Sud Sudan: L’ennesimo processo di pace per il conflitto più cruento


È la guerra civile più efferata degli ultimi tempi. Ma anche la più dimenticata. In 5 anni ha ucciso tra le 50 e le 300mila persone, ha prodotto oltre 3,5 milioni di sfollati e 5 milioni a rischio fame. È stato fatto uso massiccio dello stupro e di violenze anche su minori, disabili, anziani. Da alcuni mesi una mediazione internazionale sta cercando di portare le tante fazioni in conflitto alla firma di una pace duratura. Riuscirà il petrolio dove il buonsenso ha fallito?

È il 5 agosto 2018. A Khartum, capitale del Sudan, Omar al Bashir, controverso presidente (accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità) e mediatore, ottiene la firma di un accordo di pace «provvisorio» tra le fazioni in guerra (civile) nel Sud Sudan. Questo è lo stato più giovane del mondo, si è diviso dal Nord il 9 luglio del 2011. «È come se il loro ex presidente fosse riuscito a imporsi per farli firmare», dice qualcuno. Presenti alla firma pure i presidenti di Kenya, Uganda e Gibuti, oltre che diversi corpi diplomatici. Salva Kiir Mayardit (presidente del Sud Sudan) e il suo acerrimo nemico Riek Machar (primo tra i ribelli), insieme a tutte le altre fazioni in conflitto in Sud Sudan, firmano. Ma il processo di pace non inizia e non finisce qui. Il 27 giugno è stata firmata la «Dichiarazione di Khartum», che doveva essere un cessate il fuoco tra tutte le parti, mentre il 25 luglio è stato siglato un accordo preliminare.

I presidenti lasciano la capitale del Sudan mentre i tecnici mettono a punto l’accordo reale e definitivo. Molti sono gli aspetti da definire sulla sua applicazione.

Ma ora cosa succederà? Riuscirà il più giovane paese dell’Africa, sconvolto da cinque anni di guerra cruenta a pacificarsi? A guardare il video – divenuto virale – che mostra Machar porgere la mano a Kiir e questo che abbassa la testa senza ricambiare il gesto, qualche dubbio ci assale.

A fine agosto arriva la notizia che Machar e i leader del Ssoa (South Sudan Opposition Alliance) non vogliono firmare l’accordo definitivo, che non prenderebbe in considerazione alcune loro richieste su divisione in stati, quote etniche del governo e meccanismi di modifica della Costituzione. Poi, nelmomento in cui scriviamo, Machar dichiara di voler firmare, perché confida che la mediazione sudanese sia garante delle loro rivendicazioni.

AFP PHOTO / SUMY SADURNI

Una storia breve

Dopo l’indipendenza dal Sudan, nel 2011, viene creato un governo in cui Kiir è presidente e Machar il suo vice. Subito però riaffiorano le antiche rivalità tra i Dinka, etnia maggioritaria (circa 4 milioni) tra i 64 gruppi etnici sudsudanesi (12,5-13 milioni in tutto), e Nuer la seconda etnia per dimensione (un milione). Nel 2013 il dinka Kiir accusa il nuer Machar di essere artefice di un complotto per rovesciarlo e scoppia la guerra tra le due principali fazioni, che poi si moltiplicheranno.

Nell’agosto 2015 le parti firmano un accordo simile a quello di oggi, che porta a un governo transitorio, in cui Machar è ancora vice presidente (si veda MC maggio 2017). Accordo poi fallito pochi mesi dopo, con Machar che fa una vera «chiamata alle armi» contro i Dinka al potere, chiedendo a tutti i sudsudanesi di combatterli. Operazione che non piace ai paesi della regione e alla comunità internazionale, che invece hanno interesse a stabilizzare il Sud Sudan.

Una poltrona per cinque

I dubbi sulla firma del 5 agosto restano, perché i nodi cruciali non sono stati risolti. I punti fondamentali dell’accordo sono i seguenti: Salva Kiir rimane presidente, mentre Riek Machar ridiventa vicepresidente. Ma ci sono già due vice, ovvero James Wani Igga (di etnia bari), che aveva sostituito lo stesso Machar nel 2013, e Taban Deng Gai, nuer, messo nel 2015 perché rappresentava l’opposizione, la quale però non l’ha mai riconosciuto. A questo punto Machar potrebbe rientrare come primo vicepresidente, mentre se ne aggiungerebbero altri due, in modo da accontentare tutte le fazioni. In particolare i Dinka legati alla famiglia di John Garang (il leader carismatico morto misteriosamente nel 2005), che si dissociano dalla gestione di Kiir di questi anni e i Silluk (si fa il nome di Lam Akol, già alto ufficiale dell’Spla, poi ministro del Sudan e quindi fondatore della fazione Splm – democratic change).

«Sono tutte persone molto speciali e difficili, con delle storie un po’ strane. Lo stesso Salva Kiir, che pure non è un santo, si chiede come farà mai a governare con questi cinque vice presidenti», confida un osservatore.

Si dovrebbe formare un governo di pre transizione che durerebbe in carica alcuni mesi, con lo scopo di creare un parlamento e un nuovo governo di transizione della durata di tre anni, nei quali i seggi e gli incarichi sarebbero contingentati per etnia. Si tratta di fatto di un accordo di condivisione del potere, che però non prevede meccanismi o programmi, ma solo divisione di posti.

Jason Patinkin/IRIN

I nodi sul tappeto

Uno dei principali punti controversi dell’accodo è quello della sicurezza, da garantire per tutti. Intimamente legato alla creazione di un esercito unico, come vorrebbe il governo. Oggi ci sono una moltitudine di eserciti e di gruppi armati, ognuno legato a una fazione o meglio a un leader. Lo stesso Spla (esercito governativo) è diviso al suo interno. Ma come integrare tutte queste milizie? Sarebbero tanti i militari da mandare a casa, in particolare ufficiali e generali.

Ogni gruppo si garantisce la sicurezza con il suo esercito. Ad esempio, Machar che da anni vive in esilio, per tornare a Juba in sicurezza dovrebbe portarsi il suo esercito, come già successo nel 2016, creando tensioni con l’esercito governativo.

L’altro punto è la suddivisione territoriale, che l’attuale governo vuole portare a 32 stati. Dai 10 stati suddivisi in 86 contee del 2011, si è passati nel 2015 a 28 stati teorici. L’operazione sembra fatta più che per organizzare lo stato, per garantire ulteriori posti di potere da suddividere tra le fazioni. Il problema è che il paese rischia di diventare ancora più ingovernabile.

«Ci sono situazioni molto diverse. È un paese al quale non riesci a dare un’identità». Ci racconta una cooperante che è in Sud Sudan da tre anni e ha avuto modo di viaggiare in diverse zone.

«Nel Nord gli stati Unity, Jonglei, Upper Nile, sono popolati da tribù nomadi, dedite alla pastorizia. Ci sono i problemi di furti di bestiame e delle inondazioni. Sono le zone più arretrate. Rispetto a Greater Equatoria (nel Sud, dove c’è la capitale Juba) c’è un abisso. Quest’ultimo è uno stato a sé. C’è molta instabilità, gruppi armati che non si sa a che fazione appartengono, tante imboscate sulle strade. Nonostante questo, la gente sta tornando dall’Uganda, dove nel 2017 sono fuggiti a milioni. È gente che sta cercando di stabilizzare la propria vita. Negli stati Norhtern e Western Bhar el Ghazal, Warap, Lakes, ci sono altre popolazioni, contadini. A Wau la gente esce dal campo di sfollati e va a coltivare, si fa i mattoni per ricostruire la casa. Poi la notte rientra a dormire nel campo.

Si vedono almeno tre paesi diversi con mentalità e approcci alla vita propri».

AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Pressioni internazionali

Gli osservatori sono concordi nel giudicare che le pressioni internazionali, in particolare dei paesi dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa), sono state fondamentali per ottenere la firma di tutti i belligeranti. E il Sudan è stato in prima linea. «Il Sudan, come anche il Sud Sudan, versa in una grave crisi economica. Se i pozzi di petrolio del Sud riprendono a pompare, il greggio ha come unica via l’oleodotto che lo porta a Port Sudan, sul Mar Rosso, nel Nord, e Khartum riceve per ogni barile un grossa quota di profitti», dice l’osservatore.

In effetti, il giorno stesso della firma, al Bashir ha annunciato la ripresa dell’estrazione di greggio e, puntuale, il 26 agosto un test è stato fatto nello stato di Unity, alla presenza di due delegazioni di Sudan e Sud Sudan guidate dai rispettivi ministri del Petrolio. La produzione dovrebbe normalizzarsi entro la fine dell’anno. Gli esperti dicono che nel Sud Sudan è passata dai 350.000 barili/anno di cinque anni fa, a circa 120.000 barili/anno.

Altri paesi interessati sono l’Uganda, che ha sempre appoggiato la fazione di Salva Kiir, (mentre il Sudan è piuttosto legato a Riek Machar), l’Etiopia, che ha dovuto accogliere alcune centinaia di migliaia di sfollati, e il Kenya.

Mentre l’Unione europea è stata assente, gli Stati Uniti, che hanno molto investito in Sud Sudan, hanno criticato l’accordo firmato a Khartoum. Inoltre, hanno fatto pressione all’Onu e fatto passare l’embargo sulle armi (13 luglio), ma si tengono lontani dal processo in atto.

Voci dal terreno

Ma quali cambiamenti ha portato sul terreno questo nuovo processo di pace?

Secondo l’operatrice umanitaria, «non c’è alcun cambiamento interno nel paese. Ad esempio in questi giorni si sta combattendo nel campo di sfollati di Juba. Qui ci sono 30.000 persone, tutti Nuer ma di diversi clan, e basta un nulla per fare scoppiare la violenza. Spesso si combattono per portare più servizi al loro gruppo. A livello locale, dove noi andiamo per assistere gli sfollati, l’accordo di pace non ha portato a cambiamenti». E continua: «In alcune zone del Nord gli sfollati rientrati in patria che assistiamo, mi hanno detto: tra alcune settimane ricomincia la stagione secca, le truppe hanno più facilità di spostamento e verranno a riprendere questa zona. Noi siamo già pronti a scappare di nuovo in Sudan».

Un missionario che lavora a Juba ci racconta: «Per l’accordo la gente ha grande speranza. Sono esausti di questa situazione, quindi qualsiasi cosa va bene, purché ci sia tranquillità e l’economia si riprenda. A giugno un dollaro era arrivato a valere 350 sterline sudanesi. Con i salari minimi intorno alle 3-4.000 sterline. Molti prodotti sono di importazione, arrivano dall’Uganda o da altri paesi, per cui i prezzi aumentano con il cambio. Dopo la firma dell’accordo il dollaro è a 160 sterline, e questo dà un grosso respiro alla gente. In realtà al mercato c’è confusione, perché c’è ancora chi applica cambi diversi».

Displaced children stand at a camp for Internally Displaced Persons (IDP) near Kadugli, the capital of Sudan’s South Kordofan state during a United Nations humanitarian visit on May 13, 2018. / AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Conferma il missionario: «Il costo della benzina è sceso e questo è importante, soprattutto per le merci trasportate. Ad esempio, il prezzo della farina è sceso. Ma non si sa quanto durerà. Il dubbio è: come faranno queste persone, che sono sempre le stesse al governo, a superare le loro divisioni e disaccordi? Come credere che non siano lì per la loro ambizione, ma per dare un minimo di pace al paese?».

La guerra che va avanti da cinque anni è particolarmente efferata, come denuncia l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu: «[…] Questa è una delle più orrende situazioni dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio dello stupro come strumento di terrore e arma di guerra […]», dichiara l’Alto commissario Zeid Ra’ad Al Hussein.

Un sud sudanese, operatore umanitario, con studi all’estero (come tutti a livello universitario), ma che lavora nel suo paese, analizza la situazione. Raggiunto telefonicamente, ci chiede l’anonimato, come già le altre fonti, per ragioni di sicurezza: «Molte persone sono in attesa degli sviluppi di questa firma. Ma se si guarda alla situazione nel paese, è ancora molto confusa. C’è la fazione del governo, poi ci sono tante fazioni di opposizione. La gente vuole la pace, ma molti non sono pronti per questo, come i politici che cercano solo i propri interessi. C’è molta corruzione in ambiente politico. Tutti vogliono mantenere la loro fetta di potere».

E continua: «Fatto l’accordo di pace, ora devono vedere come metterlo in atto, ovvero come governare. Con questo tipo di accordo è difficile soddisfare tutte le persone. Ci sono tante comunità (o etnie), molte differenze, e se i politici lavoreranno solo a livello politico, sul terreno non si vedranno cambiamenti».

Il coordinatore (africano) di una Ong medica internazionale ci confida: «La situazione è molto fluida.

Ci sono diverse violazioni degli accordi, in molte zone, e gli operatori umanitari sono preoccupati».

A fine luglio, alcune centinaia di giovani armati, hanno attaccato e saccheggiato una base di Ong e Nazioni Unite a Maban, nel Nord dello stato di Upper Nile. Non si capisce che origini abbia questo attacco».

Continua la nostra fonte: «La popolazione aspetta che gli accordi di pace siano realmente implementati, ma finora non ci sono stati ancora cambiamenti.

C’è parecchio pessimismo. I sud sudanesi non hanno molta fiducia. Non è il primo accordo e la gente ha paura che i militari ricomincino a combattersi. Chi è più vicino al governo (o alla etnia del presidente) è più ottimista, al contrario le comunità legate all’opposizione sono più pessimiste.

Le Ong non sono molto sicure che gli accordi saranno implementati. Il problema è anche che ci sono molte richieste da parte dell’opposizione, condizioni molto complesse da garantire».

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Società civile cercasi

«Inoltre qui – ci confida il missionario che risiede a Juba, ma ha vissuto anche in altre zone – la popolazione è costretta ad accettare le cose così come sono. Quando il valore della moneta crollava di settimana in settimana mi sono stupito che non ci siano stati scioperi o manifestazioni. La gente sa che non può esprimersi liberamente. Accetta facilmente di farsi proteggere dal forte di turno. Inoltre i gruppi sono spesso allineati etnicamente. La società civile ha ancora una lunga strada da percorrere per dar vita al cambiamento. Probabilmente c’è da aspettare che questa generazione di politici finisca e sia sostituita da un’altra». E continua: «Le Ong nazionali sono finanziate dai grandi enti e offrono servizi di vario tipo. Creano lavoro per la gente locale, ma portano avanti un approccio di emergenza piuttosto che di sviluppo, anche perché questo permette loro di continuare a lavorare».

Importante è stato il ruolo del South Sudan Council of Churches (Consiglio delle chiese sud sudanesi) che riunisce Chiesa cattolica, la Chiesa episcopale (la più diffusa) e la Chiesa presbiteriana.

Ci racconta il missionario: «Il governo rispetta le chiese ma le teme pure. Teme la loro indipendenza. Se una chiesa è allineata la ascolta, altrimenti la lascia un po’ da parte e la Chiesa cattolica è quella che fa più fatica ad allinearsi, quindi si attira più sospetti.

Inoltre è un momento un po’ difficile della nostra Chiesa: quattro diocesi su sette sono senza vescovo. Molte energie devono essere spese per far fronte ai tanti problemi interni e quindi non riesce sempre a farsi ascoltare dal governo. Nonostante tutto le rimane una grande autorità morale: parla una voce unica, non ci sono divisioni etniche in essa. È presente in tutte le comunità (le etnie), per cui non è di parte. Le altre Chiese invece corrono il rischio di essere più allineate e di essere percepite come tali. La Chiesa presbiteriana ha più influenza nelle zone nuer, per cui è stata vista come la chiesa più vicina alle opposizioni. Mentre la Chiesa episcopale aveva gerarchie soprattutto dinka, per cui era vista come filo governativa. Adesso sta superando questo, grazie al nuovo primate più neutrale».

Oltre alle Ong locali e alle Chiese, ci spiega il coordinatore della Ong internazionale, «ci sono altre associazioni per i diritti umani, associazioni delle donne per la pace. Ma le associazioni basate in Sud Sudan devono essere dalla parte del governo. Ce ne sono anche non allineate, ma stanno all’estero, perché non è conveniente per motivi di sicurezza. Essere contro diventa rischioso. Non è un paese nel quale puoi esprimere liberamente quello che vuoi, puoi solo parlare a favore del governo».

La cooperante riassume così le sue sensazioni: «Sono molto delusa. Non è possibile che dal 2013 ci siano sempre le stesse dinamiche. Quello che mi delude di più è che ai politici non importa nulla della gente, fanno solo i loro giochi di potere. Si scontrano e poi vanno a cena assieme. Si stringono le mani, poi litigano di nuovo. Quanto potrà durare un accordo di pace con queste prospettive?»

Marco Bello




Viaggio nel mondo del nucleare: Atomi di pace, atomi di guerra


Sommario

 

Sì, no, forse, I tanti dilemmi dell’energia nucleare

Scrivere un articolo sul nucleare è una vera e propria sfida di comunicazione (e non esclusivamente dal punto di vista scientifico). Il dibattito sull’opportunità o meno di utilizzare l’energia imprigionata nel nucleo di un atomo anche per scopi pacifici e civili si è incuneato, a partire dagli anni Settanta, in inestricabili gangli ideologici. A seconda delle tesi che si vogliono sostenere, l’immensa mole di dati e tesi scientifiche viene troppo spesso seviziata e manipolata a piacere con il solo scopo di suffragare idee preconcette, anche a costo di stravolgere la fisica dell’atomo. È quindi praticamente impossibile, nell’affrontare un argomento così delicato, non incappare negli strali delle tifoserie dell’una o dell’altra squadra. Si aggiunga, poi, la complessità fisica, chimica, matematica che accompagna la materia nucleare che, per essere presentata in modo comprensibile ad un pubblico poco avvezzo all’argomento, deve essere spesso limata e sintetizzata in modo poco ortodosso.

Tutto questo porta spesso ad approssimazioni o a faziosità difficilmente conciliabili con l’informazione che si intende offrire.

Ai lettori di Missioni Consolata tenterò, quindi, di presentare l’argomento nucleare, se non in modo oggettivo, per lo meno cercando di seguire l’onestà intellettuale che dovrebbe contraddistinguere ogni divulgazione, nonostante il mio personale scetticismo su questa fonte energetica soprattutto in fatto di gestione delle centrali.

Piergiorgio Pescali

          

Dall’atomo alla fusione nucleare

Ritratto di Antornine-Henri Becquerel

Dalla scoperta della divisibilità dell’atomo (1896) al suo sfruttamento per produrre energia, la scienza della fisica nucleare ha fatto passi enormi. Non sempre nella direzione corretta, come dimostrano le tragedie di Hiroshima e Nagasaki (1945) e l’esistenza di pericolosi armamenti nucleari. Oggi l’energia nucleare viene sfruttata (soprattutto) per usi civili, ma anche in questo caso sul tavolo rimangono problemi seri. Come il pericolo di incidenti (le centrali di Chernobyl e Fukushima ce lo ricordano) e lo smaltimento delle scorie radioattive.

Nel 1914 la casa editrice britannica Macmillan & Co. pubblicò un romanzo di Herbert George Wells, La liberazione del mondo. In quelle 286 pagine si descriveva, in modo fantascientifico, una guerra che sarebbe scoppiata nel 1956 tra la coalizione franco-britannica-statunitense e quella austro-germanica. Il libro di Wells, autore noto al grande pubblico in quanto aveva già dato alle stampe successi come L’isola del dottor Moreau (1896), L’uomo invisibile (1897) e La guerra dei mondi (1898) che tanto panico causò nell’edizione radiofonica di Orson Welles, non raggiunse la fama dei precedenti lavori, ma ipotizzava, per la prima volta, l’utilizzo di un’arma che, sebbene differente nella concezione, avrebbe dominato la storia del mondo dal secondo dopoguerra fino ad oggi: la bomba atomica.

Basandosi sugli studi di Ernest Rutheford, William Ramsay e, soprattutto, di Frederick Soddy, Wells ipotizzò che, in un futuro non troppo lontano, gli eserciti avrebbero potuto utilizzare la scoperta della radioattività per creare armi che uccidessero non solo grazie al loro potenziale distruttivo immediato, ma prolungando nel tempo l’emissione dei radioisotopi.

L’autore morì il 13 agosto 1946, un anno dopo lo scoppio delle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki, facendo così in tempo a veder realizzarsi nella storia la sua anticipazione letteraria.

La liberazione del mondo era un libro apocalittico, ma con un finale positivo: nel cancellare gran parte dell’umanità, la bomba atomica aveva anche permesso di gettare le basi per la creazione di nuove forme di pensiero e di governo. Alla fine, dunque, la scienza, in cui il pacifista Wells credeva fermamente, mostrava sempre il lato costruttivo e vantaggioso.

L’innato ottimismo che la società a cavallo tra il XIX e il XX secolo riponeva nel progresso, aveva nella neonata fisica nucleare il suo principale motivo d’essere.

L’atomo è divisibile: la nascita della fisica nucleare

Enrico Fermi

Nel febbraio 1896, pochi anni prima che La liberazione del mondo fosse data alle stampe, la scoperta della radioattività fatta dal fisico francese Henri Becquerel aveva inaugurato l’avventura nucleare smontando la tesi secondo cui l’atomo (dal greco ??????, àtomos, indivisibile) era la parte ultima della materia e dimostrando che invece era a sua volta formato da altre particelle più piccole. Era nata la fisica nucleare.

Ci vorranno altri 36 anni prima che la struttura dell’atomo sia svelata nella sua interezza: nel 1897 Joseph John Thomson scoprì l’elettrone, nel 1919 Ernest Rutheford propose l’esistenza di un nucleo formato da protoni caricati positivamente e nel 1932 James Chadwick ipotizzò l’esistenza all’interno del nucleo di una particella di massa simile a quella del protone, ma di carica neutra: il neutrone.

Proprio quest’ultima scoperta scatenò nuove teorie della fisica e nel 1933 Leo Szilàrd suppose che se un nucleo poteva assorbire un neutrone, avrebbe potuto, allo stesso modo, espellerlo creando una reazione nucleare a catena. Il 4 luglio 1934, lo stesso giorno in cui morì Marie Curie, i cui lavori sulla radioattività erano stati fondamentali per lo sviluppo della fisica nucleare, Szilàrd depositò a Londra il suo brevetto sul modo di sfruttare l’energia contenuta in un nucleo atomico basato sulla reazione a catena di decadimenti nucleari.

Sembrava che la scienza concedesse all’umanità un futuro più roseo che mai, ma all’orizzonte cominciavano ad approssimarsi le nubi nere di un nuovo conflitto mondiale. Fu la Germania nazista la prima nazione a credere all’atomo come fonte inesauribile di energia e di potenza militare. Nel dicembre 1938 un team di fisici tedeschi guidati da Otto Hahn e Fritz Strassmann dimostrò che un nucleo di uranio-235 avrebbe potuto dividersi in altri nuclei più piccoli, se bombardato con un neutrone. Il 13 gennaio 1939 la fisica Lise Meitner, assieme al nipote Otto Frisch, risalirono all’origine della reazione riuscendo a calcolare l’enorme quantità di energia che poteva liberarsi dalla fissione, termine coniato da Frisch in analogia alla fissione di cellule nel campo biologico.

La scoperta di Meitner e Frisch cominciò a scaldare gli animi non solo degli scienziati, ma anche dei militari: se la fissione poteva liberare tale quantità di energia, allora un’arma basata su questa reazione a catena avrebbe dato alla nazione che la possedeva un vantaggio incolmabile sulle altre.

Lo sbaglio del Terzo Reich: l’espulsione degli scienziati ebrei

La guerra bussava ormai alle porte e il Terzo Reich era il paese che aveva la più profonda conoscenza della fisica nucleare. Nell’aprile 1939 l’Heereswaffenamt, l’Ufficio armi dell’esercito tedesco, fondò l’Uranverein, il «club dell’uranio» che avrebbe dovuto approfondire gli studi sulla fissione nucleare. Fortuna volle che i gerarchi nazisti avessero altre priorità e non credevano che la Germania dovesse dare urgenza ad un programma di cui non si aveva sicurezza che potesse essere terminato in tempi brevi. La fiducia nelle istituzioni e nella preparazione militare assecondate dalla remissività sino ad allora mostrata dai governi più ostili al Reich (Gran Bretagna e Francia), sembravano garantire a Berlino una facile vittoria senza dover spendere inutili energie in programmi scientifici alternativi. In più i dirigenti nazisti avevano iniziato sin dal 1933 ad espellere gli ebrei dagli uffici pubblici e, seppur il principale istituto scientifico tedesco, il prestigioso Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft fur physikalische Chemie und Elektrochemie, non fosse strettamente sotto controllo statale, venne fatta pressione affinché venissero allontanati ebrei e comunisti da quello che il quotidiano nazista Volkischer Beobachter definì un «parco giochi per cattolici, socialisti ed ebrei»1. Lo stesso Hitler, quando Max Planck tentò di convincerlo che espellere i ricercatori di razza ebraica sarebbe stato il suicidio della scienza tedesca, rispose di non aver «niente contro gli ebrei in sé. Ma gli ebrei sono tutti comunisti e loro sono miei nemici, a loro faccio la guerra». La cecità del governo nazista fu, nella sua tragicità, provvidenziale perché privò la Germania di una parte importante dell’intellighenzia scientifica. Cervelli come Albert Einstein, Edward Teller, Rudolf Peierls, Hans Bethe, Arthur von Hippel, Max Born, James Franck, Hermann Weyl, Eugene Rabinowitch, Heinrich Kuhn assieme agli stessi Lise Meitner e Otto Frisch espatriarono, così come fece Enrico Fermi dall’Italia. In seguito molti di questi stessi scienziati parteciparono attivamente e diedero contributi fondamentali all’interno del «Progetto Manhattan», l’ambizioso piano voluto da Franklin Delano Roosevelt, su pressione di Leo Slizàrd, Eugene Wigner e Albert Einstein, timorosi che la Germania potesse costruire una bomba nucleare.

La svolta decisiva del progetto che, alla sua massima espansione, impiegava 130.000 addetti, avvenne alle 5.29 del mattino del 16 luglio 1945 quando nel sito di Trinity, a Jornada del Muerto, nel New Mexico, venne fatto scoppiare Gadget, il primo ordigno nucleare prodotto dall’uomo, della potenza di 22 chilotoni.

Contrariamente a quanto si pensi, non vi fu alcuna corsa a due: Hitler non si interessò mai veramente alla bomba nucleare e al termine della guerra fu chiaro a tutti che la Germania era ben lontana dal confezionare un ordigno simile. Quando, il 6 agosto 1945, la Bbc diede l’annuncio dello scoppio della bomba su Hiroshima, Werner Heisenberg, il più celebre tra i fisici coinvolti nell’Uranverein, non credette ad una parola: «Posso solo supporre che qualche dilettante in America, con scarse conoscenze in materia, li abbia ingannati dicendo: “Se sganciate questa ha l’equivalente di 20.000 tonnellate di esplosivo ad alto potenziale”, ma in realtà non funziona per niente»2.

Eisenhower e gli «atomi di pace»

Dopo Hiroshima e Nagasaki il mondo iniziò ad interrogarsi sull’etica della scienza e sul pericolo nucleare. Nel 1956 Robert Jungk mise sotto accusa gli scienziati che avevano collaborato al Progetto Manhattan nel suo libro Gli apprendisti stregoni. Già il fisico tedesco dell’Uranverein, Carl Friedrich von Weizsacker ebbe a dire che «La storia ricorderà che gli americani e inglesi hanno fatto una bomba mentre i tedeschi, sotto il regime di Hitler, hanno prodotto un motore capace di funzionare. In altre parole, in Germania sotto il regime di Hitler si è avuto lo sviluppo pacifico del motore a uranio, mentre americani e inglesi hanno sviluppato questa terrificante arma da guerra»3.

Ma in un mondo sempre più energivoro diveniva indispensabile trovare fonti di energia a basso costo e ad alto rendimento per sostenere lo sviluppo industriale e sociale che si andava delineando a partire dagli anni Cinquanta. Come fare a convincere il mondo intero a utilizzare una tecnologia che aveva dimostrato di essere così distruttiva e che, dopo la guerra, continuava a terrorizzare l’umanità nella contrapposizione tra Est e Ovest? Fu Eisenhower a indicare alle Nazioni Unite un piano di controllo nucleare presentandosi l’8 dicembre 1953 all’Assemblea generale con un discorso che viene considerato lo spartiacque tra il nucleare a scopo bellico e quello a scopo civile: Atomi per la pace4. Il pianeta aveva appena sfiorato un nuovo conflitto nucleare nella guerra di Corea, Stalin era morto da poco e non si sapeva che strada avrebbe preso l’Urss sotto la guida del nuovo segretario del partito. Eisenhower propose un ente sovranazionale che controllasse le scorte di materiale fissile (il combustibile nucleare) «destinato ad essere usato per uno scopo pacifico […] nell’agricoltura, medicina e altre attività pacifiche […] al fine di fornire energia elettrica in abbondanza alle aree del mondo di essa più affamate».

Il pannello di controllo del reattore nucleare della centrale atomica di Obninsk, nelal regione di Kaluga in URSS, messo in funzione il 27 giugno 1954.

Il 27 giugno 1954 la centrale di Obninsk, in Unione Sovietica, fu il primo impianto nucleare ad essere collegato alla rete elettrica nazionale inaugurando così l’epoca del nucleare a scopo civile. Si sarebbe dovuto attendere il 26 agosto 1956 per vedere la prima centrale nucleare costruita appositamente per generare energia elettrica, la Calder Hall del Regno Unito, entrare in operazione. Da allora la fissione dell’atomo divenne sempre più alla portata di tutti, ed oggi i 448 reattori nucleari sparsi in 31 paesi del mondo producono circa l’11% dell’energia elettrica prodotta nel pianeta e il 5,86% del consumo energetico assoluto5,6,7,8.

Anche l’Italia entrò con entusiasmo nel club del nucleare il 12 maggio 1963, quando venne inaugurata la prima centrale atomica a Latina. Solo tre anni più tardi il nostro paese era il terzo produttore al mondo di energia nucleare9. Sembrava che nulla potesse arrestare l’avanzata della fissione, ma all’eccitazione iniziale seguì una più ponderata disamina dei pro e dei contro.

Il movimento «No Nukes»

Con le contestazioni studentesche del Sessantotto cominciarono ad affacciarsi anche i primi movimenti «No nukes». Diversificati nelle intenzioni, nei metodi e nelle idee, gli attivisti convogliavano i loro timori verso la sicurezza, sia ambientale che umana, e la pericolosa complementarietà dell’industria nucleare civile e militare. Le prime centrali nucleari cominciavano a produrre quantità considerevoli di scorie radioattive che destavano preoccupazione tra la popolazione in quanto di difficile smaltimento. Inoltre i reattori, utilizzando uranio arricchito (uranio con alta percentuale di isotopo 235) e producendo plutonio-239, potevano essere sfruttati dall’industria militare per la produzione di bombe nucleari. Infine, dato che la teoria della fissione e fusione nucleare è identica sia per produrre ordigni che per produrre energia ad uso civile, ogni sviluppo tecnologico dell’uno poteva essere applicato nell’altro campo. Non è un caso che tutti i paesi che possiedono o hanno posseduto un arsenale nucleare abbiano sul loro territorio centrali nucleari per produrre energia a scopo civile o reattori di ricerca10.

Durante gli anni Settanta si moltiplicarono le manifestazioni contro la proliferazione nucleare: si organizzavano concerti, si giravano film, scendevano in campo star dello spettacolo e della politica. Nel 1975 la ventunenne Anne Lund, un’attivista antinucleare danese appartenente alla Organisationen til Oplysning om Atomkraft (Organizzazione per l’informazione sulle centrali nucleari) disegnò uno dei loghi più famosi e utilizzati nella storia della grafica: il sole che ride e che alla domanda «Energia nucleare?» risponde con un gentile, ma perentorio, «No, grazie».

I più gravi disastri nucleari

Alle obiezioni degli attivisti e delle organizzazioni ambientaliste, le compagnie impegnate nel nucleare, appoggiate dai governi, rispondevano assicurando tutti sulla sicurezza e sulla necessità di avere una fonte energetica pulita, efficiente e, soprattutto stabile e economica.

Ma la sicumera mostrata dai fautori del nucleare sembrò frantumarsi di fronte ad una serie di incidenti: la perdita di refrigerante con conseguente parziale fusione del reattore avvenuta il 28 marzo 1979 a Three Miles Island, negli Stati Uniti, fu solo il preludio di quello che, il 26 aprile 1986 accadde a Chernobyl, considerato il più grave incidente della storia del nucleare a scopo civile, seguito, l’11 marzo 2011, da quello, altrettanto pericoloso, di Fukushima, in Giappone. In tutto, dal 1957 ad oggi, nel mondo ci sono stati 14 incidenti che hanno coinvolto reattori nucleari, di cui dieci con conseguenze dirette sull’ambiente e la popolazione circostante11.

Le sciagure di Chernobyl e Fukushima furono manipolate da entrambe gli schieramenti pro e contro il nucleare per portare acqua al proprio mulino, in modo cinico e presentando in modo approssimativo, per non dire fraudolento, mappe, grafici, dati e cifre. In Italia, a seguito dell’incidente di Chernobyl venne indetto un referendum che sancì, con un consenso dell’80,57% dei votanti, la chiusura delle 4 centrali nucleari presenti sul territorio nazionale: Trino Vercellese, Caorso, Latina, Sessa Aurunca. Un tentativo di reintrodurre la fissione venne fatto nel 2011 ma, a poche settimane dal voto, Fukushima determinò l’esito delle urne con un 94,75% di contrari12,13.

La resistenza del nucleare e la crescita delle fonti rinnovabili

L’ondata di scetticismo verso l’energia atomica sembra, però, non aver intaccato l’avanzata del nucleare nel mondo. I 363 reattori nucleari che nel 1985, prima dell’incidente di Chernobyl, producevano 245.779 MWe (= megawatt elettrico, ndr) di energia, nel 2010 (prima di Fukushima) erano saliti a 441 con una produzione elettrica di 375.227 MWe per raggiungere un totale di 391.116 MWe nel 2017. E con 61 reattori in costruzione per 61.264 MWe di potenza, il nucleare sembra essere ancora una fonte energetica attraente, nonostante nei prossimi 10-20 anni dovranno essere smantellati più della metà dei reattori perché troppo vecchi15,16.

Tra i paesi che nel 2010 avevano un contributo energetico dato dal nucleare, solo Germania e Giappone hanno deciso di diminuire in modo sostenuto (ma non annullare del tutto) l’apporto atomico nel loro consumo energetico dopo la catastrofe di Fukushima. Nel primo caso si è passati dal 22,6% del 2010 al 13,1% nel 2016; nel secondo caso dal 29,2% al 2,2%17. Tutte le altre nazioni, comprese alcune di quelle considerate più sensibili ai temi ambientali, come Finlandia, Svezia, Svizzera, Canada, hanno mantenuto attive le proprie centrali18,19.

I motivi di questa tendenza al rialzo sono da ricercarsi in diverse ragioni. Le energie rinnovabili (è anche il caso di ricordare che «rinnovabile» non è sinonimo di energia «pulita»), pur in forte e costante aumento sono ancora troppo suscettibili agli eventi naturali e non sempre possono essere disponibili ad un uso immediato (ad esempio, la carica di un’auto elettrica dura in media tra i 20 e i 40 minuti). Inoltre la crescente richiesta energetica mondiale obbliga le compagnie a rifornire in modo sempre più cospicuo e costante la rete. Gli impianti di produzione di energia rinnovabile, come eolica o fotovoltaica sono ancora troppo costosi, poco concorrenziali, dipendenti dalle condizioni atmosferiche e non in tutte le regioni possono essere installati (i pannelli fotovoltaici, ad esempio, occupano ampie superfici sottraendo aree che potrebbero, ad esempio, essere utilizzate in agricoltura). Le fonti energetiche fossili, come carbone, petrolio, gas naturale oltre che inquinare, hanno forti implicazioni geopolitiche, le scorte sono limitate e la loro estrazione, mano a mano che i giacimenti superficiali si esauriscono, diviene sempre più costosa e tecnologicamente impegnativa.

Infine, parametro certo di non poco conto, tra tutte le fonti energetiche a disposizione, il nucleare è di gran lunga quella che, a parità di unità di combustibile arricchito, genera la maggior quantità di energia20.

Pur non esistendo un parametro oggettivo e universalmente riconosciuto per valutare la convenienza o meno di una fonte energetica rispetto ad un’altra, le compagnie si affidano all’Eroi (Energy Returned On Investment, «ritorno energetico sull’investimento energetico») un valore che indica quanto conveniente è una determinata fonte energica pronta al consumo ottenuto dividendo l’energia prodotta durante tutto il ciclo di attività dell’impianto per l’energia spesa nella produzione, dalla costruzione allo smantellamento dell’impianto stesso, compresi i costi di manutenzione durante il ciclo di vita. Più alto è il suo valore più conveniente è produrre quel tipo di energia. L’Eroi, però, non tiene conto dei costi di produzione delle materie prime e del loro trasporto; di conseguenza i valori per una stessa fonte energetica variano in misura notevole a seconda del periodo, del luogo in cui l’energia è prodotta e consumata, del costo delle materie prime, della manodopera, etc. Ad oggi l’Eroi rimane comunque l’unico parametro scientifico per determinare l’effettiva economicità energetica ed è su questa base che governi e industrie programmano la loro politica energetica. Il nucleare rimane ancora una fonte tra le più convenienti dopo l’idroelettrico e il petrolio21. L’introduzione dei reattori di quarta generazione, prevista tra 10-20 anni, aumenterebbe ancor più l’Eroi.

© Greg Webb – IAEA, 2010

Le lobbies mondiali e le riserve di uranio

Contrariamente al sentito dire, dal 1985 ad oggi gli investimenti nel nucleare sono in continua diminuzione. L’Oecd ha stimato che nel 2015 sono stati spesi nel campo della ricerca e sviluppo energetico 12,7 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali sono confluiti nel campo della sicurezza, dei problemi ambientali e sociali. I governi tendono a finanziare ricerche in programmi energetici a medio-lungo termine atti ad essere commercializzati, in modo da recuperare, in parte o totalmente, gli investimenti. I capitali privati, invece, sono focalizzati ad investimenti a corto termine migliorando tecnologie già esistenti. Se negli anni Settanta più del 70% degli investimenti in ricerca e sviluppo erano diretti nel campo nucleare, nel 2015 questi si sono ridotti al 20%. Al tempo stesso è aumentato l’interesse verso le fonti energetiche rinnovabili e l’efficienza energetica, campi verso i quali sempre più lobbies industriali guardano con partecipazione, anche per via dei forti incentivi economici offerti dai governi22. Risulta quindi sempre più difficile parlare di ostacoli verso le energie rinnovabili posti da cartelli di grosse multinazionali. Oramai anche le maggiori compagnie impegnate nel campo nucleare destinano una parte sempre più cospicua dei loro investimenti nelle rinnovabili (in particolare solare e eolico).

Tutto questo, però, non esclude che attorno al nucleare vi siano ancora interessi enormi, in particolare per quelle compagnie che operano nei paesi dove i piani energetici nazionali concedono ampi spazi a questa forma di energia. I principali gestori di impianti nucleari sono la francese Edf (58 reattori gestiti), la russa Rosenergoatom (35 reattori gestiti e 7 in costruzione), la sudcoreana Korea Hydro and Nuclear Power Co. (25 reattori gestiti, 3 in costruzione) e l’indiana Nuclear Power Corporation of India Ltd (22 reattori gestiti, 4 in costruzione)23,24.

Più conosciute al grande pubblico, perché presenti sul mercato dei consumatori, sono le multinazionali che si occupano della manutenzione e della costruzione di impianti nucleari: la parte del leone la fanno la Westinghouse (manutenzione di 70 reattori e altri 6 reattori in costruzione), l’Areva (66 reattori in manutenzione, ma appena salvata dal fallimento dallo stato francese, ndr), la General Electric (44 reattori in funzione e 2 in costruzione), la Mitsubishi Heavy Industries, la Toshiba, la Siemens, la Skoda25.

Come si può vedere la galassia delle ditte impegnate nel nucleare è molto variegata e non esclude quegli stessi paesi che al nucleare hanno rinunciato o stanno per rinunciare. A queste si aggiungono le compagnie che estraggono e lavorano l’uranio, metallo che, dopo l’arricchimento, viene utilizzato come combustibile nei reattori nucleari.

Due terzi dell’estrazione mondiale di uranio provengono dal Kazakistan (39% della produzione mondiale nel 2016), Canada (22%) e Australia (10%). Niger e Namibia, serbatornio per il combustibile nucleare francese estraggono ciascuno il 4% della quantità mondiale di uranio26.

Ma se in Kazakistan, in Canada e in Russia le compagnie che estraggono e lavorano uranio o appartengono allo stato o sono ditte a capitale privato per maggioranza locale, in Niger solo il 34% delle compagnie sono statali (il restante 66% sono straniere) mentre in Namibia, dove solo l’1,2% delle compagnie sono locali, la situazione è ancora più spostata verso il mercato straniero27. La chiusura del mercato giapponese e la diminuzione delle centrali in Germania hanno fatto crollare il prezzo del minerale. A seconda dei costi di estrazione e di lavorazione del materiale grezzo, il prezzo medio si aggira sui 130 dollari per kg (con riserve stimate attorno a 5.718.000 ton) per raggiungere i 260 dollari al chilo per l’uranio di difficile estrazione o di bassa purezza iniziale (con riserve stimate pari a 7.641.600 ton)28,29.

L’Australia è la nazione che possiede le riserve mondiali più cospicue (29%), seguita da Kazakhstan (13%), Russia e Canada (9% ciascuno), Sud Africa (6%) e infine Niger, Brasile, Cina, Namibia (5% ciascuno)30.

La produzione nel 2017 è stata di 68.000 tonnellate, 27% delle quali (19.000 ton) dirette verso gli Stati Uniti, 12% verso la Francia (8.000 ton), e poi in Russia, Corea, Cina, Ucraina31. Il forte incremento di domanda energetica cinese, ha indotto questo governo a iniziare una serie di manovre per diminuire la dipendenza verso il mercato estero, in particolare petrolifero. Così, oltre all’impulso dato alle fonti energetiche rinnovabili, è in progetto il raddoppio del contributo dato dal nucleare. La Cina è il paese al mondo dove si sta riscontrando il maggior incremento di energie rinnovabili; oggi il 25% dell’energia prodotta in Cina proviene da fonti energetiche rinnovabili e il 2% dal nucleare; nel 2040 si stima che il nucleare passerà al 4%, mentre il rinnovabile al 57%32. Questo porterà Pechino a importare una quantità di uranio tra le quattro e le cinque volte superiore a quella attuale (tra 14.400 e le 20.500 tonnellate di uranio nel 2035 contro le 4.200 attuali) trasformando la Repubblica popolare nel primo paese al mondo importatore del minerale fissile superando anche gli Stati Uniti33. Allo stesso tempo la domanda di uranio aumenterà per altri mercati che stanno rafforzando la presenza nucleare nel loro scenario energetico: India, Argentina, Giappone, ma anche con new entry come Polonia, Turchia, Emirati Arabi e Viet Nam34. Sebbene la richiesta sarà destinata ad amplificarsi, le riserve di uranio sono talmente vaste che, anche con uno scenario pessimista, potranno durare secoli35.

© Nuclear-Regulatory-Commission_1991

La radioattività e le scorie

Uno dei principali problemi che nascono dalla fissione nucleare è quello dei rifiuti radioattivi. Per una malsana informazione, ogni qualvolta si pronuncia la parola «radioattività» si ha un sobbalzo di terrore. In realtà tutti noi viviamo immersi nella radioattività. Continuamente. In ogni luogo del mondo. Occorre, quindi, distinguere tra radiazione naturale e radiazione artificiale individuando anche, oltre alla tipologia di radiazione emessa dai singoli componenti, anche la quantità.

Le centrali nucleari producono materiali radioattivi, ma non sono le sole sorgenti di scorie prodotte dalle attività umane. Limitandoci quindi ai soli reattori in funzione a scopo civile, i rifiuti considerati radioattivi si dividono in tre categorie: Llw (Low-Level Radioactive Waste, rifiuti radioattivi a basso tasso di radioattività), Ilw (Intermediate-Level Radioactive Waste, rifiuti a medio tasso di radioattività) e Hlw (High-Level Radioactive Waste, rifiuti ad alto tasso di radioattività). Mentre i Llw costituiscono il 90% del volume totale e non danno particolari problemi di smaltimento, i Ilw e i Hlw sono quelli su cui si innestano i principali e più accesi dibattiti tra chi osteggia e chi, invece, propugna la scelta nucleare. Le scorie Hlw ammontano al 3% dell’intera gamma di rifiuti prodotti da una centrale e all’interno di questa sezione vengono classificati anche i combustibili spenti, le barre di uranio che hanno terminato il loro ciclo vitale all’interno del reattore e che, quindi, posseggono una radioattività molto elevata. Il combustibile spento costituisce lo 0,2% del totale dei rifiuti radioattivi, pari a circa 34.000 m3 annui e di questi circa il 20-25% viene inviato ai cicli di riprocessamento36. Il resto viene trattato con un metodo chiamato vetrificazione.

I Llw sono stoccati in depositi superficiali a causa della loro (relativa) bassa pericolosità, mentre i Ilw e gli Hlw devono essere conservati per anni (da decine a migliaia, a seconda del livello di radioattività emanato) in luoghi geologicamente sicuri e sotterranei facendo levitare in modo sostanziale i costi del ciclo vitale di una centrale atomica.

Per poter essere maneggiati con sufficiente sicurezza, i rifiuti Hlw vengono lasciati in depositi temporanei; il combustibile esausto è mantenuto in media per 5 anni nelle piscine di stoccaggio; durante questo periodo il materiale perde il 90% della sua radioattività. Prima di essere inviato ai centri di riprocessamento, però, le scorie nucleari vengono separate secondo i loro componenti. La composizione media del combustibile esausto contiene il 93,4% di uranio-238, lo 0,71% di uranio-235, 5,15% di prodotti di fissione e 1,3% di plutonio37.

Appare chiaro che, oltre alla pericolosità intrinseca delle scorie, vi è anche il rischio (spesso reale, come abbiamo già scritto) che parte del plutonio generato come scarto di produzione possa essere utilizzato nel campo militare per la costruzione di ordigni nucleari.

Dopo alcune decine di anni, i rifiuti di tipo Hlw possono essere classificati come Ilw, ma la radioattività di tali scorie torna a livelli originari solo dopo migliaia di anni. Rifiuti a basso e medio livello di emissione radioattiva che hanno un emivita38 di 30 anni, possono essere depositati in depositi superficiali o in grotte poco profonde e se, per questo tipo di rifiuti, alcuni siti sono già operativi, molto più dibattuta è la scelta delle aree da destinare alla conservazione dei rifiuti Hlw39. Il deposito del monte Yucca, nel Nevada, che avrebbe dovuto accogliere 70.000 tonnellate di Hlw, è stato definitivamente bocciato nel 2010 dopo 32 anni di verifiche, sopralluoghi, progetti, mentre i siti di Onkalo, in Finlandia, e di Forsmark la cui operatività permetterebbe di contenere combustibile esausto a 450 metri di profondità sono in fase di ultimazione40,41.

© ter – AEA, 2016

Il nucleare in Italia

In paesi come l’Italia, dove per due volte si è respinta la possibilità di dotare il paese di un piano energetico che comprendesse anche il nucleare, il problema del trattamento e deposito delle scorie è oggi il principale tema sul quale si dibatte il tema dell’atomo. Attualmente vi sono cinque i reattori nucleari in funzione, tutti a scopo di ricerca: tre sono gestiti dall’Enea («Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile»), uno dall’università di Palermo e uno dal Laboratorio energia nucleare applicata dell’università di Pavia42.

Le quattro centrali costruite tra gli anni Sessanta e Settanta – Latina, Garigliano (Caserta), Trino Vercellese (Vercelli) e Caorso (Piacenza) – sono in corso di disattivazione assieme agli impianti sperimentali di riprocessamento di combustibile nucleare di Eurex e Itrec, all’impianto di plutonio dell’Enea a Casaccia (Roma) e al reattore Essor del Centro comune di ricerche (Ccr) di Ispra (Varese).

Tutte queste attività hanno generato rifiuti radioattivi a cui si aggiungono annualmente nuove scorie nucleari provenienti dalle attività mediche e dai ciclotroni per la produzione di radiofarmaci. Oggi sono centinaia i centri nel nostro paese che conservano rifiuti radioattivi (la maggior parte provenienti da attività mediche), mentre 19 sono le strutture principali da cui le scorie verranno trasferite per confluire in un deposito nazionale la cui individuazione geografica non è ancora stata decisa43. Questa incredibile lacuna (la gestione delle scorie dovrebbe essere una delle priorità che accompagnano un progetto energetico nazionale che includa il nucleare) dimostra la miopia e la leggerezza con cui la classe politica italiana del passato ha trattato il programma energetico, le cui conseguenze – sia economiche che sociali – oggi paghiamo a caro prezzo.

© Dean Calma / IAEA_FRANCE

Il futuro del nucleare

Alla luce di quanto scritto, che futuro avrà il nucleare nel panorama energetico mondiale?

Con lo sviluppo delle energie rinnovabili, i forti incentivi che vengono offerti a chi fa ricerca nel campo e a chi opta per installare impianti e, soprattutto, la paura di un ennesimo incidente, il nucleare potrebbe non essere in grado di competere. Inoltre nei prossimi due o tre decenni la metà dei reattori oggi in funzione dovrà essere smantellata con costi e problematiche di smaltimento enormi. Al loro posto potrebbero subentrare i reattori di IV generazione meno costosi, poco adatti a sviluppi militari e, soprattutto, più sicuri e, successivamente, i reattori che si rifanno al progetto Inpro (International Project on Innovative Nuclear Reactors and Fuel Cycles) coordinato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea). Nel frattempo, però, la transizione tra lo smantellamento degli impianti obsoleti e l’avvio della IV generazione verrebbe occupata dai reattori di piccola portata facili da costruire e semplici da mantenere verso cui hanno mostrato interesse tutti gli stati che nel prossimo futuro dovranno fermare i propri impianti. In tutti questi nuovi progetti l’Italia è presente con i propri ricercatori.

Ma quello a cui il futuro lontano sta guardando con maggior attenzione è la fusione nucleare, una tecnologia basata non più sulla fissione (divisione) del nucleo atomico, bensì sul processo inverso, cioè l’unione di due nuclei. La reazione, più o meno quella che avviene nelle stelle, produrrebbe una quantità enorme di energia (circa 4 volte quella che si verificherebbe nella fissione di una pari massa di uranio-235 e 4 milioni di volte maggiore a quella che si sprigionerebbe da una pari massa di combustibile fossile) accompagnata da una produzione di scorie poco significative44.

Sebbene la ricerca sulla fusione e su un processo che possa essere convenientemente adottato per produrre energia quasi pulita a scopo civile sia stato avviato sei decenni fa, il traguardo sembra ancora lontano. Le difficoltà tecniche sono enormi. In primo luogo, la temperatura: per innescare e mantenere una fusione nucleare occorrono temperature che si aggirano sui 100-150 milioni di gradi. E non vi è alcun materiale che sia in grado di sostenere tale temperatura e contenere il plasma che si forma: ogni contatto con le pareti del contenitore raffredderebbe il plasma interrompendo la reazione. Inoltre ogni contatto con un elemento estraneo inquinerebbe il plasma stesso.

Per fortuna la tecnologia e la ricerca (anche italiana) sulla fusione è riuscita a trovare soluzioni, seppur costose e ancora in fase di sviluppo e sperimentazione, come il contenimento magnetico del plasma. Al primo Tokamak45, il reattore nucleare a fusione costruito nella seconda metà degli anni Sessanta, sono seguiti un’altra ventina di impianti pilota sino a quando un consorzio che comprende Unione europea, India, Cina, Russia, Giappone, Corea e Stati Uniti ha dato inizio al più ambizioso progetto nel campo della fusione nucleare: l’Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), in fase di costruzione a Cadarache, in Francia, che costerà 15 miliardi di dollari (rispetto ai cinque inizialmente preventivati nel 2001) e potrà entrare in funzione nel 203546. Nella migliore delle ipotesi l’uomo potrebbe consumare energia proveniente dalla fusione solo nella seconda metà del secolo. Un intervallo di tempo ancora troppo lungo perché il nostro pianeta possa sopportare un depauperamento delle materie prime e un inquinamento cui è sottoposto a livello attuale.

Nel frattempo, il mondo dovrà funzionare con l’energia disponibile che, qualunque sia la fonte, non è né pulita né infinita.

Piergiorgio?Pescali


Atomi e isotopi

Ogni atomo è formato da elettroni che roteano attorno ad un nucleo formato da protoni e neutroni (disegno). Nonostante l’elettrone abbia una massa 1.836 volte inferiore a quella del protone, la carica delle due particelle è uguale, ma di segno opposto. L’elettrone ha una carica negativa, mentre il protone una carica positiva. Quando in un atomo il numero di protoni è identico a quello degli elettroni, le cariche si annullano a vicenda e l’atomo è neutro. Se, invece, il numero degli elettroni è superiore a quello dei protoni l’atomo si trasforma in ione negativo; all’opposto, si ha uno ione positivo.

La quasi totalità della massa di un atomo è data dal nucleo (99,98% della massa, il restante 0,02% è data dagli elettroni) che, come accennato, contiene, oltre ai protoni, anche i neutroni, particelle di massa simile a quella dei protoni, ma di carica neutra.

Ogni elemento che troviamo in natura, dall’elio con cui sono gonfiati i palloncini, al mercurio al ferro, è definito esclusivamente dal numero di protoni presenti nel nucleo. Il carbonio, ad esempio, ha 6 protoni, l’elio ne ha due, l’idrogeno uno, l’uranio 92.

Il numero di protoni determina il numero atomico (Z) ed è quello che individua la proprietà chimica di un elemento, mentre la somma di protoni e neutroni è detta numero di massa (A).

Stessi elementi possono avere un numero di neutroni (N) diverso all’interno del loro nucleo. In questo caso parliamo di isotopi: sono atomi le cui caratteristiche chimiche rimangono identiche, ma varia il numero di massa.

L’idrogeno, ad esempio, ha un nucleo formato da un solo protone, ma quando accanto al protone troviamo anche un neutrone abbiamo il deuterio, mentre se i neutroni sono due abbiamo il trizio. Deuterio e trizio sono elementi utilizzati nella fusione nucleare.

P.Pescali


Fissione e fusione

I nuclei atomici possono dividersi per formare atomi di numero atomico e numero di massa inferiore, o unirsi per formare atomi di massa maggiore. Nel primo caso si parla di fissione nucleare, nel secondo caso di fusione.

L’elemento utilizzato per produrre energia nelle centrali nucleari a fissione è, generalmente, l’uranio. Non tutto l’uranio è, però, fissile. L’uranio ha 92 protoni nel proprio nucleo ed un peso atomico di 238 (viene indicato come 238U, 92U238 o semplicemente uranio-238). Sino ad oggi conosciamo 11 isotopi dell’uranio; tutti hanno lo stesso numero di protoni (92), ma un numero diverso di neutroni che variano da 138 a 148. Quando viene estratto il minerale è composto da isotopi presenti in diversa percentuale: il 99,3% è uranio-238 (uranio con 92 protoni e 146 neutroni), mentre lo 0,7% è uranio-235 (uranio con 92 protoni e 143 neutroni). Dato che la fissione dell’uranio-238 non dà luogo ad una reazione a catena, il combustibile utilizzato nelle centrali nucleari è l’uranio-235. Ecco perché, una volta estratto, il minerale deve essere arricchito per portare la concentrazione di uranio-235 al 3-5%.

Bombardando l’uranio-235 con un neutrone, il nucleo assorbe la particella trasformandosi in uranio-236 (236U, isotopo dell’uranio con 92 protoni e 144 neutroni). L’altissima instabilità dell’uranio-236 fa sì che il suo nucleo di divida in due nuclei più piccoli liberando altri neutroni che andranno a colpire altri nuclei di uranio-235. Ad ogni fissione si libera una quantità di energia che va a creare calore riscaldando l’acqua attorno al reattore la quale genera vapore che andrà ad alimentare la centrale. A parità di massa, una centrale a fissione può generare energia un milione di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile; una centrale a fusione sarebbe – invece – di 4 milioni di volte superiore.

La fusione è, semplificando al massimo, il processo inverso: due nuclei, generalmente di deuterio e trizio, di fondono per formarne uno più grande (elio). Il deuterio è un elemento comune, lo si può estrarre dall’acqua marina, mentre il trizio, che non esiste in natura in quantità elevate, lo si ricava dal litio, elemento presente nella crosta terrestre. 150 kg di deuterio e 2-3 tonnellate di litio sono sufficienti per generare elettricità per un anno in una città di un milione di persone. L’ostacolo principale della fusione è il confinamento del plasma, che si trova ad una temperatura di centinaia di milioni di gradi. Negli impianti sperimentali si utilizza il confinamento magnetico, che “chiude” il plasma in un campo magnetico impedendogli di entrare a contatto con le pareti del contenitore. Ogni reazione di fusione, oltre che un nucleo di elio produce un neutrone che, essendo di carica neutra, non verrà trattenuto dal campo magnetico e andrà a cedere la sua energia alle pareti del “blanket”, il contenitore toroidale, che si riscalderà. Un fluido asporterà il calore del blanket entrando in un generatore di vapore che farà funzionare una turbina a vapore. A parità di massa, una centrale a fusione può generare energia 4 milioni di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile.

P.P.


La radioattività

La stabilità di un atomo è data dal rapporto tra numero di neutroni e protoni (N/Z) all’interno del nucleo. I protoni, infatti, essendo particelle dotate della stessa carica positiva, tendono a respingersi a vicenda: le forze nucleari attrattive dei soli protoni non sono in grado di prevalere su quelle repulsive. I neutroni, essendo di carica neutra, aumentano proprio le forze nucleari attrattive che riescono a tenere i protoni confinati all’interno del nucleo. Questo equilibrio è ottimale quando il rapporto tra neutroni e protoni si attesta tra 1 e 1,5; quando questo valore viene superato l’atomo diventa instabile.

A questo punto l’isotopo instabile tende a rilasciare energia per riconfigurarsi in un isotopo più stabile. Questo rilascio di energia determina la radioattività e continua sino a quando il rapporto N/Z raggiunge un valore ideale. A seconda dell’isotopo, il rilascio di energia può durare da frazioni di secondo a migliaia di anni e la velocità con cui questa energia è emessa si chiama tempo di dimezzamento. Più il tempo di dimezzamento è breve, più radioattivo sarà l’isotopo. Dato che ad ogni ciclo di emivita il decadimento radioattivo è esponenziale, dopo 7 cicli di dimezzamento l’isotopo contiene meno del’1% della radioattività iniziale.

L’uomo da sempre convive con la radioattività. Raggi cosmici, terreno, cibi contengono isotopi che emettono in continuazione attività radioattiva. In media ogni individuo assorbe annualmente una dose di radiazioni naturali tra i 2,4 e i 3,3 millisievert (il valore varia da luogo a luogo in quanto la radioattività rilasciata dal suolo e dai raggi cosmici non è uniforme su tutto il pianeta).

Questi valori rappresentano circa il 50-70% delle radiazioni totali assorbite dall’uomo in quanto si devono aggiungere le dosi dovute alle attività umane, la quasi totalità delle quali (2,6 millisievert) è dovuta alle attività mediche (radiografie, medicina nucleare, tomografie). Le radiazioni dovute alle attività industriali corrispondono a meno dello 0,1% del totale della dose annuale assorbita (0,003-0,01 mSv).

In genere, però, le radiazioni naturali non hanno alcun effetto sulle nostre cellule o, tuttalpiù, possono essere riparate dalle cellule stesse. Il pericolo avviene quando l’energia delle particelle radioattive è elevata a tal punto da «ferire» la cellula senza che questa riesca a curarsi. In questo caso può continuare a vivere rischiando però di infettare altre cellule, oppure morire. Perché una cellula muoia occorre che la quantità di energia somministrata sia intensa e di breve durata: è il caso peggiore.

Le radiazioni emesse dai reattori nucleari sono di tre tipi:

  • alfa
  • beta
  • gamma

Le particelle alfa sono formate da due protoni e due neutroni. Dotate di bassa energia, posso essere fermate da un semplice foglio di carta.

Le particelle beta sono elettroni. Hanno energia superiore alle particelle alfa, ma non sufficiente da penetrare a fondo nella pelle (sono fermate da fogli di alluminio spessi pochi millimetri). Possono percorrere solo pochi metri nell’aria.

Le particelle gamma sono onde elettromagnetiche simili ai raggi X, quindi dotate di alta energia. Per fermarle occorrono materiali ad alta densità, come il piombo. Nell’aria possono percorrere anche diverse centinaia di metri prima di perdere la loro carica energetica. Al contrario delle particelle alfa e beta, che sono corpuscolari, le particelle gamma sono molto simili ai fotoni della luce (da cui variano solamente per avere una lunghezza d’onda minore). Generalmente, l’emissione delle radiazioni gamma è accompagnata da quelle alfa e beta.

Vi è, infine, un quarto tipo di radiazione, formato da neutroni. Sono particelle ad altissima energia che sono fermate da spessi strati di cemento e di acqua.

P.P.


Hanno firmato questo dossier:

  • Piergiorgio Pescali Giornalista e scrittore, laureato in fisica, storia e filosofia, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, Giappone e penisola coreana. Dal 1996 visita con regolarità la Corea del Nord. Da anni collaboratore di MC, suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Avvenire, Il Manifesto, Panorama e, all’estero, da Bbc e Cnn. Il suo blog è: www.pescali.blogspot.com.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC

Un avviso di pericolo nucleare a Trinity, nel deserto del New Mexico (Usa), dove il 16 luglio 1945 venne fatto esplodere il primo ordigno nucleare.


Note

(1)    Philip Ball, How 2 Pro-Nazi Nobelists Attacked Einstein’s “Jewish Science”, Scientific American, 13 febbraio 2015.

(2)    Jeremy Bernstein, Hitler’s Uranium Club: The Secret Recordings at Farm Hall, Springer Science+Business Media New York, 2001, p. 116.

(3)    Jeremy Bernstein, ibidem, p. 138.

(4)    La trascrizione dell’intero discorso, assieme all’audio originale, è consultabile sul sito della World Nuclear University.

(5)    AEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, References Data Series n. 1, 2017.

(6)    AEA, Vienna, Maggio 2017.

(7)    IAEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, ibidem, p. 18.

(8)    La differenza tra i due dati: l’11% si riferisce al contributo dato dal nucleare alla sola rete elettrica; altre fonti di energia elettrica sono l’idroelettrica, il solare, l’eolica. Il 5,86% si riferisce al contributo dato dal nucleare al consumo energetico assoluto rapportato, quindi, anche con il contributo dato dal petrolio, gas naturale, geotermia, bioenergia.

(9)    ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, Comunicazione e informazione in tema di energia nucleare, di G. Forasassi, R. Lofrano, L. Moretti, Documento CERSE-UNIPI RF 1068/2010, Report RdS/2010/153, settembre 2010.

(10) Dei nove paesi che possiedono armi nucleari solo due (Israele e Corea del Nord) non hanno centrali per produrre energia a scopo civile, ma entrambe hanno istituti e impianti nucleari a scopo di ricerca.

(11) The Economist, 12 aprile 2011. La gravità di un incidente nucleare è classificata secondo una scala INES (International Nuclear and Radiological Event Scale) che va da 1 (semplice anomalia) a 7 (incidente catastrofico). Dalla scala 4 l’incidente nucleare ha conseguenze locali. Dal 1957 ci sono stati 2 incidenti su scala 7 (Chernobyl e Fukushima), 1 su scala 6, 3 su scala 5, 4 su scala 4, 2 su scala 3, 1 su scala 2 e 1 su scala 1 (fonte IAEA, The Economist).

(12) http://elezionistorico.interno.gov.it/

(13) Ibidem

(14) Interessante, sul cambio di consenso degli italiani sul nucleare, il citato rapporto ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, del settembre 2010 in cui – alle pagine 7/8 – si afferma che alla fine del 2010, pochi mesi prima di Fukushima, il 44% degli italiani sarebbe stato favorevole al ritorno del nucleare in Italia.

(15) IAEA, Vienna, Maggio 2017.

(16) Secondo un rapporto IAEA del maggio 2017, sui 448 reattori in funzione, 65 hanno un’età tra i 41 e 47 anni, 181 hanno tra i 31 e i 40 anni e 108 tra i 21 ed i 30 anni. La vita media di un reattore nucleare di I, II e terza generazione si aggira sui 40 anni, prolungabile a 60 per quelli di III generazione.

(17) IAEA, Vienna, maggio 2017.

(18) Ibidem.

(19) International Energy Agency (IEA): www.iea.org/weo2017/.

(20) A parità di massa la quantità di energia prodotta dalla fissione nucleare è superiore di sei ordini di grandezza (un milione di volte) quella del petrolio.

(21) ASPO Italia, «Associazione per lo studio del picco del petrolio», 2005.

(22) OECD International Energy Administration (IEA), 2015.

(23) IAEA, Vienna, Maggio 2017.

(24) Il numero di reattori nucleari non coincide necessariamente con il numero di impianti nucleari in quanto in uno stesso sito possono essere in funzione più reattori nucleari.

(25) IAEA, Vienna, Maggio 2017.

(26) World Nuclear Association (WNA), luglio 2017.

(27) Le principali compagnie che estraggono, lavorano e smerciano uranio solo la kazaka KazAtomProm (21% del mercato mondiale), la canadese Cameco (17%), la francese AREVA (13%), la russo-canadese ARMZ-Uranium One (13%) e l’australiana BHP Billiton (5%) (fonte: WNA, luglio 2017).

(28) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, OECD 2016, p.9.

(29) I principali siti minerari da cui viene estratto la pechblenda, il minerale che contiene uranio, sono: la McArthur River (Canada), proprietà della Cameco per il 69,8%, che estrae l’11% dell’uranio mondiale, la Cigar Lake (Canada), proprietà della Cameco al 50% (11% dell’uranio mondiale), la Tortkuduk & Myunkun (Kazakhstan), di proprietà del consorzio KatcoJV/Areva (6% dell’uranio mondiale), l’Olimpic Dam (Australia), proprietà della BHP Billiton (5% dell’uranio mondiale), l’Inkai (Kazakhstan), di proprietà del consorzio Inkai JV/Cameco, 5% dell’uranio mondiale e SOMAIR (Niger), per il 63,6% di proprietà dell’Areva, 4% dell’uranio mondiale (fonte: WNA, luglio 2017) .

(30) World Nuclear Association, luglio 2017.

(31) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100.

(32) IEA, World Energy Outloook 2017.

(33) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016, ibidem.

(34) Ibidem.

(35) Attualmente le riserve totali stimate sono sui 16.130.000 tonnellate; anche presupponendo lo scenario di richiesta più elevato proposto per il 2035 dall’IAEA (93.510 tonnellate totali nel mondo), le riserve basterebbero per 170 anni. (fonte: Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100).

(36) IAEA, Estimation of Global Inventories of Radioactive Waste and Other Radioactive Materials, June 2008, p.13.

(37) https://whatisnuclear.com/waste.html.

(38) L’emivita (o tempo di dimezzamento) di un isotopo radioattivo è definita come il tempo occorrente perché la metà degli atomi di un campione puro dell’isotopo decadano in un altro elemento.

(39) I depositi ILW e LLW sono situati nel Regno Unito (LLW Repository a Drigg, in Cumbria gestito da un consorzio formato da AREVA, Serco e Studsvik UK), Spagna (El Cabril gestito da ENRESA), Francia (Centre de l’Aube gestito dall’Andra), Giappone (LLW Disposal Centre a Rokkasho-Mura gestito da Japan Nuclear Fuel Limited), USA (in 5 siti, Texas Compact vicino al confine col New Mexico, gestito da Waste Control Specialists; Barnwell, South Carolina gestito da EnergySolutions; Clive, Utah gestito da EnergySolutions; Oak Ridge, Tennessee gestito da EnergySolutions e Richland, Washington, gestito da American Ecology Corporation), Svezia (a Forsmark, in un deposito situato a 50m sotto le rive del Baltico, gestito dal Swedish Nuclear Fuel e dal Waste Management Company) e Finlandia, nel deposito di Onkalo a Olkiluoto e Loviisa, con profondità a 100 metri.

(40) http://www.posiva.fi

(41) http://www.skb.com/future-projects/the-spent-fuel-repository/

(42) Elaborazione ISPRA dei rapporti attività dei gestori impianti e ARPA/APPA, 2014.

(43) I 19 siti principali che oggi custodiscono i rifiuti nucleari sono le 4 centrali nucleari (gestiti da Sogin), 4 impianti di riciclo di combustibile esausto (gestiti da Enea e Sogin), 7 centri di ricerca nucleare (ENEA di Casaccia, CCR Ispra, Deposito Avogadro, LivaNova, CESNEF -Centro Energia e Studi Nucleari Enrico Fermi- Università di Pavia, Università di Palermo), 3 centri del Servizio Integrato ancora attivi (Nucleco, Campoverde e Protex) e 1 centro di Servizio Integrato non attivo (Cemerad).

(44) https://www.iter.org/sci/Fusion.

(45) «Tokamak» è l’acronimo russo che sta per «camera toroidale a confinamento magnetico».

(46)  https://www.iter.org/faq#collapsible_5.




Mali, LVIA, una Ong contro la guerra

Testo di Marco Bello, foto di Archivio dell’Ong LVIA |


Nel paese, in conflitto dal 2012, è crisi umanitaria. Centinaia di migliaia di sfollati, mancanza di acqua, cibo e assistenza medica. Gli attacchi sono quotidiani e le violazioni dei diritti una costante. Spuntano anche le fosse comuni di civili. In mezzo a tutto questo una Ong piemontese, la Lvia, propone la sua via per la pace. Abbiamo incontrato il suo rappresentante.

Parigi, 26 maggio 2018. Mamoudou Gassama, è un immigrato clandestino di 22 anni. Nel diciottesimo arrondissement salva un bimbo appeso a un balcone, arrampicandosi a mani nude, con l’agilità di un gatto, fino al quarto piano di un palazzo. Ricevuto all’Eliseo dal presidente francese Emmanuel Macron, gli viene immediatamente concessa la nazionalità francese e gli è proposto un lavoro come vigile del fuoco.

San Calogero (Vibo Valentia, Calabria), 2 giugno. Tre immigrati vengono presi a fucilate da un italiano. Stavano cercando vecchie lamiere in una fabbrica abbandonata per costruire baracche. Sacko Soumayla, 29 anni, regolare e sindacalista, cade a terra morto. Il giorno prima al Quirinale ha giurato il governo Lega – Movimento 5 stelle, detto «del cambiamento».

Mamoudou e Sacko, entrambi migranti, entrambi maliani. Due storie simili, due destini diversi.

Anche Ousmane ag Hamatou, 37 anni, è del Mali. Lui lavora a Bamako, la capitale, per una Ong italiana, l’Lvia di Cuneo, della quale è il responsabile nel paese africano. Ousmane non ha nessuna intenzione di migrare. È in Italia, su invito della sua Ong, per formazione e una serie di incontri, poi tornerà in patria dalla sua famiglia e al suo lavoro.

Lo incontriamo, per farci spiegare cosa sta succedendo in Mali, e per provare a capire perché, ragazzi come Mamadou e Sacko sono scappati dal paese e molti altri continuano a farlo.

Perché si scappa dal Mali

Ma facciamo un passo indietro. Il Mali, paese cerniera tra l’Africa subsahariana e il Sahara, nel 2012 precipita in una crisi profonda, dopo un ventennio di relativa stabilità (cfr. MC giugno 2017). Il Nord del paese, l’Azawad, ha visto, negli anni precedenti, l’infiltrazione di gruppi estremisti islamici (jihadisti) dall’estero, in particolare dall’Algeria, che si sono inizialmente alleati con le milizie locali indipendentiste di etnia tuareg. Insieme conquistano il territorio del Nord, occupando le città e imponendo la loro legge. I soldati regolari fuggono a Sud. Ma l’alleanza si rompe e i jihadisti hanno la meglio sui Tuareg. A gennaio 2013 puntano addirittura sulla capitale Bamako. È per questo che intervengono prontamente i militari francesi, in protezione dell’ex colonia (e dei propri interessi). L’operazione francese Sérval respinge i miliziani e riconquista le città del Nord. Islamisti e indipendentisti si rifugiano nello sconfinato territorio desertico. Quando l’operazione Barkhane sostituisce Sérval, intervengono i caschi blu, con la Minusma: missione composta da soldati africani dei paesi vicini, ma anche da un grosso contingente tedesco. Gli eserciti stranieri affiancano quello maliano, le Forze armate del Mali (Fama), che sono allo sbando.

«La situazione oggi è complessa e molto volatile – commenta Ousmane -, perché dopo la firma degli accordi di pace tra il governo e i gruppi armati nel giugno 2015 (solo alcuni dei gruppi, quelli indipendentisti tuareg non radicalizzati, ndr), c’è stata una mancanza di volontà, in primo luogo dello stato, di mettere in pratica le condizioni sancite dagli accordi stessi (L’accordo prevede, tra l’altro, la smobilitazione dei combattenti; la creazione di pattuglie miste governo – ex ribelli; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, per una definizione politica dell’Azawad).E c’è anche una certa reticenza da parte dei gruppi armati per quanto riguarda il processo di disarmo, perché le armi sono l’unica garanzia che hanno per poter fare un’eventuale negoziazione». La non applicazione degli accordi crea una situazione di vuoto istituzionale, che ha ripercussioni importanti. «Lo stato non è presente in certe zone e i gruppi armati “firmatari” non si incaricano della sicurezza territoriale. Questo fa sì che sul terreno ci sia un’avanzata delle forze islamiste, che approfittano della situazione di abbandono del territorio. Assistiamo inoltre, per lo stesso motivo, a una disgregazione dei gruppi armati in tanti gruppuscoli più piccoli, con tendenza a diventare formazioni a carattere comunitario, ovvero a base etnica. Ogni comunità si organizza e si dissocia dai gruppi principali che sono i firmatari degli accordi. Esse temono, infatti, che se un giorno ci saranno i dividendi degli accordi, non tutte le comunità rimaste nei grossi gruppi saranno soddisfatte».

Ousmane (© Marco Bello)

Molti attori sul terreno

Oltre alla Minusma e all’esercito maliano – tornato nel Nord, dove controlla oggi le città, grazie all’intervento militare francese nel 2013 – la realtà degli attori sul terreno è complessa e variabile. Racconta Ousmane: «C’è il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma), il quale costituisce l’insieme dei grossi movimenti armati indipendentisti che hanno proclamato l’indipendenza dell’Azawad, poi ci sono diversi gruppi islamisti radicali, alcuni gestiti da maliani, altri da stranieri (in particolare algerini, ndr). Oltre a questi ci sono tante piccole milizie locali, comunitarie, che son state create e contribuiscono a rendere il clima pesante. Sono anche presenti bande di malviventi che operano e ostacolano il lavoro delle Ong, rubando le loro auto e compiendo assalti. Un insieme di attori armati che rende la situazione piuttosto complessa».

La popolazione è la principale vittima di questa situazione di insicurezza e instabilità, nella quale gli assalti si susseguono quotidianamente. Continua Ousmane: «La popolazione del Nord Mali cerca di capire cosa stia succedendo, perché ci sono stati troppi cambiamenti in questi ultimi tempi. Siamo partiti nel 2012 con uno stato maliano centrale relativamente forte, per arrivare a una situazione in cui il Nord è caduto nelle mani di diversi gruppi armati, uno stato autoproclamato dell’Azawad, per poi passare a uno stato islamista, perché gli jihadisti hanno cacciato gli indipendentisti. Siamo quindi ritornati a uno stato maliano diverso da quello del 2012, appoggiato da forze straniere e delle Nazioni Unite».

Oltre alla sicurezza sono i servizi a mancare: «La violenza è a tutti i livelli, anche nei piccoli villaggi, in zone dove lo stato non esiste più e i servizi sociali di base, come l’acqua, l’educazione, la salute, non sono garantiti. Per questo motivo c’è un grande numero di sfollati, sia verso paesi confinanti sia all’interno del Mali in direzione del centro e Sud del paese». I dati delle Nazioni Unite di aprile 2018 parlano di circa 60.000 persone sfollate all’interno e 137.000 rifugiate in Burkina Faso, Niger e Mauritania.

Anche nel centro del Mali la situazione è divenuta complessa. «Le condizioni nella zona centrale non sono diverse, è la stessa crisi del Nord che avanza nel centro, con gli stessi attori. Dato che non si trova soluzione alla base, la crisi si estende anche verso il Sud e ora tocca paesi limitrofi come il Sahel burkinabè (il Nord del Burkina Faso, ndr), che è stato contagiato dalla crisi, e la frontiera con il Niger (Nord Est, ndr). È tutta un’area geografica che vede la crisi estendersi».

In particolare il centro del paese è diventato teatro di scontri tra diverse etnie (cfr. MC giugno ‘17). «La Lvia interviene a Mopti, insieme all’Ong Cisv e con finanziamenti di emergenza del ministero per gli Affari esteri italiano, appoggiando i centri di salute. La particolarità di questa zona sono gli scontri intercomunitari tra la popolazione Peulh, allevatori, che si organizza in milizie, e quella Dogon, agricoltori, che inizia a prendere le armi».

Costretti all’emergenza

Lvia lavora in Mali da 30 anni, ed essendo una Ong che si occupa di sviluppo, ha sempre lavorato su programmi di lunga durata. Ousmane ci spiega cosa è cambiato con la crisi: «Non siamo una Ong di emergenza, ovvero non andiamo di proposito in quei paesi dove c’è la guerra per intervenire, ma in Mali siamo in un contesto che conosciamo bene, abbiamo molti contatti, siamo riconosciuti dalle comunità, dagli enti locali e anche dal governo. Abbiamo fatto tesoro di questo riconoscimento e della nostra conoscenza del terreno per realizzare progetti di emergenza umanitaria. Sono programmi su temi che abbiamo sviluppato anche in contesto non di crisi, come le infrastrutture idrauliche (pozzi artesiani, ndr), per dare acqua potabile alla gente. Per noi il fatto importante che cambia, è che oggi, con la crisi, ci sono bisogni primari da soddisfare, in modo anche urgente. Ad esempio, nell’ambito della nutrizione, perché gli indicatori di malnutrizione nel Nord del paese sono piuttosto alti. Sosteniamo alcuni centri di salute, quelli ancora funzionanti, per accogliere i bambini denutriti e seguirli. Facciamo anche molta sensibilizzazione e accompagnamento delle comunità, nell’ambito della valorizzazione dei prodotti agricoli locali e la loro integrazione nell’alimentazione di base».

Non sparate sulle Ong

In un contesto di crisi, oltre alle normali difficoltà c’è anche un altro problema per le Ong, quello della sicurezza dei propri operatori. «È una grande sfida, perché occorre abituarsi a lavorare in un contesto di sicurezza imprevedibile, dove anche se le nostre organizzazioni non sono prese particolarmente di mira, operiamo in un clima nel quale tutto può succedere. Abbiamo avuto incidenti come furti di auto o assalti a mano armata. È un contesto non controllabile, per cui occorre adattare la nostra missione, i nostri interventi, ogni giorno, informandoci in modo continuo e seguendo alla lettera le raccomandazioni di sicurezza».

Politica: evoluzione?

Il Mali sta vivendo anche un periodo di transizione politica, perché il 29 luglio si terranno le elezioni presidenziali (leggerete queste righe ad elezioni avvenute; pubblicheremo un resoconto delle stesse su www.rivistamissioniconsolata.it), che però non dovrebbero portare particolari sorprese. Oltre al presidente uscente Ibrahim Boubacar Keita (detto Ibk), eletto nel 2013, favorito, sono una ventina gli altri candidati. A inizio giugno una manifestazione di una coalizione di opposizione è stata repressa sul nascere mediante l’uso di gas lacrimogeni. I manifestanti chiedevano più trasparenza e più equità sui media nazionali per la copertura della campagna elettorale.

Chiediamo a Ousmane cosa ne pensa. «Visto il clima d’insicurezza che regna nel paese, con continui attacchi, penso che il contesto non sia propizio alla tenuta di elezioni libere, trasparenti e soprattutto credibili. C’è piuttosto un’urgenza nel mettere in sicurezza il paese e migliorare le condizioni di vita della popolazione più che organizzare delle elezioni.

L’impressione è quella che chi è al potere, ma anche chi vive nel Sud del Mali, dove c’è un piccolo spazio in sicurezza e normalità, non sia molto cosciente di cosa succede nel resto del paese. Il Nord non è mai stato una priorità per le autorità centrali e lo è ancora meno adesso. Colpisce anche il fatto che si organizzino elezioni quando molta gente è fuori dal paese o dalla sua zona di residenza abituale. Non è logico organizzare delle elezioni quando la popolazione non può votare». Occorre considerare che il paese, la cui superficie è di oltre 1,2 milioni di km2 (quasi quattro volte l’Italia) ha una vasta fetta di deserto del Sahara, l’Azawad appunto, che occupa una superficie di 822.000 km2. La capitale dello stato, Bamako, si trova invece nell’estremo Sud del paese.

«Bisogna riconoscere che il presidente attuale ha assunto la carica in un momento piuttosto particolare. È arrivato nel 2013 quando il paese attraversava una crisi molto grave, difficile da gestire. Gli si può però contestare che certi impegni presi nell’ambito dell’accordo di pace non sono stati applicati. Questo è un punto importante sul quale il governo ha fallito». Il Mali è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è anche il capo dell’esecutivo. Un cambio del presidente prevede anche un nuovo governo.

«L’opinione pubblica a Bamako è molto divisa su Ibk. C’è chi pensa che questo governo, in un secondo mandato non possa fare meglio di quanto ha già fatto, altri che pensano occorra un vero cambiamento. Io personalmente, tra i candidati, non vedo nulla di nuovo, sono le stesse figure che hanno contribuito, negli anni, a portare questo paese a terra. Resta la stessa generazione di politici maliani che, ormai da decenni, non riesce a far uscire il paese da questa situazione».

Il pantano degli scontri etnici

La novità degli ultimi due anni sono gli scontri a base etnica nelle due regioni centrali di Mopti e Ségou, che nulla hanno a che vedere con l’Azawad e i Tuareg, ma dove si sono inaspriti conflitti atavici tra gli allevatori peulh e gli agricoltori dogon, con la compiacenza dei Bambara del Sud. Sovente i cacciatori bozo di etnia bambara fanno il lavoro sporco coperti dai militari.

È del giugno scorso la scoperta di almeno tre fosse comuni di civili uccisi, sembra giustiziati, anche per rappresaglie, dall’esercito maliano. Il 19 giugno, in seguito a un’operazione militare, erano scomparse 18 persone dalla località di Gassel (dipartimento di Douentza, regione di Mopti), tutte di etnia peulh. Il 20 è stata scoperta una fossa con almeno 7 corpi. Pochi giorni prima, il 15 giugno a Nantaka e Kobaka, nel comune di Sokoura, i corpi di 25 persone erano stati scoperti in tre fosse comuni. Anche loro, con tutta probabilità, peulh. Le responsabilità sarebbero dell’esercito regolare, fatto questa volta confermato da un comunicato del ministero della Difesa.

Scontri nei quali si sono insinuati gli islamisti radicalizzati, come Amadou Koufa, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, legato al capo tuareg radicale Iyad ag Ghali (lui di Kidal, nel Nord). Fronte che ha avuto come filiazione il primo gruppo di combattenti jihadisti del Burkina Faso, Ansarul Islam (cfr. MC giugno ‘17), nato nella confinante provincia del Sahel burkinabè.

Crisi senza soluzione?

In una situazione così ingarbugliata è difficile vedere una via d’uscita. Chiediamo a Ousmane, uomo del Nord, che vive in capitale e che ha una visione d’insieme, di dirci quale sarebbe, secondo lui, una pista per la soluzione. «Secondo me è difficile prevedere. L’insicurezza ha gravi ripercussioni sulla situazione umanitaria e su quella politica. Tutto è molto complesso.

La prima cosa da fare è applicare l’accordo di pace di Algeri, per cominciare a trovare una soluzione politica alla ribellione tuareg nel Nord del Mali. In questo modo si farebbe un grande passo in avanti e ci si potrebbe occupare degli altri problemi, che sono nell’insieme una conseguenza di questa  guerra.

Il presidente che arriverà dovrà prendere di petto l’applicazione di questi accordi, per farci andare avanti nella via della prosperità e della pace».

Ma i jihadisti, in particolare quelli stranieri, non hanno partecipato agli accordi. Con loro non si può negoziare? «I jihadisti non hanno nulla da negoziare. Lo hanno detto quando hanno conquistato il Nord, che non erano venuti per negoziare uno stato o una soluzione politica, erano venuti per instaurare uno stato islamico in Mali. Per cui occorre che il governo maliano trovi una soluzione politica alla situazione dei Tuareg nel Nord del Mali e a questo punto, tutti noi maliani, ci possiamo mettere insieme per combattere gli islamisti. Io penso che non resisterebbero a un Mali unito, ma nelle condizioni attuali sono loro che approfittano e creano ogni giorno il caos sulla nostra terra».

Ci sono islamisti stranieri ma anche maliani che si sono radicalizzati. In particolare il capo più importante del momento è il tuareg Iyad ag Ghali. Già leader delle grandi ribellioni tuareg dal 1991 in avanti, si è poi islamizzato, ha fondato il gruppo Ansar Dine, tra i fondatori di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), e nel 2017 ha riunito in un fronte comune diverse formazioni nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim).

«Io penso che rispetto agli islamisti maliani si possa trovare una soluzione. Secondo me, la maggior parte di loro si sono radicalizzati perché hanno visto questo passaggio come un modo per continuare la lotta politica per l’indipendenza del Nord. Se invece sentissero che c’è una reale volontà per una soluzione politica con i gruppi armati tuareg o di altre comunità del Nord, sarebbe possibile negoziare con loro. Per gli altri islamisti che non sono maliani, l’unica soluzione è combatterli. Con o senza l’appoggio delle forze straniere. Non abbiamo necessariamente bisogno di eserciti stranieri, ma è invece obbligatorio ritrovare quello che ci unisce come maliani, come nazione, e a quel punto possiamo vincere la guerra contro gli islamisti, contro il sottosviluppo, e ben altre sfide».

Marco Bello




Solo Dio può salvare il Centrafrica

Centrafrica, dal Carmel di Bangui ci scrive padre Federico Trinchero |


Il primo maggio 2018, durante la messa a Notre Dame de Fatima, – una parrocchia di Bangui capitale della Repubblica Centrafricana (Centrafrica) – un gruppo di miliziani ha lanciato un attacco con granate sui fedeli. Sedici i morti – tra i quali il sacerdote – e un centinaio i feriti. È l’ennesimo atto di una guerra di potere iniziata nel 2012, e che è stata trasformata in conflitto etnico-religioso. La testimonianza di un missionario a Bangui.

«Nei momenti più difficili emergono degli eroi e non dubito che degli eroi esistano nel Centrafrica per alzarsi, come un solo uomo, per dire no alla violenza, no alla barbarie, no alla distruzione di se stessi». È questo l’appello che l’arcivescovo di Bangui, il cardinale Dieudonné Nzapalainga, ha rivolto alla capitale e all’intera nazione in questi giorni drammatici, carichi di tensione e di tristezza.

Cos’è successo a Bangui?

La mattina del primo maggio, durante una celebrazione nella parrocchia di Notre Dame de Fatima (a poca distanza dal nostro convento), un gruppo armato proveniente dal quartiere Km5 (Pk5 è un’enclave a maggioranza musulmana, da anni il focolaio principale delle tensioni della capitale) ha aperto il fuoco sulla gente in preghiera provocando 16 morti e un centinaio di feriti. L’incursione è avvenuta come rappresaglia in reazione a un tentativo da parte delle forze dell’ordine di catturare alcuni elementi di questo gruppo armato che, di fatto, tiene in ostaggio la capitale e alcuni degli stessi musulmani del quartiere.

I fedeli a Fatima avevano appena proclamato la loro fede e stava per iniziare l’offertorio. Ma la messa è continuata con il sacrificio di sedici cristiani, tra i quali un sacerdote, l’abbé Albert Tungumale Baba. Lo scontro è poi continuato per giorni in altri quartieri della città provocando altri morti, altri feriti e la distruzione di due moschee.

nella Repubblica Centrafricana un massacro tira l’altro

L’episodio del primo maggio, che ha ferito e lasciato quasi incredula l’intera città, è avvenuto inoltre a poche settimane dell’uccisione a Séko (nel centro del paese) di un altro sacerdote, l’abbé Désiré Angbabata, insieme a undici suoi parrocchiani (assassinio avvenuto il 21 marzo 2018).

L’abbé Albert, settantun anni, tra i sacerdoti più anziani del clero di Bangui, era un pastore stimato e conosciuto per la sua semplicità e simpatia, e soprattutto per la sua opera discreta e infaticabile in favore della riconciliazione tra cristiani e musulmani. Durante le fasi più acute della guerra aveva accolto per diversi anni, nella sua parrocchia vicinissima al Km5, migliaia di profughi provenienti dai quartieri vicini. L’abbé Albert, inoltre, era a tutti noto per il suo grande amore per il sango, la lingua nazionale della Repubblica Centrafricana, non particolarmente ricca di vocaboli. L’abbé Albert riusciva a tradurre ogni parola (senza usare il francese), con soluzioni geniali o giri di parole divertenti. Una volta, mentre eravamo in macchina insieme, tradusse pure il mio nome, decretando che mi si doveva chiamare Bwa (che in sango significa sacerdote) Federiki.

Salvare il Centrafrica

In un’intervista l’abbé Albert aveva detto che solo Dio può ormai salvare il Centrafrica. Non aveva tutti i torti. A salvare il Centrafrica ci hanno provato, e ci stanno ancora provando, in tanti: l’esercito nazionale, le truppe dell’Unione africana, la missione francese (che ha comunque il grande merito di aver impedito che il conflitto diventasse un massacro), i soldati dell’Unione europea, poi la Minusca, la grande missione dell’Onu (che, pur con tutti i suoi limiti, resta al momento l’unica soluzione possibile) e ora sono all’orizzonte anche i russi. Ci ha provato pure papa Francesco che, con la sua visita nel novembre del 2015, era riuscito a regalare una tregua sufficiente per eleggere democraticamente un nuovo presidente. Con il tempo, purtroppo, l’effetto di quella visita è come svanito e l’occasione di voltare pagina è stata per l’ennesima volta sprecata. Gli scontri si sono moltiplicati su tutta l’estensione del paese e quella pace, che avevamo appena accarezzato, sembra quasi più lontana di prima.

AFP PHOTO / FLORENT VERGNES

Una guerra, perché?

Perché è iniziata questa guerra? E perché sembra impossibile arrestarla? Le guerre sono sempre complesse, iniziano per tanti motivi ed evolvono nel tempo. Anche per chi abita qui da anni è difficile spiegare le vere ragioni del conflitto e, ancor di più, suggerire la soluzione giusta per spegnere l’incendio evitando che si propaghi ora qui, ora là – quasi come i fuochi della savana – lasciando solo morti, distruzione, paura e scoraggiamento. Attualmente i due campi avversari non sono neppure così nettamente distinguibili, come nei primi anni della guerra, tra Seleka (la coalizione delle milizie a maggioranza musulmana, tra cui anche mercenari di altri paesi) e gli anti-balaka (le milizie di autodifesa, sorte a difesa della popolazione del paese, a maggioranza cristiana, ma dalle quali i vescovi hanno sempre preso le distanze). La Seleka è ufficialmente sciolta. Ogni gruppo di ribelli ha il suo capo, i suoi obiettivi e la sua zona d’influenza (ad esempio l’Unione per la pace in Centrafrica è il gruppo che ha compiuto l’attacco a Séko, ndr). Non c’è più quella guerra casa per casa, quartiere per quartiere che Bangui aveva conosciuto nel 2013 e nel 2014. Ora si tratta di battaglie che hanno per protagonisti gruppi di autodifesa, i soldati dell’Onu o le forze dell’ordine. Tre quarti del paese sono come fuori dal controllo dell’autorità dello stato.

AFP PHOTO / FLORENT VERGNES

Guerra per le risorse

La guerra nel Centrafrica, iniziata di fatto già nel 2012, non è uno scontro confessionale o etnico. Si tratta piuttosto dell’ennesimo conflitto per la conquista del potere e per lo sfruttamento delle ricchezze di cui abbonda il sottosuolo (ad esempio i diamanti, ndr). Purtroppo, l’elemento confessionale si è inserito violentemente, avvelenando quella convivenza tra cristiani e musulmani che faceva del Centrafrica – in un tempo ormai lontano – un esempio di coabitazione pacifica. Seko e Fatima confermano che per ritornare alla situazione precedente la strada è ancora lunga.

Durante l’omelia, in occasione dei funerali del sacerdote ucciso e di alcune delle vittime, il cardinale di Bangui ha messo tutti con le spalle al muro denunciando l’inerzia del governo, la lentezza dell’Onu e il rischio che i cristiani cedano allo sconforto o, peggio ancora, alla logica della violenza e della vendetta. C’è un nemico insidioso che sta distruggendo il Centrafrica. E questo nemico, ha scandito il Cardinale, è il diavolo. Solo le armi della fede possono vincerlo.

Bangui, ferita al cuore della sua fede, non è arrabbiata con Dio. È arrabbiata piuttosto con quegli uomini che non vogliono la pace e, quasi obbedendo a un’agenda nascosta, si ostinano a bloccare il paese, come se fosse ineluttabilmente condannato alla miseria e alla guerra. Bangui e tutto il Centrafica sono in cerca di eroi – tra i governanti, i soldati, i giovani – che si alzino come un solo uomo e dicano no alla guerra e sì alla pace.

Federico Trinchero*

carmelitano scalzo, è missionario in Rca e superiore del convento Notre Dame du Mont Carmel di Bangui. Avevamo scritto di lui nel luglio del 2014.


La voce del cardinale Dieudonné Nzapalainga

AFP PHOTO / SAMIR TOUNSI

Dobbiamo essere le sentinelle

In seguito al massacro di Fatima, e al linciaggio di due musulmani per rappresaglia, il cardinale Dieudonné Nzapalainga invita alla calma: «Cosa abbiamo fatto di questo paese? Colpi di stato, ammutinamenti, ribellioni a ripetizione. I risultati sono davanti a noi: abbiamo morti, saccheggi e distruzione. Gli ultimi drammatici avvenimenti ci ricordano che la violenza non porta soluzioni ai nostri problemi».
Pubblichiamo parte della sua predica al funerale delle vittime del primo maggio.

Cari fratelli e sorelle,
l’arcidiocesi di Bangui è in lutto. Piange i suoi figli. Le nostre lacrime non si fermano da quando abbiamo saputo dell’atto terroristico, barbaro, commesso alla parrocchia Notre Dame de Fatima, durante la grande celebrazione eucaristica del primo maggio scorso. Un sentimento di tristezza, di collera, di desolazione abita il nostro cuore e ci fa sprofondare in una dura prova. Che fare?
Dopo alcuni momenti di preghiera e di riflessione, abbiamo la certezza che il Signore non abbandona mai coloro che credono in lui. Nei momenti di grande tribolazione viene in loro soccorso per liberarli, consolarli, medicare le loro ferite e asciugare le loro lacrime. Ecco perché abbiamo scelto di tenere gli stessi testi liturgici letti a Fatima. Non chiudiamo il nostro cuore, ma ascoltiamo la voce del Signore che ci parla, perché lui solo è nostro rifugio, nostra salvezza.
Nella prima lettura, Paolo ha subito l’aggressione dei giudei venuti da Antiochia. L’hanno lapidato e portato fuori dalla città pensando che fosse morto. Il loro piano era di mettere fine all’annuncio della Buona novella in quella città. Per questo, occorreva uccidere Paolo. Ma hanno fallito. Il testo continua: «Il giorno successivo con Barnaba, Paolo parte per Derbé. Annunciarono la Buona novella … e fecero un buon numero di discepoli». […]
Questo testo è una vera profezia. L’abbé Tungumale Baba è stato aggredito, ucciso. Il suo corpo trascinato nella città di Bangui. I suoi aggressori hanno pensato di aver vinto. No, non potranno mai eliminare la Chiesa cattolica. Non potranno mai mettere fine all’annuncio della Buona novella a Fatima. Paolo dopo l’aggressione diceva: «Dobbiamo passare molte prove, per entrare nel regno di Dio». Sì, nel nome della nostra fede, l’abbé Tungumale Baba e gli altri fedeli che hanno trovato la morte a Fatima, hanno vissuto le loro prove e sono oggi nel regno di Dio.
Nel Vangelo proclamato Gesù diceva ai suoi discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non è alla maniera del mondo che ve la do. Che il vostro cuore non sia sconvolto né spaventato». Ecco un’altra frase profetica che descrive la situazione che viviamo. Tutti noi siamo sconvolti. Tutti noi siamo spaventati. Il nostro vivere insieme, la nostra coesione sociale, la nostra unità nazionale è stata violata e rimessa in questione dai nemici della pace.
L’ora è grave, perché la crisi è profonda e multidimensionale, con aspetti nascosti, di chi tira i fili, nell’ombra, e chi non ha alcuna considerazione per l’uomo. I nemici della pace hanno il loro piano; è per questo che dobbiamo essere vigilanti per non cedere ad alcuna manipolazione. Dobbiamo prendere le distanze e giocare il nostro ruolo di sentinelle, di vedette, di chi guarda lontano e agisce con prudenza e virtù.
Il discorso di papa Francesco durante la sua visita a Bangui, può aiutarci a capire la nostra crisi. Il papa afferma che la violenza è un’azione del diavolo; le persone cadono sotto il potere del male: «Tutte le nostre comunità soffrono indistintamente dell’ingiustizia e dell’odio cieco che il diavolo libera», diceva il santo Padre. Per conseguenza, noi siamo impegnati in una battaglia spirituale […]. Il diavolo si scatena contro di noi, perché siamo la capitale spirituale del mondo. La prima Porta santa del giubileo della misericordia, la terra benedetta da Dio. Noi andiamo a combattere e vincere con le armi della fede. Per questo facciamo nostre le raccomandazioni di san Paolo […].

Padre Federico, Natale 2014, nel campo profughi del convento dei Carmelitani di Bangui.

A coloro che ci governano noi esprimiamo la nostra riconoscenza per gli sforzi fatti nella formazione dei nostri militari. D’altronde noi vi lanciamo questo appello: prendete in maniera risoluta e determinata la vostra responsabilità. Il popolo soffre e chiede protezione. Domani rischia di essere tardi. Il nemico che abbiamo di fronte non ha pietà per nessuno. È pronto a colpire ad ogni occasione. Il ritardo nell’intervento ha lasciato il campo libero al nemico. Noi contiamo i nostri morti e i nostri feriti. Vi chiedo di rivedere il vostro sistema di difesa e la vostra strategia per un’azione coordinata ed efficace delle nostre forze di difesa nazionale.
Alla comunità internazionale, e in particolare alla Minusca (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Centrafrica, ndr): noi vi ringraziamo per la vostra presenza al capezzale della nazione centrafricana, e l’appoggio al processo di pace in corso. Ciò nonostante vogliamo attirare la vostra attenzione sulla lentezza degli interventi e la mancanza di professionalità di certi contingenti. Noi sappiamo che voi avete efficaci mezzi di comunicazione. Quando sentite il nostro Sos, per favore, venite presto per proteggerci e salvarci. E siamo convinti che Dio ci darà la forza di fare sempre meglio. Noi vi reiteriamo il desiderio della popolazione di vedere una buona coordinazione tra la Minusca e le forze di difesa nazionale. Assumetevi la vostra responsabilità, in nome di Dio.

Cari fratelli e sorelle, certo abbiamo perso dei cari membri della nostra famiglia, ma teniamo le testimonianze viventi del loro passaggio in mezzo a noi. […]
Figlio mio Baba, ci mancherai. Ho di te il ricordo di un pastore instancabile che amava il suo ministero. Un prete umile. Non una sola volta ti ho visto in collera. Tu accettavi volentieri gli scherzi dei tuoi confratelli. Il tuo amore per il sango (la lingua africana più diffusa, ndr) ci appassionava. Tu eri un prete coraggioso. Amavi l’Eucarestia e la celebravi ogni giorno. In carica nella Commissione diocesana giustizia e pace, operavi per il dialogo interreligioso e per la pace. Hai fatto la scelta di abitare in una casa molto vicina alla tua parrocchia, anche se questa abitazione era vicina a Km5. Sì, figlio, tu hai vissuto quello che predicavi.
Il Signore ti ha dato la grazia. Hai trovato la morte durante la celebrazione dell’Eucarestia che amavi. Il Vangelo proclamato quel giorno parlava della pace per la quale tu operavi. Fedele servitore, entra nella gioia del tuo maestro. […] Non dimenticarti della tua famiglia. Due giorni prima di morire, a un funerale, all’omelia dicevi di non aver paura della morte, ma di considerarla come un’amica, perché ci permette di vedere Dio. […]

Liberamente tradotto da Marco Bello

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Afghanistan: Sulle tracce degli Hazara, Storia di una persecuzione

Reportage. Testo e foto di Angelo Calianno |


Quella dell’Afghanistan è una delle tante (troppe) guerre dimenticate. Kabul torna, per pochi istanti, nei telegiornali soltanto in occasione di qualche attentato o quando un profugo afghano approda sulle nostre coste. In questo reportage si racconta del genocidio degli Hazara, etnia di fede sciita. Da secoli discriminati, la loro condizione è peggiorata con il dominio dei Pashtun e con l’arrivo dei talebani e dell’Isis, tutti di fede sunnita.

Bamiyan, 2 marzo 2001.I talebani arrivano con i loro pickup sulla strada principale di Bamiyan, di quella che era la via dei bazar, ormai non rimane altro che rovine e polvere. Sono due anni che gli estremisti hanno preso il controllo di questa zona del massiccio centrale afghano. Qui la popolazione, prevalentemente di etnia hazara, convive con assassinii e violenze quotidiane. I talebani entrano nelle case, trascinano fuori i civili giustiziandoli per strada, davanti agli occhi dei loro cari. Oggi è un giorno ancora diverso, oggi un’ulteriore ferita sarà inflitta a questa terra martoriata. Da circa venti giorni i talebani costringono gli Hazara a perforare le due enormi statue di Buddha, simboli di questa terra e patrimonio mondiale dell’Unesco. Due sculture giganti di 38 e 55 metri presenti qui da circa 1.700 anni. Per secoli il sito è stato meta di pellegrinaggi per i buddhisti di tutto il mondo, le descrizioni delle statue compaiono nei diari di viaggio dei mercanti sulla via della seta e in quelle dei pellegrini cinesi in visita nel 1600.

Una volta completati i fori, i talebani vi piazzano la dinamite e fanno saltare i Buddha. Le statue crollano su se stesse. Una nuvola di polvere avvolge quello che rimane del sito archeologico distrutto in piccoli frammenti di roccia, e, una volta diradata, mostra solo due enormi nicchie semivuote.

I talebani esultano ma, non contenti, radunano venti persone, tutte di etnia hazara, le mettono in  fila davanti al luogo prima occupato dalle statue, e sparano alla nuca di ciascuna. Lasciano i cadaveri lì. È vietato seppellire i corpi per almeno tre giorni: «Serve da monito per gli altri», dicono. Lasciano una pattuglia di ronda su un pickup e si ritirano a prendere un tè nelle case che da due anni abusivamente occupano.

Kabul, 6 dicembre 2017.

È difficile per noi oggi immaginare tutto quest’astio verso un popolo, verso un’etnia, eppure qui continua ogni giorno. Dagli attacchi dei talebani a quelli dell’Isis, i bersagli sono molto spesso i musulmani sciiti, in questo caso gli Hazara.

Quando in Occidente si parla di Afghanistan e di afghani, si tende ad avere un’immagine stereotipata in mente: un uomo dai tratti somatici marcati, barba lunga, carnagione scura. Le cose non stanno esattamente così.

L’immagine che tutti hanno presente è quella dei Pasthun, solo una delle etnie afghane che convive insieme a Tagiki, Uzbeki e, ultimi nella scala sociale, gli Hazara.

Hazara letteralmente vuol dire «mille». Fino al 1880 rappresentavano il 67% di tutta la popolazione afghana, oggi, approssimativamente, il 22%. La tragica riduzione del loro numero è il risultato di uccisioni di massa e fughe in nazioni vicine come il Pakistan (altro luogo dove sono comunque perseguitati) o in qualsiasi altro paese nel quale si possa trovare rifugio. Da molti organi di controllo, come Human Rights Watch, lo sterminio degli Hazara è stato riconosciuto come un vero e proprio genocidio.

I pretesti per un genocidio

L’origine di questo popolo è ancora incerta. Fisiognomicamente gli Hazara sono diversi dalle altre etnie afghane: naso schiacciato e occhi a mandorla, sono più simili agli abitanti delle steppe asiatiche.  Questo è stato uno dei primi motivi della loro discriminazione. Chi da sempre li perseguita, tende a considerarli discendenti delle orde mongole di Gengis Khan arrivate su queste montagne nel 1300. Gli storici hazara, al contrario, affermano di essere originari dell’Afghanistan molto prima di tutte le altre popolazioni. Ma la presunta discendenza mongola non è il problema maggiore per gli Hazara, la principale ragione del loro genocidio o forse il pretesto più usato, è quello religioso: gli Hazara sono sciiti in un paese a maggioranza sunnita.

Prima del regno di Amir Abdul Rahman, durato dal 1880 al 1901, gli Hazara occupavano posizioni importanti. Erano proprietari terrieri e ricchi allevatori. Una volta arrivato al potere Rahman (di etnia pashtun) le tribù sunnite, allora in minoranza, perpetrarono una serie di attacchi e assassinii ai danni degli sciiti.

I Pashtun occuparono le terre più fertili e si impadronirono del bestiame, così la maggior parte degli Hazara emigrò nelle aree più inospitali e difficili da coltivare, la zona del massiccio centrale con capitale Bamiyan, dove risiedono oggi.

Un dato interessante rilevato da alcuni storici è che, prima del regno di Rhaman, la concentrazione maggiore degli Hazara si riscontrava nella zona di Kandahar, oggi completamente pashtun nonché una delle maggiori roccaforti talebane. Se questo dato fosse corretto, proverebbe che quella terra soprannominata oggi «Hazaristan» (o Hazarajat), è solo un luogo dove gli Hazara furono costretti a muoversi molti secoli dopo l’arrivo di Gengis Khan, questo sfaterebbe la teoria della discendenza mongola.

Sotto il regime di Rhaman si tocca l’apice del genocidio, circa il 60% di tutta la popolazione hazara viene eliminata. In questo periodo, in questi anni nasce anche il detto pasthtun, tristemente famoso, che recita: «I Tagichi in Tagikistan, gli Uzbechi in Uzbekistan e gli Hazara in goristan», goristan vuol dire cimitero. Agli inizi del ‘900 metà degli Hazara è quasi scomparsa, quelli rimasti sono relegati alle mansioni più umili: pastori, domestici, spesso veri e propri schiavi.

Si avvia così in tutto il paese un processo di «pashtunizzazione» e tutta l’area dell’Hazarajat  viene tenuta ai margini dello sviluppo nazionale, senza infrastrutture, priva di strade e grandi vie di comunicazione. Fino agli anni ’70 nelle scuole sunnite si propaganda lo sterminio degli Hazara. Gli insegnanti predicano che l’uccisione di qualsiasi Hazara garantisce l’accesso al paradiso.

Arrivano i sovietici

Nel 1979 la Russia invade l’Afghanistan, la persecuzione si placa, c’è un altro nemico contro cui combattere e così, per circa dieci anni, paradossalmente gli Hazara vivono in pace in uno stato in guerra. Anzi, molti di loro combattono fianco a fianco con i mujaidin contro i russi, mostrando grande coraggio.

Scappati i russi però le persecuzioni riprendono. A parte rari casi in cui la presenza di Human Right Watch e Amnesty International registra le uccisioni, non esistono nemmeno documenti ufficiali che attestino gli omicidi di massa. Addirittura anche Ahmad Shah Massoud, il comandante mujaidin ed eroe afghano nella guerra contro i sovietici, viene accusato di aver ordinato diverse rappresaglie ai danni degli Hazara. Le stragi continuano ancora oggi: sono tantissimi gli attacchi recenti in tutto l’Afghanistan. Solo nell’ultimo anno a Kabul, sono stati colpiti due centri culturali e tre moschee sciite, tutte frequentate da Hazara. Questi attentati hanno causato la morte di novantacinque persone e il ferimento di altre centinaia.

Dominio pashtun

Amir è un antropologo originario delle zone rurali attorno a Bamiyan. I talebani, nei primi anni del loro regime, uccisero gran parte della sua famiglia e così lui, con i parenti superstiti, si rifugiò in Pakistan. È tornato in Afghanistan solo tredici mesi fa per lavorare in una tv locale. Lo incontro a Kabul, in un ristorante frequentato solo da Hazara. Mi racconta: «Siamo un popolo pacifico, lo scoprirai quando andrai a vedere Bamiyan e le sue splendide montagne, non è una coincidenza che di tutto l’Afghanistan, quella sia l’unica parte sicura al momento». Perché più sicura?, gli chiedo. «Perché lì sono tutti hazara. Sono i Pashtun a fare la guerra. I talebani sono tutti pashtun, le gang armate sono tutte pashtun, quelli che ci hanno perseguitato sono sempre stati i Pashtun. Ci sono stati anche i Tagiki e gli Uzbeki, che a volte hanno preso parte ai massacri, ma penso sia avvenuto solo per entrare nelle grazie di chi comandava, che erano sempre pashtun».

Amir è quasi incredulo quando gli dico che in Italia, quasi tutti, quando pensano a un uomo afghano, hanno in mente l’immagine del Pashtun e che quasi nessuno sa chi siano gli Hazara. «A me sembra quasi impossibile essere ignorati così. Siamo uno dei popoli più perseguitati della storia. Siamo rimasti in pochissimi: è stato un vero e proprio genocidio».

Gli chiedo il perché. «La religione è una buona scusa per controllare chi deve compiere l’atto materiale dell’omicidio o dell’attacco suicida, com’è successo di recente a Kabul. I sunniti non ci considerano veri musulmani, nemmeno veri esseri umani a dire il vero, ed è risaputo che alcuni di loro hanno fatto voto di eliminarci tutti. Molti di noi hanno già pagato con la vita. Ma la ragione storica è più tribale che religiosa. Le tribù hazara erano numerose, pacifiche e lavoratrici, avevano molte terre da coltivare e migliaia di capi di bestiame. Le prime persecuzioni avvennero per avidità e conquista, si sono protratte fino ad oggi, ma sono certo che, se chiedi a un Pashtun del perché ce l’ha tanto con gli Hazara, non ti saprà dare un valido motivo. Io sono dovuto scappare in Pakistan ma nemmeno lì siamo trattati bene. Ci insultavano ed eravamo oggetti di violenze quotidiane. Agli inizi degli anni 2000 però, non c’era molta scelta, con la mia famiglia dovevamo decidere se morire in Afghanistan o essere bersagliati dal razzismo in Pakistan. La scelta è stata semplice».

Verso Bamiyan, 15 dicembre 2017.

Quando parto per Bamiyan, decido di farlo via terra, ma a un certo punto devo ritornare indietro: la strada che collega Kabul con Bamiyan è occupata dagli scontri tra talebani e militanti dell’Isis, entrambi sunniti ma entrambi interessati al controllo dei campi d’oppio.

Finalmente, con un piccolo aereo da quaranta posti, arrivo a Bamiyan, capoluogo di circa 100 mila abitanti, quasi tutti hazara. La città vecchia oggi è un luogo spettrale, bellissimo e ferito. Siamo nel cuore delle montagne afghane, un’aria sottile a 2.500 metri d’altezza, cime innevate e «case grotta» scavate nella roccia, dove ostinatamente molti continuano a vivere. La prima cosa visibile sono le enormi nicchie vuote dove prima c’erano i Buddha, e poi una lunghissima strada fatta di macerie, resti di colonne, resti di archi: era la strada dei bazar, il cuore pulsante di Bamiyan, oggi solo una strada polverosa. A parte le famiglie che continuano a vivere nelle grotte, il nucleo abitativo si è spostato tutto a valle dove sono sorte nuove case, lasciando la zona storica ancora più abbandonata.

Haji è un uomo di quarantacinque anni ed è stato testimone delle violenze sotto il regime talebano, mi guida attraverso le rovine dei Buddha: «Non abbiamo perso solo le due grandi statue di Buddha quel giorno, ma tantissimi altri reperti, affreschi e grotte dove anticamente vivevano i monaci buddhisti. Prima dei talebani molte delle case grotta erano ancora occupate, poi hanno distrutto tutto. I talebani entravano nelle case, trascinavano fuori gli uomini e a volte anche i ragazzini più grandi e li uccidevano, senza dire nulla, senza un motivo preciso. Qui ne abbiamo contati almeno 300, ma se consideriamo tutti i villaggi, parliamo di migliaia di persone. Sarei dovuto morire anche io in quei giorni, trascinarono fuori anche me, urlavano che non eravamo musulmani. Mia moglie mostrò il sacro corano ma loro lo gettarono via. Quando sentii la pistola puntata dietro la nuca cominciai a pregare e a parlare in pashtun, che avevo imparato lavorando a Kabul. Mi ha salvato quello. Uccisero tutti gli altri in ginocchio accanto a me, altre diciassette persone davanti ai miei occhi».

Gli Hazara non solo sono diversi nei lineamenti del viso e nella fede, ma anche per il ruolo delle donne all’interno della comunità. Qui, pur vivendo ai limiti della povertà, le donne studiano, lavorano, indossano il velo ma non il burqa. Camminando nei pressi dell’università, le ragazze mi salutano e alcune si fermano addirittura a chiacchierare con me, cosa che sarebbe impossibile in città come Kandahar e la sua provincia.

Grazie all’intervento di alcune organizzazioni non governative, pian piano gli Hazara stanno rialzando la testa. I giapponesi hanno costruito le strade, olandesi e tedeschi hanno donato soldi all’università e ai piccoli allevatori con il sistema del microcredito. Finalmente questa gente comincia ad avere una voce, pur rimanendo di fatto la più povera di tutto l’Afghanistan. I giovani hazara sono coscienti della loro storia e hanno un grande senso di rivalsa che li fa eccellere nello studio e nel lavoro.

Una di queste giovani è Najiba, una ragazza di ventidue anni che oggi fa la documentarista per l’Ong francese Geres. È originaria di Bamiyan ma per lavoro si è dovuta spostare a Kabul. Mi racconta: «Siamo molto poveri qui ma le donne hazara non sono discriminate come in tante famiglie pashtun. Non ho mai avuto impedimenti dalla mia famiglia che mi ha sempre incoraggiato. Tramite la scuola ho cominciato a lavorare in una radio locale qui a Bamiyan quando avevo solo tredici anni. Mi sono innamorata del mondo della comunicazione e appena ho potuto, a diciotto anni, ho comprato una telecamera, ho preso delle lezioni di giornalismo e fotografia. I miei primi lavori sono stati proprio sulle donne che vivono qui nelle case-grotta. Per me, donna e hazara, è stato facile avvicinarmi, ma soprattutto è stato importante raccontare la loro storia».

Subito dopo i talebani, con il governo di Karzai, sono arrivati i primi rappresentanti hazara in parlamento. Oggi sono diversi i candidati che proveranno a far sentire la propria presenza nelle prossime elezioni di luglio.

Malgrado questo però, né questo governo, né quello precedente, né tantomeno gli organi internazionali, hanno mai intrapreso un’azione decisa contro la persecuzione degli Hazara: tutti condannano quello che accade a parole ma nessuno si è mai schierato apertamente a loro difesa.

Angelo Calianno
(dall’Afghanistan tra il novembre 2017 e gennaio 2018)


Nella Repubblica islamica

Dove il papavero regna sovrano

Incertezza politica, presenza di truppe straniere, gruppi terroristici, nella Repubblica islamica dell’Afghanistan la sola risorsa certa rimane il papavero da oppio.

L’Afghanistan è oggi un paese di 34 milioni e 66 mila abitanti. I gruppi di nazionalità afghana, al di fuori dell’Afghanistan, si trovano per ordine di numero in: Pakistan, Iran e India.

Il presidente attuale è Ashraf Ghani, di etnia pashtun, eletto nel 2014. A luglio 2018 si dovrebbero tenere le elezioni del parlamento a lungo rinviate. La sicurezza nazionale oggi è affidata alle forze di sicurezza afghane ma, vista la loro inadeguatezza, le operazioni sono ancora supervisionate dagli Stati Uniti, principalmente di stanza a Kabul e Kandahar. Le forze della coalizione Isaf (International Security Assistance Force), di base a Herat e Mazar I Sharif, il 28 dicembre 2014, dopo 13 anni di attività, sono state sostituite da quelle di Sostegno Risoluto (Resolute Support Mission), missione sostenuta dalla Nato.

La sicurezza è il primo problema dell’Afghanistan, un paese che si trova a fronteggiare trafficanti di oppio, attacchi di gruppi talebani, volti a destabilizzare il governo per un loro possibile ritorno, e gli attentati dell’Isis.

Le risorse principali dell’Afghanistan sono: l’allevamento di bovini e ovini, giacimenti di carbone, rame, petrolio e gas naturale. Molto importanti sono le miniere di smeraldi che si trovano nella valle del Panjshir. Nonostante queste attività, la più redditizia rimane però quella della coltivazione del papavero da oppio, coltivazione che aumenta il problema della corruzione e degli scontri (soprattutto tra talebani e Isis) per prenderne il controllo.

L’Afghanistan è una Repubblica islamica. Il 99% dei suoi cittadini sono di fede islamica, di questi circa il 7-15% sono sciiti.

A.Cal.

Fonti: Norwegian Afghanistan Committee, Human Rigth Watch, Deagostini Geografia.


Un conflitto interminabile

Cronologia essenziale dal 2001 al 2018

Dal bombardamento statunitense del 2001 agli attentati dei talebani e dell’Isis, l’Afghanistan rimane un paese senza pace.

  • 2001, Ottobre – Dopo l’attacco dell’11 settembre, gli Stati Uniti decidono di bombardare l’Afghanistan. Subito dopo i bombardamenti, i soldati entrano nel paese con una coalizione armata anti-talebana.
  • 2001, Dicembre – Hamid Karzai giura come capo di un governo temporaneo.
  • 2002, Gennaio – Per combattere i talebani, alle forze armate statunitensi si unisce il primo contingente di caschi blu dell’Onu e una coalizione internazionale denominata International Security Assistance Force (Isaf).
  • 2002, Giugno – Il Gran Consiglio (Loya Jirga) elegge ufficialmente Hamid Karzai come capo dello stato. Karzai in seguito sceglie i membri della sua amministrazione.
  • 2003, Agosto – Data la precarietà della sicurezza in Afghanistan, l’emergenza umanitaria dovuta agli attacchi dei talebani e ai bombardamenti americani, la Nato prende il controllo delle operazioni di sicurezza a Kabul: è la prima operazione di questo tipo che avviene fuori dall’Europa.
  • 2004, Novembre – Nelle elezioni presidenziali, viene dichiarato vincitore Hamid Karzai.
  • 2005, Settembre – Per la prima volta in 30 anni, gli afghani votano per le elezioni parlamentari.
  • 2006, Ottobre – Dopo Kabul, la Nato assume il controllo della sicurezza in tutto l’Afghanistan.
  • 2007, Agosto – Le Nazioni unite riportano che, da dal 2001, cioè dall’ entrata in guerra degli Stati Uniti e delle forze della colazione, si è registrato il più alto numero di produzione di oppio nel paese.
  • 2008, Luglio – Un attacco suicida all’Ambasciata indiana uccide 50 persone.
  • 2008, Settembre – Il presidente Usa Bush rinforza la presenza dei soldati americani in Afghanistan con altri 4.500 soldati.
  • 2009, Febbraio – La Nato aumenta la sua presenza militare con altri 17.000 soldati.
  • 2009, Agosto – I talebani cercano di sabotare le elezioni presidenziali e provinciali con diversi attacchi.
  • 2009, Ottobre – Karzai viene dichiarato nuovamente presidente dopo che il suo oppositore, Abdullah Abdullah, decide di ritirare la sua candidatura.
  • 2009, Dicembre – Il presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, aumenta il contingente dei soldati americani da 30 mila a 100 mila soldati, dichiara inoltre che a partire dal 2011 ci sarà un parziale ritiro delle truppe. Nello stesso mese, un uomo di Al Qaida uccide 7 agenti della Cia nel campo militare americano di Khost.
  • 2010, Febbraio – La Nato sferra la sua maggiore offensiva da quando è in Afghanistan: l’operazione Moshtarak. L’attacco mira a controllare la parte meridionale del paese.
  • 2010, Settembre – Lo spoglio delle schede delle elezioni parlamentari sono nuovamente sabotate da violenti attacchi talebani che causano ritardi nei risultati.
  • 2011, Settembre – Il governatore di Kandahar, Ahmad Wali Karzai, fratello del presidente, viene assassinato dai talebani.
  • 2011, Dicembre – 58 persone, quasi tutte di etnia hazara, vengono uccise in un attacco simultaneo a due moschee sciite a Kabul e Mazar I Sharif.
  • 2012, Gennaio – I talebani accettano di intavolare una trattativa con gli Usa e il governo afghano a Dubai.
  • 2012, Marzo – Il sergente americano Robert Bales viene accusato di aver ucciso 16 civili durante un’operazione militare a Panjwai, nel distretto di Kandahar.
  • 2012, Aprile – I talebani annunciano «l’offensiva della primavera», una serie di attacchi contro il quartiere delle ambasciate a Kabul.
  • 2012, Maggio – La Nato annuncia che ritirerà le proprie truppe nel 2014. Il presidente francese Hollande decide di anticipare il ritiro dei soldati francesi alla fine del 2012. L’ex talebano Arsala Rahmani, membro del Gran Consiglio di pace, viene assassinato, i talebani declinano qualsiasi responsabilità per l’attentato. Arsala Rahmani era un uomo chiave per il dialogo nelle trattative di pace.
  • 2013, Giugno – L’esercito afghano prende in consegna le operazioni di sicurezza precedentemente sotto il comando della Nato. Il presidente Karzai rinuncia alla mediazione degli Stati Uniti nelle trattative di pace e annuncia un piano per dialogare direttamente con i talebani.
  • 2014, Gennaio – Una squadra di attentatori suicidi talebani attacca un ristorante nel quartiere delle ambasciate a Kabul. L’attentato uccide 13 stranieri.
  • 2014,?Aprile – Le nuove elezioni presidenziali, che vedono in competizione Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani, si concludono con un nulla di fatto. Nel secondo turno di votazioni 50 persone rimangono uccise durante le proteste e gli incidenti.
  • 2014, Settembre – Dopo scontri e accuse di brogli, sotto la mediazione degli Stati Uniti i due candidati alla presidenza firmano un accordo di collaborazione. Ashraf Ghani giura come nuovo presidente dell’Afghanistan.
  • 2014, Dicembre – Nonostante nel paese la violenza non si sia mai attenuata, dopo 13 anni di missione, l’Isaf abbandona l’Afghanistan. Tuttavia, le forze internazionali mantengono nel paese 12.000 unità per addestrare le forze armate afghane: è la missione Resolute Support. Nello stesso mese emerge nell’Est del paese un nuovo gruppo terroristico: lo Stato islamico. In pochi mesi prende il controllo dell’area di Nangarhar, precedentemente sotto dominio talebano.
  • 2015, Maggio – I talebani, durante le trattative in Qatar, dichiarano che non smetteranno di combattere finché tutte le forze internazionali straniere non avranno lasciato l’Afghanistan.
  • 2015, Luglio – I talebani ammettono che il loro capo, il mullah Omar, è morto già da alcuni anni, e annunciano il suo sostituto, il mullah Akhter Mansour.
  • 2016, Gennaio – Le Nazioni Unite calcolano che, a causa degli scontri, della mancanza di sicurezza e della povertà, tra il 2015 e il 2016 ci sono stati più di un milione di rifugiati afghani, divisi tra Iran, Pakistan e Unione europea.
  • 2016, Maggio – Il mullah Mansour viene ucciso da un attacco di droni statunitensi nella provincia di Baluchestan, in Pakistan.
  • 2016, Luglio – Vista la delicata situazione, il presidente Usa Obama annuncia che lascerà nel paese 8.400 soldati fino al 2017. La Nato annuncia che manterrà i militari della coalizione per addestrare e coadiuvare le truppe afghane fino al 2020.
  • 2017, Gennaio – Un ordigno esplosivo a Kandahar uccide 6 diplomatici degli Emirati arabi uniti.
  • 2017, Marzo – Un attacco a un ospedale militare, rivendicato dall’Isis, uccide 30 persone e ne ferisce 50.
  • Da marzo 2017 a gennaio 2018 – Kabul viene continuamente attaccata da attentatori suicidi con una media di 3 assalti al mese. I bersagli sono quasi sempre politico-istituzionali, oltre alle ambasciate, agli alberghi e alle moschee e ai centri sciiti. A gennaio 2018 un’ambulanza riempita di esplosivo e diretta verso il ministero dell’interno esplode nei pressi di un check-point, uccidendo più di 100 persone e ferendone circa 300.
  • 2018, 21 Marzo – In un nuovo attentato a Kabul muoiono 29 persone. L’Isis rivendica.

A. Cal.

Fonti: BBC World, CNN, Human Right Watch, Tolo News, Al Jazeera.

(U.S. Army photo by Pfc. Justin A. Young/Released)


L’Italia in Afghanistan

Cronologia 2002-2018

  • 2002, Gennaio – A seguito delle decisioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, anche l’Italia entra a far parte della coalizione Isaf volta a mantenere e assistere le istituzioni politiche provvisorie afghane e garantire la sicurezza. L’impiego vero e proprio dei militari italiani avrà inizio nel 2003. Gli italiani saranno di stanza a Kabul.
  • 2005, 4 Agosto – Nell’ambito della rotazione dei comandi Isaf in Afghanistan, per 9 mesi, all’Italia viene affidata la leadership per l’Isaf VIII. L’Italia assume il comando della regione di Herat e delle province di Badghis, Ghowr e Farah. Una delle missioni, operazioni di sicurezza a parte, è quella dell’assistenza umanitaria a civili e della supervisione alla ricostruzione delle infrastrutture.
  • 2006, Maggio-Giugno – Muoiono per un ordigno in strada, nei pressi di Kabul, il tenente Manuel Fiorito e il maresciallo Luca Polsinelli. In un incidente stradale muore il caporal maggiore Giuseppe Orlando.
    Per l’esplosione di un ordigno a Kabul, muoiono i caporal maggiori Giorgio Langella, e Vincenzo Cardella.
  • 2009, 17 Settembre – Sei militari italiani del 186o reggimento paracadutisti Folgore rimangono vittime di un attentato suicida a Kabul.
  • 2010, 4 Ottobre – Quattro alpini cadono vittime di un’imboscata nella valle del Gulistan. Nella stessa valle, il 31 dicembre, muore anche il caporal maggiore Matteo Miotto di 24 anni.
  • 2011, 23 Settembre – A Herat, a causa di un incidente stradale, muoiono 3 militari italiani. Durante l’estate, tra scontri armati e attentati, hanno perso la vita altri 7 italiani.
  • 2018, 17 Gennaio – La Camera approva la riorganizzazione delle missioni italiane all’estero. Tra le decisioni, un ridimensionamento della presenza militare italiana in Afghanistan.

Il contingente italiano che, all’inizio della missione, contava 3.000 militari è oggi ridotto a 750 unità, dislocati tra Herat, Kabul e Mazar I Sharif. Dal 2003 ad oggi, i caduti italiani sono stati 52.

A.Cal.

Fonti: www.difesa.it, adkronos.com, Internazionale.


I Pashtun e gli altri

Le etnie dell’Afghanistan

La geografia dell’Afghanistan ha contribuito per secoli a mantenere le sue popolazioni divise in diversi gruppi tribali. Negli ultimi due secoli, con il crescere delle vie di comunicazione, il contatto tra le etnie è cresciuto, a volte sfociando in scontri violenti. L’Afghanistan è oggi diviso tra i seguenti 5 gruppi etnici.

  • 40% Pashtun – I Pashtun oggi sono l’etnia dominante. Parlano una loro lingua, il pashtu, quasi tutti ma anche il dari, la lingua ufficiale dell’Afghanistan. I Pashtun sono di fede sunnita e considerati da Human Right Watch la comunità tribale più ampia al mondo. Ancora oggi questa etnia è divisa in piccoli clan che per secoli si sono combattuti per la supremazia sugli altri. Quasi tutti i Pashtun erano pastori e contadini, ancor prima nomadi, negli ultimi secoli hanno occupato posti nel governo e nel mondo degli affari, oltre a riscoprirsi anche combattenti, come i muj?hid?n che combatterono contro i russi. I Pashtun, con regimi e governi diversi, sono al potere in Afghanistan dal 18esimo secolo.
  • 30% Tajiki – I Tajiki sono stati i primi ad essere urbanizzati, anche se in gran numero continuano a vivere sulle montagne. I Tajiki sono di lingua dari. Questo li ha portati a occupare spesso lavori nella burocrazia e nel commercio. Quasi tutti i Tajiki sono di fede sunnita; una piccola percentuale, il 5%, è di fede sciita, spesso vittima di persecuzioni.
  • 15-22% Hazara – Gli Hazara sono la terza etnia per numero in Afghanistan. Oggi quasi tutti confinati nell’Hazarajat, zona del massiccio centrale afghano. Di fede sciita, dai tratti che ricordano i mongoli e le popolazioni delle regioni asiatiche, gli Hazara sono il gruppo etnico più perseguitato della storia afghana, oggetto spessissimo di violenze da parte soprattutto dei talebani. Ufficialmente dal 2004, gli Hazara hanno gli stessi diritti degli altri gruppi etnici, malgrado questo però continuano a essere discriminati, soprattutto nel mondo del lavoro. Impossibile è stabilirne la percentuale precisa per l’enorme numero di Hazara che fugge in Pakistan o che viene assassinato negli attacchi suicidi.
  • 5% Uzbeki e Turkmeni – Queste etnie vivono per lo più ai confini con Uzbekistan e Turkmenistan. Di fede sunnita, lavorano nella pastorizia o nel commercio di lana usata per fabbricare tappeti.
  • 3% Altre etnie – Altre etnie sono gli Aimaqs, sunniti e anche loro perseguitati, per lo più ora sparsi tra le montagne dell’Hazarajat. I Farsiwan, popolazione, una volta nomade, ora insediatasi ai confini con l’Iran. I Nuristani, contadini che vivono nell’Est dell’Afghanistan, parlano una lingua molto antica, una combinazione di persiano e hindi.

A. Cal.

Fonti: Thomas Barfield, Afghanistan. A cultural and political history; Norwegian Afghanistan Committee; Human Rigth Watch.

 

 

 




Congo RD: Denis Mukwege, il medico che ripara le donne

Testo di Mario Ghirardi |


È un medico africano, come tanti altri. Ma lui decide di restare nella sua terra, il Kivu, e di curare le donne vittime di violenze inaudite. Diventa il massimo esperto mondiale in materia. Rischia in prima persona, perde amici e stretti collaboratori in attentati. Si guadagna il soprannome di «medico che ripara le donne».

Denis Mukwege parla con ritmo cadenzato e con toni di voce pacati. Racconta della Repubblica Democratica del Congo (Congo Rd), di golpe militari, di mercenari senza scrupoli, di stupri elevati a sistematica arma di guerra, di minerali insanguinati, di coltan, di un’Europa spesso alla finestra, di bambini che muoiono in miniera perché noi possiamo lavorare o trastullarci con il telefonino. Mi viene voglia di scagliare lontano lo smartphone che pure in questo momento è il mio strumento di lavoro per registrare e fotografare. Ma sarebbe inutile e forse anche dannoso, visto che i telefonini andrebbero smaltiti ben diversamente.

Per capire l’accorato appello del dott. Mukwege, dobbiamo partire dal suo passato: laureato in medicina in Francia, è tornato in Africa, nella sua regione natale, il Kivu, attorno ai Grandi Laghi, per combattere una battaglia che è poi diventata bandiera di chi vuole scuotere l’opinione pubblica mondiale di fronte a un massacro che ha già coinvolto milioni di vite umane e che in quei luoghi, a cavallo dell’equatore, dura da decenni.

Il dottor Denis Mukwege (di Mario Ghirardi)

L’ostinazione premiata

La scintilla dell’impegno sociale a 360 gradi di questo cortese professionista, diventato oggi punto di riferimento anche politico, scattò quando si trovò, stesa sul tavolo operatorio del reparto di ginecologia dell’ospedale da campo da lui creato a Panzi, ai confini orientali della Congo Rd, una ragazza che aveva fatto nascere egli stesso una dozzina d’anni prima. Era stata orrendamente stuprata come centinaia di altre sue coetanee. Nel 1989 fece il suo primo tentativo di dare corpo a un reparto ospedaliero di maternità a Lemera. Distrutto dalla guerra. Ne fece un altro a Bukavu, sua città natale. Distrutto anch’esso. Infine ne mise in piedi uno a Panzi, dove dal 1999 ha curato ben 50mila donne. Un numero enorme, vittime di stupri e di violenze sessuali di ogni genere, la gran parte con ferite di arma da fuoco ai genitali.

«Identifico ognuna di loro con mia moglie», commenta. In questo trova la forza morale di proseguire nella sua opera, anche oggi che ha compiuto il giro di boa dei 60 anni.

Ormai il dottor Mukwege, soprannominato «l’uomo che ripara le donne», è riconosciuto come uno dei più grandi esperti a livello internazionale nel trattamento dei danni patologici e psicosociali provocati dalla violenza sessuale praticata in Congo Rd in modo sistematico. Un’arma di guerra per colpire le donne nell’intimo del loro essere, distruggere simbolicamente il futuro mutilando gli organi genitali con ogni tipo di oggetti inseriti nella vagina, anche di bimbe di pochi mesi, e praticando tagli ai seni. Squartare donne incinte e seppellirle ancora vive è un altro atto ricorrente durante le incursioni delle bande armate. Tanta crudeltà ha lo scopo preciso e immediato di annientare sul nascere qualsiasi tentativo di ribellione dei villaggi, facendo sprofondare anche gli uomini in uno stato di sudditanza.

Miniera di cobalto (CC Fairphone)

Impunità totale

Pochissimi denunciano le violenze, non solo per la paura delle ritorsioni e dello stigma sociale, ma anche perché i casi in cui i tribunali hanno fatto giustizia sono sinora rari, visto che queste soldataglie senza volto aggrediscono i villaggi sconfinando dagli stati vicini e si spostano senza sosta. Un dato: a fronte di 15mila accuse formali, le condanne sono state 12. «Il silenzio è alleato degli stupratori – afferma Mukwege -. La vittima tace per vergogna e per paura di essere discriminata. Io devo combattere al loro fianco perché le donne sono forti, sono capaci di vivere per gli altri. Ho curato 50mila donne, ma pensiamo sempre che dietro a un numero c’è un essere umano, è questa consapevolezza che deve farci reagire. Avevo un successore, Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, l’hanno assassinato a fine aprile dell’anno scorso. Tuttavia non mi fermerò».

Oltre la medicina

Con mariti e figli traumatizzati, le donne, che in Africa continuano a essere il perno su cui ruota la vita sociale, sono costrette ad abbandonare famiglia e lavoro, portando con sé quelle profonde ferite che soltanto un personaggio come Mukwege è in grado di lenire.

Il suo aiuto oggi sta andando persino oltre, affiancandole nella ricerca di nuove competenze lavorative, offrendo l’opportunità alle più giovani di tornare a scuola e dando loro appoggio se intendono rivolgersi alla giustizia. Scelte pagate letteralmente sulla propria pelle. Mukwege è stato vittima di attentati, tra cui quello in cui è stata assassinata la sua guardia del corpo, e amico, Joseph Bizimana, e di irruzioni armate nella sua casa con minacce di morte e il rapimento della figlia. Costretto a fuggire in Scandinavia, è ritornato a Panzi non appena un gruppo di donne, che peraltro vivono con meno di un dollaro al giorno, hanno racimolato con una colletta i soldi per pagargli il viaggio aereo. È questo un comportamento che gli è valso il «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», voluto trent’anni fa dall’Unione europea per celebrare il ricordo del fisico nucleare russo e assegnato ogni anno in riconoscimento di chi combatte la sua personale battaglia a favore dei diritti dell’uomo. E non è un caso se il primo a riceverlo fu Nelson Mandela.

Miniera a Kalimbi (CC Fairphone)

Radici storiche

Il motivo fondamentale per cui il Congo Rd è squassato da tanta violenza lo ha denunciato lo stesso Mukwege durante il suo discorso alle Nazioni Unite già nel 2012, poco prima dell’attentato: lo sfruttamento delle sue risorse minerarie. Fenomeno che risale almeno alla metà dell’800, quando il Congo fu acquisito come proprietà personale dal re del Belgio Leopoldo II. Sfruttamento che è costato almeno dieci milioni di morti. «Se il Congo è ormai da 25 anni una polveriera – commenta l’antropologo Luca Jourdan che abbiamo incontrato a fianco di Mukwege durante un suo tour italiano di sensibilizzazione dell’opinione pubblica organizzato dal torinese Centro di Studi Africani (Csa) – le cause risalgono proprio all’epoca coloniale, quando prima i traffici di schiavi e avorio, e poi quelli della gomma favorirono gli interessi sfrenati dei signori della guerra, che già allora terrorizzavano i villaggi mozzando le mani a chi non produceva i quantitativi stabiliti, come punizione e monito». I belgi non portarono civiltà. «I primi ammutinamenti dell’esercito – prosegue Jourdan – produssero il tentativo di secessione della regione del Katanga, poi la presa del potere da parte di Mobutu nel ’65, con l’esercito che fornisce quadri e ministri, ma senza che il dittatore si fidi dei suoi generali perché non li controlla. Oggi è il tempo di Joseph Kabila, delle elezioni promesse ma rinviate (la presidenza di Kabila è scaduta il 19 dicembre 2016, ma lui resta capo di stato)». L’esercito congolese è in realtà un attore della crisi, poiché non esiste una sola catena di comando. È un esercito integrato con le fazioni ribelli, però i gruppi non si mescolano, ognuno risponde ad un proprio capo. Il risultato è che i «warlords» spadroneggiano ognuno nel suo ambito, controllando, in accordo col governo, l’estrazione del coltan e degli altri minerali indispensabili all’industria dell’elettronica, che costano alla popolazione le violenze combattute da Mukwege.

Mario Ghirardi

 

Minatori a Kalimbi, Congo RD (CC Fairphone)


Miniere, eserciti e interessi globali

Stupri, figli del coltan

In Congo Rd permane una situazione di grande instabilità. In uno dei paesi con il sottosuolo più riccho al mondo, il 60% della popolazione vive nell’indigenza. Mentre nell’Est le milizie usano la violenza sulle donne come arma di guerra.

La regione congolese dei Grandi Laghi vive un conflitto internazionale tra i più complessi dell’Africa, aggravato dal precipitare della situazione nel confinante Burundi nel 2015, dai massacri nelle regioni del Kasai nel 2017 e dalla permanenza al potere in Congo Rd del presidente Joseph Kabila, ancora oggi, nonostante il suo mandato presidenziale sia scaduto nel 2016. La presa di posizione del dittatore nel far slittare le elezioni è tesa a voler accedere al suo terzo mandato presidenziale contro i dettami della Costituzione vigente che ha fatto saltare nell’anno anche la preannunciata visita di papa Francesco. Le ondate di profughi hanno alimentato ulteriori tensioni e conflitti tra gruppi armati ribelli per il controllo delle miniere superficiali. In esse uomini e bambini sono ridotti in schiavitù per l’estrazione del coltan, preziosissimo materiale, straordinariamente resistente al calore, senza il quale gli smartphone non potrebbero esistere e che qui si trova nelle maggiori concentrazioni al mondo (cfr. MC luglio 2015 e giugno 2016).

(CC Fairphone)

Il coltan, fondamentale anche per l’industria aerospaziale, fa gola a tutti, con i cinesi in prima linea alla ricerca di accordi commerciali, insieme a Stati Uniti ed Europa, per accaparrarsi quelli che sono ormai conosciuti come i «minerali insanguinati». La posta in gioco è altissima e nessuno vuole farsela scappare, ma il prezzo da pagare in termini di diritti umani è pure enorme, con vittime principali le donne e i bimbi anche di pochi mesi. Il Congo Rd ha arrestato la sua crescita economica, ma non demografica. È uno dei paesi più povero del pianeta con oltre 6 persone su 10 che vivono sotto la soglia di indigenza assoluta. I delitti sono in costante aumento, il numero di donne violentate supera il mezzo milione, con gli stupri usati come strumento per far nascere i figli dei vincitori oppure al contrario per rendere impossibile la nascita di una successiva generazione delle etnie sottomesse. Una situazione terribile attorno alla quale resta moltissimo da fare anche in termini di consapevolezza dell’opinione pubblica occidentale. Lo stupro di guerra come quello praticato in Kivu è stato riconosciuto infatti ufficialmente come crimine contro l’umanità e concausa di genocidio soltanto nel 2008, elaborando a livello legislativo con un ritardo smisurato quanto successe nel 1992, a danno dei bosniaci musulmani nell’allora Jugoslavia.

Chi estrae il coltan non gode di alcun diritto in cambio di un lavoro massacrante retribuito con spiccioli di dollaro. Bambini e uomini trasportano i secchi sulla testa sotto il sole a picco o sotto le piogge torrenziali, come schiavi di una società che non offre alcuna alternativa di sopravvivenza e nemmeno possibilità di scolarizzazione. I livelli di sicurezza sul lavoro sono infimi e si muore con facilità in quelle voragini della montagna, che diventano tombe, da cui i signori della guerra non si degnano nemmeno di portare alla luce i cadaveri per restituirli alle famiglie. La beffa sono i cartelli pubblicitari nei villaggi confinanti che promettono l’accesso gratuito a Facebook per tutti.

La tracciabilità dei materiali potrebbe essere un primo modo per limitare gli abusi. L’Unione europea nell’aprile scorso ha finalmente approvato un regolamento comunitario in questo senso, che però non sarà applicato prima del 2021. La normativa obbligherà tutti gli importatori europei di stagno, tungsteno, tantalio e oro a dichiarare le loro fonti di approvvigionamento con l’istituzione di un apposito registro e sistematici controlli sul rispetto degli obblighi di responsabilità, la cosiddetta «due diligence», in modo da mantenere elevati standard e garantire che non ci siano punti di contatto tra l’origine dei minerali e le bande armate. Dal patto però Bruxelles sembra aver escluso i minerali di cobalto, nonché il divieto di importazione di prodotti finiti che contengano il minerale, lasciando aperta la strada ai telefonini cinesi. Intanto contemporaneamente il presidente Usa Trump smantella il Dodd-Frank Act, un provvedimento per una volta in sintonia con quello adottato dalla Ue e promulgato dal predecessore Barack Obama nel 2010.

Mario Ghirardi

(CC Fairphone)

 Archivio MC:
Enrico Casale, Dossier: Minerali insanguinati, luglio 2015

Marco Bello, La lunga marcia per la pace, giugno 2016




GHOUTA, SIRIA: CHIAMIAMO LE COSE CON IL LORO NOME. QUESTO E’ L’INIZIO DELLA PACE.

Lettera delle Sorelle Trappiste in Siria |


Quando taceranno le armi? E quando tacerà tanto giornalismo di parte ?

Lettera pubblicata su Avvenire
su CIVG (Centro di Iniziative per la Verità e la Giustizia)
e su Ora Pro Siria

Noi che in Siria ci viviamo, siamo davvero stanchi, nauseati da questa indignazione generale che si leva a bacchetta per condannare chi difende la propria vita e la propria terra.

Più volte in questi mesi siamo andati a Damasco; siamo andati dopo che le bombe dei ribelli avevano fatto strage in una scuola, eravamo lì anche pochi giorni fa, il giorno dopo che erano caduti, lanciati dal Ghouta, 90 missili sulla parte governativa della città. Abbiamo ascoltato i racconti dei bambini , la paura di uscire di casa e andare a scuola, il terrore di dover vedere ancora i loro compagni di classe saltare per aria, o saltare loro stessi, bambini che non riescono a dormire la notte, per la paura che un missile arrivi sul loro tetto. Paura, lacrime, sangue, morte. Non sono anche questi bambini degni della nostra attenzione?

Perché l’opinione pubblica non ha battuto ciglio, perché nessuno si è indignato, perché non sono stati lanciati appelli umanitari o altro per questi innocenti? E perché solo e soltanto quando il Governo siriano interviene, suscitando gratitudine nei cittadini siriani che si sentono difesi da tanto orrore (come abbiamo constatato e ci raccontano), ci si indigna per la ferocia della guerra?

Certo, anche quando l’esercito siriano bombarda ci sono donne, bambini, civili, feriti o morti. E anche per loro preghiamo. Non solo i civili: preghiamo anche per i jihadisti, perché ogni uomo che sceglie il male è un figlio perduto, è un mistero nascosto nel cuore di Dio. Ed è a Dio che si deve lasciare il giudizio, Lui che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

Ma questo non significa che non si debbano chiamare le cose con il loro nome. E non si può confondere chi attacca con chi si difende.

A Damasco, è dalla zona del Ghouta che sono cominciati gli attacchi verso i civili che abitano nella parte controllata dal governo, e non viceversa. Lo stesso Ghouta dove – occorre ricordarlo ? – i civili che non appoggiavano i jihadisti sono stati messi in gabbie di ferro: uomini, donne, esposti all’aperto e usati come scudi umani. Ghouta: il quartiere dove oggi i civili che vogliono scappare, e rifugiarsi nella parte governativa, approfittando dalla tregua concessa, sono presi di mira dai cecchini dei ribelli…

Perché questa cecità dell’Occidente? Come è possibile che chi informa, anche in ambito ecclesiale, sia così unilaterale?

La guerra è brutta, oh sì, sì se è brutta! Non venitelo a raccontare ai siriani, che da sette anni se la sono vista portare in casa… Ma non si può scandalizzarsi per la brutalità della guerra e tacere su chi la guerra l’ha voluta e la vuole ancora oggi, sui Governi che hanno riversato in Siria in questi anni le loro armi sempre più potenti, le loro intelligence… per non parlare dei mercenari lasciati deliberatamente entrare in Siria facendoli passare dai Paesi confinanti (tanti che poi sono diventati Isis, va ricordato all’Occidente, che almeno questa sigla sa cosa significa). Tacere sui Governi che da questa guerra hanno guadagnato e guadagnano. Basta vedere che fine hanno fatto i più importanti pozzi petroliferi siriani. Ma questo è solo un dettaglio, c’è molto più importante in gioco.

La guerra è brutta. Ma non siamo ancora arrivati alla meta, là dove il lupo e l’agnello dimoreranno insieme, e per chi è credente bisogna ricordare che la Chiesa non condanna la legittima difesa; e se anche non si augura certamente il ricorso alle armi e alla guerra, la fede non condanna chi difende la propria patria, la propria famiglia, neppure la propria vita. Si può scegliere la non-violenza, fino a morirne. Ma è una scelta personale, che può mettere in gioco solo la vita di chi lo sceglie, non si può certo chiederlo ad una nazione intera, a un intero popolo.

Nessun uomo che abbia un minimo di umanità vera, può augurarsi la guerra. Ma oggi dire alla Siria, al governo siriano, di non difendere la sua nazione è contro ogni giustizia : troppo spesso è solo un modo per facilitare il compito di quanti vogliono depredare il Paese, fare strage del suo popolo, come accaduto in questi lunghi anni nei quali le tregue sono servite soprattutto per riarmare i ribelli, e i corridoi umanitari per far entrare nuove armi e nuovi mercenari.. e come non ricordare quali atrocità sono accadute in questi anni nelle zone controllate dai jihadisti? Violenze, esecuzioni sommarie, stupri… i racconti rilasciati da chi alla fine è riuscito a scappare ?

In queste settimane ci hanno fatto leggere un articolo veramente incredibile: tante parole per far passare in fondo una sola tesi, e cioè che tutte le Chiese di Oriente sono solo serve del potere…per convenienza… Qualche bella frase ad effetto, tipo la riverenza di Vescovi e Cristiani verso il Satrapo Siriano…un modo per delegittimare qualunque appello della Chiesa siriana che faccia intravedere l’altro lato della medaglia, quella di cui non si parla.

Aldilà di ogni inutile difesa e polemica, facciamo un ragionamento semplice, a partire da una considerazione. E cioè che Cristo – che conosce bene il cuore dell’uomo, e cioè sa che il bene e il male coabitano in ciascuno di noi, vuole che i suoi siano lievito nella pasta, cioè quella presenza che a poco a poco, dall’interno, fa crescere una situazione e la orienta verso la verità e il bene. La sostiene dove è da sostenere, la cambia dove è da cambiare. Con coraggio, senza doppiezze, ma dall’interno. Gesù non ha assecondato i figli del tuono, che invocavano un fuoco di punizione .

Certo che la corruzione c’è nella politica siriana (come in tutti i Paesi del mondo) e c’è il peccato nella Chiesa (come in tutte le Chiese, come tante volte il Papa ha lamentato)

Ma, appellandoci al buon senso di tutti, anche non credenti : qual è l’alternativa reale che l’Occidente invoca per la Siria? Lo Stato islamico, la sharia? Questo in nome della libertà e la democrazia del popolo siriano? Ma non fateci ridere, anzi, non fateci piangere…

Ma se pensate che in ogni caso non sia mai lecito scendere a compromessi, allora per coerenza vi ricordiamo, solo per fare un piccolo esempio, che non potreste fare benzina ‘senza compromessi coi poteri forti’, dato che la maggior parte delle compagnie ha comprato petrolio a basso costo dall’Isis, attraverso il ponte della Turchia: così quando percorrete qualche chilometro in auto, lo fate anche grazie alla morte di qualcuno a cui questo petrolio è stato rubato, consumando il gasolio che doveva scaldare la casa di qualche bambino in Siria..

Se proprio volete portare la democrazia nel mondo, assicuratevi della vostra libertà dalle satrapie dell’Occidente, e preoccupatevi della vostra coerenza, prima di intervenire su quella degli altri..

Non ultimo, non si può non dire che dovrebbe suscitare almeno qualche sospetto il fatto che se un cristiano o un musulmano denuncia le atrocità dei gruppi jihadisti è fatto passare sotto silenzio, non trova che una rara eco mediatica, per rivoli marginali, mentre chi critica il governo siriano guadagna le prime pagine dei grandi media.. Qualcuno ricorda forse l’intervista o un intervento di un Vescovo siriano su qualche giornale importante dell’Occidente? Si può non essere d’accordo, evidentemente, ma una vera informazione suppone differenti punti di vista.

Del resto, chi parla di una interessata riverenza della Chiesa siriana verso il presidente Assad come di una difesa degli interessi miopi dei cristiani, dimostra di non conoscere la Siria, perché in questa terra cristiani e musulmani vivono insieme. E’ stata solo questa guerra a ferire in molte parti la convivenza, ma nelle zone messe in sicurezza dall’esercito ( a differenza di quelle controllate dagli ‘altri’) si vive ancora insieme. Con profonde ferite da ricucire, oggi purtroppo anche con molta fatica a perdonare, ma comunque insieme. E il bene è il bene per tutti: ne sono testimonianza le tante opere di carità, soccorso, sviluppo gestite da cristiani e musulmani insieme.

Certo, questo lo sa chi qui ci vive, pur in mezzo a tante contraddizioni, non chi scrive da dietro una scrivania, con tanti stereotipi di opposizione tra cristiani e musulmani.

“Liberaci Signore dalla guerra…e liberaci dalla mala stampa…”.

Con tutto il rispetto per i giornalisti che cercano davvero di comprendere le situazioni, ed informarci veramente. Ma non saranno certo loro ad aversene a male per quanto scriviamo…

Le sorelle Trappiste in Siria  – marzo 2018

Chi sono Le Monache Trappiste in Siria?

Da “Più forti dell’odio Visita alle monache trappiste in Siria”

“Da Tibhirine ad ‘Azeir. Dall’Algeria, passando per la Toscana alla Siria. Questo è l’itinerario che ha portato nel 2005 alcune trappiste dal Monastero di Valserena vicino Cecina a scegliere la Siria, una delle culle del monachesimo antico, per fondarvi un monastero di vita contemplativa. Nel 1996 c’era stato l’eccidio dei sette monaci trappisti a Tibhirine in Algeria, un fatto tragico verso religiosi innocenti che aveva colpito l’opinione pubblica mondiale. L’ordine cistercense nonostante l’efferatezza del delitto volle continuare l’esperienza in terra islamica e custodire l’eredità spirituale dei sette monaci. L’appello fu accolto dalle trappiste di Valserena, una comunità che avevo conosciuto e frequentato durante gli anni del Seminario e dove feci gli Esercizi spirituali prima della mia ordinazione sacerdotale nel giugno del 1984. Le monache, dopo una prima esperienza ad Aleppo scelsero di installarsi nel villaggio maronita di ‘Azeir fra Homs e Tartous al confine settentrionale tra Siria e Libano. Fino al marzo 2009, la Siria era stata una nazione fiorente e pacifica dove anche le varie componenti religiose convivevano tranquillamente. Anzi, negli anni terribili della guerra e dei massacri le differenze religiose non sono state mai un problema. In questa regione ci sono, uno accanto all’altro, villaggi cattolici maroniti, armeni, greco ortodossi, greco cattolici e villaggi mussulmani, sunniti e alawiti: la convivenza tra islamici e cristiani delle varie confessioni era normale, fatta di rispetto e dialogo sincero. Il regime di Assad aveva le sue rigidità e i suoi limiti, racconta madre Marta la priora, ma grazie ad esso era possibile tale convivenza e si viveva tranquillamente.”

don Sandro Lusini

Per saperne di più sulle suore leggi anche l’articolo di Rodolfo Casadei, Un giorno nel monastero delle suore trappiste italiane in Siria.




I Perdenti 28:

Sarajevo: Admira e Bosko

Admira Ismic e Bosko Brkic entrarono per caso nella cronaca di quella sporca guerra che sconvolse l’ex Jugoslavia negli anni Novanta del secolo scorso per divenire i «Giulietta e Romeo di Sarajevo». Essi furono uccisi, mano nella mano, dai cecchini serbi nella «terra di nessuno» che separava la zona musulmana da quella serba nella capitale bosniaca. Era il 19 maggio 1993, la violenza durava già da un anno. Admira era musulmana, Bosko cristiano ortodosso. Entrambi venticinquenni, erano legati da un amore intenso e sincero da quando ne avevano diciassette, nonostante l’odio etnico e confessionale presente in città.

Dopo aver resistito diverso tempo, alla fine Admira e Bosko, che abitavano nella zona musulmana insieme ai genitori di lei, avevano deciso di fuggire trasferendosi provvisoriamente nel sobborgo serbo di Grbavica, per salutare i genitori di Bosko e con l’intento di abbandonare poi la Bosnia.

I loro corpi abbracciati nei pressi del ponte di Vrbanja che unisce le sponde del torrente Miljacka, abbandonati al sole per otto giorni, perché non si riusciva a ottenere l’assenso dei belligeranti a un cessate il fuoco che ne consentisse il recupero, divennero il simbolo della tragedia bosniaca.

Una volta recuperati dai serbi, i loro corpi furono seppelliti sbrigativamente sulle colline. Soltanto tre anni dopo trovarono riposo fianco a fianco nel cimitero di Sarajevo.

Proprio di fronte alle loro tombe, al di là del muro di cinta del camposanto, c’è il caffè dove i due si erano incontrati e avevano trascorso ore sognando un amore lontano dalle bombe e dall’odio.

La loro storia continua a ricordarci come l’amore sia più forte della morte.

Bosko, come mai, mentre tutti scappavano, tu hai deciso di andare a vivere nella parte musulmana di quella città dilaniata dall’odio?

Bosko: lo decisi per stare accanto a lei, la ragazza che amavo più della mia vita. Se me ne fossi andato anche io, non so se l’avrei ritrovata al mio ritorno, e chissà quando sarebbe avvenuto un ritorno.

Tu serbo-bosniaco, tu bosniaca. Tu cristiano ortodosso, tu musulmana. Come vi siete conosciuti?

Bosko e Admira: nella maniera più semplice, comune a tanti giovani del mondo, ovvero incontrandoci in un bar della nostra città. Tra una bibita e una chiacchierata avevano cominciato una relazione d’amore molto bella benché impossibile in un paese che cominciava ad essere percorso dall’odio etnico.

E pensare che Sarajevo, comunità cosmopolita da secoli, era famosa per la sua capacità di integrare le varie componenti etniche creando le condizioni per una tolleranza che era d’esempio a molte altre città…

Bosko e Admira: fino all’inizio dei conflitti che hanno messo una contro l’altra le varie nazionalità che componevano l’ex Jugoslavia, le diverse comunità etniche erano abituate da tempo a vivere una acconto all’altra. Forse la forte personalità, anche in campo internazionale, del maresciallo Tito aveva contribuito a fare da collante in un paese sorto dalle ceneri della guerra, assemblando popoli di lingua, religione e cultura diverse.

Difatti i guai cominciarono dopo la sua morte…

Bosko e Admira: proprio così, la nostra società incubava da tempo i germi del nazionalismo e del razzismo, basati su una presunta superiorità culturale di una sola componente etnica a scapito delle altre. In un paese attraversato da una crisi economica che si trascinava da tempo, con la morte del maresciallo Tito, venuto meno l’uomo che con mano ferma aveva guidato la lotta di resistenza al nazifascismo e garantito il distacco dall’Unione Sovietica, questi germi attecchirono fra la gente, specialmente negli strati più emarginati della popolazione.

E così da modello di convivenza fra popoli diversi, la vostra terra divenne un campo di battaglia.

Bosko e Admira: la cosa che più fece impressione, fu che dall’oggi al domani nessuno più si fidava dell’altro, meno che meno se apparteneva a un gruppo etnico-religioso diverso dal proprio, cominciò a serpeggiare fra la gente una specie di ostilità verso coloro che non appartenevano al proprio «clan», e ben presto gli eserciti dei vari stati cominciarono a spararsi contro per delimitare i «propri» confini e proibire così ad altri di entrare.

Per voi una cosa del genere era inaccettabile, vero?

Bosko: sì, e per uscire da quella situazione avevo preparato tutte le carte necessarie a partire. Insieme ad Admira avevamo deciso di lasciare Sarajevo.

Vivevamo nella casa dei genitori di Admira, nel settore musulmano. Il progetto era di andare dai miei, nel quartiere serbo, stare un po’ con loro e poi finalmente partire. Ma bisognava passare il torrente Miljackail, che divide la città, passando sul ponte Vrbanja, una vera strozzatura e passaggio obbligatorio. Decidemmo di tentare il tutto per tutto, il 18 maggio 1993. Ma un cecchino mi colpì con una pallottola alla testa, ponendo fine alla mia vita. Anche Admira fu colpita, ma non morì subito. Con le ultime forze, Admira si trascinò fino a me e mi abbracciò. Restammo otto lunghi giorni in quel tragico abbraccio d’amore.

Un abbraccio pieno d’amore scambiato sulla soglia dell’eternità…

Bosko e Admira: colpiti dalla violenza cieca dei nostri compatrioti, ce ne andammo da questo mondo pieno di odio e, abbracciati come due semplici innamorati, entrammo insieme nel Regno della Pace.

Ci piace immaginare che gli Angeli e i Santi vi abbiano accolto in Paradiso con le parole conclusive del Cantico dei Cantici, dove l’amata dice all’amato: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore».

Bosko e Admira: proprio così, il Dio della tenerezza e dell’amore ci accolse fra le sue braccia e ci coprì con il mantello della sua misericordia.

 I corpi esanimi dei due moderni Giulietta e Romeo rimasero sotto il sole di maggio per otto lunghi giorni prima che una tregua concordata tra le parti belligeranti ne potesse consentire il recupero e dare loro una degna sepoltura. Alla cerimonia funebre di tre anni dopo erano presenti i membri delle due comunità, musulmani e serbo-bosniaci uniti dalla testimonianza d’amore dei loro figli.

«Se avessero avuto una visione fanatica della religione, non si sarebbero mai messi insieme», disse in quell’occasione il padre di Admira. Il loro resta un prezioso messaggio della religione dell’amore che quando è vissuta coerentemente fino in fondo sconfigge l’odio e fa trionfare sempre la pace. L’immagine dei due corpi abbracciati a terra fece il giro del mondo, e ancora oggi rappresenta un’icona dell’amore che va oltre alle differenze di razza e di religione. Un insegnamento per tutte le nazioni del mondo sempre più vittime di nazionalismi emergenti ed egoismi locali, che poi sono le stesse ragioni che hanno disintegrato lo stato jugoslavo.

La guerra è terminata da tempo e l’autodeterminazione dei popoli balcanici ha favorito la nascita di ben sei nuovi stati sovrani sul territorio della ex Jugoslavia. L’insegnamento e la testimonianza dei due giovani innamorati di Sarajevo appare oggi più significativa ed attuale che mai.

Don Mario Bandera




Kurdistan: Orgoglio Kurdo


È uno stato

Introduzione

a) La carta d’identità

FAMIGLIA LINGUISTICA – Ramo iranico delle lingue indoeuropea, con rilevanti affinità con il persiano parlato in Iran. La lingua kurda si divide a sua volta in due varianti, Sorani e Kurmanji, con notevoli varietà dialettali.

DOVE SONO – Nord dell’Iraq, al confine con Siria, Turchia e Iran, zone anch’esse abitate dai Kurdi. I territori indicati dalla Costituzione irachena del 2005 come Regione autonoma del Kurdistan sono inferiori rispetto all’area occupata dai Kurdi, oggi contesa fra Baghdad ed Erbil (il capoluogo della regione).

CAPOLUOGO – La città di Erbil.

POPOLAZIONE – 5-8 milioni, a seconda delle stime.

RIFUGIATI E SFOLLATI – Si trovano oggi in Kurdistan circa 2 milioni di rifugiati e sfollati, la larga parte dei quali giunti negli ultimi tre anni in seguito all’avanzata dello Stato islamico (Isis-Daesh).

ORGANIZZAZIONE POLITICA – I Kurdi in Iraq vivono, con un’ampia autonomia politica ed economica, all’interno della Regione autonoma del Kurdistan, sancita, dopo la caduta di Saddam, dalla costituzione irachena del 2005. I territori in essa inclusi sono però di molto inferiori rispetto a quelli effettivamente controllati dai Kurdi, il che provoca frequenti diatribe con Baghdad.

RELIGIONE – Circa il 94% degli abitanti del Kurdistan iracheno sono musulmani sunniti.

MINORANZE – Siriaci, armeni, turkmeni e arabi. Da un punto di vista religioso, si trovano inoltre musulmani sciiti, cristiani, zoroastriani, yazidi, ebrei, shabaki, kakai, mandei e bahai.

MONETA – Dinaro iracheno.

BANDIERA – Un tricolore a bande orizzontali rossa bianca e verde, con un sole al centro. La bandiera fu per la prima volta introdotta dai leader Kurdi presenti alla conferenza di pace di Parigi del 1919-20, quando la nascita di uno stato chiamato Kurdistan sembrava imminente. Oggi questa bandiera è bandita in Turchia, in quanto ritenuta simbolo delle aspirazioni kurde all’indipendenza, mentre è assai diffusa nel Kurdistan iracheno.

PETROLIO – Con una riserva stimata attorno ai 45 miliardi di barili, il petrolio rappresenta una voce fondamentale dell’economia del Kurdistan, oltre che un elemento di attrito continuo con Baghdad.

b) Le date principali

  • 1918: con la sconfitta dell’Impero ottomano nel primo conflitto mondiale, il territorio dell’attuale Kurdistan iracheno diventa parte del dominio della corona britannica.
  • 1919: creazione ex novo dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico.
  • 1920: il trattato di pace di Sèvres, firmato dall’Impero ottomano, prevede la nascita di uno stato kurdo, cui avrebbero potuto unirsi – tramite referendum – anche i Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul.
  • 1922: Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la loro aviazione e schiacciando la rivolta.
  • 1923: il trattato di Losanna dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.
  • 1943: Mustafa Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida una rivolta che riesce a strappare per breve tempo al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan.
  • 1946: nasce un’effimera, ma importante, Repubblica di Mahabad, entità statale kurda nel Nord Ovest dell’Iran che durerà meno di un anno.
  • 1980-88: la guerra Iran-Iraq causa migliaia di morti, persecuzioni e divisioni politiche all’interno del Kurdistan iracheno.
  • 1986-89: campagna di al-Anfal compiuta da Saddam Hussein contro i Kurdi, che porterà alla morte di migliaia di persone.
  • 1988: attacco chimico di Halabja compiuto dalle forze irachene contro i Kurdi.
  • 1991: i Kurdi riescono finalmente, dopo una sollevazione, a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia, quella della regione del Kurdistan, resa effettiva anche grazie alla no flight zone americana.
  • 2005: la nuova costituzione irachena, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq, riconosce l’autonomia kurda nel Nord del paese.
  • 2014: l’Isis avanza in Iraq, compiendo un genocidio contro gli Yazidi e costringendo i Kurdi siriani e iracheni a una strenua resistenza. La regione diviene approdo, in breve tempo, di centinaia di migliaia di profughi e sfollati.

Simone Zoppellaro


Kurdistan: uno, tanti, nessuno

Storia della regione kurda dell’Iraq

Nel mondo si stimano esistere tra i 20 e i 40 milioni di Kurdi. Costituiscono la più grande nazione senza uno stato (riconosciuto dalla comunità internazionale). Il nostro collaboratore è andato a vedere cosa succede nel Kurdistan iracheno, che un tempo era la mitica Mesopotamia, mentre oggi è l’unica entità territoriale kurda vicina alle caratteristiche di un vero e proprio stato indipendente.  

Quello del Kurdistan è un nome divenuto ormai noto a tutti in questi ultimi anni, seppure si riferisca a una realtà per molti aspetti sfuggente, dai tratti incerti e in parte persino misteriosi. Non sarà un caso: costretta a cavallo dei confini di diversi stati – Turchia, Siria, Iran, Iraq e Armenia, con una notevole presenza diasporica in Europa – quella dei Kurdi rappresenta oggi la più grande nazione al mondo senza uno stato. Una frattura difficile da sanare causa di numerose altre ferite: non solo le persecuzioni e le discriminazioni subite periodicamente nei diversi contesti, ma anche le divisioni politiche, talora fratricide, che hanno segnato il destino di questa gente pur legata da una cultura salda e antica. Il risultato è che oggi non esiste un solo Kurdistan, ne esistono diversi o, almeno da un punto di vista del riconoscimento internazionale, non ne esiste ancora nessuno. Eppure, situato com’è nel cuore del Medio Oriente, forte di una popolazione complessiva stimata (ma i dati sono assai dibattuti) fra i 20 e i 40 milioni di persone, il Kurdistan è uno dei luoghi del mondo tra i più caldi e cruciali dal punto di vista geopolitico, strategico e delle risorse. E questo non certo da oggi.

Un tempo era la Mesopotamia

Troppe volte in passato questa splendida terra, fertile e dai paesaggi rigogliosi, è stata contesa da potenze straniere e dai loro eserciti. Limitandosi al solo Kurdistan iracheno – che tratteremo in modo esclusivo in questo nostro lavoro – si parla di una regione che ha radici antichissime, che arrivano fino agli albori stessi della civiltà. In questo spazio si trovava infatti parte della Mesopotamia propriamente detta. Nella piana di Ninive, gli storici ritengono sia avvenuto lo scontro decisivo fra Alessandro Magno e i persiani. Ci riferiamo alla battaglia di Gaugamela, snodo fondamentale per la storia antica nel determinare le fortune del Macedone e il tramonto, almeno temporaneo, dell’impero di Persia.

In epoca più recente, quello che oggi chiamiamo Kurdistan iracheno è stato soggetto alla dominazione ottomana. Proprio sotto questa dominazione, fra battaglie e rivolte represse nel sangue, va forgiandosi e definendosi l’identità kurda di questa popolazione di origine iranica. Nel 1918, con la sconfitta della Sublime Porta nel primo conflitto mondiale, questo territorio passa a essere dominio della Corona britannica. Dell’anno successivo è invece la creazione dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico. Un’entità statale, come diverse altre in Africa e in Asia, che è in ultima analisi solo una creazione realizzata a tavolino dalle potenze coloniali, senza alcun riscontro storico preciso. È così che una porzione di Kurdistan diviene parte di uno stato che un secolo dopo, a dispetto dei tanti mutamenti, esiste ancora. Il risultato di tale disegno, concepito su esclusivo interesse di capitali lontane anziché sui bisogni delle popolazioni locali, è sotto gli occhi della comunità internazionale ancora nel 2017. Una delle caratteristiche dell’esperienza coloniale è che essa è durata ben oltre la fine del colonialismo stesso.

La svolta: il trattato di Sèvres

La mancata nascita di uno stato kurdo viene vissuta da questa minoranza, nel frattempo galvanizzata da aspirazioni nazionaliste e irredentiste, come un tradimento. Il trattato di pace di Sèvres del 1920, firmato tra le potenze alleate della Prima guerra mondiale e l’Impero Ottomano, prevede infatti di dare voce ai Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul sul loro destino. Questi dovrebbero poter decidere, tramite un referendum, se unirsi a un nascente stato kurdo previsto più a Nord, che dovrebbe includere città dell’attuale Kurdistan turco quali Diyarbakir. Ma né l’una né l’altra ipotesi diventano realtà, e i territori a maggioranza kurda – complice anche la nascita della Turchia kemalista – vengono spartiti senza che i loro abitanti possano esprimersi in alcun modo sul loro futuro. Da questo passaggio storico fondamentale avranno origine una serie di rivolte espressione delle rivendicazioni nazionaliste dei Kurdi.

Barzani e i Peshmerga

Nel 1922 Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio a essa adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la Royal Air Force, l’aviazione. Una serie di bombardamenti aerei colpiscono Barzinji e i suoi uomini per circa un anno fra il 1923 e il 1924, fino alla resa finale. Il primo tentativo di realizzare uno stato kurdo finisce quindi in un bagno di sangue.

Barzinji, che è stato protagonista di una rivolta già in precedenza, nel 1919, si ritirerà in seguito sui monti, dove tenterà inutilmente di fare esplodere di nuovo la scintilla dell’irredentismo kurdo. Valente guerriero, il suo ricordo si imprimerà nella memoria delle successive generazioni di Kurdi, quale simbolo di libertà e rivalsa nei confronti del giogo coloniale. Nel frattempo il trattato di Losanna, firmato nel 1923, dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.

Nel 1932 un’ulteriore rivolta segna l’inclusione dell’Iraq nella Lega delle Nazioni, evento che ha luogo ignorando ancora una volta le ambizioni e le richieste politiche dei Kurdi. Proprio il Kurdistan iracheno dà i natali a quello che è probabilmente il maggior leader kurdo del secolo scorso, Mustafa Barzani (1903-1979). Proveniente anche lui, come Barzinji, da una famiglia di importante tradizione sufica, Barzani sarà per mezzo secolo una spina nel fianco di Baghdad, nonché simbolo vivente della lotta per l’indipendenza dei Kurdi. Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida nel 1943 un’ennesima rivolta che riesce a strappare al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan. Nel 1946 si afferma come comandante della Repubblica di Mahabad, nel Nord Ovest dell’Iran. A Barzani si deve infine anche la fondazione del «Partito democratico del Kurdistan» (riquadro pagina seguente), che rimane fino ad oggi il maggior partito politico kurdo dell’Iraq.

Dopo la fine dell’esperienza di Mahabad nel 1947 (riquadro in alto), Barzani si rifugia nell’Azerbaigian sovietico, dove rimane fino alla rivoluzione irachena del 1958. Dopo il ritorno e un fallito accordo con il governo di Baghdad, nel 1960 si rifugia in montagna, da dove guida per oltre un decennio i suoi uomini, i Peshmerga, alla resistenza contro le forze irachene. Muore in esilio negli Stati Uniti nel 1979, dopo essere stato infine sconfitto militarmente dal regime di Saddam Hussein, con la complicità dello scià iraniano. E proprio gli anni di governo del dittatore si dimostreranno i più duri per i Kurdi iracheni.

Sotto Saddam Hussein

La repressione inizia in sordina negli anni Settanta con una campagna di arabizzazione della regione, che mira a sopprimere l’identità kurda insieme a quella delle altre minoranze etniche e religiose.

Le cose precipitano in seguito con la guerra fra Iran e Iraq, combattuta fra il 1980 e il 1988. I due maggiori partiti politici kurdi si dividono, e quello di Barzani appoggia apertamente l’Iran, voltando le spalle a Baghdad. Una volta che inizierà a profilarsi la fine del conflitto, arriverà puntuale la vendetta di Saddam con la campagna di al-Anfal. Secondo i Kurdi (e non solo), un genocidio che costerà la vita a decine di migliaia di persone, con centinaia di migliaia di profughi costretti a fuggire. Altre migliaia di vittime costerà l’attacco chimico nella città di Halabjah, nei pressi del confine iraniano. Crimini poco noti al grande pubblico, ma fra i più efferati commessi negli ultimi decenni nell’intero Medio Oriente.

Nel 1991, dopo una sollevazione, i Kurdi riescono finalmente a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia resa possibile anche grazie alla no-flight zone americana dello stesso anno, che permette ai Kurdi di tirare il fiato dopo anni terribili in cui i baathisti al potere a Baghdad avevano commesso contro di loro i crimini più atroci.

Il Kurdistan oggi

Questa regione dalla storia travagliata è stata negli ultimi trent’anni teatro di massacri e genocidi. Nonostante ciò, il Kurdistan iracheno è riuscito a conoscere uno sviluppo economico e urbanistico senza precedenti che, seppure non scevro da gravi contraddizioni quali speculazione, corruzione e disuguaglianze, ha permesso ai Kurdi di raggiungere una notevole autonomia politica ed economica, e di sognare l’indipendenza. Un passo avanti di portata storica per questa gente che, a dispetto delle reiterate promesse di un riconoscimento statuale da parte delle ex potenze coloniali, non aveva mai fino ad ora potuto godere di una così ampia libertà di determinare il proprio destino.

Oggi molti Kurdi dei paesi vicini guardano a questa regione autonoma dell’Iraq con grande attenzione e partecipazione. Ricordo come un ragazzo, uno studente kurdo iraniano conosciuto a Teheran, mi raccontasse trasognato la sua scelta di studiare a Sulaymaniyah, città del Kurdistan iracheno. Il semplice fatto di poter studiare e parlare nella propria lingua madre, il kurdo, rappresentava per quel giovane – come per molti altri Kurdi dei paesi confinanti – un vero sogno, la realizzazione di oltre un secolo di aspirazioni, lotte e persecuzioni.

Benché già in essere dal 1991, l’autonomia kurda diviene una realtà con la nuova Costituzione irachena del 2005, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq. Da qui, come detto, ha inizio una stagione di grande sviluppo che entrerà in crisi solo negli ultimissimi anni con l’avanzata dell’Isis. E così ai crimini già ricordati si aggiungerà anche il genocidio della minoranza yazida iniziato nel 2014 e tuttora in corso (si veda MC marzo 2017). La presenza di centinaia di migliaia di profughi e sfollati è un altro prodotto importante di questa nuova crisi, che è divenuta anche economica.

Tra Erbil e Baghdad

In questa situazione complessa e delicata, sono ancora una volta i contorni stessi del Kurdistan a essere in questione. Se sono solo quattro in totale i governatorati riconosciuti ufficialmente parte di questa regione (Duhok, Erbil, Sulaymaniyah e Halabja), assai più ampia è però l’area controllata dai Peshmerga kurdi, che rivendicano un territorio ancora più vasto. Emblematico a tal proposito il casodi Kirkuk, città contesa da Baghdad e Erbil. In questo caso come in altri, non si tratta di un caso di facile soluzione: come capita spesso in Medio Oriente e nel Caucaso, si tratta di territori tutt’altro che omogenei da un punto di vista etnico e religioso, cosa che dà adito a infinite manovre e giochi di potere che, inevitabilmente, finiscono per essere pagati dalle fasce più deboli della popolazione e, in primis, dalle minoranze. Difficile anche stabilire con esattezza il numero di abitanti della regione autonoma del Kurdistan. Se le autorità di Erbil parlano di oltre cinque milioni di abitanti, secondo Baghdad si tratterebbe invece di un milione di meno.

Kurdistan turco e Kurdistan siriano

Numeri e politica a parte, l’importanza del Kurdistan iracheno è enorme anche solo da un punto di vista umano e culturale. Mentre la morsa del presidente turco Erdogan si fa sempre più stretta sui Kurdi di Turchia, e perdura la guerra nel Kurdistan siriano (noto come Rojava), costata infinite sofferenze, la relativa stabilità del Kurdistan iracheno è un approdo sempre più insostituibile per i Kurdi della regione. Un ruolo prominente attribuitogli anche dalla collocazione geografica, oltre che dall’evoluzione storica recente: situata com’è al centro della regione, la porzione irachena mette in comunicazione le altre parti del mondo kurdo separate nelle diverse nazioni. Un dato positivo, senza dubbio, che finisce però per produrre numerosi contraccolpi, scaricando su questa regione tutte le tensioni che investono i Kurdi nei paesi limitrofi.

Simone Zoppellaro


I Kurdi e il dna linguistico

Lingua, cultura, identità

Essendo distribuite su vari paesi (Iraq, Turchia,?Siria, Iran), le popolazioni kurde possono avere caratteri culturali molto diversi. Ma sono unificate da un unico idioma (che è una lingua indoeuropea), pur con tutte le sue varianti.

Il Kurdistan iracheno è un territorio ricco di storia e cultura, cosa che si evince anche dalla grande diversità linguistica, religiosa e culturale che vi si incontra. I Kurdi stessi che lo abitano, ben lungi dall’essere un monolite, hanno partiti politici, usi, costumi e idee molto diversi dai loro omologhi turchi e siriani, e proprio qui in Iraq hanno sviluppato un tassello fondamentale – per quanto tuttora incompiuto – nella loro lunga marcia verso l’autonomia e l’indipendenza. Ma non sono solo il passato e la tradizione a colpire il viaggiatore. Città come Erbil e Dohuk appaiono moderne e completamente rinnovate negli ultimissimi anni, per quanto nel loro tessuto sia facile scorgere edifici costruiti a metà, basi militari e campi profughi, cicatrici dovute a quello spartiacque che è stato l’ascesa dello Stato islamico ai confini di questa regione.

In questo articolo cercheremo di fornire al lettore di Missioni Consolata un quadro il più possibile aggiornato della società kurdo-irachena di oggi, muovendoci dalla lingua alla cultura, dall’economia alla politica, facendo anche tesoro di un viaggio appena concluso in questa regione.

Una lingua indoeuropea

Scrive il linguista e politologo Noam Chomsky: «Una lingua non è fatta solo di parola. È una cultura, una tradizione, il collante di una comunità, una storia intera che determina ciò che una comunità rappresenta. E tutto ciò è incarnato in una lingua». E proprio questo aspetto, quello linguistico, è il principale che determina ieri come oggi l’identità dei Kurdi, in contrapposizione ai vicini sia arabi che turchi, entrambi in maggioranza di fede musulmana, ma che usano idiomi molto lontani, riconducibili a famiglie linguistiche assai diverse. Il kurdo, invece, nelle sue diverse varianti appartiene alle lingue iraniche, come il persiano, parte della comune famiglia indoeuropea. E proprio con la lingua parlata in Iran si scoprono punti di contatto sorprendenti. Per limitarci a un solo esempio, che ho rilevato di persona parlando io persiano, prendiamo il caso dei numeri. Una cosa, questa, che mi ha permesso facilmente di dire molte cose in kurdo, senza aver fatto neppure una lezione o aperto una grammatica. Non mi era mai capitato di imbattermi in due lingue che avessero le medesime parole, perlopiù con variazioni minime di alcune vocali, per indicare tutti i numeri. Eppure, è esattamente quello che succede fra persiano e kurdo, lingue che hanno un legame profondo e antico.

Una lingua, tanti alfabeti

Tornando al kurdo, è giusto ricordare che non si tratta di una lingua unificata: esistono almeno due tipologie linguistiche del kurdo, chiamate Kurmanji e Sorani, presenti entrambe in Iraq. Queste sopravvivono senza che una sia riuscita a prendere il sopravvento sull’altra, tanto nella lingua parlata che in quella scritta e nella letteratura. Non ancora standardizzato è anche il modo in cui si trascrive questa lingua. Accanto al kurdo in caratteri arabi – egemone e preponderante in Iraq, dai cartelli stradali, ai libri e alle scuole – sopravvive ancora l’uso di trascrivere la lingua in caratteri latini. Non si deve dimenticare, infine, come il kurdo sia stato usato, anche da un punto di vista letterario, in un terzo alfabeto: quello cirillico, usato soprattutto quando esisteva ancora l’Unione Sovietica. Per un breve periodo, infine, negli anni venti, fu usato anche nell’alfabeto armeno, sempre nell’Urss. Una grande varietà che è, certo, conseguenza della storica mancanza di uno stato, di un centro di riferimento che sia in grado di imporre un canone, ma anche segno di una commistione culturale e linguistica che ha prodotto notevoli frutti.

Erbil e le università italiane

Se gli albori letterari della lingua kurda risalgono alla prima fioritura poetica del XVI secolo, le radici di questo popolo e di questa terra, come detto, sono però assai più antiche. A testimonianza di ciò è la cittadella di Erbil, patrimonio dell’Unesco, la cui vista che domina e sovrasta il centro della capitale della Regione autonoma del Kurdistan. Una presenza tanto più importante, in quanto sia la furia iconoclasta dell’Isis che il boom edilizio degli ultimi decenni hanno cancellato molte delle tracce storiche di questa terra in rapida evoluzione. E proprio la cittadella è al centro di un progetto di studio e valorizzazione promosso dalle autorità kurde insieme con la «Missione archeologica italiana nel Kurdistan iracheno» (Maiki: www.maiki.it), portata avanti da ormai molti anni dall’Università la Sapienza di Roma.

L’eccezionalità di questa altura artificiale, simile a quella che domina il centro di Aleppo in Siria, sta nella sua capacità di raccontare come un libro aperto migliaia di anni di storia racchiusi nei vari strati di sedimentazione di cui è composta. I reperti più antichi trovati in essa risalgono, infatti, addirittura al Paleolitico. Su questa altura sorgeva un tempo di Ishtar, ed oggi, racchiusa fra la possente cinta muraria, si trovano case storiche d’epoca ottomana, oltre che una moschea. Un altro importante lavoro archeologico, sempre italiano, è quello dell’Università di Udine, impegnata a investigare e valorizzare la piana di Ninive. Un progetto, questo, che ha individuato oltre centocinquanta insediamenti che coprono un arco cronologico che parte dalla preistoria per giungere fino all’epoca ottomana. Grande attenzione è poi riservata alla cultura assira, un altro importante tassello della storia di questa regione. Infine, come detto, proprio qui potrebbe aver avuto luogo una delle battaglie più importanti della storia antica. Come si legge in un articolo apparso di recente sul bimestrale Archeologia Viva:

«Le indagini degli archeologi udinesi hanno confermato che la storica battaglia di Gaugamela, vinta da Alessandro Magno contro il persiano Dario III nel 331 a.C., si svolse probabilmente nella grande piana di Navkur, al cui centro si trova il sito di Tell Gomel. Grazie a una precisa ricognizione delle fonti testuali, unita a un’esplorazione topografica, è stato accertato che la zona ha le caratteristiche presenti nelle antiche descrizioni».

Uno sviluppo convulso

Meno suggestivo è invece il lato moderno, del tutto preponderante, delle città kurde irachene di oggi, che è però anch’esso parte integrante della vita di questa regione, nient’affatto statica o persa in un suo lontano passato. Certo è che le maggiori città, quali Erbil e Dohuk, appaiono edificate in fretta e furia negli ultimi decenni, lasciando forse poco spazio sia alla memoria che all’immaginazione. Uno sviluppo convulso e, soprattutto nella capitale, per molti aspetti fuori controllo, ma che, esattamente come nell’Italia del dopoguerra, ha rappresentato per i Kurdi il simbolo liberatorio di una rivalsa nei confronti di un passato di repressione e sofferenze. Un panorama urbano, quello contemporaneo, dove a dominare sono anonimi quartieri sorti dal nulla e centri commerciali, e dove la disuguaglianza segna purtroppo in modo netto la differenza fra un’élite assai esigua e la larga maggioranza della popolazione molto lontana dagli standard dei primi.

A rendere ancora più stridente questo contrasto è la massiccia presenza, percepibile non appena si esce fuori dalle città, dei campi di profughi e sfollati. Si stima infatti che siano più di due milioni i rifugiati e sfollati interni presenti nel Kurdistan iracheno. Secondo il governo regionale del Kurdistan, questi rappresenterebbero oggi il 28% della popolazione totale della regione. Cifre importanti, che dovrebbero far riflettere chi oggi parla con troppa leggerezza di un’invasione in Italia o in Europa. Campi, quelli che ho visitato, dove manca di tutto: dall’elettricità alle cure mediche, alle terapie di recupero per i molti profughi che hanno subito violenze indescrivibili da parte dell’Isis e non solo.

Indipendenza da Baghdad?

Il tema politico più importante dibattuto in questi mesi dai Kurdi iracheni è quello di un possibile referendum sull’indipendenza da Baghdad, più volte annunciato, e sempre con maggior insistenza, ma finora non ancora messo in atto. Secondo gli interpreti più smaliziati, si tratterebbe solo di un escamotage per strappare ulteriori concessioni all’Iraq. Ma è pur vero che non va sottovalutata la portata simbolica dell’evento, il cui richiamo andrebbe a travalicare i confini della regione. Per i Kurdi, dopo un secolo di lotte, una simile opportunità rappresenterebbe un’occasione storica forse irripetibile. Certo è che a Erbil, a Dohuk e in altre città è assai raro vedere una bandiera irachena, mentre il tricolore kurdo, con il sole al centro, sventola con orgoglio ad ogni angolo e in ogni occasione.

Legata a doppio filo alla politica è l’economia del Kurdistan iracheno, marcata da diseguaglianze feroci, anche se, almeno per gli standard mediorientali, la povertà non è a livelli fuori controllo.

Una triste realtà di questa regione è poi la corruzione, come mi racconta un’antropologa sociale che ho intervistato a Dohuk, e che mi ha chiesto di rimanere anonima. Un argomento tabù, difficile e pericoloso da trattare per i media locali, che pure hanno conosciuto negli ultimi anni (si pensi al caso della televisione satellitare Rudaw, vedi foto a lato) un successo internazionale senza precedenti. Oltre al settore delle costruzioni, e al notevole sostegno finanziario ricevuto dai creditori internazionali, a fare la differenza nell’economia locale è la presenza del petrolio. Causa di frizione fra i Kurdi e Baghdad, una parte dei proventi di questa importante risorsa ha sostenuto lo sviluppo economico della regione, attirando l’attenzione di due potenze regionali come la Turchia, dove giunge la pipeline Kirkuk-Ceyhan da cui passa il petrolio kurdo, e l’Iran, che punta a sviluppare nuovi progetti.

Piccole e grandi frontiere

Se non mancano le basi storiche, economiche e sociali per un futuro prospero e democratico che superi le tante problematiche del presente, vi è però un ostacolo fondamentale da superare: la guerra, che insanguina da tanti, troppi decenni il Kurdistan iracheno. Se il germe del radicalismo non ha attecchito in una società in buona parte laica come questa, il contesto geopolitico incandescente ha lasciato però poca scelta alla società kurda, che vive in uno stato di perenne militarizzazione. Ed ecco allora che una delle presenze più evidenti, che scandiscono continuamente i panorami mozzafiato di questa regione, è quello dei check point militari. Piccole frontiere che moltiplicano le grandi frontiere e le rafforzano, lacerazioni del passato e del presente di questa terra.

Simone Zoppellaro


Dalla tolleranza ai drammi del presente

I cristiani e le altre minoranze religiose

Per cristiani dell’Iraq – passati da 1,4 milioni a soltanto 250 mila persone – il presente è drammatico. E tuttavia almeno nel Kurdistan la tolleranza religiosa resiste.

Circa il 94% dei kurdi iracheni sono musulmani, con una netta prevalenza di sunniti e una minoranza sciita nella zona di Khanaqin, nei pressi del confine con l’Iran. Il sufismo ha una ruolo importante nella regione, come si evince dal fatto che i maggiori leader kurdi siano affiliati a questa corrente.

Dall’avvento dell’islam in avanti, e ancora fino a un’epoca assai recente, il Medio Oriente non ha mai smesso di essere patria di una pluralità religiosa sorprendente, inimmaginabile nell’Europa preilluministica. Una realtà storica diametralmente opposta a quella prevalente nell’immaginario comune e nei media, che tendono a rappresentare la religione islamica come unicamente fanatica, intollerante e spietata nei confronti delle altre fedi. In realtà, ebrei, cristiani e zoroastriani – fra gli altri – hanno goduto per secoli sotto la mezzaluna di una libertà inconcepibile in Occidente, giungendo in moltissimi casi ai massimi vertici della vita politica, culturale ed economica dei territori dell’ecumene musulmana. Un patrimonio religioso, sempre declinato al plurale, che neppure la cieca violenza del fondamentalismo islamista è riuscita a sradicare del tutto.

Una tolleranza che affonda peraltro le sue radici nel dettato coranico stesso, che riconosce e tutela – accanto alla nuova fede di Muhammad – le altre religioni monoteistiche preesistenti, garantendo loro buoni margini di autogoverno per molti aspetti della vita privata e religiosa delle comunità minoritarie. Alle «genti del Libro», come le definisce il Corano alludendo alla Bibbia, come alla Torà e all’Avesta, va così garantita protezione da parte della maggioranza musulmana, a patto di un versamento di un’imposta personale chiamata jizya. A testimonianza ulteriore di una relativa apertura, come dimostrano gli studi più recenti in questo campo, anche l’estrema lentezza con cui la conversione all’islam si affermò nei territori via via conquistati nell’impero nato con la nuova fede del profeta Muhammad.

Caso esemplare a tal proposito è quello dell’epoca mongola, fra XIII e XIV secolo, quando la presenza di cristiani ed ebrei nelle corti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale divenne così forte da minacciare la stessa egemonia culturale e religiosa dei musulmani. Questo grazie alla presenza di numerosi cristiani fra le fila dei mongoli stessi, fra cui generali di primo piano e persino alcune regine.

Il Kurdistan, esempio di pluralità di fedi

In tutto questo, i territori facenti oggi parte del Kurdistan iracheno – con la loro storia millenaria – rappresentano un caso positivo esemplare, che si distingue in modo netto dalla persecuzione che afflige le minoranze nelle zone fuori della regione. Anche il viaggiatore più distratto non potrà fare a meno di notare la sorprendente presenza di una pluralità di fedi, una accanto all’altra, i cui segni sono assai diffusamente presenti, nonostante le brutali persecuzioni degli ultimi anni. Nel territorio della Piana di Ninive, ad esempio, affiorano spesso nel paesaggio urbano e nelle campagne i profili di chiese e croci, oppure i bianchi tempietti della minoranza yazida con il loro caratteristico profilo conico. Oltre a ciò, armeni e siriaci – nonostante la drammatica crisi del cristianesimo iracheno dopo l’invasione americana del 2003 – continuano a trasmettere di generazione in generazione non solo la loro fede e il loro patrimonio culturale e liturgico, ma anche le loro lingue, diverse da quelle della maggioranza kurda e araba. In queste lingue si canta, si prega e si tengono le funzioni religiose nelle chiese, spesso estremamente suggestive. In diverse scuole e nelle parrocchie si studiano e si coltivano così il neo-aramaico, un’evoluzione moderna della lingua parlata da Gesù, e l’armeno, ognuna con i rispettivi alfabeti usati spesso anche nelle insegne e nei negozi. Lettere che si fanno simbolo di un’identità rivendicata con orgoglio nello spazio pubblico, di un’appartenenza che sfida apertamente l’insorgere del fondamentalismo in tutto il Medio Oriente, da cui per fortuna – oggi come ieri – il Kurdistan è ancora in larga parte immune.

Ma non solo i luoghi di culto e le insegne a marcare la presenza delle minoranze religiose nel territorio. Nel villaggio cristiano di Alqosh, ad esempio, sventola con orgoglio su molte case la bandiera siriaca, mentre nel villaggio di Havresk, allo stesso modo, non manca appeso alle finestre il tricolore armeno. Piccoli segni che però non possono lasciare indifferenti, dato il contesto in cui si trovano: quest’ultimo villaggio, ad esempio, è ad appena a una trentina di chilometri dalla diga di Mosul, città ancora contesa fra lo Stato islamico e Baghdad. E proprio in molti di questi villaggi e insediamenti cristiani e yazidi si incontrano di continuo sfollati interni sfuggiti dalla furia omicida dell’Isis. Un gruppo, quest’ultimo, che con la assurda pretesa di richiamarsi ai fondamenti del credo islamico rinnega invece oltre un millennio di storia che, pur fra eccezioni e contraddizioni a volte violente, va ascritto sotto il segno benevolo della tolleranza religiosa. Un’eredità portata avanti invece dai kurdi, una società dai tratti in larga parte secolare, almeno per gli standard vigenti oggi nel Medio Oriente.

La paura

Oggi, purtroppo, la paura è il sentimento dominante fra le minoranze, che non possono dimenticare i genocidi, le stragi, la resa in schiavitù e i continui soprusi che ancora avvengono nei loro confronti a poche decini dei chilometri da qui. Questa gente non parla d’alto, e non potrebbe essere altrimenti. Un timore tanto più grande, ripetono i cristiani di qui, proprio perché non limitato ad alcuni gruppi terroristici, ma anche alle zone grigie, alle complicità e ai fiancheggiamenti dimostrati da tanta gente comune, soprattutto nei centri a maggioranza araba e sunnita. La paura la fa da padrona, dicevamo, ma insieme dominano anche l’amarezza e la solitudine. La domanda che ricorre forse più di frequente nelle persone che ho intervistato – a volte esplicitata, altre semplicemente implicita, ma sempre presente – è perché l’Europa e l’Occidente si ostinino a voltarsi dall’altra parte di fronte al perpetuarsi delle orribili violenze dell’Isis, e non solo, nei confronti delle minoranze. Una frustrazione che si alterna però di continuo al sogno (perché di ciò soltanto si tratta) di una salvezza che giungerà presto da Occidente, dando finalmente sicurezza e autonomia alle minoranze dell’Iraq. Difficile dire se ci credano davvero, in un Medio Oriente dominato in modo sempre più esclusivo dai semplici interessi economici e dallo sfruttamento. Certo è che la speranza, anche in questi luoghi che traboccano di sofferenze, trova sempre la sua via nella mente e nei cuori degli uomini. Non sarà un caso: troppo il bagaglio di orrore che questa gente porta sulle spalle ogni giorno da anni.

La sparizione dei cristiani

Per quel che riguarda i cristiani in Iraq, la situazione è particolarmente drammatica. Si è passati da 1,4 milione di cristiani, prima del 2003, a meno di 250.000 persone. Il rischio concreto, come denuncia il recente rapporto «No Way Home: Iraq’s Minorities on the Verge of Disappearance», da cui riprendiamo questi dati, è quello di una definitiva scomparsa di questa e delle altre minoranze dal paese. Siamo dunque sull’orlo di un baratro, dopo oltre un millennio di convivenza. «Tredici anni di guerra hanno avuto conseguenze devastanti di lungo termine per la società irachena», ha dichiarato Mark Lattimer, direttore esecutivo di Minority Rights Group International. «L’impatto sulle minoranze è stato catastrofico. Saddam era terribile, ma la situazione da allora è peggiorata. Decine di migliaia di persone appartenenti a minoranze etniche e religiose sono state uccise e in milioni sono fuggiti per avere salva la vita».

Forse ancora più drammatica, rispetto ai cristiani, è la situazione dell’altra minoranza religiosa più importante del Kurdistan iracheno, quella yazida (cui abbiamo dedicato un dossier su Missioni Consolata di marzo 2017). Il tutto è avveuto con la complicità di molti arabi sunniti, i quali, vedendosi spodestati dal loro ruolo egemone con la caduta di Saddam, e sentendosi discriminati a loro volta dai governi succedutisi negli ultimi anni a Baghdad, hanno almeno in parte appoggiato l’ascesa dell’Isis sperando in una rivalsa sociale ed economica.

Piccoli segni di speranza

In questa situazione tragica non mancano però alcuni segni positivi che ho riscontrato nel mio viaggio. Ora più che mai, è giusto dare voce anche ai casi positivi, se non altro per non dare adito al messaggio nichilista – spesso del tutto egemone, ma falso – che la violenza sia una situazione invariabile e immutabile nel mondo musulmano. Non lo è oggi, come non lo è mai stata. Gli uomini sono liberi di scegliere il loro destino, come non lo siamo di scegliere se voltarci dall’altra parte o se invece di impegnarci per scongiurare guerre e catastrofi. Nella città di Dohuk, ad esempio, il sacerdote armeno locale mi ha raccontato come la chiesa, da poco costruita e il centro culturale Ararat ad essa adiacente – usato per matrimoni e feste – siano state costruite con il sostegno pubblico della regione kurda. O ancora, ho avuto occasione di intervistare Hussein Hasun, yazida, consigliere speciale del primo ministro del Kurdistan per i procedimenti legali legati ai genocidi. Una parola che usa al plurale: le autorità kurde, infatti, nonostante la scarsa collaborazione di Baghdad, stanno raccogliendo testimonianze ed ogni genere di prove per dimostrare che le violenze subite dalle minoranze religiose in questi anni siano casi di genocidio. No

n mancano infine contatti e incontri fra le diverse comunità religiose, e il rispetto reciproco è ancora alla base della convivenza fra i cittadini di diverse fedi, nonostante le ferite del presente.

Da segnalare infine come sia stato da poco inaugurato un tempio zoroastriano a Sulaymaniyah, oltre al progetto di edificare una sinagoga ad Ebril, dove lo scorso anno si è tenuta per la prima volta una commemorazione dell’Olocausto ebraico insieme alla piccola comunità ebraica locale. Piccoli segni, forse, ma che testimoniano che è una sfida che si può e si deve vincere, quella per la sopravvivenza dei cristiani e delle minoranze tutte, almeno qui in Kurdistan iracheno. Una sfida tanto più importante, proprio perché unica, preziosa e antica è l’eredità religiosa di cui è depositaria questa terra. E mentre Baghdad e la Siria sono allo sbando, potrebbe essere proprio da qui – dai kurdi, essi stessi vittime di tante persecuzioni nell’ultimo secolo – che la convivenza potrà rinascere appieno, scongiurando il rischio che il cristianesimo e lo yazidismo in Medio Oriente divengano solo un ricordo, cancellati per sempre, come in una tabula rasa.

Simone Zoppellaro

Schede


Lotte interne e strane alleanze

La scena politica e militare del Kurdistan iracheno di oggi appare dominata in modo pressoché esclusivo da due partiti storici, conosciuti con due acronimi, il Pdk e l’Upk. Il primo, il «Partito democratico del Kurdistan», affonda le sue radici nella Repubblica di Mahabad, dove è nato, e nella figura carismatica del suo leader combattente, Mustafa Barzani. Una storia importante, raccolta non a caso dal figlio di questi, Masud Barzani, l’attuale presidente della regione kurda. Più recente è invece il Upk, l’«Unione patriottica del Kurdistan», partito fondato a metà degli anni settanta e guidato oggi dall’ex presidente iracheno Jalal Talabani. Anche il suo successore alla guida del paese, Fuad Masum, è fra i fondatori del partito, nato da una costola del Pdk, critica nei confronti della leadership dopo la sconfitta dei Kurdi nella rivolta del 1974-1975. I due partiti, in seguito, sono arrivati più volte a scontrarsi, fino a giungere a una vera e propria guerra civile negli anni Novanta.

Il presidente dell’Iraq Jalal Talabani (AP Photo/Hadi Mizban, File)

Se comune a entrambi è una storia di lotte per la causa kurda, e l’ambizione dell’indipendenza da Baghdad, a distinguere oggi i due partiti è anche un diverso orientamento geopolitico: se il Pdk di Barzani è particolarmente vicino alla Turchia, prima sostenitrice del Kurdistan iracheno, l’Udk guarda invece più a Oriente, all’Iran. Due potenze regionali che hanno un’influenza enorme sulla vita politica ed economica del Kurdistan iracheno. E così, per un amaro paradosso, Erbil finisce per essere legata a doppio filo ad Ankara, ovvero con il nemico più acerrimo dei kurdi turchi e siriani. Un legame, questo, che produce una grave frattura all’interno del mondo kurdo. A tal proposito, non va trascurata infine la presenza politica e militare del Pkk, il «Partito kurdo dei lavoratori» di Ocalan, per quanto i suoi supporter vengano tenuti ai margini dai vertici politici ed economici di Erbil. Una presenza che ha prodotto, anche di recente, frizioni e persino scontri aperti con gli altri partiti kurdi.

Si. Zo.


Terra?adorata

Ricordiamo una poesia del poeta kurdo Hemin Mukriyani (1921-1986), uno degli eroi della breve esperienza della Repubblica di Mahabad, stroncata nel sangue:

«Terra adorata, mia terra,
amore che ho perduto
se tu fossi remota
in un cielo inaccessibile
o su una vetta ai limiti del mondo
saprei correre da te
anche con scarpe di ferro.
Ma ti separa da me un tratto sottile.
L’invasore lo chiama confine».

Dal volume «Canti d’amore e di libertà del popolo kurdo», a cura di Laura Schrader (Newton, 1993).



I domenicani Garzoni e Campanile

I primissimi studi europei sulla lingua e la cultura dei kurdi sono opera di due missionari italiani, veri e propri pionieri in questo campo: i padri domenicani Maurizio Garzoni (1734-1804) e Giuseppe Campanile (1762-1835). Il primo raggiunge Mosul nel 1762, per poi stabilirsi nella vicina Amadiya, città ieri come oggi a maggioranza kurda. Qui studia e raccoglie materiali per la sua opera, la «Grammatica e vocabolario della lingua kurda», la prima in assoluto nel suo genere, pubblicata a Roma nel 1787. Pochi decenni più tardi toccherà invece al suo successore, Giuseppe Campanile, eletto nel 1800 Prefetto apostolico nella Mesopotamia e il Kurdistan, un altro primato: quello di aver pubblicato, con la sua «Storia della Regione del Kurdistan» pubblicata a Napoli nel 1818, il primo resoconto organico su questa parte del mondo. Un lavoro ulteriormente arricchito dalle esperienze personali dell’autore. Entrambe le opere, al di là del primato temporale, rappresentano ancora oggi fonti preziose ed uniche nel ricostruire la storia, la lingua e la cultura dei kurdi nel loro tempo. A un missionario di Basilea, Gottlieb Christian Hörnle (1804-82), spetterà invece la prima versione biblica in questa lingua, con la traduzione del Vangelo di Giovanni nel dialetto kurdo di Mokri.

Si.Zo.


Rabban Ormisda

«Stavo riflettendo da tempo su una iniziativa simbolica per educare la gente alla pace e al dialogo». Con queste parole il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphael I Sako, ha lanciato ad aprile la Marcia Interreligiosa della Pace, che ha coinvolto nella settimana santa pellegrini di varie nazionalità, oltre a molti abitanti della Piana di Ninive appartenenti alle diverse religioni. Punto di arrivo di questa marcia, luogo per nulla casuale, quello che è forse il luogo più suggestivo dell’intero Kurdistan iracheno: il monastero di Rabban Ormisda, situato nei pressi del villaggio cristiano di Alqosh.

Fondato nel VII secolo, porta il nome del monaco che lo fondò: Rabban Ormisda. Si tratta di un capolavoro nell’interazione fra architettura e paesaggio. Scavato nella roccia sulla parete di un monte affacciata sulla Piana di Ninive, il monastero è un angolo di tranquillità e pace in una terra che continua ad essere segnata dalla guerra. Da qui si può vedere l’orizzonte per chilometri, in un paesaggio mozzafiato, il tutto con una doppia funzione: difensiva ed estetica. Per alcuni secoli, fu sede dei patriarchi nestoriani, a testimonianza dell’importanza rivestita. Più volte distrutto e ricostruito, l’ultima volta a metà ottocento con il supporto del Vaticano, questo monastero e il vicino villaggio rappresentano un simbolo di pace e convivenza, dato che per secoli furono sede di pellegrinaggio non solo per i cristiani, ma anche per ebrei e musulmani.

Si.Zo.


Infodossier

Autore e curatore di questo dossier:

  • Simone Zoppellaro – Nato a Ferrara, è giornalista freelance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Karabahk (agosto 2016), Armenia (ottobre 2016) e il dossier sugli Yazidi (marzo 2017).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.



Mali: il conflitto nel paese saheliano cambia velocità


In Mali si vive una guerra a «bassa intensità» dal 2012. L’avanzata dei gruppi fondamentalisti islamici è bloccata dall’intervento militare francese. L’Onu registra una delle missioni con maggiori perdite umane della sua storia. Gli accordi di pace firmati nel 2015 sono «parziali» e la loro applicazione è complessa. E da alcuni mesi il conflitto sta assumendo pericolose connotazioni etniche. Mentre il Daesh «apre» ufficialmente nel Sahara.

Bamako. Il traffico della capitale del Mali è simile a quello di molte grandi città saheliane. Le auto
si bloccano in lunghe file ai semafori, mentre le moto passano in ogni possibile breccia. Qui il grande fiume Niger da un lato e la collina di Kouluba dall’altro strozzano il centro città, costringendolo a svilupparsi nel senso della lunghezza. Dall’altra parte del fiume, i quartieri dormitorio. Si passa tramite tre ponti, chiamati comunemente primo, secondo e terzo ponte: i colli di bottiglia naturali di questa città che vede la sua popolazione riversarsi sul lato sinistro al mattino e tornare sul lato destro alla sera. Anche i frequenti controlli della polizia creano rallentamenti. Verificano la circolazione di armi, ma normalmente è sufficiente aprire il vano del cruscotto per soddisfare il frettoloso poliziotto.

Tutto tranquillo, dunque, in una grande città che pulsa con i suoi oltre due milioni di abitanti e temperature che ad aprile raggiungono i 47 gradi.

Ma non c’è più la serenità di un tempo. Gli abitanti di Bamako si ricordano quel 20 novembre 2015 in cui un commando di jihadisti si è materializzato dal nulla e ha preso in ostaggio clienti e lavoratori dell’Hotel Radisson Blu. L’attacco ha lasciato sul terreno 22 vittime innocenti. Quel giorno la città si è ricordata di essere la capitale di un paese in guerra, peggio, un paese diviso.

AFP PHOTO / SOULEIMAN AG ANARA

Intesa nazionale?

Il 2 aprile scorso si è conclusa, proprio a Bamako, la Conferenza d’intesa nazionale, nome pomposo per un incontro di cinque giorni di alcuni tra i protagonisti del conflitto maliano. «Non è servita a nulla», ci dice un osservatore straniero. In effetti mancavano due leader jihadisti fondamentali: Iyad Ag Ghali, storico capo tuareg fondamentalista del Nord e Amadou Koufa, peulh, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, nel centro del paese. Neppure l’opposizione politica era presente, in quanto ha boicottato la conferenza, mentre molti altri gruppi non sono stati soddisfatti del risultato. La Conferenza fa parte della difficile applicazione degli accordi di pace di Algeri firmati tra maggio e giugno 2015. Intanto nel paese si è registrato un preoccupante salto di qualità del conflitto, già a partire dalla metà dell’anno scorso.

Ma per capire cosa succede in Mali occorre fare un passo indietro.

Da democrazia a caos

Negli anni 2000, il Mali era un esempio di democrazia e alternanza al governo per tutta l’Africa dell’Ovest. Il presidente Amadou Toumani Touré (Att) aveva tuttavia trascurato il Nord, una regione di oltre 800.000 km quadrati (quasi tre volte l’Italia), in gran parte desertica, che si incunea tra Mauritania, Algeria e Niger. Regione tradizionalmente tuareg e araba, chiamata da questi popoli Azawad. Qui i movimenti indipendentisti tuareg esistono da tempo, e storicamente sono sfociati in periodiche ribellioni, l’ultima delle quali si era conclusa nel 2006.

Ma in quegli anni si è assistito ad altri fenomeni, come l’arrivo di predicatori mediorientali, che hanno iniziato a diffondere il wahabismo, l’ideologia islamista promossa dall’Arabia Saudita. Al tempo stesso i gruppi integralisti salafiti algerini, gli ex Gia (Gruppi islamici armati) che avevano insanguinato l’Algeria negli anni ’90, hanno iniziato a stabilirsi sul suolo maliano. Nel deserto le frontiere non esistono e i due paesi confinano per oltre 1.000 km. Il potere centrale di Bamako è lontanissimo da queste terre, sia fisicamente che culturalmente. Così sono cresciuti i movimenti radicali islamisti che a inizio 2012 hanno dichiarato guerra allo stato centrale. Sono molti e diversificati. Ci sono i tuareg laici, i tuareg fondamentalisti, i gruppi jihadisti salafiti di origine algerina (si veda MC settembre 2006, MC dicembre 2010). Nel 2007 i salafiti hano aderito ad Al Qaeda internazionale fondando Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico). Nel marzo 2012 Att ha subito anche un goffo colpo di stato da parte di una frangia dell’esercito, fatto che ha indebolito ulteriormente lo stato centrale maliano. Dopo un periodo di transizione si sono svolte le elezioni in cui è stato eletto Ibrahim Boubakar Keita (Ibk) nell’agosto del 2013.

AFP PHOTO / PASCAL GUYOT

La guerra si estende

La galassia di gruppi armati nel Nord del Mali è in rapido cambiamento. Si alternano coalizioni e scontri tra gli stessi, piattaforme, coordinamenti, in una geometria di alleanze estremamente variabile. Ma quando nel gennaio 2013 l’esercito regolare maliano era allo sbando e il fronte ribelle, islamisti di Aqmi compresi, puntava su Bamako, è intervenuta la Francia, ex potenza coloniale, inviando le sue forze militari d’élite, con l’operazione denominata Serval, respingendo i combattenti. Questi sono tornati nelle loro roccaforti nel deserto del Nord. Una missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Mali, Minusma, ha preso il via nell’aprile dello stesso anno. Ne fanno parte 13.000 uomini di 26 nazionalità, tra cui quelle dei confinanti Burkina Faso e Niger. È diventata una delle missioni dell’Onu con più morti tra i caschi blu di tutti i tempi. Importante è la partecipazione del contingente tedesco, forte di un migliaio di militari, oltre a otto elicotteri, blindati e droni e due arei per trasporto truppe basati a Niamey, Niger. Anche l’Europa ha in Mali un suo contingente, l’Europen Union trainig force (Eutf), con l’obiettivo di formare e riorganizzare le Forze armate maliane. Ha un effettivo di circa 600 uomini di 20 paesi.

Il primo agosto 2014 l’operazione Barkhane ha sostituito Serval. Barkhane, sempre francese, copre cinque stati (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad), e ha comando a Ndjamena capitale del Ciad.

La pace finta che scontenta

In questo contesto estremamente complesso e frammentato si è arrivati alla firma della pace tra maggio e giugno 2015. Accordo quanto mai parziale, perché coinvolge solo alcune sigle. In particolare la Cma (Coalizione dei movimenti dell’Azawad), di cui fa la parte del leone il Movimento per la liberazione dell’Azawad (Mnla). Ha firmato anche la Plateforme, ribelli detti «filo governativi» attive a Menaka, ad Est . L’accordo prevede la smobilitazione dei combattenti; la creazione del Moc (Meccanismo operativo di coordinamento), ovvero pattuglie miste governo – ex ribelli firmatari conto i jihadisti; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord (gli amministratori sono tutti fuggiti a causa della guerra) con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, con l’obiettivo di una definizione politica dell’Azawad. Ridefinizione che però non è arrivata, scontentando le parti tuareg.

Il conflitto cambia livello

«A partire da metà 2016 abbiamo visto un cambio di velocità nel conflitto», ci dice la nostra fonte che chiede l’anonimato, «undici gruppi sono usciti dalle coalizioni firmatarie, in dissenso con l’accordo, ritornando nella lotta armata». «Un altro elemento fondamentale è l’estensione del conflitto nel centro del paese, la regione di Mopti. Questa zona è sempre stata legata al governo, molto più del Nord, ma adesso lo stato sembra averne perso il controllo». In effetti «si è partiti con la guerra a Nord, ma andando di questo passo non si può escludere che tra qualche tempo il conflitto interesserà anche il Sud, quindi tutto il paese», rivela un’altra fonte locale.

Un osservatore maliano basato a Gao ci conferma: «La crisi sta prendendo un’altra dimensione, molto più preoccupante. Prima si trattava di gruppi armati ribelli che combattevano contro lo stato centrale, adesso sta diventando un conflitto con caratteristiche comunitarie, ovvero comunità etniche diverse che si affrontano».

La nostra fonte si riferisce agli scontri tra diverse comunità che avvengono nel Nord, ad esempio a Gao, tra Tuareg, Arabi e Songo. «A causa dell’applicazione dell’accordo di pace, è frequente che un gruppo si senta leso o emarginato e quindi entri in conflitto con gli altri per far valere i suoi diritti». È il caso di gruppi Songo di Gao, che si sentono discriminati dai gruppi Tuareg che hanno partecipato al negoziato. O ancora, l’applicazione delle pattuglie miste ha visto l’entrata in città di combattenti armati che prima erano considerati nemici e tenuti alla larga, e questo «ha suscitato percezioni diverse nella popolazione e creato tensioni». «Bisogna anche dire che tutti questi gruppi etnici hanno dei movimenti di supporto all’estero che li sobillano soprattutto grazie all’uso dei social network».

AFP PHOTO / SOULEIMAN AG ANARA

Il contagio si diffonde

Altra questione importante dell’ultimo anno è l’estensione del conflitto alla regione centrale del paese. Qui i gruppi ribelli sono a base etnica peulh, popolazioni di allevatori nomadi che vivono in tutto il Sahel. In questa zona il predicatore radicalizzato Amadou Koufa (o Hamadou Kouffa) ha costituito il gruppo armato jihadista Fronte di Liberazione di Macina (Flm, dal nome di un antico regno di questa zona), ora noto come Ansar Dine in Macina. Koufa è stato a lungo legato al tuareg fondamentalista Iyad Ag Ghali, fondatore di Ansar Dine e di Aqmi e ora basato nell’area di Kidal, nel Nord. Dal Flm si è generato anche il primo gruppo fondamentalista tutto burkinabè, sempre a base etnica peulh, del leader e predicatore Ibrahim Mallam Dicko, che opera nel Nord del Burkina e a cavallo tra i due paesi (provincia del Lorum in Burkina e quella di Douentza in Mali).

Anche nel centro si assiste a un’aggravante a sfondo etnico. I militari dell’esercito regolare, le Fama (Forze armate maliane), mandano a fare i lavori sporchi i Dozo, cacciatori di etnia bambara (maggioritaria nel Sud del paese). Questi, sono tradizionalmente nemici degli allevatori peulh e, coperti dal clima di impunità, hanno cominciato ad ammazzare civili di quell’etnia senza farsi troppe domande. Inoltre è stato osservato che la Fama e la polizia arrestano quasi esclusivamente Peulh e mai Bambara. Il conflitto comunitario sta quindi andando verso uno scontro tra milizie organizzate a base etnica.

«La gente nel centro non è coinvolta nell’accordo di pace, che interessava solo i gruppi del Nord, per cui non beneficia dei dividendi della pace (come le indennità pagate alla smobilitazione, ndr). E si sentono ora abbandonati dal governo di Bamako». Tutti questi elementi stanno dando una deriva etnica al conflitto.

«Assistiamo a un cambiamento nella società maliana. Il tessuto sociale si sta strappando. Si è passati dal multiculturalismo alla contrapposizione etnico-culturale. Ad esempio sono saltati i meccanismi sociali di risoluzione dei conflitti. E questo è gravissimo», commenta la nostra fonte.

«Inoltre l’occupazione di queste zone da parte dei jihadisti è inquietante, ed è aggravata dal fatto che il governo non la riconosce per non dover ammettere un suo fallimento».

Anche l’Isis nel Sahel

Un ulteriore elemento di preoccupazione è la comparsa ufficiale, sempre nell’estate 2016, del Daesh nel Sahel. Si tratta del Mujao che proclama la propria affiliazione e si fa chiamare Stato Islamico nel Grande Sahara. Con a capo Adnane Abou Walid Al-Saharwi, sarebbe per ora ad Est, nella zona di Menaka. «Il Daesh si sta ormai installando nella regione, e questo vuol dire che vedremo dei grossi cambiamenti nei prossimi 12-18 mesi».

Intanto nel Sud e a Bamako si acuisce la crisi sociale, oltre al crescente malcontento verso il governo e la presenza dei militari stranieri della Minusma. Dal 9 marzo scorso tutto il settore sanitario è in sciopero, e questo – per un paese come il Mali – vuole dire un aumento dei decessi tra i pazienti. Ultimamente anche gli operatori del settore educazione hanno iniziato a scioperare. Le rivendicazioni sono di tipo salariale, ma le manifestazioni e l’astensione dal lavoro paralizzano questi settori. Il presidente Ibk si è affrettato a modificare il governo, nominando il quarto primo ministro dall’inizio del suo mandato. Aboulaye Idrissa Maiga ha costituito il suo governo l’11 aprile. Simile al precedente: ha cambiato i ministri di Salute ed Educazione nel tentativo di calmare le piazze. Anche il dicastero della Difesa, occupato proprio da Maiga nel precedente governo è stato cambiato.

Nel 2018 ci saranno le elezioni ed è facile che Ibk siariconfermato. Non ci sono infatti oppositori in grado di vincere e anche il rischio di colpo di stato pare limitato, vista la militarizzazione del paese.

Un tuareg che occupa una posizione importante in una Ong condivide la sua preoccupazione: «I problemi del Mali stanno prendendo dimensioni sempre più serie. L’aggravarsi dei conflitti etnici, i gruppi islamisti che hanno più terreno. La situazione è fuori da ogni controllo ed è difficile essere ottimisti per il futuro del Mali».

Marco Bello


Incontro con l’abbé Timothée Diallo,
responsabile dei media cattolici

Occorre un cambiamento di mentalità

I cattolici in Mali sono una minoranza. Ma sono ben integrati e la collaborazione con gli islamici è grande. A tutti i livelli, a partire dalle scuole. Solo così si può creare una cultura di dialogo e porre un freno all’avanzata del radicalismo.

BAMAKO. L’abbé Timothée Diallo è parroco della Cattedrale di Bamako da 15 anni. Giornalista, ha studiato alla scuola di comunicazione sociale dei salesiani a Roma. È attualmente il responsabile dei media cattolici della Conferenza episcopale del Mali. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio, nel centro di Bamako.

Abbé Timothée, chi sono oggi i cattolici in Mali?

«Come cristiani stimiamo di essere il 5% e noi cattolici siamo distribuiti in sei diocesi. Negli ultimi tempi i battesimi sono aumentati. Le etnie che hanno maggiormente abbracciato il cattolicesimo sono i Bobo, nella diocesi di San. Però quasi tutte le etnie vedono la presenza di cristiani: Bambara, Peulh, Soninka, Sonrai, ecc.

I missionari sono arrivati in Mali nel 1888 dal Senegal, la prima missione è stata Tuba, nella diocesi di Kayes. Erano degli spiritani (i padri dello Spirito Santo, ndr), perché i missionari d’Africa hanno tentato per ben due volte di arrivare in Mali dall’Algeria, ma in entrambi i casi i convogli furono massacrati prima di arrivare a Timbuctu. Gli spiritani lasciarono la missione ai padri Bianchi che portarono avanti l’evangelizzazione in Mali».

Quali sono le maggiori difficoltà che state vivendo come minoranza?

«Siamo una minoranza, ma abbiamo la fortuna di avere molti matrimoni misti, tra cristiani e musulmani. Negli ultimi anni in certi ambienti è diventato difficile esprimere la propria fede cristiana. Conosco delle famiglie che non accettano più di accogliere un cristiano e dargli da bere o da mangiare (accoglienza che nel Sahel e nel deserto è sempre stata sacra verso chiunque, ndr). Ma nella maggioranza dei casi c’è buona coabitazione, si celebrano insieme le feste, musulmane come quelle cristiane. Per esempio io sono sempre invitato da famiglie musulmane per la Tabaski o la fine del Ramadam.

Nel campo dell’educazione abbiamo scuole cristiane dappertutto nel paese. Qu i in cattedrale la nostra scuola ha 800 allievi e solo il 5% sono cattolici, gli altri sono mu sul mani . Ci sono i movimenti di azione cattolica in Mali, come la Gioc, gioventù operaia cattolica, qui la chiamiamo “credente”, Comunità di studenti credenti e poi Gli amici di Kizito, per i bambini fino a 12 anni. In questi movimenti ci sono anche molti musulmani. Questo ci permette di dialogare e comprenderci tra di noi. Preghiamo insieme, ognuno si esprime secondo la sua religione. I genitori musulmani fanno frequentare ai figli la scuola cattolica perché pensano che dia una buona educazione. E poi li mandano anche a i movimenti cattolici.

Non abbiamo per nulla un approccio volto alla conversione, ma piuttosto a dialogo e coabitazione per la pace e il benessere della persona umana. È qu e sto c he fa l a nostra fortuna in Mali . Qu an do certi leader religiosi hanno reclamato che il Mali diventasse uno stato islamico, sono proprio i musulmani che si sono opposti, preservando la laicità».

Ma ci sono dei segni di radicalizzazione nella società?

«Ci sono molte più donne con il velo e sono state costruite molte moschee, tutte uguali, sorte come funghi e finanziate da paesi arabi. Questo per mostrare che il paese è islamico. Ma è un a questi one di facciata perché non sono frequentate. In una zona che conosco, la maggioranza delle persone segue culti tradizionali e ci sono anche molti più cristiani. Soprattutto nelle grandi città sentiamo la presenza dell’islam con molte moschee, m a non è così nelle campagne».

C’è ancora una chi es a missionaria in Mali?

«Ci sono ancor a dei padri bianchi, nella arcidiocesi di Bamako, abbiamo 11 parrocchie di c ui 2 son o tenute dai padri Bianchi, una dai A Salesiani. Ci sono i fratelli del Sacro Cuore, in tre diocesi. Anche i Salesiani. C’è ancora molto lavoro di evangelizzazione da fare in Mali, ci sono molte zone che non sono state toccate, dove i missionari non sono mai andati. Io penso che se si creassero altre parrocchie ci sarebbero molte più conversioni. È il personale che manca, abbiamo ancora bisogno di missionari».

A livello istituzionale come collaborate con le altre confessioni?

«Le chiese protestanti ed evangeliche sono riunite in gruppo che ha un proprio presidente. Quelle che non fanno parte di questo gruppo sono considerate sette. I musulmani hanno l’Alto consiglio islamico, con un suo presidente. Poi ci siamo noi cattolici con l’arcivescovo. Di fronte ai problemi del paese – come ad esempio gli attuali scioperi degli insegnanti e dei lavoratori sanitari – ci riuniamo e riflettiamo, per proporre una via d’uscita alla crisi. Stessa cosa quando ci sono delle elezioni, cerchiamo di promuovere la pace, per esempio incontrando i candidati. Cerchiamo di lavorare anche sulla riconciliazione nazionale. A livello ufficiale la Chiesa cattolica lavora molto per la pace. Quando ci sono le elezioni, vengono diffuse lettere pastorali indirizzate ai cristiani e a tutti i maliani di buona volontà. C’è anche la Caritas che talvolta fa l’osservazione delle elezioni».

Quali sono i problemi attuali del Mali?

«Attualmente ci sono molti problemi nel paese. In particolare lo stato non ha autorità, questo è il problema principale, non arriva a imporsi ormai dal 2012. Come arrivare a uno stato più forte? E a una riconciliazione? Ci sono gli attentati, la guerra e i massacri intercomunitari, sempre di più. Occorre finire con tutto questo. Il tessuto sociale sta andando in rovina. Penso che l’occupazione del Nord abbia giocato molto, poi ogni etnia o comunità vuole imporsi. Assistiamo alla continua formazione di nuovi gruppi ribelli. Anche su base etnica. Tutto questo è causato dalla mancanza di autorità dello stato.

Il Nord è stato abbandonato, ma anche a Bamako si sente la mancanza dello stato, e i politici non riescono a migliorare la situazione. Invece di vedere il bene del paese, ognuno vede i suoi interessi personali. Occorre che i maliani prendano coscienza di questo, altrimenti la situazione non cambierà. I problemi tra Bambara e Peulh, nel centro del paese sono tradizionali, tra allevatori e agricoltori, ma adesso hanno assunto un’altra dimensione, una vera guerra».

Il 7 marzo è stata rapita suor Gloria Cecilia Narvaez Argoti, missionaria colombiana.

«Il rapimento di suor Gloria, a Karangasso nei pressi di Sikasso, nel Sud del paese preoccupa tutte le comunità religiose. Ci chiediamo perché è stata rapita. È perché è una religiosa cattolica o perché chi l’ha rapita cerca soldi? Non ci sono state richieste di riscatto, rivendicazioni. Suor Gloria, delle francescane di Maria Immacolata, era in Mali già da una decina di anni».

Abbé Timothée, come vede la soluzione della crisi in Mali?

«Occorre cambiare mentalità. Prendere coscienza. È la menzogna che ci ha messi in questi problemi, il fatto che la gente non dica la verità. Non c’è la coscienza che occorre proteggere il bene comune. Solo con questo il Mali potrà cambiare. La chiesa lavora per questo ma c’è molto da fare e occorre molto tempo. I politici, i lavoratori, a tutti i livelli, tutti gli strati sociali, dalla testa ai piedi».

Marco Bello