Pillole «Allamano» 4: la mansuetudine come strada di trasformazione


4. Una scelta controcorrente: la mansuetudine come strada di trasformazione


Al termine del Gran Premio di Australia, primo appuntamento stagionale con la Formula Uno, Beie Ecclestone, storico deus ex machina del circo a quattro ruote, ha dichiarato la sua profonda delusione per l’impatto dei nuovi motori turbo V6, insolitamente silenziosi rispetto ai modelli precedenti. «Ridateci il rumore», ha lamentato l’anziano patron, dando voce ai nostalgici del frastuono provocato dalle rombanti monoposto lanciate in pista a tutta velocità.

In effetti, risulta difficile pensare a una gara di automobilismo in sordina: è come se il rumore, a cui siamo troppo abituati, fosse parte della sua essenza. Il rombo del motore esprime la potenza della vettura, ne annuncia l’arrivo, ne segnala l’eccitante passaggio, ne saluta il veloce schizzare via.

Pare una metafora della nostra vita quotidiana, in cui il rumore è onnipresente: a volte inconsapevolmente prodotto, altre volte ricercato con determinazione e un velo di arroganza. Un leone ruggisce, non miagola, e una macchina da corsa deve fare rumore se vuole essere considerata come tale. Oggi il nostro quotidiano è popolato da ruggiti continui. Si ruggisce in politica con la stessa foga che una volta era riservata alle discussioni da bar del lunedì mattina. Si ruggisce nei talk show televisivi, dove si fa a gara a chi gonfia di più le vene del collo, a chi punta il dito più vicino alla faccia della controparte, a chi la spara più grossa, e sovente più grassa. La misura è diventata virtù rara, bisogna esagerare, pur di battere, annichilire l’avversario. La pretesa di aver ragione e di imporre tale convinzione con la forza ci porta a essere molto più irascibili di una volta, agli incroci come in famiglia, a scuola come sul lavoro.

Chi urla forse non crede nella forza delle proprie opinioni e sente di doverle imporre con un surplus di rumore, proprio come quei ragazzi che truccano la marmitta del loro motorino per farlo rimbombare, nemmeno avessero da dominare con il manubrio uno Space Shuttle. Va da sé che chi deve ricorrere agli effetti speciali per far valere le proprie ragioni è naturalmente più portato a esagerare, a far diventare il dialogo una pura e semplice serie di monologhi, a trasformare il conflitto in una battaglia (che si spera resti nella sfera del verbale e non trascenda nel fisico; anche se si sa bene che «da cosa nasce cosa» …). «Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento – scrive Sun Tzu, nel suo celebre saggio L’Arte della guerra – ma bensì sottomettere il nemico senza combattere». Nonostante la reverenda età (è stato scritto circa 2.500 anni fa) il testo di Sun Tzu continua ad attrarre frotte di ammiratori, soprattutto per le applicazioni che ne vengono date nel campo del management. Tuttavia, la gara a chi urla più forte e a chi mena più duro sembra confermarsi come consolidata prassi e avere molto più appeal nella vita di tutti i giorni.

È certo che la tradizione spirituale dell’Oriente, in particolare attraverso il taoismo (ai cui principi si ispira L’Arte della guerra), ha sviluppato tutta una serie di insegnamenti che tengono in grande considerazione la possibilità di un’altra via, fondata su concetti completamente diversi: piccolo, calmo, silenzioso; e su apparenti contraddizioni del tipo: ciò che è morbido vince ciò che è duro, ciò che è debole trionfa su ciò che è forte. Strano a dirsi, eppure le arti marziali si fondano proprio su queste idee, ed è meglio non contraddire al riguardo una cintura nera con un certo numero di Dan all’attivo.

Non dobbiamo però guardare troppo lontano per vedere ribaditi concetti analoghi. Dobbiamo bensì aguzzare lo sguardo e scrutare con attenzione, perché ciò che stiamo cercando non si manifesta nel rumore, nella gazzarra, nella luce accecante del glamour. Il mite va scovato negli anfratti anonimi e silenziosi del quotidiano. Se lo cercheremo in questo modo, lo troveremo impegnato a dare la sua personale interpretazione di «un mondo diverso», a dirci con la sua vita che guidare la propria esistenza per altri cammini non solo è possibile, ma pure gratificante.

Giuseppe Allamano fu certamente una persona di questo tipo, e la pillola che ci suggerisce di prendere questo mese ha origine nella sua disposizione d’animo, nello stile con cui scelse di vivere la propria vita: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione». Nonostante ci sia una leggera differenza di significato, mitezza e mansuetudine possono essere utilizzati come sinonimi. Di certo nel pensiero del Fondatore questo si verifica.

Chi suggerisce una distinzione interessante fra i due concetti è Norberto Bobbio, che alla mitezza ha dedicato un breve saggio in forma di elogio. Riconoscendo che la distinzione è problematica e forse addirittura eccessiva, Bobbio sceglie di parlare nel suo saggio di mitezza e non di mansuetudine in quanto vede nella prima una maggior profondità di significato rispetto alla seconda. Il termine mansueto è detto in primis degli animali, e solo in senso derivato è applicato agli uomini, mentre mitigare si rifà prevalentemente ad atti, atteggiamenti, azioni o passioni umane. Inoltre, «la mansuetudine – scriveva il filosofo torinese – è una disposizione dell’animo dell’individuo che può essere apprezzata come virtù indipendentemente dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza, invece, è una disposizione dell’animo umano che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé» (cfr. Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2014, pag. 34). Sembrerebbe di leggere in Bobbio un maggior apprezzamento della mitezza intesa come perfezione dell’atteggiamento mansueto maturata nella relazione con l’altro, nella dimensione sociale e politica dell’essere umano.

Per Giuseppe Allamano questa sottile distinzione non esiste, al punto che usa i due determini indifferentemente. Per lui, il discepolo/missionario deve essere mansueto, come lo è la pecora con il pastore, ma deve vivere la sua mansuetudine al servizio attivo del prossimo, in particolare di colui che più necessita di essere consolato. L’esempio da seguire non può essere che quello di Cristo, uomo mite per eccellenza. È Gesù stesso a parlare di sé come di una persona mite: «Venite a me voi tutti, affaticati e oppressi (…) perché sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza deve quindi diventare caratteristica anche per il discepolo di Cristo che in virtù di ciò è chiamato beato e fatto erede della terra.

Nella mitezza di Cristo sono condensati i due pilastri teologici della Buona Novella: il Padre e il Regno. I due elementi vanno insieme e costituiscono le basi anche per l’annuncio cristiano di oggi: l’essere «ammansito» da Dio non rende la persona buona per sé, ma la rende buona «per gli altri», esattamente come, da laico, suggeriva Norberto Bobbio. L’uomo mansueto, o mite, è dunque tutto il contrario di come a volte può essere considerato: ovvero, come una persona passiva, succube, indolente, timida, indecisa, «senza spina dorsale», senza niente da dire, senza energie, né risorse. Al contrario, il mite affida al lavoro silenzioso, benevolente e perseverante tutto l’umano sforzo rivolto alla costruzione del Regno. Il resto è una fiducia sconfinata nella Provvidenza di Dio.

 

Attraverso l’immagine della mitezza, la pillola del mese ci dice che non serve affannarsi, tantomeno urlare o litigare. Non serve neppure affermare con forza le proprie idee nella convinzione che siano le uniche capaci di cambiare le sorti del mondo. Pensiamo a quanto la Chiesa stessa abbia bisogno oggi di tornare a riflettere su questo valore, su questa virtù morale capace di costruire veri percorsi di pace. Il nuovo papato ci obbliga a guardarci dentro, a cambiare l’atteggiamento da maestro in quello di discepolo e testimone. Avremo qualcosa da insegnare quando saremo capaci di ascoltare di più e di imparare da ciò che ascoltiamo; sapremo essere guide illuminate, nel momento in cui saremo capaci di metterci al passo dell’umanità, per comprenderne il ritmo di marcia.

Ne «La Vita Spirituale», citando San Basilio, Giuseppe Allamano definisce la mitezza come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo. Come abbiamo già sottolineato, sicuramente questa affermazione nasce dall’esperienza personale, nel contatto con la gente maturato nei lunghi anni passati al Santuario della Consolata, e diventa insegnamento anche per i missionari che si trovano in Africa: «Mi sta a cuore la mansuetudine – sono le sue parole – (…) Quando si tratta di salvare un’anima si pensi che una parola secca basta a impedirne la conversione, forse per sempre. Esaminiamo dunque noi stessi per vedere se abbiamo questa mansuetudine, se l’abbiamo sempre, se l’abbiamo con tutti» (Cfr. Giuseppe Allamano, VS, pp. 464-470).

Scegliendo la mitezza, come Giuseppe Allamano ci insegna attraverso la sua stessa vita, i suoi missionari e le sue missionarie sapranno imboccare la strada della trasformazione. Se un giorno grazie a questa virtù saremo in grado di ereditare la terra, è altresì vero che il mondo che vogliamo possiamo iniziare a costruirlo poco per volta. Oggi più che mai siamo alla ricerca di una nuova narrativa che racconti storie di pace e benessere, perché è solo e soltanto su queste prerogative che vorremmo costruire la nostra esistenza di domani.

Ugo Pozzoli


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Pillole «Allamano» 3: una religione che rende felici qui  


3. Amate una religione che vi offre le promesse di un’altra vita e vi rende più felici sulla terra. Se una pillola non aiuta a star bene, perché prenderla? Questo semplice e lapalissiano principio vale anche per le pillole dell’Allamano: prima di somministrarle bisogna essere perlomeno convinti del loro effetto benefico. La bontà di un prodotto va certificata con tanto di risultati. La pillola di questo mese parla di felicità, il fine ultimo del cammino esistenziale di ognuno. Tutti gli uomini desiderano la felicità e si sforzano di raggiungerla, anche se molte volte danno all’oggetto della loro ricerca un nome diverso. Esiste davvero una pillola che aiuti a essere felici, visto e considerato che molte persone non si possono, oggi, dichiarare certamente tali?


Colui che crede dovrebbe avere una risposta pronta da offrire, una soluzione in grado di soddisfarlo nel suo percorso di ricerca e pronta per essere condivisa con tutti: il cammino di fede fa dire al credente che la meta agognata non può essere altri che Dio, che è lui la vera felicità. Il desiderio di Dio, per il cristiano, è scolpito a chiare lettere nel cuore dell’uomo, e Dio, da par suo, non smette un secondo di attirare a sé la sua creatura, proprio perché la vuole felice.

Chiaramente ci si trova di fronte a una difficoltà: se Dio è la felicità e il suo profondo desiderio è che tutti gli uomini siano felici, perché, di fatto, la cosa non si verifica? In effetti, il cristiano è convinto che non sia sufficiente il puro e semplice sforzo dell’uomo per raggiungere Dio-felicità: la felicità è grazia, dono. Tuttavia, per ricevere tale regalo, l’uomo deve collaborare attraverso delle scelte che gli permettano di aprirsi alla grazia, dono gratuito di Dio. L’azione umana non è l’unica né la principale causa del conseguimento della felicità, ma è tuttavia indispensabile proprio perché il dono di Dio possa essere liberamente accolto. Questa, in poche parole, è la teoria; in pratica le cose non sono così semplici. Oggi, in effetti, il mondo Occidentale è abbastanza scettico rispetto a quanto passa la Chiesa in materia. In uno dei suoi ultimi saggi, il filosofo Umberto Galimberti analizza il fenomeno della «perdita del sacro» che colpisce la cristianità in generale, rendendo il cristianesimo, agli occhi di coloro ai quali si rivolge, una religione dal cielo «vuoto», che rivela il nulla. La de-sacralizzazione del mondo ha fatto perdere all’uomo la fiducia nella possibilità di un Dio trascendente, totalmente altro. Se Dio è felicità, secondo Galimberti, da questa felicità il mondo si è separato, ne ha decretato la morte, l’ha rescissa dalla propria storia.

Dire che la felicità risiede in Dio a un interlocutore che da Dio si è separato potrebbe significare iniziare un dialogo tra sordi che non porta a nulla. Eppure, se ci pensiamo con attenzione, molte delle catechesi e delle omelie che ascoltiamo, o dei contenuti religiosi che portiamo nelle nostre discussioni di tutti i giorni sono impostati su questo postulato, calato dall’alto come una verità che è inoppugnabile per chi crede, ma che lascia invece le altre persone scettiche o, nella maggior parte dei casi, completamente indifferenti.

La pillola dell’Allamano di questo mese, ci aiuta ad affrontare il tema da un altro punto di partenza, sicuramente più evangelico, con un approccio pedagogico «dal basso», che tiene conto delle persone e non solamente delle nostre convinzioni personali. Curiosamente, la formulazione non è propriamente «farina del suo sacco», ma ha bensì un’origine addirittura papale.

La frase contenuta nella pillola di oggi, è stata scritta da Giuseppe Allamano in una lettera indirizzata ai missionari del Kenya, datata 2 ottobre 1910. In quella lettera l’Allamano ricordava che se desideravano conseguire frutti dovevano far sì che il loro lavoro fosse: perseverante, concorde e illuminato. I primi due aggettivi non necessitano qui di grande approfondimento, mentre è proprio a proposito dell’ultima caratteristica che il fondatore ci offre la sua pillola.

L’accento è posto sul metodo missionario: l’Allamano vuole che esso parta da un contatto ravvicinato con la gente, con i suoi bisogni e i suoi problemi. Tale metodo aveva avuto la necessaria consacrazione con il Decreto di approvazione da parte di Propaganda Fide e con le parole benedicenti di papa Pio X, riportate dall’Allamano nella lettera citata. Con le sue parole, lodando e approvando il metodo missionario dell’Istituto, il pontefice esprimeva il seguente concetto: «Bisogna degli indigeni fae tanti uomini laboriosi per poterli fare cristiani: mostrare loro i benefici della civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre le promesse d’altra vita, li rende più felici su questa terra». Più felici su questa terra: prima di fare il cristiano occorre fare l’uomo, un uomo «laborioso», capace di apprezzare i «benefici della civiltà» ed essere quindi anche attratto all’amore della fede.

Un approccio di questo tipo impegna oggi il cristiano a due livelli. Il primo è quello della testimonianza. I cristiani sono chiamati a essere testimoni della loro fede come possibilità per vivere una vita felice. Come scrive Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, nel suo saggio Le vie della Felicità. Gesù e le beatitudini (Rizzoli, Milano 2010): «Noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di beatitudine, di felicità. Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)?».

Chi vive nel concreto la logica delle beatitudini assume in sé uno stile di vita, copiato sulla matrice dello stile di vita incarnato da Cristo. Siamo, certamente, al limite del paradosso cristiano. La sequela di Cristo è esigente, significa passare per la porta stretta e abbracciare la croce che può assumere, nel concreto, diversi aspetti: servizio, sofferenza, impegno radicale e senza compromessi, persino martirio. Ciononostante, le beatitudini, la Magna Charta del cristiano, sono, in sé, una vera e propria chiamata alla felicità.

In una società come la nostra dove l’indifferenza e il relativismo esprimono una chiara mancanza di senso nei percorsi esistenziali delle persone, le beatitudini sono un aiuto a vivere con consapevolezza la propria vita, nella ricerca di un perché capace di illuminare di senso il nostro agire, vivere e morire, e, una volta realizzato, portare quindi alla felicità.

Il secondo livello consiste invece nello sforzo di agevolare coloro che incontrano più difficoltà a essere felici. È il livello della consolazione, del mettersi, cioè, a fianco e camminare con coloro che sempre rimangono ai margini, attardati a causa del peso di esistenze faticose. Come fare a pronunciare la parole felicità di fronte a qualcuno che vive una «vita di scarto» o si sente in cuor suo di sprecare la propria esistenza? Eppure sono proprio queste le persone che esigono un inizio di felicità già su questa terra. Lo esige il senso di giustizia che sta alla base di una vita serena, pacifica e, di conseguenza, felice. Il povero che non riesce a uscire dal ciclo di miseria in cui è entrato, il malato che si scontra con l’impossibilità di curare la sua infermità o di lenire la sofferenza, l’afflitto che non riesce a sciogliere il nodo che gli attanaglia il cuore, non possono accontentarsi, loro e gli altri come loro, di ripetersi «piove sempre sul bagnato».

La Scrittura ci dice che piove sui giusti e sugli ingiusti e nel rispetto di questa verità non può mancare l’impegno del cristiano a trovare il modo di far sentire felice, già in questo mondo, le persone che soffrono.

La pillola non può essere un palliativo. Il Vangelo non serve come placebo. Papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato è stato molto in sintonia con questo approccio e ha pubblicato la sua prima Esortazione apostolica intitolandola «Il Vangelo della gioia». Il cristiano deve essere un uomo gioioso, felice della sua scelta, della sua vocazione e del sì detto senza ripensamenti al Signore. Tale gioia, sperimentata in questa vita e testimoniata nel quotidiano, diventerà motivo di speranza e gioia per gli altri, aprendo finestre nelle chiuse camere di dolore e dando scampoli di vita felice a chi invece aveva ormai perso la speranza di ritrovare una ragione per andare avanti.

Altre vie non sono possibili se vogliamo che la felicità fragile ed episodica che possiamo sperimentare in questa vita porti alla felicità solida e duratura promessaci da Dio come premio per il «sì» da noi dato al suo programma di salvezza. Per esempio, l’illusione occidentale di essere felici grazie al benessere, alla possibilità di pagare occasionali momenti di beatitudine sta venendo meno giorno dopo giorno. La crisi che l’Europa (e non solo) sta attraversando mette a dura prova la pretesa di poter eternamente difendere a costo zero l’agio e il benessere costruiti in questi anni.

Il consiglio spirituale che l’Allamano ci propone per questo mese ci invita invece a scoprire, con le persone che incontriamo, che la felicità si costruisce insieme, giorno dopo giorno, nella buona e nella cattiva sorte, facendo uscire dalla nebbia un raggio di sole alla volta, fino a ottenere la previsione di una giornata finalmente serena.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole




Pillole «Allamano» 2: Elevatevi sopra le idee ristrette dell’ambiente


Stacco dalla parete e riprendo in mano, per sfogliarlo con calma, il calendario che quest’anno la rivista MC ha dedicato al beato Allamano. Riguardo le immagini del volto del Fondatore, vecchie fotografie che i moderni strumenti della tecnica hanno saputo ripulire dalle inevitabili tracce del tempo. Vi è ritratto Giuseppe Allamano da giovane, coi chierici, con i primi missionari partenti per l’Africa, poi uomo maturo e, infine, anziano. I dodici mesi dell’anno ripercorrono la storia di una vita sacerdotale. Io la contemplo filtrandola attraverso i suoi sguardi, tentando di mettere a fuoco il volto buono e paterno che tante testimonianze di chi l’ha conosciuto riportano con insistente piacere.

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A ben guardare, però, scorgo nelle immagini anche il piglio risoluto, deciso, di colui che è buono con sincerità, non per debolezza o convenienza. Il volto del Beato Allamano non ha nulla di debole e comunica serenità e determinazione. Non so se altri lettori siano stati attratti, sfogliando il calendario, da questa caratteristica del suo viso. Forse sono io che ci ricamo sopra eccessivamente, lasciandomi guidare dalla mia sensibilità. Può darsi, non lo posso escludere. Mi sembra in ogni caso che lo sguardo del fondatore lasci intravedere qualcosa di lui, del suo modo di essere e di intendere la vita. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, recita un antico adagio.

La pillola di questo mese non fa riferimento a una frase di Giuseppe Allamano, semmai a un atteggiamento da lui tenuto nei confronti della vita e della realtà nelle quali si è trovato a operare. A una certa fragilità fisica, cosa che gli impedì a suo tempo di essere missionario sul campo, e alle difficoltà di ogni tipo incontrate nel suo lungo ministero sacerdotale, l’Allamano opponeva una volontà di ferro, alimentata da una fiducia incrollabile nella provvidenza divina e nella presenza consolatrice e matea della Madonna. I suoi occhi trasmettono tenerezza, ma allo stesso tempo acutezza e determinazione. Se le fotografie che lo ritraggono, nel loro complesso ne collocano la figura in un tempo e in un contesto preciso, lo sguardo sembra bucare le immagini e proiettarsi al di là di esse, verso spazi che trascendono gli ambienti del torinese da cui, salvo per pochi ed eccezionali viaggi, l’Allamano non si è mai mosso. I suoi sono occhi che viaggiano, perché seguono le rotte di un cuore costantemente orientato verso luoghi da consolare, lungo tragitti mai scontati. Giuseppe Allamano ha lo sguardo profondo, vive la sua fede e il suo ministero in un’obbedienza matura e responsabile, rispettando la tradizione e l’autorità in un modo dinamico e creativo, senza mai sottomettersi alla legge del «si è sempre fatto così». Sono tantissimi gli episodi in cui prende posizione e con «delicata fermezza» va avanti per la sua strada, pronto, se lo vede necessario, a dare uno scossone allo status quo. Oggi, questo sguardo si rivolge a noi, chiamati a vivere la missione in Europa. Mi sembra di scorgere la presenza del volto dell’Allamano mentre leggo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, celebrata il 19 gennaio scorso. «La Chiesa, rispondendo al mandato di Cristo “Andate e fate discepoli tutti i popoli”, è chiamata ad essere il Popolo di Dio che abbraccia tutti i popoli, e porta a tutti i popoli l’Annuncio del Vangelo, poiché nel volto di ogni persona è impresso il volto di Cristo». Che bella immagine ampia e inclusiva della missione. Missione che oggi ci spinge non soltanto ad andare, ma anche a ricevere e a essere accoglienti. Il volto di Giuseppe Allamano riflette il volto di Cristo e il suo sguardo tradisce il desiderio di farlo emergere con forza dal volto di chi incontra, vicino o lontano… anche del migrante o del rifugiato. Mi sembra di poter dire che papa Francesco sarebbe piaciuto al nostro fondatore… e viceversa. Se si fossero incontrati si sarebbero probabilmente scambiati due battute in piemontese, giusto per fare conoscenza, e poi avrebbero cercato di capire come far brillare il volto di Cristo impresso in ogni persona, partendo dalla realtà concreta in cui essa vive, ma senza lasciarsi imbrigliare. I primi mesi del pontificato di Francesco sono una testimonianza viva della bontà della pillola allamaniana di questo mese, prescritta con continuità in quasi tutti i suoi interventi, nel tentativo di plasmare una cristianità matura e responsabile, un popolo di Dio che cammina in uscita. Scrive papa Francesco nella sua recente esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano […]. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Francesco, EG n. 24). Prendere l’iniziativa senza paura può voler dire, a volte, scrollarsi di dosso l’opinione dominante. La notizia, per essere tale, è novità, e la buona notizia non sfugge a questa regola. Ecco perché, rivolgendosi ai giovani universitari la prima domenica di Avvento, papa Francesco ha ricordato loro l’impegno di essere testimoni coraggiosi di una diversa narrativa del mondo: «Se non vi lascerete condizionare dall’opinione dominante, ma rimarrete fedeli ai principi etici e religiosi cristiani, troverete il coraggio di andare anche contro corrente». Concetto chiaro, questo, anche nel pensiero spirituale di Giuseppe Allamano. L’idea dominante diventa un’idea ristretta, anche quando si certifica come figlia della globalizzazione. È il grande paradosso in cui l’umanità si dibatte e che trova i suoi accenti più acuti nella nostra cara Europa. In un mondo in cui sembra valere tutto e il contrario di tutto, in cui a livello di valori si sopravvive bene grazie al più smaccato relativismo, in realtà campa bene solo e soltanto chi si adegua a una cultura che privilegia ciò che è esteriore, facilmente e immediatamente conseguibile, veloce, apparente, provvisorio. Le logiche che, al contrario, propongono narrative differenti, impostate sul locale, sul partecipativo, sul lento ma sicuro procedere, sulla libertà di poter scegliere, sul discernimento comunitario vengono ostacolate, cassate, a volte irrise e perseguitate. La missione è ciò che aiuta il cristiano ad alzare la testa, a elevarsi sopra le mentalità ristrette e a esprimere qualcosa di inedito. La missione nasce dalla novità del Vangelo e lo porta con sé per costruire un mondo nuovo, migliore. La missione non sopporta idee dominanti perché vive sotto il dominio dello Spirito di Dio. La missione offre volti nuovi alla nostra teologia, che cessa di ristagnare quando si concede al confronto con l’altro. La missione rinnova e rafforza la fede, attraverso il dono della propria esperienza di Cristo a chi ancora non ne ha mai sentito parlare o l’ha completamente smarrito dai propri orizzonti. La missione vivifica la nostra spiritualità, perché la mette a confronto con la realtà, per non farla viaggiare a quote siderali mentre la gente cammina a lato delle strade. Quale missione, allora, in questa Europa che cambia? Quale progetto missionario per orientare la nostra azione? Quale pista da percorrere ci attende? Il dove, il come e il quando lo diranno il contesto e il discernimento che ciascuno farà alla luce della Parola di Dio e del proprio carisma. Questo discernimento sfida particolarmente proprio noi missionari, chiamati a trovare un modo significativo e attuale di essere autentici religiosi e testimoni di evangelizzazione. Ci troviamo di fronte a domande scomode che ci obbligano a una riflessione che potrà forse chiederci precise scelte di vita. Quali sono le idee ristrette che oggi condizionano i nostri ambienti e costringono noi, le nostre comunità, le nostre famiglie a vivere «imbrigliati», incapaci di essere persone «in uscita»? Quali sono queste idee ristrette che impediscono di incontrarsi con gli altri con un messaggio vero, che dica qualcosa, che abbia un minimo di senso, che susciti qualche domanda e, magari, apra uno spiraglio verso il futuro e la salvezza promessa? Cosa dobbiamo fare per elevarci al di sopra di esse, per propoe di alternative e liberanti? L’uomo che riuscì a fondare due Istituti missionari, pur restando rettore del Santuario a lui affidato e senza mai mettere piede in missione, avrebbe senz’altro qualcosa da dire. Merita ancora ritornare al calendario e provare a vedere se riusciamo a farci ispirare ancora un po’ dallo sguardo di Giuseppe Allamano. Se riuscissimo poi a vedere dove punta, noteremmo come quegli occhi dimorino a lungo sul quadro della Madonna Consolata e sul tabernacolo. Non ci conviene precorrere i tempi; queste sono altre pillole che Giuseppe Allamano ci consiglierà di prendere e, ben lo sappiamo, ogni cura deve rispettare la giusta posologia.

Ugo Pozzoli


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