk (Partito haitiano tèt kole), appoggiata dalle ambasciate occidentali (che insieme a Onu e Osa si riuniscono nel Core group), è riuscita a imporre il medico Ariel Henry come primo ministro de facto. Questi era stato designato dallo stesso Moise due giorni prima di morire. Henry ha poi trovato un accordo con alcuni partiti dell’opposizione, in quello che è passato sotto il nome di «accordo dell’11 settembre». Questa è l’alleanza attualmente al potere che si è data tre obiettivi principali: la riforma della Costituzione, la creazione di un nuovo Consiglio elettorale provvisorio (Cep) per realizzare elezioni generali, e la messa in sicurezza del paese, in preda alle bande armate.

L’accordo prevedeva un nuovo governo de facto, nel quale avrebbero potuto partecipare anche gli altri partiti firmatari. Esso è stato realizzato il 24 novembre scorso. De facto perché non può essere validato da un parlamento, e perché ha un primo ministro che governa da solo, non in collaborazione con il presidente della repubblica, come prevederebbe la Costituzione.

La voce dei movimenti

All’opposizione si trovano diversi schieramenti. L’accordo firmato il 30 agosto da diverse entità del mondo associativo, società civile e alcuni partiti politici (che si dichiarano a sinistra), noto come «accordo di Montana» (dal nome dell’hotel dove è stato siglato), è sicuramente quello più importante per numero e statura degli aderenti. Prevede una transizione più vicina alla Costituzione, con un esecutivo bicefalo. Non essendoci istituzioni repubblicane attive, i firmatari dell’accordo hanno previsto meccanismi consensuali per arrivare alla nomina di un presidente e un primo ministro. Hanno quindi formato il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), costituito da 40 membri tra i quali leader di organizzazioni contadine, femministe, socioprofessionali, e partiti politici.

Il Cnt, il 30 gennaio, ha eletto un presidente e un primo ministro di transizione, nelle figure di Fritz Jean e Steven Benoit, non riconosciuti dalle altre fazioni. «Il Cnt  si contrappone allo schema di chi ha il potere in questo momento. La questione è vedere come andranno i rapporti di forza, per poter realizzare una negoziazione tra le due parti. Per ora hanno avuto solo qualche incontro interlocutorio», ci confida un osservatore haitiano.

Un’ulteriore novità è stata un’alleanza tra il gruppo del Montana e il Protocollo d’intesa nazionale (Protocole d’entante nationale, Pen), un gruppo di partiti politici appartenenti alla destra storica. Ne fa parte, ad esempio, l’ex senatore Yuri Latortue. Tale alleanza, o «consenso politico», suggellata l’11 gennaio scorso, ha suscitato anche qualche perplessità in diversi esponenti della sinistra e dei movimenti sociali.

L’alleanza Montana-Pen, per risolvere il problema presidenziale, propone una presidenza collegiale, composta da cinque membri, alla quale fare partecipare anche un esponente dell’attuale gruppo al potere. Ci sarebbe poi un primo ministro e un gabinetto ministeriale, e questi organi guiderebbero una transizione di due anni che porterebbe alle elezioni generali. «Difficile che il governo di Phtk accetti questo cosiddetto “consenso politico”, se i rapporti di forza si mantengono quelli attuali».

Cimitero danneggiato dal terremoto del 14/08(2021 – Photo by Julien Masson / Hans Lucas / Hans Lucas via AFP

Chi tira i fili

«Il politico più influente del momento rimane l’ex presidente Michel Martelly, che punta a riconquistare la presidenza. Attualmente molti lo vedono dietro alle decisioni del governo di Henry, che di fatto lo rappresenta», continua il nostro interlocutore.

Da notare la spaccatura in seno al partito Phtk, causata proprio dall’assassinio del presidente, che pare essere stato un affare interno. In opposizione alla fazione Martelly-Henry, si trova la moglie di Moise, Martine, che ha mostrato ambizioni politiche, e con lei tutto il settore che appoggiava il presidente assassinato, come l’ex primo ministro e influente uomo d’affari, Laurent Lamothe.

Secondo un articolo del New York Times1 , che riporta un’intervista al businessman, ex trafficante di droga, Rodolphe Jaar, arrestato il 7 gennaio scorso in Repubblica Dominicana nell’ambito delle indagini sull’assassinio di Moise, il premier Henry era in costante contatto con alcuni dei principali indiziati del complotto, prima e dopo gli eventi. Secondo certi analisti, Martelly stesso potrebbe essere stato attivo nell’assassinio.

È però verosimile che le due fazioni, figlie dello stesso partito e della stessa cultura politica, all’ultimo momento, trovino un accordo per governare il paese.

Dove sta il popolo

«Quelli del Montana vorrebbero una “transizione di rottura”, che escluda i corrotti e gli attori del precedente potere, e coloro che hanno partecipato ai massacri di questi ultimi anni (ne sono stati compiuti diversi). Chiedono un processo partecipativo, che metta avanti le associazioni della società civile organizzata, e i partiti politici, in una dinamica democratica. Ma, per avere un peso nel negoziato, dovrebbero poter contare anche su una mobilitazione a livello popolare, cosa che non sembra tanto possibile per il momento, a causa del controllo da parte delle bande armate dei quartieri cittadini e delle principali vie di comunicazione. Gang che obbediscono ancora, almeno in parte, ad alcuni politici del campo opposto.

Il peso che possono giocarsi oggi è di tipo morale, le associazioni hanno una certa rappresentatività, sono circa un migliaio, sono conosciute. Se riuscissero a esprimere la loro forza con manifestazioni di piazza potrebbero portare le forze dominanti e la comunità internazionale ad ascoltarli, a pensare che occorre procedere in modo diverso».

Malgrado tutto, i «Montana» hanno un certo ascolto. Ad esempio, l’ambasciata statunitense e il dipartimento di stato li hanno già incontrati più volte per sapere cosa propongono.

«Penso che la comunità internazionale vorrebbe che il gruppo di Montana integrasse il governo attuale. Brian Nichols, sottosegretario Usa agli affari emisferici, durante un incontro ha chiesto loro di negoziare seriamente con Henry», chiosa il nostro osservatore.

Marco Bello

 1 – �Haitian prime minister had close links with murder suspect, New York Times, 10/01/2022.

 


Nomi e numeri/ Le tappe dello scandalo PetroCaribe

Dove sono i soldi degli haitiani

Da un’ottima idea di Hugo Chávez, quella di aiutare i paesi del Sud con le risorse del Sud, nasce una vicenda di corruzione di proporzioni gigantesche. Essa ci spiega, almeno in parte, perché al popolo di Haiti venga negata la dignità.

Il presidente del Venezuela (1999-2013) Hugo Chávez voleva sviluppare accordi di cooperazione con i paesi limitrofi per aiutarne lo sviluppo. Da questa idea nacque l’accordo PetroCaribe, che permetteva ai paesi firmatari di beneficiare del petrolio venezuelano su una corsia preferenziale.

L’accordo fu firmato nel 2005 da 12 paesi dei Caraibi. All’epoca Chávez non volle firmare con il presidente ad interim di Haiti Boniface Alexandre, in quanto non era stato democraticamente eletto (si trattava di un presidente di transizione, che aveva sostituito Jean-Bertrand Aristide fuggito in esilio nel 2004).

Il giorno dopo l’insediamento di René Préval come presidente, nel maggio 2006, Chávez lo chiamò per proporgli l’accordo. L’ambasciatore Usa ad Haiti, però, fece pressioni affinché non accettasse, pur ammettendo in segreto (rivelano documenti Wikileaks) che l’operazione avrebbe portato un beneficio economico al paese. Dopo una serie di negoziazioni, l’accordo venne firmato nell’ottobre dello stesso anno, per diventare esecutivo a gennaio 2007.

Murale decicato a Jovenel Moise. (Photo by Valerie Baeriswyl / AFP)

Cosa prevede

L’accordo PetroCaribe prevede che il Venezuela fornisca petrolio ad Haiti a un costo pari al 30% di quello del mercato internazionale. Il restante 70% sarà restituito dallo stato haitiano dopo 25 anni, con un tasso di interesse dell’1%. Unico vincolo posto dal Venezuela: che i fondi derivanti dal 70% risparmiato sia impiegato dal governo in progetti di sviluppo, di infrastrutture e di investimento per il paese (strade, scuole, ospedali, ecc.).

Il meccanismo prevede che lo stato acquisisca il petrolio e lo venda alle società private presenti sul territorio, che lo utilizzano per produrre elettricità. In questo modo verrebbero ricavati i fondi spendibili per le opere a favore degli Haitiani.

Per rendere operativo l’accordo, il presidente Préval costituì il Bureau de monetisation de programmes d’aide au développement, Bmpad, (Ufficio di monetizzazione dei programmi di aiuto allo sviluppo) che sarebbe stato l’organo incaricato di gestire i fondi PetroCaribe.

Nell’arco del 2007 i fondi accumulati (il 70%) risultarono essere 197,5 milioni di dollari. A inizio settembre 2008 l’isola fu colpita da quattro forti uragani, che causarono centinaia di morti e distruzione, in particolare nella città di Gonaives. Préval, insieme alla primo ministro Michèle Pierre-Louis, decise di impegnare i fondi PetroCaribe per la ricostruzione.

Cattiva gestione?

I governi che si sono succeduti e hanno impegnato i fondi accumulati da PetroCaribe sono stati i seguenti.

René Préval con primo ministro Jean-Max Bellerive, tre decreti per un impegno totale di 450 milioni di dollari. Il presidente Michel Martelly, succesore di Préval (maggio 2011), con il primo ministro Gary Conille, firmò un decreto il 22 febbraio 2012 per lo sblocco di 220 milioni. Due giorni dopo il primo ministro si dimise. Sarebbe stato sostituito da Laurent Lamothe (imprenditore di una famiglia della ricca borghesia haitiana).

Martelly e Lamothe spesero altri 900 milioni, oltre ai 220 precedenti.

Il presidente Martelly, contestato dalla popolazione, cambiò primo ministro, nominando nel gennaio 2015 Evans Paul, uomo politico di lungo corso, già legato alla sinistra. Durante il periodo Martelly-Paul i fondi PetroCaribe impegnati furono 250 milioni di dollari.

Infine, le elezioni per il successore di Martelly non andarono a buon fine, e venne nominato un presidente di transizione, Jocelerme Privert, che sarebbe stato in carica un anno (da febbraio 2016).

Insieme al primo ministro Enex Jean-Charles, impegnarono 33 milioni del fondo PetroCaribe.

Ad eccezione della prima tranche utilizzate per Gonaives, gli altri fondi diedero origine a progetti «bidone», pagamenti non tracciati, realizzazioni inesistenti.

Altre perdite

Ci sono altri fondi che mancano all’appello. Come detto, il petrolio venezuelano veniva venduto a compagnie private che producono energia (Sogener, e-Power e altre). Queste vendono i chilowattora alla compagnia di stato Eléctricité d’Haiti (EdH). L’EdH, però non pagava i fornitori, per cui questi, a loro volta, non pagavano il petrolio fornito da Bmpad. Questo produsse una perdita secca nell’intero periodo (2008-2016) di altri 600 milioni di dollari.

Infine, sul 30% da pagare subito alla fornitura al Venezuela, il paese di Chávez concesse una moratoria di due anni perché Haiti aveva forti problemi socio economici e di liquidità. Risultò che, di questa parte, solo l’85% venne pagato, mentre il 15% ancora rimane senza tracciamento: circa 200 milioni di dollari statunitensi.

Facendo i conti, dei fondi non tracciabili o spesi in modo dubbio, si raggiunge il valore minimo di 2,653 miliardi di dollari, per il periodo 2008-2016.

Va notato che questa cifra ha lo stesso ordine di grandezza del bilancio annuale del paese caraibico (intorno a 4 miliardi).

La Corte superiore dei conti e dei contenziosi amministrativi (Cscca) di Haiti ha realizzato tre audit finanziari sull’utilizzo dei fondi PetroCaribe che hanno dato origine a tre rapporti: gennaio 2019, maggio 2019 e l’ultimo1, completo, agosto 2020, dai quali sono dedotte le cifre sopra citate. La Corte ha messo in evidenza come «i progetti di investimento e i contratti relativi ai fondi PetroCaribe non sono stati gestiti secondo i principi di efficienza ed economia». La Corte ha lamentato, inoltre, la cattiva cooperazione dei funzionari statali e la mancanza di giustificativi per milioni di dollari.

Il popolo chiede conto

Ancora prima della pubblicazione del primo rapporto, nell’agosto 2018, una mobilitazione aveva preso piede sui social media, sotto l’hastag #PetrocaribeChallenge. La popolazione chiedeva alla classe politica di rendere conto su questi fondi2.

Per assurdo (o cecità di chi governava), il 7 luglio l’esecutivo, spinto dal Fondo monetario internazionale, aveva previsto l’aumento del 50% del prezzo del carburante alla pompa. È stata la scintilla che ha scatenato due giorni di proteste e guerriglia urbana a Port-au-Prince.

Il primo rapporto della Cscca metteva in causa il presidente Jovenel Moise, all’epoca non ancora in carica, per essere al centro dello schema di appropriazione indebita dei fondi, attraverso alcune sue imprese (tra cui Agritrans). La contestazione popolare è divampata in piazza in modo massivo nel febbraio 2019, mettendo a rischio lo stesso presidente3. Tali disordini hanno portato al cosiddetto «payi lok» (paese bloccato, in creolo) negli ultimi mesi di quell’anno, durante i quali la popolazione ha fermato tutte le attività in molte città.

Il fenomeno è andato scemando a inizio 2020 per diversi motivi, dall’arrivo del Covid-19 all’intervento delle gang che impedivano alla gente nei quartieri di uscire di casa e andare a manifestare.

Resta un rapporto di oltre 1.000 pagine, un lavoro esemplare dei giudici della Corte superiore dei conti, che aspetta in un cassetto che i responsabili della gestione, politici al potere e alti funzionari, siano convocati in tribunale per rendere conto.

Marco Bello 

  1. �Audit spécifique de gestion du fonds PetroCaribe. Cour supérieure des comptes et du contentieux administratif. Rapport 3, 12/08/2020.
  2. �#PetrocaribeChallenge, la campagne qui mobilise les haitiens contre la corruption, France24, 15/02/2020.
  3. PetroCaribe scandal: Haiti court accuses officials of mismanaging $2 bln in aid, France24, 18/08/2020.

 


Testimoni/ L’ultima intervista a padre Jean-Yves Urfié

«Bisogna che lascino in pace Haiti»

«Finché [il governo di] Haiti è agli ordini di Washington, la situazione non può migliorare. È un sistema di sfruttamento allo stato puro».

Ho conosciuto Jean-Yves Urfié nel 1995, a Port-au-Prince. Mi avevano parlato di lui, fondatore e direttore dell’unico settimanale in lingua creola (la lingua ufficiale) del paese, Libète. Sacerdote della congregazione dello Spirito Santo, da sempre si occupava di comunicazioni sociali. Mi aveva accordato un’intervista. In seguito ho avuto la fortuna di lavorare con lui al suo giornale.

Arrivato nel 1964 ad Haiti, ne era poi stato espulso da François Duvalier nel 1969. Aveva continuato a lavorare con la diaspora haitiana, prima a Brooklyn, New York, e poi in Guyana francese. Per poi tornare nel paese dei Caraibi a cui avrebbe dedicato la vita.

Nel gennaio dell’anno scorso, gli ho fatto l’ultima intervista sulla situazione del paese. Questa volta per telefono, perché da qualche anno viveva in Francia. Neanche tre settimane dopo, il 9 febbraio 2021, il Covid se l’è portato via all’età di 83 anni. Jean-Yves stava ultimando il suo libro di memorie, una vita che racconta anche la storia di Haiti di oltre mezzo secolo.

Riascoltando l’intervista, trovo una grande lucidità e visione. Ne riporto qui alcuni stralci che aiutano a comprendere l’attuale situazione haitiana.

La presidenza di Jovenel Moise non rischia di trasformarsi in una dittatura?

«È già una dittatura perché il presidente governa per decreto. […] L’opposizione ha cominciato a manifestare contro questo. […]

È soprattutto l’opposizione politica, ma incominciano ad aggiungersi dei movimenti nella società civile perché si rendono conto che alcuni decreti del presidente, sono contro la libertà.

Ad esempio ha creato un’agenzia di servizi segreti i cui membri possono essere armati, e andare dalle persone senza mandato e rendono conto solo al presidente. Una modalità che assomiglia molto ai Macoute del passato. Anche i diplomatici stranieri hanno detto a Moise che è un decreto pericoloso.

I diplomatici stranieri sono, però, molto ipocriti, perché informalmente criticano un decreto, ma non fanno nulla affinché non sia pubblicato.

O meglio, quando vogliono intervenire, lo fanno. Quando non vogliono, dicono che rispettano l’indipendenza del paese. Soprattutto gli Stati Uniti e il cosiddetto Core group».

Ma cosa sta succedendo al movimento popolare?

«Il movimento popolare era più forte nel 2019: avevano bloccato il paese per diverse settimane (si riferisce al payi lok per protestare contro lo scandalo PetroCaribe, vedi box pag. 13, ndr). Ma il problema è che, nell’opposizione stessa, ci sono persone molto simili a Moise, quindi il popolo non ha fiducia in tutti i suoi leader. Inoltre, non riescono a mettersi d’accordo. Per essere efficace, occorre che il movimento sia generale, ma oggi i vari gruppi lottano gli uni contro gli altri. Ci sono quelli che sono più radicali e altri meno, quelli favorevoli al dialogo e altri no. Tra i radicali c’è gente come Yuri Latortue, che faceva parte degli squadroni della morte durante il colpo di stato (parla del golpe di Raoul Cédras, 1991-1994, ndr). È diventato molto ricco grazie a traffici strani. La gente non si fida».

Cosa ne pensi del fatto che sia stato ripristinato l’esercito?

«Questo è un altro pericolo, perché l’esercito è sempre stato contro il popolo, almeno dall’occupazione americana (gli Usa hanno occupato militarmente Haiti dal 1915 al 1934, ndr). Sono loro che hanno riformato le Forze armate d’Haiti durante l’occupazione e questo esercito lavora sempre per gli interessi americani. Nella Costituzione l’esercito esiste, ma aveva una reputazione talmente cattiva che, dopo colpo di stato (di Cédras, ndr), al suo ritorno, Aristide l’aveva eliminato (1994). Da allora tutto il settore macoute (la destra duvalierista, ndr) cerca di rimetterlo in piedi».

Il fenomeno delle gang armate esiste da decenni, ma adesso sembra fuori controllo. Perché?

«Ci sono gang dappertutto, e sono al servizio dei politici. Hanno un grosso arsenale: si parla di 500mila armi leggere che sono entrate nel paese. Latortue e altri politici le ordinano e le fanno arrivare nei porti. E si assiste a una moltiplicazione.

È molto difficile disarmare questi gruppi. È come in Repubblica Centrafricana e altri paesi africani, dove i miliziani non rimettono le armi, neppure con i programmi di demilitarizzazione.

Inoltre tra di loro ci sono poliziotti. A volte si apprende che poliziotti sono arrestati, perché erano coinvolti nei rapimenti. Rapiscono anche gente del popolo. Il loro modo di sopravvivere è utilizzare le armi per fare soldi. Il mezzo più rapido è il rapimento. Chiedono delle somme enormi: uno o due milioni di dollari. Quando non sono pagati, i rapiti vengono uccisi».

(Photo by Reginald LOUISSAINT JR / AFP)

Quali speranze ci sono affinché migliori la situazione sociale ad Haiti?

«Il fondo del problema è un cambiamento di sistema. Non puoi migliorare la situazione ad Haiti cambiando un solo uomo. Fintanto che il sistema resta com’è, ovvero che Haiti è agli ordini di Washingon, non può funzionare. Siamo in pieno sistema capitalista selvaggio: nelle fabbriche le operaie prendono 5 dollari al giorno, un modello di sfruttamento che non può continuare. Questa è la base di tutto. Moise non fa che perpetuare un sistema di disuguaglianze. Finché sarà così, ci saranno le bidonville dove le persone languiscono, bevono acqua sporca, non hanno alcun confort, vivono sotto un tetto di lamiera con 40 gradi all’interno. Sono gli Stati Uniti che hanno le fabbriche al Parc industriel. L’interesse degli Usa per Haiti sono i bassi salari. Una seconda preoccupazione degli americani sono i boat people (migranti sui barconi, ndr) che hanno ripreso a partire. È come un termometro: quando le cose vanno veramente male, i boat people partono.

Gli americani non vogliono i profughi ma vogliono tenere i salari bassi. È un sistema di sfruttamento allo stato puro: “Non siete contenti ma restate a casa vostra, non vi vogliamo da noi, ma voi lavorate per noi”».

Con il presidente Joe Biden le cose potrebbero cambiare?

«Non cambia con i presidenti Usa. Abbiamo avuto Obama e Carter, adesso abbiamo Biden. Anche se non è cattivo come Trump, però rappresenta un sistema pieno di disuguaglianze, che fa la fortuna di Wall Street, il vero simbolo di tutto questo».

Marco Bello

Nota

Jean-Yves Urfié ebbe un ruolo importante nella resistenza al colpo di stato di Raoul Cédras (1991-1994), organizzato dalla Cia (Usa). In quel periodo pubblicò un romanzo contro la dittatura, uscito con lo pseudonimo Paul Anvers, che, se letto in creolo, suona come «pelle all’inverso», in quanto si riteneva haitiano bianco, quindi con la pelle rivoltata.
Paul Anvers, Rizierès de sang, L’Harmattan, Paris, 1992. Ancora disponibile in formato elettronico sul sito dell’editore.

Archivio MC

Cattedrale di Port-au-Prince distrutta nel terremoto del 2010 e mai ricostruita


Appello dei vescovi di Haiti

  • I vescovi di Haiti, il 3 febbraio scorso, hanno fatto un appello pubblico «affinché i protagonisti trovino un consenso il più largo possibile per uscire dalla crisi in modo definitivo, perché è necessario un compromesso storico».

L’ora che viviamo è estremamente grave e particolarmente decisiva, in questo momento irreversibile della nostra storia. Quello che è in gioco è il nostro presente e il nostro avvenire, e dunque la nostra esistenza stessa come popolo, come nazione e come stato. È quindi necessario prendere delle decisioni coraggiose.

Sì, la nostra cara Haiti non ne può davvero più. È stanca, estenuata, sfinita. Ne ha abbastanza di vivere in condizioni totalmente alienanti, umilianti, inumane e disumanizzanti.

È il momento è per l’unità, l’unione che fa la forza, la messa in comune delle nostre idee e dei nostri sforzi. L’ora del consenso nazionale e patriottico per fare uscire definitivamente il nostro paese dalla crisi profonda che perdura da troppo tempo, e che minaccia seriamente la sua stessa esistenza.

È tempo di uscire dalla nostra indifferenza, dal nostro torpore, le nostre paure reciproche. È tempo di raccoglierci in un sussulto morale, patriottico e di cittadinanza, prima che sia troppo tardi.

Di fronte alla situazione drammatica nella quale è precipitato il nostro caro paese, noi, i vescovi cattolici di Haiti, rivolgiamo una volta di più, un appello urgente a tutti i protagonisti che sono sulla scena sociopolitica, affinché trovino insieme un consenso più ampio possibile, che possa condurre all’uscita definitiva dalla crisi, in vista della riconquista della nostra sovranità e di un risollevamento di Haiti.

Noi esortiamo a lavorare insieme, in sinergia, in vista di costruire un avvenire solido e radioso per Haiti, le sue figlie e si suoi figli.

Haitiane e haitiani, noi dobbiamo coniugare tutte le nostre forze, le nostre energie, le nostre intelligenze, nostre risorse e lavorare insieme affinché il 7 febbraio sia un giorno di dialogo, di consenso, e di compromesso storico per l’unità del nostro popolo, la salvaguardia e la trasformazione del nostro paese che si trova sul bordo dell’abisso.

Haitiane e haitiani, mettiamo il bene supremo della Nazione al di sopra di ogni altro interesse personale, per evitare che il nostro paese precipiti nel caos più totale.

Facciamo appello alla coscienza e al senso di responsabilità dei nostri dirigenti, al fine che essi mettano tutto in opera per l’ordine, la pace, la sicurezza e il rispetto delle vite e dei beni sia ristabilito e consolidato. Così prevarranno infine nel nostro paese il diritto e la giustizia.

Ai gruppi armati e ai rapitori che seminano, in totale impunità, la violenza, la paura, il lutto, la desolazione, e la disperazione nelle famiglie haitiane, noi chiediamo di deporre le armi, di rinunciare alla violenza, al rapimento e di smettere di fare colare il sangue delle loro sorelle e fratelli.

Firmato da tutti i vescovi haitiani
(liberamente tradotto dal francese)

 




Haiti: Una vita in lockdown


Il paese dei Caraibi, nel Settecento la colonia più ricca al mondo, e seconda nazione indipendente delle Americhe, oggi vive una situazione di «stato fallito». Non è una questione di sfortuna. Le cause storiche e geopolitiche sono precise e definite.

È la notte tra il 6 e il 7 luglio 2021. Un commando di una trentina di uomini vestiti di nero si introduce nella residenza del presidente della Repubblica di Haiti, Jovenel Moise, senza sparare un colpo. Giunti in camera da letto, scaricano raffiche di mitragliatore sul presidente, poi infieriscono brutalmente sul suo cadavere. La moglie Martine resta ferita e, evacuata a Miami, si salverà. Le macabre immagini del corpo martoriato fanno il giro dei social, a bella mostra di quanto è successo.

Chi era Jovenel Moise

Moise era espressione della classe borghese del paese, in particolare dei neo arricchiti, non delle famiglie dell’oligarchia storica. Lui aveva fatto i soldi con l’agro business, l’export delle banane, e per questo era chiamato Nèg banann, in creolo, l’uomo delle banane. Era succeduto al presidente Michel Martelly (2011-2016), come suo candidato designato, del suo stesso partito, il Partito haitiano tèt kale (Phtk), di estrema destra, filo duvalierista. Aveva inizialmente perso le elezioni contestate (ottobre 2015) e, dopo un anno di transizione, con il presidente a interim Jocelerme Privert, era stato eletto nel novembre 2016 entrando in carica il 7 febbraio 2017 (cfr. MC aprile 2017).

Moise, in contrasto con la Costituzione, aveva poi evitato di organizzare le elezioni alle scadenze fissate, sia per gli eletti locali, che per il parlamento, il cui mandato si era concluso nel gennaio 2020.

Da allora legiferava per decreto, intervenendo anche su aspetti molto delicati delle istituzioni haitiane. Stava inoltre preparando una riforma costituzionale – percorrendo però una procedura  anticostituzionale – che avrebbe aumentato ulteriormente i poteri del presidente.

La popolazione lo aveva duramente contestato già nel 2018 e poi di nuovo, con manifestazioni che avevano bloccato il paese, dall’autunno 2019.

C’era pure una diatriba sulla scadenza del suo mandato, che sarebbe stata il 7 febbraio 2021, ma che lui aveva portato al 2022, giocando su un’ambiguità costituzionale (cfr. MC marzo 2021).

Photo by Ricardo ARDUENGO / AFP

Il dopo Moise

All’indomani dell’efferato assassinio, che sciocca il paese, si innesca una contesa a tre per la gestione della transizione. I protagonisti sono: Claude Joseph, primo ministro in carica, ma sfiduciato dallo stesso Moise che due giorni prima di essere ucciso aveva designato una nuova figura, il dottor Ariel Henry, a succedergli. Il secondo è Henry stesso, che rivendica la nomina. Infine il terzo è Joseph Lambert, presidente di un terzo del senato (composto da dieci senatori, un terzo del totale, non scaduti, perché la Costituzione ne prevede il rinnovo di un terzo ogni due anni), le uniche cariche elette rimaste nel paese.

La Costituzione del 1987, emendata, prevederebbe (art. 149) che, in caso di vacanza improvvisa del capo di stato, sia il presidente della Corte di Cassazione a prendere la guida del paese, ma il giudice René Sylvestre è morto un mese prima dell’omicidio, a causa delle complicanze del Covid-19.

Come spesso è accaduto nella storia di Haiti, è un intervento esterno che prevale su tutti. Il cosiddetto Core Group (coordinamento delle ambasciate di Germania, Francia, Stati Uniti, Canada, Spagna, Unione europea, e rappresentanti di Organizzazione degli stati americani, e Nazioni Unite), i paesi «amici» di Haiti, appoggia apertamente Ariel Henry, che diventa dunque premier de facto di un governo de facto. Esso infatti non potrà essere validato da un parlamento, che non esiste, e non potrà gestire il potere esecutivo insieme a un presidente della Repubblica che non c’è. Un «deserto istituzionale» senza precedenti.

Un popolo in ostaggio

La morte violenta del presidente fa precipitare la già precaria situazione di sicurezza del paese. Se le gang (bande armate di malviventi, in creolo) sono sempre esistite, e negli ultimi anni erano diventate più forti, adesso si dividono il controllo di gran parte del territorio, nella capitale come nelle principali vie di comunicazione.

La gang di Jimmy Chérisier, detto Barbecue, che si fa chiamare G9 an fanmi ak alye (Gruppo 9 in famiglia e alleati), nei mesi di ottobre e novembre 2021 arriva a impedire la fuoriuscita delle autobotti dal terminale petrolifero di Varreux (gli autisti sono uccisi o rapiti), bloccando di fatto il funzionamento del paese per mancanza di carburante. I prezzi dei trasporti e di tutti i generi alimentari, anche di base, si impennano e molti servizi, inclusi ospedali e banche, devono chiudere. Gran parte dell’energia elettrica ad Haiti è infatti prodotta da centrali termiche e da gruppi elettrogeni privati.

Barbecue, vicino al presidente assassinato Moise, chiede le dimissioni di Ariel Henry. Poi, quasi fosse il capo di stato, pubblica un video in cui dichiara una tregua di una settimana, in onore della battaglia di Vertières (18 novembre 1803: la vittoria dell’esercito «indigeno» contro l’armata napoleonica, porta all’indipendenza), lasciando uscire i camion dal deposito. Nello stesso video dice di essere a capo di un gruppo rivoluzionario, denuncia la fame del popolo e dunque chiama i suoi seguaci a prendere le armi perché «la rivoluzione sta per cominciare».

Nella festa di commemorazione della morte di Jean-Jaques Dessalines, padre della patria, il 17 ottobre, la stessa gang impedisce al primo ministro de facto, al capo della polizia Léon Charles (che si dimetterà a fine ottobre), e al loro seguito, di svolgere la cerimonia di suffragio. I suoi uomini attaccano la scorta che batte in ritirata, e in seguito Chérisier in persona, a volto scoperto e in giacca bianca, deposita una corona di fiori alla base della stele che ricorda l’assassinio di Dessaline a Pont Rouge (Port-au-Prince).

Photo by Richard PIERRIN / AFP

Rapimenti

Un’altra gang famosa, la 400 Mawozo, controlla l’uscita Nord della capitale e la strada principale verso la frontiera con la Repubblica Dominicana. È nota per alcuni rapimenti di massa. Il 16 ottobre compie un salto di qualità, sequestrando 17 stranieri (16 statunitensi e un canadese), missionari protestanti legati all’organizzazione Usa Christian aid ministries. Il rapimento di stranieri, che finora non è una pratica frequente, è la punta dell’iceberg di un fenomeno che si è esteso a tutti i livelli sociali. Chiunque può essere rapito, e i riscatti richiesti variano da decine di migliaia di dollari a milioni. Spesso, se il riscatto non è pagato, il malcapitato viene ucciso.

«I rapimenti sono una media di quattro, sei al giorno, mentre abbiamo contato una media di cinque omicidi al giorno nei primi sette mesi del 2021», ci dice Antonal Mortimé, segretario generale di Defenseur plus, associazione per la difesa dei diritti umani ad Haiti.

«La situazione è molto peggiorata dopo l’assassinio del presidente Moise, e la gente vive un clima di terrore quotidiano. Possiamo dire che il diritto alla vita è negato, in questo momento, nel paese».

Mortimé, contattato telefonicamente, ci descrive la mappa delle gang che controllano la capitale Port-au-Prince, a Nord, Nord-Est, Sud e al centro: «Siamo circondati, siamo presi in ostaggio in modo collettivo. Abbiamo paura di portare i bambini a scuola, di andare all’Università, o al lavoro. Poi ci sono tante micro gang, in guerra tra di loro».

E continua: «Ariel Henry non ha saputo ristabilire l’autorità dello stato, la sicurezza, la fiducia dei cittadini».

Un popolo sotto controllo

«Non è un fenomeno di oggi, i gruppi armati erano presenti già 30 anni fa», ci ripete una fonte autorevole haitiana, che chiede l’anonimato, perché «qui ti ammazzano per molto poco». «Le gang sono organizzazioni paramilitari, come erano i Macoute al tempo dei Duvalier, create per controllare la popolazione. Sono i grandi proprietari terrieri e i grandi padroni dell’import-export che, in accordo con il potere fascista (del partito Phtk, nda), hanno messo in piedi e controllano le gang. Fanno parte dell’azione repressiva del Phtk».

Alcuni osservatori sostengono che questi gruppi armati stiano andando fuori dal controllo di chi li ha creati e finanziati. Il nostro interlocutore non è d’accordo: «Le gang si scontrano con la polizia, ma questa è una contraddizione secondaria. Ci sono battaglie tra gang per il controllo del territorio, dei traffici di droga, ma anche questo è secondario rispetto alla repressione perpetrata ai danni della popolazione. Ci sono gang che tentano di diventare autonome, ma non ci riusciranno. L’imperialismo (intende il controllo esercitato da parte dei paesi vicini, gli Usa in primis, nda), che ha l’ultima parola, non lo permetterà, come è già successo tante volte in America Latina».

E continua spiegando l’approccio comunicativo delle gang: «A volte i loro leader dicono che lottano per la popolazione, come Chérisier, che va in video e accusa i borghesi, e dice di volere le dimissioni del primo ministro Ariel Henry. Ma è l’esatto contrario. Se davvero volessero, potrebbero andare a prenderlo quando vogliono, perché sono più forti della polizia».

In effetti le forze di sicurezza, sebbene siano state formate per decenni dalle Nazioni Unite (missione dei caschi blu Minustah dal 2004 al 2017, preceduta dalla Minuha 1993-96, e oggi sostituita dalla più leggera Binuh, Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti), sono incapaci di opporsi alle bande, e spesso i poliziotti vengono ammazzati. Anche le neonate Forze armate d’Haiti, sciolte dal presidente Jean-Bertrand Aristide nel 1994, e ricostituite da Jovenel Moise nel 2017, non hanno mezzi né risorse.

La piramide del potere

«Ad Haiti – continua il nostro interlocutore – esiste una borghesia industriale, ma è dominata dalla borghesia del commercio (o dell’import-export) che è molto forte e blocca lo sviluppo industriale.

Questa classe dominante non ha però la forza di eliminare il sistema precapitalistico, ovvero quello dei latifondisti, in quanto ha bisogno di loro, sia per la produzione di alimenti da esportazione (caffè, zucchero, banane…) sia per reprimere le rivendicazioni popolari dei piccoli contadini.

D’altro lato l’influenza imperialista, soprattutto statunitense, ma anche canadese, francese, che si appoggia su questa classe dominante, ha dei chiari progetti per il paese».

Si riferisce a quattro settori strategici principali: le zone franche con le manifatture del tessile (aree industriali libere da tasse, delle quali abbiamo parlato in MC gen-feb 2014 e maggio 2016); l’agro industria; le ricchezze del sottosuolo e il turismo di alta gamma.

Manifattura tessile

Le zone franche del tessile fanno parte di una strategia delle multinazionali su Haiti da decenni. Sono state ulteriormente spinte dalla famiglia Clinton (Bill e Hillary) come strategia di ricostruzione dopo il terremoto del 2010. Nel giugno di quell’anno Bill Clinton divenne co-presidente, insieme al primo ministro Jean-Max Bellerive, della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti. Ma di fatto comandava lui. La grande zona franca industriale di Caracol, nel Nord del paese, ad esempio, ha visto un grosso coinvolgimento di Hillary. Inaugurata nell’ottobre del 2012, è gestita da manager e capitali sudcoreani (per Clinton-Haiti si veda MC gen-feb 2014). Altre aree sono quella di Ouanaminthe (Codevi), al confine Nord con la Repubblica Dominicana, comoda per portare i manufatti direttamente oltre frontiera, e alcune più recenti a Santo (Croix-de-Bouquet, Nord della capitale), la Apaid & Baker Sa, e Carrefour (a Sud), la Palm Apparel, oltre a quella storica nei pressi dell’aeroporto di Port-au-Prince, la Sonapi. In tutte queste zone industriali, libere da tasse, vengono assemblati vestiti per i grandi brand statunitensi e non solo. Si tratta di un grande serbatoio di manodopera a bassissimo costo, a due passi dagli Stati Uniti.

Il punto cruciale, più in generale, sta nel costo del lavoro. Il salario minimo dignitoso è una lotta affrontata a più riprese dai sindacati haitiani, in particolare nel tessile, ma non solo.

Un sindacalista ci racconta: «Oggi il salario minimo è di 500 gourde al giorno, che al tasso di cambio attuale equivale a 5 dollari. Nel 2009 era di 70 gourde (1,75 dollari con il cambio dell’epoca), ma noi ne chiedevamo 250 (6,25 Usd). Uno studio di economisti haitiani e statunitensi indipendenti, aveva calcolato che per far vivere una famiglia di quattro persone, undici anni fa occorrevano 1.100 gourde al giorno (27,50 usd). Ce ne concessero 125 (poco più di 3). Oggi l’operaio del tessile salta sistematicamente il pranzo, bevendo un goccio di kléren (distillato grezzo di canna da zucchero, dal costo irrisorio, nda) per resistere al pomeriggio. Altrimenti non porterebbe a casa nulla. Inoltre, sono quasi tre anni che il salario minimo non è stato rivisto, mentre la svalutazione della moneta nazionale è stata elevata».

Agro industria

La borghesia agro industriale è un gruppo socioeconomico che sta emergendo. Ne era espressione lo stesso Jovenel Moise. Un caso esemplificativo è l’area di Savane Diane, dove l’imprenditore Clifford Apaid (di una delle famiglie più ricche di Haiti) sta impiantando la sua compagnia Stevia agro industries (Stevia Sa), per un investimento stimato di 250 milioni di dollari (1). Su circa 8mila ettari, a cavallo di tre dipartimenti, la cosiddetta Export processing zone, produrrà manioca, zucchero di canna, avocado e stevia. La stevia (s. rebaudiana) è un dolcificante ipocalorico naturale molto utilizzato nei paesi ricchi in sostituzione dello zucchero, ad esempio è usato dalla Coca-Cola per le bibite in versione light. L’area, chiamata «Zone franche agro industrielle d’exportation de Savane Diane», è stata creata grazie a un decreto presidenziale (di Moise) dell’8 febbraio 2021, che la definisce una «zona franca» ovvero «tax free zone», o zona senza tasse. Il decreto ha reso operativo un accordo firmato tra il Consiglio nazionale delle zone franche (Cnzf), rappresentante lo stato haitiano, e Nina Apaid, presidente della Stevia Sa, nell’ottobre 2019. L’operazione prevede l’esproprio di terre ai piccoli contadini e il loro impiego come braccianti (a salario minimo).

Nel decreto salta all’occhio la frase: «Considerando l’impegno delle autorità pubbliche di prendere tutte le misure necessarie per promuovere lo sviluppo socio economico del paese, in particolare attraverso la realizzazione di zone franche».

Il sottosuolo

Una risorsa non ancora sfruttata, ma presente nel paese, è quella mineraria. Secondo diverse prospezioni, fatte in Haiti e in Repubblica Dominicana (Rd), è presente una ricca vena che taglia l’isola di Hispaniola da Nord Ovest al centro, passando per Santiago (Rd). Sono stimate buone quantità di oro, argento e rame.

Alcune multinazionali che sfruttano già il sottosuolo in Rd, hanno fatto prospezioni ad Haiti, stanno firmando accordi di sfruttamento e stanno procedendo all’installazione di siti estrattivi (2). Naturalmente questo sta causando l’esproprio di terre ai piccoli contadini, i quali hanno dato vita al Komite jistis min (in creolo: Comitato giustizia miniere), per opporsi allo sfruttamento indiscriminato delle imprese minerarie internazionali. Attualmente si tratta di zone nel Nord Est del paese, come Grand Bois e Morne Bossa.

Photo by Richard PIERRIN / AFP

L’ultima frontiera

L’ultimo ambito dello sfruttamento del paese da parte di compagnie internazionali, in joint-venture con l’oligarchia locale, è quella del turismo di alta gamma. Ne avevamo parlato in MC (gen-feb 2014) quando ci eravamo chiesti perché parte dei soldi per la ricostruzione post terremoto 2010 erano stati impiegati per costruire grandi hotel di lusso. Oggi il processo continua: «Ci sono compagnie straniere in diverse zone di interesse turistico. Parlo delle isole Tortue (Nord), Gonave, e poi Mole St. Nicolas e di altre spiagge notevoli. Stanno facendo gli studi per impiantare dei resort. E per far questo manderanno via i contadini e assumeranno personale pagandolo con il salario minimo. Un’ulteriore proletarizzazione del produttore agricolo haitiano», rincara il nostro interlocutore.

«Il grosso problema in tutto questo, è che l’opposizione liberale, oltre ovviamente la destra al potere, non mettono in discussione questi mega progetti né il salario minimo». La mano d’opera a bassissimo costo, oltre che la svalutazione continua della moneta nazionale, è infatti il propulsore dello sfruttamento delle risorse naturali e umane di Haiti.

il primo ministro ad interim, Claude Joseph (a sinistra) si congratula con il primo ministro de facto, Ariel Henry (designato dal Core group), durante la commemorazione per il defunto presidente Jovenel Moise, al Pantheon di Port-au-Prince, il 20/07/21. (Photo by Valerie Baeriswyl / AFP)

Perché uccidere il presidente

Torniamo da dove siamo partiti. Perché il presidente Jovenel Moise è stato ucciso e perché con modalità tanto efferate?

Le analisi concordano su un regolamento di conti interno alla classe politica dominante, allo stesso partito Phtk di Michel Martelly e Jovenel Moise.

Un attivista haitiano nel settore dei diritti umani, da noi contattato, che ci ha chiesto pure lui l’anonimato, si esprime così: «Si tratta di un vasto complotto, ben pianificato, che vede coinvolta la mafia haitiana e quella internazionale, insieme a quella che chiamiamo borghesia conservatrice e classe politica tradizionale haitiana. Moise ha sfidato quelli che chiamiamo gli oligarchi, le grandi famiglie più ricche di Haiti, anche se per accedere al potere ha avuto il loro supporto. Ha tentato di sfidarli, riducendo il loro margine di manovra, togliendo certi privilegi, aumentando alcune imposte. Tutto ciò ha prodotto una reazione fino al complotto. Sono passati attraverso la stessa Guardia presidenziale, i cui membri sono stati pagati affinché consegnassero il presidente. Si tratta di un crimine internazionale, costato milioni di dollari, che ha mobilitato decine di persone e materiale militare sofisticato».

In effetti, pure il vilipendio del cadavere, e la sua esposizione sui social media, pare un messaggio chiaro, mandato a chi vuole fare politica ad Haiti: se ci sfidate, ecco cosa può succedervi.

Attualmente, l’inchiesta in corso è condotta dal giudice istrutture Garry Orélien, che ha sostituito ad agosto Mathieu Chanlatte, dimissionario. Una trentina di accusati sono agli arresti, tra i quali ex militari colombiani e tre haitiani-americani. Tra loro lo sconosciuto Christian Emmanuel Sanon, indicato come leader dell’attentato, colui che avrebbe voluto prendere il potere. Molto probabilmente l’uomo di paglia degli ideatori del complotto.

Avvisi a comparire davanti al giudice sono stati emanati ai miliardari uomini d’affari haitiani Réginald Boulos, Jean-Marie Vorbe e Dimitri Vorbe, e agli ex senatori Steven Benoit e Yuri Latortue, come riporta The Strategist, dell’Australian strategic policy institute, un think thank australiano di studi strategici(3).

L’arrestato più illustre è Samir Handal, fermato il 15 novembre scorso all’aeroporto di Istanbul.  Haitiano di origine palestinese (e residente a Miami), fermato grazie a un mandato d’arresto dell’Interpol, fa parte dell’oligarchia haitiana. Si stava recando in Giordania, provenendo da Miami. Dovrà essere estradato ad Haiti.

Il giudice Orélien ha ricevuto numerose intimidazioni: il suo ufficio è stato forzato da ladri nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, la sua auto presa a fucilate lo stesso giorno, e uomini armati hanno cercato di fare irruzione, sempre nel suo studio, a inizio novembre.

Chi governa adesso?

Hillary Clinton (all’epoca segretario di stato Usa) inaugura il parco industriale Caracol, a Nord, il 22 ottobre 2012. Zona franca per la manifattura tessile, fortemente voluta da lei e dal marito, l’ex presidente Bill Clinton. (Photo by LARRY DOWNING / POOL / AFP)

Intanto la dinamica politica vede opporsi il governo de facto di Ariel Henry (che è stato ancora rimaneggiato il 24 novembre scorso, con il cambio di 8 ministri su 18) appoggiato da Core group e Binuh, e l’opposizione democratica, firmatari del cosiddetto accordo del 30 agosto, che chiede un processo di transizione differente. Si cerca una «riconciliazione nazionale» sul piano politico.

Gli obiettivi del nuovo governo de facto, dice Henry il 25 novembre, sono ristabilire la sicurezza, la riforma costituzionale e portare il paese alle elezioni a tutti i livelli. Il problema immediato è un deficit di bilancio statale. Un budget di circa 254 miliardi di gourde (2,5 miliardi di dollari), ma le casse dello stato ne avrebbero solo 96, di cui 30 già impegnati per sovvenzionare il carburante.

Come se non bastasse, un forte terremoto ha colpito il Sud Ovest del paese il 14 agosto, causando 2.246 morti e 329 dispersi e perdite economiche stimate di 1,6 miliardi di dollari. I bisogni recensiti per la ricostruzione sono di 1,97 miliardi.

Ma occorre ricordare che, dalle casse dello stato, mancano circa 3 miliardi di dollari, «evaporati» con lo scandalo PetroCaribe.

Marco Bello
(fine prima puntata/ continua)


Note
1 • Haiti-agriculture: new agro-industrial export free zone, Haiti Libre, 12/02/2021.
2 • Ruée vers l’or en Haiti, Enquet’action, 10/06/2020.
3 • Who benefits from insecurity in Haiti?, The Strategist, 14/07/2021.




Haiti. Esecuzione del presidente avvolta dal mistero

aggiornamento dell’8 luglio 2021


La notte tra il 6 e il 7 luglio, verso le 7 in Italia, un commando ben equipaggiato si è introdotto nella residenza del presidente Jovenel Moise, uccidendolo e ferendo la moglie (poi ricoverata a Miami). Il primo ministro ad interim Claude Joseph (doveva essere sostituito proprio il 7 luglio da Ariel Henry, nominato da Moise due giorni prima), assume di fatto il controllo, dichiara lo stato di assedio, che concede al governo poteri straordinari, chiede la calma e afferma che polizia ed esercito (Moise aveva rifondato un nucleo di esercito, istituzione soppressa da J.B. Aristide nel1995) manterranno la sicurezza.

Moise, in carica dal febbraio 2017, governava per decreto da gennaio 2020 dopo aver fatto scadere il parlamento e non aver indetto nuove elezioni. Stava inoltre per modificare la Costituzione in modo unilaterale e illegale. Il suo disegno era una modifica delle istituzioni democratiche del paese senza precedenti. La sua deriva autoritaria era contestata da opposizione politica e ampi settori della società civile.

L’esecuzione – perché di questo si tratta – resta avvolta nel mistero. Come è possibile che un commando (di mercenari stranieri dice Joseph) assalti la residenza del presidente, eludendo la sicurezza, e non risultino scontri, morti e feriti? Perché ci si affretta subito a dire che si tratta di mercenari stranieri, che parlano inglese e spagnolo? Il capo della polizia dice, in serata, che gli agenti ne hanno uccisi quattro e arrestati due. Come mai le gang, che controllano il territorio in capitale e nelle maggiori città del paese, rimangono tranquille?

Secondo noi, chi ha voluto la morte del presidente è da cercare nel paese.

Intanto, Ariel Henry prende la parola per dire che il primo ministro sarebbe lui, e quindi occorre trovare un accordo.

Nazioni Unite, Usa e Ue chiedono che si svolgano le elezioni generali previste il 26 settembre prossimo (Moise aveva da poco firmato il decreto per indirle). Scadenza che pare irrealistica per un paese senza guida, e in mano alle gang criminali.

Marco Bello




Haiti: rapiti sette religiosi e tre famigliari in un colpo solo


Sulla situazione sociale esplosiva ad Haiti abbiamo parlato nel numero di marzo di MC. Così come del problema del dilagare del rapimento, come diffuso strumento di generazione di reddito.

Il numero di rapimenti ha subito un brusco aumento nel primo trimestre di quest’anno: sono stati censiti 142 casi tra gennaio e marzo, circa tre volte quelli del primo trimestre 2020 (51).

Il fine settimana scorso (10-11 aprile) si è verificato un record in questo senso, perché 12 sono state le persone rapite di cui sette membri della chiesa haitiana.

Domenica 11 nella zona di Croix-des-Bouquet, comune alla periferia Nord-Est della capitale Port-au-Prince, aveva luogo la cerimonia di insediamento del nuovo parroco, padre Arnel Joseph, a Ganthier.

Ma alcuni degli invitati alla celebrazione non sono mai arrivati. Si tratta di due religiose, suor Anne Marie Dorcélus e suor Agnès Bordeau (francese) e cinque religiosi, di cui i padri Evens Joseph, Michel Briand (francese), Jean Nicaisse Milien e Joel Thomas della Società dei preti di Saint Jaques, e padre Hugues Baptiste, dell’arcidiocesi di Cap-Haitien. Come anche tre membri della famiglia del padre Joseph. Sono stati tutti portati via da un gruppo di banditi armati.

È il più grosso rapimento di gruppo di religiosi finora registrato. La Conferenza haitiana dei religiosi (Chr) ha protestato per l’inefficienza del governo nel combattere al piaga dei rapimenti.

Poche ore prima, nella notte tra sabato e domenica, era stato rapito il Gran maestro della loggia massonica Grande Oriente di Haiti, l’avvocato Yves Benoit Jean-Marie.

Il medico Trevant Valembrun, noto e attivo in diversi ospedali della capitale era invece stato rapito sabato 10.

I riscatti chiesti sono sovente di alcuni milioni di dollari, che poi sono negoziati al ribasso. Viste alcune liberazioni recenti, è chiaro che i soldi sono pagati. Il gioco, insomma, funziona.

Il primo ministro Joseph Jouthe durante una conferenza stampa martedì 13 aprile ha dichiarato di aver preso disposizioni contro questi atti di criminalità. Jouthe ha sostenuto in passato di aver smantellato la gang (gruppo criminale) chiamato «400 mwenzo», che controlla Croix-des-Boquets, ed è la probabile responsabile dei rapimenti di domenica.

La polizia resta incapace di combattere le bande che imperversano nel paese, che le autorità stimano essere circa 175.

Si ricorda che il presidente Jovenel Moise, il cui mandato è scaduto il 7 febbraio scorso, è rimasto in carica, pretendendo, grazie a un cavillo costituzionale, che la sua scadenza sia lo stesso giorno del 2022. Moise ha l’appoggio dei principali partner internazionali di Haiti, quali Nazioni Unite, Usa, Unione europea. Il suo governo, de facto, sta organizzando una modifica della Costituzione haitiana, che porterebbe allo smantellamento di molti diritti acquisiti dalla fuga di Jean-Claude Duvalier (febbraio 1986) ad oggi. Il sistema della gang è in realtà un meccanismo funzionale a questa operazione, che si può leggere anche come un golpe istituzionale.

Marco Bello

© Valerie Baeriswyl / AFP




Armi, Gang e un uomo al comando

testo di Marco Bello |


La deriva autoritaria dell’élite al potere. L’impunità a livelli mai visti. I banditi che controllano la popolazione. Mentre imperversa l’«economica del rapimento». La diaspora guarda con grande preoccupazione il 2021: l’anno di tutte le sfide.

È il 28 agosto 2020, a Port-au-Prince l’avvocato Monferrier Dorval viene freddato con un proiettile. Dorval era il presidente dell’Ordine degli avvocati della capitale, e stava lottando per migliorare la situazione nel suo paese. L’assassinio suscita indignazione in molti settori della società haitiana.

Quattro mesi dopo, il 28 dicembre, in un assalto è ferito gravemente il giornalista Vario Sérant, e ucciso l’ingegnere Obelson Mésidor, che è in auto con lui. Collaboratore della Nazioni unite e insegnate all’Università di stato di Haiti, Sérant viene salvato per il rotto della cuffia.

Due eventi non isolati, segnali di una situazione sociale ormai al limite del collasso nel paese caraibico.

Ma cerchiamo di capire cosa sta succedendo.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Uomo solo al comando

Il 7 febbraio 2017, dopo un’elezione contestata (svoltasi tra fine 2015 e gennaio 2016) e un anno di transizione (con presidente ad interim il presidente del senato Joselerme Privert), è diventato capo di stato Jovenel Moise. Grande imprenditore agricolo, anche noto come «Neg banan» (l’uomo delle banane, in creolo), Moise rappresenta una ristretta classe di neo arricchiti grazie a traffici e commerci più o meno leciti. Una classe legata alla destra storica duvalierista, di cui fa parte anche il cantante Joseph Martelly, che lo ha preceduto alla presidenza (2011-2016) (si veda MC aprile 2017).

Come già Martelly, anche Moise ha evitato accuratamente di realizzare elezioni, facendo scadere gli eletti locali prima, e poi, a inizio 2020, la camera dei deputati e due terzi del senato. Da allora, non essendoci più il parlamento (ad eccezione di un terzo del senato, dieci senatori), il presidente, governa per decreto, forzando la Costituzione e facendo diventare Haiti una «quasi» dittatura presidenziale.

Mentre Martelly non era riuscito a creare consenso per un Consiglio elettorale provvisorio (Cep), e, quindi, a costituire questo organo fondamentale, Moise ha avuto a disposizione un Cep riconosciuto e funzionante, durante gran parte del suo mandato. Nonostante questo, non ha realizzato le elezioni, fino alle dimissioni del Cep, nell’agosto 2019, a causa della constatazione, da parte dello stesso, che non c’erano le condizioni per realizzare la consultazione elettorale.

«Moise vuole cambiare la struttura istituzionale del paese, ma vuole farlo tutto da solo», ci confida il giornalista Gotson Pierre. «Non ha mai smesso di criticare il fatto che c’è una condivisione di potere (dettata dalla Costituzione, ndr). Lui è per un potere presidenziale, mettendo il presidente della Repubblica a capo supremo della nazione. Come è stato durante la dittature dei Duvalier».

E continua: «Vuole liberarsi istituzionalmente, per governare liberamente. Per questo motivo dice: da quando non c’è più il parlamento, facciamo molte cose. L’organo legislativo è un ostacolo per lui».

Così dal gennaio dello scorso anno, scadute le due camere, Moise ha firmato molti decreti, alcuni dei quali piuttosto discutibili e, soprattutto, senza il controllo di nessuna altra istituzione. Di fatto sta legiferando in modo diretto, e molti sono decreti che modificano le istituzioni repubblicane. «Ha fatto oltre quaranta decreti nei vari settori, per esempio nell’ambito dell’organizzazione degli ordini professionali, del codice penale, e di altri organi indipendenti, come la corte superiore dei conti».

Alcuni decreti mettono a rischio la libertà e i diritti fondamentali, come quello che istituisce l’Agenzia nazionale d’intelligence (Ani), molto criticato da opposizione e società civile. Questa struttura, infatti, ricorda tanto la milizia dei famigerati Tonton Macoute: «Sarà un’agenzia dei servizi segreti, i cui membri possono essere armati, e andare a casa delle persone senza mandato. Renderanno conto solo al presidente, il che assomiglia molto ai Macoute del passato. Anche i diplomatici stranieri hanno detto a Moise che è un decreto pericoloso». Da notare che gli ambasciatori delle diverse cancellerie, in generale mantengono una posizione defilata, omettendo di ostacolare la deriva autoritaria del presidente. Chi ci parla ricorda bene i Duvalier e la loro milizia: padre Jean-Yves Urfié, missionario francese della congregazione dello Spirito Santo, ha iniziato a lavorare ad Haiti nel 1964. Da Duvalier è stato pure espulso nel ‘69, per poi tornare nel paese.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Ritorno al passato?

Il disegno di Moise è chiaro. Con un decreto del 7 gennaio, il presidente rende pubblico il suo calendario elettorale. Vuole realizzare un referendum costituzionale il 25 aprile di quest’anno e poi elezioni presidenziali, legislative e locali, tra il 19 settembre e il 21 novembre. Per arrivare il 22 gennaio 2022 alla proclamazione ufficiale dei risultati, e procedere all’insediamento del presidente della repubblica il 7 febbraio, data simbolo della caduta di Jean-Claude Duvalier (7 febbraio 1986).

Le questioni sul tavolo sono diverse e complesse. Primo: il mandato dell’attuale presidente scade il 7 febbraio 2021 e non 2022 (su questo punto c’è un’ambiguità nella Costituzione). Secondo: il Consiglio elettorale provvisorio si è dimesso e Moise ha creato il proprio Cep (nell’ottobre scorso) che non risponde alla normale procedura, non ha un consenso tra le istituzioni ed è dunque illegale, non avendo neppure prestato giuramento di fronte alla Corte di cassazione. Terzo: la Costituzione, per essere riformata, prevede un iter complesso di modifica, con diversi passaggi in parlamento, a cavallo tra due legislature. Moise invece ha creato un comitato di redazione, «composto da amici suoi», sottolinea padre Jean-Yves, ai suoi ordini, incaricato di redigere un progetto di Costituzione. Questo sarà votato dal popolo al referendum e diventerebbe dunque valido, nei programmi del presidente, entro maggio. Anche questo procedimento è illegale. Come è possibile tutto ciò? Una spiegazione ce la può dare Jaques Stephen Alexis, grande scrittore, medico e uomo politico haitiano (1922-1961), quando diceva che Haiti è il paese del «Réalisme Merveilleux» (realismo meraviglioso).

Gotson Pierre tenta di spiegarci. «Con il referendum costituzionale, Moise vuole modificare la Costituzione, ma violando la Costituzione attuale. È la prima volta dal 1987, quando è stata promulgata, che chi detiene il potere osa metterla di lato. Ci sono stati i colpi di stato, ma la Costituzione è stata sempre menzionata, e si parlava di ritorno all’ordine democratico. Ma con Moise, siamo fuori dalla Costituzione, e lui agisce senza avvertire, senza un discorso: dice “creiamo un comitato per fare una nuova costituzione”, e questo senza contattare nessuno. È pura arbitrarietà».

Inoltre, si conoscono già le grandi linee della nuova carta fondamentale: «Si ha l’impressione che questa Costituzione l’abbia già pensata: massimi poteri al presidente, soppressione del primo ministro, il parlamento diventa unicamerale, eliminando il senato. Siamo in una grande riforma istituzionale, portata avanti in maniera informale, e tutto è fatto dall’esecutivo da solo».

Il rischio per lo stato è dunque elevato, continua il giornalista: «Il referendum consacrerà l’insieme dei decreti che sono già stati pubblicati sui diversi settori della vita pubblica. Cancellerà tutte le acquisizioni democratiche del 1986 in materia istituzionale. Da circa un anno siamo in questo processo».

Qualcuno non è d’accordo

L’opposizione politica e gli altri settori della società haitiana cosa dicono? «Il movimento popolare era più forte nel 2019, aveva bloccato il paese durante diverse settimane», ricorda padre Urfié, riferendosi al cosiddetto «paylock», ovvero il blocco totale del paese nell’autunno di quell’anno, causato da diversi settori della società che protestavano contro la corruzione del presidente e il suo entourage nell’affare Petrocaribe: aiuti venezuelani ad Haiti dirottati nei forzieri di pochi.

Però l’opposizione politica è variegata e divisa, ci ricorda il missionario, che negli anni ‘90 era stato un promotore dei movimenti sociali e della democrazia nel paese, attraverso le comunità di base, rischiando varie volte la vita: «Nell’opposizione ci sono anche personaggi simili a Moise. Quindi, il popolo non ha fiducia in molti dei suoi dirigenti. Inoltre questi non riescono a mettersi d’accordo. Per essere efficace, occorre che il movimento sia generalizzato, invece ci sono gruppi gli uni contro gli altri. Troviamo quelli che sono più radicali e altri meno, quelli favorevoli al dialogo e altri no. Tra i radicali c’è gente come Yuri Latortue, che faceva parte degli squadroni della morte durante il colpo di stato (si riferisce al putsch di Raoul Cédras, 1991-1994, che lui ha vissuto in prima persona, ndr). È qualcuno che è diventato molto ricco grazie a traffici strani».

Gotson Pierre approfondisce: «C’è rivalità fra i leader, ma forse c’è anche un problema di rappresentazione, che rende le cose difficili. Che messaggio comunicano? Stanno iniziando a cambiare, parlano di transizione, perché, secondo loro, Moise deve rispettare la Costituzione. È una richiesta legittima, anche agli occhi della comunità internazionale, la quale sostiene globalmente Moise, anche se c’è stata qualche dichiarazione contro il governare per decreto».

«Ora fanno incontri, anche se è un po’ tardi. Il processo d’intesa a livello dell’opposizione non è facile, per molteplici ragioni. Tendenze, differenze nel panorama politico haitiano, molti ostacoli.

C’è una ricerca di concertazione, quello che si constata è che non arrivano, per il momento, a invertire il rapporto di forza con il presidente. Occorre mobilitare veramente la gente e smuovere le cose».

Il presidente Jovenel Moise © Valerie Baeriswyl / AFP

Vuoto istituzionale

A inizio gennaio, si è riunito quel che resta del parlamento, ovvero dieci senatori (un terzo del senato, che ad Haiti è rinnovato ogni due anni in modo parziale). Questi reduci hanno eletto il presidente del senato, nella figura di Joseph Lambert, che diventa, oltre a Moise, la sola carica istituzionale di vertice attualmente eletta ad Haiti. Politico di lungo corso, è in parlamento dal 1990, e aveva l’ambizione di fare il primo ministro con Moise.

«Il presidente si è fatto il vuoto istituzionale intorno, gli unici eletti sono i dieci senatori. Come la transizione del dopo Martelly è stata guidata dal presidente del senato dell’epoca, così Lambert sarebbe forse l’unico titolato a sostituire Moise dopo il 7 febbraio. Sembra che abbia avuto contatti con l’ambasciata Usa. Potrebbe essere contro Moise oppure suo alleato», analizza il giornalista.

Lambert è un altro personaggio ambiguo, già consigliere di Michel Martelly, una nostra fonte ci dice che è classificato dalla Dea statunitense come responsabile di traffico di stupefacenti.

Diversi gruppi della società civile e dell’opposizione politica hanno iniziato la mobilitazione delle piazze dal 15 gennaio, per opporsi alla permanenza di Moise dopo il 7 febbraio e per una transizione. La repressione da parte dei corpi speciali di intervento rapido (Cimo) e della polizia, è stata violenta, con l’uso di lacrimogeni, proiettili di gomma ma anche armi reali.

La Rete nazionale per la difesa dei diritti umani, Rnddh, il 22 gennaio ha scritto in un comunicato che: «I recenti avvenimenti […] costituiscono una violazione flagrante delle libertà di espressione, circolazione e libertà individuali del popolo haitiano». Dice inoltre: «[La Rnddh] giudica inquietante che questi casi di violazioni si siano intensificati all’indomani delle dichiarazioni minacciose del presidente Jovenel Moise, il 19 gennaio […], e che la sua Agenzia nazionale d’intelligence, già attiva, gli permetta di raccogliere informazioni relative ai cittadini che partecipano o finanziano i movimenti antigovernativi. Perché, ha affermato, quello che era possibile negli anni scorsi, non lo sarà più nel 2021».

Nelle mani delle Gang

Gotson Pierre ci ricorda che per invertire il rapporto di forza occorre una mobilitazione generale. Ma anche che oggi, ad Haiti, c’è una problematica sociale molto forte: «Se queste mobilitazioni riescono, allora è un segnale molto buono. Ma le difficoltà sono tante, perché praticamente tutti i quartieri sono controllati dalle gang. In certi casi la gente non può uscire di casa, c’è il rischio che non possano andare a manifestare».

In molti quartieri la popolazione è in ostaggio, le gang (termine creolo di origine inglese, che indica bande armate di malviventi), sovente hanno in mano la situazione, malgrado le operazioni di polizia. Gang che intessono legami con i politici, e le più importanti sono vicine, o fanno accordi, con chi detiene il potere.

«È un fenomeno che si è già visto nel passato, ma adesso, non solo è più forte, hanno più gente, più armi, ma si è generalizzato. In tutti i quartieri troviamo delle cellule di gang. In alcuni sono molto più sviluppate che in altri, ma non si può dire che ci sia un luogo esente. E le troviamo anche in altre città, oltre che in capitale. In certi quartieri non c’è un’aggressione evidente: le gang ci sono e fanno i loro affari. Ma in altri, è una vera e propria guerra. Ad esempio, Bel Aire (quartiere centrale di Port-au-Prince, ndr): non si può passare adesso, trovi strade sbarrate, vie vuote, tutto è chiuso».

© Valerie Baeriswyl / AFP

L’economia del rapimento

Un altro fenomeno, legato alle gang, che si sta diffondendo sempre più, è quello dei rapimenti a scopo di estorsione, chiamati qui kidnapping. «È il banditismo. Penso che sia un fenomeno che si nutre dell’impunità, il traffico di armi e di droga. Quando la situazione è questa, chi è senza scrupoli riesce a fare di tutto. Inoltre, tutto questo funziona bene quando si ha il banditismo di stato», racconta Gotson Pierre.

«Attraverso i rapimenti fanno molti soldi, e non parlo dei ricavi dei piccoli rapitori, o dei soldà come li chiamano qui. Si tratta di centinaia di migliaia di dollari, talvolta milioni, tutto in cash, che passano di mano e sono gestiti ai livelli alti delle gang. È una vera e propria industria remunerativa, e tutti questi contanti devono sicuramente andare da qualche parte e servire a qualcosa». Qualcuno fa l’ipotesi che questo denaro servirà a finanziare le prossime elezioni.

Occorre purtroppo osservare, che «quando il kidnapping funziona, tutto funziona». Molti soldi girano, molte persone lavorano, è come se ci fosse un’«economia del kidnapping».

Iliana Joseph, presidente di Haititalia, associazione culturale della diaspora haitiana in Italia, mette l’accento su alcuni aspetti: «Hanno inventato rapimenti che non eravamo abituati a vedere: hanno capito che con questo sistema si fanno tanti soldi, allora la cosa si è diffusa, anche grazie alla televisione. Non erano mai arrivati a rapire bambini o famigliari di persone del popolo». E parla delle paure di chi vive lontano: «Se qualcuno sa che un vicino di casa ha un parente all’estero, questo può essere preso di mira. Chiedono dei riscatti molto elevati che spesso non si possono pagare. Se non si paga, i rapiti vengono ammazzati. Neanche le generazioni più anziane di noi avevano mai visto una situazione così nel paese. Io non ho mai avuto paura di prendere un aereo e andare al mio paese, in 25 anni che vivo in Italia. Oggi ci penso bene. Tutto questo è molto grave».

Il Covid ha colpito poco Haiti in modo diretto. Durante la prima ondata è stato abbozzato un lockdown. Ora non più, e i casi stanno aumentando. Ma un effetto importante è stato indiretto.

Ancora Iliana Joseph: «Chi vive all’estero sostiene la sua famiglia con le rimesse, che sono un’entrata rilevante nel bilancio di Haiti. La pandemia, e il conseguente lockdown, ha fatto perdere il lavoro a una gran parte della diaspora nel mondo, con il conseguente crollo degli invii in valuta pregiata. Questo ha aumentato la povertà in maniera diffusa e contribuito a far degenerare la situazione sociale nel paese».

Marco Bello


Nota

Mentre stiamo chiudendo la rivista, gli eventi ad Haiti sono in rapida evoluzione. Torneremo sulla situazione quando si sarà stabilizzata.


Archivio MC

• Marco Bello, «La cultura ci salverà», MC 04/2017.
• Marco Bello, A due passi dalla Tortuga, MC 07/2016.
• Marco Bello, dossier: La cultura è rivoluzione, MC 05/2016.
• Marco Bello, Il presidente a vita è morto, MC 12/2014




P come pace

testo di Gigi Anataloni, direttore di MC |


Ci sono 8.113 vocaboli che cominciano con la lettera «p» nel dizionario italiano. È un mondo di parole ricche di possibilità. Alcune sono indispensabili e parlano al cuore. La prima è Pace. Cominciamo ogni anno con la giornata per la pace (**). Una giornata che è preghiera, sospiro, speranza, ringraziamento e anche protesta. Preghiera, perché la vera pace si ottiene solo da Dio. Ringraziamento, perché la pace è un dono. Sospiro e speranza, perché richiede grande impegno, pazienza e perseveranza. Protesta, perché non si può stare zitti e passivi di fronte a chi, invece della pace, fomenta a tutti i costi la guerra. Guerre e conflitti insanguinano oltre 50 nazioni del mondo, soprattutto in Asia e in Africa, ma non solo. Intanto impinguano le casse dei potenti che, non contenti di produrre armi tradizionali, inventano e sfornano ordigni sempre più sofisticati e distruttivi in un’assurda corsa alla morte. Quante volte si può distruggere un pianeta? Di fronte a questa realtà occorre tirare fuori la parresia cristiana, una parola ben presente nel Nuovo Testamento per indicare il coraggio, l’audacia, la franchezza e la libertà di spirito del cristiano nel testimoniare e vivere la sua fede in colui che è la Parola di Vita e la vera pace del mondo.

La Parresia non manca certo a papa Francesco (***), il quale, tornando dal Giappone dopo la visita a Hiroshima e Nagasaki, ha detto parole chiare. «L’uso delle armi nucleari è immorale, […] e non solo l’uso, anche il possesso, perché un incidente o la pazzia di qualche governante, la pazzia di uno può distruggere l’umanità». Non so se avesse in mente qualcuno in particolare, ma a prescindere dal possesso o meno della bomba atomica, contiamo purtroppo un buon numero di governanti o capi popolo convinti che si ottiene di più con il potere autoritario e intimidatorio, con la guerra e il terrore che con il rispetto delle persone, l’impegno a eradicare povertà e ignoranza, a difendere i deboli, a custodire l’ambiente e a promuovere dialogo e giustizia. Altro che politica come servizio al bene comune e alle persone.

Persona, ecco un’altra parola importante che inizia con la «p». Avere la persona al centro e non il denaro, il potere, il prestigio. Persona e pace vanno insieme. Dove le persone sono calpestate, sfruttate, trafficate, discriminate, umiliate e mantenute nell’ignoranza, non ci può essere pace. Quando ci sono alcuni che si ritengono i «primi» sopra gli altri, non ci può essere giustizia. Quando si distruggono i ponti, si chiudono i porti e sbarrano le porte, non ci può essere pace. Ponti, porti e porte – realtà che implicano sempre due direzioni, una di entrata e una di uscita – sono comunicazione, apertura, incontro, accoglienza, tutti elementi indispensabili per costruire la pace.

Certo l’avventura della pace non è facile richiede poi un ultimo elemento essenziale: il Perdono, un’ultima parola iniziante con la «p» che non può essere dimenticata. Lasciarci perdonare e donare perdono è impegnativo perché cambia il nostro modo di relazionarci con noi stessi e con gli altri. Ci rende più umani o, forse, più divini, perché perdonare è amare e amare è «agire da Dio», essere «perfetti» come Lui, il Padre di tutti, perfetto e misericordioso.
Auguri e benedizioni per un 2020 di pace.

** Messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale della pace 2020

*** Vedi anche le «3P» di papa Francesco

P.S. Vedi l’editoriale (quasi simile) del novembre 2016 «Le tre P: pace, perdono, pazienza»


Haiti, 10 anni dal sisma

Il 12 gennaio 2010, alle 16,53, una potente scossa di terremoto devastò Port-au-Prince, la capitale di Haiti, e le città vicine. Le vittime non sono mai state contate, ma l’ordine di grandezza è 300mila. Fu una tragedia immane. Un punto di non ritorno per uno dei paesi più poveri del mondo.

Sembrava fosse arrivato il momento di rottura per far cambiare la sorte del paese, una specie di azzeramento, per ripartire su basi diverse.

Non fu così. Qualcuno, i soliti noti, ci mise lo zampino, bloccando ogni iniziativa di rinascita promossa dalla società civile.

Questo mese ricorrono i 10 anni da quell’evento. Ironia della sorte, oggi il paese sta attraversando la crisi socio-politica ed economica più grave degli ultimi tre lustri.

All’epoca MC pubblicò l’editoriale dal titolo «Alzati e cammina!», il cui incipit era: «Non esiste un altro posto così al mondo». Nel 2020 non ci siamo dimenticati di Haiti.

Torneremo presto a parlarvi di quel popolo straordinario, di chi ne ha impedito lo sviluppo, e della crisi attuale.

Intanto, il nostro ricordo va alle vittime, e ai loro cari.

Marco Bello




Haiti: «La cultura ci salverà»


Haitiano di origine italiana. Noto per il suo impegno sociale e politico. Da subito si è schierato contro la dittatura di Duvalier e per il rispetto dei diritti umani. Con i suoi lavori ha denunciato soprusi e violazioni. Al suo attivo ha oltre 50 film, tra documentari e fiction. Ci regala la sua visione del rapporto cultura-popolazione nel paese caraibico.

Port-au-Prince. Arnold Antonin, al secolo Celesti Corbanese, è il più famoso cineasta e produttore haitiano, soprattutto per quanto riguarda i documentari. Si contende il primo posto solo con Raoul Peck, altro grande regista, che ha realizzato in prevalenza fiction e il cui recente «I am not your negro» è stato candidato agli Oscar quest’anno come miglior documentario.

Classe 1942, Antonin è di origine italiana ed è molto conosciuto per il suo impegno sociale, politico e culturale. In esilio in Venezuela dal 1973, durante gli anni del duvalierismo (1957-1986) è in prima linea in quel settore della società civile haitiana, costituito dagli intellettuali, che ha lottato contro la dittatura in patria e all’estero. La cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, vede nei mesi successivi il ritorno in patria della maggior parte di loro.

Così è anche per Arnold Antonin, che ha fondato in Venezuela il Centro Pétion-Bolívar, dai nomi di Alexandre Pétion, uno dei padri della nazione haitiana, e Simón Bolívar, il maggiore rivoluzionario e promotore dell’indipendenza dei paesi latinoamericani. Già nel dicembre dell’86 Antonin torna nella sua città natale, Port-au-Prince, e vi trasferisce il Centro culturale. «Si tratta di un centro polivalente di pubblica utilità», ci spiega. Antonin, sempre sorridente e ironico, ci riceve nella nuova sede del Centro. Ci conduce in una sala alle cui pareti sono appesi decine dei suoi premi e riconoscimenti. Oltre che locandine dei film. I più importanti sono il premio Djibril Diop Mambety, ricevuto a Cannes nel 2002 per il documentario Courage de femmes e il premio Paul Robeson, vinto in tre edizioni del Fespaco (Festival del cinema panafricano a Ouagadougou), 2007, 2009 e 2011. Il suo primo film, Duvalier accusé, risale al 1974, mentre tra le sue opere più note ci sono Les amours d’un zombie, e Le président a-t-il le sida?. Antonin, inoltre, insegna alla Facoltà di Scienze umane dell’Università e alla Scuola nazionale d’arte.

«Il Centro si è occupato molto di diritti umani negli anni ‘86-‘87, poi di formazione, anche sindacale, di organizzazioni di giovani e di donne. Il Centro ha fatto formazione politica ai parlamentari, ai sindaci alle autorità locali». Antonin continua a raccontarci del Centro e si percepisce quanto vi si identifichi: «Ci siamo interessati alla produzione audiovisiva in genere, e di materiale educativo, ma da qualche tempo il Pétion-Bolívar è soprattutto un centro di produzione dei miei film».

Il Centro diffonde la cultura e crea dibattito. Ogni mese viene organizzato il forum del giovedì, ovvero un incontro su un tema di interesse nazionale. «È un’attività che facciamo da 28 anni. L’anno scorso gli incontri si sono concentrati su soggetti politici, tranne l’ultimo che è stato sui cambiamenti climatici, e qui abbiamo presentato i risultati della Conferenza sul clima di Parigi».

Il Centro era anche sede dell’Associazione haitiana dei cineasti che, fino a pochi anni fa, realizzava formazioni periodiche e regolari nel campo della cinematografia. «Attualmente abbiamo un cinelcub, frequentato da giovani tra i 20 e i 25 anni, che hanno accesso a film che altrimenti non avrebbero la possibilità di vedere».

L’occasione mancata

Dopo il terribile terremoto del 12 gennaio 2010, Antonin realizza un documentario di 20 minuti, crudo e di denuncia: Chronique d’une catastrophe annoncée ou Haïti: apocalypse now.

«Il terremoto è stato catastrofico con proporzioni inimmaginabili, a causa dello stato di precarietà nel quale viveva la popolazione. Ci sono stati terremoti della stessa intensità che hanno causato centinaia di morti, mentre ad Haiti sono stati centinaia di migliaia», riprende Antonin. «Noi speravamo che il sisma avrebbe segnato una svolta nella storia del paese, cioè che a partire da quell’evento avremmo potuto ricostruire Haiti su nuove basi. Innanzitutto ambientali, economiche, sociali e anche politiche. Io dicevo che grazie al terremoto avremmo potuto fare di Port-au-Prince la “città faro” dei Caraibi. Tutti i grandi architetti del mondo erano disposti a fare dei progetti gratuitamente per Haiti. Anche Renzo Piano lo avrebbe fatto. Ma chi era al potere non ha voluto, perché la catastrofe è stata anche un gigantesco mercato. Il sisma, come anche il caos politico e la povertà di massa, è stato un’occasione per diverse persone di guadagnare molti soldi. Per altri di farsi una specie di credito politico. Così non è stata fatta la ricostruzione. La sola cosa che il potere di Michel Martelly (presidente dal 2011 al 2016, ndr) è riuscito a fare è ripulire gli spazi pubblici e i parchi di Port-au-Prince dai terremotati. Ma hanno creato nuove bidonville all’uscita della città, che sono peggiori di quelle precedenti».

Poco è stato fatto, denuncia il regista, qualcosa nel centro amministrativo e poi l’aeroporto che oggi è moderno. «Quello che chiedevamo noi era un nuovo piano di gestione del territorio, in modo che si potesse sapere, in un piccolo paese come il nostro con 10 milioni di abitanti, come fare una suddivisione in zone di diverse tipologie: abitazioni, industrie, agricoltura».

«Port-au-Prince è diventata una città nella quale si trovano baraccopoli ovunque. A causa dell’esodo rurale per la mancanza di lavoro, la maggior parte degli abitanti sono dei sotto proletari, quelli che possiamo chiamare Lumpenproletariat (in tedesco “proletariato straccione”, termine creato da Karl Marx, per indicare il ceto infimo delle grandi città, formato di elementi economicamente e socialmente instabili, ndr), per cui possiamo parlare di “lumpenizzazione” della società haitiana. Si tratta di individui che sono molto facili da manipolare, non hanno delle vere radici, non sanno dove sono e sono affamati, alla mercé di chiunque, in primis dei politici e criminali».

La cultura che salva

Haiti è il paese più povero delle Americhe e uno dei più destrutturati del Mondo. Gli esperti lo classificano come «stato fallito». Chiediamo al regista e attivista politico se la cultura potrà salvare Haiti. «Sì, in un certo senso la cultura può salvare Haiti. Perché la cultura salva tutti i paesi che sono in pericolo. Se non c’è nella testa della gente, nel loro modo di fare, nella loro cultura in generale, una volontà di salvare o cambiare il paese, allora non è possibile. Solo la cultura può cambiare un paese in grande difficoltà come il nostro. Ma non deve essere una cultura che confonde il sogno con la realtà. Ad Haiti troppo spesso domina il pensiero magico, un sistema per cui agli uomini al potere basta dire una cosa e le parole si trasformano in realtà. Occorre pensare a delle azioni concrete sulla realtà socio politica se si vuole salvare questo paese. Ma alla base ci sono questioni politiche e culturali. Ovvero se c’è la volontà politica, allora occorre che la cultura giochi il suo ruolo.

Qui la cultura è molto forte. In generale questi paesi sono complicati e difficili. Un uomo politico statunitense diceva: “Haiti è il paese che abbiamo occupato più a lungo – ci sono stati 19 anni di occupazione statunitense dell’isola – ma è l’unico nei Caraibi dove non si gioca a baseball”. È vero, è uno sport che non ci ha mai penetrati. Allo stesso modo c’è una forma di democrazia e di sviluppo che non riescono a imporsi ad Haiti.

Tutto lo sviluppo deve partire da una realtà culturale del paese. Non bisogna credere che per un paese differente occorra una democrazia al ribasso, elezioni fasulle o truccate. Gli haitiani hanno dimostrato che non lo accettano».

E lo stato come si pone nei confronti di questa ricchezza culturale?

«Ad Haiti diciamo che questo è il paese della cultura, però non esiste alcun aiuto dello stato alla cultura. Un paese di 10 milioni di abitanti in cui non c’è una sala per spettacoli, non un cinema, c’è un solo quotidiano. E non c’è un museo degno di questo nome. Lo stato appoggia solo il carnevale che è il grande evento culturale di Haiti. Ma anche questo è un carnevale povero, del sotto proletariato».

«Io ho realizzato diversi film su artisti haitiani, sia pittori e scultori che scrittori. Devo riconoscere che esiste una situazione generale, nel tropico, per la quale le crisi (politico sociali, ndr) generano una grande perdita di energia. E ogni crisi ne innesca un’altra che crea una maggiore perdita di energia. In questa dissipazione, dovuta in gran parte alla follia distruttrice di uomini avidi di potere e soldi, ovvero quelli che sono sempre stati i dirigenti di questo paese, troviamo l’energia creatrice di una parte della popolazione. Ed è questo che mi interessa e che studio.

Nel mezzo di questa situazione incredibile, ci sono persone che senza alcun aiuto scrivono, e fanno della buona letteratura, che dipingono dei quadri superlativi, realizzano sculture ottime senza essere mai stati a una scuola di anatomia. Poi c’è la gente del popolo. Ne parlo nel documentario che ho realizzato su due donne spacca pietre che, invece di prostituirsi, o prostituire i figli, in mezzo alla miseria inumana fanno un lavoro duro. Oppure c’è la storia della donna meccanico che ha un progetto di vita per diventare tra i migliori di questo paese nel suo lavoro, in mezzo agli uomini».

La cultura che resiste

La cultura ad Haiti è anche cultura tradizionale, radicata soprattutto in ambito rurale. Che momento storico sta passando e che relazioni ha con la politica?

«La cultura haitiana è in crisi. La cultura rurale, malgrado il vodù che ne è alla base, è molto attaccata dalle sètte protestanti che pullulano (si veda anche articolo a pag. 51). Il vodù stesso sta subendo delle grandi trasformazioni, si sta mercantilizzando. Sotto Duvalier c’era già una specie di volontà di controllo da parte della politica, che utilizzava molti preti vodù ai suoi scopi. Tutte le religioni e tutte le culture hanno aspetti positivi e negativi. Fattori che ti portano verso la trasformazione e il cambiamento, altri alla resistenza per sopravvivere e altri ancora verso la chiusura al cambiamento. Nella società haitiana troviamo tutto questo. Di fronte a una modernizzazione che è copiata dall’estero e sponsorizzata da certi dirigenti del paese, assistiamo a una resistenza, e quelli che resistono fondamentalmente sono i contadini.

Jacques Roumain (grande poeta e scrittore haitiano, impegnato in politica, scomparso misteriosamente nel 1944, ndr) diceva che gli unici elementi validi di questo paese sono i contadini. Sono i soli che hanno una cultura propria e questo ha permesso loro di sopravvivere. Hanno un attaccamento alla terra natale e hanno una tradizione. Ma la popolazione rurale sta diminuendo e stiamo diventando un paese con una maggioranza di popolazione urbanizzata. Però non c’è una vera cultura urbana, perché lì c’è gente che ha lasciato la campagna ed è come piovuta in città, dove non ha nessun attaccamento, mentre perde le radici rurali. Sono persone declassate e disorientate che vanno ad abitare le immense bidonville delle diverse città haitiane, ma anche tutte le piccole baraccopoli che troviamo ovunque a Port-au-Prince, in centro, in periferia, di fianco ai quartieri dei ricchi. Questo fenomeno crea una situazione molto particolare, paradossale. E i paradossi interessano molto gli artisti. Si dice che Haiti sia un “paradiso infernale”, è un ossimoro. Un ossimoro invivibile per molte persone. Non per noi della classe media, gli intellettuali. Noi riusciamo a sopravvivere, ad avere un minimo livello di vita dignitosa. Ma per la maggioranza, ovvero i contadini che non riescono a vivere in campagna, emigrare diventa obbligatorio. Molti vanno in Repubblica Dominicana e nelle Antille.

La classe media, gli intellettuali, i professori, contribuiscono alla cultura tramite la letteratura, la musica, ecc. Ma anche loro sono in difficoltà in modo permanente, perché a ogni crisi economica e politica si innesca una fuga di cervelli, un’emorragia che costituisce un duro colpo per chi rimane.

Le gallerie d’arte sono sempre meno numerose, gli artisti non vivono più di pittura, devono avere un altro mestiere. Chi fa cinema pure. Ci sono artisti che hanno tre o quattro mestieri».

Il nuovo presidente di Haiti Jovenel Moise, insediato il 7/2/2017. / AFP PHOTO / HECTOR RETAMAL

 

Una politica miope

L’ex presidente René Preval, morto il 3/3/2017.

Ad Haiti esiste un potenziale enorme di produzione artistica e culturale che potrebbe essere valorizzato e dare un apporto economico notevole, oltre che diffondere un’immagine molto più positiva del paese nel mondo. Al contrario, dopo il terremoto l’impostazione dei politici è stata quella di attirare un «turismo di alta gamma». Così sono stati costruiti tre hotel di lusso, di un livello inesistente prima nel paese. E sono stati favoriti gli sbarchi delle crociere sulle più belle spiagge, opportunamente isolate dal resto del contesto. Tutto questo anziché appoggiare gli artisti, o la creazione culturale in genere.

«È un paese potenzialmente ricco di cultura. C’è una ricchezza immateriale enorme qui. La storia di Haiti può attirare molti. Poi ci sono anche ricchezze materiali, come le rovine coloniali. Haiti è il paese dei Caraibi che ne ha di più: forti militari, palazzi coloniali, ecc. Ma ho visto la gente togliere le pietre di Fort Mercredi per andare a costruirsi la casa. Se non c’è una politica statale per preservare e valorizzare queste ricchezze, presto si deterioreranno.

Poi c’è il vodù. In Luisiana, a New Orelans, fanno uno sfruttamento turistico enorme del vodù, e si paga per vedere cerimonie fasulle. Le manifestazioni del vodù, come il Guédé (pronuncia ghedé, sono gli spiriti degli antenati morti, molto presenti nelle cerimonie, ndr) si stanno deteriorando, lumpenizzando. In passato erano spettacoli incredibili.

Per questo occorrerebbe una politica turistica intelligente, radicata nella cultura. Poi c’è un contesto globale: occorre togliere le immondizie per strada altrimenti i turisti saranno disgustati.

C’è pure una natura che resiste, nonostante tutto quello che è stato fatto contro di lei in questo paese. È qualcosa di miracoloso. Mare, montagna, deserto, microclimi differenti. Poi la grande gentilezza della gente. Tutte condizioni molto favorevoli al turismo».

La cultura per chi?

Chi ha accesso alla cultura, nelle sue varie forme?

«Come valore di utilizzo, da non confondere con il valore commerciale, la cultura è alla portata di tutti. Le persone che officiano nei templi vodù producono cultura e allo stesso tempo la consumano. Così come i musicisti rap, che copiano i rapper statunitensi, una moda che sta invadendo le bidonville con i suoi modelli. È una cultura trash.

Se parliamo di belle arti, allora non ci sono molti consumatori ad Haiti. C’è un impresario haitiano che ha prodotto la maggior parte dei musicisti del paese che mi dice: “Ad Haiti ci sono 300 consumatori per i prodotti che facciamo, i dvd dei tuoi film e i cd che io produco”. Non ci sono consumatori paganti.

In passato c’erano i turisti che compravano i quadri e altri prodotti culturali, adesso questo mercato non esiste più. Anche per questo gli artisti non riescono più a vivere.

Allora ci chiediamo: come riuscire a fare dei film in un paese così povero come Haiti? Io, per fortuna, sono conosciuto e ho qualcuno che mi apprezza e finanzia i miei film. Inoltre ci sono diverse televisioni che li acquistano».

Il regista si gira e ci mostra un quadro alle sue spalle. Raffigura uno scheletro, sul cranio un cappello nero a tese larghe, intento a suonare una chitarra elettrica.

«Alle mie spalle avete il più grande Guedé di tutto l’universo. Lo riconoscete? È Micheal Jackson, è lui il re dei Guedé».

Marco Bello