Mi hai vinto, non ho perso


L’editoriale di Amico

La morte e il lutto sono il nostro pane quotidiano. Il lamento, il pianto e l’affanno, una postura consolidata. La fame e la sete non si smorzano mai. Nessun riparo dall’arsura, nessuna tenda da abitare (cfr Ap 7, 9-17), nessuno sguardo al quale affidare la nostra vita. Tantomeno un Dio che elimina la sofferenza.

«È triste, ma è così», dicevo.

Allora, quando ti ho visto passare tra la folla che t’insultava, anch’io ti ho sputato. E quando eri in croce, anche io ti ho detto di scendere, di salvare te stesso (e me) dalla morte, se veramente eri Dio (cfr Lc 23, 35-39). Quando hanno chiuso il sepolcro con la pietra, ho dato una mano a sigillarla, e ho portato cibo e bevande alle guardie perché tenessero la tua morte, la tua speranza morta, sotto controllo (cfr Mt 27,66).

La speranza, quand’è illusione, fa male, bisogna tagliarla via e togliere le radici dal terreno. E io ce l’ho messa tutta per farlo.

Poi è successo l’imprevedibile. Un terremoto, la pietra ribaltata, i guardiani stesi a terra, la tomba vuota. Quei codardi dei tuoi amici che ti dicevano risorto.

«Davvero quella speranza era un’illusione?», mi sono chiesto.

E alla fine ho ceduto. Ce l’ho messa tutta per tenerti a bada, ma tu sei più forte e mi hai vinto. Senza lasciarmi sconfitto. Mi hai mostrato che il male non è la sofferenza, ma l’assenza di amore, e che ogni assenza d’amore può essere colmata con la tua presenza, amore eccedente. Hai beffato la morte passandoci dentro, hai restituito alla vita la pienezza desiderata da Dio fin dal principio.

Quella che credevo illusione si è rivelata speranza. Bisogna coltivarla perché porti frutto e lo porti per tutti.

Buon tempo di Pasqua, da amico
Luca Lorusso

 


Bibbia on the road

Quando Gesù prega

La spiritualità missionaria si fonda sulla preghiera.
E la preghiera del missionario si fonda sulla preghiera di Gesù descritta nel Vangelo di Luca.
Ecco la quarta puntata sulla spiritualità missionaria.

Le comunità cui si rivolge Luca sono ormai convinte che il ritorno in gloria del Risorto non è imminente. Per questo motivo esse sentono vivo il compito di continuare a dare testimonianza a Cristo. E per Luca il compito missionario richiede preghiera assidua e meditazione quotidiana sugli insegnamenti del Maestro. Ecco perché presenta diverse volte Gesù in preghiera, molto più che non Matteo e Marco.

Gesù prega durante la vita pubblica

Nella descrizione che Luca fa della Chiesa delle origini negli Atti degli apostoli, viene messo in rilievo come i fratelli di Gerusalemme (Atti 1,4), Pietro (Atti 10,9; 11,5), Giovanni (Atti 3,1), Paolo (Atti 9,11) si ritirino in solitudine per pregare.

Una simile esigenza ha il suo modello nel Gesù storico che lo stesso Luca descrive nel suo Vangelo. Gesù, inviato del Padre, descritto in preghiera in alcuni momenti decisivi della sua missione, è origine e fonte della preghiera delle comunità.

A differenza di Matteo e Marco, Luca presenta Gesù «in preghiera» (3,21) nel momento del battesimo al Giordano, quando riceve lo Spirito e ascolta la voce del Padre che lo chiama «figlio amato». In un’atmosfera di preghiera, il battesimo di Gesù diventa il luogo teologico della rivelazione.

Luca riprende l’episodio di Marco 1,35 nel quale Gesù «si ritirò in un luogo deserto, e là pregava», e lo colloca in un momento diverso: dopo la guarigione del lebbroso (5,16). Questo spostamento rende la preghiera di Gesù non più un evento come tanti altri, ma uno schema che guida la sua missione: la preghiera è sorgente delle sue parole e dei suoi gesti. Nel terzo Vangelo, Gesù si ferma a pregare anche in altri due eventi importanti: prima della scelta dei Dodici (6,12) e in occasione della trasfigurazione (9,28-29). La preghiera prima di designare i suoi accompagnatori sottolinea l’importanza della scelta. I Dodici sono persone per le quali anche in seguito egli pregherà (9,18; 17,5; 22,32). La preghiera prima della trasfigurazione prepara Gesù a rivelarsi come il Servo sofferente.

Nel racconto dell’attività pubblica di Gesù prima della passione, Luca riferisce le parole di una sola preghiera: l’atto di ringraziamento per la diffusione del Regno attraverso la predicazione ai «piccoli». Con un acume letterario di rilievo Luca fa coincidere l’esultanza di Gesù con il ritorno dei 72 discepoli dalla missione, e dice: «In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”» (10,21). Quindi Gesù esulta di gioia nello Spirito nel momento in cui i discepoli lo ragguagliano sul successo della loro missione, durante la quale la misteriosa azione del Padre diventa visibile.

La spiritualità missionaria lucana scaturisce dalla centralità della preghiera: la proclamazione della parola e il dono del battesimo devono di necessità essere preceduti da essa. Ancora oggi il missionario è chiamato a proclamare l’evento Cristo e a operare l’elezione dei catecumeni durante la Quaresima accompagnandoli verso la grande notte della salvezza, la notte di Pasqua, lasciandosi guidare da criteri spirituali. Nella scelta dei battezzandi deve seguire la sapienza del cuore che si ottiene solo attraverso un’assidua e costante vita di preghiera. Il missionario che non prega è un «cembalo che tintinna».

Gesù prega durante la sua passione

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Durante la celebrazione della Pasqua nel cenacolo, Gesù rivela a Pietro che Satana è in cerca di loro per vagliarli come si fa con il grano (cf.

23,31) e, ancor prima di predire che Pietro lo tradirà, dice: «Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22:32).

Il Signore conosce coloro che ha scelto e coloro che hanno creduto in lui, e sa anche che la loro fede può soccombere se si lasciano ingannare da Satana. Essi devono, quindi, essere accompagnati e confermati dalla preghiera.

Alla stessa maniera il missionario deve far crescere e confermare la fede delle giovani chiese con la sua preghiera. Essa otterrà certamente l’effetto desiderato se il missionario s’ispira all’esempio del Maestro, il quale ha dimostrato che la preghiera provvede la forza necessaria per superare ogni tipo di tentazione.

Un altro momento importante della preghiera di Gesù è quello dell’orto degli ulivi. Similmente a Marco e Matteo, Luca presenta la filiale preghiera di Gesù, la sua tensione tra il rifiuto e l’accettazione della volontà del Padre, la sua solitudine nella notte, e la decisione finale di rimanere fedele.

Tuttavia Luca ha alcuni tratti che sono solo suoi. Solo Luca sottolinea il fatto che la preghiera di Gesù è difficile e sofferta al punto che un angelo viene a consolarlo (cf. 22,43-44). Si tratta di una lotta, un momento di angoscia, una prostrazione psicologica. Nell’orto degli ulivi Gesù suda sangue. Questo episodio è preceduto e seguito dal racconto dell’esortazione del Mastro ai discepoli, «pregate, per non entrare in tentazione» (22,40), che richiama l’esortazione che si trova in Marco: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione» (Mc 14,38). Nella versione lucana l’espressione assume un valore di rilievo poiché sottolinea quanto è stato affermato nei versetti 43-44 tramite la scena dell’angelo che consola Gesù: è difficile e doloroso pregare quando ci si sente deboli e soli.

L’evento della croce segna un altro momento significativo della preghiera di Gesù. Sulla croce egli prega per coloro che lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (23,23). Il Signore ha speso tutta la sua vita per portare la salvezza a tutti. Per questo le sue ultime parole sono una preghiera: «Padre nelle tue mani affido il mio spirito» (23,46). Nel Vangelo di Luca le prime (cf. 2,49) e le ultime parole di Gesù sono rivolte al Padre. Tutta la sua vita è stata vissuta in perfetta unione con il Padre e in totale dipendenza da lui fino al momento supremo della croce. Anche in questo frangente Gesù offre le linee portanti di una spiritualità missionaria.

Il missionario è inviato dalla Chiesa a impiantare il Regno di Dio fino agli estremi confini della terra (1,8), e, seguendo l’esempio del Maestro, egli deve essere in totale dipendenza dal Padre e in perfetta comunione con Lui. Questo è possibile solo se la vita del missionario è segnata da un costante e assiduo ritmo di preghiera. Senza preghiera nessun campo, per quanto arato, produce frutto.

Antonio Magnante


Parole di corsa

Gesù ha bisogno di noi

Padre Osvaldo Coppola, nato a Specchia (Lecce) nel 1953 ha vissuto la sua chiamata alla missione tra Italia, Portogallo, Inghilterra e Sudafrica. Una vita spesa a dire sì al Signore e ai fratelli.

Ciao amico. Mi presento: sono padre Osvaldo Coppola, nato a Specchia (Lecce) nel 1953. Da ragazzino frequentavo la parrocchia come ministrante e membro del coro. A 15 anni, mentre frequentavo l’Istituto professionale di Casarano, è nato in me il desiderio di diventare missionario per portare il Vangelo ai popoli che non lo conoscevano, così ho deciso di entrare in seminario.

Ho scelto l’istituto dei missionari della Consolata quando ho capito che era una congregazione dedicata alle missioni tra i popoli più poveri e ancora non cristiani. Ma anche per la mia forte devozione a Maria: mi piaceva che l’istituto si chiamasse «missionari della Consolata».

Tra Veneto, Piemonte e Londra

Così sono andato in provincia di Treviso, nel seminario di Biadene, e ho frequentato le scuole superiori di Montebelluna. Subito dopo gli esami di maturità ho fatto l’anno di noviziato in Certosa di Pesio (Cuneo). Per gli studi di filosofia e teologia, invece, sono stato al seminario internazionale di Londra per cinque anni.

La prima sfida a Londra è stata quella di imparare la lingua inglese per poter affrontare gli studi teologici.

È stato un periodo bello, ricco di esperienze arricchenti umanamente, spiritualmente e culturalmente. A Londra, oltre alla cultura inglese, si viveva anche un’atmosfera mondiale.

Tappa in Portogallo

Dopo essere stato ordinato diacono a Londra ero pronto per la missione in Africa o in America Latina, ma i superiori mi hanno destinato in Portogallo. Così ho imparato un’altra lingua facendo una bellissima esperienza nella parrocchia della Serafina nella periferia di Lisbona nel Bairro da Liberdade.

Il 27 giugno del 1981 sono stato ordinato sacerdote a Specchia. Sarei ritornato volentieri nella parrocchia della Serafina per continuare il servizio pastorale tra la gente della quale ormai ero innamorato. Invece mi è stato chiesto di andare a Ermesinde, sempre in Portogallo, nel seminario di Aguas Santas con i ragazzi delle scuole medie.

Dopo due anni sono passato al seminario di Fatima. Essere responsabile della formazione dei giovani, inizialmente mi ha preoccupato, ma ho trovato dei bravi confratelli che mi hanno aiutato a inserirmi in quel ruolo delicato. Era bello pensare che tra quei ragazzi c’erano alcuni futuri missionari della Consolata.

Nel Sudafrica dell’apartheid

Dopo tre anni a Fatima è giunta per me l’ora di cambiare continente. Sono stato destinato in Sudafrica. Finalmente la tanto desiderata Africa!

Quando sono arrivato in Sudafrica nell’agosto del 1987, Nelson Mandela era in prigione, il paese era ancora in pieno regime dell’apartheid: i popoli delle varie tribù africane erano vittime del regime razzista. Questa era la sfida che si affrontava con sofferenza ma anche con determinazione annunciando il Vangelo di Cristo. Era un periodo di intense lotte per l’uguaglianza, la libertà, la giustizia e la pace tra tutti i popoli.

Quotidianamente eravamo testimoni di episodi di insurrezione da parte degli oppressi e di repressione da parte degli oppressori.

L’apartheid non solo divideva le varie etnie, ma era una ferita profonda che ci tagliava dentro l’anima. Come Cristo è il Cristo di tutti, così il missionario è missionario di tutti: lo sforzo quotidiano era quello di combattere le divisioni, spegnere il fuoco dell’odio per accendere quello dell’amore fraterno. Per contrastare la lotta armata dei vari gruppi, portavamo avanti la lotta spirituale della preghiera.

E il Signore ha ascoltato il grido del suo popolo ed è venuto in suo aiuto. Ho avuto la gioia di votare «sì» nel primo referendum che chiedeva il cambiamento del regime.

Ero ancora in Sudafrica quando Nelson Mandela è stato liberato nel 1991. Nel 1994 ho potuto partecipare alle prime votazioni democratiche e universali, quelle nelle quali Nelson Mandela è stato eletto presidente della Repubblica. Abbiamo vissuto momenti di grande trepidazione, commozione e gioia. Un grande senso di gratitudine a Dio Padre di tutti e commossa gratitudine ai fratelli e sorelle che avevano sacrificato la loro vita nella lotta per la libertà, la giustizia, la pace e l’uguaglianza.

Mandela è stato un grande dono di Dio, non solo per il Sudafrica, ma per tutta l’umanità.

Ritorno in Italia

Dopo dieci anni di Sudafrica sono stato richiamato in Italia, nella parrocchia Maria Regina delle Missioni a Torino. Dopo 21 anni, ci ho messo un po’ per «rientrare» in un paese cambiato.

A Torino ho trovato una calorosa accoglienza. Gli otto anni trascorsi in parrocchia sono stati belli, di intenso lavoro pastorale tra i giovani e gli adulti. Anche lì, come in Sudafrica, la fatica principale è stata quella di creare comunione nella comunità.

Nel 2005, per obbedienza, ho lasciato Maria Regina delle Missioni e, prima di andare in una nuova missione, ho frequentato dei corsi di aggiornamento presso l’Università urbaniana a Roma. Poi sono stato destinato al Centro di animazione di Martina Franca (Ta) dove ho lavorato molto con i giovani e per i giovani.

Questa bella esperienza è terminata dopo due anni, quando mi è stato chiesto di tornare a Roma per fare il segretario generale dell’Istituto.

Dopo aver svolto per quattro anni questo importante servizio, ho continuato la mia missione a Galatina, in provincia di Lecce, dove mi trovo ancora attualmente.

Viviamo la pastorale parrocchiale come animazione missionaria e vocazionale. Lavoriamo per evangelizzare e costruire una comunità cristiana nella quale il Signore possa chiamare giovani che sappiano accogliere l’invito a seguire Cristo e mettersi al Suo servizio per portare il Vangelo a tutti i popoli.

L’umanità ha bisogno di Gesù Cristo.

Gesù Cristo ha bisogno di noi, uomini e donne che abbiano il coraggio, la generosità di lasciare da parte il resto e dedicarsi a seguire Cristo per conoscerlo e farlo conoscere a tutti.

Osvaldo Coppola


Progetto Colombia

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Giovani di Solano costruttori di pace

Un progetto per costruire coscienze e tessere legami di pace in un territorio nel quale i ragazzi respirano violenza fin dalla nascita e sono corteggiati dai gruppi armati in cerca di nuove leve.

Educare alla pace i giovani di Solano, villaggio nel Sud della Colombia, in un territorio per decenni dominato dalla guerriglia e oggi da gruppi armati che non hanno accettato gli accordi tra Farc e governo del 2016.

Tentare di sottrarre i ragazzi poveri e privi di strumenti culturali e di rete sociale ai gruppi armati sempre in cerca di nuove leve.

Mettere in sinergia questo lavoro di prevenzione della violenza con l’educazione ambientale, perché in quelle terre una buona relazione con la natura è parte del cammino di pace.

Ecco gli obiettivi del nuovo progetto di amico per il 2019, anno del sinodo panamazzonico.

Un territorio immenso e ricco

I padri Angelo Casadei e Rino Dellaidotti, missionari della Consolata impegnati nella parrocchia Nuestra Señora de las Mercedes di Solano, propongno ai lettori di amico un progetto per costruire coscienze e tessere legami di pace in un territorio nel quale i ragazzi respirano la violenza fin dalla nascita.

Solano si trova nel dipartimento del Caquetá, in piena foresta Amazzonica, nella Colombia del Sud. Nel villaggio vivono 2mila abitanti, mentre il territorio municipale, che è uno dei più estesi della Colombia (43mila km2, come Lombardia e Veneto messi insieme), conta in tutto 24mila abitanti, distribuiti in circa 100 villaggi raggiungibili solo a piedi, via fiume o a cavallo. Questi sono organizzati in nove «nucleos», raggruppamenti di 8-12 villaggi che fanno capo a quello più facile da raggiungere nel quale vi è di solito la scuola media e superiore e un collegio che alloggia i ragazzi dei villaggi vicini.

Nella giurisdizione della parrocchia sono presenti anche sedici comunità indigene.

La città più vicina è Florencia, la capitale del Caquetá a 170 km via fiume.

Nell’immenso territorio di Solano è presente uno dei più bei parchi amazzonici della Colombia, la «Serrania del Chiribiquete», nel quale vivono popolazioni indigene isolate e specie di flora e fauna ancora non catalogate.

Una storia in movimento

A Solano i missionari della Consolata sono presenti dal 1952. Nella sua storia, questo territorio è stato meta di varie ondate di colonizzazione dovute allo sfruttamento della foresta, delle pelli pregiate, dei suoi animali, del caucciù, del legname e alla coltivazione della pianta di coca. Esso è anche rifugio di banditi. Per lungo tempo è stato dominato dalla guerriglia: prima la M19, poi le Farc-Ep. Oggi, dopo l’accordo di pace del 2016, gruppi «dissidenti» continuano la lotta armata, imponendo la loro legge, e arruolando giovani nelle loro fila.

Le attività economiche

Tra la popolazione locale è diffuso l’allevamento del bestiame e la produzione di latte e formaggio per l’industria, nonostante il trasporto verso Florencia e le altre comunità della zona sia molto costoso perché avviene solo via fiume.

Le altre attività sono tutte finalizzate all’autoconsumo e al commercio locale: si coltivano yuca, banane, canna da zucchero, mais, riso; vengono allevati galline, polli, tacchini, capre, maiali e viene praticata la pescicoltura su piccola scala.

A 2 km da Solano vi è una base aerea militare che effettua voli di appoggio per la popolazione civile in caso di emergenza.

Il rischio per i giovani

«La Colombia dopo 60 anni di guerra ha firmato un accordo di pace con la Farc-Ep, una delle guerriglie più forti in questo paese», afferma padre Angelo. «Stiamo vivendo una tappa storica e allo stesso tempo delicata. Soprattutto nel nostro territorio dove la guerriglia era molto forte: come ricostruire una società che per decenni è stata governata dalle armi? Chi occuperà gli spazi di potere lasciati vacanti dalla Farc in un territorio dove lo stato si fa presente a fatica?». In questo periodo di post conflitto stanno emergendo gruppi di «dissidenti» composti da guerriglieri che non hanno aderito al processo di pace e che vogliono continuare a governare il territorio con la forza, in modo autonomo.

«Pensiamo che le future generazioni siano quelle più a rischio – prosegue padre Angelo -: sia perché manca una formazione umana e religiosa che li possa orientare verso i valori della vita, sia perché, per sete di potere, ambizione, ignoranza, i giovani si lasciano convincere ad arruolarsi nei gruppi armati illegali. È importante formare giovani leader che diventino capaci di attirare e animare altri giovani. Inoltre altro punto importante è un lavoro sulle coscienze: perdono e riconciliazione con se stessi, gli altri e verso la creazione».

Padre Angelo accenna al tema della creazione. Il progetto infatti prevede, tra gli obiettivi, anche quello di educare all’ambiente: «Viviamo nella conca Amazzonica, uno dei territori che dobbiamo conservare per il bene dell’umanità. È importante educare le nuove generazioni nell’amore per il luogo privilegiato nel quale vivono».

Luca Lorusso




Dopo la pentecoste: Una predicazione «arcaica»

Testo di Angelo Fracchia |


La prima chiesa, ritratta dagli Atti degli Apostoli, non si limita ovviamente a ricevere dei doni (la visione di Gesù risorto, l’effusione dello Spirito), ma si impegna da subito a testimoniare e annunciare ciò che le è accaduto. È quanto Luca ci racconta in un lungo discorso attribuito a Pietro, che parte dalla buffa osservazione che questi uomini, che parlano in lingue strane e potrebbero sembrare ubriachi, in realtà non hanno ancora bevuto vino, anche perché è mattina presto, ma si comportano in questo modo per un’altra ragione (At 2,14-15).
Come è ovvio per ogni opera che pretenda di essere storica e come ci capiterà di chiederci più volte lungo la lettura degli Atti, insieme alla domanda su che cosa insegni ancora a noi oggi questo annuncio nasce quella riguardante la verità di ciò che è narrato: davvero Pietro ha detto queste cose?

Sappiamo bene che non ci interessa la verità assoluta di ogni singolo particolare, ma la proclamazione di una storia che non abbia alcun fondamento storico sarebbe falsa. È ovvio che nessuno potrà mai restituirci la registrazione di quelle prime parole ed è anche altamente improbabile che spunti una cronaca diversa ma altrettanto vicina a quegli avvenimenti. In loro mancanza, dobbiamo provare a ragionare su ciò che leggiamo.

Se da una parte Pietro, già nei vangeli, era in qualche modo il portavoce dei dodici, tanto che poteva essere naturale che fosse lui a parlare a nome di tutti (benché in fondo non ci importi chi avesse parlato allora, l’importante era che rappresentasse i discepoli), dall’altra parte qualcosa possiamo ricavare da ciò che Pietro dice. E prima ancora di entrare nel cuore delle questioni, da buoni detective dell’antichità, possiamo trarre importanti deduzioni da due particolari che potrebbero sfuggire a una lettura superficiale.

Intanto, Pietro parla di Gesù come se fosse uno sconosciuto: «Gesù di Nazareth, uomo accreditato da Dio presso di voi…» (v. 22); «Questo Gesù…» (v. 32); «Quel Gesù che voi avete crocifisso…» (v. 36). Non pensa di presentarlo come «Gesù (il) Cristo», come se il fatto fosse qualcosa già ben noto a tutti. Presenta invece uno che gli interlocutori non conoscono.

Ma è ancora più significativo un altro passo: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù» (v. 32). Sembrerebbe che Pietro pensi che Gesù è diventato Signore e Cristo solo dopo che Dio, con la risurrezione, l’ha costituito tale. Lo stesso Luca, in realtà, nel suo Vangelo, aveva spiegato, nei primi due capitoli, che Gesù era Cristo fin dal concepimento. Ma è comprensibile che la prima comunità cristiana abbia capito solo nella risurrezione chi davvero Gesù era e si sia persino trovata a dire che Gesù era diventato Cristo nella risurrezione, prima di riflettere con più calma e precisione sugli avvenimenti e trovare formule teologiche più precise.

Si direbbe, insomma, che il primo discorso di Pietro sia stato scritto troppo presto; ma ciò non è verosimile, perché sicuramente Luca ha composto gli Atti dopo il suo Vangelo. Possiamo allora affermare, per esprimerci meglio, che probabilmente l’autore ha voluto restituirci quella prima predicazione nel modo più vicino possibile a ciò che davvero era stato detto, a costo di essere impreciso. Luca voleva farci sentire «il profumo» dell’inizio.

Fondati nella Scrittura

Da dove parte, allora, Pietro?

Dalla Bibbia ebraica. Non parte dalla tomba vuota, come forse avremmo fatto noi. Ma siccome sta cercando di annunciare un evento unico nella storia della religione, ritiene opportuno partire proprio dalla religione. Noi a volte pensiamo di poter parlare di Gesù dimenticandoci del tutto dell’Antico Testamento, ma Pietro sta lì a dirci che ciò non è possibile. Gesù è cresciuto conoscendo Dio innanzi tutto nell’ascolto della Bibbia, e per capirlo non possiamo saltarla.

In particolare, Pietro utilizza tre passi. Due di questi possono forse sembrarci più o meno prevedibili: è innanzi tutto il salmo 15 che prefigura un diletto di Dio che sarebbe stato sottratto alla morte (At 2,25-28; Sal 15,8-11). Come fosse un rabbino del suo tempo, Pietro dà per scontato che il salmo sia stato scritto da Davide e fa notare che però Davide è morto: a conferma, tutti sapevano dove fosse la sua tomba (v. 29). Siccome però Davide non parlava per fantasie proprie ma istruito da Dio, di certo quel progetto di Dio si sarebbe prima o poi compiuto. Ed ecco, dice Pietro, è oggi che si è compiuto, e con Gesù (vv. 30-33).

In aggiunta, come ciliegina sulla torta, il primo degli apostoli aggiunge anche un’altra citazione di un salmo (il 109), che doveva essere stata enormemente significativa per i primi cristiani, perché ritorna in tanti autori e contesti: «Dice il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra…» (At 2,34-35; Sal 109,1), testo che lasciava intuire che si poteva continuare a venerare Dio come Padre pur ammettendo che Gesù era Dio allo stesso modo. Questo passaggio, iniziare a venerare Gesù come Dio pur riconoscendolo in rapporto con un Padre che supera anche lui, è stato sicuramente uno dei più impegnativi per i primi cristiani: ci sono arrivati grazie alle parole della Bibbia, che li hanno aiutati a capire ciò che pure avevano visto e vissuto ma per la cui descrizione mancavano loro le parole adeguate.

Il primo dei brani citati da Pietro, però, potrebbe stupirci. È la visione di Gioele (Gl 3,1-5), che immagina un futuro nel quale Dio avrebbe donato il suo Spirito a tutti, così che tutti avrebbero potuto parlare le parole di Dio: uomini e donne, liberi e schiavi (At 2,16-21). E lo scopo di questo dono dello Spirito sarebbe stato la salvezza di tutti. I primi cristiani capiscono che il fondamento della novità che stanno vivendo è ovviamente la risurrezione di Gesù; ma la vera novità è che Dio non vuole tenersi staccato dagli uomini. Si è fatto conoscere nella vita di un uomo, che ha liberato dalla morte (orrenda per tutti gli uomini), per certificare che quell’uomo era davvero secondo il suo cuore; e poi aveva concesso a tutti, di qualunque condizione umana, di parlare per annunciarlo. Perché se Dio si dona a tutti, come aveva promesso e fatto in Gesù, e conferma che davvero Gesù è affidabile, non c’è più bisogno, per ascoltarlo, di essere liberi (non schiavi), o maschi, o ebrei, ma davvero tutti possono capirlo, incontrarlo, annunciarlo. Insomma, quello che per Gioele era un sogno degli ultimi giorni, si è compiuto.

Prima ancora di dire che con Gesù è vinta la morte, si dice che con la risurrezione di Gesù non c’è più nessuna condizione umana che ci possa separare da Dio.

Che cosa fare?

È comprensibile che la prima reazione di chi ascolta sia chiedere: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Va comunque notato che Pietro non è partito dal fare, dalla morale, ma dall’annuncio. Più importante di ciò che siamo chiamati a fare, c’è il capire la novità, intuire che qualcosa di decisivo è successo, che da quel momento le cose non potranno più essere uguali.

Poi, certo, si risponde anche alla domanda sul che cosa fare: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Noi siamo condizionati da secoli di annuncio cristiano concentrato sulla morale, e rischiamo di fraintendere. Pietro ha detto che gli ascoltatori sono cattivi? No! Allora, perché dovrebbero tutti convertirsi? Perché in quello che lui ha annunciato c’è qualcosa di nuovo, di imprevedibile, a cui bisogna volgersi: non a caso il senso originario della parola greca che traduciamo con «convertirsi» è «cambiare pensiero».

Pensavamo di dover fare delle cose, un cammino, fatica, per arrivare a Dio; pensavamo anche che alcuni fossero a Lui più vicini, che fosse per loro meno difficile raggiungerlo. Ma Dio, nel dono dello Spirito, ci dice che vuole incontrarci, e che non mette nessuna condizione. L’unica cosa necessaria è che dobbiamo cambiare testa: smettere di pensare di doverci conquistare l’incontro con Lui, e accettare che ci sia semplicemente regalato.

A quel punto anche i peccati possono essere perdonati, con quel battesimo nel nome di Gesù che indica l’intenzione, da parte del singolo, di vivere come e con Gesù, in quell’intimità con Dio che era di Gesù e che lui promette a tutti. A quel punto possiamo ricevere il dono dello Spirito, come garanzia, caparra (cfr. 2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,12) di quell’unione con il Padre che potevamo immaginare ci fosse impedita e che invece il Figlio è venuto a rendere possibile a tutti noi. Grazie a lui diventiamo pienamente figli del Padre (Gv 17,20-21).

È una nuova apertura senza confini quella che si spalanca davanti a coloro che cercano Dio: «Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (At 2,39). Davanti allo Spirito di Dio non ci sono confini, non ci sono muri, non c’è nulla che giustifichi qualunque forma di pregiudizio o privilegio di uomini nei confronti di altri uomini. Per Dio non ci sono distinzioni.

Ecco perché quella che potrebbe sembrarci una semplice annotazione finale, un po’ compiaciuta, sul numero dei convertiti, presenta comunque un particolare che, stavolta, la traduzione non ci consente di apprezzare appieno: «Quel giorno furono aggiunte circa tremila persone». Il greco, però, non parla di «persone» ma di «anime», che indubbiamente è un modo per indicare la persona, ma vista soprattutto nel suo rapporto con lo spirito, con Dio. Non importa il numero, importa che ci siano persone che entrano finalmente in rapporto intimo e autentico con Dio. Per questo viene lo Spirito, per questo Gesù ha dato la vita.

Angelo Fracchia
(3. continua)




Atti degli Apostoli:

il nostro libro

Tempo di novità

Spesso si dice che viviamo in tempi di trasformazione, di cambiamento.
Probabilmente non esiste nessun tempo che non sia di cambiamento, ma è vero che
certi passaggi storici sembrano stravolgere tutto ciò che trovano, e il nostro
è uno di quelli. È comprensibile lo sconcerto dei credenti in Cristo che si
chiedono come continuare a nutrirsi della fede quando tanto sembra contestarla
e spingerla a rinnovarsi. La paura del cambiamento, ovviamente, è quella di
perdere qualcosa di fondamentale. Nello stesso tempo è certo che, restando come
ci si era abituati a essere, si rischia di morire, ossia che il rapporto con
Gesù diventi insignificante innanzitutto per noi, il che sarebbe una grave
perdita per la nostra vita.

Come fare a mantenere equilibrio tra conservazione dell’essenziale e
rinnovamento vitale?

Può confortare che il primo libro nel quale si parla della Chiesa, gli
Atti degli Apostoli, sia situato su uno sfondo simile al nostro. Anche nel I
secolo d.C., infatti, c’era un «grande mondo» che affascinava perché ricco,
luccicante, abbagliante: il potere politico romano, con i suoi commerci e la
facilità dei viaggi, che grazie alla cultura greca metteva a disposizione una
lingua con cui farsi capire ovunque (come oggi l’inglese) e un modello
culturale attento all’essere umano, alla sua intelligenza, alla sua autonomia,
al suo farsi da solo con la forza del cervello e della propria forma fisica. Il
divino sembrava più formale e trascurabile. Accanto, c’era un «mondo antico»
ebraico fatto di regole minuziose che però rimandavano a una saggezza
interiore, di fedeltà al rapporto con un Dio unico, senza statue né quadri, un
mondo che in fondo affascinava gli stessi romani. Gesù non era quasi mai uscito
da questo mondo ebraico, ma i cristiani si troveranno presto sfidati a
entrarvi: come farlo senza perdere la propria anima?

In queste pagine, cercheremo di percorrere il libro degli Atti tenendo
sempre sullo sfondo la nostra situazione e la nostra vita, per provare a
cogliere che cosa quella vicenda di duemila anni fa insegna a noi. Proveremo a
lasciarci guidare dall’ordine del libro biblico, senza essere noi a imporgli
temi o questioni: sia lui a portarci dove ritiene opportuno.

La copertina

Un libro non si dovrebbe giudicare dalla sua copertina, anche se già
questa ci dice qualcosa sul suo contenuto: non solo il titolo o l’immagine sul
frontespizio, ma anche quanto è spesso, quanto è scritto fitto, quante immagini
ha al suo interno, sono elementi che già ci fanno capire se il libro potrà
interessarci o no.

Gli Atti degli Apostoli sono la seconda parte di un’opera che
comprende il Vangelo secondo Luca: questo vuol dire che l’autore pensava al
Vangelo, che pure è autonomo, come un testo in qualche modo da completare con
gli Atti, i quali a loro volta sono autonomi ma non possono essere capiti
appieno senza il Vangelo. Anche se negli Atti non si cita esplicitamente il
Vangelo di Luca, la vicenda di Gesù resta assolutamente il contesto nel quale
comprenderli: pur avendo la vita della Chiesa delle logiche e dei tempi suoi, è
Gesù a renderla sensata.

Nel leggere in greco gli Atti, si resta colpiti dalla trasformazione
della lingua che avviene nel corso dei capitoli: i primi sembrano essere
redatti da qualcuno che, pur scrivendo in greco, continua a pensare con una
testa ebraica (come succede a chi vuole scrivere un bell’inglese pur
continuando a pensare in italiano). Qualcosa del genere succedeva in effetti
anche nel Vangelo, benché nei primi due capitoli di Atti questo avvenga in modo
più marcato. Poi, poco per volta, nel corso della narrazione, la lingua si
purifica, si fa più elegante, più «greca». Dalla metà circa del libro in poi,
siamo davanti a un discorso puro, sciolto, affascinante. È come se anche il
modo di scrivere progressivamente si facesse più internazionale. Non a caso i
primi capitoli si svolgono tutti a Gerusalemme, ma poi un po’ per volta la
geografia si allarga, e nelle ultime righe la storia si sviluppa a Roma, la
grande capitale, il centro del mondo.

L’introduzione (At 1,1-2)

Luca è uno storico che conosce bene il suo mestiere. Gli storici del
nostro tempo dimostrano di fare un buon lavoro quando usano bene le fonti,
fanno vedere di aver consultato gli archivi e danno prova di aver letto le
opere degli altri storici. Al tempo di Luca, un bravo storico mostrava di
essere tale innanzitutto con due strumenti: i discorsi, che non dovevano
necessariamente essere fedeli parola per parola a come erano stati pronunciati,
ma che servivano a spiegare il senso del momento raccontato, a chiarire che
cosa c’era in ballo, e poi l’introduzione, dove lo storico faceva sfoggio della
propria lingua. Il sottinteso era che chi scriveva bene doveva aver studiato
tanto, e quindi essere anche capace di applicare lo studio nella ricerca e
nell’interpretazione dei fatti. E Luca mostra eccome di saper scrivere.

In pochissime parole, nei primi due versetti, dice tantissimo. Intanto
indirizza la sua opera a Teofilo. Chi sia questa persona, non lo sappiamo.
Anzi, potrebbe non essere una persona reale, dal momento che il nome significa
«amico di Dio»: può darsi che Luca intenda dire che qualunque amico di Dio è il
destinatario del suo lavoro. Era indirizzato alla stessa persona anche il
Vangelo (basta guardare Lc 1,3). Per rendere chiaro, fin dall’inizio, che i due
libri vanno letti insieme.

Luca dice poi che nel Vangelo ha
esposto quello che Gesù «iniziò a fare ed insegnare»: con queste parole vuole
dirci che la vicenda storica di Gesù non è finita con la sua ascensione. Il
Signore si identifica con la sua Chiesa, come farà intuire anche a Saulo di
Tarso quando lo incontrerà sulla strada di Damasco: «Io sono Gesù, che tu
perseguiti» (At 9,5), gli dirà, anche se, a essere pignoli, Saulo era convinto
di perseguitare non Gesù ma i cristiani. Nel prologo degli Atti, quindi, Luca
dice che quello che Gesù ha fatto nella sua vita non è finito, ma prosegue
nell’opera dei cristiani. E come Gesù non ha soltanto insegnato, ma ha agito,
così anche il cristianesimo non è questione di conoscenza sola, né solo di
azione, ma di agire consapevole, di intuizione che si fa vita vissuta.

Quindi Luca fa notare che l’opera di Gesù nel mondo è finita (ascende
al cielo) ma non per caso o incidente: egli dà disposizioni ai suoi, organizza
la sua partenza, e infine non è più fisicamente presente ma solo dopo aver
lasciato lo Spirito. Insomma, Gesù continua a esserci ma in una modalità nuova,
che aumenta la responsabilità dei suoi discepoli.

Gesù in cielo (At 1,3-11)

Gesù risorto non resta nel mondo. Lo sappiamo. Anche perché Luca lo
aveva già detto alla fine del Vangelo (Lc 24,51). Là, però, sembra che tutto
sia successo in un giorno solo, qui si parla di un tempo di quaranta giorni tra
la risurrezione e l’ascensione al cielo. Possibile che Luca si sia contraddetto
da solo? A partire da ciò che abbiamo già intuito sulla sua precisione, è
improbabile. Piuttosto, la contraddizione è uno dei trucchi degli scrittori,
soprattutto nell’antichità, per suggerire al lettore quali sono gli aspetti più
importanti cui fare attenzione. Se nel Vangelo ci dice che Gesù è asceso dopo
un giorno e poi, negli Atti, dopo quaranta, significa che la durata non è
importante. E che quindi il dato temporale vuole indicare altro, è un dato
simbolico. Gesù nel Vangelo ascende al cielo il giorno della risurrezione
perché il suo essere il Vivente e il suo essere alla destra del Padre
coincidono. Gesù negli Atti ascende al cielo quaranta giorni dopo la
resurrezione, perché comunque c’è un distacco tra i due elementi, la
risurrezione di Gesù non è soltanto un modo per dire che in qualche modo lui
vive ancora, spiritualmente o nel ricordo: no, lui è davvero il Vivente,
davvero il suo corpo ha lasciato il sepolcro. Ma non è più fisicamente tra noi.

La tentazione di aggrapparci alla nostalgia è umana e Dio la capisce
bene, infatti due angeli, dice Luca in At 1,10, arrivano a scuotere i
discepoli: «Perché state a guardare il cielo?». Andate, agite. Gesù tornerà, ma
adesso non è qui; c’è lo Spirito Santo che vi accompagnerà, ma dovrete metterci
del vostro.

Di nuovo in dodici (At 1,15-26)

Cosa fanno i discepoli appena rispediti nel mondo? Può stupirci, ma
iniziano prima di tutto a recuperare le proprie radici. Innanzitutto, si
trovano nel cenacolo, ossia là dove avevano celebrato l’ultima cena con Gesù.
Con loro ci sono la madre e i fratelli di lui (At 1,13-14): è chiaro che tutto
rimanda a colui che sembra assente. E poi ricostituiscono il numero dei dodici.
Dodici rimandava al numero dei patriarchi, alle dodici tribù d’Israele. Giuda
non c’è più, ma il numero non va perso. È un rimando importante alla storia che
c’è alle loro spalle, a quello che noi chiamiamo tempo dell’Antico Testamento.
Tutto è nuovo, ma non dimentica le proprie radici.

È poi curioso come procedano a scegliere il dodicesimo: selezionano
chi è stato testimone della vicenda di Gesù (At 1,21-22), e ne trovano due. Uno
dei due ha una bella presentazione, più ampia («Giuseppe, detto Barsabba,
soprannominato Giusto»), l’altro ha solo il nome, Mattia. Tra questi si tira a
sorte. Era il modo con cui in Israele si affidava la scelta a Dio. Ancora una
volta si ricorre a modalità «antiche», tradizionali, che stanno alle spalle,
per impostare il nuovo che va costruito. E Dio, stranamente (ma come ha già
fatto tante volte nell’Antico Testamento), sceglie colui che potevamo ritenere
svantaggiato. Fin dall’inizio, si tratta di collaborare noi con Dio per
costruire il nuovo che abbiamo davanti senza dimenticare ciò da cui veniamo.

Angelo Fracchia
(1 – continua)

Iniziamo in queste pagine la collaborazione con Angelo Fracchia che ci accompagnerà alla scoperta del libro degli Atti degli Apostoli, il libro della missione.

Ecco come lui stesso si presenta:

«Ci vuole coraggio per subentrare a un maestro come don Paolo Farinella nel tentativo di far conoscere e affascinare ai testi biblici. Coraggio, o incoscienza. Più probabilmente la seconda. Forse la stessa incoscienza che si mette in campo nel far crescere un figlio, avventura per la quale, a pensarci, non possiamo che dirci incapaci (nel mio caso, poi, quell’incoscienza si è ripetuta quattro volte). O l’incoscienza che ci vuole nel pronunciare un per sempre, quale che esso sia. Potrebbe essere l’incoscienza di chi ama. Che quindi si apre semplicemente in un grazie, nel mio caso a don Paolo, a padre Gigi che – incosciente anche lui – mi ha chiamato a questa bella avventura. Che lo Spirito mi aiuti a dire di lui cose rette, come Giobbe (Gb 42,7), rimproverato per la sua incoscienza ma lodato per come di Dio si era fidato, anche quando se ne lamentava».

Chi è Angelo Fracchia?

Padre di quattro figli, amante della musica, ha studiato all’Istituto biblico di Roma e collaborato come traduttore con l’editrice Paideia. Guadagna il pane quotidiano per sé e la sua numerosa famiglia facendo l’insegnante di religione in due scuole superiori a Saluzzo e Dronero nella provincia di Cuneo. Ma la sua vera passione e missione è far conoscere e amare la Parola di Dio.

Perché gli Atti degli Apostoli?

Uno degli inviti pressanti di papa Francesco a tutta la Chiesa è quello di essere «una Chiesa in uscita». Il libro degli Atti, continuazione del cammino di Gesù nella storia dell’umanità attraverso la sua Chiesa, non è certo un semplice libro di storia, ma è piuttosto una fonte di ispirazione, un paradigma di vita. Il mandato degli Apostoli diventa allora il nostro mandato. Il loro stile di dare la bella testimonianza di Gesù è ispirazione e modello per noi. Non per ripetere quello che gli apostoli hanno fatto, ma per acquisire il loro stesso spirito e imparare e riconoscere l’azione dello Spirito nel nostro oggi.




2019 all’insegna della missione

Buon anno! I nostri auguri ai missionari e missionarie della Consolata, ai
laici che ci seguono e ci vogliono bene, ai tanti amici che, conoscendo il
nostro beato fondatore, seguono il suo esempio e continuano ad invocarlo con
fiducia.

Abbiamo da poco iniziato il cammino di questo 2019 e ci
siamo augurati vicendevolmente che sia «buono» (anzi, migliore dell’anno appena
passato). Certamente ci riserva una bella sorpresa: un intero «mese missionario
straordinario», il prossimo ottobre, dentro il quale si incastonerà il «Sinodo
per l’Amazzonia».

Inutile dire che il Sinodo 2019 ci tocca da vicino, perché
parecchi nostri missionari lavorano in quell’immenso territorio che si allarga
in vari paesi latinoamericani e dove «una profonda crisi è stata scatenata da
un prolungato intervento umano, caratterizzato da una “cultura dello scarto” e
da una “mentalità estrattiva”».

Papa Francesco, prima dell’indizione del Sinodo
amazzonico, così scriveva al cardinale prefetto della Congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli: «Indìco un mese missionario straordinario
nell’ottobre 2019, al fine di risvegliare maggiormente la consapevolezza della missio
ad gentes
e di riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria
della vita e della pastorale. Ci si potrà ben disporre ad esso, anche
attraverso il mese missionario di ottobre del prossimo anno, affinché tutti i
fedeli abbiano veramente a cuore l’annuncio del Vangelo e la conversione delle
loro comunità in realtà missionarie ed evangelizzatrici; affinché si accresca
l’amore per la missione, che “è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è
una passione per il suo popolo”».

A questi due eventi, vorremmo aggiungere la memoria di un
centenario che ci è caro e che celebra la nostra presenza missionaria in
Tanzania, dove i primi quattro «arditi della Consolata» sbarcarono nell’aprile
del 1919; avevano il permesso e la benedizione dello stesso fondatore, che
aveva acconsentito a quella terza apertura missionaria del suo giovane
Istituto, nonostante «la scarsità di personale» e in obbedienza al papa…
soggiungendo: «Io sorrido quando sento dire che c’è tanto lavoro. Più lavoro c’è
e più se ne fa; ma bisogna lavorare con energia, che è la caratteristica del
missionario».

Sia ancora lui, allora, a ispirarci e accompagnarci nel
nuovo anno perché, nella preghiera, nella riflessione e in gesti concreti di
apertura e solidarietà, ci prepariamo al prossimo «straordinario ottobre» che
colora di intensa gioia missionaria i giorni della nostra attesa.

P. Giacomo
Mazzotti

L’Allamano nella vita di ogni giorno

Questa rubrica che propone diversi aspetti della ricca personalità del
beato Giuseppe Allamano, durante l’anno 2019 conterrà due pagine con la pretesa
di una certa novità: un Allamano «a tu per tu».

Non si può dire che l’Allamano non sia conosciuto,
soprattutto nei territori dove vivono e operano i suoi missionari e
missionarie, sia in Italia che in tante altre nazioni. Sono state pubblicate
tutte le sue conferenze come pure tutta la sua corrispondenza scritta e
ricevuta. Le pubblicazioni che trattano di lui sono numerosissime e in diverse
lingue.

Non è facile offrire ancora qualcosa di nuovo
sull’Allamano. A ben pensarci, però, c’è ancora una strada da percorrere. Si
tratta di aprire gli archivi e ascoltare certe sue parole che abitualmente
rimangono nascoste. L’Istituto possiede un archivio molto ricco, nel quale, tra
il resto, è conservata una grande quantità di testimonianze sull’Allamano.

Subito dopo la sua morte, molti sacerdoti, religiosi,
suore e laici, che lo avevano conosciuto da vicino, hanno sentito il desiderio
di riferire i propri ricordi personali. Non volevano che la memoria di un tale
personaggio finisse per scomparire. Quando poi è stata iniziata la causa per la
beatificazione, molte di queste testimonianze sono state garantite dal
giuramento.

È interessante riprendere in mano questi documenti, per
lo più manoscritti, e rileggerli con attenzione. Spesso i testimoni non si
accontentano di parlare di lui, ma riportano addirittura sue parole che
ritengono di ricordare, scrivendo: «l’Allamano diceva…» e, tra virgolette,
riportano le sue espressioni in forma diretta.

Riguardo queste testimonianze, si deve tenere presente
che il testimone ridice le parole dell’Allamano come le ricorda, affidandosi
cioè alla propria memoria. Non è quindi sempre possibile pretendere l’esattezza
assoluta della terminologia, ma solo quella del concetto.

La novità di queste pagine consiste nel fatto che
contengono le parole e le reazioni dell’Allamano «nella vita di ogni giorno».
Non l’Allamano delle conferenze o delle lettere, ma nei suoi interventi in
situazioni concrete della vita, diverse l’una dall’altra e quindi spontanee. In
definitiva un Allamano immediato  proprio
come era nella vita ordinaria.

Proporrò queste parole, riferite dai testimoni e poco
conosciute, attraverso dei fatterelli e facendo notare come l’Allamano li seppe
vivere e interpretare. Le sue parole collegate a questi episodi sono quelle che
i testimoni riferirono avendole udite direttamente da lui.

Al Paese

Il primo tema che propongo riguarda Castelnuovo, suo paese natale, oggi
detto il paese dei santi (Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Giuseppe Allamano).
Sono quattro fatterelli che dimostrano la sua semplicità umana e la sua
ricchezza interiore.

Il primo fatto
tocca la sua vocazione al sacerdozio a proposito della quale l’Allamano seppe
dare la giusta importanza ad un dettaglio della sua infanzia. Un giorno, il
parroco e il sindaco del paese capitarono a casa sua a visitare la mamma.
Avendolo visto lì in cucina, piuttosto timido, domandarono alla mamma: «Che
cosa facciamo di questo ragazzo?». La risposta di quella saggia donna dimostra
che conosceva di quale stoffa era fatto il figlio: «Gli lascio fare quello che
vorrà», rispose. Il parroco, che stimava il ragazzo, non si accontentò: «Non lo
sprechi; lo faccia studiare».

Un fatto così
semplice poteva passare inosservato, ma non per l’Allamano, che fin da ragazzo
sapeva rendersi conto della presenza di Dio nella propria vita.

Ecco il suo
commento, confidato anni dopo ad un suo missionario: «Se non fossero passati da
casa mia il sindaco e il parroco, forse non avrei seguito la vocazione». Sembra
che abbia voluto dire: «È stata la Provvidenza a mandarli a casa mia proprio
quel giorno, quando io ero in cucina con la mamma, che così fu convinta e mi
mandò a studiare a Valdocco da Don Bosco».

Un secondo
fatterello riguarda il suo rapporto proprio con la mamma, quella «santa donna»,
come lui la chiamava, alla quale era molto legato, particolarmente durante gli
anni di una lunga malattia che la portò alla cecità e alla totale sordità. La
mamma era la sorella di Giuseppe Cafasso, morto in concetto di santità. Per
ottenere la guarigione, sicuramente il figlio, affezionato, l’avrà raccomandata
all’intercessione dello zio. Riferendosi poi al fatto che non era stata
guarita, pur essendo sorella, si accontentò di questo bonario commento
confidato ad una suora missionaria: «I Santi non fanno le grazie ai parenti». Né
perse la sua fiducia nel Cafasso, del quale curò la causa presso la Santa Sede
fino alla beatificazione.

Il terzo fatto riguarda la sua
presenza a Castelnuovo. Dopo l’ordinazione, si recò al paese sempre più
raramente. Quando il cognato Giovanni Marchisio si ammalò, andò a trovarlo, ma
senza dilungarsi troppo. Lo raccontò così: «Sono stato a trovare mio cognato;
mi fermai poche ore; alle due ero ancora a Torino, alle sette avevo già finito
il viaggio. Da ben quindici anni non ero più stato a Castelnuovo».

Un ultimo
episodio piuttosto curioso. Al sacerdote don Pagliotti, suo penitente, saputo
che dedicava la nuova chiesa parrocchiale in Torino a S. Agnese, espresse la
sua soddisfazione aggiungendo questa confidenza: «I miei genitori avevano già
deciso, prima della mia nascita, di pormi il nome di Agnese… se fosse nata una
bambina. E poiché nacqui proprio il giorno di S. Agnese [21 gennaio 1851], mia
madre mi instillava gran devozione a questa cara martire, e alla sua protezione
ho pure riposto l’esito del gran passo dell’istituzione delle Missioni della
Consolata».

P. Francesco Pavese




Comunità simpatiche … secondo l’Allamano


Il mese di novembre si apre con la solennità di «Tutti i Santi» e, quest’anno, si apre subito dopo il Sinodo dei giovani che ha avuto tra le sue parole chiave «santità», non certo politically correct (parlando di giovani). Tra i vari documenti del Sinodo, appare anche questa annotazione: «Convinti che la santità “è il volto più bello della chiesa”, prima di proporla ai giovani, siamo chiamati tutti a viverla da testimoni, divenendo così una comunità “simpatica”. Solo a partire da questa coerenza, diventa importante accompagnare i giovani sulla via della santità. Se sant’Ambrogio affermava che “ogni età è matura per la santità”, senza dubbio lo è anche la giovinezza».

Tutti noi adulti, dunque, siamo invitati a diventare «simpatici», ossia attraenti e capaci di accompagnare i nostri giovani sulle strade della santità. In questo, per noi missionari della Consolata, è stato maestro e testimone esemplare il beato Allamano che, con autorevolezza e sapienza, ha saputo esercitare con i giovani aspiranti missionari una vera «pedagogia della santità»; come appare, ad esempio, nelle poche lettere da lui scritte a fratel Benedetto Falda, missionario poco più che ventenne e appena arrivato in Africa.

Ricordandolo con nostalgia e trepidando un poco per lui, l’Allamano gli scrive: «Ciò che ti raccomando particolarmente è di non mai scoraggiarti dei tuoi difetti, sia di umiltà, di ubbidienza, di carità o d’altro. Non sei ancora santo e di questa roba ne avrai sempre, finché vivrai, frutto in gran parte del tuo carattere vivace. Basta che abbia davanti a Dio il desiderio di emendarti… e poi, allegro come prima!». E ancora: «Comprenderai come il mio cuore paterno abbia esultato nel sapere della tua professione perpetua. Il caro p. Morino me ne scrisse una minuta relazione, riferendomi i punti principali del bel discorso del p. Cagliero. Metti in pratica tale predica e sarai il modello di quanti fratelli verranno dopo di te… Felice te! Sarai capo di una grande schiera di santi fratelli in cielo e dovrai lassù anche ringraziare me, che non ti risparmiai le correzioni».

Questi cenni brevissimi, ma luminosi, ci aiutano a scoprire, una volta di più, la volontà del Signore «che ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» (Gaudete et exsultate, 1). Non solo, ma che questa «meta alta» a cui tutti siamo chiamati deve essere proposta ai giovani con l’accompagnamento, l’affetto e la guida sapiente… proprio come il beato Giuseppe Allamano ci ha mostrato e insegnato.

Giacomo Mazzotti

 

Suore per la Missione

I primi missionari della Consolata intravidero subito che il loro apostolato sarebbe rimasto penalizzato senza l’apporto delle suore. Il contatto con l’ambiente femminile e con i bambini, tutto l’apparato infermieristico e, parzialmente, anche quello scolastico, la cura degli ambienti delle missioni, erano situazioni nelle quali le suore si sarebbero mosse molto meglio.

Padre Filippo Perlo, procuratore del primo gruppo, appena quattro mesi dopo l’arrivo in Kenya, inviò un messaggio allo zio, il canonico Giacomo Camisassa, da trasmettere all’Allamano: «Per ora dica al Sig. Rettore che se vuole mandare 100-200 missionari, non vi è che l’imbarazzo della scelta del posto. Ad ogni passo si presentano splendide popolazioni. Se vi sono pochi preti mandi suore. Convertiremo il Kenya con le suore».

Sia l’Allamano che il Camisassa, conoscendo l’esperienza di altri istituti missionari, erano più che convinti della necessità di personale femminile in missione. Così, ben presto, l’Allamano si accordò con il canonico Giuseppe Ferrero, padre della Piccola Casa della Divina Provvidenza, il Cottolengo, ed ottenne che alcune suore Vincenzine partissero per collaborare con i suoi missionari in Kenya.

1903 le prime suore Vincenzine in Kenya

Le missionarie Vincenzine del Cottolengo

Le suore del Cottolengo rimasero in Kenya dal 1903 al 1925, e subito pagarono un alto prezzo in vite umane. La loro santa avventura missionaria si aprì con la morte di sr. Editta e di sr. Giordana già nel 1903, e si concluse con la morte di sr. Maria Carola nel 1925, mentre stava rientrando a Torino in nave. Per lei il mare divenne il suo sepolcro.

In occasione della beatificazione del Cottolengo, nel 1917, prima che tutte le missionarie Vincenzine lasciassero il Kenya, l’Allamano espresse pubblicamente la riconoscenza sua e dei missionari scrivendo: «Mirabile fu la fortezza con cui queste cooperatrici dei miei missionari li coadiuvarono nelle difficoltà degli inizi straordinariamente ardui e duri. Alcune di esse ne meritarono già il premio, volate in Cielo; ma altre ne presero il posto; e anche oggidì, in numero di 36, compatte e sempre molto agguerrite contro il clima, istruite da lunga pratica, compiono un’opera apostolica di cui la loro modestia vieta di dire il valore e il merito, precedendo, come anziane, le già numerose missionarie della Consolata, divenute loro compagne di apostolato».

Le missionarie della Consolata

Quando i responsabili del Cottolengo non furono più in grado di rispondere alle esigenze delle missioni che chiedevano suore sempre più numerose, l’Allamano si vide costretto a prendere in esame l’eventualità di iniziare un istituto femminile per conto suo. A spingerlo in questa direzione erano pure le insistenze dei missionari.

Per iniziare l’istituto delle missionarie, l’Allamano seguì il suo metodo di discernimento che usava per ogni attività importante e consisteva in questo trinomio: pregare, consigliarsi e ubbidire.

Certo pregò molto. Non disse mai quanto, ma in occasione della memoria liturgica del beato Cottolengo si lasciò sfuggire questa confidenza con le suore: «Oggi è la festa del beato Cottolengo. Prima d’incominciare il vostro istituto io sono andato a pregare sulla sua tomba. Naturalmente ho dovuto pregare e poi consigliarmi e ciò ho fatto non solo coi galantuomini di questo mondo, ma anche coi Santi. Gli ho detto: “Ho da fare questo istituto o no? Veramente avrei più caro di non farlo; la mia pigrizia vorrebbe quello. Anche voi avreste fatto tanto volentieri il canonico, eppure avete realizzato questo complesso di carità. Dunque, devo farlo o non farlo?“». Poi quasi scherzando: «Quel che mi abbia detto non lo dico a voi. Però, se non si faceva l‘istituto per i missionari, non si faceva per voi sicuro». E le suore capirono.

La prima foto della Suore della Consolata in Kenya

Si consigliò, come disse, anche con i «galantuomini di questo mondo». Sicuramente con il suo arcivescovo, il card. Richelmy, e con il prefetto di Propaganda Fide, il card. Girolamo Gotti. Tutti lo spingevano per quella direzione, incoraggiandolo ad iniziare presto. Chi, però, diede la spinta decisiva fu il papa san Pio X. L’Allamano stesso raccontò come si svolsero le cose durante un’udienza privata con il papa. Mentre ricordava alle suore la fondazione dei missionari, fece questa precisazione: «Poi, ma molto più tardi, siete venute voi, ma voi siete del papa Pio X. Una volta che gli parlavo di questa nuova fondazione, mi disse: “Bisogna farla”. E avendo io aggiunto che credevo di non avere la vocazione per questo, egli mi rispose: “Se non l’hai te la do io”. Ed ecco le suore».

Su questo particolare l’Allamano ritornò altre volte, perché per lui non era solo un dettaglio insignificante, ma la più esplicita espressione della volontà di Dio. Alle missionarie disse ancora: «L’idea della fondazione venne dal papa Pio X, che è il rappresentante di Gesù Cristo in terra, quindi non c’è stato neppure un momento che questa istituzione non sia stata di Nostro Signore». E in altra occasione: «È il papa Pio X che vi ha volute; è lui che mi ha dato la vocazione di fare delle missionarie». L’obbedienza al papa fu il fondamento della sua serenità di fondatore e di educatore delle missionarie.

C’è una testimonianza che aggiunge un aspetto originale e forse determinante. Secondo quanto scrisse padre Giuseppe Gallea, sembra che sia stato addirittura Pio X a suggerire la vera motivazione della fondazione: «Le opere in missione – avrebbe detto il pontefice all’Allamano -, procederanno meglio se le suore saranno formate con lo stesso spirito che avete dato ai missionari».

Missionarie della Consolata in Etiopia si adattano ai mezzi di trasporto locale.

Molte suore, poche missionarie

Raccomandando alle loro preghiere il card. G. Gotti morente, l’Allamano così si espresse con le missionarie: «Era un uomo di fede; fu anche lui che mi incoraggiò a fondare le suore; egli stesso mi disse: è volontà di Dio che ci siano le suore. “Ma, risposi io, suore ce ne sono già tante”. E lui: “Molte suore, poche missionarie”».

Ben presto si passò alla realizzazione pratica, dando vita alla prima comunità delle missionarie della Consolata, ufficialmente il 29 gennaio 1910. L’annuncio al pubblico fu senza rumore. Sul periodico «La Consolata» del mese di febbraio 1910, figurano poche righe, che non accennano ad una “fondazione” ma la lasciano supporre: «La Direzione del periodico riceve spesso domande di informazioni da persone che vorrebbero prendere parte come suore nelle missioni della Consolata. Avvertiamo che per questo si rivolgano alla “Direzione Istituto Missionarie”, corso Duca di Genova, 49 – Torino». Tutto qui, secondo lo stile dell’Allamano: operare con ardore, ma senza apparire!

Francesco Pavese

 


Il valore dell’interculturalità

Crescere vivendo nell’interculturalità

L’interculturalità non è semplicemente un modello nuovo e più efficiente, magari per impostare la nostra attuale internazionalità o almeno mantenerla il più possibile libera da conflitti. Interculturalità, nella spiritualità del nostro Istituto, significa molto di più, cioè è invito a una visione più profonda dell’attuale mondo plurale e in continua evoluzione, e delle persone che lo abitano, indipendentemente da lingua, cultura e religione.

Una visione che è in sintonia con la «contemplazione cristiana a occhi aperti» e che  va considerata anche nelle relazioni interpersonali all’interno delle nostre comunità formative.

Voi, cari giovani, siete privilegiati su questo punto, perché le vostre comunità sono di fatto internazionali e, conseguentemente, interculturali. Voi potete formarvi e crescere nell’esperienza vissuta dell’interculturalità.

La vostra generazione, fatta adulta, non potrà non essere interculturale. Nei nostri noviziati e case di formazione i segni dell’interculturalità sono già numerosi ed evidenti. Vi invito a continuare a percorrere il cammino intrapreso dando il meglio di voi. In un mondo caratterizzato dal pluralismo culturale, è compito profetico della Chiesa e nostro, come Istituto, offrire al mondo nuovi modelli esemplari della vita comunitaria.

Ci potrebbe essere il rischio che, impegnandosi ad aderire alle varie culture, gradatamente si sottovaluti o si trascurino l’origine e la tradizione. Ricordiamoci che tutto possiede il suo valore. L’albero si mantiene vivo e produce frutto, se conserva le sue radici vive e sane. I futuri missionari della Consolata saranno necessariamente una famiglia interculturale, ma con tutti i valori e con lo spirito immutato proprio dell’Allamano. Questo ideale è stimolante e merita perseguirlo.

Il beato Allamano

Cari giovani, vi propongo un esercizio interessante, che consiste nel confrontare  voi stessi con il fondatore vivo e perenne. Perché sia efficace, questo confronto deve essere realizzato spesso, non una volta sola, e in modo concreto, vitale e adatto al particolare momento che uno sta vivendo.

«Confrontarsi» con il fondatore significa compiere un gesto formativo di prim’ordine, purché sappiate porvi di fronte a lui, così come siete, lasciandovi conoscere e interrogandolo, magari discutendo, per poi rispondergli. Le risposte, però, non ve le dovete dare per conto vostro, con l’ausilio della vostra fantasia. Esse devono essere oggettive, cioè contenere la verità dello spirito del fondatore. Dire: «Oggi, il fondatore mi direbbe o farebbe così…», può essere comodo. Perché sia anche vero, si richiedono genuine disposizioni interiori, che impediscano di «barare».

Oltre alla conoscenza, è indispensabile la «Sapienza», e questa virtù ce la dona lo Spirito. Per cui, prima di confrontarvi con il fondatore, oltre alla coscienza di conoscere lui, la sua storicità, il suo pensiero, dovete «pregare», per avere luce e forza: luce per non sbagliarvi, forza per non voltarvi da un’altra parte e fingere di non aver capito. Il fondatore, anche oggi, non chiede l’impossibile, ma la coerenza, nel clima di fervore che ha sempre proposto ai suoi missionari.

Quando l’Allamano era con noi su questa terra, assicurava personalmente questo confronto con la comunità e con i singoli, mediante la sua opera formativa. Conosceva ognuno personalmente. Ora, continua a garantire questo confronto con l’ispirazione.

Come allora, anche oggi, a quanti sono suoi discepoli, è richiesto di essere attivi, accogliendo il suo insegnamento, seguendo le sue proposte, confrontando con lui la propria vita e la propria attività. Chi non realizza questo contatto esistenziale di conoscenza, sequela e confronto perché è negligente o perché non gli interessa, si pone al di fuori del suo influsso. Lo possiamo paragonare a quanti, durante la sua vita terrena, erano svogliati, distratti o freddi e non lo seguivano. Senza dubbio, nessuno di loro è diventato missionario della Consolata o, se lo è diventato, lo era solo giuridicamente, ma non nell’identità vocazionale.

Perché il contatto con colui che sentite «padre» della vostra vocazione si realizzi pienamente per tutti voi, vi assicuro la mia preghiera presso la Consolata e il fondatore, ai quali chiedo una speciale benedizione sui nostri noviziati e case di formazione, che sono il futuro della nostra famiglia missionaria.

Signore, ti ringraziamo per il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Padre e maestro, ci ha insegnato ad essere missionari in spirito di famiglia e santità di vita. Aiutaci a vivere con fedeltà e ardore la nostra consacrazione missionaria nella condivisione dello stesso carisma, nell’amore fraterno e nello zelo apostolico. Insegnaci ad annunciare a tutti che Tu sei Padre e chiami ogni persona, popolo e cultura a fare parte del tuo progetto universale di salvezza. Amen.

Aquiléo Fiorentini

Padre Aquiléo Fiorentini, brasiliano di nascita, è stato il primo superiore generale non italiano dell’Istituto missioni Consolata. Era pertanto logico che sentisse particolarmente importante il tema dell’interculturalità, verso cui l’Istituto sta camminando a passi veloci. Cogliamo da una sua lettera, del 20 maggio 2010, rivolta ai missionari giovani, una riflessione sul tema dell’interculturalità e della fedeltà al fondatore.

 

  1.  



Giovane: riconosci, comprendi, scegli…


Sei fuggito da un conflitto che ti pareva insanabile, e ti vedeva colpevole. Sei fuggito per salvare la tua vita da chi ti cercava e da te. E nella fuga hai ricevuto il sigillo della tua identità: uomo solo al quale il Dio di Abramo e di Isacco promette discendenza, terra e protezione. Uomo ferito per il quale si ritroveranno benedette tutte le nazioni della terra. Uomo colpevole, visitato in sogno da Dio, ai piedi di una scala che unisce terra e cielo.

Perché fosse la fiducia in Lui a generare la certezza di Lui, e non il contrario, ti ha incontrato nel sonno: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). E ti ha fatto rabbrividire il pensiero di quanto Dio fosse vicino, proprio a te e alla tua vita ingannata.

Sei di ritorno ora, dopo anni di fuga. Sei vicino alla terra che ti ha visto ladro e fuggiasco, e hai timore per la tua vita e per quella di chi ti è caro. Dio, che nel sogno ti aveva detto: «Io sono con te e ti accompagnerò dovunque tu andrai», ha mantenuto la promessa. E, certo, ti accompagna anche adesso, all’incontro con le conseguenze dell’antico inganno. Ti manca solo una cosa: la sua benedizione.

Sei di nuovo solo, è notte e il Signore si fa avanti. Non in sogno questa volta, ma in un corpo di uomo che lotta contro di te (Gen 32,25). Ti ferisce all’articolazione del femore, fa emergere la tua ferita profonda dalle gambe che hanno sorretto la tua fuga. Ma tu non cedi. Sai che quella lotta non prevede sconfitti, sai che incontrare l’altro e rimanere vivo è possibile. La ferita non estingue il desiderio di essere benedetto. Essa, anzi, è parte di quel desiderio, ne è conseguenza, e causa. E, alla fine, vinci. Non ti sei fatto sconfiggere dalla tua ferita, l’hai riconosciuta, lasciandola riconoscere da Dio, lasciandoti riconoscere da Dio con essa. Torni integro, finalmente. E il Signore ti benedice per ciò che sei, benedicendo per te tutte le nazioni della terra. Ora la promessa è compiuta e spunta l’alba. Rivelato a te stesso da Dio, puoi finalmente pronunciare il tuo nome, Giacobbe, e ricevere un nome nuovo, Israele, «colui che lotta con Dio» (e vive).

In questo ottobre missionario, mese del sinodo dei giovani, amico ti augura di riconoscerti, con la tua storia irripetibile, di comprendere la tua vita alla luce di una promessa che ti riguarda, di scegliere di essere, già oggi, tramite di benedizione per tutte le nazioni della terra.

Luca Lorusso

foto in CC da BostonCatholic / flickr.com




Pillole «Allamano» 7: Canali e conche


Siate conche, non canali, con i beni spirituali
Siate canali, non conche, con i beni materiali

Un medico cinese (ma sarebbe stato d’accordo con lui anche il mio vecchio pediatra) direbbe che la medicina ha bisogno di un approccio «olistico» se vuole essere efficace e portare a un benessere effettivo dell’individuo. Detto in parole povere, essa deve coinvolgere ogni aspetto riguardante l’essere umano, tanto materiale quanto spirituale.

La pillola di questo mese è un medicamento antico che punta a offrire una cura completa, un ritrovato che il nostro «farmacista» Giuseppe Allamano ha ereditato da una tradizione lontana. Antico non significa necessariamente antiquato, superato o, per usare un termine farmaceutico – visto che si parla pur sempre di pillole – scaduto. I rimedi della nonna rivelano, talvolta anche oggi, la loro efficacia, nonostante noi, gente super sofisticata del 21° secolo, facciamo fatica a crederlo.

Lo spunto per riflettere su questo consiglio che l’Allamano ci offre lo troviamo in un passo del Sermone 18 al Cantico dei Cantici di san Beardo da Chiaravalle. In esso il santo, dottore della Chiesa e maestro di spiritualità medievale, mette in guardia coloro che vogliono effondere lo Spirito prima che esso venga in loro infuso. In breve, secondo Beardo, lo Spirito Santo compie in noi una duplice operazione: infusione ed effusione. La prima ci fortifica interiormente, a nostro vantaggio e per la nostra crescita spirituale. Attraverso l’infusione dello Spirito in noi, riceviamo doni come fede, speranza e carità, doni che sono nostri, che servono alla nostra salvezza. Altri doni (per esempio, scienza, sapienza, profezia, guarigione, lingua, ecc.) li riceviamo per il bene spirituale del prossimo, per donarli a chi ne ha bisogno. Di fatto, ricorda Beardo, essi non sono indispensabili per la nostra salvezza, ma ci sono concessi a beneficio altrui, per compiere verso il nostro prossimo un atto di misericordia che serva da aiuto in un cammino di crescita spirituale.

I primi doni, quelli infusi, sono condizione affinché i secondi possano convertirsi in strumenti di salvezza. È necessario essere ripieni dello Spirito prima di poterlo effondere, sostiene Bernardo. A poco servirebbero il dono della parola o quello della scienza se per mancanza di carità non li condividessimo con il nostro prossimo; ugualmente sterile sarebbe però la persona che volesse condividere i suoi talenti senza fondarli su una solida base spirituale. Solo in questo modo i doni condivisi saranno in grado di dissetare, sanare, esortare, far crescere nella fede, dare speranza, riempire di amore. Bernardo teme la superficialità e per questa ragione definisce la persona saggia come colei che è capace di essere conca, vasca, piuttosto che canale. Il canale, infatti, nel momento in cui riceve riversa, mentre la conca raccoglie, aspetta di essere piena e comunica della sua abbondanza. Purtroppo, è l’amara constatazione di san Bernardo, si hanno nella Chiesa molti più canali che conche; molte più persone che vogliono trasmettere ciò che non hanno, insegnare quanto non hanno imparato, parlare prima di ascoltare, indicare ad altri cammini che non si sono mai percorsi, né si saprebbe come iniziare a esplorare. Dai tempi di Beardo, passando per quelli di Giuseppe Allamano fino ad arrivare ai giorni nostri, le cose non sono cambiate più di tanto. Risuonano profetiche ed attuali le parole dell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, scritta ormai quasi 40 anni fa e giustamente riproposta con insistenza in questi ultimi tempi, in cui papa Paolo VI ricordava a tutti come, in materia di evangelizzazione, il mondo fosse molto più interessato all’ascolto dei testimoni piuttosto che dei maestri (EN 41).

Le persone che incontriamo sono completamente disincantate nei confronti di parole pur belle ma vuote. Le parole piene, al contrario, sono quelle che non girano semplicemente nella bocca, ma ricevono la loro forza dal cuore. La conca in cui sono custodite le rende cristalline e pure, permette ai detriti di depositarsi sul fondo lasciando che le mani che si racchiudono per bere attingano all’acqua più pura. A volte anche le buone azioni possono essere piene di detriti e persino l’esercizio della misericordia corre il rischio di essere frainteso, equivocato e abusato se non scaturisce da una fonte profonda e ricca.

Giuseppe Allamano raccoglie le parole di Bernardo e le fa sue. Professore di morale per molti anni, sa per esperienza che il bene è un oggetto fragile e va trattato con dolcezza e delicatezza. Se lo si porge con poco garbo si può rompere facilmente e solo con difficoltà può essere riparato. Lo vediamo anche noi oggi. Ne facciamo esperienza quotidiana entrando in contatto con persone ferite dalla banalità di un cristianesimo di facciata, raccogliendo storie che narrano promesse di grazia tradite, incontri col nulla camuffati da esperienze di fede, bisogni reali affrontati a colpi di bla bla bla e mai soddisfatti. A volte sono le nostre stesse debolezze a fare strage delle speranze altrui, a tradie le aspettative; non lo si può evitare, è lo scotto che si deve pagare al fatto di essere umani e fallibili. Questa fragilità può essere però limitata. L’apertura allo Spirito è la prima attitudine da coltivare se si vuole essere fonti vive. Tuttavia, sappiamo bene che tale apertura non potrà aver luogo se non si ricercano momenti di preghiera, silenzio e incontro con Cristo in grado di permetterci di accogliere il dono del suo Spirito. Occorre trovare spazi che permettano l’echeggiare della Parola nel profondo di noi stessi, anche se ciò potrà essere causa di sofferenza. La Parola, infatti, è spada a doppio taglio, che penetra e purifica, divide, pota, converte (cf. Eb 4,12).

La nuova evangelizzazione, di cui tanto si parla in questi ultimi tempi, altro non è che un modo credibile di presentare la Buona Notizia di sempre. Oggi, in effetti, la gente non ha bisogno di tante parole. Bastano 64 battute per lanciare un tweet nel ciberspazio ed essere letto da centinaia, migliaia, milioni di followers (Papa Francesco ha 14 milioni di persone che lo seguono su Twitter). La differenza la fanno il contenuto e ciò che sta sotto a esso. Le banalità possono risultare interessanti e anche divertenti, ma alla fine stancano. C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la propria missione in modo autentico ed efficace.

 

Trattenere i beni spirituali, arricchirsi di essi è un atto di misericordia e non di egoismo. Chi si fa conca dei doni dello Spirito automaticamente dona con generosità, perché è lo Spirito stesso che, infuso, effonde grazia su grazia, annunciando ciò che deve e non ciò che vuole, senza risparmiare le verità scomode, senza ammiccare al mondo per paura di non piacere.

Giuseppe Allamano prende il consiglio di San Bernardo, lo completa e lo propone ai suoi missionari in una versione riveduta e corretta che ci fa vedere la sua originalità di pensiero: «S. Bernardo dice che noi a riguardo del prossimo dobbiamo essere conche e non solo canali […], ma in questo [beni materiali] dobbiamo essere solamente canali e non conche, e questo lo dico io» (Conferenze IMC, III, pagg. 46-47).

«E questo lo dico io!». Giuseppe Allamano è un sacerdote che desidera fortemente che i suoi siano persone spiritualmente ricche; vuole però anche che la loro spiritualità non si converta in uno spiritualismo eccessivo, avulso dalla realtà. I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare alla corrente del canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». La missione è annuncio di un dono, del regalo che Dio fa al mondo tanto amato: l’unico suo Figlio offerto per la salvezza di tutti (Gv 3, 16). Un mondo scettico, qual è quello di oggi, deve essere aiutato a credere, e per questa ragione deve poter vedere il dono. Non possiamo trattenerlo, nascondendolo alla vista di chi lo cerca, a volte con ansia o con disperazione. Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero sacramentini, che avessero uno spirito eucaristico, che fossero pane spezzato per calmare la fame delle genti. Per decenni i Missionari e le Missionarie della Consolata ne hanno seguito l’invito e si sono fatti essi stessi dono, aiutati dalla generosità di tanti amici e benefattori che, pur senza partire fisicamente per la missione, ne hanno sostenuto lo svolgersi e lo sviluppo, talvolta a prezzo di grandi sacrifici.

Giuseppe Allamano ha parlato al cuore di molti, con il suo spirito semplice e diretto, e oggi continua a parlare anche a noi, invitandoci a essere segni di uno stile di vita alternativo a quello che il mondo propaganda, esortandoci a non stancarci di dare. La crisi che stiamo vivendo suggerirebbe forse di trasformarci in conca anche per quanto riguarda i beni materiali, perché «non si può mai sapere …». In effetti oggi il cristiano è chiamato a fidarsi maggiormente della Provvidenza anche nel nostro Occidente che, fino a poco tempo fa, dispensava i più dal doverlo fare con radicalità. Del resto, la vita stessa di Giuseppe Allamano è stata un canto alla Provvidenza, la storia di un uomo che si è fidato di Dio, investendo tutto quanto aveva nel progetto missionario al quale si sentiva chiamato. «Bisogna fidarsi della Provvidenza e meritare i suoi aiuti», sosteneva. «Mai ho perso il sonno per questioni di denaro», ha detto più volte ai suoi missionari, testimoniando con la sua esperienza che il dare senza risparmio, senza se e senza ma, paga i suoi dividendi nel modo misterioso che solo Dio conosce.

Inutile dire che essere una conca ripiena di spirito aiuta a comprendere la sapienza nascosta dietro alla necessità di essere anche canale in cui scorrono copiosamente e generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Pillole «Allamano» 1: Cercate Dio solo e la sua santa volontà

I dieci consigli («pillole») contro il logorio della vita moderna che, a partire da questo mese e per tutto l’anno, MC vi offre, sono anche conosciuti come «I dieci comandamenti» dell’Allamano». Nati dalla creatività di mons. Luis Augusto Castro (missionario della Consolata e arcivescovo di Tunja, Colombia) essi riassumono in poche parole il pensiero del nostro Fondatore. La sintesi che ci propongono non è sicuramente esaustiva. Del resto, come potrebbero dieci frasi esaurire il pensiero di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita all’apostolato diocesano e alla missione? Sono però dieci passwords che colpiscono per la loro brevità e immediatezza, e offrono una chiave di accesso all’umanità e alla spiritualità di un santo prete, come fu senza ombra di dubbio Giuseppe Allamano. Va detto inoltre che lo spirito di questi brevi articoli non è tanto quello di spiegare il pensiero del nostro Fondatore, quanto quello di partire da alcuni suoi spunti per offrire una scintilla di spiritualità missionaria che possa illuminare la nostra quotidianità.

«Contro il logorio della vita moderna» era il motto che reclamizzava anni fa un noto liquore digestivo. La vita contemporanea non ha certamente diminuito il suo impatto devastante sui nostri sistemi gastrici, né ha contribuito a migliorare la qualità delle nostre relazioni. Va da sé che, forse, il nostro logorio esistenziale vada affrontato con qualcosa di diverso di un digestivo, qualcosa che tocchi alla radice il malessere del quotidiano che ci sfida impedendoci di raggiungere la serenità nella quale vorremmo essere immersi. Fermo restando che la perfetta felicità è un obiettivo che raggiungeremo a tempo debito, viene da chiedersi se, in materia spirituale, sconfiggere le amarezze con qualcosa di amaro sia il rimedio più adatto.

 

La cura offerta dai consigli di Giuseppe Allamano vuole essere un rimedio dolce, se non altro perché proprio la dolcezza era una delle qualità principali del nostro Fondatore, come venne del resto raccontato da chi ebbe modo di incontrarlo di persona. Certamente, come tutti i rimedi, anche questa cura potrà lasciarci in bocca il sapore non gradito di una medicina, ma pensiamo che, se davvero potrà farci bene, il gioco varrà la candela. Il beato Allamano, ce l’avrebbe somministrata con uno zuccherino, giusto per darci un incoraggiamento, una spinta a fare bene, meglio o diversamente.

Devo dire che non mi piace definire questi pensieri come dei «comandamenti». Innanzitutto perché estrapolati come sono da un contesto più ampio perdono obbligatoriamente la loro forza coercitiva; non appartengono a nessun codice. In secondo luogo, perché l’insegnamento spirituale di Giuseppe Allamano è caratterizzato da un approccio molto dialogico ed esperienziale in cui il «si deve fare così» o il «non si deve fare così» non nascono tanto dall’esigenza di imporre una dottrina, quanto e soprattutto dalla comunicazione di un’esperienza di vita, la sua o quella dei suoi punti di riferimento: Cristo, la Madonna e i Santi, iniziando da suo zio, San Giuseppe Cafasso.

Questo approccio mi sembra molto moderno e attuale. Forse è per questo che, in un’epoca in cui ogni tipo di autorità viene messa in dubbio, e quella ecclesiale in particolar modo soffre la sindrome dell’abbandono, la figura dell’Allamano continua ad attirare le persone, anche al di fuori della vita religiosa o del sacerdozio. Il suo understatement, tipico del piemontese doc quale lui era, lo rendeva una persona affabile e disponibile ai suoi contemporanei e continua a renderlo tale a noi. A tutti, ieri e oggi, Giuseppe Allamano propone il suo primo Consiglio, la prima e fondamentale medicina per l’uomo contemporaneo: «Cercate Dio solo e la sua santa volontà».

 

Ad maiorem Dei gloriam … per la maggior gloria di Dio. In un periodo in cui la spiritualità è intrisa degli insegnamenti di Sant’Ignazio di Loyola, Giuseppe Allamano fa suo questo motto del fondatore dei gesuiti per tracciare quello che per lui è un vero e proprio programma di vita. Durante le sue conferenze, importanti momenti di insegnamento e condivisione rivolti a missionari e missionarie in formazione, ne ripete varie volte le parole e il senso. In un mondo che ha celebrato nel recente passato «la morte di Dio» e che continua oggi a vivere e operare scelte come se Dio non esistesse, questo prete piemontese ci invita ad andare «in direzione ostinata e contraria» (prendo a prestito questa frase da una canzone di Fabrizio De André), scegliendo Dio come unica ragione del nostro esistere. Solo Dios basta, diceva Teresa d’Avila, altra santa amata e citata da Giuseppe Allamano. Dio è sufficiente: lui soltanto è il termine ultimo del nostro tanto arrabattarci.

Chiaramente il «cercare Dio soltanto» significa relativizzare i nostri bisogni, le nostre necessità e, perché no, almeno ogni tanto, anche i nostri capricci. Un esercizio chiaramente in controtendenza in un’epoca in cui, al contrario, si relativizza Dio in nome di un individualismo sempre più sfrenato.

Mi sembra importante l’accento che Giuseppe Allamano pone sull’azione di «cercare» Dio, condizione necessaria per poterne fare poi la volontà. Dobbiamo imparare a lasciare parlare il Signore, mettendoci, come lui stesso diceva, in un atteggiamento di «santa indifferenza», che non vuol dire farsi gli affari propri, quanto invece «mettere da parte il nostro ingombrante io» per cogliere la presenza di Dio lì dove egli vuole manifestarsi ed essere disponibili a fare ciò che da noi vuole, con determinazione e perseveranza.

Il cammino di fede si genera nell’incontro con Cristo, incontro che deve però essere continuamente alimentato per poter crescere, rafforzarsi, diventare energia vitale capace di muovere montagne (cf. Mt 17,14-20). Ognuno di noi conosce bene i mille terreni accidentati di cui è formata la propria esistenza, in cui il seme della Parola che cade non trova le condizioni per dare frutto. La vita di fede è fatta di un continuo procedere alla ricerca del terreno fertile e, una volta trovata la terra buona questa va curata, coltivata, concimata e difesa da chi potrebbe rovinarla. Il missionario e, più in generale, il cristiano non può permettersi di smettere di cercare Dio e la sua volontà lì dove vive, ogni giorno della sua vita.

Sicuramente Giuseppe Allamano è un uomo di preghiera. Dio lo cerca nel silenzio del Santuario della Consolata, nel «coretto» da cui può contemplare in un’unica occhiata i due amori della sua vita: la Madonna e l’Eucaristia. Tuttavia, la straordinaria capacità che gli viene riconosciuta nel rispondere ai bisogni delle persone o delle situazioni che si trova davanti, dimostra come Dio gli si presenti anche in tanti altri modi: nei drammi personali ascoltati nel confessionale, nelle solitudini e nelle sofferenze delle persone che assiste nel suo apostolato, nelle lettere e nei diari dei suoi missionari e missionarie che, da lontano, gli raccontano le gioie e le difficoltà della vita in missione.

 

Oggi abbiamo bisogno di riscoprire questo approccio che ci impone di cercare Dio «solo», ma ci chiede anche di non cercarlo «da soli». Papa Francesco ci spinge, con la forza di cui è capace il Vangelo quando deve imporre la verità, a percorrere strade affollate, a farci compagni di viaggio di chi cammina, a volte con fatica, i percorsi accidentati della vita. Non possiamo permetterci, come missionari del Vangelo, di annunciare un Dio che non è in sintonia con la vita che viviamo, che non parla il linguaggio dei giovani, che non si interessa di chi sta per perdere il lavoro, che non viaggia sui gommoni di chi fugge dalla fame o dalla guerra, che non dice due paroline giuste nell’orecchio di chi, in nome dei diritti del proprio Ego, è disposto ad abbandonare ai margini della storia chi non riesce a trovar posto nel suo progetto di vita.

Come alcuni anni fa sosteneva giustamente Stephen Bevans, uno dei più importanti teologi contemporanei della missione, la figura del missionario può essere paragonata a quella di un «cacciatore di tesori», che si reca in un posto carico della ricchezza della buona novella e l’annuncia, rendendosi però conto molto presto che le sue parole non evocano assolutamente nulla alle orecchie di chi lo ascolta, proprio perché non sono espresse con la lingua e con le forme culturali appropriate. Scavare nelle culture per estrarre il tesoro nascosto vuol dire essenzialmente incontrare l’essere umano nel suo contesto, agire con una mistica dagli occhi aperti, capace di una spiritualità concreta, atterrata nella vita di tutti i giorni. Vuol dire scavare non da soli, ma con la gente che ci è vicina, con la quale ci si incontra o ci si scontra tutti i giorni in famiglia, per la strada, al lavoro, o nelle nostre comunità ecclesiali. Dio vive nella storia, e la sua ricerca, fenomeno che nasce e matura inizialmente nel cuore dell’essere umano, assume la sua forma più piena e compiuta quando viene condivisa, con chi è di casa e con chi è lontano, con chi la pensa come noi e con chi può insegnarci qualcosa da un’esperienza diversa dalla nostra, con chi ci precede nel cammino della fede o con chi si aspetta da noi una parola di consolazione.

Ancora oggi colpiscono l’immediatezza e la concretezza di Giuseppe Allamano, qualità che sintetizzano molto bene la cultura contadina delle sue origini e la mentalità dell’uomo vissuto quasi sempre in città, capace però di spalancare le finestre della sua casa sugli orizzonti infiniti della missione. Pur con un raggio di azione davvero limitato (l’Allamano ha vissuto 46 anni della sua vita come rettore sempre dello stesso santuario), questo sacerdote della diocesi di Torino ha insegnato alle prime generazioni di missionari della Consolata ad allargare i paletti delle loro tende e spinge noi, figli e figlie del nostro tempo, a essere uomini e donne globali, planetari (per usare la definizione di un altro grande prete a noi più contemporaneo, Ernesto Balducci) desiderosi di cercare Dio, ma anche di non limitare la ricerca solto ai posti dove pensiamo di trovarlo con certezza.

Ugo Pozzoli

Incontro al beato Giuseppe Allamano
tramite le sue foto.


 

L’Allamano è vissuto nel tempo che ha visto nascere la fotografia, uno strumento in cui ha creduto, anche se non ha mai amato farsi fotografare. è lui che ha chiamato Secondo Pia, il fotografo della Sindone, a fare le prime foto del quadro della Vergine Consolata. è lui che ha voluto che i suoi missionari in partenza per l’Africa fossero dotati delle più moderne macchine fotografiche e imparassero «il mestiere» dai professionisti. È lui che per il periodico «La Consolata», madre di questa rivista, ha voluto stampe fotografiche di altissima qualità ottenute con lastre allora prodotte solo a Vienna, in Austria.

La foto che vi presentiamo questo mese è stata fatta nel 1923 in occasione del suo 50° di sacerdozio. È il particolare di una lastra da 13×18 cm, in cui il beato Allamano è ritratto seduto con lo sguardo rivolto a una statuetta della Consolata e con il libro del regolamento di vita dei Missionari della Consolata da lui fondati in mano. Per l’occasione i fotografi crearono un set improvvisato nel cortile di del Convitto Ecclesiastico attaccato al Santuario della Consolata a Torino, utilizzando due tappeti, uno di rovescio (con la fodera rossa x creare lo sfondo nero) e uno in terra, e un tavolino per dare l’illusione di una sala arredata. La foto, pesantemente ritoccata sulla lastra originale per correggere i limiti di stampa del tempo, è ora visibile nella sua bellezza originale che ci restituisce il volto sereno del nostro Beato Padre Fondatore.

Ugo Pozzoli




Pillole «Allamano» 6. Siate forti, energicie virili nell’apostolato


Poche settimane fa, un mio caro confratello portoghese mi comunicava che la madre superiora di un convento di suore contemplative gli aveva affidato il compito di preparare alcune «palestre» che potessero aiutare spiritualmente le sorelle della comunità. Associare però l’età media delle monache nonché agli acciacchi che non le risparmiano alle «palestre» che le attendevano mi ha fatto pensare che, forse, qualcosa non andava. Premetto che il confratello portoghese parla italiano in maniera pressoché perfetta, ma, pur essendo lui stesso un atleta, qualcosa mi faceva dubitare del fatto che gli fosse stato chiesto di far fare della ginnastica alle suore, e che piuttosto mi trovavo dinnanzi a uno dei tanti «falsi amici» di cui le nostre lingue neolatine sono ricche. Con il termine «palestra» in portoghese si intende infatti una conferenza e, per estensione al nostro gergo religioso, una breve giornata di ritiro e meditazione spirituale.

Ho ripensato a questo piccolo qui pro quo riflettendo sul titolo della «pillola» allamaniana di questo mese: «Siate forti, virili, energici», tutta roba da palestra, verrebbe da dire. Che il culto del fitness, del muscolo scolpito che tanto di moda va in questi giorni, sia proposto dal nostro Fondatore come modello per l’evangelizzatore? Certamente questo non è il caso … o forse sì, almeno in parte.


Oggi mi concedo qualche riga di questo articolo seduto nella cappella della nostra comunità di Yeokgok, una delle tante città satellite dell’hinterland di Seul, capitale della Corea del Sud. Sono le sei e mezza del mattino e attendo che arrivino le prime persone che parteciperanno alla messa delle 7. Già da almeno un quarto d’ora, come ogni giorno, alcune donne hanno iniziato a fare ginnastica aerobica nel giardinetto pubblico antistante. Si tratta di persone che nel giro di poche ore verranno risucchiate e triturate nel ritmo impressionante della macchina produttiva coreana, ma che non disdegnano la possibilità di perdere un po’ di tempo e un po’ di peso in un’attività fisica che permetterà loro di affrontare gli stress di un difficile quotidiano con energia e benessere. Tutte le mattine quelle donne sono lì, a fare palestra.

Quante volte mio fratello ha provato a convincermi della necessità di fare lo stesso, lui che da una vita fa e fa fare sport. La sua specialità è scalare rocce, cercando appigli infinitesimali, appoggiando i piedi sull’inesistente. Per far ciò c’è bisogno di energia, forza, ma soprattutto di grande disciplina, cosa che ti aiuta a contemplare il bello in ciò che altri vedono soltanto come inutile fatica, fino al punto da diventare un testimonial di questo benessere.

Tempo fa avevo l’occasione di passare sovente davanti a una di quelle palestre che mettono i muscoli dei propri clienti in vetrina. La miglior pubblicità la facevano proprio loro, impiegati, studenti e casalinghe, sbuffando come treni su cyclette ancorate saldamente al suolo, ma immaginariamente lanciate verso la volata finale della Parigi – Roubaix. La loro fatica e lo sforzo visibile diventavano un messaggio immediatamente percepibile: anche tu ce la puoi fare, entra, suda e starai bene.

Giuseppe Allamano sapeva che una missione esigente come quella che attendeva i suoi missionari poteva essere portata avanti soltanto grazie a un fisico capace di reggere le difficoltà di una vita spartana e a uno spirito forte, volitivo, intransigente. Soprattutto, era convinto che disporre di queste caratteristiche presupponeva una grande disciplina e tanto allenamento. Prima di lui, lo stesso san Paolo aveva detto qualcosa di simile parlando della sua missione, della volontà che lo animava a fare tutto per il Vangelo, e a farlo per tutti (cfr. 1Cor 9, 22-23). Anche lui prevedeva la necessità di un allenamento spietato: «Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1Cor 9, 26-27). Chiaramente, qui c’è in gioco ben di più che il semplice benessere fisico.

E noi, non potremmo dire la stessa cosa parlando della missione che ci attende oggi? Che cosa potrebbe voler significare «essere energici, forti e virili nell’apostolato» per noi, cristiani e missionari nell’Europa attuale? Il termine «virili» a noi suona male perché sembra escludere tutte le missionarie che operano per la causa e la diffusione del Vangelo. Useremo perciò il termine nella sua accezione più vasta che comprende varie sfumature, tutte utili a chiarire il concetto che l’Allamano vuole trasmetterci: forza, maturità, risolutezza, coraggio, determinazione. Del resto, l’Allamano voleva che le sue stesse missionarie potessero avere queste caratteristiche ben marcate in modo da poter affrontare il rigore della missione dei suoi tempi con sufficiente disinvoltura.

Un missionario con queste caratteristiche è dunque un missionario capace di compiere un lavoro adesso o di essere potenzialmente in grado di poterlo fare in futuro, consapevole e convinto di ciò in cui crede, perseverante nella sua missione e con la forza fisica e spirituale sufficiente per portarla avanti.

Detto così, assumere la pillola di questo mese parrebbe un lavoro per Superman, ma non lo è. La miglior prova di questo è che ci è prescritta dallo stesso Allamano, un uomo forte ed energico spiritualmente, ma fisicamente limitato al punto da dover rinunciare ai suoi sogni missionari di gioventù per dedicarsi a un’attività che, geograficamente parlando, non si sposterà mai molto dalla sua Torino.

Giuseppe Allamano scopre un modo suo di essere missionario, con un’inventiva e una capacità di visione davvero grandi. Crea e dirige l’avventura evangelizzatrice dei suoi missionari e delle sue missionarie a partire dal Santuario della Consolata. Una volta capito e individuato il fine della sua vocazione, energia, forza, determinazione e perseveranza vengono messi completamente al servizio della missione che si concretizzerà nella fondazione di due Istituti missionari e nell’invio di tanti altri preti, fratelli e suore.

Personalmente si riserva di frequentare altre frontiere, più nascoste e a volte più insidiose, quelle che si snodano nei meandri del cuore dell’uomo. Fisicamente, la missione non lo porta lontano ma spiritualmente arriva dappertutto. L’energia che gli occorre per portare avanti tutto il suo lavoro è sempre molta. Ci vuole allenamento, perseveranza, fatica; anche il lavoro spirituale ha bisogno di ore di palestra.

Una missione così caratterizzata impedisce a coloro che la vivono di presentarsi al mondo come persone accidiose, fiacche, indecise, deboli. L’Allamano rifuggiva le mezze volontà, il non essere né caldi né freddi. La passione riscalda e il Vangelo se servito tiepido e senza sale viene facilmente lasciato nel piatto. Nessuno vuole imporre la propria fede, ma proporla con appassionata e instancabile determinazione, questo sì.

Il missionario in Europa si affaccia a un contesto culturale liquido, e al contatto con esso il rischio di trasformarsi in poltiglia o fango è più che reale. Non è facile annunciare Gesù Cristo con la forza, l’energia e la determinazione di un San Paolo senza correre il rischio di essere banalizzato, cancellato o, ciò che succede in massima parte, totalmente ignorato. In una società come la nostra dove trionfa la legge del «mi piace», dove molti sposano il relativismo pensando che sia l’unica condizione per poter essere veramente liberi, essere Vangelo non è facile: annunciare un messaggio eterno e vedersi rimossi nello spazio di un click è sicuramente un’esperienza che non fa piacere. La rapidità che il mondo d’oggi richiede per competere è sicuramente un elemento da non sottovalutare. Sono rapide e frenetiche le relazioni, lo è la routine di una famiglia, lo è il tempo che porta un giovane dalla pubertà alla noia del déjà-vu, senza più riti di passaggio a segnare una crescita graduale.

È un mondo che non va demonizzato. In fondo è la realtà in cui tutti sguazziamo. È un mondo, anzi, che richiede energie per essere capito e studiato, fortezza per sostenerne l’impatto, determinazione e perseveranza per poter offrire una narrazione differente, un messaggio basato sulla solita storia di Gesù, così vecchia e allo stesso tempo così straordinariamente nuova.

Giuseppe Allamano voleva che i suoi si dedicassero senza risparmio allo studio dell’ambiente e della cultura. Quanto valga tutto ciò per la cultura Occidentale di oggi, così incredibilmente ricca e altrettanto incredibilmente sfuggente, è sotto gli occhi di tutti. La prima regola per entrare con discrezione e educazione in una cultura è quella di imparare la lingua delle persone che la vivono. Bisogna dedicarsi con energia a imparare i linguaggi della nostra società, quello dei giovani, della comunicazione, il nuovo linguaggio dei poveri.

Come «palestra» ed esercizio per temprarsi all’attività missionaria Giuseppe Allamano suggeriva anche il lavoro manuale, quello che allena alla fatica e alla costanza, insegnando nel contempo a sporcarsi le mani. Credo che questa dimensione del lavoro vada riscoperta e vissuta perché è alla base di quella straordinaria rete di gratuità e di volontariato che è stata capace di costruire solidarietà e chiesa per tanti anni e che si sta purtroppo perdendo.

Francesco, il nostro papa, si pone su questa linea energica e vigorosa. Nel magistero di Francesco si ritrovano con forza molti temi della missione di sempre, ripetuti con insistenza proprio per dare coraggio agli agenti dell’evangelizzazione: uomini e donne di ogni età, invitati a uscire con il sorriso sulle labbra dalle loro case per annunciare Gesù Cristo al mondo, con addosso il fuoco della missione, con la passione per Cristo e il suo Vangelo. Un’immagine, quella del «fuoco della missione» che appartiene al gergo di Giuseppe Allamano, tanto attuale ieri come oggi.

È interessante notare come nella prospettiva di Francesco perdano abbastanza di significato le categorie di prima o seconda evangelizzazione. L’importante è uscire e annunciare; la differenza la fa il soggetto che riceve l’annuncio. Ciò che è veramente importante è la qualità dell’apostolato, che deve essere fedele, pieno di zelo, coerente e convinto; in altre parole «forte, energico e virile», e per questo motivo bisognoso di tanta, tanta «palestra».

Ugo Pozzoli

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Pillole «Allamano» 5: Trasformare l’ambiente, non solo gli uomini


L’unica pretesa, se possiamo definirla tale, di questa serie di «pillole» consiste nel raccogliere alcune suggestioni che provengono dal nostro Fondatore e provare ad applicarle alla vita di oggi. Il tutto nella convinzione che nella profonda spiritualità di Giuseppe Allamano esistano elementi capaci di trascendere il tempo in cui sono stati vissuti in prima persona da lui e di dire qualcosa di illuminante per la missione cui siamo chiamati oggi in Europa.

Il dinamismo di un carisma, ovvero quel dono di Grazia che Dio concede a qualcuno in particolare affinché possa essere messo al servizio della comunità, si manifesta soprattutto attraverso la sua incarnazione nel vissuto quotidiano. Un carisma, infatti, si evolve quando viene assunto e trasmesso attraverso scelte concrete che lo modellano sulla realtà di cui si è protagonisti. Così è stato per i primi missionari, che hanno ricevuto una formazione speciale direttamente dalla bocca di Giuseppe Allamano, e sono stati capaci di tradurla in azione. Così è stato anche per l’Allamano che si è venuto formando lui stesso, gradualmente, con ciò che i suoi missionari gli condividevano attraverso diari, lettere e dialoghi personali. Tutto questo materiale veniva da lui nuovamente offerto, arricchito dalle sue considerazioni. Oggi, questo stile improntato a una narrazione missionaria può essere utile all’impegno diretto di ogni cristiano nell’evangelizzazione dell’Europa, ad esempio per fare distinzioni, chiarificare termini, sintetizzare esperienze passate di evangelizzazione che possono diventare maestre di vita.

«Puntate alla trasformazione dell’ambiente» è una frase che potrebbe oggi apparire ambigua e generare qualche perplessità. Nel corso della storia, in molte occasioni, l’impatto del missionario con l’ambiente in cui è vissuto o ha operato è stato giudicato in modo negativo, poco rispettoso delle culture, delle persone, ecc. In altre parole, il missionario è stato accusato di aver tradito l’ambiente nel tentativo di trasformarlo. Inutile aprire una discussione che ci porterebbe a remare in mari troppo lontani e vasti, senza il tempo e la pretesa di affrontare in poche righe quelli che sono da sempre temi molto complessi di missionologia. È molto più utile narrare storie missionarie, documentando gli innumerevoli esempi di missione «ben fatta», ma anche le esperienze negative, nelle quali l’attenzione verso l’altro, i suoi reali bisogni e la sua cultura sono stati effettivamente calpestati da un’azione inopportuna. Non per niente, una delle pillole che Giuseppe Allamano ci obbligherà ad assumere prossimamente sarà proprio quella che invita a «fare bene» il bene, e a non fidarsi solamente delle buone intenzioni.

Nella teologia cristiana, la cura dell’ambiente non si discosta da quella della persona, piuttosto la comprende. Nella sua condizione di essere creato, l’uomo è chiamato a vivere in spirito «ecologico», dove il termine ecologia va letto nella sua accezione più ampia, ovvero come scienza che regola l’insieme di relazioni tra gli esseri viventi e l’ambiente in cui vivono, nonché la qualità di tali relazioni. Si parla qui di ecologia della vita quotidiana, o di ecologia sociale.

Una casa in ordine (il termine greco οίκος, da cui deriva la parola ecologia, significa appunto casa)1 consente all’essere umano di vivere bene, in armonia con ciò che lo circonda, mentre una casa disordinata genera caos, malessere e frustrazione. Bisogna saper «vestire» il proprio ambiente, sentirlo come una seconda pelle, qualcosa che ci appartiene, ci definisce e ci realizza rendendoci felici.

La pillola di questo mese suggerisce una cosa molto semplice, che non vuole assolutamente penalizzare l’essere umano: trasformare l’ambiente significa renderlo più vicino al modello che l’uomo si propone per essere veramente felice insieme ai suoi simili. Lo sfruttamento dell’ambiente, inteso come ambiente naturale, da parte di pochi crea obbligatoriamente una disarmonia nella vita di molti, e ciò, come direbbe il racconto della creazione nel libro della Genesi, non è «cosa buona». Trasformare l’ambiente significa quindi distruggere quei meccanismi e quelle strutture che impediscono all’uomo di essere ciò che è chiamato a essere. In molti casi queste sono strutture di peccato, costruite per guadagnare e schiavizzare, sfruttare e godere, alla faccia degli altri, soprattutto di coloro che non possono scegliere, non si possono difendere e per questa ragione restano sempre ai margini, esclusi.

Giuseppe Allamano aveva ben chiaro il fatto che l’opera di evangelizzazione è tanto più efficace quanto più è in grado di incidere sull’ambiente in cui le persone sono immerse e vivono. Le Conferenze di Murang’a, organizzate nel 1904 dai primi missionari della Consolata in Kenya per pianificare la vita missionaria e scegliere le linee metodologiche da seguire, sono il frutto del continuo dialogo fra l’Allamano e i suoi missionari, e sottolineano l’intima relazione fra la persona e l’ambiente. Il metodo di evangelizzazione che nasce a Murang’a si radica nel Dna della spiritualità trasmessa dall’Allamano, e diventa la base dello stile missionario della Consolata, esportato da allora in tutto il mondo. Il tratto distintivo è l’attenzione al quotidiano delle persone: la salute, l’educazione, il modo di produrre, gestire, mantenersi grazie a un’economia sostenibile. Questi aspetti, uniti alla valorizzazione di elementi come le relazioni familiari e comunitarie, il ruolo della donna, il rispetto della persona nei suoi diritti e nella sua cultura e religione, puntano a creare comunità armoniche, felici e aperte ad accogliere il messaggio del Vangelo.

Tale metodo fondato sulla promozione umana non solo viene approvato dall’Allamano, ma viene da lui difeso con forza da critiche estee: «In passato, alcuni si permisero di criticare il nostro metodo di evangelizzazione, quasi ci occupassimo troppo del materiale con pregiudizio del bene spirituale; si diceva che bisognava predicare e battezzare e non occuparsi di altro. Ma dopo la pubblicazione del decreto di approvazione e le conferenze di Monsignore e di padre Gabriele (Filippo Perlo e suo fratello Gabriele, ndr.) mutarono parere e molti di buona fede lo confessarono».

Giuseppe Allamano ha certamente in mente le visite ai villaggi che i missionari fanno con costanza e, con esse, le opere sociali che iniziano a svilupparsi come segno di promozione umana. Si tratta di interventi che vengono però fatti con un’attenzione speciale alla cultura, alle vere esigenze della gente. Può la missione della Chiesa in Europa nutrirsi di questa intuizione profonda dell’Allamano? Credo che alcuni aspetti vadano tenuti presenti e possano aiutarci a riflettere sul senso della missione nel vecchio continente.

La missione in Europa deve cambiare perché l’Europa stessa è cambiata. Il contesto missionario di oggi è totalmente differente da quello che l’Allamano conobbe a suo tempo. Aspetti sociali, demografici, culturali, religiosi si intersecano e si aggrovigliano rendendo ogni discernimento più difficile. Ma di fronte a questa complessità occorre fornire a noi stessi una risposta chiara in merito alla nostra identità. Come fecero i primi missionari della Consolata in Kenya, occorre definire chi siamo noi oggi.

Di questi tempi, si parla molto di nuova evangelizzazione per l’Occidente, orientata a incontrare quelle fasce della popolazione ormai scristianizzate per invogliarle a «ritornare». È altrettanto certo, però, che oggi l’Europa si sta sempre più trasformando in un contesto anche di «prima evangelizzazione».

Per poter trasformare l’ambiente dobbiamo conoscerlo, e la miglior forma di conoscenza è l’incontro diretto, il contatto personale che crea empatia, e genera apertura. Giuseppe Allamano era un uomo illuminato, pretendeva dai suoi studio e applicazione perché intuiva molto bene come il contesto andasse innanzitutto capito. Lo studio delle lingue, ad esempio, era conditio sine qua non per poter andare avanti nel cammino di formazione, al punto da diventare per il Fondatore una discriminante vocazionale. L’idea di fondo era chiara: senza il possesso della lingua, strumento principale di comunicazione, come si poteva entrare in un contatto profondo con una cultura? Oggi lo stesso si potrebbe dire dei mille linguaggi che si parlano in Europa, tra cui, non ultimi, quello digitale, della comunicazione, scientifico, ecc.

Trasformare l’ambiente significa proporre un paradigma alternativo, che sia significativo, offra risposte adeguate, rappresenti una sfida al modello dominante.

Infine, trasformare l’ambiente significa dare uno spirito nuovo. Per anni il nostro continente si è attaccato all’illusione che il benessere economico potesse sopperire all’assenza di senso in cui si dibattevano e dibattono tuttora molte esistenze. Oggi, però, quell’illusione si è rivelata per ciò che era, una bolla di sapone che, scoppiando, ha infranto il nostro sogno: siamo senza soldi, ma continuiamo a doverci gestire le nostre solitudini, i nostri piccoli o grandi deserti familiari, gli effetti delle nostre morali deboli, il tutto condito dalla frustrazione di vedere chiudere attività, progetti e speranze. Stiamo mandando in cassa integrazione la nostra idea di futuro: serve uno spirito nuovo, che dia un movimento fresco e originale al continente e motivi una profonda ecologia della vita quotidiana.

La missione può fare la sua parte; del resto, si fonda su una speranza che la trascende e che rappresenta l’oggetto del suo stesso annuncio.

Qualche altra «pillola» dell’Allamano potrà aiutarci a capire e vivere meglio questo momento di trasformazione.

Ugo Pozzoli

 1) È interessante notare che in alcune cosmologie andine, come quella dei Nasa della Colombia, lo spazio dove vivono gli esseri viventi viene definito «casa piccola», in contrapposizione alla «casa grande», abitata dagli spiriti.


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