Perché l’Oms non funziona come dovrebbe

testo di Chiara Giovetti | foto AfMC |


Gli stati membri collaborano solo se a loro conviene e la struttura burocratica dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è troppo lenta e inefficiente. La vicenda di Covax è solo il più recente esempio di mancanza di incisività per un’organizzazione nata con l’ambizione di coordinare la sanità a livello mondiale e oggi in evidente crisi.

Lo scarto fra paesi ricchi e paesi poveri nel numero di vaccini somministrati «cresce ogni giorno, e ogni giorno diventa più grottesco. Paesi che ora stanno vaccinando persone più giovani e sane a basso rischio lo fanno a spese delle vite del personale sanitario, degli anziani e dei gruppi a rischio in altri stati. I paesi più poveri del mondo si chiedono che cosa davvero intendano i paesi ricchi quando parlano di solidarietà»@.

Così Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha descritto durante una conferenza stampa dello scorso 22 marzo la situazione di disparità nell’accesso ai vaccini contro la Covid. A gennaio Tedros aveva detto che il mondo era sull’orlo di un catastrofico fallimento morale e che era necessario agire con urgenza per assicurare un’equa distribuzione dei vaccini. «Abbiamo i mezzi per scongiurare questo fallimento – ha poi ribadito il direttore dell’Oms a marzo – ma è scioccante quanto poco sia stato fatto per ridurre lo scarto».

Vaccini per tutti

Per tentare di garantire una più equa distribuzione dei test, degli strumenti terapeutici e dei vaccini per contrastare la pandemia, già dall’aprile dell’anno scorso, l’Oms ha avviato – insieme alla Banca mondiale, all’Alleanza globale per i vaccini (Gavi), e a diversi altri partner – l’iniziativa Act-A, che si propone di ampliare il più possibile l’accesso agli strumenti di lotta alla Covid (Access to Covid-19 tools accelerator).

La colonna portante dell’iniziativa Act-A per l’acquisto e la distribuzione dei vaccini si chiama Covax: secondo quanto si leggeva lo scorso marzo nel rapporto sul primo ciclo di assegnazioni@, l’obiettivo è quello di consegnare fra gennaio e maggio 2021 ai 142 partecipanti al programma 237 milioni di dosi di vaccino, per arrivare poi a due miliardi di dosi (1,8 miliardi secondo le proiezioni più recenti@) entro la fine dell’anno. Si tratta prevalentemente del vaccino AstraZeneca/Oxford – prodotto dal Serum Institute of India, che ha concluso con AstraZeneca un accordo per la licenza – e, in misura molto minore, del vaccino Pfizer Biontech.

Come spiegava l’amministratore delegato di Gavi, Seth Berkley@, Covax era nata per coinvolgere tutti i paesi del mondo, a prescindere dal loro reddito, in un unico sforzo per la negoziazione e l’acquisto dei vaccini, in modo da garantire la copertura vaccinale per il 3% della popolazione, corrispondente grosso modo al personale sanitario, su tutto il pianeta. La seconda fase sarebbe stata poi quella di arrivare a coprire il 20% della popolazione, con i paesi ad alto reddito che avrebbero comprato i vaccini autofinanziandosi e 92 paesi a basso reddito che avrebbero visto i costi coperti tramite le donazioni dei paesi più ricchi sotto forma di aiuto pubblico allo sviluppo.

Raggiunta la copertura vaccinale per il 20% della popolazione, Gavi prevedeva un meccanismo per cui, anche finanziandosi attraverso banche multilaterali, i paesi più poveri avrebbero ricevuto ulteriori vaccini sopportando una parte dei costi.

Bambino della Casa Hogar Estancia de Maria a Guadalajara, Messico

Promesse e realtà

Ad oggi, quasi nessuno dei paesi ad alto reddito utilizza la piattaforma Covax per negoziare e acquistare i vaccini. Pur con le eccezioni di Canada, Nuova Zelanda e Singapore, che comunque acquistano solo una porzione molto limitata di dosi tramite Covax, lo sfilarsi dei paesi ricchi dal meccanismo multilaterale ha contribuito a generare l’attuale situazione di stallo, in cui le principali economie mondiali usano i canali bilaterali e comprano direttamente dalle case farmaceutiche ritardando le spedizioni dei vaccini verso i paesi in via di sviluppo@.

Anche sul versante dell’appoggio da parte dei donatori, Covax fatica a decollare: secondo i dati dello scorso 21 marzo consultabili sul sito dell’Oms@, gli impegni a donare avevano raggiunto gli 11 miliardi di dollari: la Germania e gli Stati Uniti guidavano con 2,6 miliardi e altri 2,5 miliardi il gruppo dei primi dieci donatori, seguiti da Regno Unito, Canada, Commissione europea, Consorzio diagnostico per la Covid-19 (coordinato dall’Oms), Norvegia, Bill & Melinda Gates foundation, Arabia Saudita e Giappone.

L’Italia, che si era impegnata per 116 milioni di euro, si trovava al quindicesimo posto, mentre fra i donatori privati, oltre alla già citata Bill & Melinda Gates foundation, vi erano Reed Hastings e Patty Quilling, cioè il cofondatore e attuale amministratore delegato di Netflix e la moglie, che hanno promesso 30 milioni di dollari, seguiti dalla multinazionale di servizi finanziari Mastercard e dalla Chan Zuckerberg initiative del proprietario di Facebook e della moglie, solo per citarne alcuni.

Anche limitandosi solo alle promesse, il deficit di finanziamento a marzo restava di circa 22 miliardi di dollari, di cui 3,2 miliardi mancanti proprio a Covax. Quanto al lato degli esborsi effettivi, secondo una ricostruzione dell’Economist@ al 25 marzo per sostenere le attività di Act i donatori avevano effettivamente versato solo mezzo miliardo di dollari, di cui 300 milioni per i vaccini. La somministrazione è comunque iniziata il 1° marzo scorso, con il Ghana e la Costa d’Avorio come primi paesi beneficiari per l’Africa e la Colombia per l’America Latina, ma per i paesi a reddito basso e medio basso la strada sembra ancora molto in salita.

Alla data di chiusura di questo articolo, su 475 milioni di dosi somministrate nel mondo 126 milioni erano andate agli Stati Uniti, 60 milioni all’Unione europea e 30 milioni al Regno Unito: una frazione della popolazione mondiale pari a un decimo ha ricevuto poco meno della metà dei vaccini. In Africa, dove abita circa un sesto degli abitanti del pianeta, le dosi inoculate erano 8,5 milioni, il 2% del totale.

Quanto alle dosi acquistate, secondo il monitoraggio effettuato ogni due settimane dal centro studi statunitense Duke global health innovation center@, a metà marzo su 8,6 miliardi totali 4,6 erano dei paesi ad alto reddito (il 53,7%), 1,5 miliardi (17%) dei paesi a reddito medio alto, 703 milioni (8%) dei paesi a reddito medio basso e 670 milioni (7,8%) dei paesi a reddito basso, mentre l’iniziativa globale Covax aveva comprato il 13% delle dosi, pari a 1,1 miliardi di dosi.

Le numerose richieste, promosse da Ong come Medici senza frontiere e appoggiate dall’Oms, di sospendere i brevetti dei vaccini non hanno sortito ad oggi alcun effetto a causa principalmente delle resistenze di Usa, Ue, Svizzera e Regno Unito@.

Gesto simbolico di intercessione in tempi di Covid in Sud Corea

L’Oms e i ritardi della Cina

Le iniziative promosse dall’Oms per combattere il coronavirus non hanno ottenuto l’adesione e i risultati sperati anche a causa della scarsa collaborazione da parte delle principali economie mondiali e del prevalere della logica del bilateralismo.

La mancata collaborazione da parte della Cina è stata anche il motivo principale dei ritardi con cui nel gennaio del 2020 l’Oms ha allertato il mondo sul coronavirus e sulla gravità della situazione. Se pubblicamente l’Oms lodava la Cina per la gestione dell’epidemia, riportava nel giugno scorso Associated press (Ap)@, il dietro le quinte era però ben diverso: vi era notevole frustrazione tra i funzionari dell’Oms per i ritardi significativi con cui il governo cinese condivideva informazioni cruciali, ad esempio quelle sul genoma del virus, nonostante la rapidità con cui gli scienziati cinesi le avevano fornite a Pechino.

Le lodi pubbliche, continua Ap riportando il contenuto di alcune registrazioni degli incontri interni all’Oms in quelle settimane, erano parte di una strategia per invogliare il governo cinese a collaborare in una fase in cui – nelle parole del più alto funzionario dell’Organizzazione in Cina, Gauden Galea -, «ci danno le informazioni un quarto d’ora prima che vengano trasmesse su Cctv», la televisione pubblica cinese.

Burocrazia elefantiaca e immobilista

La scarsa collaborazione ricevuta non toglie, tuttavia, che l’organizzazione funzioni da anni in modo tutt’altro che impeccabile.

I ritardi dell’Oms nel dare l’allarme su un’epidemia non sono una novità: nel 2015 l’organizzazione fu duramente attaccata per aver aspettato due mesi prima di dichiarare emergenza globale l’epidemia di ebola in Africa occidentale l’anno prima. A trattenere l’Oms, nonostante i suoi funzionari sul campo inviassero a Ginevra numerose e accorate segnalazioni e richieste d’aiuto, fu il timore di danneggiare l’economia regionale e di compiere quello che i governi della zona avrebbero potuto leggere come un atto ostile@.

L’Oms condivide molte delle pecche del più ampio sistema di cui fa parte, le Nazioni Unite: in un articolo apparso nel 2016 sul New York Times dal titolo «Amo le Nazioni Unite, ma stanno fallendo»@, un funzionario Onu di lungo corso come Anthony Banbury individua i principali problemi della struttura nel suo sistema sclerotizzato di gestione del personale e nella tendenza a prendere decisioni basate sulla convenienza politica – ad esempio non scontentare gli stati membri – invece che sui valori fondanti dell’organizzazione o sulla realtà dei fatti sul campo.

Per quanto riguarda il primo ostacolo, spiega Banbury che, durante l’epidemia del 2014, era capo della missione Onu per la risposta di emergenza all’ebola, «troppo spesso, l’unico modo per accelerare le cose è infrangere le regole. È quello che ho fatto ad Accra [in Ghana] quando ho assunto un’antropologa come consulente indipendente. Si è rivelata qualcuno che valeva il proprio peso in oro. Le pratiche di sepoltura non sicure erano responsabili di circa la metà dei nuovi casi di ebola in alcune aree. Dovevamo capire queste tradizioni prima di poter persuadere le persone a cambiarle. Per quanto ne so, nessuna missione delle Nazioni Unite aveva mai avuto un antropologo nello staff prima di allora; quando io ho lasciato la missione, lei non è stata confermata».

Distribuzione di cibo ai più poveri in eSwatini.

«Un covo di squali»

I rapporti disfunzionali all’interno dell’agenzia sono anche l’oggetto delle critiche di Laurie Garrett, esperta di salute globale presso il centro di ricerca statunitense Council for foreign relations e giornalista scientifica. In una colorita intervista a Global health now, sito di informazione sulla sanità della Johns Hopkins Bloomberg school of public health, ha detto: «L’unico consiglio che ho dato a ogni direttore generale – e tutti lo ignorano, anche se poi, anni dopo, tutti mi dicono: “Come avevi ragione!” – è: cerca di ridurre al minimo i tuoi viaggi. Perché questo posto [il quartier generale dell’Oms] è un covo di squali». A detta di Garrett, sui programmi da realizzare ci sono grandi battaglie fra i dipartimenti, che si sabotano a vicenda per difendere il proprio territorio. Può succedere di veder «sparire improvvisamente interi programmi nei paesi poveri di tutto il mondo […] perché il direttore generale non era lì per dire “no”. E l’altro problema, con i direttori che viaggiano così tanto, è che si trovano in uno stato permanente di jet lag e iniziano a perdere la propria capacità di giudizio […] perché letteralmente non sanno in quale fuso orario si trovano»@.

Quella di Tedros è stata la prima elezione a scrutinio segreto estesa a tutti gli stati membri dell’Oms; prima, la decisione era presa a porte chiuse da una trentina di rappresentanti dei paesi ad alto reddito e da un gruppo di altri membri a rotazione. I casi di corruzione da parte dei paesi di provenienza dei candidati per assicurarsi i voti erano non solo numerosi, ma anche sfacciati.

L’Oms ha, storicamente, ottenuto diversi successi, come l’eradicazione del vaiolo e la realizzazione di grandi campagne vaccinali su tutto il pianeta. Molti esperti, specialmente alla luce dell’attuale crisi, invocano una profonda riforma dell’organizzazione per renderla più efficiente ma anche più indipendente dai condizionamenti politici@ per poter agire davvero come ente di coordinamento globale in un mondo in cui, ammonisce Gavi, nessuno vince finché non vincono tutti@.

Chiara Giovetti

 




Myanmar:

Lotta alla polio sui monti dei Chin

testo e foto di Dan Romeo | www.iviaggididan.it |


Era il febbraio del 2016 quando per la prima volta ho visitato il «Chin state», un piccolo stato che fa parte di quello che, con il dominio coloniale britannico, era chiamato la Birmania e poi, sotto la dittatura militare, è stato ribattezzato Myanmar.

Gli abitanti del Chin sono di origine sino-tibetana e occupano quella catena montuosa che copre approssimativamente la Birmania (oggi Myanmar) occidentale fino a Mizoram, nel Nord Est dell’India, e piccole parti del Bangladesh. Non costituiscono un unico gruppo, ma hanno tra di loro diverse etnie come Asho, Cho, Khumi, Kuki, Laimi, Lushai e Zomi, ciascuna con la propria lingua appartenente alla famiglia linguistica tibeto-birmana.

Per circa l’80% sono cristiani, mentre la popolazione rimanente è buddhista o animista. Il loro numero in Myanmar è incerto a causa dell’assenza di statistiche demografiche affidabili sin da prima della seconda guerra mondiale. Oggi si stima che ci siano circa mezzo milione di Chin nello stato omonimo e nel Sagaing, nel Nord Ovest del Myanmar.

Poveri e accoglienti

La maggior parte dei Chin vive in villaggi o piccolissime città. Le loro case sono tradizionalmente costruite in legno e appoggiate spesso in maniera precaria su pilastri consumati dal tempo; hanno tetti di paglia e pareti di bambù. Nonostante le loro condizioni di vita siano estreme, i Chin sono sempre disposti ad aprire le porte delle loro case con il sorriso per accogliere i rari stranieri che riescono a raggiungere i loro villaggi remoti. Hanno un desiderio insaziabile di conoscere e scoprire tutto ciò che sta al di là delle loro montagne.

Lo stato di Chin è una delle zone più povere del Myanmar. Più di sette persone su dieci sono sotto la soglia di povertà e circa l’80% delle famiglie vive in condizioni al limite della sopravvivenza e con carenza alimentare. Recenti statistiche stimano che un bambino su dieci muoia entro entro i cinque anni di vita, con un tasso di arresto della crescita infantile pari al 41% e con il 20% dei bambini sottopeso. Basti pensare che qui solo il 15% dei bambini è nato in una struttura sanitaria.

I bambini protagonisti

Nel 2016 Unicef Myanmar mi affidò l’incarico di documentare la campagna di vaccinazione contro la poliomielite appena lanciata. Il team sul campo mi informò della difficoltà del viaggio, soprattutto durante la stagione dei monsoni, quando interi versanti delle montagne franano a valle rendendo le strade impraticabili. Ma la proposta costituiva per me un’opportunità più forte di qualsiasi difficoltà. Mi ritrovai nella capitale dello stato del Chin, Hakha, dopo tre settimane di viaggio estenuante, prima in aereo e poi in auto su strade sterrate, spesso ridotte a pietraie, che si inerpicano sulle montagne al confine con l’India e il Bangladesh. Tracciati di terra di un giallo intenso su strapiombi mozzafiato, con pareti di roccia, spesso segnati da frane, contro le quali lungo tutto il percorso sono pronti scavatori e camion durante tutto l’anno.

Per due settimane sono poi passato di villaggio in villaggio, di casa in casa con gli operatori sanitari per sensibilizzare sui benefici della vaccinazione contro la poliomielite e somministrare i vaccini. Una campagna che ha cercato di colmare i ritardi decennali causati da strutture inadeguate e soprattutto da anni di guerra civile che hanno provocato la fuga e la migrazione di gran parte della popolazione.

in basso, in primo piano, la cattedrale di Hakha, la capitale del territorio Chin.

Il racconto di Eint

Particolarmente toccante per me fu la testimonianza di Eint, una mamma di sette figli, che con il suo ultimo nato appena vaccinato in braccio, mi raccontò che non avrebbe mai dimenticato quanto era accaduto un anno prima, nell’ottobre 2015, quando suo figlio di circa due anni era stato in condizioni fisiche precarie e, nonostante le medicine, aveva continuato ad avere una febbre persistente. «Un giorno, dopo aver partecipato a una festa nel villaggio dei miei genitori, tornati a casa, notai che mio figlio era febbricitante e cadeva a terra ogni volta che cercava di alzarsi».

Per questo Eint lo aveva portato d’urgenza in ospedale. Dopo la visita medica, «i medici mi hanno detto che era la poliomielite. È stato un momento molto duro e complicato», mi disse Eint. «Mi sentivo una mamma inutile».

Suo figlio era uno delle decine di migliaia di bambini che ogni anno contraggono l’infezione da virus della poliomielite, ma era stato salvato grazie alla prontezza della madre che lo ha portato all’ospedale ai primi sintomi.

La sfida

I servizi di immunizzazione, specialmente nelle aree difficili da raggiungere come lo stato del Chin, rappresenta una sfida per il sistema sanitario del Myanmar. Di conseguenza, i bambini sono meno protetti dai virus. Nei villaggi dove la maggioranza della popolazione è musulmana, ci sono anche barriere linguistiche e culturali che aumentando la distanza tra la comunità e il personale sanitario e i volontari.

La violenza intercomunitaria scoppiata nel 2012 nel vicino stato di Rakhine – dove vivono i Rohingya – ha complicato ulteriormente la situazione e, di conseguenza, i bambini di tutte le comunità corrono rischi maggiori.

Sono stato testimone di come l’Oms, insieme a Ong internazionali e al ministero della Salute del Myanmar, stia cercando di debellare la polio, sia con l’informazione e campagne di sensibilizzazione che con la vaccinazione sistematica in tutto il Myanmar e in particolare nelle aree più remote come Rakhine, Chin, Magway, Bago e Ayeyarwady. Le immagini di queste pagine cercano di documentare l’ambiente nel quale vive la minoranza cristiana Chin e la campagna di vaccinazione rivolta a salvare bambini sotto i cinque anni dalla polio.

Daniele Romeo
dan@dan.ph

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Il nostro 2020 di solidarietà

testo di Chiara Giovetti |


Nel corso di quest’anno abbiamo sostenuto diverse famiglie del Mozambico nel loro lavoro di ricostruzione delle case distrutte dalle alluvioni e dal ciclone Idai del 2019. Abbiamo poi assistito i nostri missionari impegnati a mitigare gli effetti della pandemia e rafforzato il nostro programma di sostegno a distanza. Vi raccontiamo il nostro 2020 al servizio degli ultimi reso possibile dalla generosità di tutti voi.

Era il 3 aprile del 2019 quando padre Sandro Faedi, missionario della Consolata in Mozambico e all’epoca amministratore apostolico della diocesi di Tete, scriveva@: «Qui è stato un disastro. Alluvioni come ho vissuto a Vilanculos nel 2000», anno in cui un’ondata di maltempo come non si vedeva dagli anni Cinquanta del secolo scorso e un successivo ciclone provocarono 800 vittime e oltre mezzo milione di sfollati. Nel 2019 il bilancio è stato di poco diverso: 603 morti e 400mila sfollati, causati dal ciclone Idai, che ha raggiunto l’area della grande città costiera di Beira con vento fra i 180 e i 220 chilometri orari e ha colpito con piogge intense (200 millimetri in 24 ore) le province di Sofala, Manica, Zambézia, Tete e Inhambane@.

A Tete, continuava il racconto di padre Sandro, «centinaia di famiglie, si dice 860, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno salvato a malapena la vita. Casa, oggetti, utensili, tutto alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina».

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Ricostruzione dopo il ciclone

Insieme a padre Diamantino Guapo Antunes, superiore dei missionari in Mozambico che di lì a poco sarebbe diventato vescovo di Tete, padre Faedi ha identificato un gruppo di dodici famiglie di Nkondezi, un villaggio vicino a Tete particolarmente colpito dalle alluvioni. Grazie a donatori privati negli Usa, nell’aprile del 2019 e, a inizio 2020, al contributo della mostra di Solidarietà degli Amici di Missioni Consolata a Torino, è stato possibile raccogliere i fondi grazie ai quali le case di queste famiglie sono di nuovo in piedi.

«La costruzione delle case», scriveva lo scorso ottobre monsignor Antunes (diventato vescovo il 12 maggio), «è iniziata il 15 settembre 2019 dopo la cerimonia di benedizione della prima pietra. Un’azienda locale ha svolto il lavoro sotto la mia supervisione. Non tutte le case sono state costruite a Nkondezi come previsto.  Gravi situazioni di povertà urbana e solitudine degli anziani ci hanno spinto a sostenere la costruzione di case nella periferia della città di Tete, colpita anch’essa dagli effetti del ciclone Idai».

Monsignor Antunes segnalava un leggero ritardo rispetto ai tempi previsti per completare le case: ci sono state infatti delle difficoltà nel procurarsi cemento – il cantiere principale era distante dalla città di Tete, dove si trovano le materie prime – e anche alcuni rallentamenti causati dalla pandemia di Covid-19, che ha reso più complicato lo svolgimento dei lavori.

La costruzione delle casette è terminata il 1° luglio 2020, riferiva ancora il vescovo. Le famiglie hanno partecipato attivamente a tutte le fasi della realizzazione del progetto, collaborando secondo le loro possibilità e aderendo a una raccolta fondi locale per contribuire alla copertura di alcune spese. Anche la comunità ha collaborato offrendo manodopera non qualificata. Il costo della costruzione di ogni casa è stato 2.500 euro, per un totale di 30mila euro.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Coronavirus, il ciclone planetario

A metà marzo di quest’anno i nostri missionari in Africa e America Latina, hanno iniziato a inviare i primi brevi aggiornamenti sulla situazione dei contagi nei rispettivi paesi, e sulle prime misure adottate dai governi per contenere la diffusione del nuovo coronavirus.

Al di là dei numeri, che la scorsa primavera non erano ancora molto elevati nei due continenti, è apparso subito evidente che in paesi come quelli subsahariani o nelle zone amazzoniche di Brasile e Colombia, l’unico modo realistico per tentare di reagire efficacemente alla pandemia era fare prevenzione, cioè contrastarla diffondendo informazioni, disinfettante e dispositivi di protezione per evitare il contagio. Le strutture sanitarie, infatti, non avrebbero mai potuto reggere l’impatto di un numero elevato di pazienti e il tempo e le risorse per adeguare o costruire ospedali erano chiaramente insufficienti.

Dustribuzione di cibo a Daveyton in Sudafrica.

«La maggioranza dei paesi nel continente», ammoniva l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) lo scorso maggio, «non ha la capacità di gestire molti pazienti Covid-19 in condizioni critiche. Secondo un’indagine basata sui rapporti presentati dai 47 paesi membri della Regione Africa dell’Oms, i letti in terapia intensiva sono in media nove per milione di abitanti», meno di uno per centomila: in Italia a inizio pandemia i posti in terapia intensiva era intorno ai 5.100, una proporzione di 8,6 per 100mila abitanti, mentre la Germania ne aveva poco meno di 34@.

Un reportage di Reuters del maggio scorso segnalava che i tre giganti del continente africano – Nigeria, Etiopia ed Egitto – disponevano di 1.920 posti in terapia intensiva a fronte dei loro complessivi 400 milioni di abitanti e che vi erano spesso discrepanze fra i dati ufficiali e la reale capacità delle terapie intensive sul campo. L’Uganda, ad esempio dichiarava di avere 268 letti disponibili, ma secondo Arthur Kwizera, professore di anestesia e terapia intensiva all’Università di Makerere, vicino alla capitale Kampala, meno di un quarto avevano effettivamente il personale e gli strumenti per funzionare@.

La risposta sanitaria alla pandemia

A fine aprile, grazie alla generosità di alcuni donatori, sono dunque partiti i primi aiuti per tre delle strutture sanitarie dei missionari della Consolata in Africa: l’ospedale di Neisu, in Repubblica democratica del Congo, e i centri sanitari di Dianra e Marandallah, in Costa d’Avorio.

A partire da maggio, poi, diversi centri sanitari e missioni in Kenya, Uganda, RD Congo e Costa d’Avorio hanno ottenuto fondi messi a disposizione dalla Conferenza episcopale italiana, che ha distribuito un totale di circa 9 milioni di euro per 541 progetti in tutto il mondo.

Questi contributi hanno permesso di realizzare intense e capillari campagne informative, da un lato, e di acquistare mascherine, guanti, disinfettanti, pulsossimetri, dispositivi per l’ossigenoterapia, bombole di ossigeno, abbigliamento protettivo per il personale sanitario, termometri a infrarossi e altro materiale necessario per far fronte all’emergenza.

Donne rifugiata dal Malawi in Sudafrica, in attesa della distribuzione di cibo.

Un’iniziativa emblematica della collaborazione con i sistemi sanitari nazionali è stata quella realizzata in eSwatini (Swaziland fino al 2018) dalla diocesi di Manzini, il cui vescovo è un missionario della Consolata, monsignor José Luis Ponce de León.

In un post sul suo blog@, il vescovo ha raccontato come i fondi della Cei siano stati usati a Manzini per un’attività apparentemente insolita, cioè l’acquisto di radio. «Devo confessare la mia sorpresa quando qualcuno ha parlato di questa ipotesi», scriveva a settembre monsignor Ponce de León. «Sul serio? C’è bisogno di fornire radio alle famiglie?». Presto però l’esigenza è apparsa evidente: «Il governo ha fatto un ottimo lavoro di sensibilizzazione attraverso diversi media sia in siswati (la lingua del regno di eSwatini, ndr.) che in inglese, ma se le persone non hanno accesso a quei media. il messaggio non le raggiungerà».

Non solo salute: il sostegno alle comunità vulnerabili

Un altro aspetto della pandemia che è emerso immediatamente nei paesi africani e latinoamericani dove lavorano i missionari della Consolata, è stato quello dei danni economici inflitti dai lockdown alle già fragili economie delle famiglie. «Qui non ci sono ammortizzatori sociali, strumenti per iniettare liquidità nelle famiglie e nelle imprese», constatava padre Matteo Pettinari dalla Costa d’Avorio lo scorso marzo. Il confinamento per molte persone in Africa e America Latina ha significato non poter più disporre delle risorse economiche per nutrirsi, dall’oggi al domani.

Per questo una significativa parte del sostegno che i missionari hanno ricevuto dai donatori si è tradotto in sostegno al reddito delle famiglie.

Le comunità della Terra indigena Raposa Serra do Sol, in Roraima, Brasile, hanno quindi potuto beneficiare di un aiuto in generi alimentari di base, dispositivi di protezione e igienizzanti che stanno permettendo alle persone più vulnerabili di affrontare il confinamento.

Lo stesso vale per le comunità di migranti africani e di famiglie povere che vivono nelle periferie delle grandi città dove operano i missionari della Consolata in Sudafrica. A Daveyton, Johannesburg, 73 famiglie migranti e sudafricane hanno ricevuto i generi alimentari necessari per superare il periodo del lockdown durante il quale non era possibile nemmeno trovare uno di quei lavori giornalieri la cui paga, per quanto bassa, rendeva possibile procurare cibo per sé e per i propri familiari. A Mamelodi, township di Pretoria, le famiglie migranti e locali assistite sono 97 nella parrocchia di Saint Mary e 46 in quella di Saint Peter Claver.

Anche a San Pedro, grande città portuale della Costa d’Avorio, cinquanta famiglie locali hanno ricevuto aiuti alimentari – riso, olio, zucchero, salsa di pomodoro, latte in polvere – e igienizzante per far fronte alle ristrettezze derivanti dalle chiusure. «Alcuni si sono commossi quando ci hanno visto arrivare con gli aiuti», spiega padre Daniel Yoseph Baiso, missionario etiope responsabile del progetto, «non si aspettavano che qualcuno si occupasse di loro e che lo facesse senza distinzioni di credo religioso. Non avevano nessun modo alternativo per procurarsi cibo, tutto era chiuso. Chi ha potuto è andato a passare il lockdown nei villaggi intorno a San Pedro, ma chi è rimasto in città ha passato un momento veramente difficile».

I missionari della Consolata, inoltre, hanno anche sensibilizzato la comunità del quartiere attraverso messaggi diffusi via whatsapp, facebook e altri social network, sulle buone pratiche per evitare l’infezione avvalendosi della collaborazione di un gruppo di giovani molto attivo che frequenta la missione e, prima della pandemia, organizzava giornate di raccolta dei rifiuti nelle strade della zona e formazione alle tematiche ambientali.

Risposta Covid a San Perdo in Costa d’Avorio.

Il sostegno a distanza non si ammala di Covid

Missioni Consolata Onlus ha un programma di sostegno a distanza iniziato nei tardi anni Novanta. La persona che da oltre vent’anni coordina il programma, Antonella Vianzone, ricordava@ in un’intervista del 2012 che le adozioni sono nate come evoluzione naturale delle attività dell’ufficio cooperazione, aperto già nel 1970 grazie a una intuizione di padre Mario Valli, diretto poi da padre Giuseppe Ramponi nei primi anni Duemila e ora guidato da Antonella.

Oggi i sostegni a distanza sono circa 1.300, suddivisi in nove paesi fra Africa, America Latina e Asia. Nemmeno la pandemia ha scoraggiato i donatori, che hanno continuato a sostenere i bambini nonostante le difficoltà che dalle chiusure di marzo ad oggi rendono molto più complicato per tante persone riservare una quota del proprio reddito alla solidarietà.

«Qualcuno mi ha scritto o chiamato per chiedere di suddividere la donazione in più tranche oppure di ritardarne l’invio», spiega Antonella, che non si stanca mai di ricordare come il rapporto diretto, che ha di persona o per telefono, con i donatori – l’ascolto, il dialogo, l’empatia – sia una parte imprescindibile del suo lavoro. «Quasi nessuno ha annullato l’adozione: soltanto due persone hanno dovuto sospenderla, per quanto a malincuore, perché avevano perso il lavoro a causa della pandemia, non ce la facevano a continuare».

A partire dalla primavera inoltrata sono arrivate anche richieste di avviare nuovi sostegni. «Credo che sia la concretezza dell’aiuto a convincere le persone», riflette la responsabile. «In un tempo così incerto e difficile, chi dona vuole essere sicuro di aiutare davvero. E che cosa c’è di più essenziale e fondamentale di garantire a un bambino istruzione e salute?». Alcuni, conclude Vianzone, hanno avviato un sostegno proprio in memoria di un familiare mancato a causa del Covid-19, «quasi a voler dare alla persona cara che hanno perso nuova vita attraverso un atto di generosità».

Chiara Giovetti

In queste tre foto, il bello del sostegno a distanza: Malina (figlia della terra Samburu in Kenya) in prima elementare, al primo anno delle superiori e dopo l’esame di maturità, finito con ottimi voti, mentre è in attesa della chiamata all’università, coronavirus permettendo.




L’uomo e il virus: non è finita

testi di Rosanna Novara Topino |


In Italia e in Europa la pandemia ha allentato la morsa. Sul terreno sono rimasti migliaia di morti e grandi macerie. Il futuro rimane ancora incerto e i pericoli incombenti.

Quali sono state le misure adottate per contenere la pandemia? Le misure di contenimento sono variate da paese a paese. Si è passati da quelle molto leggere della Svezia al completo lockdown di altri paesi, come l’Italia. Nel nostro paese, nella cosiddetta «fase 1», durata dal 23 febbraio al 17 maggio (introduzione delle misure di contenimento e della gestione dell’emergenza epidemiologica della Covid-19 con decreto legge del 23 febbraio 2020), si sono interrotte le normali attività lavorative, fatta eccezione per quelle che permettevano il rifornimento dei generi di prima necessità alla popolazione, e le possibilità di movimento dei cittadini sono state limitate al rifornimento di generi alimentari, di farmaci e alle visite mediche con il limite di una sola persona per famiglia fuori casa, per favorire il distanziamento sociale ed evitare assembramenti. I controlli sui movimenti di persone all’aperto si sono intensificati, fino ad arrivare all’utilizzo di droni e di elicotteri.

Dopo la «fase 2» (18 maggio – 14 giugno), con la riapertura delle attività produttive e il progressivo ritorno a una maggiore libertà di movimento, dal 15 giugno al 14 luglio, l’Italia è entrata nella «fase 3», che ha consentito spostamenti tra regioni diverse (già dal 3 giugno), la partecipazione ai funerali senza il limite di 15 persone, gli esami di maturità in presenza, mentre sono rimaste sospese fiere, congressi, processioni, manifestazioni sportive con pubblico e tutte le altre forme di assembramento.

In questo momento (luglio 2020), in Italia è notevolmente diminuito il numero dei pazienti Covid in terapia intensiva e molti reparti dedicati sono stati chiusi. Inoltre, i nuovi casi positivi non presentano più i gravissimi quadri clinici riscontrati tra febbraio e aprile. Questo tuttavia non è il momento di abbassare la guardia, perché potrebbe esserci una recrudescenza dei contagi, come è già avvenuto a Singapore per la Covid e come avvenne a San Francisco (Stati Uniti) nel 1918 per la spagnola. Eppure una ripartenza è necessaria, perché mesi di sosta forzata hanno portato a un tracollo economico in diversi settori. Molte persone sono finite in cassa integrazione e qualcuno ha perso il posto di lavoro. Purtroppo, c’è chi si è già suicidato e molti sono coloro che sono diventati vulnerabili sotto il profilo psicologico. Inoltre, è necessario tornare quanto prima alle lezioni scolastiche e universitarie in presenza, perché le lezioni a distanza hanno portato ad acuire la disparità tra studenti con più risorse e quelli con meno (non solo con riferimento al digital divide, cioè alla maggiore o minore disponibilità di mezzi informatici).

La popolazione anziana ricoverata nelle Rsa è stata duramente colpita dalla pandemia. Foto: Sabine van Erp – Pixabay.

La strage degli anziani

Quello che è stato chiaro fin dall’inizio della pandemia è che la Covid-19, nelle persone altamente suscettibili, è così aggressiva da portare nel giro di una settimana o poco più il paziente in una situazione allarmante, se non critica, con necessità di ricovero in terapia intensiva e di ventilazione meccanica. L’elevata contagiosità del coronavirus ha portato nel giro di un mese o poco più al collasso delle strutture sanitarie in diverse città del Nord Italia, tra cui Bergamo e Brescia, e il numero dei deceduti è stato così elevato da rendersi necessario il trasporto delle bare in altre città per la cremazione con mezzi dell’esercito.

In molte famiglie è scomparsa almeno una persona, se non di più. E solo dopo due mesi dall’inizio della pandemia, a seguito di indagini della magistratura, in tutta Italia è emerso chiaramente che, nelle case di riposo per anziani e nelle Rsa (Residenze sanitarie assistenziali), il numero degli ospiti e degli operatori sanitari positivi al coronavirus è stato elevatissimo. Secondo le stime dell’Iss (Istituto superiore di sanità), le morti per Covid nelle Rsa sono state tra 9mila e 10mila, ma il dato è approssimato per difetto, non essendo stato fatto il tampone a tutti. Peraltro lo stesso scenario si è presentato in tutta Europa: una strage di anziani. Inoltre, nella sola Italia sono morti sul campo 163 medici, 40 infermieri, 24 operatori socio sanitari e 14 farmacisti. E a loro si aggiungono 121 sacerdoti.

Farmaci e vaccini

A livello di prevenzione della Covid-19, sono allo studio diversi tipi di vaccini (preparati con virus attenuati o con parti di virus), ma nella migliore delle ipotesi ci vorranno non meno di 18 mesi prima di arrivare ad un vaccino, sempre che sia possibile realizzarne uno veramente efficace. Il fatto che, dopo 17 anni, non ci sia ancora un vaccino per la Sars del 2003, non è un buon segnale.

Per quanto riguarda le cure, anche in questo caso non ne esiste una specifica per la Covid-19. In alcuni ospedali stanno utilizzando con discreti risultati dei cocktail di farmaci antivirali già utilizzati nella cura di altre gravi malattie come l’Ebola. In alcuni casi in fase precoce sembra funzionare l’idrossiclorochina, un farmaco antimalarico, anche se c’è ancora disaccordo tra i vari studiosi sui suoi possibili effetti collaterali e sulla reale efficacia, mentre per la prevenzione delle tromboembolie, che possono portare a embolia polmonare, ischemia cardiaca o cerebrale si fa ricorso, quando il rapporto rischio/beneficio lo consente, all’uso di eparina.

Recentemente all’Università di Oxford hanno ottenuto buoni risultati con l’uso del desametasone, un antinfiammatorio steroideo della famiglia del cortisone in grado di ridurre la mortalità del 35% dei pazienti intubati. Un altro metodo di cura, che si sta rivelando molto efficace è quello del plasma iperimmune donato dai pazienti guariti da Covid e contenente quindi gli anticorpi efficaci nel contrastare la malattia. Questo metodo ha trovato inizialmente parecchi oppositori, poiché il plasma non è brevettabile, non essendo un farmaco, e la sua donazione è totalmente gratuita, quindi non consente alcun giro d’affari.

La lezione

A giugno abbiamo assistito a una ricomparsa della Covid in Cina, con un nuovo focolaio nel mercato dell’umido di Pechino. La situazione è diventata estremamente preoccupante nei paesi dell’America Latina, soprattutto in Brasile e Perù, dove intere comunità di popolazioni indigene stanno rischiando la loro sopravvivenza più di chiunque altro per le enormi difficoltà di raggiungere gli ospedali e per la continua esposizione al virus legata alla presenza dei cercatori illegali d’oro e di pietre preziose nella foresta amazzonica (si veda MC di luglio e questo numero a pp. 51-56). Altrettanta preoccupazione è data dall’aumento repentino dei casi e dei decessi in India. In Africa, gli stati maggiormente interessati dalla Covid attualmente sono l’Egitto, l’Algeria, il Sudafrica, il Marocco e la Nigeria, ma complessivamente questo continente sembra il meno colpito dopo l’Oceania, anche se le cifre sono sottostimate per la difficoltà di effettuare screening corretti in molti paesi. Tuttavia, qui l’epidemia è ancora in aumento e ciò che desta maggiore preoccupazione è la presenza di soli 5mila posti di terapia intensiva in tutto il continente (in Italia sono stati raggiunti 6.100 posti nel mese di marzo). Tutto questo dovrebbe almeno insegnarci che l’uomo non è al di sopra o al di fuori del regno animale, di cui fa parte, e che ogni sua azione contro di esso e più in generale contro l’ambiente può avere gravi ripercussioni e rivelarsi un boomerang dalle conseguenze incontrollabili. Proprio come l’attuale pandemia.

Rosanna Novara Topino
(terza parte – fine)


I test

Alla ricerca di anticorpi

Per quanto riguarda i controlli sanitari, il test più utilizzato è quello del tampone naso-faringeo, che permette una prima analisi della presenza del virus mediante tecnica Pcr (Polimerase chain reaction) per l’identificazione dell’Rna virale. Un test più accurato è quello della raccolta di campioni biologici dalle basse vie respiratorie (espettorato, aspirato endotracheale, lavaggio bronco-alveolare). Per monitorare la presenza del virus nei vari distretti corporei si effettua la raccolta di campioni biologici aggiuntivi quali sangue, urine e feci. L’analisi del siero consente – inoltre – di valutare la quantità di anticorpi per il Sars-CoV-2 e grazie ad essa è possibile osservare l’innalzamento dei valori di immunoglobuline M (IgM, indicanti un’infezione allo stato iniziale) e di immunoglobuline G (IgG, infezione in stato avanzato). Oltre al prelievo rapido di una goccia di sangue mediante il pungidito, metodo che dà un risultato istantaneo, ma non sempre attendibile, attualmente la raccolta del siero viene effettuata con prelievo di sangue in vena e l’analisi viene condotta con metodo Elisa, i cui risultati sono più attendibili, soprattutto perché alcuni kit diagnostici testano gli anticorpi diretti contro la proteina spike (dominio S1), la regione più specifica e meno conservata del coronavirus della Covid-19. Altri kit individuano gli anticorpi contro la proteina N del nucleocapside del virus, una proteina più duratura e comune anche ad altri coronavirus, che infettano comunemente l’uomo (come quello del raffreddore), quindi sono possibili delle cross-reattività che danno dei falsi positivi. Per ottenere un risultato il più possibile attendibile, in alcuni laboratori hanno iniziato a testare non solo le IgM e le IgG, ma anche le IgA, gli anticorpi presenti nelle secrezioni, che hanno un ruolo fondamentale nel creare una prima risposta immunitaria al virus a livello delle mucose, tra cui quella dell’apparato respiratorio.

(RNT)

Nuovo coronavirus. Foto: Leo2014-Pixabay.


Italia, 35mila morti: com’è stato possibile?

La catena degli errori

Sicuramente è stato un grave errore, commesso peraltro da moltissimi altri paesi, sottovalutare la pandemia e non preparare per tempo un adeguato numero di posti di terapia intensiva, nonostante la Covid fosse già presente in Cina da diversi giorni. E il ritardo da parte dell’Oms nel dichiarare la Covid-19 una pandemia non ha certo aiutato a prendere per tempo le necessarie contromisure. Si è arrivati alla sospensione dei viaggi da e per la Cina troppo tardi, quando ormai erano giunte nel nostro paese troppe persone contagiate, a cui non è stato fatto alcun controllo sanitario. In ogni caso un buon numero di cinesi (o di italiani di rientro) è comunque riuscito ad eludere la chiusura dei voli diretti in Italia, arrivando in altri aeroporti europei e raggiungendo il nostro paese per via di terra, dopo essere stati a festeggiare il capodanno cinese nelle loro città natali.

Per quanto riguarda i tamponi, poiché era impossibile farli a tutta la popolazione, per mancanza di reagenti e di laboratori, inizialmente sono state seguite le indicazioni dell’Oms, che dicevano di farli solo alle persone asintomatiche, paucisintomatiche o con sintomatologia compatibile con Covid, quindi febbre alta e difficoltà respiratorie, che avessero avuto rapporti con persone provenienti dalla Cina o che fossero esse stesse provenienti da località asiatiche. In tale modo sono stati esclusi molti casi positivi, che, inconsapevoli di esserlo, hanno continuato a circolare liberamente diffondendo il virus.

Per molto tempo, pur essendo chiaro che stava aumentando in modo anomalo, rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti, il numero di anziani deceduti nelle Rsa, nessuno ha mai pensato di fare i tamponi agli ospiti e al personale sanitario di queste strutture. Solo adesso si stanno facendo i tamponi in tutte le Rsa e case di riposo, quando ormai i loro ospiti sono deceduti in gran numero. Tra l’altro, tali decessi spesso non sono stati conteggiati come Covid, non essendo state compiute le analisi su queste persone prima della morte. E questo è uno degli elementi per i quali si ritiene che il numero totale dei decessi per Covid sia sottostimato. Sicuramente è stato un grave errore la decisione di trasferire dei pazienti Covid in terapia sub intensiva in alcune Rsa, per fare spazio negli ospedali, senza tenere conto del pericolo di contagio (circolare del ministero della Salute del 25/03/2020). Oltre a questo, agli operatori sanitari sono stati forniti i dispositivi di protezione individuale (Dpi) con grande ritardo, per non parlare del fatto che alcuni di loro hanno riferito di avere ricevuto pressioni per non indossare le mascherine in pubblico, allo scopo di non creare allarmismo.

La pressione a cui è stato sottoposto il sistema sanitario nel nostro paese per tentare di fare fronte all’epidemia, ha portato a mettere in secondo piano i malati di altre patologie, con interventi chirurgici già programmati rimandati, visite specialistiche spostate di mesi e così via. Tutto questo per alcuni pazienti può rappresentare un pericolo. Secondo uno studio dell’Università di Birmingham pubblicato sul British Journal of Surgery, a causa della Covid potrebbero essere stati cancellati finora oltre 28 milioni di interventi chirurgici programmati al mondo (3 su 4, cioè il 72,3%). In Italia, le nuove diagnosi di cancro, dall’inizio dell’emergenza, si sono ridotte del 52%, gli interventi chirurgici hanno subito ritardi nel 64% dei casi e le visite specialistiche sono diminuite del 57%. I tumori e le patologie cardiovascolari non sono certamente meno gravi della Covid e tutti questi ritardi nella diagnosi e nella cura rischiano di compromettere la possibilità di sopravvivenza di molte persone, che diventerebbero perciò vittime collaterali dell’epidemia.

Uno dei più gravi errori commessi dal nostro governo è stato quello di emanare una disposizione (circolare n. 15.280 del 2 maggio 2020 del ministero della Salute) secondo la quale, nei casi conclamati di Covid, non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie e riscontri diagnostici. Fortunatamente in alcuni ospedali come il Sacco di Milano e il Giovanni XXIII di Bergamo le autopsie sono comunque state eseguite e si è così compreso che il danno maggiore da Covid non è a carico dei polmoni, ma del sistema circolatorio con formazione di trombi, che rallentano la circolazione del sangue, il quale una volta giunto ai polmoni non consente più una ventilazione corretta. La Covid sarebbe così una malattia infiammatoria del sangue. Quindi, i farmaci che prevengono la formazione dei trombi, come l’eparina possono dare un valido aiuto. Il risultato ottenuto dalle autopsie ha pertanto evidenziato che è stato un errore prima di tutto ospedalizzare i pazienti solo quando ormai giunti alla situazione di «fame d’aria» e, quindi, intubarli per la ventilazione meccanica. Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal basata sui dati del Ssn britannico, il 58,8% dei pazienti Covid intubati è morto. A New York risulta deceduto l’88% dei 320 pazienti sottoposti a ventilazione meccanica. Secondo uno studio del Policlinico di Milano pubblicato da Giacomo Grasselli sul Journal of American Medical Association quasi un paziente Covid intubato su due muore, questo perché la ventilazione meccanica può peggiorare il preesistente danno polmonare.

(RNT)

 




Guinea-Bissau: Missione Sfidante

testi di  Anélia Gomes de Paiva e Marco Bello |


Indice


La storia di una presenza

Le missionarie della Consolata in Guinea-Bissau

Guinea-Bissau, Bijagos archipelago, Canhabaque island (or Roxa island) / © Nicolas Thibaut

Nel lontano 1990 un gruppo di missionarie si spinge in Guinea-Bissau. Un piccolo paese lusofono, in Africa dell’Ovest, dimenticato dai grandi circuiti. Il contesto si presta a una missione ad gentes di prima evangelizzazione. Ma molto c’è anche da fare nei diversi campi della promozione umana. Le religiose approdano anche sulle isole Bijagos, dove la durezza della vita e la cultura locale sono sfidanti. Oggi le missioni sono tre e le sorelle undici. Una di loro si racconta.

Il popolo bissau-guineano mi ha insegnato a rispettare e accogliere con simpatia il diverso, sia per cultura che per tradizione, ad accettare con più pazienza le difficoltà della vita, a non lamentarmi dei problemi che si incontrano oggi. Mi ha aiutata a fare l’esperienza più profonda dell’amore di Dio, attraverso le loro vite, le loro sofferenze. Ho scoperto tante persone che vivono del miracolo dell’amore di Dio. Inoltre, loro mi hanno aiutata a vivere la mia fede in modo più radicale, perché vivono radicalmente la loro tradizione, e questo mi interroga.

Con loro ho imparato a essere più missionaria e vivere meglio la missione, a partire dal loro contesto e dalla loro realtà concreta, privilegiando la vicinanza, l’ascolto, l’amicizia, il dialogo, la testimonianza. I guineani mi hanno fatto sperimentare il grande dono dell’ad gentes e la gioia di essere missionaria.

Il perché di un sogno

Situato in Africa dell’Ovest, la Guinea-Bissau è uno dei più piccoli stati del continente, con una superficie di 36.134 km quadrati, (pari a Piemonte e Abruzzo insieme), e una popolazione di appena un milione e 500mila individui.

Ma perché le missionarie della Consolata sono arrivate proprio qui? Per capirlo occorre fare un passo indietro nel tempo.

Il Capitolo (riunione generale dell’istituto, ndr) del 1987 ha ritenuto vitale l’apertura di nuovi campi di missione per dare la possibilità alle sorelle di iniziare cammini nuovi secondo la metodologia della missione oggi (missione come dialogo interculturale, dialogo ecumenico, dialogo interreligioso, dialogo di vita; missione come inculturazione; missione come testimonianza; missione come ricerca di giustizia e pace) e secondo le nostre caratteristiche carismatiche (metodologia che privilegia l’unione con Dio, la testimonianza di vita, l’accoglienza e la vicinanza alla gente, l’ascolto del cammino di Dio fatto con il popolo).

La Guinea-Bissau è, senza dubbio, un luogo che risponde a tutti questi obiettivi. Così nel 1990 abbiamo iniziato i primi passi, andando a conoscere la zona di Empada, nel Sud del paese, un’area di prima evangelizzazione che era già stata proposta a diciassette congregazioni.

Visitando la zona, abbiamo scoperto che corrispondeva al nostro carisma e all’insegnamento del nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che ci disse: «Dovete andare dove nessuno vuole andare».

Suor Anna Paola Folletto, tra le prime missionarie della Consolata in Guinea-Bissau

Ecco perché le missionarie della Consolata sono in Guinea dal 1992. La prima apertura è stata quindi la missione di Empada. È una presenza fra i Balanta (etnia predominante), Bijagos, Beafadas, Mandingas, Manjacos, Mancanhas, Pepeis e Nalus. Le quattro pioniere di questa missione sono state le sorelle Emma Piera Casali, Ana Paula Folletto, Hotência Nunes e Adriana Medina.

Nel 1994 è stata la volta di una nuova apertura presso il Centro Sos della capitale Bissau, che ospitava bambini abbandonati e orfani. Le sorelle della comunità erano tre: Margarita Benedetti, Alida Ronchi, incaricate della formazione e orientamento delle «mamme» e dei bambini, e Alicia Torres Rios incaricata di lavorare nella pastorale della parrocchia di Cristo Redentore. Abbiamo poi lasciato il Centro Sos nel 1998.

Arrivo sull’arcipelago

Nel 2000 le missionarie della Consolata sono arrivate a Bubaque, nell’arcipelago Bijagós, composto da più di 80 isole, di cui venti abitate. Luogo di prima evangelizzazione, dove i missionari del Pime (Pontificio istituto missioni estere) erano presenti dal 1954, con altre tre congregazioni femminili: le suore del Nome di Dio (1972-1975/6), le suore Figlie di Maria e le religiose delle Scuole Pie (1976-1998). Le missionarie della Consolata che hanno formato la prima comunità erano quattro: suor Maria Inocência Giacomozzi, suor Celia Regina Campaldi, suor Norma Valenzuela e, più tardi, suor Natalina Stringari.

A Bubaque, la maggioranza della popolazione pratica la religione tradizionale. Vi è un piccolo gruppo di musulmani e uno di cristiani. Quindi è ancora luogo di prima evangelizzazione, anche dopo 70 anni di presenza missionaria. Bubaque è considerata la terra di missione più difficile della Guinea-Bissau. Un luogo dove pochi o nessuno vuole andare, perché è veramente sfidante, a livello culturale, di trasporti, infrastrutture, ecc.

Nel 2006 è stata costituita la comunità di Bissau, la capitale, come sede della nostra delegazione. L’obiettivo di questa apertura era quello di essere punto di riferimento e accoglienza delle sorelle delle altre comunità e di fare il lavoro pastorale e sociale nella parrocchia di San Giuseppe nel villaggio di Bor (un sobborgo della capitale Bissau). A Bor l’etnia predominante è la Pepel, però ve ne sono altre presenti nel territorio. La comunità è stata costituta da suor Maria di Lourdes Pereira, suor Isabel Alves de Oliveira, suor Floralba Esteban Palencia e suor Alicia Torres Rios.

Revisione degli obiettivi

Oggi forse dobbiamo rivedere alcuni dei nostri obiettivi e lavori pastorali, consapevoli che non dobbiamo mai perdere di vista il nostro specifico ad gentes, ovvero essere presenti tra i non cristiani. Accompagnare quelli che hanno già ricevuto l’annuncio è un compito che spetta alla comunità locale, e non direttamente a noi sorelle, ma, comunque, lo facciamo con molto zelo. Così come conosciamo l’importanza di formare leader, e di lasciare che la chiesa locale sia protagonista.

Anélia Gomes de Paiva

Conoscenza, ascolto, dialogo

Le attività e l’approccio delle missionarie

Oltre all’annuncio, è fondamentale la formazione umana e sociale. Salute, educazione, promozione della donna, sono i campi nei quali si cimentano le missionarie.  Applicando sempre una «missione che passa attraverso le relazioni».

Nella nostra attività pastorale fra i diversi popoli a Empada, Bubaque e Bissau, consideriamo sempre come parte integrante dell’annuncio di Cristo, la formazione umana e sociale. Come voleva il nostro padre fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Pertanto, oltre le attività pastorali, lavoriamo nel campo dell’educazione, della salute e della promozione della donna.

Essendo il nostro obiettivo principale la prima evangelizzazione, ossia andare tra i non cristiani, al nostro arrivo a Empada nel 1992, tra i Beafadas, Bijagós, Balantas, Mandingas, Mancanhas, Fulas, Pepeis e Nalus, tutto era nuovo, tutto era da cominciare.

Visitare le famiglie

La nostra prima domanda era dove e come iniziare ad annunciare la «Buona Novella». Abbiamo compreso presto che non si poteva annunciare Gesù senza conoscere il popolo che Dio ci aveva affidato. Quindi la prima attività è stata quella di visitare le famiglie, ascoltarle, dialogare con loro per poter conosce il terreno dove «gettare» la grande novità del Vangelo. È da sottolineare che la prima preoccupazione delle missionarie è sempre stata quella di conoscere la realtà del popolo. Perciò, «la visita alle famiglie», è stata per noi una priorità fondamentale nell’attività evangelizzatrice.

Dopo alcuni incontri con il capo villaggio e la popolazione, le missionarie hanno iniziato le visite e subito hanno cominciato a prendersi cura dei bambini gemelli, perché solitamente uno dei due finiva per morire a causa della loro particolare vulnerabilità. Nel 1993, con la collaborazione generosa dei dieci cristiani già presenti a Empada, le missionarie hanno dato inizio al cammino cristiano con 24 coppie e con i loro 96 figli. Dopo cinque anni, si sono raccolti i primi frutti: 17 battezzati e 10 matrimoni. Era il 5 aprile 1997.

Il 45% della popolazione di Empada è musulmano, e più del 50% pratica la religione tradizionale, ma tutti, di ogni fede, erano vicini a noi missionarie. Nello stesso anno si sono anche iniziate due scuole di alfabetizzazione per adulti. Le altre attività cominciate alcuni anni dopo sono state l’accompagnamento dei bambini denutriti (1998), la promozione della donna (1999), la scuola superiore (2002) e l’asilo (2008).

Vivere in modo nuovo

Le missionarie hanno proposto alla gente la possibilità di vivere in un modo nuovo.

Tutto ciò ci permette di dire che abbiamo iniziato le attività evangelizzatrici in modo consono alla nostra «metodologia consolatina», cioè, per mezzo della vicinanza, dell’ascolto, del dialogo, della conoscenza della cultura, della collaborazione vicendevole. Sottolineiamo il dialogo di vita, di relazioni con i fedeli dell’islam, con quelli della religione tradizionale e con i cristiani di altre confessioni. La celebrazione ecumenica e interreligiosa realizzata alla fine di ogni anno testimonia l’amicizia, la comunione, la collaborazione e la partecipazione.

Pertanto, il filo conduttore che ha guidato i nostri passi nelle attività pastorali è stato il seguente: osservare, ascoltare, non avere fretta, conoscere la realtà, programmare e valutare insieme. Questi sono metodi e criteri che anche oggi continuano a guidare lo stile di missione delle missionarie della Consolata in Guinea-Bissau, fra i diversi popoli.

Anche se non sempre siamo così attente. Per esempio, a volte abbiamo troppa fretta di ottenere dei risultati. Vogliamo avere tutto nelle nostre mani, come se la missione fosse opera nostra. Dimentichiamo invece che è opera di Dio, e noi siamo soltanto al suo servizio. È Lui che tocca i cuori al momento giusto. Questo costituisce un paradigma significativo: da una missione basata sul protagonismo personale ad una missione vissuta come opera di Dio.

Semplicità e rispetto

Il nostro stile di missione è sempre stato caratterizzato da molta semplicità. Abbiamo cercato di adattarci alla gente: sederci su una pietra con loro per bere la loro bevanda e mangiare il loro stesso cibo. Uno stile basato sul rispetto della tradizione del popolo, partecipando anche ad alcune dello loro principali cerimonie e privilegiando la cura delle relazioni: vicinanza, amicizia, dialogo, collaborazione. Questi gesti, oltre ad aiutare noi a conoscere la tradizione culturale delle persone, hanno creato amicizia e apertura da parte loro. Partecipare alla loro vita ci ha portato ad essere «accolte come parte di loro».

Dopo 27 anni svolgiamo praticamente le stesse attività pastorali e sociali. Per realizzale oggi però abbiamo altri mezzi e strumenti che arricchiscono la nostra metodologia, e una maggiore consapevolezza riguardo la missione.

Come pensavano i primi missionari, oggi tanti nella Chiesa della Guinea-Bissau pensano che per essere cristiani si debba lasciare completamente la propria tradizione, e questo è inaccettabile per i seguaci della tradizione, soprattutto per gli anziani. Noi crediamo che la via di uscita per tale problematica sia l’inculturazione.

Per questo motivo durante l’assemblea del 2012 della nostra delegazione, abbiamo preso in considerazione, in modo particolare, questo aspetto. Consapevoli che attraverso l’inculturazione la Chiesa avrà cristiani con solida identità e preparati per portare avanti la missione evangelizzatrice. Nelle tre zone di missione in cui lavoriamo, ogni anno vengono amministrati circa 180 battesimi di giovani e adulti. Ma qual è la qualità di questi battesimi, se i candidati hanno ricevuto una formazione catechistica che non ha tenuto conto la loro identità culturale?

Salute e promozione della donna

Nel campo della salute è da rilevare che l’accompagnamento quotidiano dei bambini denutriti e delle mamme, aiuta a salvare tante vite. Attualmente nei due centri di nutrizione che abbiamo, ci prendiamo cura di circa 30-40 bambini al giorno. L’assistenza sanitaria è data a tutti, senza alcuna distinzione religiosa. I nostri centri fanno anche un lavoro significativo di accompagnamento alle mamme e bambini con il virus Hiv. Anche in questo campo la testimonianza e la carità cristiana fanno parte dell’annuncio, o meglio, sono annuncio.

La comune metodologia è uscire per incontrare le famiglie (visitare i bambini, conoscere la loro realtà), dialogare con i genitori, provvedere all’accompagnamento dei bambini e delle mamme.

Nel campo della promozione della donna, operiamo nei due centri di formazione con varie attività: alfabetizzazione, taglio e cucito, ricamo, cucina, tintura di stoffa, trasformazione della frutta, e altro.

Fra i Bijagós, nell’isola di Bubaque, sin dall’inizio una grande sfida per il lavoro missionario è stato  ed è la formazione delle giovani circa il valore della vita, la dignità della donna, le conseguenze drammatiche dell’aborto, e la contaminazione da virus Hiv. Il lavoro di promozione femminile è rivolto a tutte le donne, indipendentemente dalla loro religione.

L’obiettivo è sempre quello di risvegliare una maggiore consapevolezza del valore della vita e della dignità della donna, del suo ruolo nella famiglia e nella società. Questo è annuncio della Buona Notizia, perché è opera di costruzione del regno di Dio.

Nel campo dell’educazione, la formazione pedagogica dei professori è stata sin dall’inizio una nostra priorità. Oggi nelle due scuole superiori che seguiamo, ci sono circa 1.650 studenti, e un centinaio di bambini in una scuola materna. Queste scuole sono rivolte a tutta la popolazione, ossia, cristiani e non cristiani. È importante sottolineare che un professore musulmano del nostro liceo, ha scelto di diventare cristiano. Il motivo è stato la testimonianza dei suoi colleghi insegnanti. Qui vogliamo sempre offrire una formazione integrale ai giovani, favorire coloro che vivono lontano dalla città e che non hanno altre possibilità di andare a scuola.

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Essere presenti nel quotidiano

In sintesi, possiamo dire che noi, missionarie della Consolata in Guinea-Bissau, sin dall’inizio abbiamo scelto il dialogo come metodo per vivere la missione attraverso la vicinanza, l’amicizia, la testimonianza, la presenza. Io ho imparato che uno dei modi migliori per conoscere la cultura, gli usi e costumi delle persone è essere presente nella vita del popolo: gradualmente smetti di essere uno straniero e sei accolto come amico.

La missione come presenza rispetta tutte le tradizioni religiose e le culture. In questo senso, vogliamo sottolineare che la religione tradizionale, come qualsiasi altra religione, ha diritto al dialogo e ad essere rispettata. A questo riguardo abbiamo ancora tanto da imparare, perché solitamente guardiamo i seguaci della religione tradizionale come coloro che, quasi obbligatoriamente, devono convertirsi al cristianesimo per essere salvati.

La metodologia che abbiamo usato all’inizio per raggiungere i nostri obiettivi è ancora valida, perché abbiamo cercato di percorrere la strada offerta dal Concilio Vaticano II. Considerando, però, che la società cambia rapidamente, dobbiamo pensare a nuovi metodi e a nuove strategie. Ad esempio: come deve essere fatto l’annuncio ai non cristiani? Come considerare le altre tradizioni religiose? Come rendere l’annuncio attraente per chi lo ascolta in un mondo così complesso? Pertanto, il nostro modo di «fare» la missione deve adattarsi ai tempi, soprattutto il nostro modo di vivere e relazionarci con la gente deve suscitare dei perché, e suscitare inquietudini. Come diceva san Giovanni Paolo II, «Prima dell’azione, la missione è testimonianza e irradiazione».

L’incontro con i popoli

In alcune zone, i primi contatti con il popolo ci hanno fatte sentire animate e incoraggiate per l’accoglienza calorosa, l’entusiasmo, il rispetto e l’aiuto ricevuto, e anche per l’apertura e la semplicità, l’amore e la serietà con le quali le persone hanno accolto il Vangelo. In altre zone, invece, anche se l’accoglienza non ci è mancata, la preoccupazione della gente, l’interesse era soprattutto per il sociale, anche se poi hanno chiesto la catechesi. Spesso questo capita anche oggi, e in forma abbastanza accentuata fra il popolo Bijagós, che si presenta molto bisognoso (educazione, salute e altri progetti). Forse perché è un popolo isolato, e in certo senso dimenticato dallo stato.

Risultati incoraggianti

Abbiamo tuttavia notato cambiamenti significativi. Nel campo pastorale la formazione cristiana ha prodotto nelle persone un cambio di mentalità. Per esempio, le famiglie cristiane hanno un modo diverso di educare i figli, di organizzarsi come famiglia, di pensare la vita. Alcuni hanno anche un modo diverso, cioè più saggio ed equilibrato di vedere la loro tradizione. Essi sono sicuramente più integrati con la loro cultura. Ma non è così per la maggioranza dei cristiani.

Oggi le mamme hanno un modo diverso di prendersi cura dei figli e dell’ambiente. Oggi portano con più libertà i loro figli al Centro di salute o all’ospedale per farli curare. Prima era difficile convincerle. Lo stesso con le donne incinte: facevano resistenza per andare all’ospedale, e a volta il bambino moriva durante il parto. Oggi non vogliono più mettere a rischio la loro vita e la vita dei loro figli.

La maggior parte delle donne che si sono formate nei nostri centri erano analfabete. La formazione ha suscitato in loro il desiderio di sapere di più: studiare per essere più consapevoli del loro ruolo, del loro valore come donne al servizio della famiglia, della società e della chiesa. La maggior parte delle donne più giovani ora studiano di sera e frequentano l’università. Molte di loro con la formazione ricevuta, aiutano a portare avanti la famiglia.

Nel campo educativo abbiamo osservato che il cambio di mentalità degli studenti circa il loro futuro è significativo: la maggior parte di essi pensa di continuare gli studi dopo il liceo, sognano una vita più dignitosa, un paese più stabile politicamente e economicamente, più giustizia sociale. Sogni che se fatti tutti insieme, possono domani diventare realtà.

Anélia Gomes de Paiva

Un popolo «visitato» da Dio

Evangelizzazione e inculturazione

Il popolo guineano è variegato, ma ha come principio la vita comunitaria. I giovani sono affascinati dalla globalizzazione che apre loro nuove possibilità, ma li allontana dalle tradizioni. Le missionarie sono molto attive nel dialogo interreligioso e credono che il cristiano debba essere integrato nella propria cultura.

I guineani hanno come principio di base la vita comunitaria, ossia la crescita non individuale ma della comunità. Sono un popolo con un’identità etnica e tradizionale ben definita, con una forte spiritualità religiosa, che li porta a praticare intensamente le credenze della tradizione. Sono persone allegre e festose, ospitali, e con grande capacità di accettare le difficoltà e le sofferenze quotidiane. La maggior parte della popolazione vive con meno di un euro al giorno, e consuma un solo pasto quotidiano, mentre altri non possono nemmeno farlo. Nonostante le difficoltà, sono splendenti di gioia e fiduciosi nel Dio della vita. Sono un popolo che vive del miracolo dell’amore di Dio.

I guineani e la globalizzazione

suor Anélia Gomes de Paiva

In Guinea-Bissau sono circa 30 gruppi etnici, la lingua ufficiale è il portoghese, però la lingua più diffusa, parlata dal 44% degli abitanti, è il creolo (a base portoghese). Il 45% della popolazione segue la religione tradizionale, mentre i musulmani sono circa il 40%. Vi è poi una discreta minoranza cristiana (15%).

A proposito della globalizzazione, da una parte possiamo dire che essa ha prodotto dei cambiamenti di mentalità, e in un primo momento possiamo pensare che questo sia positivo. Ad esempio: i guineani oggi guardano il mondo in forma più ampia, vedono più lontano, hanno più ambizioni per migliorare la vita. I giovani si affrettano a studiare e a esercitare una professione. Vi è più accesso ai mezzi di comunicazione, più possibilità nell’ambito della salute e dell’educazione.

Dall’altra parte vi sono delle conseguenze negative nell’ambito dei valori personali, famigliari e sociali. Ad esempio: la mancanza di rispetto per la vita, l’individualismo, la violenza nelle famiglie e nella società. Tanti giovani si allontanano dalla loro tradizione perché vogliono essere «liberi» e avere una vita più moderna. La disuguaglianza sociale sta diventando sempre più evidente. Gli anziani si sentono più esclusi, soffrono di abbandono, indifferenza e solitudine. In questo senso è un sistema che sembra non aiutare a riflettere sul vero senso della vita. Aumenta la conoscenza nozionistica ma non di pari passo una adeguata formazione delle coscienze.

L’esperienza dell’invisibile

In Guinea-Bissau siamo sempre andate dove ci hanno chiamate. Con ogni popolo e etnia abbiamo iniziato l’annuncio in modo differente, conforme alle esigenze di ciascuno. Da coloro che hanno come valore la vita di gruppo, ci è stato chiesto un aiuto per vivere in modo nuovo la vita di gruppo. Altri ci hanno chiesto di parlare di Dio, ma anche la scuola per i loro bambini, ecc. È stato interessante scoprire che Dio li aveva «visitati» prima di noi, perché la missione è opera sua. Prima del nostro arrivo, Dio stava già lavorando con il suo popolo. Aveva già fatto storia con loro. Era poi giunto il momento di scoprire il seme che Dio aveva seminato per aiutarli a farlo crescere, ma anche i frutti maturi da cogliere, appunto, dalla loro esperienza dell’invisibile (Dio) secondo la loro spiritualità tradizionale.

Oggi siamo sempre più consapevoli di questa verità: il primo compito della missionaria è riconoscere il cammino che Dio ha fatto con il suo popolo e la sua presenza attuale. Vale la pena sottolineare che nei villaggi in cui siamo andate senza essere state chiamate, le attività di evangelizzazione non sono continuate, per mancanza di interesse da parte della popolazione.

L’evangelizzazione è accompagnata dalla promozione di tutta la persona, quindi la promozione umana è una dimensione importante della nostra pastorale. Perché il «centro» della missione sono l’uomo e la donna che vivono un momento decisivo nel loro processo storico. E il Cristo che proclamiamo vive già in mezzo al suo popolo, per condurlo alla piena liberazione.

Personalmente, posso dire che sono stata evangelizzata da loro, perché oggi, dopo dodici anni di missione con loro e in mezzo a loro, mi sento più cristiana, più missionaria.

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L’inculturazione

A partire dalla creazione della diocesi di Bissau (1977), la Chiesa in Guinea-Bissau ha preso coscienza della necessità dell’incontro del Vangelo con le culture, cioè dell’inculturazione della fede. L’inculturazione, il dialogo interreligioso e interetnico sono tra gli obiettivi principali della Chiesa locale. La Chiesa, ogni giorno, sta diventando consapevole che se non si incarna nella cultura del suo popolo, l’evangelizzazione continuerà ad essere superficiale e la Chiesa avrà dei cristiani senza un’identità propria, cristiani mancanti di una integrazione con la propria tradizione.

Come dice Paulo Suess, «la meta dell’inculturazione è la liberazione, e il cammino della liberazione è l’inculturazione» (cfr. P. Suess, Caminhar descalço sobre pedras: uma releitura da Conferencia de Santo Domingos, in Instituto Humanitas, Cadernos de Teologia Publicas, 19-20). E «solo con il messaggio rivelato dal di dentro, ogni popolo nella rispettiva cultura può veramente lodare il Signore nella propria lingua e con i propri termini», come dice Appiah-Kubi (cfr. F. A. Oborji, La teologia africana e l’evangelizzazione, Press, Roma 2016, 69-70). Perciò per una Chiesa dal volto guineano, ci vuole una evangelizzazione puntata sul dialogo con le culture e con la religione tradizionale.

Cura del Creato

Riguardo al creato, i guineani, in generale nella loro tradizione hanno profonda venerazione per la natura. Dalla natura prendono le erbe per le medicine; attribuiscono una particolare sacralità ad alcuni alberi; non sfruttano la natura per fine personale o abusivo, ma soltanto per la loro sopravvivenza. Quando hanno bisogno di tagliare un albero, ad esempio, per fare una canoa, fanno delle cerimonie per chiedere il permesso agli spiriti. Riconoscono che tutto è stato creato da Dio e appartiene a Dio. Quindi l’essere umano non ha il diritto di danneggiarlo.

A livello statale e governativo praticamente nulla viene fatto in questo ambito. Una città come Bissau non ha nemmeno i servizi igienici di base e molta spazzatura finisce per essere gettata in mare. Ci sono le Ong che intervengono nei settori di conservazione della biodiversità agricola, nella gestione delle risorse naturali e nella valorizzazione dei prodotti e della conoscenza della biodiversità. Esse informano e sensibilizzano la cittadinanza.

Il nostro carisma

A proposito del nostro carisma, possiamo dire di aver incontrato un popolo di «prima evangelizzazione», dunque questo è il nostro posto.

Pertanto, in Guinea-Bissau il nostro carisma diventa sempre più vitale, perché è alimentato da una realtà veramente ad gentes e da un ambiente con una piccola percentuale di cristiani. «Noi siamo per i non cristiani» e il contatto coi non cristiani ci rivela a noi stesse e sprigiona in noi il fuoco del carisma. Proprio per questo, la nostra identità carismatica è rafforzata.

Inoltre, l’esperienza con questo popolo arricchisce il nostro istituto e la Chiesa: ho scoperto nel popolo della Guinea-Bissau, con principi tradizionali ben radicati, una profonda spiritualità, non un senso generale dell’invisibile, ma un’esperienza concreta della presenza e dell’azione di Dio. I guineani sanno e credono che esiste un Dio sovrano e assolutamente potente, signore del cielo e della terra; confidano e sperano in lui. È il grande vivente che agisce nel mondo. Come non trarre vantaggio da questi solidi principi per l’evangelizzazione inculturata? I valori umani e spirituali del popolo guineano sono grandi, e il nostro istituto e la Chiesa devono saperli leggere tutti. Il rispetto e la conoscenza della cultura, nell’azione evangelizzatrice è stata considerata dal nostro fondatore, Giuseppe Allamano, quindi deve essere anche per noi. Questo ci porta a vivere il nostro carisma con apertura a tutte le culture e con atteggiamento dialogico. Siamo pertanto, invitate a ritornare a ciò che è stato tralasciato, trascurato, non valorizzato, ossia la ricchezza culturale e religiosa di ogni popolo. Oggi capiamo meglio che l’evangelizzazione deve guardare la persona in tutti i suoi aspetti, e deve essere fatta dal di dentro di ogni cultura.

Anélia Gomes de Paiva

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Democrazia?  «Siamo in Africa!»

Le intricate vicende politiche di un piccolo narco stato

La Guinea-Bissau è stata per anni il punto di passaggio del traffico di cocaina dal Sudamerica all’Europa. Nel 2014 sembrava esserci stato un cambiamento nella dirigenza del paese. Ma l’elezione, contestata, del nuovo presidente, pare riportare alla ribalta la classe dei militari-narcos.

L’ex generale, ed ex primo ministro, Umaro Sissoco Embaló è il nuovo presidente della Guinea-Bissau. La sua investitura, il 27 febbraio scorso in un hotel di Bissau, sebbene sia avvenuta con l’avallo del presidente uscente José Mario Vaz, è stata indubbiamente un atto di forza. Giunge a chiusura della crisi elettorale iniziata con le presidenziali di dicembre o, più probabilmente, con le legislative di marzo 2019. L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha avuto l’effetto di far passare le vicende bissau-guineane in secondo piano ed è tornata utile al nuovo uomo forte per «coprire» i suoi giochi interni.

Umaro Sissoco Embalo, nuovo presidente della Guinea-Bissau / Photo by SEYLLOU / AFP

Una speranza delusa

Ma veniamo ai fatti. L’ultimo anno è solo l’ultimo atto di una crisi politico istituzionale che il piccolo paese dell’Africa dell’Ovest vive dal 2015.

Nel 2014 l’elezione del presidente José Mario Vaz aveva lasciato sperare che la Guinea-Bissau voltasse pagina con le dittature e i colpi di stato che hanno contraddistinto la sua storia. Ma così non è stato.

Dopo aver nominato, nel luglio dello stesso anno, come primo ministro, il progressista Domingos Simões Pereira, i due sono entrati in contrasto. Entrambi Vaz e Pereira sono del Paigc (Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde), il partito storico dell’indipendenza dal Portogallo nel 1974. Appena un anno dopo Pereira viene mandato via e inizia la crisi istituzionale. Diversi sono i politici che si susseguono sulla poltrona da premier.

Una novità delle legislative di marzo 2019 è stato il Madem-G15, un nuovo partito creato per l’occasione e ben finanziato, che è riuscito ad arrivare al secondo posto, dopo il Paigc che ancora prevale nell’Assemblea nazionale con 52 deputati su 102.

Braccio di ferro istituzionale

A dicembre 2019, i due sfidanti alla presidenza sono proprio Embaló, ex quadro del Paigc e ora candidato del Madem-G15, e Pereira per il Paigc, di cui è presidente. Dopo il ballottaggio del 29 dicembre, la Commissione nazionale elettorale (Cne) aggiudica il 53,55% dei voti al primo e 46.45% al secondo (i risultati definitivi sono resi noti il 17 gennaio). Pereira però contesta il risultato, denunciando brogli elettorali. In particolare segnala irregolarità nei verbali di almeno la metà delle circoscrizioni, e chiede il riconteggio dei voti. La Corte suprema dunque non può che prenderne atto è dispone che venga fatta la verifica. Fin qui nulla di strano a queste latitudini.

Quello che succede dopo è un braccio di ferro tra la Cne e la Corte suprema, perché la prima, l’organo preposto all’organizzazione delle elezioni, rifiuta il conteggio. Negli stessi giorni, soldati vengono dispiegati in tutti i posti chiave delle istituzioni, dall’ufficio del primo ministro ai ministeri, fino a presidiare lo stesso palazzo della Corte suprema. Il fatto strano è che nessuno li ha chiamati e non si capisce da che parte stiano.

Si scoprirà con chi stanno i militari, quando, il giorno dopo la sua investitura, il 28 febbraio Embaló nomina primo ministro Nuno Gomes Nabiam, suo uomo di fiducia, mandando a casa il premier Aristides Gomes. Quest’ultimo è riconosciuto dalla comunità internazionale, e denuncia la sua deposizione come colpo di stato. Quel giorno a fianco di Embaló e del nuovo premier, si trovano il capo di stato maggiore, il suo vice e il comandante dell’aviazione. C’è anche una vecchia conoscenza, l’ex capo di stato maggiore, ex generale Antonio Indjai.

Indjai era stato dietro al famoso «colpo di stato della cocaina» dell’aprile 2012, quando fu rovesciato il presidente ad interim Raimundo Pereira.

Indjai, inoltre, è stato obiettivo principale della Dea (agenzia antidroga Usa) durante una caccia all’uomo del 2013, ed è ricercato negli Stati Uniti per aver venduto armi alle Farc colombiane in cambio di partite di cocaina. Si tratta dunque di uno dei massimi esponenti del gruppo narco militare che ha gestito il paese per anni e che ora sembrerebbe essere tornato all’ombra del potere.

Domingos Simoes Pereira, lo sfidante di Umaro Sissoco Embalo nelle ultime elezioni. / Photo by SEYLLOU / AFP

Due presidenti per 48 ore

Sempre il 28 febbraio, 54 deputati del Paigc e alleati, designano il presidente dell’Assemblea nazionale (che conta 102 deputati), Cipriano Cassama, come «presidente a interim», in risposta all’investitura «di forza», senza aspettare l’ok della Corte suprema, di Embaló. Ma Cassama, meno di 48 ore dopo la designazione, rinuncia a causa, dice, delle molteplici «minacce di morte» ricevute.

Embaló resta dunque l’«unico» presidente, anche se il contenzioso elettorale è ancora aperto.

In risposta a diversi deputati del Parlamento europeo che denunciano quanto sta avvenendo nel paese africano come «un pericolo per la democrazia», Embaló risponde: «Non facciamo parte dell’Unione europea. Noi siamo in Africa!»1.

A livello internazionale la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale), che ha guidato la mediazione per risolvere la crisi dal 2016, è inizialmente divisa sul da farsi.

Ma Embaló ha molti amici tra i capi di stato, così Senegal, Nigeria e Niger si affrettano a riconoscere il nuovo presidente, mentre altri restano indecisi. Embaló conta tra i suoi alleati più illustri i presidenti di Senegal, Macky Sall (presidente di turno della Cedeao), e Nigeria, Muhammadou Buhari, oltre che numerosi altri presidenti sul continente.

La svolta si ha il 23 marzo, quando la Cedeao stessa riconosce legittimo Embaló, nonostante i militari stiano ancora presidiando i posti chiave delle istituzioni, e ci sia quindi una «mano militare» che veglia sulla stabilità. Unione europea e Nazioni Unite ne seguono l’esempio. Nonostante la Corte suprema della Guinea-Bissau non abbia mai validato le elezioni. Il gioco di Embalò, e di chi lo ha voluto al potere, è dunque fatto.

Riforma costituzionale

La condizione che pone la Cedeao, è la realizzazione di una riforma costituzionale. La Costituzione del 1984, infatti, definisce un sistema semi presidenziale «ibrido», lasciando una certa ambiguità nella gestione del potere esecutivo tra presidente della repubblica e primo ministro. Ambiguità che ha causato molti ingorghi istituzionali e colpi di stato o tentativi di golpe.

Embaló si affretta a creare una Commissione di revisione costituzionale, il 12 maggio, composta da cinque membri, tutti nominati da lui stesso.

Secondo gli analisti della «Global initiative, against transnational organized crime»2, in Guinea-Bissau si assiste a un ritorno in attività della casta narco militare che negli anni 2005-2014 trasformarono il paese in un punto nevralgico per il passaggio della cocaina dal Sud America all’Europa, valendogli la definizione di «narco stato». Gli analisti mettono in relazione il «colpo di forza» attuato da Embaló nei primi mesi di quest’anno, con il colpo di stato della cocaina del 2012. Dietro al Madem-G15 ci sarebbero infatti i finanziamenti della rete militare-criminale mai smantellata, e ora tornata in auge.

Marco Bello

Note

(1) Guinée-Bissau, l’imbroglio continue à la tête du pays. Radio France international, 5 marzo 2020.

(2) Breaking the vicious cycle. Cocaine politics in Global Initiative, against transnational organized crime. Maggio 2020, disponibile online.

© Matteo Ghiglione


Cronologia essenziale

La Guinea-Bissau in date

  • 1973, 24 settembre – Il Partito africano per l’indipendenza della Guinea-Bissau e di Capo Verde (Paigc) proclama l’indipendenza.
  • 1974, 10 settembre – Il Portogallo riconosce l’indipendenza e Luis Cabral è il primo presidente.
  • 1980, 14 novembre – Colpo di stato militare di João Bernardo Vieira. Disciolta l’unione con Capo Verde.
  • 1984, 16 maggio – Nuova Costituzione, sistema del partito unico. Vieira vince le elezioni presidenziali.
  • 1989, 19 giugno – Vieira rieletto presidente.
  • 1991, 8 maggio – Adozione del multipartitismo.
  • 1993, 17 marzo – Tentativo di colpo di stato di João da Costa.
  • 1994, 7 agosto – Vieira vince per la terza volta le elezioni.
  • 1997, 2 maggio – Adozione del «franco cfa» come moneta e adesione all’Uemoa (Unione monetaria dell’Africa dell’Ovest).
  • 1998, 7 giugno – Scoppia un ammutinamento dopo la destituzione del generale Ansume Mané, capo di stato maggiore. Intervengono Senegal e Guinea. Inizia la guerra civile.
  • 1998, 1° novembre – Firma di un accordo di pace ad Abuja (Nigeria) tra il governo e la giunta guidata da Ansumane Mané.
  • 1999, 7 luglio – Mané rovescia il presidente Vieira. Malam Bacai Sanha, presidente dell’Assemblea nazionale, è nominato presidente della Repubblica.
  • 2000, 16 gennaio – Kumba Yala vince le elezioni presidenziali.
  • 2003, 14 settembre – Colpo di stato del generale Verissimo Correia Seabra, che viene assassinato un anno dopo da un gruppo di militari.
  • 2005, 24 luglio – Elezioni presidenziali: vince João Bernardo Vieira.
  • 2007, dicembre – Adozione da parte del parlamento di una legge di amnistia, per le violenze commesse negli anni 1980-2004.
  • 2008, 26 luglio – Il Paigc esce dalla coalizione di governo, dieci giorni dopo è sciolta l’Assemblea nazionale.
  • 2008, 23 novembre – Tentativo di colpo di stato contro Vieira.
  • 2009, 2 marzo – Doppio assassinio di Vieira e del capo di stato maggiore Tagmé Na Waié.
  • 2009, 5 giugno – Assassinio di tre uomini politici, tra i quali il candidato alla presidenza Baciro Dabo.
  • 2009, 26 luglio – Vittoria di Malam Bacai Sanha alle elezioni presidenziali.
  • 2010, 1 aprile – Rivolta dell’esercito organizzata dal generale Antonio Indjai contro il primo ministro, Carlos Gomez Junior e il capo di stato maggiore José Zamora Induta. A giugno Indjai diventa capo dell’esercito.
  • 2012, 9 gennaio – Muore il presidente Malam Bacai Sanha a Parigi. Raimundo Pereira diventa presidente ad interim.
  • 2012, 12 aprile – Colpo di stato del generale Mamadu Turé Kuruma, detto «golpe della cocaina». Arrestati presidente e primo ministro. Attivo il generale Indjai. L’Unione africana sospende la Guinea-Bissau. Accordo di transizione tra la giunta e i partiti politici che prevede elezioni entro due anni. Manuel Serifo Nhamadjo nominato presidente di transizione.
  • 2012, 21 ottobre – Tentativo di colpo di stato del capitano Pansau N’Tchama.
  • 2013, 2 aprile – La Dea (agenzia antidroga Usa) conduce un’operazione e arresta l’ammiraglio José Américo Bubo Na Tchuto, coinvolto in una rete di traffico internazionale. Il vero obiettivo sarebbe stato Antonio Indjao.
  • 2013, 18 aprile – Antonio Indjao, capo di stato maggiore, giudicato colpevole dalla giustizia Usa per narcoterrorismo: ha fornito armi alle Farc colombiane in cambio di cocaina.
  • 2014, 20 maggio – José Mario Vaz vince le elezioni presidenziali. A settembre Injano è cacciato dal suo posto di capo dell’esercito.
  • 2015, 12 agosto – Inizia la crisi politica in seguito al licenziamento del primo ministro Domingo
    Simões Pereira. La Cedeao condurrà la mediazione della crisi.
  • 2019, 10 marzo – Il Paigc, di cui Pereira è presidente, vince le elezioni legislative.
  • 2019, 2 aprile – Elezioni presidenziali. La Commissione nazionale elettorale dà la vittoria a Umaro Sissoco Embaló, ma il rivale, Pereira, contesta e accusa di brogli.
  • 2020, 27 febbraio – Nonostante il contenzioso elettorale e il blocco della Corte Suprema, Embaló forza e si autoinveste. Metà del parlamento nomina un presidente a interim, Cipriano Cassama, presidente dell’Assemblea nazionale, che subito si dimette a causa di minacce di morte.
  • 2020, 22 marzo – La Cedeao è divisa sul da farsi, ma finalmente prevalgono i paesi «amici» di Embaló che lo riconoscono presidente della Repubblica.

Ma.Bel.


Hanno firmato questo dossier

Anélia Gomes de Paiva

Nata a Riacho da Cruz (RN, Brasile), a 18 anni è andata a vivere a São Paulo, dove ha studiato, lavorato e fatto pastorale nella favela di Jandira. Qui ha scoperto la sua vocazione. Entrata nelle missionarie della Consolata nel 1999, dopo il noviziato in Colombia e la professione religiosa ha lavorato in Brasile dal 2003 al 2006. Dal 2007 è missionaria in Guinea-Bissau. «Posso dire che il periodo più bello della mia vita sono gli anni di missione vissuti tra le popolazioni della Guinea-Bissau e quelli della mia adolescenza che ho trascorso a pescare, a diretto contatto con la natura».

Marco Bello

giornalista redazione MC.

Foto:

Le foto di questo dossier – eccetto dove indicato differentemente – sono cortesia di suor Anélia e delle sue consorelle.

Le missionarie in Guinea-Bissau:

  • Comunità di Empada: Noeli Domingos Bueno, Maria Inocencia Giacomozzi, Rita Nombora.
  • Comunità di Bubaque: Ana Paula Foletto, Maria de Lourdes Pereira, Teresinha Victor, Anélia Gomes de Paiva.
  • Comunità di Bissau: Giovanna Panier Bagat, Emma Piera Casali, Maria Cecilia da Silva, Isabel Alves de Oliveira.

Archivio mc :

Il «paradiso» dimenticato, Matteo Ghiglione, agosto-settembre 2011.




La ricerca scientifica e lo stato dell’arte

testo di Rosanna Novara Topino |


È già trascorso metà 2020, ma la pandemia prodotta dal virus Sars-CoV-2 è ancora tra noi. Cerchiamo di capire a che punto siamo e cosa abbiamo imparato.

La probabilità di trasmissione e l’infettività del virus Sars-CoV-2 non sono modificabili in assenza di una terapia adeguata o di un vaccino, mentre una diagnosi tempestiva può servire a contenere il numero dei contatti. È chiaro che tale diagnosi può essere effettuata solo mediante un test di laboratorio detto Pcr (della «Reazione a catena della polimerasi» per lo studio dell’Rna virale a seguito di tampone naso-faringeo o di aspirato endo-tracheale o lavaggio bronco-alveolare), ma poiché risulta impossibile sottoporre tutta la popolazione a questi test, su indicazione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in un primo momento sono stati testati solo coloro che avevano avuto in qualche modo contatti con persone provenienti dalla Cina o da altri paesi asiatici, in cui si è manifestata inizialmente la pandemia. Successivamente, per mancanza dei reagenti necessari, in Italia (come già in Cina) è stato deciso di sottoporre a test solo coloro che presentavano, oltre ai sintomi, febbre elevata da più giorni senza avere beneficio dai comuni antipiretici. Infine, si è arrivati a casi di morte con sintomatologia compatibile con Covid-19, ma senza test, di persone anziane in «Residenze sanitarie per anziani» (Rsa) oppure di persone decedute in casa (senza avere ricevuto cure adeguate ed essere state sottoposte al tampone) o di persone che avevano lavorato a contatto con malati Covid.

Stando così le cose, è chiaro che il numero delle morti per Covid-19 nel nostro paese è ampiamente sottostimato. Secondo l’Inps («Analisi della mortalità nel periodo di epidemia da Covid-19» dello scorso 20 maggio), a fine aprile ci sono stati quasi 19mila decessi non conteggiati nelle morti da Covid-19.

È altrettanto chiaro che il sistema sanitario italiano in questa situazione ha rivelato tutti i suoi limiti, conseguenza dei tagli alla sanità pubblica degli ultimi decenni (si legga Gesualdi su MC giugno, ndr).

Un operatore sanitario mentre esegue un test. Foto di Dean Calma / IAEA.

Covid-19 e inquinamento atmosferico

Facendo un confronto tra l’andamento della Covid-19 e molte delle grandi pandemie del passato, come le influenze spagnola, asiatica, aviaria e suina, possiamo osservare che hanno avuto tutte origine in Asia, per poi diffondersi nel resto del mondo, passando prima per l’Europa, poi nelle Americhe e infine in Africa, Australia e Oceania.

Secondo uno studio condotto in Cina (Su, 2019), esisterebbe un’associazione tra l’inquinamento atmosferico e l’aumento del rischio di malattie infettive influenza-like (simil-influenzali). Al momento non sembra, tuttavia, essere plausibile che le particelle Pm2,5 e Pm10 siano capaci di veicolare il Sars-CoV-2, dal momento che l’essiccamento, i raggi UV e le temperature oltre i 25°C danneggiano l’involucro del virus.

In Italia, tuttavia, è stata fatta l’ipotesi di un possibile collegamento tra la diffusione del coronavirus e l’inquinamento atmosferico mettendo in relazione l’alta concentrazione del virus nella pianura Padana e l’inquinamento che la caratterizza, essendo quest’area riconosciuta come una delle più inquinate d’Europa. Probabilmente qui l’inquinamento atmosferico potrebbe agire sia come carrier (portatore), facilitando il trasporto del virus, sia come amplificatore dei suoi effetti sul polmone. Recentemente è uscito uno studio dei ricercatori di Harvard (Xiao Wu, 2020) negli Stati Uniti, che hanno evidenziato la relazione tra l’esposizione a lungo termine a Pm2,5 e il rischio di morte per Covid-19. Ci sarebbe un eccesso di mortalità del 15% sul totale della popolazione, per un aumento di 1g/m3 della concentrazione atmosferica di Pm2,5. Questo potrebbe spiegare la maggiore diffusione del virus nelle regioni settentrionali, rispetto al resto dell’Italia.

L’età e il genere dei malati

Finora il Covid-19 ha colpito con maggiore rischio di malattia grave e di morte le persone oltre i 60 anni di età, soprattutto se portatrici di altre patologie come diabete, ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari, malattie respiratorie croniche e cancro. La fascia d’età più colpita in Italia è quella degli anziani tra gli 80 e 89 anni (39,7%). Tuttavia, ultimamente e un po’ ovunque nel mondo, si sono verificati decessi anche tra persone di età inferiore e senza patologie pregresse. Gli under 30 rappresentano il 5% dei malati nel nostro paese. Finora la mortalità è risultata più elevata (per tutte le fasce d’età, ad eccezione degli over 90) negli uomini, che nelle donne e questo dato non è solo relativo all’Italia, ma è rilevato su scala mondiale. Probabilmente questo fatto si spiega con l’interazione tra sistema endocrino e immunitario, essendo quest’ultimo modulato dagli ormoni sessuali. Gli estrogeni femminili potrebbero avere una funzione protettiva soprattutto contro le malattie cardiovascolari, che possono essere un fattore di rischio di mortalità da Covid. Inoltre, sul cromosoma X sono stati mappati circa un migliaio di geni, contro il centinaio del cromosoma Y e molti di questi sono correlati a funzioni immunitarie. Sebbene nella femmina uno dei due cromosomi X risulti inattivato, è possibile che qualche sua parte non lo sia del tutto, permettendo una risposta immunitaria maggiore di quella maschile. Questo fatto si spiegherebbe con una maggiore competenza del genere femminile nella protezione della specie e sarebbe dimostrato anche dal fatto che, nel corso di questa pandemia, al momento non è stato riscontrato il coronavirus nel liquido amniotico o nel latte materno.

Le possibili cause

Gabbie di animali in un «wet market» di Manila (Filippine). Foto di Wayne S. Grazio.

Cosa può avere provocato la pandemia? L’ipotesi più accreditata è legata alla presenza a Wuhan di un grande mercato del pesce e dell’umido, dove vengono venduti animali selvatici di ogni tipo, tra cui pipistrelli, serpenti, pangolini, zibetti, oltre che animali domestici come cani e gatti. Mercati come questo sono molto diffusi in Cina e rappresentano un giro d’affari plurimiliardario, dal momento che gli animali selvatici rappresentano una vera prelibatezza sulle tavole delle classi sociali più elevate e vengono, inoltre, utilizzati nella medicina tradizionale cinese. Il volume d’affari di questo commercio di animali, tra selvatici e d’allevamento, si aggira sui 18 miliardi di dollari e circa 6,3 milioni sono gli addetti negli allevamenti cinesi. Questo commercio è particolarmente diffuso nelle aree rurali. Uno dei principali problemi è che in questi mercati vengono venduti animali vivi (spesso stipati in grande numero nelle gabbie), che vengono scelti dall’acquirente e poi macellati sul posto in precarie condizioni igienico sanitarie e questo fatto potrebbe senz’altro essere alla base del salto di specie da animale a essere umano.

Non è un caso se le autorità cinesi a gennaio, dopo l’emergere dell’epidemia, abbiano deciso di chiudere il mercato di Wuhan, ripristinando le stesse misure restrittive già adottate ai tempi della Sars e successivamente revocate. Poi, lo scorso 20 maggio, l’amministrazione della metropoli cinese ha introdotto il divieto di cibarsi di animali selvatici (fonte Cbs News).

Le ipotesi sul laboratorio di Wuhan

Un’altra ipotesi su ciò che può avere provocato la pandemia è un incidente di laboratorio o meglio la fuga accidentale di pipistrelli infettati con il coronavirus dal National Biosafety Laboratory di Wuhan, certificato come conforme alle norme e ai criteri di Bsl-4 (biosicurezza di livello 4 per lo studio degli agenti patogeni più pericolosi al mondo e delle malattie emergenti). Si sa che nell’istituto di virologia di questo centro sono stati intrapresi esperimenti con coronavirus su pipistrelli catturati nelle grotte dello Yunnan, finanziati con una sovvenzione di 3,7 milioni di dollari da parte del governo degli Stati Uniti (fonte Daily Mail). Inoltre, secondo il Washington Post, alcuni diplomatici statunitensi a Pechino avevano scritto nel 2018 un dossier sul centro ricerche di Wuhan evidenziando la pericolosità degli studi condotti sui coronavirus di pipistrello e il rischio di pandemia.

Non sarebbe la prima volta che un’epidemia nasce da esperimenti di laboratorio (come nel caso della sindrome di Marburg), tuttavia è un’ipotesi che va verificata, altrimenti resta soltanto un’ipotesi.

Rosanna Novara Topino
(fine seconda parte)

L’infografica sintetizza bene le conseguenze della distruzione delle foreste; il Wwf chiama le foreste «il nostro antivirus». © Arimaslab per WWF Italia, 2020.


Il potenziale di trasmissibilità

Il parametro «Erre con zero»

Un parametro importante che ci permette di valutare l’andamento dell’infezione è l’R0, cioè il numero di riproduzione di base, che indica il dato di infezioni secondarie che un individuo infetto può trasmettere in una popolazione completamente suscettibile a un nuovo patogeno (in questo caso Sars-CoV-2). Esso misura la potenziale trasmissibilità della malattia, in assenza di misure di contenimento. Quanto maggiore è R0, tanto più facilmente può diffondersi la malattia infettiva: se R0 è pari o superiore a 2, significa che ogni positivo mediamente infetta due persone; un R0 inferiore a 1 indica che l’epidemia può essere contenuta. Secondo l’Oms, l’R0 di Covid-19 è compreso tra 1,3 e 3,8 sulla base dei dati raccolti da enti di ricerca di tutto il mondo. Quello della Sars era compreso tra 2 e 4 con una media di circa 3 e quello della Mers inferiore a 1. Questo parametro dipende dalla probabilità di trasmissione per singolo contatto tra una persona infetta ed una suscettibile, dal numero dei contatti della persona infetta e dalla durata dell’infettività (che, secondo studi cinesi, può arrivare fino a 50 giorni, mentre qui in Italia una ragazza bolognese è risultata positiva fino al giorno 75). Dopo l’introduzione delle misure di contenimento, si preferisce usare l’Rt, che indica il numero di infezioni secondarie che possono verificarsi, dopo che tali misure sono state introdotte in un determinato territorio. (R.N.T.)

Epidemie e pandemie

I fattori scatenanti

Quali sono i fattori che possono scatenare un’epidemia/pandemia? Uno di essi è sicuramente la colonizzazione di un nuovo ambiente, specialmente a seguito di deforestazione. Questa infatti porta l’uomo a contatto con animali selvatici potenziali serbatoio di virus che normalmente non si incontrerebbero. Altro fattore è l’urbanizzazione che porta spesso a una elevata densità di popolazione ed è caratterizzata da sacche di povertà nelle periferie delle grandi città. La scarsa igiene personale o dell’ambiente dovuta spesso alla mancanza di adeguati sistemi fognari e/o di acqua potabile. La perdita dell’immunità in una popolazione (l’«immunità di gregge») per la riduzione del numero delle vaccinazioni o per la mutazione degli agenti patogeni. L’abuso di antibiotici con la conseguente comparsa della resistenza ai medesimi. Il cambiamento negli stili di vita che possono comprendere l’abuso di droghe, nuove abitudini sessuali e/o alimentari. La globalizzazione degli scambi commerciali e dei viaggi in genere che rende raggiungibile in poche ore ogni parte del mondo, contribuendo alla diffusione ovunque dei vettori degli agenti eziologici. L’uso dei pesticidi, che ha eradicato determinate malattie in alcune aree del mondo, ma ne ha favorito la diffusione in altre, soprattutto in seguito alla comparsa di insetti vettori resistenti agli stessi pesticidi. Infine, i possibili incidenti di laboratorio.  (R.N.T.)




«Capisco le paure, il dolore, la solitudine»

testo di Giuliana Chiorrini |


Giuliana Chiorrini è la moglie di Carlo Urbani, il medico di Castelplanio (Ancona) morto nel 2003, a 46 anni, a causa del virus Sars-CoV. In queste pagine ricorda quei giorni drammatici e li mette a confronto con quelli di oggi, dominati dalla pandemia del Sars-CoV-2, «fratello» del virus che Carlo aveva individuato e combattuto. Perdendo la battaglia, ma segnando per sempre la strada.

Ricordo che la notizia arrivò in casa, a Castelplanio, a gennaio del 2000. Carlo ci informò che era stato contattato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per seguire un progetto in Vietnam come infettivologo ed epidemiologo.

Accettò il prestigioso incarico divenendo così responsabile dell’Oms per le malattie parassitarie in alcuni paesi del Sudest asiatico: oltre al Vietnam, la Cambogia, il Laos, la Thailandia, la Cina e le Filippine. Nel suo nuovo ruolo Carlo avrebbe dovuto coordinare le numerose agenzie di cooperazione internazionale e i ministeri della Sanità dei vari paesi. Al tempo, io ero incinta per la terza volta. Feci in tempo a partorire Maddalena (il 3 maggio) e a battezzarla. Il 28 luglio del 2000 partimmo per Hanoi, capitale del Vietnam. Per Carlo, per me e per i nostri tre figli – Tommaso, Luca e Maddalena – aveva inizio una nuova esperienza.

Furono due anni ricchi di soddisfazioni. Nonostante le grandi responsabilità che lo trattenevano lunghe giornate in ufficio davanti al computer, o lo impegnavano in viaggi e riunioni internazionali, Carlo era rimasto un medico appassionato del contatto con i malati e, proprio per questo, privilegiava le missioni sul campo, nelle comunità più bisognose. Era contento quando, insieme ad altri colleghi, partiva per qualche missione, rimanendo lontano da Hanoi per giorni o anche per settimane.

Poi, inaspettatamente e in pochi mesi, tutto cambiò. Ad Hanoi, arrivò un virus prima di allora sconosciuto, il Sars-CoV.

Carlo Urbani, amico e collaboratore di MC, all’ospedale pediatrico di Hanoi con un collega vietnamita. Foto: Carlo Scialdone.

Castelplanio, febbraio-maggio 2020. È arrivato un nuovo virus, «fratello» di quello che si è portato via Carlo, ma questa volta non si è fermato in Estremo Oriente: si è diffuso anche in Italia e in tutto il mondo.

Credo che a eventi come questo non si possa mai essere preparati, anche se l’esperienza di 17 anni fa forse – lo dico non da esperta ma da spettatrice – avrebbe dovuto insegnarci qualcosa di più. In queste settimane per me è stato un susseguirsi di ricordi, di sensazioni, di momenti vissuti con paura e angoscia. Nemmeno a farlo apposta, anche il periodo coincide.

Era il 26 febbraio 2003 quando, ad Hanoi, Carlo fu chiamato all’Ospedale francese (una struttura privata di piccole dimensioni, ndr) dove era ricoverato un paziente – un uomo d’affari americano di 48 anni – che aveva una patologia strana, sospetta. Carlo aveva già messo in atto tutte le procedure necessarie e adottato i provvedimenti e le precauzioni indispensabili, nel momento in cui si era reso conto che la situazione cominciava ad aggravarsi (come mostrano i messaggi inviati il 7 marzo 2003 all’Oms in cui descriveva in dettaglio ciò che stava accadendo in ospedale).

Quando lo scorso dicembre sono cominciate ad arrivare notizie dalla Cina di questo strano virus, il mio pensiero non poteva non tornare indietro nel tempo. Quando in televisione ho visto ospedali pieni di pazienti intubati che lottavano tra la vita e la morte, i medici e gli infermieri in prima linea ma spesso impotenti, sono stata invasa da tristezza, paura, angoscia.

Le stesse sensazioni provate 17 anni fa quando vissi l’esperienza in prima persona. Anche le parole sono spesso le stesse: ricordo che Carlo cercava di rassicurarci dicendo che tutto era sotto controllo, diceva che lui stesso era impegnato in prima linea nel tentativo di circoscrivere l’epidemia.

Oggi naturalmente vedo tutto con altri occhi, ma non per questo sono meno coinvolta, perché nelle ansie e nelle paure di persone e famiglie rivivo sensazioni e ricordi che al solo riemergere mi fanno rabbrividire.

Carlo Urbani a Oslo nel 1999 come presidente di «Medici senza frontiere»; in quell’anno all’organizzazione venne assegnato il Premio Nobel per la pace. Foto: archivio AICU.

Ripenso alle giornate frenetiche di Carlo, alle sue preoccupazioni, alle ore, alle notti trascorse in ospedale e negli uffici dell’Oms, per valutare e cercare di risolvere la grave situazione. Lui si era subito reso conto che qualcosa di strano stava accadendo e per questo motivo aveva allertato il sistema sanitario, il ministero della Salute vietnamita, il governo locale e la stessa Oms.

La sera tornava a casa stanco, sfinito e temeva di non riuscire più ad avere la situazione sotto controllo. Ricordo che una sera mi confidò: «Se non si riesce a fare qualcosa, a prendere provvedimenti, sarà una strage tra le persone che si ammaleranno. Sarà come la “spagnola” (l’influenza che fece tra i 50 e i 100 milioni di morti nel mondo tra il 1918 e il 1920, ndr)».

Nel frattempo, organizzava riunioni con l’ambasciatore italiano ad Hanoi, Luigi Solari, nel suo ufficio, con tutto il personale, per aggiornare sulla situazione. Le direttive erano quelle di oggi: stare assolutamente chiusi in casa. Passarono alcuni giorni e dopo essere riusciti a convincere il governo vietnamita a chiudere le frontiere e isolare il paese, l’11 marzo Carlo partì per Bangkok.

Durante il volo si manifestarono però i primi sintomi della malattia: febbre e tosse. Si rese subito conto della gravità della cosa, tanto da avvisare, al suo arrivo all’aeroporto, il personale medico: questo avrebbe dovuto stare distante e accompagnarlo in ospedale con le necessarie precauzioni.

Parlai con Carlo la sera, quando al telefono mi informò che – purtroppo – non stava bene ed era in ospedale.

Ricordo che ero fuori casa e che sentii mancare la terra sotto i piedi. Da quel momento cominciarono i giorni della preoccupazione, della paura e dell’impotenza. Stavo a casa con i miei figli pensando a cosa fare, a come si sarebbe potuta risolvere la situazione; alla salute di Carlo che sentivamo al telefono ogni giorno sempre più provato e affaticato, visto l’aggravarsi della malattia.

Comunque, a dispetto della situazione drammatica, Carlo ci rassicurava sempre. Ci diceva di non essere preoccupati, era sicuro che tutto si sarebbe risolto. I giorni trascorrevano, ma io non riuscivo più ad aspettare, perché, stando ad Hanoi, non potevo rendermi conto con esattezza della sua salute. Ero in contatto con la rappresentante dell’Oms, signora Pascale Brudon, che in quei giorni mi contattava cercando di rasserenarmi. A un certo punto le chiesi però di partire per raggiungere Carlo all’ospedale di Bangkok e, nel contempo, di mandare i miei figli in Italia, dato che essi non potevano vedere Carlo essendo lui in isolamento.

Deciso il piano, non ebbi il tempo di pensare a nulla. Né di salutare i tanti amici che avevamo nella capitale vietnamita e che anche dopo mi sarebbero stati molto vicini. In fretta e furia preparai le valigie mettendo dentro lo stretto necessario. In quel momento non sapevo che non saremmo più ritornati ad Hanoi.

Il solo desiderio era quello di poter vedere Carlo. I ragazzi ed io partimmo il 18 marzo, accompagnati in aeroporto dal personale dell’Oms. Arrivati a Bangkok, i miei figli sarebbero ripartiti il giorno dopo per l’Italia. Ricorderò sempre quel momento: la loro partenza da soli e io che li salutavo, con le lacrime agli occhi. Vedo ancora Tommaso, non ancora sedicenne, che si incammina con Maddalena, quasi tre anni, in braccio che piange, e Luca, tenuto per mano, disperato, che si gira a guardarmi mentre si allontanano. Una scena che rivedo spesso, soprattutto in questo periodo.

Un soldato vietnamita sparge disinfettante all’entrata dell’Ospedale Francese di Hanoi, considerato il focolaio della Sars in Vietnam (17 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.

I momenti successivi purtroppo non li ricordo molto bene. Troppo forti furono il dolore, la paura di non riuscire a farcela da sola. Il pensiero di dover raggiungere l’ospedale e vedere Carlo in brutte condizioni prendeva il sopravvento su tutto. Ma cercavo di farmi coraggio.

Sapevo che dovevo mettercela tutta, che Carlo sarebbe stato fiero di me, visto che mi incitava sempre a fare da sola e a non dipendere ogni volta da lui, come può capitare quando si vive in un paese straniero. I giorni successivi passarono tra l’ospedale e l’albergo dove alloggiavo. Quando andavo in ospedale, accompagnata dal personale dell’Oms di Bangkok, speravo di vedere Carlo migliorare, avere buone notizie dai medici. Purtroppo non era così.

Entravo nella sua stanza completamente protetta, ma la vestizione era sempre angosciante. Scoppiavo a piangere quando non ero sicura di aver eseguito tutte le procedure correttamente: dai calzari doppi, ai guanti, ai doppi camici, alla maschera, che mi faceva mancare l’aria. Ricordo che ero preoccupata di non riuscire a metterla nel modo corretto.

I medici non parlavano la mia lingua né il francese e, quindi, facevo fatica a capirli.

Una volta entrata, spesso chiedevo addirittura a Carlo di aiutarmi a sistemare quella maledetta maschera. Restavo poco tempo, anche perché negli ultimi giorni Carlo era molto affaticato. Si alzava sempre meno e la tosse era persistente. Durante quei giorni non mi fece mai capire la sua preoccupazione, mai mi parlò della paura di morire. Mi ripeteva solo che, piano piano, tutto si sarebbe sistemato. Voleva notizie dei figli, visto che non poteva più nemmeno parlarci. Poteva vederli in foto, che le infermiere avevano attaccato alla parete, su un cartellone. Erano giorni difficili e dolorosi. Poi la situazione peggiorò e i medici decisero di intubarlo. Mi spiegarono che era per farlo soffrire di meno e aiutarlo a superare quel momento. Era giovedì 27 marzo. Carlo era sedato e non si rendeva più conto di nulla.

Negli ultimi giorni della sua vita ebbi la fortuna di essergli al fianco, quando ancora riusciva a parlare, a collaborare con i medici. Ricordo che una volta lui chiese un bloc notes e una penna per scrivere alcune cose: consigli per i medici che erano in visita dentro la sua stanza. Spesso ebbi la chiara sensazione che lui si rendesse perfettamente conto di cosa lo aspettasse, perché aveva seguito i malati all’interno dell’Ospedale francese, aveva visto morire pazienti che facevano fatica a respirare e sapeva come si moriva in quelle circostanze, ma non disse mai nulla.

Soffriva molto per i dolori, ma anche per la consapevolezza che ormai era rimasto poco tempo. Quando un sacerdote si recò a trovarlo nella sua stanza, dopo un breve colloquio, gli disse: «Dalla vita ho avuto tutto, ho realizzato i miei sogni, ho fatto tanto, sono pronto… L’unica cosa che mi fa star male è dover lasciare i miei figli». Aveva capito che non ce l’avrebbe fatta a resistere ancora.

La mattina del 29 marzo, verso le 12, bussarono alla porta del mio albergo. Era il rappresentante dell’Oms di Bangkok. Capii subito cosa era successo.

Oggi, quando penso alle migliaia di malati costretti in ospedale da soli, senza avere un familiare accanto, mi rattristo subito perché i ricordi mi assalgono e perché ho provato sulla mia pelle cosa significa avere un proprio caro colpito da un virus come questo.

È terribile dover abbandonare qualcuno nella solitudine. È terribile la sensazione di sentirsi abbandonati dalle persone più care, non poter stringere la mano di chi, magari per una vita, ti è sempre stato accanto, il non poter scambiare una parola di conforto. Almeno in questo, Carlo ha avuto fortuna: prima di morire, ha potuto stringere la mano di qualcuno, scambiare due parole. Non è morto in solitudine.

Giuliana Chiorrini durante una celebrazione per la festa del Comitato di Castelplanio della Croce Rossa, di cui è presidente da otto anni. Foto: Vittorio Chiocca.

Subito dopo la sua morte, io ho cercato di reagire, ho avuto la forza di non mollare, ma di andare avanti nonostante le tante difficoltà. Inizialmente, ho trovato conforto anche nella fede, ma con il passare del tempo me ne sono allontanata. Con rabbia, in particolare nei momenti più difficili, di fronte a problemi che si presentavano più grandi delle mie capacità. Per un lungo periodo la mia fede è stata assente e io ho cercato conforto in altre cose.

La morte di Carlo ha avuto un’attenzione mediatica che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato. È servita ad affrontare il dolore della perdita, ci ha aiutati a continuare, ad andare avanti. Per due anni è stato un susseguirsi di eventi, cerimonie, inviti, premiazioni, libri. La famiglia era chiamata un po’ ovunque.

Allo stesso tempo, quell’attenzione ci ha forse troppo distratti, facendoci mancare i momenti della riflessione per capire davvero, per renderci conto che Carlo non era più con noi. C’è

stato poco tempo per elaborare il lutto e le conseguenze si sono viste a distanza di anni, quando si è fatta sentire, nella crescita della famiglia, la mancanza di un padre e anche di un marito.

Oggi, a distanza di 17 anni dagli eventi che hanno travolto la mia vita e quella dei miei figli,

davanti alla diffusione di questo nuovo virus, ho capito ancora meglio il ruolo avuto da Carlo, come medico, marito, padre. Ho capito quanto sia giusto ricordarlo attraverso Aicu (Associazione italiana Carlo Urbani, ndr), l’associazione nata dopo la sua morte e oggi presieduta da Tommaso.

È assieme ai miei figli e ad Aicu che da anni cerchiamo di far camminare i progetti di Carlo nel campo della prevenzione e cura delle malattie infettive e parassitarie e dell’accesso ai farmaci essenziali. Quanto i suoi sogni fossero giustificati lo stiamo vedendo con chiarezza in questi mesi.

Giuliana Chiorrini

Un ritratto di Carlo Urbani davanti al luogo dove il personale delle Nazioni Unite di Hanoi ha commemorato il medico italiano (8 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.




I virus e noi, convivenza inevitabile

testo di Rosanna Novara Topino |


Questa pandemia ha portato morti, malati, crisi generalizzate. E non è finita. Viste le caratteristiche del virus Sars-CoV-2, è meglio infatti non illuderci: un vaccino non pare dietro l’angolo.

Come se non fosse cambiato alcunché rispetto alle grandi epidemie del passato, e nonostante i traguardi raggiunti in campo medico, dall’inizio del 2020 il mondo si trova a fare i conti con una nuova pandemia di vaste proporzioni. Si chiama Covid-19, dove «Co» sta per corona, «vi», per virus, «d» per disease (malattia) e «19» per l’anno della prima manifestazione. È causata da un ceppo di coronavirus finora sconosciuto.

Quest’ultimo è stato inizialmente indicato come 2019-nCoV in quanto identificato il 31 dicembre 2019 nei campioni di lavaggio broncoalveolare di un paziente affetto da polmonite a eziologia sconosciuta nell’ospedale Jinyintan di Wuhan, nella regione dell’Hubei, in Cina. Successivamente, è stato però rinominato Sars-CoV-2, dopo che è stata rilevata una omologia di circa il 79,5% tra la sua sequenza genetica e quella del coronavirus che, tra il 2002 e il 2003, causò la epidemia di Sars (Severe acute respiratory syndrome).

In particolare, il nuovo coronavirus è classificato nel sottogenere Betacoronavirus Sarbecoronavirus. Oltre al già citato virus della Sars, il Sars-CoV, alla stessa famiglia appartiene anche il Mers-CoV, il responsabile della Mers (Middle east respiratory syndrome), che si verificò tra il 2012 e il 2015 in Medio Oriente.

I coronavirus sono una famiglia di virus, i cui primi esemplari vennero identificati a metà degli anni ’60 del secolo scorso e alcuni di questi, gli Alphacoronavirus, possono dare i comuni raffreddori, così come anche gravi infezioni del tratto respiratorio inferiore. Tali virus, oltre all’uomo, possono infettare alcuni animali tra cui uccelli e mammiferi, e hanno come cellule bersaglio primarie le cellule endoteliali dei vasi, causando un’infiammazione vascolare sistemica, e le cellule epiteliali degli apparati respiratorio e gastrointestinale.

Il «salto di specie»

La comparsa di questo, come di altri nuovi virus patogeni per l’uomo, presenti inizialmente solo negli animali è dovuta a un fenomeno noto come «spillover» o «salto di specie». Nel caso del Sars-CoV-2 c’è un’omologia del 96,2% con un coronavirus simile a quello della Sars, presente nel pipistrello a ferro di cavallo (BatCoV RaTG13). Questa omologia ci induce a pensare che tale pipistrello sia il principale serbatoio del virus. Si tratta, quindi, di una «zoonosi». Solitamente, il passaggio di un virus all’uomo da un animale serbatoio è favorito da un ospite di amplificazione, cioè un altro animale: nel caso della Sars è stato la civetta delle palme (non è il piccolo rapace da noi conosciuto, ma lo zibetto o mustang); nel caso della Mers è stato il cammello; nel caso della febbre emorragica di Marburg sono state le scimmie verdi importate dall’Uganda per una fabbrica di vaccini a Marburg in Germania. Nel caso dell’attuale coronavirus non è ancora stato identificato l’ospite intermedio anche se sono state fatte ipotesi relative a qualche specie di serpente, al pangolino o ai cani randagi. Il salto di specie tra animali, e da questi all’uomo, è frutto di mutazioni e adattamenti virali alla specie ospite favoriti dal tipo di genoma virale, cioè l’Rna. I virus a Rna – come i coronavirus, i filovirus dell’Ebola, i paramixovirus come Hendra e Nipah (rispettivamente agenti eziologici di una grave sindrome respiratoria soprattutto equina in Australia nel ’94 e di una forma di encefalite in Malesia nel ’98) – presentano mutazioni genetiche molto più frequentemente dei virus a Dna – come, per fare qualche esempio, l’Herpes virus o il Papilloma virus o quello del vaiolo (Poxvirus) -. I virus a Rna non possiedono, infatti, un efficiente sistema enzimatico di riparazione delle mutazioni, a differenza di quelli a Dna, che risultano molto più stabili.

Questo comporta due cose: i virus come i coronavirus sono molto più capaci di adattarsi a nuovi ospiti, tra cui l’uomo, ed è molto più difficile produrre un vaccino efficace nei loro confronti, perché le mutazioni genetiche del loro Rna si traducono in variazioni degli antigeni di superficie, verso i quali sono spesso diretti gli anticorpi stimolati dai vaccini. Per produrre un vaccino efficace contro questi virus diventa pertanto necessario riuscire a individuare al loro interno qualche molecola che risulti stabile nel tempo. Questa è la difficoltà incontrata nella produzione di vaccini efficaci a lungo termine per l’Aids e l’influenza, patologie provocate anch’esse da virus a Rna frequentemente mutanti. Quindi, l’attesa di un vaccino contro l’attuale pandemia sarà lunga, soprattutto in considerazione del fatto che non esiste ancora un vaccino nemmeno per la Sars del 2003.

Tampone per Covid-19. Autore: Prachatai.

La tramissione del virus

Il coronavirus dell’attuale pandemia, come già quello della Sars, si trasmette da uomo a uomo in tre diversi modi:

⚫︎ per via aerea, per mezzo di gocce di saliva (Flügge’s droplets) e dell’aerosol delle secrezioni delle vie aeree superiori, soprattutto in caso di tosse o starnuto, ma anche durante una conversazione tra persone vicine meno di 1,8 metri, che viene perciò indicata come distanza minima di sicurezza;

⚫︎ per contatto diretto ravvicinato, cioè con la stretta di mano, toccandosi successivamente occhi, naso e bocca con le mani; c’è, inoltre, la possibilità di contagiarsi toccando oggetti contaminati, che possono risultare tali fino a 48 ore nel caso dell’acciaio e 72 nel caso della plastica; secondo uno studio dell’Istituto superiore di sanità, la sopravvivenza del virus nell’ambiente dipende dalla temperatura e sarebbe di circa un giorno a 37°C, mentre potrebbe arrivare ad una settimana a 22°C;

⚫︎ per via oro-fecale; nei pazienti cinesi, una ricerca ha dimostrato una maggiore positività nei tamponi anali, rispetto a quelli orali in una fase tardiva dell’infezione, quindi si può pensare anche a questa via d’infezione; il virus, del resto, è stato trovato nelle fogne di Roma, Milano e Parigi.

Finora è stata esclusa la via di trasmissione materno-fetale e si pensa che i neonati positivi al virus, nati da madri positive, lo siano diventati solo dopo la nascita, per contatto diretto con la madre.

È stata recentemente rilevata la presenza del virus nel liquido lacrimale, del resto uno dei sintomi della Covid-19 è la presenza di congiuntivite, quindi questa potrebbe essere una fonte d’infezione.

Si pensa che il periodo d’incubazione sia variabile tra 2 e 14 giorni, con una media di 5 giorni. Le persone positive possono già trasmettere il virus nel periodo di incubazione, in assenza di sintomi.

I sintomi dell’infezione

Per quanto riguarda le manifestazioni dell’infezione, si va da quelle meno gravi, che indicano un interessamento delle alte vie respiratorie (febbre, tosse, cefalea, mal di gola, raffreddore, difficoltà respiratorie, perdita del gusto e dell’olfatto, diarrea, malessere generale per un breve periodo di tempo), a quelle più gravi, con interessamento delle basse vie respiratorie (come polmonite o broncopolmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale, meningoencefalite, problematiche cardiovascolari, tromboembolia generalizzata e polmonare in particolare, ictus, a seguito di alterazioni nella coagulazione del sangue come conseguenza di una eccessiva risposta infiammatoria da parte dell’organismo indotta dal virus, e infine morte).

Secondo le osservazioni condotte finora, l’80% circa della popolazione colpita dal virus risulta asintomatica o paucisintomatica (cioè senza o con pochi sintomi), mentre il 15% presenta una più grave sintomatologia con necessità di cure intensive con somministrazione di ossigeno e il 5% raggiunge uno stadio critico, che comporta la ventilazione polmonare. Va detto che molte delle persone risultate positive ma asintomatiche al momento del test, hanno successivamente sviluppato i sintomi della malattia.

Il tasso di letalità

Per quanto riguarda il tasso di letalità, è molto difficile dare un valore attendibile in corso di pandemia in quanto, finché non sarà terminata, non si può conoscere il totale delle morti causate dal virus. I numeri attualmente oscillano tra il 2 e il 5,7% dei positivi. Una delle principali difficoltà risiede nel fatto che molte morti per coronavirus non sono state finora prese in considerazione, perché avvenute in residenze per anziani (le cosiddette Rsa) dove ai pazienti non è stato fatto il tampone per accertare la positività al virus, nonostante i sintomi, a differenza delle persone ricoverate in strutture ospedaliere. Anche in quest’ultime peraltro si sono riscontrate delle morti di persone non testate per il coronavirus, ma con sintomatologia compatibile. Ciò di cui ci si sta rendendo conto, tardivamente purtroppo e in seguito a diverse indagini in corso da parte della magistratura italiana, è che la metà delle morti sono avvenute nelle case di riposo (fenomeno riscontrato anche nel resto d’Europa) e, secondo l’Istat, il numero dei decessi nei mesi di marzo e aprile in Italia sarebbe superiore di 10mila unità rispetto ai dati diffusi dalla Protezione civile, che al 14 maggio 2020 si attestano a 31.368 unità.

Facendo un paragone con la Sars e la Mers, sembrerebbe che la Covid-19 sia più infettiva, ma meno letale, dal momento che la Sars ebbe un tasso di letalità del 9,6% e la Mers del 34,4%.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte)

L’infografica mostra quando nasce e come si sviluppa una pandemia. Autore: Arimaslab per WWF Italia, 2020.


Dove, cosa, perché

La pandemia da Covid-19 causata dal virus Sars-CoV-2 si è manifestata per la prima volta in Cina, probabilmente nel mese di novembre 2019, diffondendosi poi in quasi tutti i paesi del mondo. In Italia, dopo due mesi in cui soprattutto le regioni del Nord sono state duramente colpite, si contano a decine di migliaia i morti e i malati. Da maggio si sta faticosamente passando da una prima fase di chiusura generalizzata, il cosiddetto «lockdown», ad una seconda fase di graduale ripresa delle attività. Tuttavia, non ci siamo ancora lasciati alle spalle la possibilità di contagio e gli ospedali sono ancora pieni. Ne scrivo in questo e in due successivi articoli, cercando di descrivere le principali caratteristiche del nuovo coronavirus responsabile di questo dramma.

(R.N.T.(

Nome e caratteristiche

Esterno e interno dei coronavirus

Si chiamano coronavirus per via del loro aspetto. Si tratta infatti di particelle sferiche sormontate da una specie di corona formata dall’insieme di proteine superficiali a forma di spuntone, o spike, come vengono chiamate. In realtà, ogni spuntone è un trimero formato da tre glicoproteine S, che si legano specificamente al recettore Ace2 (Angiotensin converting enzyme 2) presente sulle cellule endoteliali dei vasi sanguigni dei polmoni, dei reni, dell’intestino, del cuore e di altri organi, tra cui l’encefalo, l’esofago e il fegato. Il virus presenta un rivestimento o envelope, costituito da una membrana ereditata dalla cellula ospite dopo averla infettata. Oltre alla proteina spike, che fuoriesce dal rivestimento e forma la corona, il virus presenta la proteina M, che attraversa il rivestimento ed interagisce all’interno del virione con il complesso Rna-proteina. C’è poi il dimero emoagglutinina-esterasi (He), sempre nel rivestimento virale e con una importante funzione nel rilascio del virus all’interno della cellula ospite. Un’altra proteina virale, la E, aiuta la glicoproteina S, e perciò il virus, a legarsi al recettore Ace2 della cellula bersaglio. All’interno del virus si trova il suo genoma costituito da un singolo filamento di Rna a polarità positiva, delle dimensioni comprese tra 27 e 32 kb (chilobase), tra i più grandi conosciuti, che codifica per sette proteine virali ed è associato alla proteina N, la quale ne aumenta la stabilità. Il coronavirus possiede, inoltre, un enzima responsabile della sua moltiplicazione, la polimerasi nsp 12, contro la quale sembra funzionare il «Remdesivir», un farmaco antivirale nato per la cura dell’Ebola.

(R.N.T.)

I serbatoi dei virus zoonotici

Non è colpa di un pipistrello

I pipistrelli o chirotteri, che peraltro sono utilissimi al genere umano come insettivori (soprattutto nel contenimento della malaria, cibandosi in primis di zanzare), come impollinatori e per il loro guano altamente fertilizzante, purtroppo sono il principale serbatoio di virus, seguiti da primati e roditori. Essi sono presenti sulla Terra da molto prima dell’uomo. Comparvero più o meno tra 65 e 55 milioni di anni fa, quando i virus erano già presenti, mentre i primi ominidi si staccarono dalla linea evolutiva del gorilla solo 8 milioni di anni fa e 5 da quella dello scimpanzé, quindi i pipistrelli hanno avuto molto più tempo per adattarsi ai virus. Questo li ha portati a una sorta di tolleranza immunitaria, una specie di permeabilità virale. Oltretutto sono animali molto sociali (nello stesso sito possono esserci milioni di individui), rappresentano circa un quarto di tutti i mammiferi, con 1.116 specie conosciute, e sono caratterizzati dal volo, che consente loro di portare e contrarre virus su aree molto estese. I virus zoonotici portati dai pipistrelli sono maggiormente diffusi in alcune regioni asiatiche e nell’America centro-meridionale, mentre quelli portati dai primati sono tipici dell’America centrale, dell’Africa e del Sud-est asiatico e quelli trasmessi dai roditori sono principalmente distribuiti in certe aree dell’America del Nord e del Sud e dell’Africa centrale.

(R.N.T.)

L’infografica mostra i passaggi del Coronavirus dagli animali all’uomo; evidenziati in rosso, ci sono i tre virus più importanti. Autore: MDPI, Basel, 2020.




La sanità pubblica ai tempi del coronavirus

testo di Francesco Gesualdi |


Forse adesso abbiamo imparato che la sanità pubblica non è uno spreco come politici ed economisti volevano farci credere. Per capirlo meglio, confrontiamo i sistemi sanitari degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’Italia (con un occhio critico sulla Lombardia).

Più pubblico, meno privato

Nella puntata di maggio di questa rubrica, abbiamo iniziato a descrivere le conseguenze economiche dell’arrivo del nuovo coronavirus sulla vita delle persone. Abbiamo parlato del nuovo ruolo che lo stato dovrebbe avere (o riavere) nell’economia. In questa puntata, vedremo quanto un efficiente sistema sanitario pubblico (di tutti e per tutti) sia indispensabile. (F.G.)

L’aggressività del coronavirus e il numero di persone che ha  avuto bisogno di cure ospedaliere fino ai limiti più estremi, dove il confine fra la vita e la morte si fa incerto, ci hanno fatto riscoprire il valore della sanità. L’importanza cioè di quell’insieme di persone e strutture che ci permettono di riparare i danni provocati da agenti infettivi (come i virus) e da malattie in genere, per tornare alla pienezza della nostra vita. In una parola ci hanno fatto riscoprire il valore di quella sanità pubblica (cioè di tutti i cittadini) che, in tempi normali, non teniamo nella dovuta considerazione. Anzi, tendiamo a vedere come uno spreco da ridimensionare.

Interpretare i parametri

È successo anche in Italia dove la spesa sanitaria da parte delle strutture pubbliche è passata dal 7,1% del Pil nel 2009 al 6,5% nel 2018. Il dato è fornito dall’Osservatorio conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, ed è stato calcolato in termini reali, ossia mantenendo fermo il livello dei prezzi.

Stando alle statistiche internazionali, l’Italia non si trova ai primissimi posti per spesa sanitaria, ma la statistica è una materia sofisticata che, a seconda dei dati prescelti, può darci informazioni molto diverse fra loro, talvolta fino a confonderci. Gli indicatori riguardanti la sanità sono un caso di scuola. Uno dei parametri abitualmente utilizzati per capire quanta importanza si dà alla sanità è la spesa sanitaria totale in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil). Da questo punto di vista all’avanguardia troviamo gli Stati Uniti, che nel 2018 hanno registrato una spesa sanitaria totale pari al 16,9% del Pil. Otto punti percentuale in più dell’Italia la cui spesa sanitaria complessiva è stata pari all’8,8% del Pil. Un dato che, a prima vista, potrebbe indurci a credere che gli Stati Uniti siano il paese con la maggiore attenzione per la salute al mondo. La spesa sanitaria indica però quanti soldi sono stati spesi per le cure mediche senza precisare né la destinazione, né i beneficiari. Ad esempio, sappiamo che gli Stati Uniti sono un paese altamente disuguale, poco propenso alla solidarietà collettiva. Per cui quel 17% potrebbe nascondere un alto numero di interventi di chirurgia plastica comprati dai più ricchi, mentre i più poveri non riescono a curarsi neanche un’appendicite. Il dato che ci dice quanto un paese sia attento alla salute di tutti è la spesa pubblica dedicata alla sanità, ed ecco che se concentriamo l’attenzione solo su questa voce, gli Stati Uniti scendono al 5,3%. E, tuttavia, anche rispetto all’idea di sanità pubblica ci sono idee molto diverse.

Mascherine anche per le statue di Sheffield, in Inghilterra. Foto: Tim Dennell.

Costi e profittI

Il problema della sanità è il suo costo che, con l’andare del tempo, si è fatto sempre più alto, non tanto per le medicine e gli onorari dei professionisti, quanto per le attrezzature che giocano un ruolo sempre più decisivo con l’evolversi della tecnologia. Per cui è sempre stato chiaro nella testa di tutti che la sanità è una spesa che non conviene affrontare da soli, ma assieme agli altri. L’alleanza è però un concetto che non trova spazio nelle logiche di mercato, per definizione individualista e competitivo. Tuttavia, il capitalismo non fa mai troppo lo schizzinoso e non esita a passare sopra ai propri fondamenti culturali se questi sono di ostacolo agli affari. È stato proprio osservando le soluzioni adottate dal movimento operaio che il mondo degli affari ha capito come trasformarsi in imprenditore dell’alleanza. Ai primordi della rivoluzione industriale, i salari erano così bassi da non permettere ai lavoratori nemmeno di dare sepoltura ai propri cari. Il che indusse a individuare nella mutualità la soluzione per affrontare i gravi problemi della vita. Operai di una stessa città, di una stessa categoria, versavano un tanto al mese in un fondo comune, acquisendo così il diritto di essere soccorsi in caso di necessità. Nascevano le società di mutuo soccorso, talune orientate anche al sostegno scolastico, ma principalmente create per dare assistenza in caso di malattia, invalidità, infortunio, disoccupazione e anche vecchiaia. Esperienze basate sul principio assicurativo che diedero luogo a due importanti sviluppi: l’uno in ambito privato, l’altro in ambito pubblico. In ambito privato diedero impulso alle assicurazioni previdenziali, società per azioni che, al pari delle società di mutuo soccorso assicurano contro malattia, infortuni, morte, vecchiaia, con la differenza che il vero obiettivo è garantire profitto agli azionisti. Quindi, premi e indennizzi sono calcolati in modo da lasciare sempre un margine di guadagno per i proprietari.

Le Assicurazioni sanitarie

A questo filone di attività appartengono le assicurazioni sulla vita, i fondi pensione e anche le assicurazioni sanitarie che, pur essendosi sviluppate ovunque, hanno trovato terreno particolarmente fertile oltre Atlantico dove la mentalità mercantile è più radicata. Negli Stati Uniti, il sistema sanitario si regge di fatto sul sistema assicurativo per il 50% pubblico e il 50% privato, laddove la parte pubblica è ulteriormente suddivisibile in due porzioni: 36% finanziata dal sistema fiscale per prestazioni a favore di anziani e incapienti, 14% finanziata dai prelievi sugli stipendi dei dipendenti pubblici per prestazioni sanitarie a loro favore. Ogni forma assicurativa garantisce prestazioni diversificate. Nel caso di chi gode dell’assicurazione sociale, i limiti sono fissati dalla legge. Per tutti gli altri sono fissati dall’ammontare dei premi pagati. In definitiva, in caso di necessità di cure, la probabilità di dover compartecipare alla spesa farmaceutica o ospedaliera è molto alta per ogni tipo di assicurato: sia esso iscritto all’assicurazione pubblica o cliente dell’assicurazione privata.

Questa intricata rete assistenziale rende l’impalcatura sanitaria statunitense molto complicata con la contemporanea presenza di enti pubblici, come Medicare e Medicaid, e di società assicurative dai più vari connotati. Analoga complicazione si trova anche nell’ambito degli ospedali e di tutte le altre strutture che forniscono servizi sanitari. Pochi ospedali statali al servizio degli assistiti dagli enti pubblici convivono con una pletora di ospedali privati, alcuni posseduti da enti caritatevoli,   la maggior parte da società per azioni. In ambito assicurativo, dieci società, fra cui United Health Group, Kaiser Foundation, Anthem, Humana, si aggiudicano il 50% dei premi assicurativi di tipo sanitario. In ambito ospedaliero, l’operatore più grande è Hospital Corporation of America, che possiede 185 ospedali e 2mila cliniche con un fatturato annuo di 28 miliardi di dollari e 190mila dipendenti. Gli ospedali ricevono i loro compensi dalle assicurazioni e dai diretti interessati se la prestazione fornita va oltre la copertura assicurativa. Secondo l’organizzazione non profit Fair Health, il coronavirus potrebbe fare arrivare a migliaia di ospedalizzati conti salatissimi in base alla loro posizione assicurativa: da 40 a 75mila dollari se totalmente scoperti e da 20 a 38mila dollari se coperti da polizze di bassa entità.

La nascita del Sistema  sanitario nazionale

Fino al 1978 anche in Italia l’assistenza sanitaria era gestita su base assicurativa, ma da parte dello stato. In pratica, ogni lavoratore era obbligato a versare una percentuale del proprio stipendio a una specifica cassa statale che assicurava la sanità ai partecipanti. La più importante era l’Inam – Istituto nazionale assistenza malattie – a favore dei lavoratori dipendenti. Il limite del sistema era che forniva assistenza solo a chi partecipava ai versamenti, mentre escludeva tutti gli altri. Il che contrastava con il dettato dell’articolo 32 della Costituzione secondo il quale la Repubblica deve tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo. Per definizione, i diritti appartengono a tutti e sono indipendenti dalle condizioni personali di ricchezza, sesso, età. Lo spirito della Costituzione venne attuato nel 1978 tramite l’introduzione del Servizio sanitario nazionale concepito come servizio universale e gratuito, finanziato attraverso la fiscalità generale. Dotato di tutti i servizi, dagli ospedali agli ambulatori territoriali, il servizio sanitario italiano è ritenuto uno dei migliori al mondo, ma alcuni segnali fanno temere per la sua integrità. Fra essi il restringimento dei farmaci a carico del servizio sanitario nazionale, l’introduzione dei ticket sulle prestazioni diagnostiche, le lunghe liste di attesa per visite, esami ed interventi che spingono le famiglie più abbienti a rivolgersi alle strutture private, che non sono scomparse.

La Lombardia  e la sanità di mercato

In alcune regioni, ad esempio la Lombardia, c’è (o c’è stata) la tendenza ad accrescere il numero di convenzioni che abilitano le strutture private ad erogare servizi per conto del Servizio sanitario nazionale. Nel 2017, ad esempio, le strutture private lombarde hanno assorbito il 35% dei ricoveri ordinari e il 40% del denaro messo a bilancio per questo scopo dal servizio sanitario della regione.

Segnali preoccupanti che denotano una graduale demolizione del servizio pubblico a favore della sanità di mercato, anche perché è un fenomeno che sta avvenendo anche in altri paesi. Tipico il caso della Gran Bretagna dove il servizio sanitario universale esiste dal 1948 e subito venne amato dagli inglesi. Negli anni Ottanta del secolo scorso subì però una prima incrinatura quando Margaret
Thatcher decretò la possibilità di esternalizzare a imprese private servizi specifici come pulizie, mense, lavanderie, sterilizzazione. Nel 2000 la crepa si approfondì ulteriormente con la decisione, questa volta da parte del  governo laburista di Blair, di poter appaltare a società private anche mansioni di più diretta pertinenza sanitaria come indagini di laboratorio e piccoli interventi chirurgici. Ma la definitiva apertura ai privati è stata decretata dalla riforma approvata nel 2012 che spinge ulteriormente il Servizio sanitario nazionale verso il mercato attraverso due meccanismi principali: la possibilità per ogni cittadino di scegliere lui a quale struttura rivolgersi, sia essa privata o pubblica, per ottenere la prestazione specialistica pagata dal Servizio sanitario nazionale e la possibilità per quest’ultimo di appaltare l’assistenza ospedaliera alle strutture private in base al criterio monetario. Uno dei settori a maggior coinvolgimento privato è quello psichiatrico. Secondo un’indagine condotta dal Financial Times, a Bristol il 95% dei posti letto dedicati ai pazienti psichiatrici sono in strutture private, prevalentemente società statunitensi quotate in borsa quali Acadia Healthcare e Universal Health Service. Nel novembre scorso, durante la campagna elettorale, il Partito laburista sosteneva di avere documenti comprovanti l’intenzione dei conservatori di uscire dall’Unione europea anche per consentire alle imprese sanitarie statunitensi di penetrare ulteriormente sul suolo inglese.

In Italia, gli ospedali hanno fatto il massimo per curare i malati da coronavirus, ma i momenti di difficoltà che hanno vissuto debbono indurci a impegnarci sempre di più per rafforzare la nostra sanità pubblica al servizio di tutti.

Francesco Gesualdi




Come il fisico, così lo spirito

Testo e foto di Luca Salvatore Pistone |


Wat Tham Krabok è un monastero che si è specializzato in recupero di tossicodipendenti. Offre una terapia d’urto, fisica e spirituale. Molto rigorosa ma efficace. E così è frequentato da thailandesi e stranieri. E qualcuno finisce per fermarsi.

A 150 chilometri da Bangkok, nella provincia di Saraburi, poco distante dalla trafficatissima Phahonyothin Road, nascosto tra le montagne, si trova il tempio buddhista di Wat Tham Krabok. Dalla sua fondazione, avvenuta sessant’anni fa, quando la Thailandia era in pieno boom di consumatori di oppiacei, il santuario funge da centro di riabilitazione per tossicodipendenze. La terapia cui i pazienti vengono sottoposti dai monaci include trattamenti poco ortodossi, primo tra tutti la «cerimonia del vomito».

All’ingresso del tempio si trova un piccolo altare votivo pieno di fiori e piccole luci, un omaggio alla fondatrice dell’ordine monastico Tudong, una principessa thai vissuta il secolo scorso che dedicò tutta la sua vita alle opere caritatevoli. A Wat Tham Krabok tutto è perfettamente organizzato. Coloro che vogliono essere ammessi al sacro recinto devono compilare a penna un modulo dettagliato dichiarando il loro stato di dipendenza da sostanze nocive e, quindi, impegnandosi ad accettare ogni regola imposta. Lo stesso atto di abbandono degli abiti civili ha un significato simbolico e religioso: spogliandosi, si rinuncia a quanto arriva dal mondo esterno per entrare in una differente dimensione psichica prima che fisica.

Altrettanto significativo e simbolico è il fatto di mettersi a gattoni sulla grata di una fognatura, con un secchio pieno d’acqua accanto e un misurino contenente un miscuglio dal fetore insopportabile, per rigettare tutto ciò che si ha in corpo. Eee è al suo quarto giorno e ancora non si è abituato a tutto ciò. Nei primi cinque giorni di riabilitazione a Wat Tham Krabok, alle tre in punto del pomeriggio, i pazienti devono prendere parte alla cosiddetta «cerimonia del vomito»: vomitare a oltranza espellendo tutte le tossine dopo aver ingerito un intruglio di erbe amare e semi locali fatto dai monaci la cui ricetta è segretissima. Se il beverone non è sufficiente a indurre il rigetto, il soggetto si infila due dita in gola o beve acqua fino a esplodere. Il tutto, alla presenza di un vasto pubblico di monaci e pazienti che applaude alla fine del rituale.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

La storia di Eee

Ventiquattrenne, dipendente dalle metanfetamine, Eee è uno degli ultimi arrivati a Wat Tham Krabok. «Lavoravo al mercato dei fiori di Bangkok – racconta mentre pulisce dalle foglie uno dei cortili del tempio – e le cose non mi andavano male. Poi ho cominciato a fare uso di metanfetamine e di conseguenza ad avere allucinazioni durante l’orario lavorativo. Sono stato licenziato ed è stato allora che mi sono deciso a venire qui. Non mi sono ancora abituato a tutte queste strane pratiche».

«Il miscuglio della cerimonia del vomito – spiega Richard, un monaco neozelandese da diversi anni a Wat Tham Krabok – scatena fortissime e incontrollabili contrazioni dei muscoli intercostali e addominali, provocando una sensazione di dolore e di soffocamento. I muscoli della parete dello stomaco si contraggono spasmodicamente e i contenuti vengono espulsi in una irrefrenabile crisi di vomito. Questa crisi dolorosa e provocata non è tesa solo alla liberazione fisica da ogni impurità residua dovuta agli stupefacenti, ma anche a un rifiuto psichico della dipendenza. Attraverso l’espulsione violenta, il paziente raggiunge annullamento fisico e psichico cadendo in uno stato di prostrazione che gli dona una sensazione liberatoria». La permanenza a Wat Tham Krabok è di almeno due settimane, senza la possibilità di ricoveri successivi. «Questa non è una clinica a porte girevoli» sono soliti ripetere i monaci. Alloggi e trattamenti sono gratuiti. Di tasca loro i pazienti devono esclusivamente pagarsi il vitto, che può essere consumato solo una volta al giorno alle sette di mattina. La sveglia è alle quattro e mezza mentre alle otto di sera si spengono le luci. Nel complesso del tempio è vietato fare entrare sostanze stupefacenti e alcol, come sono vietate le visite di parenti e amici. Ogni paziente deve indossare l’uniforme fornita dai monaci, un camicione di colore bordeaux con la scritta «vincitore» sulla schiena. Niente telefoni cellulare né tablet. Gli unici svaghi concessi sono un pallone da calcio sgonfio, un tavolo da ping pong malconcio, qualche chitarra scordata e un televisore sintonizzato su uno dei canali nazionali thailandesi. È proibito mettere piede fuori dal perimetro del tempio: in più occasioni i monaci hanno scovato piccoli spacciatori, nascosti tra i cespugli, intenti a offrire droghe ai pazienti.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Spiritualità e terapie

Nella cura delle tossicodipendenze, Wat Tham Krabok racchiude un misto di spiritualità e terapie fisiche di forte impatto. Quello del vomito è il trattamento più invasivo, ma la terapia dei monaci buddhisti non si limita a esso. Il primo giorno il nuovo arrivato viene sottoposto alla cerimonia del sajta, il sacro voto di astinenza. Alla presenza di un monaco anziano, i pazienti giurano solennemente di rinunciare a ogni sostanza stupefacente. Il religioso scrive su dei foglietti il nome e la promessa dei novizi e li inserisce in un braciere che accende con dei lunghi fiammiferi. Al temine di una nenia tra il canto e la preghiera, il monaco porge il braciere a una statua del Buddha. È così che il voto diventa sacro – chi lo infrange non potrà più mettere piede a Wat Tham Krabok – e il sajta si conclude.

Ancora, la «cerimonia della sauna». Seguiti a vista dai monaci, i pazienti escono dall’area dormitorio e si recano all’area sauna che è composta da due stanzini che hanno una tenda nera in cotone pesante come porta. Il calore al loro interno è prodotto da un forno a legna situato sul retro della struttura. Ammassati l’uno contro l’altro, i pazienti devono realizzare tre sessioni di sauna di cinque minuti l’una, intervallati da pause di due minuti durante le quali è possibile trovare sollievo con dell’acqua gelata.

«La temperatura all’interno degli stanzini – dice stremato Peter, svedese al penultimo giorno di ricovero – sfiora i cento gradi e non sono rari i casi di mancamenti. Io stesso la prima volta sono svenuto. I monaci mi hanno rianimato con dei sali. Gran brutta storia… Bisogna fare dei sacrifici per rimettersi in forma e io sento di essere ormai a buon punto. Non avrei mai detto che uno stile di vita così spartano avrebbe risolto i miei problemi».

Non molto distante dalla zona sauna c’è un rudimentale laboratorio di artigianato. «Questa officina – racconta Phra Kru Vichit, uno dei monaci anziani – è un altro dei nostri fiori all’occhiello. Insegniamo ai nostri pazienti a creare opere d’arte servendosi di oggetti riciclati».

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Storia e numeri

Wat Tham Krabok nacque nel 1959. L’idea di rendere un tempio buddhista un luogo di disintossicazione fu – precisa Phra Kru Vichit – «una scelta dettata dal fatto che a quei tempi il maresciallo Sarit Thanarat (primo ministro della Thailandia dal 1957 al 1963 in seguito ad un colpo di stato da lui attuato, nda) aveva lanciato una feroce campagna contro le coltivazioni di oppio. Migliaia di oppiomani ed eroinomani vennero giustiziati e così i monaci si sentirono in dovere di aiutare queste persone».

Il centro raggiunse una grande popolarità nel 1997, quando la Thailandia assistette a un boom della dipendenza da metanfetamine. La terapia prevede anche mezzora al giorno di meditazione guidata da un monaco. Di norma presso Wat Tham Krabok ci sono in cura una trentina di persone alla volta, ma è capitato spesso di superare quota cinquanta. Il tempio non riceve sovvenzioni statali e va avanti solo grazie agli sforzi dei suoi quasi duecento monaci.

I numeri di Wat Tham Krabok sono davvero impressionanti. Dalla sua fondazione, oltre 110mila tossicodipendenti sono stati presi in cura. Continua Phra Kru Vichit: «Oggi il novanta per cento dei nostri assistiti completa il programma e il sessanta per cento per tutto l’anno successivo alla terapia rimane lontano dalle droghe. Per noi il tossicodipendente non è un semplice malato che necessita di cure fisiche ma è essenzialmente un uomo che deve ritornare alla pace attraverso la rinuncia, la purificazione e il sacrificio. Abbiamo avuto molti pazienti che dopo avere seguito il trattamento hanno deciso di farsi monaci, circa il venti per cento del totale. Il fatto che molti nostri monaci siano ex pazienti crea una certa empatia con i nuovi arrivati».

A tal proposito, Phra Kru Vichit convoca un altro monaco anziano con braccia e petto coperti da tatuaggi. Il religioso chiede di celare il suo nome. «Sono qui da trent’anni – dice – e posso dire che Wat Tham Krabok mi ha salvato la vita. Da ragazzo non ho mai lavorato e mi facevo di ogni cosa. Una notte, durante una violentissima retata della polizia, mi salvai per un pelo. Fu allora che mia madre mi supplicò di venire al tempio. Mai scelta fu più giusta. La nuova dimensione conosciuta grazie ai monaci mi ha fatto capire che un nuovo corso era possibile. Da allora non ho mai lasciato i miei confratelli. Oggi, oltre a occuparmi della mensa, aiuto i nuovi arrivati ad ambientarsi al meglio. Capisco perfettamente cosa hanno passato».

Il monastero tratta un numero sempre maggiore di pazienti dipendenti dallo ya-ba, un mix potentissimo di metanfetamine e caffeina. Lo ya-ba, il cui significato in lingua thai è «droga della follia», ha incontrato larga diffusione non solo in Thailandia ma anche al di fuori del territorio asiatico.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Pazienti dall’estero

I portentosi risultati del tempio attirano ormai da anni anche pazienti dall’estero, soprattutto da Stati Uniti, Australia ed Europa settentrionale. Danielle, inglese, è all’ultimo giorno di ricovero a Wat Tham Krabok per alcolismo, dice: «Ho scoperto questo posto meraviglioso perché avevo letto in rete che Pete Doherty (il noto musicista britannico leader della band punk Libertines, nda) ci era stato tempo fa senza però resistere alla terapia oltre il terzo giorno. Mi sono informata e alla fine ho trovato molte critiche positive. All’inizio è stata davvero dura ma, trascorsi i primissimi giorni, ho cominciato ad abituarmi. È stato solo dopo aver espulso tutto il marcio che avevo dentro attraverso le sessioni di vomito e sauna che ho davvero apprezzato questo luogo di pace. Ho potuto riscoprire me stessa, rinascere, ma senza un reale sforzo personale non si va da nessuna parte. Adesso voglio solo rimanere pulita e proseguire il mio percorso interiore».

«Ci si prospetta una nuova vita – le fa eco Andrew, statunitense, al tempio per la sua dipendenza da metanfetamine e cocaina -. Devo ringraziare mia moglie che ha trovato questo centro navigando su internet e mi ha convinto a venirci. È stata un’esperienza meravigliosa, più intensa di quelle provate nei centri di disintossicazione conosciuti prima nel mio paese. Ho imparato molto, ho visto molto. Sono stato in grado di capire chi sono davvero. Non sono buddhista, ma ritengo che la meditazione, la disciplina e la semplicità del tempio mi abbiano fatto elevare a uno stato superiore».

A contribuire alla straordinarietà di Wat Tham Krabok è il complesso di statue del Buddha all’ingresso del santuario. Sculture fatte di un composto di ossidiana e altri minerali meno nobili, che vanno dai venti ai quaranta metri di altezza e che sono state interamente fabbricate dai monaci. «Lasciano senza fiato, vero? – riprende la parola Danielle – Io rimango estasiata ogni volta che le osservo. Pensare che delle persone così pacate possano arrivare a fare tanto è strabiliante. Sono uomini unici questi monaci. Sono stati in grado di aiutarmi, riuscendo a fare qualcosa in cui molte cliniche pubbliche e private europee avevano fallito».

Luca Salvatore Pistone

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone