Atti 6. Situazione economica dei credenti a Gerusalemme

Testo di Angelo Fracchia


Nel nostro percorso di lettura degli Atti degli Apostoli abbiamo già parlato (nel numero di maggio) dei «sommari lucani», che presentano in sintesi il quadro della chiesa degli inizi e, probabilmente ancora di più, della chiesa ideale sognata da Luca. In uno di questi sommari, si parlava della comunione dei beni: «Quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,34-35).

Si trattava di una condivisione probabilmente necessaria, soprattutto a Gerusalemme. Nel tempo della prima chiesa, infatti, la città dipendeva economicamente dal tempio. La Giudea è una regione povera, composta da colline scoscese e rocciose dove piove poco e dove quindi è difficile coltivare, né sono presenti particolari tesori minerari nel sottosuolo. Nei tempi più antichi la pastorizia aveva costituito un ripiego interessante per sopravvivere, ma l’economia del primo secolo dopo Cristo era più avanzata e ricca e non si reggeva più sui pastori.

Per una serie di fortunate o intelligenti prese di posizione politiche gli ebrei avevano acquisito in quei decenni, sotto Roma, alcuni privilegi, tra cui il diritto per ogni ebreo maschio adulto di inviare ogni anno al tempio di Gerusalemme una parte delle proprie tasse. Era mezzo siclo d’argento all’anno, ossia circa 25 euro odierni, che possono non sembrare molto, ma moltiplicati per il numero di ebrei maschi adulti che nell’impero pare arrivasse intorno ai due milioni, costituivano un’entrata importante per il tempio, che si aggiungeva alle offerte di coloro che a Gerusalemme arrivavano in pellegrinaggio. È vero che con quei soldi si manteneva una classe dirigente (sacerdoti e leviti) e le strutture di un tempio davvero imponente, ma avanzavano ancora molte ricchezze, che venivano in parte ridistribuite sotto forma di aiuto ai bisognosi. Dovevano essere molti quelli che si facevano mantenere da questa forma di carità: il motore dell’economia di Gerusalemme era il tempio.

Anche i credenti in Cristo inizialmente lo frequentavano (At 2,46; 3,1-10, ecc.), ma forse erano già rimasti un po’ ai margini di quella ridistribuzione. È ciò che sembra emergere anche dal bisogno che sorgerà, qualche anno dopo, di fare una colletta per sostenere i poveri (cristiani) di Gerusalemme (At 24,17; 1 Cor 16,1-2; 2 Cor 8-9; Rom 15,25-28). Ma questo in seguito. Per il momento, ci informa Luca, «nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva» (At 4,32) e tutto era condiviso.

L’esempio di Barnaba (At 4,36-37)

Segue subito un esempio: Giuseppe, detto Barnaba, uno dei discepoli, un levita originario di Cipro, vende un campo e ne mette tutto il ricavato ai piedi degli apostoli.

Chi ha già letto il libro sa che Barnaba ritornerà più avanti, e sarà una figura importantissima: non di quelli che fanno parlare molto di sé, ma uno di coloro che, in silenzio, lavorano a recuperare gli esclusi, a garantire che tutto funzioni, a rendere umilmente la vita più semplice per tutti. Abbiamo un’ulteriore conferma del fatto che Luca sa narrare bene proprio da questo suo introdurre quasi per caso un personaggio che in seguito diventerà rilevante.

Quando però guardiamo all’episodio narrato con un poco di malizia, non possiamo non porci delle domande. Ma se tutti condividevano tutto ciò che avevano, perché citare Barnaba? Uno che, a ben guardare, vende solo un campo, ossia nulla di particolarmente rilevante.

L’esempio negativo di Anania e Saffira (At 5,1-11)

La domanda si fa più forte quando leggiamo l’episodio che segue. C’è anche una coppia, Anania e sua moglie Saffira, che vende un campo e ne pone il ricavato ai piedi degli apostoli. Solo che Anania, a differenza di Barnaba, non deposita tutto ciò che ha incassato. D’accordo con la moglie, consegna solo una parte, attento però a dare l’immagine di uno che dà tutto. Pietro smaschera la sua furbizia e rimprovera Anania, accusandolo di avere il cuore pieno di Satana e di aver voluto mentire allo Spirito Santo. E gli fa anche notare che non c’era nessun bisogno di imbrogliare, perché non c’era nessun obbligo di dare tutto e «l’importo della vendita non era forse a tua disposizione?» (At 5,4). L’osservazione è importante, perché ci fa capire che la condivisione di beni non era una legge vincolante, bensì una buona pratica che molti, se non tutti, si assumevano. Pietro, chiaramente, non rimprovera Anania per essersi tenuto qualcosa, ma per aver sostenuto di aver dato tutto; non è l’avidità o il bisogno che Pietro censura, ma la menzogna. «Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio». E subito Anania crolla a terra, morto.

Senza neanche avvisare la moglie, dei giovani raccolgono il suo corpo e lo vanno a seppellire.

Arriva poi la moglie Saffira, che Pietro sottopone a un rapido interrogatorio su ciò che già sa. La moglie conferma la versione fraudolenta di Anania e muore immediatamente anche lei, prontamente sepolta accanto al marito.

Non è la prima volta che Luca ci informa del «timore» diffuso in tutta la Chiesa e all’intorno (At 2,43), ma stavolta ci sembra che il rispetto religioso rischi di essere sostituito dalla paura. Da quando il Dio buono e amante della vita si è trasformato in un giudice così implacabile da essere pronto a dispensare la pena di morte?

Leggere tra le righe

Chi commenta la Bibbia prova spesso a rendere attuale ciò che è stato scritto quasi duemila anni fa, per evitare che testi che possono nutrire la fede e la vita sembrino semplicemente stranezze incomprensibili. Nel fare ciò, si corre spesso il rischio di volerla troppo addomesticare. È nota la battuta sui biblisti che sosterrebbero: «La Bibbia dice bianco, ma voleva dire nero», come se quello che l’autore voleva dire non sia ricavabile da ciò che c’è scritto. Ecco perché invito il lettore a seguirmi in un percorso appena più intricato, per poter valutare in prima persona gli indizi che Luca distribuisce per leggere con correttezza il suo racconto.

L’autore degli Atti degli Apostoli, lo abbiamo già fatto notare e si può facilmente verificare, è bravo, sa scrivere e sa modulare molto bene i suoi personaggi. Eppure qui sembra quasi perdersi, trasformarsi in un autore superficiale e grezzo nel presentare situazioni e persone: troppi particolari sembrano forzati, strani. È tutto normale? Per capire, ricordiamoci che anche noi, quando facciamo uno scherzo, assumiamo spesso un tono di voce e una modalità di comportamento che dovrebbero suggerire a chi ci ascolta che si tratta, appunto, di uno scherzo. Magari chi ci conosce sa che siamo persone corrette e oneste, eppure ci mettiamo a difendere, scherzando, l’evasione delle tasse: i nostri amici capiscono subito che non siamo seri, ma anche chi ci conosce meno potrebbe intuire la burla dal modo con cui parliamo. Chi scrive, a volte si comporta in modo simile. L’autore raffinato si trasforma d’un tratto, cambia stile, come se fosse un narratore di favolette, di leggende. Sarà da intendere alla lettera? O bisogna capire quale senso dare al racconto? Probabilmente non vuole prenderci in giro, ma sta solo usando un paradosso. Allora, che cosa vuole comunicare? Quando un narratore cambia in modo tanto plateale il proprio stile, suggerisce al lettore che deve sforzarsi di ragionarci sopra.

Proviamo ad analizzare insieme alcuni elementi, partendo da quello più evidente: abbiamo qui due esempi, uno positivo e l’altro negativo, di dono dei propri beni. L’uno, Barnaba, vende un campo e dona tutto, e la sua vita sarà fruttuosa e lunga; gli altri, Anania e Saffira, si limitano a fingere la generosità, e muoiono. Forse non forziamo la mano a Luca se intendiamo che voglia dirci che chi inganna la comunità per avidità, rinuncia a vivere e uccide se stesso. D’altronde, sarebbe strano un Dio che dona la vita, che ha fatto risuscitare Gesù, e poi distribuisce pene di morte con tanta facilità. Pietro, dopo la sua domanda, non dichiara che moriranno, non dà una sentenza di morte: è l’inganno stesso a essere mortale.

Una seconda osservazione importante che Pietro stesso ci fa notare, è che a essere ingannati non sono degli uomini ma Dio. Questa annotazione, che potrebbe giustificare la morte della coppia soltanto per dei lettori un po’ superficiali, ci riporta però a un’osservazione che ritorna spesso negli Atti degli Apostoli: la Chiesa non è una comunità soltanto umana, Dio si identifica pienamente in lei (il passo in cui sarà affermato questo principio nel modo più scenografico sarà alla conversione di Paolo: «Io sono Gesù, che tu perseguiti», benché, a voler essere precisi, Paolo perseguitasse non Gesù ma i cristiani. At 9,5 esprime con forza il principio che «toccare i cristiani è toccare Gesù»).

Proprio nel modo tanto schematico e paradossale di presentare questo episodio, Luca vuole probabilmente suggerire al lettore che quello che narra forse non è accaduto davvero, che è più una parabola che un fatto storico, ma serve a far intuire che quanto sta crescendo nella chiesa non è uno scherzo. Non è indifferente fare sul serio o no, è una questione di vita o di morte. Infatti, ad Anania e Saffira non è rimproverata l’avidità, ma l’inganno. Si può non essere totalmente generosi, ma non si può prendere in giro Dio. E a non prendere sul serio Dio, si rinuncia a vivere.

Per la chiesa di oggi

Ancora una volta, quello che sembra un racconto antico scritto in modo antico per gente antica si svela utile e «parlante» anche per noi oggi.

Anche oggi si tratta di scegliere da che parte stare. La strada di Dio è quella della condivisione generosa. Ma se Dio può sopportare i tentennamenti, le incertezze e le paure, non tollera la falsità e l’inganno. Se ci pensiamo, è coerente con un Dio che vuole non essere servito, ma incontrato e amato. Anche noi, nelle nostre relazioni personali, capiamo le titubanze, i timori e i passi falsi, ma l’inganno intenzionale uccide la relazione.

E poi, anche oggi siamo chiamati a scoprire, a credere, che nelle persone che vediamo, nella comunità che incontriamo, è presente Dio. E Dio, però, non parla dalle nubi, in modo misterioso e magico, ma si esprime tramite persone umane. Nella Chiesa è davvero presente Dio, totalmente coinvolto, ma per vederlo devo guardare agli esseri umani. Forse non è un caso che in questo passo, per la prima volta, leggiamo negli Atti degli Apostoli la parola «Chiesa» (At 5,11).

Ma insieme, Luca ci fa intuire che questa splendida comunità non è esente da colpe, dalla presenza del male al proprio interno, da falsità e ipocrisie. L’inquinamento della purezza non è una decadenza dei nostri tempi, è sempre accaduto. La Chiesa è fatta di uomini, ne porta tutta la ricchezza e il limite. Luca comincia a condurci sulla strada che ci farà scoprire come è davvero nella Chiesa che incontro Dio, senza per questo dedurne che la Chiesa sia perfetta. Tutt’altro. Nello stesso tempo, l’imperfezione della Chiesa non toglie che lì dentro davvero si incontri Dio. Allora come oggi.

Angelo Fracchia
(6. continua)




Atti 4: Uno sguardo «dall’alto»

Testo di Angelo Fracchia


Gli Atti degli Apostoli si presentano, apparentemente, come una cronaca dei primi tempi di vita della comunità cristiana. Non appena li si legga in modo non ingenuo, però, ci accorgiamo che non si tratta di una vera e completa cronaca: Luca trascura moltissimi aspetti e luoghi geografici abitati dal primo cristianesimo. Per non fare che un esempio, dagli Atti non veniamo a sapere nulla sulla comunità cristiana dell’Egitto, paese vicinissimo alla Palestina che contava una forte presenza di ebrei (dalle cui fila provengono i primi cristiani, come è ovvio) e dove già all’inizio del II secolo sappiamo esistere una comunità cristiana molto numerosa e ben organizzata, che quindi evidentemente doveva essere nata decenni prima. Sembra facile spiegare che Luca abbia deciso di trascurarla perché, chiaramente, non sarebbe stato possibile raccontare tutto. L’autore seleziona ciò che ritiene utile per comprendere quello che per la prima generazione era stato importante. Non è, quindi, una cronaca, né un saggio su come dovesse essere la chiesa, ma qualcosa di intermedio, un racconto fondato su elementi storici con un forte taglio teologico.

Anche per questo, di tanto in tanto, Luca sembra fermarsi e contemplare dall’alto ciò che accade, quasi a fare il punto della situazione, come un riassunto che aiuti a capire meglio dove si sta andando. Da molto tempo i biblisti definiscono «sommari» queste soste contemplative. In essi, più ancora che altrove, l’autore ci mostra con trasparenza ciò che, a suo parere, doveva essere la chiesa ideale di Cristo.

Il grande sommario: la comunità (At 2,42-47)

Il primo di questi sommari è anche, probabilmente, il più importante. Qui Luca, che sa narrare bene, si ferma a contemplare dall’alto la Chiesa dilungandosi e strutturando il proprio racconto. Siccome è la prima volta che fa qualcosa del genere, vuole indicare in modo chiaro al lettore che si trova davanti a qualcosa di diverso da un semplice racconto cronologico. Quando in seguito inserirà altri sguardi dall’alto, sarà molto più facile per il lettore intuirne subito la natura e allora l’autore potrà procedere più spedito.

In questo primo sommario notiamo anche una costruzione più accurata rispetto ai due successivi. Molto spesso noi, quando guardiamo un film o ascoltiamo un brano musicale, magari senza essere degli specialisti di quel genere, cogliamo comunque che cosa è importante, capiamo anche su che cosa l’autore vuole suggerirci di fare più attenzione, ma magari non afferriamo bene come abbia fatto a ottenere questo risultato. Chi è esperto, d’altra parte, può anche riconoscere e indicare con chiarezza i «trucchi del mestiere». A volte, poi, ci sono anche delle semplici convenzioni, che con il tempo ci siamo però semplicemente abituati ad afferrare. In un film giallo, ad esempio, quando la telecamera si ferma su particolari apparentemente secondari, magari con una musica di sottofondo priva di una vera melodia, noi spettatori automaticamente facciamo più attenzione, perché siamo abituati a quel segnale che ci avverte che probabilmente quei dati secondari in seguito diventeranno molto importanti. Anche se non siamo «del mestiere», a forza di vedere film abbiamo imparato a conoscere quel tipo di linguaggio.

Anche gli scrittori antichi utilizzavano trucchi del genere. Alcuni di essi possono essere letti e risultare efficaci anche se ne siamo del tutto inconsapevoli. Per altri, più tipici di quel tempo, possiamo avere bisogno di qualcuno che ci aiuti a vederli e ci indichi come usarli bene, esattamente come in certi indizi dei film gialli. Noi, ad esempio, quando esponiamo un tema (ma anche quando raccontiamo una barzelletta…) siamo molto abituati a utilizzare la struttura della «scala»: ogni dato è più importante di quello precedente e ci aiuta a capire quello successivo. L’ultima è l’informazione più importante. Possiamo anche non esserne consapevoli, ma ormai siamo abituati a usarla. Gli scrittori biblici usano invece spesso la struttura dell’«incrocio»: accumulano delle informazioni in modo apparentemente casuale, ma, a ben guardare, le dispongono come in cerchi concentrici, dove la prima informazione rimanda all’ultima, la seconda alla penultima, e al centro c’è quella più importante. È la cosiddetta struttura a chiasmo usata da Luca in questo brano.

Intanto ripete due volte che quella descritta non è una forma di vita comunitaria occasionale: «perseveravano», «erano costanti».

Il livello più esterno (1) è quello più lasco, che da solo non ci farebbe intuire la struttura: ascoltavano l’insegnamento degli apostoli (è il punto di partenza: v. 42) e godevano della simpatia di tutto il popolo (è il punto di arrivo: v. 47). In mezzo, quasi come parentesi, Luca aggiunge che tutti provavano un timore religioso nei loro confronti (v. 43), come chi si accorge di assistere a qualcosa di speciale, non semplice frutto del lavoro umano.

Il secondo livello (2), più importante, parla dell’«unione fraterna, comunione» (v. 42) e del mangiare insieme in gioia e semplicità (v. 46), proprio ciò che accade in una fraternità autentica.

Poi, Luca parla, ancora più al centro (livello 3), dello «spezzare il pane» (vv. 42.46), che per le prime generazioni cristiane era la formula per indicare l’eucaristia. Possiamo stupirci allo scoprire che l’eucaristia non sia il centro del centro, l’elemento assolutamente più importante della vita cristiana: come accade spesso, Luca non ha paura di spiazzarci.

Avvicinandoci ancora di più al centro (livello 4), in questo sommario che parla della vita cristiana, sta la preghiera (alla fine del v. 42, e poi ancora nella frequentazione del tempio, al v. 46: al tempio si andava per pregare (ma su questo continuare a «fare gli ebrei» avremo occasione di parlare più approfonditamente più avanti).

Al centro di tutto (livello 5), ai vv. 44-45, c’è la condivisione totale, che peraltro riprende quella «comunione» spontanea e gioiosa che stava nel secondo cerchio.

Sembra che Luca ci suggerisca che la chiesa ideale impara dagli apostoli e va al mondo, ma più importante ancora è l’esperienza di una dimensione di comunione fraterna spontanea che ci aiuta a vivere l’ancora più fondamentale comunione con Gesù (nella frazione del pane) e quindi il dialogo con Dio (la preghiera), fino ad arrivare al punto più importante di tutti, la condivisione completa con gli altri, magari vissuta con meno spontaneità rispetto all’unione fraterna, ma intesa come decisione di fondo, anche quando fosse faticosa ed esigente. L’autore degli Atti sostiene che non siamo chiamati innanzi tutto a vivere una vita di liturgia e preghiera (che restano ottime, ma come strumenti per arrivare ad altro), bensì che la chiesa perfetta è quella che mette al centro gli altri, la comunità. Se possiamo confermare questa intuizione con uno sguardo fuori dall’opera lucana, il vangelo secondo Giovanni afferma che i cristiani saranno riconoscibili non perché celebrano messa o perché pregano bene, ma per come si amano (Gv 13,35).

Gli altri due sommari

Non è un caso che su questo tema, in una forma più limitata e concreta, si torni anche nel secondo dei grandi sommari. In Atti 4,32-35 si presenta quello che alcuni hanno etichettato come «comunismo cristiano». L’indicazione è semplice: «Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune». Più che di abolizione della proprietà privata, sembra dal contesto che si tratti di abolizione dell’egoismo: chi ha bisogno, otterrà ciò che gli serve, perché gli viene messo a disposizione da coloro che non si limitano a chiamarsi fratelli, ma davvero si dimostrano tali. Luca sarà poi costretto a confessare che questo quadro ideale, nella comunità reale non era sempre vissuto in pienezza, ma resta l’ideale verso cui tendere.

Peraltro, questo ideale porta a compimento ciò che nell’Antico Testamento era stata una promessa di Dio: in Dt 15,4, all’interno delle norme sull’anno sabbatico (un anno in cui non si sarebbe dovuto coltivare la terra), Mosè dà voce a Dio nel promettere che non ci sarà da avere paura di non mangiare, in quell’anno, perché la terra avrebbe prodotto da sé quanto necessario all’uomo per vivere. «Del resto non vi sarà nessun bisognoso in mezzo a voi». A questa promessa fa eco l’affermazione di Luca: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso» (At 4,34).

Nel terzo dei sommari (At 5,12-16) si insiste sul cammino della chiesa verso l’esterno. Tutti guardano con simpatia questo nuovo movimento, anche se magari se ne tengono a distanza (v. 13). Ma ad essere interessante è soprattutto il modo con cui i cristiani si muovono dentro la società da cui provengono. Non provano a distinguersi con la forza, non polemizzano con nemici (è purtroppo il modo più facile per farsi conoscere, e infatti è quello più utilizzato dai movimenti nascenti), ma si comportano in modo coerente con questa generosità che abbatte l’egoismo: non contestano, non provano a convincere, non cercano di difendersi, ma guariscono i malati (vv. 15-16).

Coloro che si affidano a Gesù vivono, insomma, per gli altri (che siano cristiani o no), abbattono le barriere di autodifesa che l’umanità sempre cerca di costruirsi e vivono nella confidenza e nella leggerezza. L’incontro con Gesù porta alla fiducia di fondo verso Dio e verso gli altri, e questo fa vivere meglio. Perché l’obiettivo ultimo di Dio non è di essere venerato, ma che gli uomini, che Lui ama, vivano bene.

Angelo Fracchia
 (4. continua)




Dopo la pentecoste: Una predicazione «arcaica»

Testo di Angelo Fracchia |


La prima chiesa, ritratta dagli Atti degli Apostoli, non si limita ovviamente a ricevere dei doni (la visione di Gesù risorto, l’effusione dello Spirito), ma si impegna da subito a testimoniare e annunciare ciò che le è accaduto. È quanto Luca ci racconta in un lungo discorso attribuito a Pietro, che parte dalla buffa osservazione che questi uomini, che parlano in lingue strane e potrebbero sembrare ubriachi, in realtà non hanno ancora bevuto vino, anche perché è mattina presto, ma si comportano in questo modo per un’altra ragione (At 2,14-15).
Come è ovvio per ogni opera che pretenda di essere storica e come ci capiterà di chiederci più volte lungo la lettura degli Atti, insieme alla domanda su che cosa insegni ancora a noi oggi questo annuncio nasce quella riguardante la verità di ciò che è narrato: davvero Pietro ha detto queste cose?

Sappiamo bene che non ci interessa la verità assoluta di ogni singolo particolare, ma la proclamazione di una storia che non abbia alcun fondamento storico sarebbe falsa. È ovvio che nessuno potrà mai restituirci la registrazione di quelle prime parole ed è anche altamente improbabile che spunti una cronaca diversa ma altrettanto vicina a quegli avvenimenti. In loro mancanza, dobbiamo provare a ragionare su ciò che leggiamo.

Se da una parte Pietro, già nei vangeli, era in qualche modo il portavoce dei dodici, tanto che poteva essere naturale che fosse lui a parlare a nome di tutti (benché in fondo non ci importi chi avesse parlato allora, l’importante era che rappresentasse i discepoli), dall’altra parte qualcosa possiamo ricavare da ciò che Pietro dice. E prima ancora di entrare nel cuore delle questioni, da buoni detective dell’antichità, possiamo trarre importanti deduzioni da due particolari che potrebbero sfuggire a una lettura superficiale.

Intanto, Pietro parla di Gesù come se fosse uno sconosciuto: «Gesù di Nazareth, uomo accreditato da Dio presso di voi…» (v. 22); «Questo Gesù…» (v. 32); «Quel Gesù che voi avete crocifisso…» (v. 36). Non pensa di presentarlo come «Gesù (il) Cristo», come se il fatto fosse qualcosa già ben noto a tutti. Presenta invece uno che gli interlocutori non conoscono.

Ma è ancora più significativo un altro passo: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù» (v. 32). Sembrerebbe che Pietro pensi che Gesù è diventato Signore e Cristo solo dopo che Dio, con la risurrezione, l’ha costituito tale. Lo stesso Luca, in realtà, nel suo Vangelo, aveva spiegato, nei primi due capitoli, che Gesù era Cristo fin dal concepimento. Ma è comprensibile che la prima comunità cristiana abbia capito solo nella risurrezione chi davvero Gesù era e si sia persino trovata a dire che Gesù era diventato Cristo nella risurrezione, prima di riflettere con più calma e precisione sugli avvenimenti e trovare formule teologiche più precise.

Si direbbe, insomma, che il primo discorso di Pietro sia stato scritto troppo presto; ma ciò non è verosimile, perché sicuramente Luca ha composto gli Atti dopo il suo Vangelo. Possiamo allora affermare, per esprimerci meglio, che probabilmente l’autore ha voluto restituirci quella prima predicazione nel modo più vicino possibile a ciò che davvero era stato detto, a costo di essere impreciso. Luca voleva farci sentire «il profumo» dell’inizio.

Fondati nella Scrittura

Da dove parte, allora, Pietro?

Dalla Bibbia ebraica. Non parte dalla tomba vuota, come forse avremmo fatto noi. Ma siccome sta cercando di annunciare un evento unico nella storia della religione, ritiene opportuno partire proprio dalla religione. Noi a volte pensiamo di poter parlare di Gesù dimenticandoci del tutto dell’Antico Testamento, ma Pietro sta lì a dirci che ciò non è possibile. Gesù è cresciuto conoscendo Dio innanzi tutto nell’ascolto della Bibbia, e per capirlo non possiamo saltarla.

In particolare, Pietro utilizza tre passi. Due di questi possono forse sembrarci più o meno prevedibili: è innanzi tutto il salmo 15 che prefigura un diletto di Dio che sarebbe stato sottratto alla morte (At 2,25-28; Sal 15,8-11). Come fosse un rabbino del suo tempo, Pietro dà per scontato che il salmo sia stato scritto da Davide e fa notare che però Davide è morto: a conferma, tutti sapevano dove fosse la sua tomba (v. 29). Siccome però Davide non parlava per fantasie proprie ma istruito da Dio, di certo quel progetto di Dio si sarebbe prima o poi compiuto. Ed ecco, dice Pietro, è oggi che si è compiuto, e con Gesù (vv. 30-33).

In aggiunta, come ciliegina sulla torta, il primo degli apostoli aggiunge anche un’altra citazione di un salmo (il 109), che doveva essere stata enormemente significativa per i primi cristiani, perché ritorna in tanti autori e contesti: «Dice il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra…» (At 2,34-35; Sal 109,1), testo che lasciava intuire che si poteva continuare a venerare Dio come Padre pur ammettendo che Gesù era Dio allo stesso modo. Questo passaggio, iniziare a venerare Gesù come Dio pur riconoscendolo in rapporto con un Padre che supera anche lui, è stato sicuramente uno dei più impegnativi per i primi cristiani: ci sono arrivati grazie alle parole della Bibbia, che li hanno aiutati a capire ciò che pure avevano visto e vissuto ma per la cui descrizione mancavano loro le parole adeguate.

Il primo dei brani citati da Pietro, però, potrebbe stupirci. È la visione di Gioele (Gl 3,1-5), che immagina un futuro nel quale Dio avrebbe donato il suo Spirito a tutti, così che tutti avrebbero potuto parlare le parole di Dio: uomini e donne, liberi e schiavi (At 2,16-21). E lo scopo di questo dono dello Spirito sarebbe stato la salvezza di tutti. I primi cristiani capiscono che il fondamento della novità che stanno vivendo è ovviamente la risurrezione di Gesù; ma la vera novità è che Dio non vuole tenersi staccato dagli uomini. Si è fatto conoscere nella vita di un uomo, che ha liberato dalla morte (orrenda per tutti gli uomini), per certificare che quell’uomo era davvero secondo il suo cuore; e poi aveva concesso a tutti, di qualunque condizione umana, di parlare per annunciarlo. Perché se Dio si dona a tutti, come aveva promesso e fatto in Gesù, e conferma che davvero Gesù è affidabile, non c’è più bisogno, per ascoltarlo, di essere liberi (non schiavi), o maschi, o ebrei, ma davvero tutti possono capirlo, incontrarlo, annunciarlo. Insomma, quello che per Gioele era un sogno degli ultimi giorni, si è compiuto.

Prima ancora di dire che con Gesù è vinta la morte, si dice che con la risurrezione di Gesù non c’è più nessuna condizione umana che ci possa separare da Dio.

Che cosa fare?

È comprensibile che la prima reazione di chi ascolta sia chiedere: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Va comunque notato che Pietro non è partito dal fare, dalla morale, ma dall’annuncio. Più importante di ciò che siamo chiamati a fare, c’è il capire la novità, intuire che qualcosa di decisivo è successo, che da quel momento le cose non potranno più essere uguali.

Poi, certo, si risponde anche alla domanda sul che cosa fare: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Noi siamo condizionati da secoli di annuncio cristiano concentrato sulla morale, e rischiamo di fraintendere. Pietro ha detto che gli ascoltatori sono cattivi? No! Allora, perché dovrebbero tutti convertirsi? Perché in quello che lui ha annunciato c’è qualcosa di nuovo, di imprevedibile, a cui bisogna volgersi: non a caso il senso originario della parola greca che traduciamo con «convertirsi» è «cambiare pensiero».

Pensavamo di dover fare delle cose, un cammino, fatica, per arrivare a Dio; pensavamo anche che alcuni fossero a Lui più vicini, che fosse per loro meno difficile raggiungerlo. Ma Dio, nel dono dello Spirito, ci dice che vuole incontrarci, e che non mette nessuna condizione. L’unica cosa necessaria è che dobbiamo cambiare testa: smettere di pensare di doverci conquistare l’incontro con Lui, e accettare che ci sia semplicemente regalato.

A quel punto anche i peccati possono essere perdonati, con quel battesimo nel nome di Gesù che indica l’intenzione, da parte del singolo, di vivere come e con Gesù, in quell’intimità con Dio che era di Gesù e che lui promette a tutti. A quel punto possiamo ricevere il dono dello Spirito, come garanzia, caparra (cfr. 2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,12) di quell’unione con il Padre che potevamo immaginare ci fosse impedita e che invece il Figlio è venuto a rendere possibile a tutti noi. Grazie a lui diventiamo pienamente figli del Padre (Gv 17,20-21).

È una nuova apertura senza confini quella che si spalanca davanti a coloro che cercano Dio: «Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (At 2,39). Davanti allo Spirito di Dio non ci sono confini, non ci sono muri, non c’è nulla che giustifichi qualunque forma di pregiudizio o privilegio di uomini nei confronti di altri uomini. Per Dio non ci sono distinzioni.

Ecco perché quella che potrebbe sembrarci una semplice annotazione finale, un po’ compiaciuta, sul numero dei convertiti, presenta comunque un particolare che, stavolta, la traduzione non ci consente di apprezzare appieno: «Quel giorno furono aggiunte circa tremila persone». Il greco, però, non parla di «persone» ma di «anime», che indubbiamente è un modo per indicare la persona, ma vista soprattutto nel suo rapporto con lo spirito, con Dio. Non importa il numero, importa che ci siano persone che entrano finalmente in rapporto intimo e autentico con Dio. Per questo viene lo Spirito, per questo Gesù ha dato la vita.

Angelo Fracchia
(3. continua)




Pentecoste: Il compimento della Pasqua


Da Pasqua a Pentecoste

Gli inizi degli Atti degli Apostoli narrano la vita dei discepoli di Gesù, prima dispersi dalla sua morte e poi di nuovo insieme radunati nella visione del Risorto, al punto da ricostituire anche il numero dei dodici. Però il Signore è risorto, certo, ma è poi salito al cielo e non è più fisicamente tra i suoi (At 1,3-11). Da dove e come ripartire? Sarà ancora attento a ciò che succede nella sua comunità? Come? Se il Vangelo secondo Giovanni ripete più volte che la partenza di Gesù avrebbe comportato il dono dello Spirito, negli Atti vediamo questo Spirito all’opera, nella vita quotidiana della Chiesa.

Il cuore del Vangelo, infatti, non è il seguire una morale o il compiere determinate preghiere o gesti religiosi, ma la relazione con Gesù. Non sempre i discepoli l’avevano capito o si erano comportati correttamente, ma erano sempre rimasti con lui. E anche alla fine, il Risorto non aveva lasciato profondi messaggi sull’aldilà: era comparso ai suoi salutandoli semplicemente con un «Pace a voi» (Lc 24,36). Come pensare allora di mantenere il rapporto con lui, ora che sembra non esserci più?

Gli Atti degli Apostoli non ci raccontano questi interrogativi, ma sembrano passare direttamente alla risposta, a ciò che porta a compimento quanto, pure, era iniziato in modo decisivo al sepolcro vuoto.

I discepoli avevano trovato la pietra rotolata via e il sepolcro vuoto la mattina del primo giorno della settimana di Pasqua. Questa era una festa che raccoglieva in sé tre diverse celebrazioni. In passato significava:

  • • la partenza primaverile dei pastori dagli accampamenti invernali, celebrata con il sacrificio di un agnello nato nell’anno, i sandali ai piedi e i fianchi cinti… esprimeva l’azzardo di chi abbandonava la sicurezza per trovare la vita;
  • • il memoriale di un gruppo che era stato fatto fuggire dalla schiavitù, sfidato ad abbandonare le certezze e garanzie che pure una tale vita offriva per fidarsi di una parola che li chiamava a libertà;
  • • la celebrazione agricola della mietitura dell’orzo, con la distruzione del lievito (la pasta madre) utilizzato fino a quel momento per cominciare con lievito nuovo nella speranza e promessa che anche nel nuovo anno si sarebbe vissuti del frutto della terra.

Anche nel terzo aspetto della celebrazione c’era una dimensione di fiducia, perché buttare via la massa di pasta lievitata che durante l’anno era stata utilizzata come madre per fare un nuovo impasto dal nuovo raccolto, significava scommettere e fidarsi di riuscire ad averne abbastanza da vivere, tanto più che il raccolto dell’orzo da solo non era sufficiente per passare l’anno. C’era bisogno che anche il grano, maturo all’inizio dell’estate, non tradisse le attese. In qualche modo, però, il successo della mietitura dell’orzo poteva essere un invito alla fiducia anche per il futuro raccolto, circa cinquanta giorni dopo.

Ecco perché anche nell’anno liturgico ebraico la festa dell’inizio estate, al cinquantesimo giorno (in greco, appunto, «Pentecoste») dopo Pasqua, rappresentava il perfezionamento di ciò che a Pasqua era stato iniziato in modo decisivo ma ancora incompiuto. Questo valeva per il raccolto, ma non solo: se l’uscita dall’Egitto, celebrata a Pasqua, era il segno più chiaro della benevolenza divina e della sua intenzione di proteggere la vita del popolo, quella liberazione si compie nel dono della legge sotto il Sinai, a Pentecoste.

Il compimento del sepolcro vuoto

Anche per i cristiani, oggi, la Pentecoste porta a compimento ciò che si inizia a Pasqua.

A Pasqua Gesù risorge, ma è a Pentecoste che con il dono dello Spirito si garantisce la presenza divina nella storia e la capacità di capire ciò che è accaduto in Gesù.

Abbiamo sicuramente presente il racconto della prima effusione spettacolare dello Spirito Santo sulla Chiesa. Probabilmente lo ricordiamo così: gli apostoli erano chiusi nel cenacolo quando si vedono scendere addosso lingue di fuoco, si mettono a parlare e tutte le persone presenti a Gerusalemme, di tante nazioni diverse, li capiscono.

Sembrerebbe un miracolo spettacolare che serve per convincere i presenti dell’autenticità della testimonianza dei dodici e insieme diventa «scorciatoia» per cominciare ad annunciare a tutti il Vangelo, visto che subito dopo Pietro inizierà a raccontare di Gesù, spiegando che sono contenti sì ma tutt’altro che ubriachi (At 2,13-15).

Ma davvero le cose sono andate come ho appena ricostruito?

Uno dei motivi per cui è tanto prezioso tornare a rileggere i testi biblici è che spesso li ricordiamo in modo approssimativo dipendendo dal come ce li hanno raccontati o dal come noi li abbiamo interpretati nelle situazioni in cui ci trovavamo. Questa imprecisione non è segno della nostra scarsa attenzione, tutt’altro! La nostra memoria non ricorda mai ciò che è accaduto, ma il significato che ha avuto per noi. Quello che ricordiamo del testo spesso lo abbiamo memorizzato così perché allora era per noi significativo così.

Ma tornare al testo ci permette di risintonizzarci con l’originale, così da scoprirlo ancora ricco e profondo per la nostra vita, a volte anche in modi che ci risultano nuovi.

Se vogliamo ad esempio iniziare a restituire la parola al brano, notiamo intanto che non è chiaro quanti siano i protagonisti (Spirito Santo a parte): si tratta davvero dei «dodici», oppure di qualcun altro? «Erano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2,1). Sì, ma tutti chi? Subito prima, nel capitolo precedente, si era detto che gli undici erano ridiventati dodici, ma a fare la scelta dei candidati e l’estrazione a sorte del dodicesimo erano state in realtà centoventi persone (At 1,15). Sembrerebbe più logico che questi siano i «tutti». Quindi, ciò che accade non è riservato alla cerchia più importante che guida la comunità, ma tocca tutti i «fratelli».

Poi, al versetto 2, arriva un «fragore», qualcosa che succede da fuori ma non è comprensibile (al v. 6 il greco non parlerà più di «fragore» ma di «voce», anche se nella traduzione Cei la differenza non è così chiara), e appaiono «lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro» (At 2,3). Luca sa come raccontare bene, sa che abbiamo bisogno di immagini per intuire qualcosa; e, insieme, è un teologo preciso, consapevole che l’opera di Dio si può narrare sì, ma solo per approssimazione. Non è fuoco, quello che scende su di loro, ma semmai «vento» (Spirito, appunto…), e si mostra con «lingue come di fuoco».

Si vede qualcosa, insomma, e quel qualcosa chiaramente scende su «ognuno» dei presenti, ma non si riesce a definire proprio bene di che cosa si tratti. C’è una fonte unica, ma la sua espressione è molteplice. C’è un solo Spirito, ma le lingue parlate sono tante. Se Dio è uno, il modo con cui le persone vivono la loro relazione con lui non è sempre la stessa.

Geografia biblica

Luca sembra volerci lasciare a bocca aperta, offrendoci un elenco di tutti i luoghi da cui provengono i presenti. Se guardiamo con attenzione il suo elenco, però, non possiamo non porci alcune domande.

Non stupisce, innanzi tutto, che i luoghi citati siano i luoghi nei quali, in quei tempi, c’è una forte presenza ebraica. Le persone lì presenti sono probabilmente pellegrini venuti a Gerusalemme per una delle feste di pellegrinaggio. Come tutti i pellegrini, si fidano dell’accoglienza che trovano nonostante siano magari deboli con le lingue. È però vero che nelle regioni attorno al Mediterraneo, ormai da secoli, la lingua che tutti capiscono all’epoca di quei fatti è il greco (sarebbe come dire l’inglese per noi oggi), ben diffuso in Cappadocia, Ponto, Asia, Frigia e Panfilia – quella che per noi oggi è la Turchia – e nell’Africa del Nord Est (Egitto e Cirenaica), nonché a Roma e a Creta. Appena più a oriente, l’aramaico è la lingua madre degli abitanti della Mesopotamia (e forse già della Giudea, quasi di sicuro della Galilea), ampiamente conosciuta e utilizzata come lingua dei commerci e dei viaggi dai Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia e dell’Arabia.

Un osservatore neutrale e un po’ malizioso, insomma, ridimensionerebbe probabilmente di molto la portata del miracolo. Per farsi capire ai discepoli bastava parlare nella loro lingua madre per raggiungere già metà della folla lì presente. Sicuramente poi tra loro c’era qualcuno in grado di tradurre anche in greco – ricordiamo che Gesù stesso sapeva parlare in quella lingua (cfr. Mt 15,21-28) -, ed ecco che così raggiungo l’altra metà. Mettersi a parlare tante lingue strane non sembrava davvero necessario.

Il senso

C’è allora qualcosa che Luca vuole suggerirci, con l’episodio che narra in Atti 2,1-13?

Forse questo. Dio con la Pasqua ha mostrato di volere la vita dell’uomo, e che Gesù era davvero chi pretendeva di essere. Ma la Pasqua rischia di restare soltanto un evento che si chiude su Gesù. Invece l’opera di Gesù deve essere portata a compimento, e questo avviene a partire dalla Pentecoste, quando Dio, nella forma dello Spirito Santo, si prende cura di entrare nei cuori dei suoi fedeli, per renderli testimoni coraggiosi e – soprattutto – affidabili. E non va solo nel gruppo ristretto degli apostoli, ma in ciascuno. Ognuno dei credenti è dotato di Spirito, per comprendere Gesù e per annunciarlo. E non è soltanto un annuncio che risulta comprensibile, ma suona davvero intimo, diretto, personale, come se detto nella lingua o nel dialetto che più ognuno ha nel cuore: diventa una comunicazione sorprendentemente interessante, comprensibile, attraente per gente proveniente da ogni dove, quali che siano i loro retroterra e i loro modi di pensare. Il cuore del racconto, allora, non è il prodigio, ma una promessa davvero consolante e rasserenante per la chiesa di ogni tempo e luogo: Dio si farà capire, perché parla al cuore dell’essere umano. Di ogni singolo essere umano.

Angelo Fracchia
(2 – continua)




Il silenzio nella città:

un eremo nell’ex-carcere


Nel cuore di Torino c’è un eremo nato dentro l’ex carcere della città. Incontriamo l’uomo che l’ha fatto nascere, Juri Nervo, laico, operatore sociale nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri. Piccolo fratello secolare che abita la quotidianità e le povertà urbane partendo dalla sua relazione liberante con Dio.


Testo e foto di Luca Lorusso


«Non ho tempo. Le giornate volano e non riesco mai a fermarmi. Cerco di mettere ordine in casa, ma abbiamo troppi oggetti, sembra che si moltiplichino». A chi non succede di sentire dire o di pronunciare queste parole?

La vita quotidiana incalza, e il desiderio di fermarsi è messo da parte. Viviamo in una continua tensione tra opposti: da un lato andiamo di fretta, con superficialità, facciamo gesti automatici svuotati di senso, siamo immersi nel rumore, ci sentiamo soli; dall’altro sentiamo il richiamo della lentezza, della profondità, il desiderio di compiere gesti che nascano da un senso e si orientino a un senso, il bisogno di silenzio e di relazioni autentiche.

A dicembre, nel periodo natalizio, questa tensione cresce. Gli stimoli aumentano di numero, mentre il Natale richiama a un evento singolo, a una persona; cresce il pericolo del consumismo, degli acquisti compulsivi, mentre il richiamo dell’incarnazione è al gustare le cose e alla consapevolezza del dono; ci troviamo a planare su giornate costellate di cose da fare, mentre l’invito è a scendere in profondità; siamo spinti all’azione, mentre il richiamo è alla contemplazione; veniamo colpiti da bagliori intermittenti e violenti, mentre sentiamo di aver bisogno di luci tenui che non feriscano gli occhi.

Un eremo in città

Veniamo a scoprire che c’è un luogo a Torino che richiama al silenzio e alla profondità fin dal suo nome: l’Eremo del silenzio.

Un eremo in città. Subito pensiamo che l’idea ci piace: la città è un luogo dove si cercano relazioni ma si sperimenta la solitudine; in un eremo, all’opposto, si va in cerca di solitudine, e si fa esperienza di non essere soli.

Incuriositi, andiamo a bussare alla sua porta nella speranza di trovare qualche risposta alle tensioni di cui parlavamo sopra.

Arrivati in via Paolo Borsellino 3, siamo sorpresi dal luogo: ci troviamo nella zona centrale, a due passi dalla stazione di Porta Susa e dal palazzo di giustizia, di fronte al nuovissimo grattacielo di una nota banca. Ma, soprattutto, ci troviamo davanti al muro alto e scuro dell’ex carcere «Le nuove», fondato a metà Ottocento e attivo fino al 2001.

Accanto a un pesante portone carrabile c’è un portoncino verde, piccolo ma dall’aspetto altrettanto pesante. Un’insegna ci dice che siamo di fronte al museo del carcere di Torino.

L’unico indizio sull’Eremo sta nella scritta incollata sopra una delle due buche per le lettere a sinistra del portoncino.

Ad accoglierci viene Juri Nervo, l’uomo che ha dato vita nel 2011 all’Eremo del silenzio dentro la piccola palazzina interna al carcere dedicata alle donne terroriste: occhi vivaci dietro un paio di occhiali tondi dai colori brillanti, barba brizzolata più folta dei capelli, indossa un giubbotto sportivo sopra un maglioncino grigio. All’anulare sinistro porta la fede nuziale. Si definisce un «ricercatore», un cercatore di silenzio, ma anche un cercatore di pratiche sociali, d’iniziative di aiuto nei confronti di persone in difficoltà: a scuola, in carcere, in ospedale.

Il luogo

Oltrepassato il portoncino del muro perimetrale, ci troviamo di fronte a un altro portone nel secondo muro che circonda tutte le strutture dell’ex carcere. La vista è piuttosto desolante: muri spessi e alti, macchiati dall’umidità e dallo smog, con pezzi d’intonaco staccati, tubi che scorrono lungo le pareti. In più oggi è una giornata senza sole.

Più avanti, attraversando un cortile, un’altra porta conduce dentro la struttura. Alla sua destra, alcuni finestroni lasciano intravedere l’ambiente nel quale le persone recluse ricevevano le visite dei famigliari. Ora è la biglietteria del museo: un muretto di circa un metro di altezza con lastre di vetro di 30-40 cm sulla sua sommità separa la stanza in due. Di qua sedevano i famigliari su delle specie di panche in muratura, di là i detenuti. Oggi, negli orari di apertura del museo, di là c’è il bigliettaio, di qua le persone, spesso studenti accompagnati dai loro insegnanti, che vogliono visitare il carcere.

Juri è attivo sia nel mondo carcerario che in quello della scuola. Ed è stato proprio grazie alle visite al museo delle classi accompagnate da lui che un giorno, otto anni fa, ha scoperto, nella sezione femminile, un piccolo ambiente abbandonato. Lì avrebbe fatto sorgere l’Eremo.

«Ero arrivato in anticipo. Conoscevo da tempo il direttore del museo del carcere, quindi mi sentivo libero di girare nella struttura. Mentre aspettavo che arrivasse la classe che dovevo accompagnare, ho scoperto questa palazzina abbandonata». Attraverso qualche corridoio e diverse porte, Juri ci ha condotti in un piccolo cortile con un po’ di orto, di prato e qualche pianta. Indica di lato, a sinistra, una piccola struttura di due piani. «Negli anni Settanta c’era bisogno di posto per le detenute terroriste, e allora hanno costruito questo fabbricato. Era il loro 41bis. Quando l’ho scoperto, era in condizioni di completo abbandono. Era da un po’ che riflettevo su un luogo nel quale potermi “ritirare”, allora ho parlato con il direttore del museo che mi ha concesso l’utilizzo di quegli spazi, e di lì a poco ho iniziato a venire per risistemarli. Non c’era riscaldamento, luce e nemmeno acqua. Il tetto era bucato e pioveva dentro. Un po’ per volta, con tanto lavoro manuale, sono riuscito a risistemare tutto. Sono stato spesso aiutato da amici e volontari. Molte volte venivo da solo».

Sarà per il tau presente nel logo dell’Eremo, sarà per i quadri e le icone francescane appesi ai muri, ma questo racconto di Juri ci fa pensare a san Francesco che ristruttura la piccola chiesa di san Damiano.

Le celle

Quando entriamo nell’Eremo ci sembra di entrare in un piccolo palazzo di edilizia popolare: oltre il portoncino ci si trova di fronte a una scala che porta al primo piano. Del piano terreno vediamo solo un breve corridoio accanto alla scala che porta a una stanza dove Juri ci dice che stavano gli agenti. Ora fa da magazzino.

L’Eremo vero e proprio si trova al piano superiore: cinque celle che si affacciano su uno stretto corridoio. Tutto qui. Due celle usate come uffici: uno da Juri, uno da Matteo, l’amico e collaboratore con il quale ha fondato «Essere Umani Onlus», l’ente attraverso il quale lavorano nelle scuole, nelle carceri e ospedali. Una cella è stata trasformata in cappella, una in sala incontri e l’ultima in uno spazio da usare per scopi vari.

Sembrerebbe un posto come un altro se non fosse per le sbarre che chiudono (o aprono) ciascuno dei cinque ambienti.

Perché un eremo in città

L’Eremo del silenzio è un luogo appartato ma aperto, difficile da trovare, ma accogliente: «Alla gente piace perché non è bello, perché qui senti più il calore umano che non il calore della struttura», dice Juri Nervo.

Tutti i giovedì dalle 19 alle 20,30 un gruppo di circa 20 persone si trova per pregare, riflettere, condividere. Una volta al mese la preghiera prende la forma di un’adorazione silenziosa. Anima degli incontri è lo stesso Juri accompagnato dal francescano padre Zeno.

Altra figura importante fino a qualche tempo fa è stata suor Silvia, domenicana di Betania la cui congregazione fu fondata da un sacerdote francese di metà Ottocento dopo aver predicato gli esercizi spirituali in un carcere ad alcune detenute. È stata lei a introdurre all’Eremo il giovedì di adorazione silenziosa.

Oltre alle persone che partecipano agli incontri comuni, diverse altre arrivano all’Eremo in orari e giorni diversi per fermarsi, entrare nella cella della preghiera e lì confrontarsi, ciascuna, con la propria cella, il proprio carcere personale di fronte a Dio.

«Le celle, che prima erano di segregazione obbligatoria, diventano celle di segregazione volontaria. Qui sta la follia», dice con risolutezza Juri. «Esci da casa, vieni qui, ti chiudi in un ex carcere perché vuoi trovare la libertà. Chi ti vede pensa che sei matto. Oppure si domanda se c’è una ragione che ancora non vede. Le suore di clausura fanno la stessa cosa. Nel carcere posso trovare la libertà? Secondo me sì, in tutte le carceri. Ad esempio, i genitori con un figlio disabile che vivono in modo sereno quello che ai nostri occhi è un carcere; oppure chi è malato: ad esempio Chiara Corbella (giovane donna malata di tumore che ha rifiutato le cure per portare a termine la gravidanza e morta un anno dopo il parto, ndr), in quello che noi vediamo come il suo carcere, ha trovato la libertà. Ci sono tante carceri che possono essere luoghi di libertà. Certo è che uno deve fare i conti con se stesso: le proprie ferite, lo sbagliare in continuazione e rialzarsi. Senza, ovviamente, arrivare a dire che il carcere, o la malattia, abbiano un senso». E chiosa: «Sapere che io ho un carcere, abitarlo, è già una cosa diversa dal dire “io non ho un carcere e non so dov’è”. No. L’invito è a iniziare a entrarci, a farci i conti. Sei già molto più libero».

Vivere l’eremo per vivere la città

La sfida rappresentata dall’Eremo del silenzio, per Juri, è quella di vivere la preghiera continua e il silenzio anche fuori dall’Eremo. «Anche quando sei nel mondo puoi vivere una dimensione di silenzio e di preghiera. Anche se non sei dentro un eremo», ci dice mentre ci sediamo uno di fronte all’altro attorno a un tavolino nel suo «ufficio». «Ecco che qui entra il discorso della preghiera del cuore del pellegrino russo, della preghiera silenziosa, del konboskini, il rosario ortodosso. Se sei sul pullman, preghi. Se sei all’ufficio postale e stai facendo la fila, hai due opzioni: o ti arrabbi perché l’impiegata è lenta, oppure vedi la fila come una benedizione perché ti stanno dando del tempo per pregare». Per Juri è così: l’Eremo è il luogo dove si ricarica al mattino e dove ritorna nel pomeriggio a ruminare tutto ciò che vive durante la giornata. Nel suo libro scritto a quattro mani con Chiara M., intitolato La cella e il silenzio, afferma: «Sono come un’ape che va in giro nel mondo, a prendere il polline per poi riportarlo nell’alveare e così trasformarlo». A voce aggiunge: «Al mattino esco da casa presto, vado a messa, vengo qui, prendo un caffè nel silenzio, mi organizzo la giornata, poi esco e vado a lavorare in giro, a seconda delle cose che ho da fare nella scuola, negli ospedali… e poi ritorno per ricaricarmi. È bello avere qui il mio ufficio e sapere che oltre il muro c’è la cappella. Ma questo significa che tutti devono avere un eremo? No, io sono convinto che l’eremo non deve essere per forza uno spazio fisico. Per me è un percorso di santità».

Carceri vere

Quando Juri esce dall’Eremo per il suo lavoro, va negli angoli più disparati di Torino: «La mia attività di lavoro coincide con l’attività di Essere Umani, la onlus che ha preso forma con Matteo che collaborava con me già quando io lavoravo in un altro ente». Juri, da sempre impegnato in ambito sociale, quando sentiva che l’organizzazione per la quale lavorava iniziava a stargli stretta si licenziava. L’ha fatto due volte, fino a creare la sua. «Il nome della onlus, Essere umani, ha a che fare con i ragionamenti che ci sono dietro: mi devo ricordare che ho a che fare con gli esseri umani e devo essere umano io stesso. Nelle scuole vado a parlare attraverso le campagne: ad esempio parlo di mediazione dei conflitti in risposta al problema del bullismo. Andiamo a parlare di carcere perché abbiamo l’esperienza del lavoro nelle carceri. Facciamo “didattica sociale”, cioè andiamo a parlare di quello che abbiamo vissuto in prima persona. Ad esempio, parliamo di carcere nelle scuole perché tutti e cinque gli operatori di Essere Umani hanno vissuto e vivono il carcere. Da poco parliamo anche di ospedale: da quando è nato con il Cottolengo un tavolo di lavoro per costruire un percorso di accompagnamento delle persone malate e delle loro famiglie. Siamo partiti con la nostra presenza nel reparto di oncologia dove seguiamo le donne che vengono raggiunte dalla diagnosi di cancro e le loro famiglie, fino a dopo l’operazione. Nel frattempo siamo presenti anche in altri due reparti di lunga degenza fornendo relazioni d’aiuto».

Le carceri sono l’ambito storico di impegno di Juri: «La onlus è giovane, ma l’équipe è vecchia. Matteo lavora con me da 10 anni. Io lavoro al Ferrante Aporti (carcere minorile di Torino, nda) da 18 anni. Inizialmente andavo per proporre attività sportive, poi con il tempo abbiamo iniziato a fare altro, ad esempio lavoriamo con i ragazzi reclusi per i servizi alla struttura, le pulizie interne, la lavanderia, abbiamo fatto un laboratorio sul miele, facciamo accompagnamento allo studio. Nel frattempo, ragioniamo molto se cambiare delle cose, se sviluppare nuovi progetti, nuovi approcci. L’esperienza educativa nella lavanderia funziona così: un operatore sta con un ragazzo per tre ore, tre volte alla settimana. Nove ore alla settimana in un rapporto individuale. Anche il progetto del miele era pensato uno a uno: apicoltore-ragazzo, così anche il sostegno allo studio. Questi però sono progetti complicati da portare avanti, perché nel carcere non ci sono soldi».

Dio abita la quotidianità

Nella ricerca di una dimensione più umana, più profonda, più essenziale del Natale, ci pare che l’Eremo del silenzio, con il suo essere dentro la città, possa forse dirci qualcosa: è un luogo di silenzio immerso nel cuore del baccano quotidiano. La quotidianità qui non è rifiutata o fuggita, ma accolta e abitata attraverso il silenzio che apre la strada a un livello più profondo. Sembra evocare in qualche modo l’incarnazione: l’umanità contraddittoria e dispersa, la città confusa, diviene dimora di Dio.

Così come l’eremitaggio urbano – ci pare di capire – non è il rifiuto dell’urbanità, ma il tentativo di viverla riempiendola di senso, così l’essenzialità del Natale, forse, non sta nel rifiuto superficiale di fare o ricevere regali, di partecipare a banchetti e feste, ma nel vivere tutto questo partendo dal suo senso profondo, compreso nel silenzio, nell’ascolto, nell’accoglienza. Lì si può capire anche quali sono le cose davvero superflue da abbandonare.

Questo eremo sembra evocare l’incarnazione anche per il luogo in cui è sorto. Dio s’incarna, nasce dentro la condizione di uomo, per liberare ogni persona che si trova ristretta in prigioni di ogni tipo.

Chiediamo a Juri un commento sul Natale: «Quando arriva il Natale, con il presepe, il silenzio, la culla, l’asinello, il bue, siamo tutti lì che ci gongoliamo, ma poi facciamo “punto e a capo”, e partiamo con “che cosa regaliamo a tua madre? Che cosa facciamo per i miei genitori? E per i bambini? E per l’amico?”. Io penso che dobbiamo cercare il modo di fare del Natale un momento di vero silenzio. Silenzio personale. Se ci si riesce, è un silenzio che inquieta. Quando tu entri in questo eremo, ed entri in un’ex cella – che rappresenta la tua cella personale, ed è come una “pseudo mangiatornia” -, quando vieni, ti prendi il tempo, stai lì chiuso e stai in silenzio, lì iniziano i problemi, l’incontro con te stesso, cominci a sentirti, con tutti i tuoi pasticci, i pensieri, i problemi… dopo un po’ di decantazione, inizi a capire dove ti trovi, e poi avviene il tuo incontro con Lui.

Il presepe lo vedi quando riesci finalmente a far tacere tutto. La libertà dell’eremita passa dal fare i conti con se stesso. Il Natale dovrebbe essere anche questo: fermarsi realmente, fermarsi per ripartire. Il Natale è l’evento scatenante che rigenera, e non è un caso se nella liturgia c’è tutti gli anni. Perché noi abbiamo bisogno tutti gli anni di ricordarci chi siamo e da dove veniamo e soprattutto cosa abbiamo scelto: Gesù».

Luca Lorusso




Preghiera 20. La preghiera immerge nella presenza dell’Assente

 


Concludiamo la lettura di Mc 4,35-41, iniziata nella puntata precedente (MC n. 11, nov 2018).


Testo di Paolo Farinella, prete


Mc 4,37
Allora sopraggiunse una forte tempesta di vento; le onde si scagliavano contro la barca tanto che ormai era piena.

Si pone il problema della presenza di Dio che il nostro ateismo religioso semplifica nella convinzione che Dio debba intervenire come un orologiaio ad aggiustare le cose della natura, gli errori o le malvagità degli uomini. Quando diciamo: se Dio è Padre (se è buono, se è onnipotente, ecc.), non dovrebbe permettere questo o quello (dolore, sofferenza, cataclismi, ecc.), non siamo consapevoli della bestemmia che proferiamo, bisognosi come siamo di un «dio-jukebox» pronto a cantare la canzone che vogliamo, pigiando un tasto. La presenza di Dio nella barca della vita e della Chiesa non ci risparmia la fatica del cammino personale lungo la nostra storia e il nostro percorso di maturazione con il lavoro che comporta e le regole insite nella vita stessa che è vita «umana», cioè limitata, caduca, mortale.
Essere cristiani non ci mette al riparo dalle tempeste e dalle bufere che ci sovrastano.

Sullo sfondo di questo racconto c’è quello di Giona che scappa da Dio perché non accetta che egli sia «salvatore» dei pagani e si mette a dormire nella stiva (cfr. Gio 1,5) scatenando così una grande tempesta che solo l’ammissione della colpa farà cessare. I credenti rinnegano il loro Dio quando ne vogliono limitare l’anelito universale di salvezza. Nel racconto del Vangelo la colpa della tempesta è determinata dall’incredulità degli apostoli (cfr. Mc 4,40-41) che vorrebbero impedire a Gesù di andare verso i pagani. È lo stesso atteggiamento che moltissimi cosiddetti credenti hanno verso gli immigrati, i poveri del Sud del mondo che vengono, novelli «Lazzari», a mendicare le briciole delle nostre mense (cfr. Lc 16,21) e che assumono la forma della nuova Nìnive, da cui anche noi scappiamo, pensando forse che il Dio di Gesù debba tutelare solo noi, abbandonando gli altri alla deriva, nel cuore della tempesta della povertà.

«12Cristo Gesù: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. 13Qui non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza. 14Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: 15“Colui che raccolse molto non abbondò,
e colui che raccolse poco non ebbe di meno”»
(2Cor 8,12-15).

Al di fuori della logica dell’agàp?, sacramento primo del riconoscimento dell’altro e dell’accoglienza, ogni discorso religioso è un gargarismo vacuo. La tempesta è un’opposizione all’ordine di Gesù: «Passiamo all’altra riva». I Giudei che si ritengono superiori ai pagani non vogliono mischiarsi con essi. In termini moderni è l’aberrazione della civiltà occidentale che si crede superiore alle altre e di alcuni, anche religiosi, che pretendono che Dio s’identifichi con essa. Se così fosse, il Dio di Gesù Cristo rimarrebbe ancora nell’ambito della concezione territoriale o nazionalista: il Dio di una parte, non il «Padre nostro», cioè di tutta la famiglia dei popoli della terra.

Mc 4,38a
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.

Il versetto è drammatico per due motivi: mentre tutto attorno parla di paura e di pericolo mortale, l’evangelista sottolinea il contrasto di un Gesù che se ne sta a poppa, cioè in fondo alla barca, dietro a tutti. E non solo, ma indifferente e disinteressato a quanto accade, se ne sta anche «sul cuscino», che è un non senso in questo contesto. Una barca di pescatori non ha un cuscino per riposare comodi: la barca è sporca, piena di salsedine e nessuno vi porterebbe un cuscino. Poiché è inverosimile, bisogna fermarsi e interrogarsi sul suo senso «nascosto». L’evangelista vuole esprimere qualcosa che probabilmente ha ricevuto dalla tradizione orale, un significato importante. Cuscino (gr. proskefàlaion, lett. capezzale/guanciale/cuscino) è un termine che indica ciò che si mette sotto la testa di un defunto (cfr. Lisia, XII,18).

Detto così, il cuscino e il sonno di Gesù sono un riferimento anticipato alla sua morte e alla sua lontananza: verrà veramente un giorno in cui Gesù non ci sarà più fisicamente e regnerà l’angoscia della persecuzione: «Ancora un poco e non mi vedrete più» (Gv 16,16-20, qui 16).

L’episodio è un’evidente riflessione post pasquale, quando la prima comunità cristiana si interroga su come Gesù, assente fisicamente, possa essere presente nella storia. Come a dire: il Signore è morto, se n’è andato, noi siamo soli in balia delle onde: chi ci salverà? Perché il Signore ci abbandona e non interviene? È il dramma che si consuma sempre nella storia, specialmente nel sec. XX, che ha visto i genocidi pensati scientificamente, la shoàh programmata in ogni particolare. In tutto questo dov’era Dio? Con una formula a effetto si parla di «silenzio di Dio». Già nel capitolo 4, l’evangelista ci mette in guardia sul fatto che andare dietro a Gesù non è una passeggiata, ma un cammino verso la morte e la morte violenta (tempesta). Qui è anche la prova che la vita di Gesù descritta nei vangeli, è illuminata costantemente, a posteriori, dalla luce della Pasqua: morte e risurrezione, che ci vengono offerte come le chiavi per entrare nella dinamica del pensiero di Dio.

Mc 4,38b
Allora lo svegliano e gli dicono: «Maestro, non t’importa che moriamo?».

Il testo greco usa il verbo al presente che dona vivacità e contemporaneità all’azione: «Lo svegliano» (gr. eghèirousin, lett. lo risorgono). Si potrebbe anche tradurre con un drammatico: «Continuano a svegliarlo». Non è sufficiente per loro la presenza assente del Signore, essi lo vogliono vedere all’opera e quindi non si rassegnano alla sua morte. Gli apostoli sembrano dire: come facciamo adesso che tu non ci sei? È un’accusa a Dio di non occuparsi di loro, di lasciarli soli: essi esprimono un senso materialistico della fede. Il versetto dice la fatica che vissero i discepoli nel loro cammino di fede prima di interiorizzare la risurrezione e la presenza di Gesù come dinamica delle proprie responsabilità. Solo dopo la Pasqua con l’irruzione dello Spirito Santo, capiranno di essere responsabili dell’«Assenza-Presenza» del Signore attraverso il sacramento o magistero della testimonianza.

Mc 4,39a
Dopo essersi svegliato, intimò al vento e disse al mare: «Silenzio!/Sta’ zitto!».

Gesù deve risorgere perché i suoi apostoli non sono in grado di reggere la sua morte: sono perduti. Egli deve svegliarsi dal sonno della morte e riprendere in mano la situazione per ristabilire i confini della competenza di Dio e quelli della natura. «Intimò» (da epitimà? – io intimo/minaccio) è un verbo che nella LXX è riservato all’autorità con cui Dio domina le forze negative (Sal 9,6; 67/66,31; 105/104,9; 118/117,21), mentre nel Nt, Gesù lo utilizza negli esorcismi contro le forze del maligno che dominano l’uomo (cfr. Mc 1,25 per l’uomo posseduto e Mc 3,12 per gli spiriti impuri). Il mare è sede degli spiriti malvagi ed è dominato da Gesù che assume su di sé la potenza creatrice di Dio: «Silenzio! Sta’ zitto!». Il verbo greco siôpà?, usato qui all’imperativo «(fa) silenzio/taci!», in Mc 3,4 indica il silenzio ostinato dei farisei: «Essi rimasero in silenzio», un silenzio nemico, ostile, oppositore, un silenzio che è premessa di morte. Il silenzio che impone Gesù è invece quello del suddito che deve obbedienza al suo signore.

Mc 4,39b
Il vento cessò e sopraggiunse una grande calma.

Alla parola autorevole di Gesù corrisponde un fatto: «Il vento cessò». Gesù domina le acque come Yhwh dominò il Mare Rosso (cfr. Es 14,15-31), come il Creatore dominò gli abissi e regolò e rinchiuse entro i confini prestabiliti le acque delle origini (cfr. Gen 1). Gen 1 ha lo stesso schema: «Dio disse …. E così fu!» (Gen 1,3.6-7.9.11.14-16.20-21.24.26-27.29-30). Anche Gesù ordina, intima, comanda e così avviene. Gesù è il senso nuovo del creato e con lui l’ordine della creazione è ristabilito per essere riportato al suo «principio» e al suo fine. Dio non è la risposta ai nostri bisogni; egli è la prospettiva del nostro senso, la direzione del nostro obiettivo esistenziale.

Mc 4,40
Poi disse loro: «Perché siete codardi?
Ancora non avete fede?».

Il termine greco dèilos significa meschino/codardo e indica chi non osa affrontare il nemico (cfr. Dt 20,8; Gdc 7,3; Sir 22,18; Sap 9,14-15). Non basta stare fisicamente con il Signore per avere il coraggio della lotta o vivere un impegno di fede. Si può essere specialisti di Dio, praticanti di molta religione, si possono fare indigestioni di preghiere precostituite, si può passare la vita a imparare a memoria la Bibbia, si può essere specialisti di essa, ma si può anche restare del tutto privi di fede perché fuori dalla prospettiva di Dio e dalla sua logica. Si può essere preti, frati, monaci, monache, vescovi e papi ed essere tecnicamente religiosi, ma sostanzialmente atei. La fede non è uno stato o un accredito, ma un impegno da assolvere e da condividere; non è la conseguenza di un miracolo, ma la premessa di un incontro che la rafforza e la semplifica: avere fede è una questione di cuore perché il cuore ha l’intelligenza della volontà e della ragione (cfr. Lc 24,25.32). Si crede perché si vuole intraprendere un cammino di vita che può solo essere un’avventura d’amore.

Mc 4,41a
E li prese un enorme timore e si dicevano l’un l’altro…

È la stessa paura dei marinai di Giona (cfr. Gn 1,16). È lo stesso stupore e timore degli abitanti di Cafàrnao di fronte alla guarigione dell’indemoniato (cfr. Mc 1,27) o del paralitico (cfr. Mc 2,12). È lo stesso timore e stupore che popola la vita dei discepoli, confermati dopo la risurrezione a superare ogni forma di timore: «Io-Sono. Non abbiate paura!» (Gv 6,20; cfr. Mt 28,5.10). Se fosse vero che crediamo in Dio, nulla e nessuno ci potrebbe smuovere di un solo millimetro dalla trasparenza della testimonianza che non può conoscere né paura né coraggio perché essa esige solo che siamo noi stessi. Sempre. Ovunque.

Mc 4,41b
«Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?».

È la stessa domanda che si pongono i presenti all’esorcismo dell’indemoniato: «Chi è mai questo? … Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (cfr. Mc 1,27). Per conoscere «chi è» Gesù non basta stare con lui e condividerne la vita (cfr. Gv 1,39), è necessario partecipare alla sua azione liberatrice. Per stare con Gesù bisogna essere e agire come lui. I preti sono soliti dire di essere «alter Christus», ma solo in riferimento all’aspetto sacerdotale-eucaristico: «Un altro Cristo», perché il prete consacra il pane. Che povera teologia, quella che riduce la questione dell’identità a un solo aspetto per mettere in sicurezza il prete dalle commistioni col mondo e con la vita reale degli uomini. Questa teologia è servita per condannare i preti-operai col divieto di fare lavori manuali o di vivere la vita dei propri contemporanei, solo perché «le sue mani sono consacrate» (anni ’50-’60 del sec. XX). Oppure per giustificare la gestione «monarchica» del prete nella pastorale e nell’economia. In questo c’è un abisso tra la «singolarità» di Gesù e la nostra stupidità che cerca ogni mezzo per distinguersi dal Gesù della storia a vantaggio di un Gesù addomesticato e, diciamola tutta, all’occorrenza molto comodo perché inoffensivo.

Somigliare a Gesù Cristo, o meglio essere «come lui», significa farsi carico della croce della sofferenza del mondo, diventare cirenei dei poveri della terra e assumere l’annunzio di liberazione del Vangelo per combattere ogni forma di ingiustizia e disuguaglianza per impiantare l’inizio del regno di Dio che ha diritto di cominciare sulla terra per estendersi fino ai confini dell’eternità. Imitare Cristo significa decidere di voler morire per la salvezza e la liberazione dell’umanità che oggi è martoriata, rifiutata e crocifissa nei migranti, carne di Dio vilipesa. Bisogna pescare nel pozzo profondo del proprio essere e divenire una cosa sola con lui che non perde mai di vista il senso della sua vita e non ha paura di sporcarsi le mani.

Conclusione

Nell’intervento di Gesù notiamo che egli prima agisce per ristabilire l’ordine e la calma e poi parla ai discepoli e li rimprovera. Non basta recriminare – specialmente a caldo – bisogna creare le condizioni per una vita reale. Un secondo elemento è dato dalla personificazione degli elementi della tempesta: il vento e il mare ai quali Gesù parla sono descritti come se fossero persone. Ciò ci fa supporre fondatamente che il racconto sia da leggersi in modo figurato anche perché Mc usa lo stesso termine per descrivere il silenzio ostile dei farisei (cf Mc 3,4). I farisei anteponevano la struttura «religione» alla persona: l’osservanza materiale della Toràh prima di ogni cosa. Allo stesso modo il popolo ebraico e i primi cristiani non immaginavano che anche i pagani potessero accedere alla salvezza con gli stessi diritti e le stesse prerogative. Gli apostoli, da veri ebrei religiosi, sono sulla stessa linea.

Con questo racconto simbolico, post pasquale, scritto quando già Paolo aveva evangelizzato i pagani della Turchia e della Grecia, l’evangelista ci presenta il vento/pnèuma come parallelo dello spirito impuro che si è impossessato dei discepoli, la cui mentalità ristretta e chiusa provoca la reazione del mare, simbolo del mondo pagano. Gesù usa una forza veemente solo nei confronti del vento: «Silenzio!/Sta’ zitto», invece al mare Gesù non fa alcun rimprovero o intimazione. Il testo greco annota solo che «disse al mare»: cioè sollecita i popoli pagani a calmarsi perché egli ha messo il vento al suo posto. È come se l’evangelista volesse informare le nazioni pagane che la reazione del vento non gli appartiene perché il suo messaggio è universale, senza confini, aperto a tutti, senza esclusione di alcuno. In fondo credere non è difficile: basta lasciarsi amare e prendere in carico da qualcuno che ne abbia voglia e desiderio. Per questo bisogna invocarlo e chiederlo nella preghiera. Questo è il senso ultimo dell’Eucaristia: prendere coscienza che Dio si prende cura di noi per avere la forza di prenderci cura degli altri.

Per la lettura personale. In tutto il brano, riletto ancora una volta a livello del cuore, scelgo un elemento o un personaggio che corrisponde alla mia situazione (discepoli, Gesù, barca, vento, mare, paura, ecc.) e mi metto a confronto. Chi sono io? Chi è Gesù per me? È il perno portante della mia vita o un corollario di seconda scelta?

Signore, sono qui, non ho nulla per te, se non me stesso, so che tu mi accetti come sono e che mi trasformi come devo essere senza violentarmi, senza prevaricare. Mi abbandono a te perché mi fido, sapendo che la mia fiducia, riposta sul cuscino della tua Presenza, accompagna il mio cammino nella vita e nella morte per una esistenza di pienezza che vale la pena vivere.

 

Cielo da casa Gabry


Alle lettrici e ai lettori di MC

Con questa puntata si chiude la mia collaborazione con la rivista, iniziata a febbraio 2005, 13 anni completi. Ricordo come fosse oggi quando il redattore Paolo Moiola inventò la rubrica «Così sta scritto», appositamente per me, e l’entusiasmo di padre Benedetto Bellesi che non solo accettò, ma volle che fosse una rubrica biblica «e di esegesi», lui che ogni giorno pregava con il vangelo greco. Alla sua morte, vissuta con grande testimonianza cristiana, alla direzione di MC gli succedette padre Gigi Anataloni, che ha sempre avuto benevolenza nei miei riguardi, facendomi a volte anche da scudo. A loro voglio bene e restano amici del cuore.

Alle lettrici e ai lettori di MC sono particolarmente grato perché mi hanno costretto a pensare e a scrivere dal loro punto di vista, con un linguaggio semplice e mai ricercato, almeno nell’intenzione. Ho vissuto la responsabilità di entrare nelle loro case e nelle loro letture con «timore e tremore», senza per altro mai venire meno al mio dovere d’integrità e di fedeltà alla Scrittura. Tutti ogni giorno sono stati e continueranno a essere presenti nel mio cuore e nella mia preghiera perché non si può condividere la Parola per 13 anni e poi fare finta di niente.

La decisione di interrompere la mia collaborazione è stata condivisa con la redazione di MC per due semplici motivi.

  • Ho detto loro che le lettrici e i lettori di MC avevano il diritto di sentire altre voci, altri stili, altri metodi, anche come segno interiore di rispetto e di amore verso di loro, in totale spirito di servizio.
  • Il secondo motivo è la mia salute che da tempo è barcollante: è necessario che riduca gl’impegni e inizi a prepararmi all’esodo verso quel regno di Dio che è già cominciato con Gesù e di cui sono sempre stato strenuo annunciatore.

So che hanno cercato e trovato un altro biblista, che, sono sicuro, saprà meglio di me essere in sintonia con la Parola e con il meraviglioso pubblico di MC. A lui il mio affetto e la mia gratitudine, anche senza conoscerlo, perché sia che spieghiamo sia che leggiamo, siamo tutti figli e servi della Parola che si fa storia in e tra di noi. Continuerò a leggere la Rivista per sentirmi a casa e respirare l’afflato mondiale, «cattolico», che MC sa dare in modo eminente. È una bella rivista, tra le più belle esistenti, che vale la pena «lasciare in eredità» a chi viene dopo di noi perché ci permette di non ripiegarci su di noi, ma di respirare con i polmoni della Chiesa del Vangelo: il respiro del mondo, il respiro di Dio. Se volete fare un vero regalo a figli e nipoti regalate loro MC che li fa viaggiare nel mondo con una informazione di prima mano e di rilievo.

Nell’augurarvi un Natale nel segno dell’incarnazione, un abbraccio affettuoso, garante, ogni giorno, della mia preghiera, specialmente nell’Eucaristia, con e per voi come per le persone che amate. A tutti con immenso affetto,

Paolo Farinella, prete,
grato per la vostra pazienza. [La Preghiera-20 – FINE]

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Sorella morte


Così san Francesco chiamava la morte, sorella. Come ha chiamato sorella l’acqua, ma mentre le sue parole sull’acqua, sul sole e la natura sono diventare patrimonio comune, immortalate in bellissimi canti, la sua affettuosa familiarità con la morte non ha fatto presa. La morte è più matrigna cattiva che sorella. Eppure la morte è parte del vivere.
Un giorno, una signora che ha fatto l’ostetrica per tutta la vita, mi ha raccontato che alla prima lezione di ostetricia l’insegnante aveva detto: «Ricordatevi che si nasce per morire». Non se l’aspettava, perché era là per imparare ad accogliere la vita, ma con quella frase l’insegnate aveva, quasi banalmente, collocato la morte al suo posto naturale.

Non sono in vena di pensieri tristi, anche se novembre è associato alla morte e alla visita ai cimiteri, ma oggi il pensiero della morte non mi dà né tristezza né ansia. Anzi, al contrario, il pensiero della morte mi stimola a vivere meglio e con maggiore intensità una vita degna di questo nome.

Ogni momento come se fosse il primo, ogni momento come se fosse l’ultimo. Con intensità e scopo, senza ansia o frenesia. Gustandolo, perché «ora» è il momento più bello possibile. Senza sprecare tempo nell’attesa del giorno fortunato, dell’occasione, della situazione ideale. Questo momento è un dono unico. È un dono, non un peso, da vivere facendo le «opere belle» che rendono gloria a Dio (cfr. Mt 5,16), scegliendo cioè «tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode» (Fil 4,8). Vivere al massimo, ora, senza aspettare domani, prepara a morire per andare nelle «buone mani» di Dio. Mani sulle quali è scritto il mio nome.

Sorella morte, grazie perché sei un invito a vivere. E a vivere «bene» e in «bellezza». Anche se non è facile. Ci sono giorni di grande fatica in cui sembra che il sole non sorga. Giorni in cui ti guardi intorno e vedi gente senza gioia vivere con aggressività, con atteggiamenti autolesionisti, senza amore, senza un sorriso, senza speranza. Gente incapace di guardare in alto, presa com’è dai suoi traffici, dai suoi interessi, dalle sue paure. E ti sembra che i tuoi sforzi «per un mondo migliore» siano inutili. Ti domandi «chi me lo fa fare?». Ti verrebbe la voglia di chiuderti in te stesso, di smetterla di preoccuparti per gli altri, eterno Don Chisciotte che lotta contro «i mulini a vento». E senti forte il peso della solitudine.

Ma tutto cambia se proprio nei giorni bui incontri un volto sorridente e una faccia amica, se hai attorno a te persone che condividono i tuoi stessi sogni, un gruppo, una comunità di fede e di amore che guarda nella stessa direzione.

Avere una comunità che ascolta la stessa Parola, celebra la stessa Speranza, vive la stessa Carità, brucia della stessa Fede. Con la quale ridere e piangere, pregare e amare, lottare e sognare. Che ti carica sulle spalle quando sei stanco o quando cadi e ti chiede il meglio di te quando sei forte. Una comunità dove si cammina insieme e ognuno dona quello che è, senza arrivismi e competizioni. Un «popolo» che fa esperienza di esodo passando dall’essere un branco di «belve» a una famiglia di «uomini».

Tutto cambia quando incontri una comunità che è Chiesa, una Chiesa che è comunità.

Sorella morte, quanto vorrei che tu fossi per ciascuno di noi una vera maestra di vita, e non, come succede spesso, una scusa per diventare egoisti, attaccati alle nostre cose, arroccati nel nostro io, timorosi di tutti, chiusi nel nostro «particolare». Insegnaci a vivere con intensità e amore ogni attimo, qui e ora, costruendo relazioni di fraternità con chi cammina con noi, accettando la nostra debolezza e quella degli altri, costruendo ponti e abbattendo muri e barriere, curando questa casa che ci è stata affidata perché sia il posto sempre più bello in cui vivere insieme nell’attesa.
Aiutaci ad essere pronti a nascere alla Vita. Tu che sei la porta della luce, facci entrare nel giardino di pace e armonia nel quale, carichi solo dell’amore donato, come bambini finalmente ci buttiamo nelle braccia del Padre che tanto ci ama e ha preparato per noi la festa più bella.




Preghiera 19. La preghiera traghetta nelle tempeste della vita


Proseguendo la puntata precedente [MC, ottobre 2018], continuiamo l’immersione nella Parola di Dio, pregando con il racconto della tempesta dominata da Gesù, come la racconta Marco (cfr. Mc 4,38-41), il primo degli evangelisti scrittori, che c’impegna in questa e nella prossima puntata del mese di dicembre. Gesù ha un progetto di mondo, di vita e di relazioni che chiama «regno di Dio». Esso riguarda tutta l’umanità, non è riservato a una categoria (religiosa, sociale o etnica), ma per sua natura è universale, quasi a dire che il Dio di cui è testimone si colloca al di sopra di ogni differenza o etnia storica: «Sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te» (Os 11,9). A questo progetto universale di «ben-essere» si oppongono le malattie, il sopruso, la povertà, la morte, la paura, il dubbio dell’assenza di Dio, il senso di abbandono anche da parte di Dio. Tutto attorno crolla, tutto è liquido come il mare. Chi si sveglia nel cuore della notte per recare soccorso? Chi grida al mare di tacere?

Nei Sinottici (Mc, Mt e Lc) il racconto della tempesta sedata è seguito dal racconto dell’esorcismo dell’indemoniato di Geràsa (Mc 5,1-20). Gesù domina le forze della natura (mare e tempesta) e le potenze che sottomettono l’uomo (i demoni). C’è un motivo teologico dietro questo schema: l’uomo Gesù testimonia la potenza di Dio che è sempre in uno «stato di esodo»: libera la creazione e l’umanità dalla schiavitù del male che le imprigiona. L’evangelista attribuisce a Gesù gli stessi poteri che l’AT attribuisce a Dio, creatore dell’universo e liberatore del suo popolo Israele, perché, come lui, impone alle acque di ritirarsi e, come lui, si prende cura di tutti gli Àdam e le Eva di ogni tempo, offrendo loro un giardino di felicità (cfr. Gen 1-3) che chiama «regno di Dio».

Siamo certi che l’interpretazione sia questa perché lo stesso evangelista (cfr. Mc 1,24-27) ha già descritto un racconto di esorcismo con la stessa struttura del racconto della tempesta. Solo leggendo in parallelo i due testi, si rende evidente l’obiettivo spiccatamente teologico di Mc, interessato a presentare Gesù come il rinnovatore dell’intera storia della salvezza. Egli, infatti, con la sua presenza e la sua testimonianza riporta il creato alle condizioni originarie, al loro «principio», domina gli spiriti del male che rendono schiava l’umanità, come fece il serpente nel giardino di Èden (Gen 3). Nello stesso tempo impone la propria autorità agli elementi della natura che gli ubbidiscono come avviene nel racconto sacerdotale della creazione (Gen 1), dove si afferma che tutto esistette in forza della parola: «Dio disse… e così fu» (Gen 1,3-29). «Parola e fatto», in ebraico «Dabàr». In Dio la Parola è sempre un fatto, mai è vana. Questo dovrebbe farci riflettere sul nostro concetto di preghiera, perché spesso le nostre sono solo parole vacue, stanche se non «morte parole».

Due racconti, un insegnamento

Gli ebrei e i cristiani che conoscevano molto bene la Bibbia ebraica e quella greca della LXX, erano spinti in questo modo ad abbinare la persona di Gesù con Yhwh creatore (cosmo), liberatore (esodo) e salvatore (Sinai). Ecco i due racconti in sinossi.

Tempesta sedata (Mc 4,38-41) Schema Esorcismo indemoniato (Mc 1,24-27)
4,38 Lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Rimproveri

a Gesù

1,24 «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio!».
4,39 Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Minacce

di Gesù

1,25 E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!».
4,39b Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Obbedienza

a Gesù

1,26 e

1,27b

E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui…
4,41 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare obbediscono?» Timore

e stupore

1,27a

 

1,28

Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!»

Gli stessi rimproveri di Gesù si trovano nella guarigione dell’uomo dalla mano inaridita (cfr. Mc 3,11-12). I due miracoli sono costruiti sullo stesso schema, hanno lo stesso significato e rispondono alla stessa domanda fondamentale: chi è Gesù? Con questi racconti, Mc risponde che Gesù è l’inviato di Dio, mandato a riprendere in mano l’opera creatrice iniziale compromessa da Àdam ed Eva. Questi rimasero sotto l’influsso e il dominio di Satana-serpente, ora il Figlio di Dio libera i loro figli dall’antico serpente/spirito impuro che vive nelle acque inferiori che domina la vita dell’uomo e la natura. La creazione, per responsabilità dei progenitori, fu assoggettata alla decomposizione (cfr. Rm 8,20-23) perché il peccato di Àdam ed Eva immise nel mondo la corruzione, la distruzione e la morte (v. diluvio in Gen 6,5-7,24) rimanendo sotto l’influenza delle potenze malvagie (cfr. Gb 38,1-11; Rm 8,19-23), mentre ora le potenze del male e della natura ritornano a essere sottomesse al «nuovo» creatore, venuto per introdurle in un regime di vita e di risurrezione che si chiama «regno di Dio» e che bisogna conquistare con determinazione (cfr. Lc 16,16 e Mt 11,12).

Preghiera:

Signore, se guardo la mia vita, la mia giornata, il mio lavoro, mi accorgo che, forse più spesso di quanto io stesso non creda, non «sento» la tua presenza e forse ti considero un «intruso», un ostacolo, specialmente quando sono costretto a scegliere tra i princìpi della coerenza credente e gli interessi della logica del mondo, secondo cui «così è la vita o così fan tutti». Mi accontento di una vita ordinaria, oserei dire banale. Spero anche che tu dorma, tranquillo sulla barca e io, pur rischiando, mi adagio nel mare del compromesso, del male minore, del conformismo, del silenzio complice, del «non posso farci niente». Mi è comodo pensare e credere che «il regno» tuo sia qualcosa da venire, oltre la morte, qualcosa che «tanto chi può verificarlo?». In fondo, vado a Messa, qualche volta prego, mi confesso ogni tanto. Di più non posso. Non mi accorgo che non si tratta di più o di meno, ma solo di «essere» e di apparire chi non sono.

Le quattro chiavi di Dio e di Gesù

Gli antichi nella loro concezione del mondo pensavano che il cielo fosse una calotta sferica trasparente capace di trattenere le acque superiori (pioggia), mentre, dalla parte opposta, i mari raccoglievano le acque inferiori, sede degli spiriti maligni e dimora del dragone apocalittico (cfr. Is 27,1; Ap 20,2-3). La calotta sferica celeste poggiava su colonne piantate sulla terra piatta che così formava una membrana divisoria tra «acque superiori» e «acque inferiori» (cfr. Gen 1,7). È lo schema usato da Dante per la Divina Commedia. Scende la pioggia perché Dio, che governa le acque, apre le cateratte del cielo e fa scendere la pioggia. Vi è, invece, la morte causata da carestia e siccità, quando Dio chiude le cateratte col chiavistello. Solo alla luce di questa concezione si capisce il Targum neòfiti (e anche il Targum frammentario) che commenta Gen 30,22 che dice: «Poi Dio si ricordò anche di Rachele, la esaudì e aprì il suo ventre». Così il targumista, ancora al tempo di Gesù, commentava questo versetto nella sinagoga:

Quattro chiavi sono nelle mani di Yhwh, signore dei secoli. Esse non sono affidate nemmeno a un angelo o a un serafino: la chiave della pioggia, la chiave del nutrimento, la chiave dei sepolcri e la chiave della sterilità. La chiave della pioggia perché è detto: Yhwh aprirà per voi il buon tesoro dei cieli (Dt 28,12). La chiave del nutrimento perché è detto: Tu apri la tua mano e sazi ogni vivente (Sal 145,16). La chiave dei sepolcri, perché è detto: Ecco, aprirò i vostri sepolcri e vi farò uscire. La chiave della sterilità, perché è detto: Yhwh si ricordò di Rachele nella sua misericordiosa bontà e Yhwh ascoltò la voce della preghiera di Rachele e decise per la sua parola di darle dei figli.

La tradizione delle quattro chiavi è presente in tutto il vangelo, che, pertanto, non può essere compreso se non alla luce non solo dell’AT, ma anche della tradizione giudaica:

La chiave dell’acqua:
«Disse al mare: “Taci, calmati!”» (Mc 4,39).

La chiave del nutrimento:
«Io sono il pane della vita» (Gv 6,35.48.51).

La chiave dei sepolcri:
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25).

La chiave della sterilità:
«Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, questi porta molto frutto» (Gv 15,5.2.4.8.16; cfr. Gv 12,24; Mt 13,23; Mc 4,20).

Nota esegetica:

Il termine «chiave» in ebraico si dice «maptèach» il cui acròstico (o natàricon) dà il seguente risultato:

MA       = MA?àr                      = Pioggia
P          = Parnàsa                   = Nutrimento
TEA      = Tehiàt hAmetìm     = Resurrezione dai morti
CH        = CHayyìm                 = Viventi

Le quattro chiavi che Yhwh non affida nemmeno a un angelo, sono nelle mani di Gesù che quindi è fiduciario di Yhwh che rende visibile e con la stessa potenza: in questo modo il vangelo di Marco intende affermare la sua divinità. I primi cristiani, infatti, provenivano dal giudaismo ed era facile che anche negli ambienti ebraici di lingua greca si fossero mantenute non poche tradizioni del giudaismo. Entriamo, ora, nel vivo del Vangelo (Mc 4,35-41) dando una traduzione più attenta, letterale, anche se meno estetica (cfr. Juan Mateos-Fernando Camacho, Il Vangelo di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico, vol. 1, Cittadella Editrice, Assisi 1997, 398-515).

Mc 4,35:
«In quel giorno, venuta la sera, disse Gesù loro: “Passiamo all’altra riva”».

La giornata è finita e invece di andarsene a riposare, come sarebbe giusto, Gesù invita i suoi discepoli a passare all’altra riva. Due versetti prima era sceso il buio dell’incomprensione, tanto che ai discepoli aveva dovuto spiegare le sue parabole in privato: «Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa» (Mc 4,33-34). Ciò, forse, può voler dire che per capire bisogna sapere già prima cosa si vuole, perché non c’è sordo peggiore di chi non vuole sentire. Viene sempre la sera come simbolo della morte e impone da sé il bilancio della giornata che anticipa quello della vita. Se si resta fermi dove si è stati non solo non si va avanti, ma si resta indietro. Bisogna avere coscienza che alla fine del proprio dovere, dell’impegno della propria coscienza, dopo che si è fatto tutto quello che potevamo e dovevamo (cfr. Lc 17,10), bisogna con tranquilla pace, avere ancora lo sguardo attento a scorgere «l’altra riva», perché il mondo non è cominciato né finisce con noi; c’è un futuro che aspetta di essere generato. Se è vero come dice Dante: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78), è ancora più vero che per il testimone c’è sempre un’altra riva che aspetta e solo l’orante ha barca e remi pronti per partire e arrivare.

La riva è sempre dall’altra parte se siamo disposti a «passare» le acque, cioè l’instabilità, l’insicurezza, la fragilità, l’incertezza, la paura di affogare, la mancanza di forze o forse di coraggio: in una parola, superare noi stessi. «Passare all’altra riva», significa non fermarsi e non smarrirsi su ieri e sul passato su cui non abbiamo alcun potere, ma assumere la dolcezza intrigante dell’avventura del domani e cominciare a esplorare la vita che non c’è ancora, nel segno dello Spirito che guarda al Regno di Dio, non al teatro delle debolezze umane. Pregare è «passare oltre» che è il significato di «Pesàch – Pasqua». Pregare, cioè andare all’altra riva, è, dunque, un comandamento di risurrezione, un’esigenza della vita e una vocazione alla disponibilità dell’accoglienza di ciò che la Provvidenza propone. I genitori che volessero i figli uguali e identici a se stessi, si illudono di potere fermare la vita, perché i figli sono già «oltre» i loro sogni e i loro orizzonti: sono «immagine e somiglianza di Dio» che essi possono solo adorare, contemplare, amare, sostenere, guidare. Mai fermare. Se è vero che senza passato non possiamo concepire il futuro – in questo senso il futuro è dietro di noi – quando ci avventuriamo nei sentieri imprevedibili di Dio, dobbiamo lanciarci non solo verso il futuro, ma addirittura verso l’escatologia, cioè verso il compimento finale che è la pienezza del passato e del presente. Il «regno di Dio», appunto.

Mc 4,36:
«Lasciando la folla, lo portarono via così com’era, nella barca, mentre stavano altre barche con lui».

Il successo, la vanità, l’auto-celebrazione sono fuori della logica di Gesù e del missionario-testimone. Queste debolezze sono tipiche del mondo pagano e dell’ambiente clericale-curiale che confonde la «Gloria di Dio» con la propria vanagloria; anzi, fa della «Gloria di Dio» il trono della propria vanità. Gesù non ha niente da portare con sé, se non se stesso: «lo presero con sé così com’era». Egli non è appesantito da bagagli e da bisogni: il suo bisogno è «andare all’altra riva», avanti a sé, nella barca, dove può anche apparire assente, se non si sa cogliere la sua presenza e le esigenze del suo essere. Per sfuggire all’inganno dell’illusione, è necessario avere qualcuno che «ci prenda con sé e ci porti sulla barca». Da soli possiamo più facilmente sbagliare, ma se ci lasciamo accompagnare da altri, allora è facile salvarsi. Nei momenti di fallimento, bisogna anche sapersi lasciare condurre, affidandosi. Noi, ciascuno di noi, siamo i custodi dell’altro che, per natura, ma lo diventa anche per grazia, è «la parte migliore di noi». Custodendo l’altro nella barca, cioè nella Chiesa, negli affetti, nella relazione, nell’amore, nel dovere, nell’amicizia, nel servizio, custodiamo il cuore di Dio e diventiamo «padri/madri adottivi» di quanti incontriamo. Gesù è capace di separazione e di lasciarsi trasportare dai discepoli che lo allontanano dalla folla e dalle altre barche. Quando l’autorità che governa la Chiesa saprà, sull’esempio di Gesù, affidarsi e fidarsi dei propri figli e discepoli, quel giorno, cominceranno a sorgere la terra e i cieli nuovi previsti dal profeta (cfr. Is 65,17; 66,22).

Preghiera attualizzante

Anche per me scende la sera e ho davanti due possibilità: dormire o passare all’altra riva. Alla presenza dello Spirito, cerco d’individuare le volte e le ragioni in cui mi sono addormentato per essere comodo, non disturbato e in che circostanze e con quali motivazioni, invece, ho deciso di passare all’altra riva.

La folla, cioè il bisogno di conferma, di approvazione o di adulazione o di sentirsi indispensabile, quanto posto occupa nella mia vita, nell’operare il mio lavoro, il ministero? Mi lascio portare come sono dallo Spirito o devo avere tutto sotto controllo perché «senza di me nulla è possibile fare?». Il mio potere di accentramento in una scala da 1 a 10, a che misura lo colloco?

La vanità è un valore per me? È così importante da adularla anche facendo finta di essere umile? Mi sono mai servito di «Dio» per imporre il mio pensiero, una mia idea, un mio sopruso?

Signore Gesù, custode delle quattro chiavi di Dio (acqua, pane, morte e vita), tu «che scruti le reni e il cuore» (Ger 11,20) e «conosci il mio cuore e i miei pensieri» (Sal 139/138,23), fa che nulla mi distragga da te e dal mio cammino verso di te perché possa imparare a imitarti come solo lo Spirito tuo può indicarmi e non la vanità che spesso si annida nelle forme più subdole di una spiritualità accomodante.

L’Eucaristia racchiude tutte e quattro le chiavi perché spezza il pane, disseta con acqua e vino, dona la vita e sconfigge la morte. Quante volte la «uso» con leggerezza, con abitudine, con distrazione, con fretta perché «urge» altro nella mia vita? Quante volte ho fatto in fretta per «sistemare le cose con te» e poi potermi dedicare ai miei affari, alle mie capacità, cioè ai miei interessi?

Temo la solitudine perché ho paura di me e questa non può che essere terrore di te, e per tenerti buono cerco di comprarti in qualche modo con preghiere raccogliticce, con tempi-scarto, dedicandomi a te tra un affare e l’altro. Signore, è tempo di purificazione e di verità, è tempo per me che io passi all’altra riva dentro la tua barca, così come sono. Signore, per favore, prendimi per mano e precedimi perché da solo non sono in grado e io sono troppo lontano anche dagli altri, dalla mia comunità, da quella Chiesa che spesso uso come stazione ferroviaria per timbrare un biglietto per un treno che non mi porta a te, ma mi fa tornare a me stesso. Sì, andiamo all’altra riva. Andiamo insieme, Signore Gesù: «Maranàh, thà. Signore, Vieni!» (1Cor16,22).

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-9].




Preghiera 18. Pregare: lasciarsi accostare dalla Parola e… dalla volpe


Nella 4ª puntata del maggio scorso abbiamo commentato il racconto della tempesta del mare di Mt 14,22-33 nel quale Gesù fu scambiato per un «fantasma», cioè un’inconsistenza, fonte di paura. Per restare sempre sul tema «mare», oggi proviamo ad accostarci al testo di Mc 4,35-41 (che trova i paralleli sinottici in Mt 8,18.23-27 e Lc 8,22-25). Considerata, però, la ricchezza del brano, dobbiamo dividerlo in due puntate (questa e la prossima, di novembre 2018).

Il progetto del regno di Dio e i suoi ostacoli

Purtroppo, non conoscendo la Scrittura e abituati a una lettura superficiale e letterale, siamo propensi a leggere i Vangeli come racconti storici, senza alcun «distinguo». Anche senza volerlo, in questo modo, vanifichiamo il significato che l’autore o gli autori hanno inteso dare ai loro racconti che non sono finalizzati a fare «la storia di Gesù», ma a dire chi è Gesù per loro, per chi crede in lui e per chi vorrà credere in futuro: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29). In parole semplici, i Vangeli hanno lo scopo di suscitare interesse per la persona di Gesù con l’obiettivo, volendogli bene, di assumere il suo messaggio come criterio di vita e progetto sociale: costruire un mondo «su misura di Dio» che significa solamente impegnarsi a fare della terra il «giardino di Èden» che Dio ha avuto in mente fin dall’eternità per tutto il genere umano di tutti i tempi.

Costruire il regno di Dio, significa appunto fondare i rapporti umani e relazionali sulla roccia della condivisione, della fraternità e della giustizia. Il mondo laico, pur con le sue contraddizioni, misfatti, genocidi e aberrazioni atroci, ci ha provato diverse volte: con la rivoluzione francese del 1789 ad esempio, e con il motto «Liberté, Égalité, Fraternité». Anche con la rivoluzione russa del 1917/18, che, col progetto del messianismo mondiale, ha cambiato il corso della storia (e sappiamo come, proprio perché nessuno seppe cogliere l’enorme massa di speranza che aveva seminato, neanche purtroppo la Chiesa). La mattanza sulla quale la rivoluzione russa si è fondata non elimina l’anelito di giustizia messianica che portava. È necessario, infatti, che la prospettiva «rivoluzionaria» superi l’orizzonte della «sostituzione»: scalzare questi per metterci quelli, escludendo il «bene comune», unica prospettiva di decenza umana. Il Vangelo non ci dice solo che Gesù ha fatto miracoli strepitosi o risuscitato morti, ma attraverso questi modi di narrare, che Pio XII chiamò per la prima volta, in maniera ufficiale, «generi letterari», ci vuole fare sperimentare che lui è la «novità», il kairòs della nuova irruzione di Dio nella storia, la sua Presenza:

«Quale sia il senso letterale di uno scritto, spesso non è così ovvio nelle parole degli antichi orientali com’è per esempio negli scrittori dei nostri tempi… l’interprete deve quasi tornare con la mente a quei remoti secoli dell’Oriente e con l’appoggio della storia, dell’archeologia, dell’etnologia e di altre scienze, nettamente discernere quali generi letterari abbiano voluto adoperare gli scrittori di quella remota età. Infatti gli antichi Orientali per esprimere i loro concetti non sempre usarono quelle forme o generi del dire, che usiamo noi oggi; ma piuttosto quelle ch’erano in uso tra le persone dei loro tempi e dei loro paesi. Quali esse siano, l’esegeta non lo può stabilire a priori, ma solo dietro un’accurata ricognizione delle antiche letterature d’Oriente» (Divino Afflante Spiritu, Enciclica, 30-09-1943, parte II, § 3).

Con questa premessa, ci accingiamo a pregare con il seguente brano:

Mc 4,35Venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti»? 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare obbediscono?».

Passi lenti e profondi

  1° passo

Non fermarsi al solo testo indicato, ma vedere cosa precede e cosa segue per comprendere il contesto prossimo e remoto del brano. Il racconto della traversata del mare è preceduto dalle parabole del regno: il seme e le varie tipologie di terreno con relativa spiegazione ai discepoli; la lampada sotto il moggio o sopra il candelabro; di nuovo il seme che cresce, anche se il contadino dorme; il granello di senape (Mc 4,1-34). Il brano è seguito da racconti di guarigione: due indemoniati (Mc 5,1-20); l’inizio del racconto della guarigione della figlia del capo della sinagoga, Giàiro (Mc 5,21-24); un intermezzo con la guarigione della donna con perdite di sangue (Mc 5,25-37); ripresa del racconto di guarigione della figlia di Giàiro (Mc 5,38-43) e le non guarigioni per mancanza di fede a Nazareth (Mc 6,1-6). Questo è il contesto, prossimo e remoto: da una parte c’è il progetto (seme, lampada, senape), dall’altra gli ostacoli e la resistenza (malattia, schiavitù/indemoniati, morte, incredulità). Non abbiamo qui lo spazio per mettere a confronto Mc con Mt e Lc ed evidenziare la diversità di obiettivi e di lettura del materiale stesso, per cui ci limitiamo solo a Mc.

  2° passo

Individuato il contesto, leggere il brano tenendo conto dell’insieme e cercando di leggere le connessioni tra le diverse parti, in base al principio che se l’autore ha scelto «questa» composizione, aveva in mente una visione, un obiettivo, una strategia. Quale potrebbe essere, secondo me?

  3° passo

Rileggere il testo, così contestualizzato, e cercarne il senso nel contesto della mia vita e del mio tempo. La Parola di Dio, infatti, è per me «qui e adesso», una Parola rivolta alla mia intelligenza, al mio cuore, alla mia ragione per viverla oggi, nella mia vita e nel contesto della storia del mio tempo.

  • Quale tempesta rovescia oggi le barche in mezzo al mare?
  • Chi dorme sul cuscino?
  • Chi si sveglia e tiene a bada il mare, facendo cessare il pericolo?
  • Dove sto io?
  • Se Gesù non fosse stato sulla barca «così come era», cosa sarebbe successo?
  • È lecito domandarsi se questo brano, proclamato nella Liturgia nella 12a domenica del tempo ordinario dell’anno B, abbia un impatto su quello che sta avvenendo nel «Mare Mediterraneo»? Oppure questa osservazione mi dà fastidio? Perché?
  • Quasi sempre la Parola di Dio non è casuale, ma come «spada a doppio taglio» (Eb 4,12), inchioda alla domanda di fondo: «Chi sono io?». È lecito di fronte a questo testo chiedersi: se Gesù fosse su una barca in pieno Mediterraneo, cosa farebbe? Poiché credere in lui significa «imitarlo», le conseguenze pratiche non sono neutre per la fede.

  4° passo

Rileggere lentamente e individuare le parole, specialmente i verbi, ma anche le altre parti del discorso, che sembrano più attinenti alla nostra condizione. Esclusi i verbi ausiliari e servili, restano 21 verbi che esprimono altrettante azioni, cioè movimenti, emozioni, decisioni, scelte. Ci limitiamo ad essi: passare, congedare, prendere con sé, rovesciarsi, essere pieno, starsene, dormire, svegliare, importarsi, essere perduti, destarsi, minacciare, tacere, calmarsi, cessare, avere paura, non avere fede, intimorirsi, essere, obbedire. Quale emozione suscita in me, ogni singola azione, espressa dal verbo? Tra di essi ce n’è uno che mi qualifica in modo particolare? Rileggo la mia vita alla luce del verbo o dei verbi per me qualificanti, in base al passo seguente.

  5° passo

Il criterio di Ezechiele: mangiare la parola, esattamente come si mangia l’Eucaristia, che poi sono la stessa cosa, perché, come Lc 24 narra nel racconto dei discepoli di Èmmaus, udire la Parola e spezzare il pane sono modi diversi della stessa intimità. Nell’Eucaristia noi facciamo due volte la «comunione»: una volta con le orecchie, ascoltando la Parola-Lògos che è il Figlio, proclamato sul mondo e una volta con la bocca, mangiando il pane e bevendo il vino, simboli reali dell’intima unione, attraverso la Chiesa, del genere umano con Dio (Lumen Gentium, 1).

«2,1Mi disse: “Figlio dell’uomo, alzati, ti voglio parlare”. 2A queste parole, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava… “apri la bocca e mangia ciò che io ti do”. 9Io guardai, ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. 10Lo spiegò davanti a me; era scritto da una parte e dall’altra… 3,1Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, va’, recati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole”» (Ez 1,1.9-10; 3,1-4).

Il criterio di Ezechiele

Nel criterio di Ezechiele vi è una concatenazione logica ferrea: il parlare di Dio genera l’irruzione del suo spirito nel profeta che deve alzarsi in piedi, la posizione dell’orante, pronto all’ascolto. Le azioni conseguenti sono: aprire la bocca e mangiare il rotolo, che – attenzione! – è scritto davanti e dietro, cioè è parola abbondante e completa. Dopo aver mangiato non ci si può fermare a fare la pennichella, ma bisogna andare, andare alla comunità con la quale condividere ciò che si è mangiato. Gesù ha un progetto che si chiama «regno di Dio» e riguarda tutta l’umanità. Vi si oppongono le malattie, il sopruso, la povertà, la morte, la paura, il senso di abbandono anche da parte di Dio, il dubbio stesso dell’assenza di Dio. Tutto attorno crolla, tutto è liquido come il mare. Chi si sveglia nel cuore della notte per recare soccorso? Chi grida al mare di tacere per non mettere a rischio la vita dei discepoli?

Nel progetto di Dio non si mangia per saziarsi, nessuno è chiuso in sé, si mangia per vivere, per andare, per condividere: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo. [Prendete e] bevetene tutti… questo è il mio sangue dell’alleanza» (Mt 26,26-28). Tutto è connesso e tutto si tiene: l’ascolto/mangiare, prendere coscienza e andare in missione nel mondo a dire con la vita che Gesù «è il Signore» (Gv 21,7). Ascoltare e mangiare, nella Bibbia, sono sinonimi perché bisogna «stare sulla Parola» (Gv 8,31), ruminarla, sminuzzarla, assaporarla lettera per lettera, iota per iota, fino a sentirne la dolcezza del miele e il sapore del fiele, il doppio taglio della Parola-spada (Eb 12,4) se vogliamo giungere al «monte di Dio» e stare alla sua presenza:

«7Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, toccò Elia e gli disse: “Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. 8Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19,7-8).

Solo così il profeta può sperimentare la presenza di Dio in tutta la sua gloria e fare l’esperienza della «voce di silenzio sottile», dopo il vento impetuoso, il terremoto e il fuoco (cfr. 1Re 19,11-13). Se pregare è vivere l’esperienza della Shekinàh, o Dimora o Presenza, è indispensabile arrivarci, ascoltando e mangiando, in una parola interiorizzando. Ascoltare significa «portare dentro di sé la Parola» che è la Persona di Gesù e mangiare significa «portare dentro il cibo» che è la vita stessa di Dio. Chi mangia lo stesso cibo diventa la stessa realtà. Qui è il punto focale dell’intimità che può essere solo personale, vissuta «nel deserto» come spazio senza occhi indiscreti, senza curiosi, senza distrazioni di superficialità. Tutto ciò esige tempo, tempo, tempo… come insegna la volpe al Piccolo Principe, contro la logica della nostra epoca, in cui «non abbiamo mai tempo…»:

«“Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. “L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo»
(v. più avanti il testo integrale).

Perdere tempo.
Perdere tempo per la persona amata

Questo è il segreto, l’unico che coglie il cuore della vita. Quando noi riserviamo a Dio gli scampoli del nostro tempo, quando controlliamo l’orologio perché «bisogna fare in fretta», quando la Liturgia delle Ore o l’Eucaristia sono contingentati perché «abbiamo tante cose da fare», allora è inevitabile rifugiarsi nelle formule, negli orari, nel rituale perché ci sentiamo protetti e scusati: fatto il nostro dovere, esattamente come qualsiasi salariato, abbiamo pagato il nostro debito. Abbiamo praticato molto, ma non abbiamo amato. Perdere tempo esige silenzio e svuotamento della polvere che ricopre le nostre morte parole (Tagore). Perdere tempo esige avere coscienza di essere l’altra metà di Dio, senza della quale la sua identità come la nostra sono vanificate, annullate.

C’è una pagina mirabile nel «Piccolo Principe», in cui si stabiliscono le regole dell’amicizia «addomesticata» fino a quando gli amici non diventino «unici» tra tutti gli esseri umani. Ho mai pensato di «addomesticare» Dio, riducendo le distanze giorno dopo giorno? Ho mai udito i suoi passi nel giardino della mia vita (Gen 3,8)? Ho mai detto a Dio espressamente: «Per favore, addomesticami!»? Oppure in quella che chiamiamo preghiera personale o corale, mi limito a leggere quanto è prescritto, come se fosse un compito di scuola? «Non si conoscono che le cose che si addomesticano… Gli uomini [e le donne] non hanno più tempo…».

Questo brano, tratto dal «Piccolo Principe», vale più di un trattato sulla preghiera, con l’augurio che ciascuno possa applicarlo al proprio modo di pregare, al proprio tempo di pregare, al proprio Dio che immagina di pregare, perché non è detto, non è scontato, che noi preghiamo il Dio, «Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm 15,6). Leggendo la catechesi della volpe al piccolo principe, proviamo a capire se non parliamo con noi stessi in una forma di narcisismo che è la negazione della natura della preghiera che è solo ed esclusivamente, perdere tempo per la persona amata, perdere vita e desiderio, e anelito e passione per chi vogliamo sia importante per noi.

Maestra volpe…

«In quel momento apparve la volpe. “Buon giorno”, disse la volpe. “Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. “Sono qui”, disse la voce, “sotto al melo…”. “Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino…”. “Sono la volpe”, disse la volpe. “Vieni a giocare con me”, disse la volpe, “non sono addomesticata”. “Ah! scusa “, fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “Che cosa vuol dire addomesticare?”. “Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe “che cosa cerchi?”. “Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe. “Che cosa vuol dire addomesticare?…”. “Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”. “Comincio a capire”, disse il piccolo principe.

“C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…”. “È possibile”, disse la volpe, “capita di tutto sulla terra”. “Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe. “La mia vita è monotona… E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi la mia vita, sarà come illuminata. Conoscerò il rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica… Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”. La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “Per favore… addomesticami”, disse. “Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici e da conoscere molte cose”.

“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”. “Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe. “Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”. Il piccolo principe ritornò l’indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”. “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore… Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina: “Ah!” disse la volpe, “…Piangerò”. “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”. “È vero”, disse la volpe. “Ma piangerai!” disse il piccolo principe. “È certo”, disse la volpe. “Ma allora che ci guadagni?”. “Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”. Soggiunse: “Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo”. “Quando ritornerai a dirmi addio ti regalerò un segreto…”. “Addio”, disse. “Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo. “Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”. “Io sono responsabile della mia rosa… ripeté il piccolo principe per ricordarselo» (Da Antornine Saint-Exupéry, de, Il piccolo principe, Gruppo editoriale Fabbri, Bompiani, Sozogno, Etas S.p.A., Milano 1985, 11, 91-98).

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-18]




Don Tonino Bello, il vescovo degli ultimi

Memoria di don Tonino di Rocco Marra |


Il 20 aprile scorso papa Francesco ha reso omaggio a uno dei vescovi italiani più amati. Nel 25esimo anniversario della morte di don Tonino, il pontefice è andato a pregare sulla sua tomba. Un segno che il messaggio del vescovo pugliese è sempre di grande attualità. In queste pagine il ricordo appassionato di un missionario della Consolata, che è stato suo allievo.

Carissimo don Tonino, ho deciso a scriverti una lettera, conscio che tu la conosci già. Scrivo una lettera pur sapendo che, come al solito, non mi risponderai, per di più non me la boccerai come «fuori tema» e forse neanche la leggerai.

So che a te piace leggere, nonostante viviamo in un’epoca in cui si scrive per masse che non leggono e si insegna a persone che non ascoltano. Ultimamente avrai notato che si scrive moltissimo su di te, specialmente ora che è ufficiale: il papa Francesco è venuto a pregare sulla tua tomba monumentale, ad Alessano, e a celebrare l’Eucarestia a Molfetta, proprio nell’anniversario del tuo Dies Natalis (in questo caso, 25° anniversario della morte, avvenuta il 20 aprile 1993, ndr).

Tutto fa capire che sei prossimo a essere riconosciuto «beato» e «santo profeta» del XX secolo. Veramente, per i poveri di Gesù che ti hanno conosciuto, sei santo da quando hanno saputo che non saresti più andato a trovarli perché eri andato in cielo. Di certo intercedi per la conversione di molti, perché accolgano l’amore di Dio nella loro vita e diventino canali di misericordia per i meno amati di questa umanità, come sei stato tu.

Scrivono molto su di te, ma mi chiedo con linguaggio salentino: «Sarà tutto oro quello che cola?». Certamente meriti anche di più, sono sicuro che, se la gente comune potesse scrivere qualcosa, scriverebbe la buona notizia che ancora traspare dalla tua indimenticabile vita.

Tu, echeggiando gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ci insegnavi che per grazia del battesimo non solo individualmente, ma anche comunitariamente, siamo incoraggiati dallo Spirito a crescere e camminare come «chiesa santa e gioiosa» che trasuda l’amore di Dio in azione: comunità profetica, sacerdotale e regale. Non mi sorprenderei se tu volessi continuare a tirare le orecchie a tanti di noi e a sussurrare a papa Francesco il tuo dispiacere di essere proclamato beato da solo. Sicuramente il tuo desiderio sarebbe che il pontefice proclamasse beata o santa la parrocchia «Natività beata Maria Vergine» di Tricase, o la «Chiesa locale di Molfetta», o il movimento «Pax Christi». Sì, avrebbe più senso e più incisività per il mondo in cui viviamo. Se un testimone come te provoca uno scossone di rinnovamento nello Spirito di Dio, certamente una parrocchia o diocesi santa, provocherebbe un terremoto di grazia per scardinare fin dalle fondamenta il regno diabolico che ci strangola.

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino (© AfMC / Bellesi)

Esci dalla tua terra

Sono contento di ricordarti, perché sei stato un uomo che ha dato senso e gusto alla propria vita e a quella di chi ha incontrato. Come le cacce al tesoro che organizzavi per noi, per farci sognare, per ricercare su riviste e libri gli avvenimenti e le scienze del mondo, per aiutarci a non aver paura a scorgere l’amico Gesù sul cammino di ogni giorno, vissuto con semplicità e responsabilità.

Conoscevi molto bene e a memoria la Parola di Dio, la Divina Commedia e altri scritti della letteratura italiana, ma conoscevi anche ogni tuo «pargolo» spirituale. Mi ricordo la relazione del primo anno di seminario, corrispondente alla mia prima media: «Rocco è un ragazzo buono». Queste sono le prime parole di Dio di fronte al suo creato, così me le hai scritte tu, lette dal parroco, monsignor Giuseppe Zocco e da mio padre Riccardo, seguite da parole d’incoraggiamento da parte loro.

Tu hai parlato con simboli, come i presepi, il primo che mi ricordo, nel 1973, costruito nel parlatorio del seminario di Ugento. Sulla porta avevi collocato dei compensati con alcuni articoli di giornali appiccicati sopra, chiaramente notizie scelte da tutto il mondo, poi davanti c’erano le immagini della natività, con delle catene intorno alla culla di Gesù. Chi ammirava la culla poteva soprattutto leggere: «Signore vieni a sciogliere le nostre catene». Come fanciullo, non mi interessavano più gli effetti delle lampade a mercurio poste sulle montagne e vallate, percorse dai pastori e le loro pecore, ma volevo sapere il significato di quelle parole vicino alla culla.

Che dire dei canti liturgici? Non mi ricordo quale novena fosse quando ci hai portati tutti e trenta in una delle confraternite di Ugento. Ricordo però il contenuto della tua predica, la spiegazione del canto conosciuto da tutti: «Esci dalla tua terra e va’». Ancora adesso mi rammento quello che hai detto e cresce d’intensità con la mia esperienza missionaria e il ricordo della tua testimonianza di vita.

Durante quella messa, quando una disabile cercava di scambiare il segno di pace rivolgendosi verso di te, tu sei sceso dall’altare, non solo per stringerle la mano, ma anche per abbracciarla.

Don Tonino, certamente il tuo gesto più espressivo, per noi del seminario Minore di Ugento, è stato in terza media, quando hai ospitato una famiglia sfrattata. È stato come un seme di mille altri semi che hai sparso nel tuo andare nel campo del Signore.

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino

Come il Buon Pastore

Hai parlato spesso della Madonna e di tua madre, due donne che portano lo stesso nome. Ci portavi a pregare Gesù all’ombra di Maria, e negli anni in cui ti ho conosciuto, tra il 1973 e il 1976, quando frequentavo le scuole medie da seminarista, quasi tutti i giorni pregavamo il rosario insieme, a volte anche completo e di solito passeggiando.

Ci parlavi poco, invece, di tuo padre Tommaso, maresciallo dei carabinieri, forse per evitare momenti di commozione. Lo avevi perso infatti all’età di circa sei anni. Non vivevi però quest’assenza come un vuoto, essendo tu stesso diventato come un padre per i tuoi due fratelli più giovani e poi per noi seminaristi. Un anno, prima della celebrazione del 4 novembre, considerando le medaglie presso il monumento dei caduti, hai condiviso alcuni tuoi sentimenti con un gruppo di noi seminaristi. Praticamente, quelle medaglie al valore militare non potevi sopportarle, pensando a tante mogli private dei loro mariti e a genitori cui erano stati strappati i figli. Le medaglie al valore militare non avevano per te lo stesso significato delle medaglie e dei trofei vinti dai tuoi seminaristi nelle competizioni sportive o per la costruzione del miglior presepio della provincia.

Non credo che tu, don Tonino, facessi distinzioni e contrapposizioni tra «casa» e «chiesa». La «chiesa del grembiule», divenuta famosa fin dai primi anni del tuo episcopato, ebbe sicuramente la sua origine nella tua casa di Alessano, così come la riflessione sulla «stola» trovò origine nella chiesa della tua parrocchia natale.

Ricordo che una volta, in seminario, ci hai presentato il significato della stola sulle spalle del prete. Mi colpì molto l’invito a prepararci per indossarla come segno della nostra partecipazione alla missione del Buon Pastore, venuto a cercare la pecorella smarrita per riportarla all’ovile, caricandosela con dolcezza sulle spalle. Grembiule e stola, tue immagini preferite, mi hanno sempre aiutato a ripensare il servizio cristiano come servizio fatto con umiltà e dinamismo di carità.

La stola, poi, mi ricorda in particolare che il potere e l’autorità del pastore cristiano stanno nel servizio che scaturisce da quel «Pane spezzato per tutti», fonte di tutto il significato teologico di ministro e ministero.

Contemplazione e azione

Insistevi perché andassimo oltre il perimetro delle nostre amicizie, delle nostre certezze e anche della chiesa per incontrare quelle pecorelle, e accompagnarle con saggezza e tenerezza. Sottolineavi la necessità di avere un «amore vigoroso», capace di farsi carico e di caricarci sulle nostre spalle coloro che non avevano la forza di camminare da soli. E ribadivi che santi come Luigi Gonzaga erano grandi sì a causa della loro preghiera, ma soprattutto per aver avuto il coraggio di caricarsi alcuni ammalati per portarli all’ospedale. Contemplazione e azione sono state caratteristiche inscindibili della tua esperienza di vita, aureole che ti proclamano tra i santi missionari del nostro tempo. Credo che per conoscerti bene, don Tonino, non basti leggere i tuoi innumerevoli scritti. Occorrerebbe penetrare nel cuore del popolo che ti ha conosciuto, che vibrava alle tue parole e che con te ha celebrato l’Eucarestia, per conoscere meglio i valori che proponevi e la potenza di contagio che avevi sulla gente. Eri un pastore capace di trasfondere in chi incontravi l’amore del Signore e dei fratelli.

Avevi una capacità di comunicazione e di relazione straordinaria, vero profeta anche in questo areopago moderno. Sapevi evidenziare gli aspetti positivi presenti in ogni persona, per dare sempre coraggio e speranza.

E chissà come è stato bello l’incontro con il Padre celeste, visto che hai saputo sempre essere propositivo nel travaglio nostalgico della ricerca del suo volto paterno.

Rocco Marra

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino