Non soltanto messer Querini


La millenaria tradizione degli esploratori italiani è arrivata anche nelle terre del Nord Europa. Pietro Querini, Francesco Negri, Giuseppe Acerbi sono i nomi più conosciuti.

Italiani, «popolo di santi, poeti e navigatori». Santi di sicuro non lo siamo; poeti pensiamo di esserlo in tanti e, in quanto a navigatori, beh… non siamo i soli, ma possiamo annoverare esploratori e mercanti che hanno contribuito a diffondere in Europa la conoscenza di altre culture quasi sconosciute.

Marco Polo, Cristoforo Colombo, Antonio Pigafetta, Giovanni Pian del Carpine, Martino Martini, Giovanni Belzoni, Vittorio Bottego sono solo alcuni dei nomi che ricorrono più spesso quando parliamo di esplorazione o di contatti (più o meno fortunati) tra diversi popoli. Le loro mete erano l’Asia, le Americhe, l’Africa, la circumnavigazione del globo. Luoghi esotici, poco conosciuti, i cui popoli e le cui vestigia occupavano i racconti fantastici delle corti europee, spesso ingigantiti da buone dosi di fantasia alimentata anche da generose libagioni di vino perché, come scrisse il trevigiano Giovan Battista Ramusio, «gli huomini non sogliono narrare una cosa tutti a uno istesso modo, ma variamente secondo la diversità degli intelletti».

Immagine dell’arcipelago delle isole Lofoten dove trovò rifugio Pietro Querini (1400?-1448) dopo il naufragio della sua nave. Foto Piergiorgio Pescali.

le terre vichinghe

Poco o nulla si sapeva, invece, delle terre del Nord, fredde e, come si pensava allora, desolate, abitate da popoli dediti alle razzie, discendenti di quei vichinghi che, con copricapi cornuti, giravano mezzi nudi in mezzo alle intemperie attaccando villaggi lungo le coste e stuprando giovani fanciulle. Visioni fallaci, assolutamente lontane dalla realtà, ma che popolavano le novelle dei cantastorie o, in tempi più recenti, di romanzieri che ambientavano i loro racconti in scenari impervi, perennemente coperti di neve o sferzati dalla pioggia.

Ancora più sconosciute erano le terre al di sopra del Circolo polare artico, abitate da popolazioni che Tacito, nel suo trattato De origine et situ Germanorum, descriveva come coloro che «mangiano erba, vestono pelli di animali e dormono sulla terra. Le uniche cose in cui credono sono le frecce fatte di ossa».

La corte svedese, che per prima colonizzò quelle lande contendendole alla Danimarca e alla Russia, le battezzò Lappamarken, da lappe, «sempliciotto», «fessacchiotto», e marken, «foresta» o «terra di frontiera». I lappe erano i Sami, popolazioni indigene, la cui pacifica indole e lo stile di vita semplice e privo dei fronzoli sociali che caratterizzavano i popoli più meridionali, venivano interpretati come segno di stupidità.

In Norvegia la regione era ed è tuttora nota come Finnmark, foresta o terra di frontiera abitata dai Finn, nome con cui venivano chiamati gli autoctoni.

Forse perché così sperduta, spopolata e spoglia, della Lapponia le ricche città dell’Europa che si affacciavano sul Mediterraneo non se ne interessarono per secoli. Solo le città anseatiche mantenevano qualche sporadico rapporto con i villaggi sami commerciando corna e pelli di renna (la parola nappa è di origine sami).

Nel 1369 la peste nera sterminò la popolazione norvegese che si era insediata sulle coste settentrionali (i Sami, forse a causa della loro alimentazione, non ne furono così colpiti) e i contatti con il resto dell’Europa si diradarono.

Mappa della Lapponia, territorio diviso tra gli stati nordici. Immagine Nordregio, Stoccolma 2017 (modificata da rivista MC).

Arrivano gli italiani

Fu pochi decenni dopo che un italiano, per circostanze del tutto fortuite, inaugurò una fortunata serie di esplorazioni di nostri connazionali in Lapponia che fecero conoscere non solo la geografia della regione e le popolazioni che le abitavano, ma contribuirono ad importare nuovi ingredienti per uno sviluppo culinario che ancora oggi caratterizza la dieta di varie regioni della nostra penisola.

La prima di queste tappe fu raccontata da Cristoforo Fioravante e Niccolò di Michel nel «Viaggio del magnifico messer Piero Quirino viniziano, nel quale, partito di Candia con malvagie per ponente l’anno 1431, incorre in uno orribile e spaventoso naufragio, del quale alla fine con diversi accidenti campato, arriva nella Norvegia e Svezia, regni settentrionali».

Il resoconto tratta delle avventure del mercante veneziano Pietro Querini, a bordo della caracca Gemma Querina che, involontariamente, a causa di un naufragio raggiunse le isole Lofoten.

Partito da Creta il 25 aprile 1431, cinque giorni dopo la morte del figlio, il Querini si diresse alla volta delle Fiandre con un carico di 500 tonnellate di mercanzie e 800 barili di Malvasia.

Dopo aver raggiunto Cadice il 2 giugno, dove si dovette fermare per 25 giorni per riparare la nave incagliatasi su uno scoglio, messer Pietro aumentò il suo equipaggio fino a raggiungere le 68 persone per proteggere la sua merce dalle incursioni delle navi della repubblica di Genova, con cui nel frattempo Venezia era entrata in guerra. La Gemma Querina non raggiunse mai le Fiandre: i venti e le burrasche portarono il legno alla deriva, lo squassarono, lo sballottarono e le gelide acque del mare, con la complicità della sete e della fame e del freddo, si presero la vita di 52 marinai.

Il 4 gennaio 1432, finalmente, i superstiti riuscirono ad approdare non senza fatica su una spiaggia innevata dell’isola di Sandøi «ringraziando il Signor Dio ch’al natural sito nostro n’avea condotti, e campati dal soffocarsi nel mare».

Poi, «conosciuto con certezza quello esser scoglio deserto, deliberammo di partirci il secondo giorno, empiendo cinque nostre barile d’acqua ch’usciva dalla neve».

Per altre due settimane i naufraghi, ridotti ormai a 13 persone «pieni di pedocchi, ch’a pugnate li gettavamo nel fuoco», girovagarono per l’arcipelago riuscendo alfine a trovare una casetta disabitata presso la quale si rifocillarono per diversi giorni.

Incontrata una famiglia di pescatori, nei giorni seguenti riuscirono a trasferirsi sull’isola di Røst dove abitava un «frate [tedesco, ndr] suo cappellano, dell’ordine di San Dominico, e con parlar latino dimandò qual fra noi era il padrone: a cui respondendo mi dimostrai per esso».

Presso il villaggio di pescatori il gruppo restò per tre mesi e mezzo, dal 5 febbraio al 14 maggio 1432. Vi abitavano in tutto 120 persone che «alla Pasqua 72 si communicorono come catolici fidelissimi e devoti».

Pietro Quirino descrisse quel luogo dove «non vi nasce alcun frutto» e sul quale, per «tre mesi dell’anno, cioè giugno, luglio e agosto, sempre è giorno né mai tramonta il sole, e ne’ mesi oppositi sempre è quasi notte, e sempre hanno la luminaria della luna».

Fu durante la sua permanenza che il mercante veneziano conobbe gli «stocfisi», gli stoccafissi, che «seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare d’Alemagna».

Pietro tornò nella Serenissima portando alcuni di questi stoccafissi che diverranno l’ingrediente principale del baccalà alla vicentina (il baccalà è il merluzzo essiccato che, a differenza dello stoccafisso, è salato). Ancora oggi, quello italiano è il principale mercato verso cui le Lofoten esportano il loro stoccafisso e nel piccolo paesino di Å, il museo dedicato a questa qualità di merluzzo ha spiegazioni anche in lingua italiana.

Il racconto della sfortunata spedizione della Gemma Querina è anche una preziosa testimonianza della popolazione delle Lofoten. I redattori descrissero attentamente gli usi e i costumi dei pescatori, «uomini purissimi e di bello aspetto, e così le donne sue, e tanta è la loro semplicità che non curano di chiuder alcuna sua roba, né ancor delle donne loro hanno riguardo: e questo chiaramente comprendemmo perché nelle camere medeme dove dormivano mariti e moglie e le loro figliuole alloggiavamo ancora noi, e nel conspetto nostro nudissime si spogliavano quando volevano andar in letto; e avendo per costume di stufarsi il giovedì, si spogliavano a casa e nudissime per il trar d’un balestro andavano a trovar la stufa, mescolandosi con gl’uomini. Sono (com’io predissi) devotissimi cristiani: non perderiano la festa di veder messa, e quando sono in chiesa sempre stanno in orazione inginocchiati; mai non mormorano né bestemmiano santi, non nominano il demonio».

Una strada innevata in un tipico paesaggio della Lapponia. Foto Piergiorgio Pescali.

Padre Francesco Negri

Un ritratto dell’esploratore padre Francesco Negri (1623-1698).

Due secoli e mezzo dopo, un prete ravennate, Francesco Negri, si spinse ancora più a Nord, questa volta intenzionalmente, alla ricerca del punto più settentrionale del continente europeo.

Negri, oltre che rappresentante della Chiesa, era anche un fine osservatore di costumi e di scienza. Profondamente influenzato dal nuovo pensiero scientifico, eredità di Copernico e Galileo, Francesco Negri partì da Ravenna nel 1663 per un viaggio nella penisola scandinava che lo portò prima a Stoccolma, dove si trattenne per un anno come cappellano e poi a Bergen. Da qui, con l’aiuto dei preti norvegesi, riuscì a raggiungere via mare Capo Nord «che è a dire all’estremità di Finmarkia, anzi, non ritrovandosi più altra terra dal genere umano verso al polo abitata, del mondo stesso.»

Descrisse la sua esperienza in otto lettere che vennero pubblicate nel 1700, due anni dopo la sua morte e raggruppate in un volume intitolato Viaggio settentrionale. Sebbene poco noto al grande pubblico, il Viaggio settentrionale segnò un vero e proprio spartiacque nella visione dei popoli nordici da parte dei paesi mediterranei.

Fu Francesco Negri, infatti, a presentare gli eredi dei vichinghi e i Lapponi in modo positivo, contribuendo così a diluire il disprezzo e il discredito che la cultura dell’Europa settentrionale godeva tra i popoli del Sud Europa. Così, pur continuando a produrre una letteratura pregna di stereotipi inventando anche usi e costumi mai utilizzati dalle popolazioni scandinave (uno per tutti l’elmo con le corna, invenzione ottocentesca abbracciata dall’opera wagneriana), gli studiosi, proprio sull’onda di Francesco Negri, iniziarono a rivedere le loro opinioni critiche non solo verso le corti dei regni settentrionali, ma anche verso i Sami esaltandone l’ospitalità: «Non avevano mai essi veduto un italiano, anzi forse nè meno intesone il vocabolo: perciò mi trattarono alla grande, alla loro moda, a pesce cotto nell’acqua pura al solito, e carne fresca di londra [lontra], che a sorte avevano ammazzata alla mia presenza con un colpo d’archibuso a una palla sola, per meno offendere la pelle».

A differenza degli svedesi e della Chiesa cristiana, Negri non condannò lo sciamanesimo e anzi, abitando con loro, lo studiò descrivendo gli attrezzi e i tamburi con cui «essi […] trasmutano un uomo in orso, cioè lo fanno apparire orso; la qual fatucchierìa terminata, ritorna il Lappone ad abitar, come prima, con la sua famiglia, dicendo egli stesso d’essere stato orso».

In Lapponia, imparò a guidare le slitte e a sciare con «quelle tavolette, (che) non sollevano mai dalla neve alzando il piede, ma leggermente strisciando vanno avanzando con l’istessa agilità, che camminando liberi a piedi sopra terra».

Lo spirito scientifico lo portò a descrivere le aurore boreali con estrema precisione, anche se non ne capì l’origine: «Come una lunga nuvola, che cominciava a tre gradi in circa sopra l’orizzonte, e ascendendo al zenit, o punto verticale, andava a terminare all’altra parte, quasi in altrettanta lunghezza. Era così chiara e trasparente, che rendeva qualche poco di lume fino a terra: si piegava in tante forme, ora di arco, ora di corona, ora di serpe e d’altro: alle volte in due parti stendendosi per lungo s’apriva, movendosi nello stesso tempo verso i due lati; poi riunendosi, produceva novi ragi, non alzandoli da sè successivamente fino alla loro estremità».

Nell’isola di Mageroy, dove sorge Capo Nord, ci sono quattro villaggi abitati. Foto Piergiorgio Pescali.

Le critiche di Acerbi

Nel piccolo museo di Capo Nord, a Francesco Negri è dedicato un posto particolare in quanto è considerato il primo turista ad aver raggiunto il luogo.

Spetta però a Giuseppe Acerbi (1773-1846) il primato di aver raggiunto Capo Nord via terra (compì in nave solo l’ultimo tratto da Alta) attraversando la Svezia e la Finlandia, che amò in modo particolare. L’esultanza dell’italiano quando calpestò il promontorio settentrionale la si legge nel suo resoconto Viaggio al Capo Nord fatto l’anno 1799 dal Sig. cavaliere Giuseppe Acerbi, pubblicato al suo ritorno: «Il Capo Nord presentandosi a’ nostri sguardi s’impadronì di tutte le nostre facoltà. […] e il mondo non fu più per noi che questo confine della terra». Era il 18 luglio 1799.

Subito dopo, però, la malinconia sembra cogliere l’esploratore che, dopo essersi preso (inappropriatamente) il merito di stare «calpestando codesto suolo, che nissuno prima di noi avea calpestato», descrive il Capo come «la tomba della Natura», un luogo dove «tutto è solitario, tutto lugubre, tutto sterile […]: ecco il Capo Nord».

Un resoconto quindi assai differente da quello dato dal suo predecessore Francesco Negri.

A differenza del prete ravennate, l’Acerbi dà uno spaccato meno lusinghiero sia degli svedesi che dei Sami, questi ultimi descritti come «deboli, indolenti, poltroni per carattere e per fisica costituzione». Nella sua visione giacobina, l’esploratore italiano critica la presenza dei missionari cristiani «i quali in ricambio gli promisero la felicità di un altro mondo, che senza dubbio per uomini sì limitati di mente non poteva consistere che in bere acquavite dalla mattina alla sera».

L’Acerbi introduce anche gli yoik, i canti sami che non apprezzò, a differenza delle runi finlandesi, in quanto «i Laponi erranti non hanno veruna idea della minima armonia; e che sono assolutamente incapaci di un piacere che la natura, per quanto ho potuto apprendere, non ha negato a nessuna orda, o nazione».

Il Viaggio fu comunque un successo letterario in Inghilterra, dove venne pubblicato per la prima volta nel 1802 e a cui seguirono le edizioni tedesche, francese e olandese. In Italia si dovette aspettare fino al 1832 per poter leggere le esperienze del viaggiatore.

Quirino, Negri e Acerbi, assieme ad altri importanti esploratori, mercanti, missionari di diverse nazionalità hanno contribuito a far conoscere la Lapponia e i Sami al grande pubblico. Leggendo le loro opere oggi possiamo apprezzare ancora di più le popolazioni e i magnifici paesaggi scandinavi, divertirci sulla neve con gli sci e le slitte e gustare piatti divenuti parte integrante della cucina italiana. Nonostante non ne siamo sempre consapevoli, anche noi siamo debitori verso i Lapponi.

Piergiorgio Pescali

La Northern Light Cathedral di Alta è stata costruita nel 2013 e oggi è una delle chiese più note della Scandinavia. Foto Piergiorgio Pescali.


Dal 1307, il cristianesimo in Lapponia

Religione e case reali

La storia del cristianesimo in Lapponia è, come spesso accade, costellata di glorie e vergogne. I primi preti cristiani arrivarono tra i Sami all’inizio del XIV secolo e la prima chiesa venne costruita a Vardø nel 1307. I missionari furono utilizzati dal governo danese (a cui la Norvegia apparteneva) come avanguardie per colonizzare gli insediamenti e prenderne ufficialmente possesso in nome della corona. A seguito del Trattato di Nöteborg del 1323 tra Svezia e la repubblica russa di Novgorod, la Lapponia venne spartita tra gli stati nordici e al tempo stesso le rispettive case reali favorirono la diffusione della religione secondo le proprie convenienze. Accanto alla Chiesa latina venne quindi a svilupparsi una Chiesa ortodossa russa.

Nel 1542 il re svedese Gustav Vasa dichiarò che «tutte le terre permanentemente inabitate appartengono a Dio e alla Corona svedese e a nessun altro». La Lapponia, pur essendo stabilmente abitata dai Sami, rientrava tra queste «terre permanentemente inabitate». Tutte le proprietà ecclesiastiche furono trasferite alla casa reale e con l’adesione al protestantesimo l’influenza papale sparì completamente dalla Lapponia.

Le ambizioni territoriali sui vasti territori del Nord portarono i regni scandinavi a scontrarsi più volte tra loro e quello sami fu il popolo che ne soffrì maggiormente. I loro territori vennero divisi da confini nazionali, le terre confiscate, e vennero imposti pagamenti erariali. La loro religione, un intreccio inestricabile di pratiche rituali avviluppate nella quotidianità, fu perseguitata. I canti tradizionali, gli yoik, vennero proibiti e i tamburi, mezzi di comunicazione con il mondo degli spiriti, distrutti. I fenomeni naturali e i corpi celesti erano considerati divini e potevano dare o togliere la vita. I noaidi, gli sciamani, le figure centrali della religiosità sami, gli unici in grado di far da tramite tra il mondo spirituale e quello terreno, furono combattuti strenuamente dal protestantesimo. Proprio nel periodo di massima repressione, quella di padre Francesco Negri fu quindi una voce isolata nel difendere i Lapponi e le loro credenze. Al tempo stesso, però, furono i missionari protestanti a salvare dall’oblio i racconti sami, fino ad allora trasmessi oralmente, dando al popolo una scrittura. L’alcolismo, lo sfruttamento delle terre e delle acque, l’imposizione di tassazioni sempre più gravose, la disgregazione culturale e religiosa furono i principali motivi di sommosse popolari e della nascita di una Chiesa locale, il «laestadianismo», fondata nel XIX secolo da un pastore luterano, Lars Levi Laestadius, volta a preservare l’identità sami pur predicando la salvezza di Cristo.

Oggi il laestadianismo sopravvive in poche comunità ed è rientrato nella Chiesa svedese pur continuando ad essere considerato al limite dell’eresia.

Con l’istituzione di parlamenti sami in Norvegia, Finlandia e Svezia (la Russia ancora nega ai Sami una propria rappresentanza), anche la cultura dei popoli lapponi è meglio accettata. Accanto quindi alle chiese cristiane, vi sono tentativi di rivalutare la religione tradizionale dei Sami.

Piergiorgio Pescali 

Nell’isola di Mageroy, dove sorge Capo Nord, ci sono quattro villaggi abitati. Foto Piergiorgio Pescali.

 


Sul Nord Europa e i Sami:

Le renne sono il principale animale di allevamento delle popolazioni sami. Sia Francesco Negri che Giuseppe Acerbi descrivono nei loro diari i manufatti e gli abiti dei lapponi ricavati dalle renne. Foto Piergiorgio Pescali.

Le renne sono il principale animale di allevamento delle popolazioni sami. Sia Francesco Negri che Giuseppe Acerbi descrivono nei loro diari i manufatti e gli abiti dei lapponi ricavati dalle renne. Foto Piergiorgio Pescali.

 




Popolo Indigeno d’Europa

testo e foto di  Valentina Tamborra |


Nell’estremo Nord del continente da sempre vivono i Sami. Nella storia oppressi e assimilati, stanno oggi lottando per mantenere la loro cultura e tradizioni. A dispetto della modernità che avanza.

I Sami sono una popolazione indigena che oggi conta circa 75mila persone. Divisi dalle frontiere di quattro stati – Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia – vivono in un’area da loro chiamata Sapmi.

L’area ha una propria bandiera i cui colori identificano le sue diverse zone: rosso per la Svezia, verde per la Finlandia, giallo per la Russia e blu per la Norvegia, dove vivono la maggior parte dei Sami.

I nativi di queste zone sono comunemente definiti «lapponi». Il termine però, aveva inizialmente una valenza dispregiativa in quanto la parola svedese «lapp» stava a indicare una «toppa, pezza».

Solo nel 1989 è stato istituito un parlamento sami della Norvegia, in riconoscimento dei loro diritti. L’edificio è stato costruito nella città di Karasjok e la sua architettura ricorda la forma di un lovvo, ovvero una tenda (abitazione tradizionale dei Sami dediti all’allevamento delle renne), pur essendo moderno e all’avanguardia.

Inoltre, dal 1956 è attivo il Sami Council, organizzazione volontaria non governativa che ha come scopo la promozione della cultura e la difesa dei diritti e degli interessi di questo popolo.

La costituzione di un parlamento sami è di particolare rilevanza, in quanto i nativi del Sapmi hanno subito una sorte che sfortunatamente, nella storia, ha toccato diversi popoli nativi.

Sami, Valentina Tamborra

Assimilazione forzata

Tra il 1850 e il 1970 infatti, il popolo sami ha subito quella che è stata chiamata «norvegizzazione».

Durante questo periodo ai Sami residenti in Norvegia venne impedito di parlare la propria lingua e imposto di assumere un cognome norvegese per poter acquistare delle terre e integrarsi con il resto della popolazione norvegese. A quei tempi appartenere al popolo Sami era un marchio d’infamia.

Gli adulti vennero assimilati al modo di vivere occidentale e solo con estrema fatica alcuni di loro – soprattutto i Sami della tundra – continuarono a lavorare con le renne e a preservare la tradizione.

I bambini nati durante il periodo della norvegizzazione infatti, spesso non imparavano neppure la propria lingua. I genitori, per preservarli e far sì che si integrassero fra la popolazione norvegese, parlavano con loro solo nella nuova lingua. Ad oggi molti sono gli adulti che sentono di aver perso le proprie radici.

Una delle prime distinzioni da fare quando si parla di questo popolo è quella fra Sami di mare e Sami della tundra. I primi, vivendo lungo le coste dei fiordi che costellano il paese, sono stati fra i primi a subire il processo di norvegizzazione. Fra di loro, la percentuale di persone che non parlano Sami è molto alta. Mediamente le persone fra i 30 e i 60 anni di età, infatti, non conosco la propria lingua madre. Per ovviare a questo, sono in corso diverse iniziative per il recupero dell’identità: il parlamento sami, infatti, ha reintrodotto la lingua sami nelle scuole e con essa anche lo studio della tradizione e della storia. Esistono poi specifici corsi per adulti che desiderino apprendere la lingua.

I Sami della tundra invece, in quanto nomadi dediti all’allevamento delle renne, hanno subito meno la norvegizzazione e in città come Karasjok e Kautokeino, entrambe in Norvegia, l’85% della popolazione parla sami come prima lingua.

Sami, Valentina Tamborra

I nomadi della tundra

I Sami della tundra sono dediti all’allevamento delle renne e questo li rende nomadi in quanto debbono seguirne i movimenti.

Sin da bambini vengono iniziati dai genitori a questo lavoro che prevede un costante e completo contatto con la natura.

Le renne vivono in assoluta libertà e sono gli uomini a doversi adattare ai loro movimenti. Gli animali infatti, si spostano dalla costa alla tundra a seconda delle stagioni, e seguono la stessa tratta da millenni: lo spostamento segue questa rotta da quando i primi Sami iniziarono a vivere di questa attività, e il movimento è strettamente connesso alla ricerca di cibo da parte delle renne.

I Sami sono al seguito delle renne. Se una volta essi si avvalevano di slitte trainate da renne e sci, oggi le renne vengono dotate di collare gps, e un’apposita App permette di localizzare con più precisione possibile dove gli animali si stanno muovendo.

Questo ha ovviamente semplificato di molto il lavoro dei Sami: prima dell’avvento del gps infatti, era necessaria una costante vigilanza sulla mandria. Intere famiglie Sami vivevano per mesi smontando e rimontando il proprio lovvo seguendo il movimento degli animali. Quando la mandria si fermava a riposare, anche la famiglia poteva fermarsi, ma se gli animali si rimettevano in cammino bisognava immediatamente seguirli. L’ultima transumanza con le slitte e le renne è stata fatta, in Norvegia, nel 1976.

Oggi grazie alla moderna tecnologia, i Sami hanno costruito delle cabin (sorta di piccoli rifugi costruiti in legno, molto basici, vedi box) nelle tratte di percorrenza delle renne e, con potenti motoslitte in inverno e quad (specie di moto a quattro ruote) in estate, sono in grado di raggiungere gli animali molto velocemente.

Sami, Valentina Tamborra

La marchiatura

In estate, quando i nuovi nati fanno capolino nella mandria, è il momento della conta: ogni Sami si predispone a seguire la mandria e direzionarla verso grandi recinti dove ogni renna giovane verrà marchiata con il simbolo proprio del Sami che riuscirà a prenderla.

Portare le renne nei recinti della marchiatura è operazione tutt’altro che semplice: per loro natura infatti, in quanto animali liberi e non abituati all’uomo, le renne tendono a fuggire non appena qualcuno si avvicina. Così i Sami si dividono in gruppi: le motoslitte accerchiano le renne e, stando a una distanza importante (circa 200 metri), cercano di spingerle verso i recinti. Le renne si spostano naturalmente in una sorta di fila indiana che può raggiungere centinaia di metri se non a volte anche qualche chilometro. Raccogliere la mandria è un’operazione assai delicata in quanto se uno solo degli animali cambia percorso, tutte le altre renne lo seguono.

Dopo la marchiatura, che avviene con il tradizionale coltello Sami realizzato a mano utilizzando legno, osso e acciaio, le renne vengono immediatamente rimesse in libertà.

In inverno, tra dicembre e febbraio, sarà il momento di tornare nella tundra e scegliere quali animali verranno utilizzati per fornire carni, pelli e quanto serve per il sostentamento.

Oggi questa forma di allevamento è messa a dura prova in quanto, con lo scavo di nuove miniere e l’installazione di pale eoliche o tralicci della corrente, le renne trovano difficile orientarsi. La nuova conformazione del paesaggio nonché i rumori prodotti da queste installazioni disturbano gli animali durante la transumanza costringendoli a cambiare percorso e facendo loro spendere molta energia in più rispetto al passato. Questo mette a dura prova la mandria e molti animali non sopravvivono. La paura dei Sami, oggi, è quella di vedere nuovamente venir meno la propria tradizione e la propria cultura in nome dell’avanzamento tecnologico.

Sami, Valentina Tamborra

Nel profondo dei fiordi

I Sami di mare vivono prevalentemente lungo le coste norvegesi e non sono nomadi.

Il nome «Sami di mare» potrebbe suggerire una tradizione di pesca, ma in realtà essi si occupavano, in passato, prevalentemente di allevamento di ovini e di tessitura di lana. La pesca non rappresentava la principale fonte di sostentamento ma era parte dell’economia che si reggeva prevalentemente sul baratto. I legami fra Sami di mare e Sami della tundra infatti, erano e sono ancora oggi fortissimi. Le prime strade di collegamento con il resto della Norvegia infatti, vennero costruite solo nel 1970, dunque fino a quegli anni l’economia doveva per questioni di forza maggiore, basarsi sullo scambio fra le due popolazioni Sami.

Se i primi potevano fornire lana, materiale tessile e oggettistica realizzata in legno e osso (oggetti tipici chiamati duodji e dunque utensili come coltelli, calze in lana, coperte, il tutto rigorosamente fatto a mano), i secondi potevano rifornire i Sami di mare con pelli di renna (ottimo isolante dal freddo di queste zone oltre il circolo polare artico), e carne.

Oggi i Sami di mare svolgono i più svariati lavori: perfettamente integrati nel tessuto sociale norvegese, non vivono più di forme di baratto ma sono impegnati in lavori quali insegnanti, medici, cuochi.

Sami, Valentina Tamborra

Spiritualità e religione

Sebbene i Sami siano per lo più luterani, il loro legame con la religione d’origine, lo sciamanesimo, resta estremamente forte.

Lo sciamanesimo era un culto politeista che traeva la propria ispirazione dalla natura. Tra le più antiche divinità troviamo quindi la Madre Terra (colei che governa le nascite e dunque la vita) e il Dio del tuono.

Tra il XIII e il XVI secolo ci furono molte spedizioni missionarie atte a convertire i Sami al cattolicesimo e al luteranesimo. Con l’avanzata dei coloni scandinavi e norvegesi, intere comunità sami furono costrette ad abbandonare le pratiche religiose pagane.

Proprio in Norvegia, nel 1716, nacque il Seminarium Lapponicum: organizzazione con il compito di cristianizzare i Sami fornendo loro le Sacre scritture in lingua Sami. Questa iniziativa fallì in quanto la maggioranza ecclesiastica si oppose alla conservazione dei valori tradizionali (fra cui la lingua) e si procedette al sequestro e al rogo degli oggetti simbolici, come i tamburi, legati al culto pagano.

Fu con l’arrivo di Lars Levi Laestadius, nel XIX secolo, che avvenne una vera svolta.

Questo pastore luterano di origine sami fondò un suo proprio movimento, il Laestadianesimo.

Il primo precetto di questo movimento è la remissione dei peccati e l’incontro con lo Spirito Santo.

Dopo l’arrivo dei coloni infatti, complice il forte cambiamento di vita con l’imposizione di nuove abitudini, l’esproprio forzato dai terreni, la perdita della lingua madre, molti Sami erano caduti nella spirale dell’alcool.

L’alcool però era altresì associato alle pratiche sciamaniche, necessario per cadere in trance.

Laestadius, grazie alla fondazione del suo movimento religioso, aiutò i Sami a trovare una nuova salvezza dalla spirale di abbruttimento nel quale erano caduti dopo l’invasione dei coloni, ma allo stesso tempo impose loro concetti molto restrittivi creando fratture fra la comunità stessa. Chi non si convertiva, infatti, veniva guardato con sospetto e messo in qualche modo al bando dalla comunità.

Il racconto del processo di colonizzazione e di quanto avvenne in quel tempo è ben documentato nel film «La rivolta di Kautokeino» del regista Nils Gaup. Il film è incentrato sulla rivolta di un gruppo di Sami, nel 1852, contro un mercante locale e il suo alleato, un pastore luterano.

Ad oggi, come dicevamo, molti Sami seguono il cristianesimo ma continuano a conservare figure come il «guaritore». La differenza con il passato è che, se una volta il guaritore/sciamano, utilizzava il tamburo per mettersi in collegamento con gli Dei e guarire una persona, oggi la guarigione viene operata tramite l’uso della Bibbia e di Gesù. Questa mescolanza fra cristianesimo e paganesimo è ancora più forte quando scopriamo che alla celebrazione del Natale i Sami affiancano il «Nissetoget» per la celebrazione del Capodanno.

La notte del 31 dicembre, infatti, è usanza ritrovarsi verso le ore 20 per dar luogo a una lunga processione in maschera: ogni famiglia, nelle settimane precedenti all’evento, costruisce maschere e costumi.

Le maschere sono spaventose perché debbono rappresentare i demoni o comunque il «male» che verrà bruciato alla fine della processione, a mezzanotte, in un grande rogo simbolico per far iniziare il nuovo anno al meglio.

Con il rogo delle maschere, gli spiriti maligni vengono allontanati e si fa spazio agli dei benevoli a cui rivolgere le proprie preghiere per un anno nuovo sereno.

Sami, Valentina Tamborra

Le pietre del sacrificio

C’è poi un’altra usanza che dimostra come l’antico credo legato alla terra e alla natura sia radicato e forte. Nella tundra infatti, ci si può imbattere in quelle che vengono definite «pietre del sacrificio». Si tratta di grosse rocce su cui i Sami lasciano offerte (possono essere monete, corna di renna, carne) per ingraziarsi gli dei della natura e ottenere così una buona pesca o un buon anno di caccia o di allevamento.

Oltre alle pietre del sacrificio, restano ancora oggetto di attenzione e di culto altre rocce: un tempo infatti, prima dell’avvento del luteranesimo, i Sami identificavano come luogo sacro ove ritrovarsi a pregare, delle pietre di forma particolarmente allungata verso il cielo – luoghi che simboleggiavano l’unione fra terra e mondo invisibile.

Molto importante è poi per questa popolazione, il legame con gli antenati: la morte, che è vista come passaggio e naturale parte della vita, non è la fine di tutto. Per i Sami chi ci ha preceduto è in qualche modo eternamente presente. Una credenza diffusa infatti è che portare via un oggetto da una delle molte pietre del sacrificio, possa far infuriare gli spiriti che non daranno pace ai vivi sino a quando l’oggetto non verrà riposto nel luogo ove è stato trafugato.

Paganesimo, cattolicesimo, luteranesimo e sciamanesimo si fondono creando così una spiritualità molto forte che attinge alla tradizione antica.

Tutto questo è ben espresso nelle parole di un guaritore che per rispondere alla domanda «in quale dio credi?», ha usato la seguente espressione: «Che importanza ha il nome che gli dai? Se è uno, se sono molti? Ciò che conta, è che tutti si preghi per la pace».

Sami, Valentina Tamborra

La natura e la lingua

I Sami, sia di mare che della tundra, vivono strettamente a contatto con la natura. Questo li porta a un rispetto e a un rigore estremo.

Pur dovendo cacciare e allevare, non esiste Sami che non biasimi ad esempio la pesca o la caccia sportiva.

Per questa popolazione infatti, il rispetto della Madre Terra resta la base di ogni azione. Prima della caccia, prima della pesca, all’inizio della stagione della transumanza, si ringrazia e si chiede il permesso a Madre Terra per portare avanti la propria attività.

Un altro aspetto singolare e che racconta molto di quanto possa essere complicato e allo stesso tempo strettamente legata alle questioni ambientali la cultura Sami, è la loro lingua.

Catalogata in undici differenti dialetti, di cui uno estinto nel 1800 e l’altro nel 2003, solo sei di loro hanno una storia letteraria. È molto complicato comprendere e imparare questa lingua in quanto per una singola parola abbiamo talvolta più di 100 diverse espressioni, un esempio concreto è la parola neve. Vivendo nell’artico infatti, ove per circa sei mesi all’anno la neve, il ghiaccio e la poca luce fanno da padroni, è necessario poter definire al meglio uno dei componenti essenziali che determina la loro capacità di movimento e di lavoro in territori tanto duri come la tundra. E così per descrivere una neve secca, o fragile, o farinosa, o ghiacciata si usano parole completamente diverse fra loro.

Modernità e tradizione

Ad oggi risulta sempre più difficile per i Sami portare avanti il loro tradizionale stile di vita per via di diversi fattori che concorrono a rendere difficile la prosecuzione di una vita nomade e «al servizio» dei ritmi naturali: cambiamenti climatici, riduzione delle terre loro concesse per l’allevamento delle renne, nonché un turismo che raggiunge sovente mete che sino a poco tempo fa erano precluse proprio perché dedicate all’allevamento e al pascolo delle renne, sono tutti elementi che rendono difficile il mantenimento della tradizione.

In alcune città fra Norvegia e Svezia si sono già verificate proteste al fine di impedire la costruzione di nuove miniere, e alcuni capi della comunità dei Sami della tundra hanno provato a far sentire la loro voce ai propri governi. Nonostante ciò sembra inevitabile l’avanzamento del progresso e con esso, come spesso avviene, il sacrificio di realtà minori e dedite a una vita lontana dalla frenesia moderna.

Ciò che si spera, nella comunità, è che la tenacia, la forza di volontà e l’attaccamento alle radici consentano ai giovani Sami di portare avanti la propria tradizione anche se con fatica e sacrificio.

Valentina Tamborra

Sami, Valentina Tamborra

Vivere nelle cabin

Il riparo dei «rennari»

Le cabin, rifugi molto spartani, hanno sostituito l’utilizzo dei lovvo, tende tipiche che oggi vengono utilizzate essenzialmente per affumicare la carne di renna. Ciononostante la vita nella cabin è tutt’altro che agevole: l’energia elettrica viene fornita da un generatore posto all’esterno della cabin stessa e non è presente acqua corrente.

Date le temperature rigide dell’inverno, all’interno della cabin raramente si superano i 15 gradi e si è costretti a stare in molti dentro spazi davvero risicati. Spesso infatti gli allevatori condividono un rifugio formato da due o tre piccole stanze, in sei o sette persone.

L’acqua per cucinare o lavare le stoviglie viene ottenuta grazie al ghiaccio che si forma sulla superficie dei laghi. Raccolto in contenitori di metallo, viene poi sciolto sul fuoco.

Il bagno non è ovviamente presente, si costruiscono delle piccole capanne in legno a circa 200 metri dalla cabin.

I Sami che seguono la transumanza spesso restano nella tundra per due o tre settimane, adattandosi così a un modo di vivere estremamente semplice e spartano.

V.T.

Sami, Valentina Tamborra