Tutti «a casa loro», ma quale casa?


Circa un miliardo di persone sul pianeta vive in una baraccopoli, 100 milioni sono senzatetto e altrettanti sono i bambini e ragazzi di strada. Dal 2008 a oggi una media di 24 milioni di persone all’anno ha perso la propria casa per inondazioni, tempeste, terremoti o siccità.

«Come ci si sente / ad essere senza una casa / un completo sconosciuto / proprio come un vagabondo (o, alla lettera, una pietra che rotola)». Così Bob Dylan cantava nel 1965, raccontando nei versi della sua celeberrima@ Like a Rolling Stone, la triste storia di una giovane donna nata ricca e finita poi a vivere per strada, dopo essersi lasciata illudere, sfruttare e infine abbandonare da un mondo luccicante ma spietato.

L’ultima volta in cui si tentò di quantificare le persone sul pianeta che non avevano una casa era il 2005@: le Nazioni Unite stimarono che i senzatetto veri e propri fossero circa cento milioni, mentre un miliardo di persone mancavano di un alloggio adeguato. Studi più recenti fotograferebbero una situazione nettamente peggiorata: le persone senza una casa degna di questo nome sono stimate oggi in 1,6 miliardi.

Altre indagini si concentrano sui luoghi simbolo dell’emergenza abitativa, le baraccopoli: secondo il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, Un Habitat, nel 2014 erano oltre 880 milioni di esseri umani a vivere in una baraccopoli.

È difficile contare in maniera oggettiva queste persone: ad esempio, ricorda l’Onu in un documento con principi e raccomandazioni per i censimenti@, «la definizione di senzatetto può variare da paese a paese, si tratta essenzialmente di una definizione culturale basata su concetti come alloggio adeguato, standard abitativo minimo della comunità o certezza del diritto fondiario».

Per farsi un’idea più immediata è forse più utile citare alcuni esempi: secondo il sito Homeless World Cup Foundation, in Nigeria ci sono 24,4 milioni di senzatetto; nella sola città di Manila, capitale delle Filippine, se ne contano circa tre milioni. La Germania ha fra i 335mila e i 420mila senzatetto, che salgono a 860 mila se si includono i rifugiati, la Francia ne conta 141mila e l’Italia 50.724@.

I bambini e ragazzi di strada sono un’ulteriore declinazione del fenomeno. Nel 2003 Unicef riportava stime secondo cui erano 100 milioni le ragazze e i ragazzi che non avevano raggiunto l’età adulta, privi di protezione o guida da parte di responsabili adulti e per i quali «la strada (nel senso più ampio della parola, comprese le abitazioni o i terreni abbandonati, ecc.) è diventata dimora abituale e/o fonte di sostentamento» (definizione ufficiale Unicef)@.

Come si finisce in strada o in una baraccopoli?

I motivi per cui ci si trova senza casa o in un contesto abitativo degradato sono diversi. Le Nazioni Unite citano fra questi la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, speculazioni su case e terreni a fini di investimento, privatizzazione dei servizi pubblici, ad esempio il trasporto, conflitti etnici e armati e una rapida quanto mal programmata urbanizzazione. Questi elementi poi si sovrappongono e incrociano con altri, come la perdita del lavoro, l’abuso di alcol, l’uso di droga, le malattie mentali.

A complicare notevolmente le cose vi sono poi le prospettive per il trentennio che abbiamo davanti: secondo le proiezioni Onu, nel 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, contro il 55% odierno pari a 4,2 miliardi di persone. Questo significa che «il graduale spostamento della popolazione umana dalle aree rurali a quelle urbane, combinato con la crescita complessiva della popolazione mondiale potrebbe aggiungere altri 2,5 miliardi di persone alle aree urbane entro il 2050, con circa il 90% di questo aumento concentrato in Asia e Africa»@.

Uno dei falsi miti sugli slum (inglese per baraccopoli) è l’idea che non sia possibile prevedere quanto cresceranno, spiegava al The Guardian@ nel 2016 William Cobbett, della rete globale per lo sviluppo sostenibile delle città, Cities Alliance, e la cosa è affrontata in modo inadeguato specialmente in Africa. «Si pensa che le popolazioni degli slum stiano crescendo principalmente a causa della migrazione urbana. Non è così. In tutto il continente, il grosso dell’aumento di abitanti delle baraccopoli deriva dalla crescita naturale della popolazione». Le proiezioni Onu sul secolo 1950-2050, continua Cobbett, dicono che la popolazione dell’Uganda in un secolo aumenterà di venti volte, la Tanzania di 18 e la Nigeria di 10,5.

Un secondo mito è quello che gli abitanti di una baraccopoli, se potessero, sceglierebbero sempre di vivere in un alloggio «vero». In questo caso la risposta è ni: dipende da quanto bene le autorità competenti pianificano la ricollocazione delle persone. Anche nelle situazioni di degrado più grave spesso si formano delle reti sociali che forniscono servizi informali di solidarietà come il guardarsi a vicenda casa e bambini mentre si è al lavoro. Ricollocare le persone significa strappare queste reti e rendere più difficile la vita sia di chi viene spostato sia di chi resta. Un caso citato dal The  Guardian è quello della baraccopoli di Kibera, a Nairobi: molti abitanti dello slum, inizialmente entusiasti dell’opportunità di trasferirsi in un complesso di appartamenti chiamato The Promised Land, hanno finito per lasciare le nuove sistemazioni perché vi erano disservizi idrici, mentre altri hanno fiutato l’affare decidendo di dare le loro nuove case – in cambio di un affitto molto più alto rispetto a quello agevolato richiesto a loro – ai keniani della classe media. Anche chi era rimasto a Promised Land continuava comunque a fare la spesa nella baraccopoli, perché lì il cibo costava meno.

Perdere la casa per gli eventi naturali

C’è un ulteriore modo per rimanere senza casa: che un ciclone se la porti via. È successo quest’anno in Mozambico, quando il ciclone Idai – seguito dal ciclone Kenneth – ha rovesciato in poche ore la pioggia che di solito cade in mesi. Il ciclone e le successive inondazioni hanno ucciso più di 600 persone e ne hanno ferite circa 1.600. Un milione e 800mila sono state variamente toccate dai danni, pari a 773 milioni di dollari, provocati da Idai a edifici, infrastrutture e coltivazioni@.

Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre@, che monitora le popolazioni sfollate, dal 2008 a oggi una media annuale di 24 milioni di persone ha perso la casa a causa di un evento naturale estremo improvviso, a fronte dei sette milioni e mezzo di sfollati all’anno a causa dei conflitti. Anche quest’anno le cose non sembrano andare molto meglio: nella prima metà del 2019 gli sfollati a livello mondiale sono stati 10,8 milioni, di cui 7 milioni dovuti a catastrofi naturali.

Lo scorso giugno Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, ha avvertito che gli effetti del cambiamento climatico potrebbero creare altri 120 milioni di poveri, vanificando gli ultimi 50 anni di sforzi per ridurre la povertà. «Rischiamo uno scenario da apartheid climatico» ha dichiarato Alston, «in cui i ricchi pagano per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti mentre il resto del mondo è abbandonato alla sofferenza»@.

Il problema del cambiamento climatico si interseca con quello dell’urbanizzazione: il disastro di Freetown, in Sierra Leone, del 2017, in cui 1.141 persone morirono a causa degli allagamenti e smottamenti legati alle forti piogge, ha mostrato che cosa succede quando un evento meteorologico estremo colpisce un agglomerato urbano costruito deforestando ed edificando in maniera informale@.

Chiara Giovetti
[continua a dicembre]


Il nostro impegno con i ragazzi di strada

  • Familia ya ufariji (Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di strada fondata nel 1996 dai missionari della Consolata a Nairobi, Kenya. Ospita fino a ottanta bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Familia ha anche alcune attività agricole che aiutano la struttura a produrre parte del proprio cibo e permettono ai ragazzi ospitati di imparare e praticare l’orticoltura.

  • La Faraja House (Casa della Consolazione) apre nel 1993 a Mgongo (Iringa, Tanzania) per iniziativa dei missionari della Consolata con l’obiettivo di assistere e reinserire i ragazzi di strada. La struttura, in grado di accogliere fino a 100 persone, sorge accanto a una scuola tecnica – nella quale i ragazzi ricevono formazione professionale – e a un dispensario che fornisce loro le cure fondamentali.

Aiutaci a coprire i costi per dare una casa a un bambino di strada perché possa mangiare, studiare e ricevere le cure necessarie alla sua età.


Il nostro lavoro accanto a chi ha perso la casa per un evento naturale estremo

Lo scorso marzo il ciclone Idai si è abbattuto sul Mozambico. Le inondazioni che ne sono seguite hanno colpito anche diverse zone in cui sono presenti i missionari della Consolata, fra cui Cuamba e Tete. In quest’ultima località Missioni Consolata Onlus, grazie alla generosità di diversi donatori, ha contribuito alla ricostruzione di 12 case.

  • Sarà possibile sostenere questo progetto anche visitando la mostra di solidarietà che gli Amici Missioni Consolata organizzano ogni anno in occasione della festa dell’Immacolata.
    La mostra sarà aperta dal 4 all’8 dicembre nei locali della parrocchia Maria Regina delle Missioni, a Torino, in via Cialdini 20, vicino al Provveditorato.

  • Si può anche sostenere il progetto con donazioni attraverso Missioni Consolata Onlus.

Aiutaci a ricostruire le case distrutte da eventi climatici estremi.




Cooperazione e missione, gemelle diverse

testo di Chiara Giovetti


Nel mese missionario proponiamo una riflessione sulle differenze fra cooperazione e missione, ma anche sullo stimolo reciproco che hanno rappresentato l’una per l’altra nel corso degli ultimi cinquant’anni. Tentiamo di fare il punto sulla situazione attuale.

Tanta parte del mio lavoro come responsabile dell’Ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus è lavoro di traduzione. Non solo e non tanto da una lingua a un’altra, ma soprattutto da un linguaggio a un altro. Si tratta cioè di tradurre nel linguaggio della cooperazione allo sviluppo concetti missionari e, in quanto missionari, profondamente e autenticamente cristiani.

Con una battuta che suscita sorrisi nei missionari più spiritosi e alzate di sopracciglia in quelli più austeri, mi trovo spesso a dire che il mio incarico più delicato è tradurre in «sviluppese» concetti espressi in «pretesco», cercando di far emergere nel modo più chiaro possibile che i nostri missionari fanno cooperazione già da molto prima della fondazione della Onlus (2001) o del riconoscimento come Ong (2007). Solo che, mentre alcuni la fanno conoscendo il «ciclo di progetto» e il suo linguaggio, altri la fanno chiamando le cose con un altro nome.

Così, progetti che arrivano sulla mia scrivania con un titolo come «Promozione della donna», vengono reindirizzati ai donatori con il titolo «Empowerment femminile». «Pace, perdono e riconciliazione» diventa «Gestione e risoluzione del conflitto», «aiuto alle mamme incinte e ai loro bambini», si riformula in «miglioramento della salute materna e infantile».

Le attività sono le stesse, ma le parole rimandano a valori non completamente sovrapponibili.

Fra il linguaggio dello sviluppo e quello della missione c’è, sì, un’ampia intersezione di concetti simili, se non identici benché detti con parole diverse, ma anche un confine di intraducibilità che non può – e nemmeno deve – essere forzato.

 

Cooperazione: una parola, due significati

Nella maggioranza dei casi, all’orecchio di un missionario cattolico la parola «cooperazione» arriva come l’abbreviazione dell’espressione «cooperazione missionaria fra le Chiese».

Per un operatore della cooperazione fuori dal mondo ecclesiale, viceversa, la stessa parola sottintende l’espressione «cooperazione allo sviluppo» o «cooperazione internazionale».

Il fatto che per un religioso la cooperazione sia prima di tutto missionaria, significa che la vede come un modo per realizzare la missione della Chiesa, che – si legge nel decreto Ad Gentes del Concilio Vaticano II del 1965@ -, a sua volta, è la crescita «nella storia della missione del Cristo, inviato appunto a portare la buona novella ai poveri».

L’annuncio della buona novella è l’evangelizzazione, e la cooperazione missionaria ne è uno degli strumenti, non il fine.

Già nel 1990, in una Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo I laici nella missione ad gentes e nella cooperazione fra i popoli@, emergeva una preoccupazione: «Spesso», recita la nota, «l’attenzione è assorbita dalle esigenze tecniche dei progetti a scapito dell’ispirazione cristiana che deve essere sostenuta in modo costante». Detto in modo più rozzo ma immediato, la Cei raccomanda ai laici cristiani che vanno in missione di ricordare sempre che scavare un pozzo non è il fine ultimo del loro mandato. Il pozzo è solo lo strumento. Sono stati mandati a scavare un pozzo perché la povertà dei fratelli privi di acqua grida vendetta al cospetto di Dio, e contraddice il messaggio di salvezza e liberazione che suo Figlio ha portato agli uomini a costo della sua stessa vita, un messaggio di cui è nostro dovere di cristiani farci portatori, anche – ma non solo – attraverso le opere concrete.

La stessa nota sottolinea, richiamando l’enciclica Sollicitudo Rei Socialis del 1987, che «gli insuccessi degli ultimi decenni negli sforzi di accrescere il benessere dei popoli mostrano che lo sviluppo non si può basare su una semplice accumulazione di beni e di servizi». Lo sviluppo autentico, per la Chiesa, è lo sviluppo integrale, «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Populorum progressio), anche della sua sfera spirituale e morale.

Se per i cristiani la cooperazione è uno degli strumenti per continuare la missione del Cristo che parte da Dio e si irradia nella relazione fra le Chiese locali; per il mondo non ecclesiale è, invece, una relazione che parte dalle comunità umane definite a partire dalla loro organizzazione statale, e che ha come obiettivo lo sviluppo, pur con tutte le declinazioni e riformulazioni che il concetto ha attraversato nell’ultimo cinquantennio.

Non potrebbe essere più chiara la direzione divergente delle spinte che muovono queste due idee di cooperazione.

Dalla teoria alla pratica: la cooperazione come punto di incontro

Queste due visioni della cooperazione sono posizioni irriducibili l’una all’altra, dal punto di vista filosofico. Ma questa irriducibilità non ha impedito che si sia trovato un punto di mediazione nel campo del fare, del trovare soluzioni a problemi condivisi.

Per realizzare il raccordo, è stato fondamentale l’incontro fra religiosi innovatori, a volte addirittura rivoluzionari, da un lato, e volontari laici, dall’altro. La parola «laico» in questo caso significa il contrario di quello che potrebbe sembrare a un lettore esterno al mondo ecclesiale: non rimanda al laicismo ma al laicato, il complesso dei fedeli che non appartiene al clero.

Un esercizio interessante per dare la misura di questo incontro è prendere la lista delle Ong riconosciute dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e scavare un po’ nella sezione Chi siamo dei rispettivi siti. Il risultato è abbastanza illuminante: su 217 organizzazioni, una su tre circa ha per fondatore, ispiratore o dirigente, un religioso, e quasi una su cinque è vicina al mondo missionario. Alcune Ong sono nate per sostenere il lavoro di uno specifico missionario, di un Istituto o di una Congregazione, altre sono emanazione di un Centro missionario diocesano, altre sono talmente missionarie di ispirazione che inseriscono la parola anche nel nome.

Gli anni Sessanta e Settanta sono stati una grande incubatrice per queste realtà: erano gli anni della decolonizzazione, delle crisi in Biafra e in Congo, delle campagne di Raoul Follereau; la Chiesa affrontava il cambiamento epocale del Concilio Vaticano II e assisteva al sorgere, in America Latina, della teologia della liberazione.

In Italia erano anni drammatici, di scontri politici e sociali, di forti ineguaglianze, evidenti in particolare nelle grandi città.

Solo per citare alcune di queste realtà nelle quali missione e cooperazione allo sviluppo hanno iniziato ad andare a braccetto, ricordiamo che nel 1961 è nata la Cisv@ «al servizio dei poveri nella Torino allora meta degli immigrati dal Sud Italia». Nel 1973, raccontava qualche anno fa Stefania Garini del Cisv alla nostra rivista, la stessa organizzazione ha inviato i primi volontari in Burundi anche su stimolo dell’allora arcivescovo di Torino, monsignor Michele Pellegrino, «che auspicava una missione animata anche da laici, ritenuti in grado di creare maggior vicinanza con la gente»@. Nel 1964 è nata Mani Tese, nel 1966 la Lvia, che l’anno dopo ha inviato la prima volontaria in Kenya ospite dei missionari della Consolata.

La Focsiv, che federa gli organismi italiani di ispirazione cristiana (Ong e non), è nata nel 1972 e ad oggi raggruppa 86 organismi.

Negli anni Ottanta e fino a tutti gli anni Novanta l’incontro fra missione e cooperazione allo sviluppo era ormai una realtà consolidata e strutturata grazie all’impegno di tanti missionari e al coinvolgimento dei volontari laici cristiani: l’invio di questi ultimi in missione era regolare, i riconoscimenti dello status di Ong da parte del ministero degli Esteri sono cominciati ad arrivare, la disponibilità di fondi – sia pubblici che privati – ha dato un’ulteriore spinta, e le campagne di sensibilizzazione in Italia sono state numerose e molto partecipate.

Anche la nostra rivista, che parla di cooperazione e di sviluppo sin dagli anni Settanta, ha inserito per gran parte del decennio 1980 – 1989 l’argomento fra i temi fissi trattati nelle rubriche. La lettura degli articoli sulla cooperazione di quegli anni è un tuffo più nel futuro che nel passato, tanto raffinata era già l’analisi delle cause delle diseguaglianze e tanto forte era il richiamo, oggi molto di moda, al cambiamento negli stili di vita.

La nota della Cei su laici, missione e cooperazione citata sopra è arrivata nel 1990 proprio per mettere ordine in questa relazione tanto vivace e animata da rischiare di diventare caotica. La Cei infatti, oltre al richiamo a non perdere di vista l’ispirazione cristiana, insisteva sull’importanza di migliorare la preparazione sia spirituale che professionale dei volontari ed esortava a evitare permanenze troppo brevi e mal programmate. La cooperazione missionaria non è una parentesi, un periodo circoscritto nella vita dei cristiani: è una scelta di vita che continua anche al rientro dalle missioni.

Cooperazione e missione oggi

L’ultimo ventennio ha visto un’impennata nella professionalizzazione della cooperazione. È nata la figura del cooperante, sono sorti corsi di studi a livello universitario, la gestione del ciclo di progetto si è fatta più complessa, l’obbligo di trasparenza nella gestione dei fondi è oggi, giustamente, un imperativo.

Quanto questo processo sia legato, in positivo, a un bisogno di affrontare in modo rigoroso una crescente complessità del mondo o, in negativo, agli obiettivi non raggiunti – e agli errori – di cinquant’anni di cooperazione internazionale, è un dibattito aperto.

Il dato di fatto è che le organizzazioni di origine missionaria, come tutte le altre, si sono attrezzate e dotate di personale formato e contribuiscono a quella parte della missione che, per brevità, si può definire sociale.

I fondi dei donatori pubblici non costruiscono chiese né comprano Bibbie per i catechisti (ci sono donatori cattolici per questo); ma certamente possono essere un sostegno fondamentale per scavare un pozzo e dare acqua pulita a un dispensario, formare infermieri, dare assistenza a migranti in fuga da un paese sull’orlo del disastro che arrivano stremati e disperati nel paese confinante.

Da questo punto di vista, il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo continua a godere di ottima salute una volta che ci si accorda su uno spazio comune in cui una può essere funzionale alla realizzazione degli obiettivi dell’altra senza snaturarla. Si può dire, per semplificare, che la missione continua a «ospitare» la cooperazione allo sviluppo nella parte sociale della cooperazione missionaria e che la cooperazione allo sviluppo ricambia «ospitando» i missionari in tutti i suoi settori, a patto che oltre al collarino ecclesiastico indossino lo stetoscopio del medico, il casco antinfortunistico dell’ingegnere, il grembiule del maestro di scuola.

Senza avere una struttura professionalizzata che lo affianchi per gli aspetti tecnici, per il singolo missionario diventa impossibile realizzare interventi complessi come quelli previsti da un progetto di cooperazione allo sviluppo istituzionale. Il progetto, senza un aiuto adeguato, rischia di essere percepito dal missionario come un male necessario, uno strumento di cui non si può fare a meno ma che porta via tempo al resto. E per un missionario, il resto, spesso, è il grosso: «Ecco, Chiara», mi ha detto una volta il padre responsabile di una impresa sociale del settore alimentare gestita dalla Consolata in un paese africano, «con il progetto che ci aiuterai a scrivere potremo finalmente aumentare la produzione; per il resto, con i proventi delle vendite già manteniamo la biblioteca, facciamo i corsi di alfabetizzazione per i nostri lavoratori, contribuiamo all’allevamento di polli delle loro mogli. Poi, a tempo perso, diciamo messa, facciamo le confessioni, prepariamo i catecumeni… Ogni tanto riusciamo anche a stare in silenzio, pregare un po’ e dormire».

In questi anni di lavoro nell’ufficio progetti mi sono trovata spesso a scherzare con i missionari con cui lavoro sul fatto che è una lotta impari cercare di far appassionare a un quadro logico e a un cronogramma qualcuno (il missionario) che ha per logica il Verbo e per orizzonte temporale la vita eterna.

Al di là delle battute, però, probabilmente il punto è proprio questo: il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo è stato ed è proficuo proprio perché sono due attività non completamente sovrapponibili: negli anni, oltre a non capirsi mai del tutto e, a volte, a criticarsi, si sono anche ascoltate e ciascuna ha fatto a se stessa delle domande che non si sarebbe mai fatta se l’altra non l’avesse stimolata. E non smette di sorprendermi quanto le domande che i missionari della Consolata si fanno da oltre un secolo, ispirandosi al loro fondatore, Giuseppe Allamano, – «stiamo capendo i segni dei tempi? Stiamo davvero facendo uomini e non beneficiari, assistiti, bisognosi?» – somiglino alle domande che si fa il mondo dello sviluppo.

Chiara Giovetti




Di cicloni in Mozambico

e nuovi dirigenti AICS in Italia


Testo di Chiara Giovetti


Mozambico, alluvioni e cicloni

Prima le inondazioni, poi i cicloni. Il Mozambico colpito dalla violenza della natura cerca di rimettersi in piedi.

Forti piogge hanno colpito il Mozambico centro settentrionale a partire dal 6 marzo scorso. Le regioni più interessate sono state Zambezia, Tete e la regione centrale. I primi bilanci parlavano di sette morti, oltre 32mila persone coinvolte dagli allagamenti e 4.242 sfollati.

Il 10 marzo l’Istituto nazionale di meteorologia del Mozambico ha diramato un’allerta in cui segnalava che la depressione in corso sarebbe diventata una tempesta tropicale, denominata Idai.

Oltre alle zone già colpite sono stati inondati anche parte del Niassa e 83mila ettari di terreni coltivati. Un totale di quasi 55mila piccoli coltivatori danneggiati.

Il ciclone Idai

Il ciclone Idai si è abbattuto sul paese nella notte fra il 14 e il 15 marzo, in particolare sulla città di Beira, provincia di Sofala, nel Mozambico centrale.

Le Nazioni Unite hanno immediatamente lanciato un appello per raccogliere 40,8 milioni di dollari necessari a soccorrere 400mila persone che, secondo le proiezioni sul percorso del ciclone, si stimava sarebbero state colpite.

Dopo una serie di aggiornamenti e verifiche, il 3 aprile scorso il numero ufficiale delle vittime è stato quantificato in 598, più oltre 1.600 feriti. Vi erano 131mila persone ospitate in ricoveri temporanei.

Le case completamente distrutte sono risultate essere oltre 85mila, 97mila erano parzialmente distrutte e quasi 16mila allagate.

Gli ettari di coltivazioni distrutti sono stati più di 715mila.

Idai ha poi continuato la sua corsa verso lo Zimbabwe dove, a fine marzo, si contavano 181 vittime, 175 feriti, circa 330 dispersi e un totale di 270mila persone colpite dagli allagamenti.

La città di Beira

Beira è la quarta città più grande del Mozambico con 500mila abitanti. Capitale della provincia di Sofala, al centro del paese, è affacciata sull’Oceano Indiano. Il suo porto è uno snodo cruciale sia per il Mozambico che per alcuni paesi vicini che non hanno sbocco al mare: Malawi, Zimbabwe e Zambia. Parte della città si trova sotto il livello del mare, «su una costa che secondo gli esperti è una delle zone del mondo più vulnerabili all’innalzamento delle acque dovuto al cambiamento climatico»@.

Mentre il porto ha ripreso le attività poco dopo il ciclone@, l’area circostante deve fare i conti con una devastazione senza precedenti: il 90% della città è infatti stato danneggiato o distrutto@.

La zona di Beira è il granaio del paese con un ruolo cruciale nei periodi di carestia. L’80% della popolazione mozambicana – e la regione intorno a Beira non fa eccezione – basa la propria sussistenza sull’agricoltura; nel 99% dei casi si tratta di piccoli coltivatori@.

Tete e Cuamba

Padre Sandro Faedi, Imc, ha testimoniato il 3 aprile per la rubrica online di Missioni Consolata, «Fuori Carta», la situazione di Tete, capoluogo della provincia omonima, confinante con la provincia di Sofala: «Centinaia di famiglie, si dice 860, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno salvato a malapena la vita. Casa, oggetti, utensili, tutto alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina».

Oltre a occuparsi di Tete, dove lo stato sta cercando di intervenire, padre Sandro segue anche la situazione nelle più sguarnite Mpenha e Nkondezi, dove le famiglie colpite sono rispettivamente 673 e 12. A Nkondezi, grazie alla generosità di alcuni donatori privati, padre Sandro sta aiutando le famiglie a ricostruire le loro case.

Padre Willhard Kiowi da Cuamba (Niassa) segnala invece che circa ottanta famiglie sono ospiti a Nossa Senhora Aparecida, una delle chiese legate alla parrocchia di San Miguel Arcanjo dove lavorano i missionari della Consolata. Qui i missionari hanno intensificato l’assistenza alimentare, di solito rivolta ai bambini malnutriti del centro nutrizionale, fornendo anche alle famiglie riso, farina di mais, zucchero, sale e olio per cucinare, oltre che materiale per l’igiene personale, coperte e stuoie. Secondo la rivista Africa e Affari, «il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha concesso un sostegno finanziario di emergenza al Mozambico per un importo di 118,2 milioni di dollari, in seguito alle gravi conseguenze, anche economiche, provocate dal passaggio del ciclone Idai su alcune zone del paese»@.

Era inoltre prevista per fine maggio una conferenza dei donatori internazionali organizzata dal governo di Maputo per discutere e coordinare la ricostruzione.

Il ciclone Kenneth

Mentre lavoravamo a questo articolo, un altro ciclone, denominato Kenneth, si è abbattuto il 25 aprile sul Nord del Mozambico (tra Pemba e Mocimboa e sulle isole Comore) e ha raso al suolo interi villaggi e provocato decine di vittime. Nei giorni precedenti, nel paese erano state evacuate 30mila persone. Secondo l’Unicef@, dopo l’ultimo disastro, 368mila bambini sono bisognosi di sostegno umanitario.

È rarissimo che due cicloni di tale intensità colpiscano il Mozambico nella stessa stagione, essi riportano la nostra attenzione ai cambiamenti climatici che interessano l’Africa. Il Mozambico, con i suoi 2.400 chilometri di costa sull’Oceano Indiano, è in prima linea nella lotta al cambiamento climatico.

Chiara Giovetti


Aics – Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo

Nuovo direttore, vecchi problemi?

L’Aics ha un nuovo direttore, il candidato della Farnesina Luca Maestripieri. Un diplomatico invece di un tecnico a capo di un’agenzia che dovrebbe essere indipendente dalla politica. Il punto sulle polemiche.

Dal 6 aprile scorso Luca Maestripieri è il nuovo direttore dell’Aics, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.
Nato a Viareggio 58 anni fa, laureato in giurisprudenza, ha una carriera diplomatica che lo ha portato a Lubiana, Lisbona, New York e Parigi. Prima della nomina a direttore dell’Aics, Maestripieri ricopriva la carica di direttore centrale per gli affari generali e amministrativi presso la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs) del ministero degli Affari esteri e della cooperazione (Maeci).

Contestualmente alla nomina di Maestripieri, un’altra figura di rilievo dell’Agenzia, il direttore del Dipartimento per le relazioni istituzionali e internazionali Emilio Ciarlo@, ha rassegnato le proprie dimissioni. La sua reazione alla nomina del nuovo direttore è stata la pubblicazione, il 5 aprile, sul suo profilo Facebook, di un’immagine del processo alle streghe di Derneburg (1555) sovrastata dalla scritta «Controriforma»@.

Due giorni dopo, in una lunga nota tecnica intitolata «Evitiamo titoli», Ciarlo ha più chiaramente argomentato la sua posizione@: «Volevamo che la cooperazione fosse una politica. Il contributo dell’Italia a un’idea di globalizzazione dei diritti e dei rapporti internazionali, un modo per essere “creatori” di sviluppo, non pianificatori, non benefattori, non semplicemente caritatevoli. Per questo doveva essere complementare e non succube della politica estera. Parte integrante non ancillare. Per questo è stata istituita un’Agenzia, autonoma, specializzata […]. A fare una sintesi con le istanze politiche, le preoccupazioni diplomatiche, le considerazioni commerciali ci avrebbe pensato l’altra gamba, quella del ministero, in una dialettica trasparente che sarebbe stata mediata e risolta, a favore dell’una o dell’altra posizione, dal viceministro […]. Questo era l’equilibrio. Questo il disegno, originale, considerato ora dall’Ocse e dai nostri partner europei un’architettura innovativa e promettente. Questo equilibrio ora salta».

A rendere più esplicito il punto ci ha pensato Carlo Ciavoni su la Repubblica, che ha ricostruito la vicenda in un articolo dal titolo Cooperazione italiana: con la nomina di Luca Maestripieri alla direzione dell’Aics vince la diplomazia@.

«La bisbetica maggioranza di governo», scrive Ciavoni, «con tutti i problemi che ha, ha pensato bene di non rischiare e di non superare quel confine sottilissimo che divide la Cooperazione dalla Diplomazia».

Il dibattito sulla «vittoria della diplomazia»

Che cosa significa «vince la diplomazia» e qual è il problema se questo succede?

A contendersi con Luca Maestripieri il ruolo di direttore erano stati, nella fase iniziale, 56 candidati, ridotti poi a una terna di nomi finalisti che comprendeva, oltre al diplomatico poi nominato, anche Emilio Ciarlo e Flavio Lovisolo, il direttore dell’Agenzia a Tunisi. La vittoria della diplomazia dunque consiste in questo: che fra i tre candidati, dei quali due erano tecnici di alto profilo già attivi nell’Agenzia e il terzo un diplomatico del ministero degli Affari esteri, è stato scelto quest’ultimo. Il problema che molti vedono sorgere di conseguenza a questa scelta è che l’Agenzia perda di autonomia e diventi «ancella» del ministero. Di conseguenza, il timore è che la cooperazione diventi non più parte integrante e qualificante della politica estera, come l’ha definita la legge 125 del 2014, ma un’appendice striminzita in balia degli umori e delle decisioni prese alla Farnesina, che a loro volta dipendono da equilibri politici più attenti agli interessi economici e alla pancia dell’opinione pubblica che alla solidarietà internazionale.

Interni contro esterni

Accanto a questo dibattito (chiamiamolo per brevità diplomatici versus tecnici) se ne è poi sviluppato uno parallelo, quello degli interni versus esterni, cioè dei candidati appartenenti all’Agenzia o al Maeci, da un lato, e dei candidati provenienti da altri settori – a cominciare dalla società civile – dall’altro.

La prima fase della selezione ha visto uno dei concorrenti «esterni», l’ex presidente della Ong Vis, organizzazione di ispirazione salesiana, poi sindaco di Gaeta e portavoce del network di Ong Cini, Antonio Raimondi, ricorrere al Tar «contro la totale mancanza di trasparenza e contro le palesi ingiustizie da parte della commissione esaminatrice nel proporre la “lista ristretta” al ministro degli Esteri»@.

Non meno polemico è stato Edoardo Missoni, medico specializzato in medicina tropicale e segretario generale dell’Organizzazione mondiale del Movimento Scout dal 2004 al 2007, che sul blog info-cooperazione così ha commentato@ l’incarico al diplomatico toscano: «Era il candidato della Farnesina. Hanno avuto bisogno di tredici mesi per decidere quello che avevano già deciso». Dato il suo precedente ruolo alla «Dgcs che controlla l’Aics», rincara Missoni, a sua volta candidato alla direzione dell’Agenzia nel 2015, «difficile pensare che non abbia avuto voce in capitolo nell’organizzare il concorso al posto per il quale si era candidato. Conflitto d’interessi? L’Avvocatura dello stato deve aver chiuso un occhio (forse entrambi)». Secondo Missoni, il nuovo direttore ha un’esperienza nella cooperazione allo sviluppo «limitata alla burocrazia […], ma la gestione di una Agenzia di cooperazione allo sviluppo avrebbe richiesto altre competenze (anche di un po’ di “gavetta” nei Pvs). E poi, di quale autonomia (di pensiero e azione) sarà capace nei confronti della “casa madre”?».

Più incline a smorzare i toni è stato Nino Sergi, fondatore di Intersos, organizzazione specializzata nell’intervento umanitario d’emergenza, e policy advisor della rete di Ong Link2007, che definisce fuorviante il titolo dell’articolo di Ciavoni su la Repubblica. Il punto non è, a detta di Sergi, se abbia o meno vinto la diplomazia, ma se la scelta di Maestripieri sia quella giusta per contribuire a far funzionare la cooperazione italiana, a migliorarne la qualità e a renderla più efficace. «Oggi la decisione è stata presa e lo sforzo va tutto indirizzato a sostenere il nuovo direttore nel non facile suo compito. È ciò che ho fatto», conclude il fondatore di Intersos, «quando è stata nominata Laura Frigenti (precedente direttrice dell’Aics, ndr), anche se avrei preferito un’altra scelta».

Infine, arriva da Silvia Stilli, portavoce dell’Associazione Ong Italiane (Aoi), un invito all’esame di coscienza: «Credo che tutta questa vicenda in ogni caso meriti una riflessione su come sia percepita la cooperazione internazionale fuori dai nostri contesti di vita ad essa dedicata». Nel suo commento, Stilli sembra voler suggerire che è mancata una nutrita e credibile rappresentanza di candidati non squisitamente ministeriali: «Chi si è candidato all’uscita dell’avviso pubblico dei vari attori? Chi vuole mettersi in gioco in questo percorso? […[ Mi riferisco senza peli sulla lingua al “mio (?) mondo”. Antonio Raimondi escluso. […] Non sono ottimista e non mi va di dare sempre la colpa ai governi». Come dire: se i candidati qualificati e motivati esterni al recinto della diplomazia non si fanno avanti, è ancor più facile che poi «vinca la Farnesina».

Intanto la cooperazione frena

Il 10 aprile è uscito il rapporto annuale dell’Ocse@ sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps), che introduce un nuovo metodo per misurarlo@. Sarà pienamente utilizzato solo dal 2019 ma già per il 2018 l’Ocse pubblica i dati preliminari ottenuti utilizzando la nuova misurazione, che si basa non più sul cosiddetto cash flow, cioè il complessivo valore dei prestiti fatti ai paesi, ma sul grant equivalent, cioè la componente di dono contenuta in questi prestiti. Il principio, insomma, è che chi fa un dono (grant) «aiuta di più» rispetto a chi concede un prestito, ed è necessario misurare l’aiuto in modo da evidenziare più chiaramente questa parte di regalo.

Utilizzando il nuovo metodo, nel 2018, i 30 paesi donatori membri del Development Assistance Committee (Dac, in italiano Comitato di assistenza allo sviluppo) hanno fornito aiuti per un totale di 153 miliardi di dollari, con gli Stati Uniti primo donatore (34,3 miliardi) seguiti da Germania (25), Regno Unito (19,4,), Giappone (14,2) e Francia (12,2 miliardi).

Se si guarda la percentuale dell’aiuto rispetto al Pil, a superare la soglia dello 0,7% sono stati solo la Svezia (1,04%), il Lussemburgo (0,98%), la Norvegia (0,94%), la Danimarca (0,72%) e il Regno Unito (0,7%).

Utilizzando invece il metodo del cash flow, il totale dell’Aps per i paesi Dac è stato di 149,3 miliardi di dollari, con una contrazione del 2,7% rispetto all’anno precedente causata principalmente dalla diminuzione dei costi per l’assistenza ai rifugiati nei paesi donatori. L’Italia è passata dai 5,86 miliardi di dollari del 2017 agli attuali 4,9: una diminuzione del 21,3%. La riduzione dei costi per i rifugiati è responsabile di questo calo solo per meno della metà: al netto di questa voce, infatti, l’aiuto italiano è comunque diminuito di oltre 12 punti percentuali e si attesta sullo 0,24% del Pil a fronte di uno sforzo medio dei paesi Dac pari allo 0,38%@.

Chiara Giovetti

 




Comunicare la cooperazione nel tempo delle fake news


In vista della 53ª giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebrerà il prossimo 2 giugno, affrontiamo il rapporto fra comunicazione e cooperazione, ragionando sulle fake news che riguardano sviluppo, migrazioni e cambiamento climatico e sul perché è più difficile smontarle.

Testo di Chiara Giovetti

«Ti è mai capitato di sentire il bisogno irresistibile di inoltrare agli amici o di condividere sui social network una notizia che ti è piaciuta o ti ha fatto indignare soltanto perché ne hai letto il titolo? Capita a tutti: è un effetto naturale del pregiudizio di conferma (o bias di conferma), cioè la tendenza comune a credere che sia vero quello che vogliamo che sia vero (anche quando non è vero)».

Così Paolo Attivissimo, giornalista e studioso della disinformazione nei media, apre Come diventare detective antibufala@, una guida commissionata dal Miur e dalla Camera dei Deputati.

Le fake news sono agili, immediate, semplici. Spesso sono perfino rassicuranti, anche quando diffondono un’informazione allarmante, perché confermano una nostra opinione e ci fanno sentire scaltri, persone capaci di scoprire la verità anche oltre ciò che «loro non dicono».

Le fake news on devi cercarle, ti trovano loro: ti aspettano sui social, ti inseguono su whatsapp, ti raggiungono passando di bocca in bocca, si mimetizzano fra le altre notizie.

Il debunking e il fact-checking – traducibili come demistificazione e verifica dei fatti – sono invece più lenti, articolati e impegnativi per chi li legge o ascolta. Per verificare le informazioni che ti raggiungono, inoltre, devi volerlo, non puoi essere di fretta e devi essere disposto a farti venire un dubbio, che per definizione non è rassicurante.

Le cose si complicano parecchio quando le fake news si applicano a un ambito poco conosciuto, complicato e eticamente delicato, come è il caso della cooperazione allo sviluppo e dei temi ad essa collegati, dalle migrazioni al cambiamento climatico, dalla povertà e ai diritti umani. Un esempio è la presa di posizione del 4 febbraio 2018 dell’allora eurodeputato Matteo Salvini, che durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti citava la relazione di una deputata svedese nella quale si introduceva la figura dell’immigrato climatico: «Adesso», commentava sarcastico Salvini, «dovremo ospitare anche gli immigrati climatici: cioè se uno ha freddo, se uno ha caldo… […] A Milano c’è la nebbia, a me non piace la nebbia, e allora mi sposto perché sono un immigrato climatico»@.

Sulla stessa falsariga ci sono state, successivamente, altre interviste televisive di diversi esponenti politici sul franco Cfa (vedi Cooperando su MC di marzo) e sulla Dichiarazione di New York per i migranti e i rifugiati, nota anche come Global Compact. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha definito quest’ultimo accordo internazionale «una vera e propria fregatura» perché «garantisce qualunque tipo di immigrazione: non solo chi scappa dalla guerra, dalla violenza e dalla tortura, ma anche chi scappa dalla povertà, chi scappa dal caldo e chi si muove semplicemente perché gli va».

Sarebbe bastato opporre a Salvini che un migrante climatico non scappa dal caldo o dalla nebbia, ma da fenomeni estremi che rendono invivibile il luogo in cui abita; sul Global Compact sarebbe stato sufficiente controbattere a Giorgia Meloni – come ha fatto Nino Sergi sul giornale online La Voce di New York@ – che «non si tratta di un patto vincolante né intacca la sovranità degli stati. Ma la sua adozione, anche da parte dell’Italia, potrebbe mettere le basi per potere iniziare un cammino, difficile ma possibile, verso un governo ordinato, regolare, sicuro della migrazione».

Tuttavia, in nessuno dei casi citati gli intervistatori sono stati in grado di contestare nel merito le affermazioni dei leader politici proprio perché si tratta di temi scarsamente o per nulla frequentati nei talk show e nei tg del nostro paese. E le informazioni errate contenute in quelle affermazioni, se non vengono immediatamente arginate finiscono per dilagare, amplificate dai social network. Dimenticando, tra l’altro, che ci sono diversi italiani «migranti climatici», secondo la definizione salvianiana, in altri paesi, come a Malindi in Kenya o in Portogallo.

© Daniele Biella

Perché cooperazione e temi limitrofi sono tanto indigesti?

Il problema principale nel correggere un’informazione imprecisa sulla cooperazione, sulla migrazione e sugli ambiti a esse vicini è che non basta opporre un’argomentazione corretta, bisogna anche spiegare un sacco di cose. Non si parla di pensioni, di partite Iva o di reddito di cittadinanza, argomenti con cui la stragrande maggioranza delle persone viene a contatto direttamente o attraverso le esperienze di amici e parenti. Si parla viceversa di un tema che, per quanto negli ultimi anni ampiamente trattato e fortemente sentito@, rimane percepito come lontano dal quotidiano e dai bisogni immediati dei cittadini italiani.

A sua volta, chi si trova a comunicare la cooperazione e il suo funzionamento deve avvalersi di strumenti che tengano conto della delicatezza dell’argomento. Deve, cioè, evitare sia quella che in un acceso dibattito di qualche anno fa venne definita la pornografia del dolore, sia la troppa leggerezza@.

A questo proposito il Saih, Fondo degli studenti e accademici norvegesi per l’assistenza internazionale, ha monitorato fino al 2017 gli spot promozionali delle organizzazioni attive nello sviluppo, istituendo premi – ironicamente chiamati golden radiator o rusty radiator, il radiatore d’oro o arrugginito – per i migliori e i peggiori messaggi pubblicitari. Nell’ultima edizione, il vincitore del radiatore arrugginito è stato lo spot del Disasters Emergency Committee, organizzazione che riunisce 14 agenzie britanniche per l’aiuto umanitario. Il video promozionale, che aveva l’obiettivo di raccogliere fondi per la crisi in Yemen@, è stato giudicato «didascalico e stereotipato, lesivo della dignità di coloro che soffrono, uno spot che ci riporta agli anni ottanta e che sottintende: noi siamo i buoni, voi gli egoisti». Viceversa, il radiatore d’oro è andato allo spot di War Child Holland@, organizzazione attiva nella protezione e assistenza ai bambini in zone di conflitto. Il video ritrae un bambino in un campo profughi mentre gioca e svolge le sue attività quotidiane insieme a un Batman grosso e rassicurante ma anche divertente e un po’ buffo che lo accompagna e lo protegge, con il sottofondo musicale di You’re my best friend dei Queen. Solo nelle ultime inquadrature cessa la musica e il Batman si rivela essere il papà del bambino, un supereroe del giorno per giorno che porta in braccio il figlio allontanandosi dalle macerie fumanti di una città in guerra. Il video si conclude con una frase che recita: per alcuni bambini la fantasia è l’unico modo per scappare dalla realtà.

Comunicare la cooperazione significa muoversi all’interno di questi confini, per delineare meglio i quali la rete nazionale di Ong irlandesi ha elaborato nel 2015 un Codice di condotta@ in cui si raccomanda di evitare gli stereotipi, di dar precedenza alla testimonianza delle persone direttamente interessate e ottenerne comunque sempre il consenso prima di usarne immagini e parole, favorire una comunicazione in cui le immagini e situazioni non illustrino solo l’immediato – un bisogno, un problema – ma anche il più ampio contesto in cui si colloca, così da permettere al pubblico una miglior comprensione delle realtà e delle complessità dello sviluppo.

© AfMC / Beppe Svanera – Marialabaja, Colombia / È l’olio di palma che fa male o il modo di coltivarlo?

Le fake news sulle Ong

Una efficace sintesi delle principali notizie false che circolano sulle Ong era stata fornita lo scorso marzo da Paolo Dieci, il compianto presidente della Ong Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e della rete Link2007 scomparso nell’incidente aereo del 10 marzo, quando il Boeing diretto a Nairobi su cui volava insieme ad altri 156 passeggeri è caduto poco dopo il decollo da Addis Abeba. La rete Link2007 ha dedicato a Paolo Dieci un documento dal titolo Ong e trasparenza. Realtà e normativa in essere, che si chiude con il testo di una mail inviata dal presidente ai colleghi la sera prima dell’incidente. Nel messaggio, individuava cinque falsi miti secondo i quali le Ong «fanno ciò che vogliono; nessuno le controlla; fanno politica di parte; sottraggono risorse alla collettività; favoriscono la migrazione irregolare».

Paolo Dieci smentiva questi luoghi comuni precisando i seguenti punti:
«a) non esiste un singolo progetto realizzato che non sia stato approvato da soggetti rappresentativi dei paesi, inclusa l’Italia;
b) in media un’Ong della nostra dimensione riceve 30-40 audit annuali oltre a 2 livelli di verifica del bilancio;
c) le Ong non si schierano per “partiti” ma per “cause” e ho fatto l’esempio del Global Compact sulla Migrazione;
d) le Ong di Link 2007 portano molte più risorse al sistema Italia di quante ne ricevano, impattando anche sul piano occupazionale e formando giovani;
e) le Ong, concretamente, sono spesso sole a prevenire la migrazione a rischio, ma sempre avendo come riferimento i diritti umani»@.

© Paolo Moiola / moschea in Pakistan / È la religione che fa diventare violenti o i violenti che usano la religione per giustificarsi?

Il messaggio del Papa sulla comunicazione

Siamo membra gli uni degli altri (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana: questo il titolo del messaggio di papa Francesco per la 53a giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebrerà il prossimo due giugno@.

Pubblicato il 24 gennaio – giorno in cui si ricorda San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti – il messaggio parte dall’invito del pontefice a riflettere sul nostro essere «in relazione» e a riscoprire «il desiderio dell’uomo che non vuole rimanere nella propria solitudine».

La rete in sé è uno strumento neutro: può essere un veicolo di incontro con l’altro ma anche di autoisolamento, «come una ragnatela capace di intrappolare», di cui sono vittima specialmente i ragazzi, più esposti all’illusione che la rete da sola possa soddisfare le loro esigenze relazionali.

«È chiaro», prosegue il messaggio, «che non basta moltiplicare le connessioni perché aumenti anche la comprensione reciproca», che può crescere solo nella comunione, la quale si nutre della verità mentre al contrario la menzogna divide e «smembra».

Il riferimento all’essere membra gli uni degli altri rimanda poi anche a un secondo aspetto, quello dell’importanza dell’incontro in carne e ossa. Se la rete è funzionale a questo incontro, lo facilita e lo arricchisce, allora è una risorsa.

«Questa è la rete che vogliamo», conclude il papa, «una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere».

Il tema della precedente giornata mondiale delle comunicazioni era illustrato da una frase del Vangelo di Giovanni: la verità vi renderà liberi. Se è così, allora la post verità – in cui l’emotività sostituisce i fatti oggettivi nella formazione delle opinioni delle persone – prelude alla post libertà. E non ha l’aria di essere uno scenario da augurarsi.

Chiara Giovetti




Aiutarli a casa loro:

dalle parole ai fatti

Testo di Chiara Giovetti |


Negli ultimi anni si susseguono le dichiarazioni di intenti dei governi sull’impegno per lo sviluppo. Spesso si tratta di declinazioni più o meno esplicite dell’idea «aiutiamoli a casa loro» e si concentrano principalmente sull’Africa. Ma, ancora una volta, gli slogan allontanano, non avvicinano, i cittadini dalla comprensione dei fatti.

Diciamolo subito: ci vorranno anni, decenni probabilmente. Anche volendo prendere sul serio lo slogan «Aiutiamoli a casa loro», anche cominciando subito e anche mettendoci il doppio delle risorse che ci mettiamo ora, ci vorranno anni prima che il livello di sviluppo nei paesi di provenienza dei migranti sia tale da ridurre i flussi migratori.

Qualunque politico che affermi: stiamo lavorando per creare lavoro e opportunità in Africa, dovrebbe aggiungere almeno tre cose: la prima è che ci vorrà tempo prima che l’aiuto mondiale allo sviluppo sia in grado di incidere in modo decisivo sulle economie dei paesi a cui è diretto. La seconda è che, comunque, questo aiuto può essere efficace a patto che si riducano le spinte in senso contrario e che gli sia consentito di orientare in senso redistributivo l’aumento di ricchezza che i paesi a basso reddito tenteranno di raggiungere con le proprie forze. La terza, di cui solo da pochi anni si è cominciato a parlare, ma che ha il potenziale di minare alle fondamenta le tesi degli anti immigrazionisti, è che potrebbe andare peggio prima di andare meglio. Diversi studi, infatti, mettono in discussione l’equazione «più sviluppo uguale meno migrazione» e suggeriscono, al contrario, che il miglioramento delle condizioni di un paese potrebbe spingere i suoi cittadini a emigrare di più, non di meno.

Secondo il sondaggio dell’Eurobarometro pubblicato lo scorso settembre, gli italiani nel 2017 erano più convinti rispetto all’anno precedente che affrontare il problema della povertà nei paesi in via di sviluppo dovrebbe essere una priorità sia per l’Unione europea che per il governo italiano. Rispetto alla rilevazione del 2016, inoltre, gli intervistati favorevoli a che l’Ue e i suoi stati membri spendessero di più per aiutare i paesi poveri erano aumentati del 10%@.

La crescente sensibilità verso questo tema è con tutta probabilità legata al fenomeno migratorio e all’urgenza di trovare soluzioni per gestirlo: l’arrivo di migliaia di esseri umani sulle coste europee ci ha spinti a chiederci quali siano i motivi che portano i migranti ad affrontare un viaggio così drammatico e i rischi mortali ad esso connessi. A fronte di questa maggior sensibilità verso lo sviluppo, lasciare intendere – con affermazioni pressappochiste – che la cooperazione sia lo strumento per una soluzione raggiungibile nello spazio di una legislatura rischia di peggiorare, e di molto, le cose. Perché crea aspettative che, semplicemente, non possono che essere disattese e getta le basi per un pericoloso passaggio successivo: se la cooperazione non serve, non facciamola più.

A che punto siamo

Il mondo dello sviluppo non solo è lontano dall’essere una bancarella di bacchette magiche capaci di risolvere velocemente i problemi se solo ci si decidesse a usarle; è anche un mondo inquieto e percorso in profondità da dubbi e contraddizioni. Sono passati dieci anni da quando il libro Dead Aid (in italiano: La carità che uccide), scritto dall’economista zambiana Dambisa Moyo, ha ferocemente criticato il sistema degli aiuti. «Negli ultimi cinquant’anni», scriveva Moyo nell’introduzione, «più di mille miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo sono stati trasferiti dai paesi ricchi verso l’Africa. Questa assistenza ha migliorato la vita degli africani? No. In realtà, in tutto il globo, i beneficiari di questo aiuto stanno peggio. Molto peggio». E solo quattro anni fa la comunità internazionale si sedeva (simbolicamente) intorno a un tavolo per constatare che gli Obiettivi di sviluppo del Millennio, trionfalmente lanciati nel 2000, non erano stati completamente raggiunti@.

Oggi, mentre gli Obiettivi di sviluppo del Millennio hanno lasciato il posto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015-2030, gli addetti ai lavori nelle agenzie internazionali, nei governi e nelle Ong stanno ancora ponendosi molte domande non solo sugli interventi sui quali concentrarsi ma anche su come misurare i risultati.

Euractiv, rete di media europei che segue l’attualità e il dibattito sui temi rivelanti per l’Ue, ne ha parlato con Sarah Holzapfel, economista e ricercatrice specializzata sull’agricoltura all’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo (Die). Non basta, sottolinea Holzapfel, citare come risultati il numero di chilometri di strade costruiti o l’acqua fornita con i progetti idrici. «Le vite dei gruppi beneficiari sono cambiate? Il loro reddito è cresciuto? La sicurezza alimentare è aumentata?». Queste sono le domande da porsi per capire qual è l’impatto della cooperazione. E, in mancanza di criteri comuni e di sforzi coordinati fra tutti i donatori, compiere queste misurazioni è a oggi estremamente complicato@.

Non bisogna inoltre dimenticare che parte delle difficoltà a misurare non solo i risultati ma anche i problemi da affrontare deriva dalla molto variabile disponibilità di dati statistici e dalla loro non sempre immediata comparabilità. È un’informazione che fatica a farsi strada fino alle pagine degli esteri dei quotidiani nazionali e, meno ancora, dei Tg della sera, eppure è fondamentale.

Haishan Fu, direttrice della sezione della Banca Mondiale che si occupa dei dati dell’economia dello sviluppo, ammoniva lo scorso febbraio che «ci sono ancora molti spazi vuoti sulla mappa dei dati a livello globale», e che «fino a pochi anni fa, 77 paesi ancora non disponevano dei dati adeguati a misurare la povertà. Quel che è peggio è che spesso i dati sono più scarsi proprio nelle zone dove sarebbero disperatamente necessari»@.

D’altro canto, da paesi che, come vedremo fra poco, non riescono a finanziare sanità e istruzione non ci si può aspettare che investano fondi per potenziare i propri istituti nazionali di statistica.

Questo significa che la cooperazione è uno strumento eccessivamente fragile ed è meglio non contarci troppo? No, il contrario. Significa che va fatta a meglio. Con più risorse e anche più coordinamento.

L’Overseas Development Institute (Odi), centro di ricerca con sede a Londra, sottolineava lo scorso autunno che ci sono ancora 800 milioni di persone in povertà estrema, ma il grosso dell’aiuto va ai paesi a medio reddito, non ai più poveri, perché in questi ultimi è più rischioso investire. Anche quando si tratta di aiuti@.

In un rapporto del settembre 2018@ l’Odi individua 48 paesi nei quali l’aumento (stimato) del gettito fiscale nei prossimi anni non arriverà comunque a coprire del tutto i costi per finanziare i tre settori chiave: istruzione, sanità e protezione sociale. Fra questi 48, il rapporto ne isola poi 29 in forte difficoltà economica (severely financially challenged, in inglese): tutti africani tranne Afghanistan, Corea del Nord e Haiti. Si tratta di paesi che non riescono a coprire nemmeno la metà dei costi per far funzionare i tre settori. Se almeno 33 dei 40 miliardi di dollari in aiuti che ora vanno a paesi già in grado di far fronte da soli ai quei costi venissero invece spostati su quei 29 Paesi più deboli, la spesa di questi ultimi per sanità, istruzione e protezione sociale sarebbe coperta.

Inoltre, se tutti i paesi donatori destinassero come da accordi internazionali lo 0,7% del loro Pil alla cooperazione, 184 miliardi di dollari all’anno in più sarebbero disponibili. Ipotizzando che anche solo metà di questi fossero utilizzati dai 48 paesi di cui sopra, tutti potrebbero far fronte al 94% dei costi per i tre ambiti cruciali.

È ovvio che un aiuto efficace richiede coordinamento, assunzione (e mantenimento) di impegni a livello internazionale e, lo ripetiamo, tempo per produrre e consolidare gli effetti.

Le spinte in senso contrario

Non è colpa solo di quell’arpia della Francia o dei malvagi cinesi. Le spinte in senso contrario allo sviluppo e alla riduzione della povertà sono forti e arrivano da molte direzioni. Honest accounts@, un rapporto prodotto nel 2017 da un gruppo di Ong britanniche e africane, rileva che nel 2015, a fronte di circa 162 miliardi di dollari ricevuti in prestiti, rimesse dei migranti e aiuto allo sviluppo, l’Africa subsahariana ha visto uscire dal continente risorse per 203 miliardi. Il saldo, per gli stati a Sud del Sahara, è negativo di circa 40 miliardi.

Come sono usciti questi soldi? Attraverso fatturazione irregolare e altri illeciti finanziari, rimpatrio dei profitti delle grandi aziende (realizzati sul continente africano ma poi riportati nei paesi dove le multinazionali hanno sede o nei paradisi fiscali), rimborso degli interessi sul debito e contrabbando di legno, prodotti ittici e piante o animali selvatici. A questo si aggiungono i fondi che una manciata di milionari africani mettono al sicuro nei paradisi fiscali. Secondo Gabriel Zucman, studioso della London School of Economics, nel 2014 gli africani ricchi detenevano 500 miliardi di dollari in conti offshore. Questi denari non tassati provocano una perdita fiscale per il continente di circa 15 miliardi.

Altra nota dolente è quella della svendita delle risorse naturali: sono numerosi e documentati i casi di funzionari pubblici o membri dei governi africani che, in cambio di tangenti, hanno ceduto a imprese straniere i diritti sullo sfruttamento delle risorse minerarie a prezzi stracciati.

Un esempio per tutti: il rapporto cita uno studio pubblicato nel 2013 dalla Ong britannica Global Witness e dall’Africa Progress Panel, un gruppo di studiosi e leader africani all’epoca presieduto dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan. Lo studio si concentrava su cinque grandi concessioni per estrazione mineraria in Repubblica Democratica del Congo e riportava che lo stato congolese aveva accettato di cedere i diritti di estrazione alle compagnie acquirenti – tutte società offshore con sede nelle Isole Vergini Britanniche – per un miliardo e 360 milioni in meno rispetto al valore di mercato, praticando alle aziende «sconti» fino al 95%. I diritti sono poi stati acquistati da due grandi multinazionali, la Enrc (Eurasian Natural Resources Corporation, fondata in Kazakistan e quotata in borsa a Londra) e l’anglo-svizzera Glencore, mentre le società offshore sono risultate legate a Dan Gertler, uomo d’affari israeliano membro di una delle famiglie più influenti nel mercato dei diamanti. Il miliardo e 360 milioni di mancato introito per le casse dello stato congolese, conclude il rapporto, equivale al doppio di quanto il Congo ha speso nel 2012 per istruzione e sanità.

Più sviluppo meno migrazione?

Sulla rivista dei gesuiti Aggiornamenti Sociali, il sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini segnala che secondo diverse ricerche sul rapporto fra aiuto e migrazione «in una prima non breve fase lo sviluppo incrementa le partenze: più gente accede alle risorse per muoversi, accresce l’istruzione, si apre a nuovi orizzonti e aspirazioni. Solo in seguito, dopo diversi anni, l’emigrazione cala»@.

È la cosiddetta «gobba della migrazione» o migration hump: studi storici e comparati, si legge in un documento dell’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo, hanno mostrato che quando la crescita economica e l’innalzamento del livello dei redditi sono tali che un paese non è più definibile a basso reddito, l’emigrazione inizialmente aumenta. Solo quando il paese diventa a medio reddito è ragionevole aspettarsi una diminuzione del fenomeno@.

Per riassumere: chi ci dice che il problema della migrazione degli africani si risolve aiutandoli a casa loro, in sostanza, ci sta dicendo che bisogna almeno raddoppiare i fondi italiani per lo sviluppo, mettersi d’accordo con una trentina di altri paesi donatori perché il denaro sia usato al meglio, convincere la parte corrotta delle élites africane e la parte corruttrice delle grandi aziende internazionali – italiane comprese – a piantarla e, fatto questo, metterci comodi e pazientare ancora qualche anno perché lo sviluppo nei paesi africani sia sufficiente a far diminuire l’emigrazione invece che incrementarla. «Sapevatelo», diceva un famoso comico.

Chiara Giovetti




Diseguaglianza, la sfida che decide il nostro futuro

Il 18 giugno 2018, a tre anni di distanza dalla pubblicazione della Laudato
Si’, circa venti partner, fra cui Caritas Italiana e Focsiv, hanno lanciato la
campagna triennale «Chiudiamo la forbice: dalle diseguaglianze al bene comune,
una sola famiglia umana». Vediamo i numeri delle disparità nel mondo e alcune
iniziative che la campagna ha messo in campo su uno dei tre ambiti: il cibo.

Immaginiamo per un attimo che sul pianeta vivano cento persone e che il presidente della Banca Planetaria chieda loro di portare in banca tutti i soldi che possiedono perché viene emessa una moneta nuova e quelle vecchie non valgono più. In cambio verrà distribuita la nuova moneta che si chiama globone.

La Banca Planetaria convoca i cento abitanti del
pianeta e, cominciando da chi possiede di più, restituisce a ciascuno il suo
con le dovute rivalutazioni.

Per facilità supponiamo che tutti i soldi
raccolti equivalgano a cento globoni.

Arriva il primo signore, solo. Gli danno i suoi
soldi: 33 monete. È molto soddisfatto. Proprio un bell’affare. Nel 1980, quando
era stata fatta un’operazione simile, aveva avuto «solo» 28 monete.

Arrivano poi altre 9 persone. Ricevono 37 monete,
più o meno quattro a testa. Per loro è un colpo, perché nel 1980 ne avevano
ricevute 40, ma visti i tempi che corrono, meglio non lamentarsi, le perdite
sono contenute.

Dei 100 globoni iniziali, ne rimangono 30, ma le
persone da rimborsare sono ancora 90. Quanto riceverà ciascuno? Tutti lo
stesso?

Sono chiamate altre 15 persone: ricevono 20
globoni da dividere fra loro. Mugugnano un po’ perché rispetto al 1980 hanno
perso almeno un globone, o forse due, in favore del primo uomo.

Rimangono ancora 10 monete in tutto per 75
persone. A 25 sono distribuiti equamente 8 globoni, 32 centesimi a testa.
Speravano di prendere un po’ di più, ma possono andarsene contenti perché
almeno non hanno perso molto nel cambio. Metà dei «clienti» è sistemata.

A questo punto, le 50 persone rimanenti devono
spartirsi quel che rimane: due monete. Non due a testa: due in tutto, 4
centesimi ciascuno.

Una storia per capire

Questa storiella è una semplificazione dei dati riguardanti la distribuzione della ricchezza nel mondo pubblicati nel World Inequality Report (Wir) del 2018. Va detto che queste percentuali devono essere prese cum grano salis, come gli autori stessi tengono a chiarire, perché i dati affidabili sulla ricchezza nel mondo sono meno disponibili di quelli sul reddito, altra misura su cui si basa il rapporto. Inoltre, lo scenario è costruito sui dati dei soli Stati Uniti, Unione europea e Cina.@

Tuttavia, con le dovute cautele, è possibile
sostenere che di questo passo – cioè ai tassi di crescita della diseguaglianza
attuali – nel 2050 l’1% più ricco della popolazione mondiale arriverà a
possedere di più di tutta la classe media mondiale.

Per capire meglio riprendiamo la nostra storiella
e immaginiamo di moltiplicare tutto per dieci: gli abitanti del pianeta sono
mille, non cento, l’uomo con 33 monete diventa 10 uomini con 330 monete, e i 40
(15 + 25) della fascia intermedia con 28 globoni diventano 400 con 280 globoni.
Oggi, per eguagliare la ricchezza dei 400 uomini della fascia intermedia serve
la ricchezza di otto uomini e mezzo dei dieci più ricchi.

Le proiezioni nel rapporto dicono che nel 2050
basterà la ricchezza di uno solo dei dieci super ricchi per eguagliare la
ricchezza dei 400 della classe media mondiale.

Ma di quante persone reali stiamo parlando? I
dieci ricchi con 330 monete (l’1% della popolazione) corrisponono a circa 70
milioni di persone, spiega Lucas Cancel, uno degli autori del Wir 2018, alla
rivista francese Alternatives Economiques, o 40 milioni considerando la
sola popolazione adulta. Il livello di reddito di queste persone è di 330mila
euro all’anno.

La metà più povera della popolazione mondiale, invece (i cinquanta uomini che si dividono due monete nella storiella iniziale) corrispondono a tre miliardi e mezzo di persone e hanno un reddito sotto i 3.200 euro l’anno per ogni adulto@.

Diseguaglianza in crescita

© Gigi Anataloni /AfIMC

Nel 2016 la quota di reddito nazionale detenuta
dal 10% più ricco della popolazione variava dal 37%  in Europa al 61% nel Medio Oriente. Dal 1980
al 2016 – il periodo considerato dal Wir – la diseguaglianza è aumentata un po’
ovunque, ma con tassi molto differenti: mentre in Europa la variazione è stata
di pochi punti percentuali, in Russia è passata da poco più del 20% nel 1980 a
oltre il 40% nel 2016.

Del complessivo aumento del reddito globale nei
36 anni considerati, l’1% più ricco della popolazione mondiale ha «catturato»
circa il 27%. Il 50% più povero ha certamente beneficiato di tassi di crescita
degni di nota, ma la quota  di aumento
del reddito «catturato» dalla fascia più povera è stata del 12%, pari cioè a
meno della metà rispetto alla quota dei super ricchi. Chi ha visto la propria
parte restare invariata, se non addirittura erodersi, è ancora una volta la
classe media.

Da qui al 2050, gli scenari riguardanti le
diseguaglianze sono molti. Il migliore è quello che le vede crescere in tutti
paesi ai tassi «contenuti» dell’Europa. Questo porterebbe la quota dei più
ricchi dal 27% al 19% e aumenterebbe dal 12% al 13% la quota goduta dai più
poveri. Viceversa, se il mondo seguisse il trend degli Stati Uniti, la «fetta»
di crescita a beneficio dei 3 miliardi e mezzo di poveri crollerebbe al 6%,
mentre i 70 milioni di persone più ricche otterrebbero un ulteriore aumento di un
punto percentuale.

Chiudiamo la forbice, ora

Chiudiamo la forbice@ è la campagna lanciata il 18 giugno dell’anno scorso da Caritas Italiana, Focsiv e una ventina di altri soggetti, prevalentemente di ambito ecclesiale. L’attenzione per il tema delle diseguaglianze è sintetizzata in una frase chiave contenuta nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «L’iniquità è la radice dei mali sociali».

La data del lancio di Chiudiamo la forbice, precisa il comunicato stampa che apre la campagna, corrisponde al terzo anniversario della pubblicazione dell’enciclica Laudato Sì’@.

«Non ci sono due crisi separate, una ambientale e
un’altra sociale», sostiene Francesco nell’enciclica, «bensì una sola e
complessa crisi socioambientale» che richiede un «approccio integrale per
combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso
tempo per prendersi cura della natura».

Di questo approccio integrale vuole farsi
portatrice la campagna, che concentra il proprio lavoro principalmente su tre
ambiti: il cibo, i conflitti e la mobilità umana, da leggere nell’insieme
attraverso due elementi trasversali del contesto: la dimensione ambientale, cioè
la cura della casa comune, e la dimensione finanziaria, in particolare «la
relazione tra debito, crisi finanziarie, diseguaglianze e resilienza rispetto
all’instabilità sociopolitica e allo svilupparsi di conflitti violenti».

A Chiudiamo la forbice sono legati tre concorsi
per la produzione di un video, una foto e un disegno che esprimano il titolo e
il tema della campagna. La scadenza per la presentazione dei lavori è il 30
giugno 2019, mentre la premiazione avverrà il 30 dicembre.

Il cibo, diritto basilare negato

© AfMC / Cogliati Matteo

Quello del cibo, dalla produzione al consumo, è un ambito nel quale le diseguaglianze sono di un’evidenza schiacciante. Del cibo sprecato annualmente sul pianeta, pari a 1,3 miliardi di tonnellate, gli abitanti di Europa e Nord America ne buttano fra i 95 e i 115 chili a persona contro i 6-11 chili a testa del resto del mondo. Nel primo caso, le perdite avvengono principalmente al livello del consumo e della vendita al dettaglio. In quest’ultimo ambito, buona parte dello spreco è l’effetto dell’applicazione di norme che danno eccessiva importanza all’aspetto dei prodotti. Nei paesi in via di sviluppo, invece, gli sprechi avvengono soprattutto nella fase successiva al raccolto e in quella di lavorazione, spesso a causa di limiti e inefficienze nelle tecniche di raccolta e nella catena del freddo. Nei paesi a medio reddito, infine, a causare le perdite di cibo sono principalmente la mancanza di coordinamento fra produttori e venditori e la scarsa consapevolezza da parte di produttori, venditori e consumatori sul problema dello spreco e su eventuali modi per riutilizzare il cibo che viene attualmente buttato@.

La campagna cerca di far emergere gli aspetti
disfunzionali in questo settore: «Se il 2017 è l’anno in cui la Fao ha rilevato
per la prima volta da tempo un nuovo aumento delle persone che soffrono la fame
sul pianeta, non cessano di aggravarsi le varie malattie dell’opulenza, come
l’obesità, lo spreco di cibo, la sovra alimentazione, ecc. Sullo sfondo vi sono
fenomeni complessi come la concentrazione del potere economico nelle filiere
della produzione del cibo, o i fenomeni dell’accaparramento della terra».

Fra le iniziative promosse in questo ambito vi è la spesa sospesa, che a Roma ha preso forma il primo fine settimana di ottobre al Villaggio Coldiretti. «Per tutto il weekend della manifestazione i visitatori dei banchi del maximercato degli agricoltori promosso da Coldiretti e Campagna Amica al Circo Massimo hanno avuto la possibilità di fare una donazione libera grazie alla quale acquistare prodotti a favore dei più bisognosi, sul modello dell’usanza campana del “caffè sospeso”, quando al bar si lascia pagato un caffè per il cliente che verrà dopo». Frutta, verdura, formaggi, salumi e altri generi alimentari così raccolti, per un totale di una tonnellata e mezzo, sono stati poi consegnati alla Caritas e alla Comunità di Sant’Egidio, che li hanno utilizzati per rifornire i quattro Empori della Solidarietà promossi dalla Caritas di Roma, che sono «supermercati di medie dimensioni a cui possono accedere gratuitamente persone che si trovano in temporanea difficoltà e che non riescono a sopperire a tutte le loro necessità»@.

Anche a Torino si è svolto a giugno un evento simile ai Giardini Reali superiori. Il bilancio è stato di una tonnellata di cibo raccolta e distribuita alle famiglie bisognose@.

Chiara Giovetti

© AfMC



Donna, dono e solidarietà

 


Dedichiamo la campagna di Natale alle donne: bambine, adolescenti, adulte, anziane spesso costrette a portare i pesi maggiori nelle loro comunità. Per questo vanno protette, valorizzate e messe in condizione di generare il cambiamento verso società più eque.


Testo di Chiara Giovetti, foto AfMC


Mi chiamo Oyun,
ho dieci anni e vivo alla periferia di Ulan Bataar, la capitale della Mongolia. Sono arrivata qui insieme alla mia famiglia dopo l’ultimo dzud, l’inverno più freddo che c’è. Lo dzud fa diventare tutto bianco e gelido e fa morire moltissime bestie, a volte anche le persone@.

Strage di animali durante lo dzud

Noi, ad esempio, siamo dovuti venire in città perché avevamo perso tutto. Le nostre pecore, i nostri cavalli e i nostri yak. Erano tanti, io non so quanti, papà li conosceva tutti per nome. Papà è stato triste per tanti giorni, stava sempre in silenzio ed era strano, perché papà di solito è un tipo allegro. Una volta l’ho visto davanti a una pecora stesa a terra, anche lui stava immobile e piangeva. Lui dice di no, ma io l’ho visto che gli scendevano le lacrime.

Alla fine, una sera ha parlato a me, a mamma e ai miei tre fratelli. Ha detto che non si poteva più fare niente, che dovevamo prendere la nostra gher (la casa tenda tipica della Mongolia) e andare in città. I miei fratelli avevano delle facce tristi, io no, in città c’ero stata pochissime volte ed ero curiosa di vedere bene com’era. Ma adesso che sono qui da quasi due anni mi manca andare a cavallo nella steppa, aiutare papà e i miei fratelli a far guadare il fiume agli animali, vedere le volpi o le marmotte che sbucano all’improvviso e poi scappano via.

Dove abitiamo ora, le case sono troppo vicine, si sentono i rumori, a volte si sentono anche le persone litigare e dire cose brutte. E poi c’è un odore cattivissimo, tanta polvere e a volte vedo anche del fumo grigio che, quando lo respiri, ti fa bruciare il naso. Dove abitavo prima c’era solo l’odore dell’erba, delle pecore e del latte e quando respiravi non ti bruciava niente@.

Qui in città vado a scuola e, dopo la scuola, vado dai missionari. Anche loro hanno una gher e al pomeriggio noi bambini possiamo andare lì a giocare, disegnare, fare i compiti. Facciamo anche merenda. La mia amica Sarnai l’altro giorno mi ha detto che era contenta di fare merenda perché la sera, a casa, a volte non mangia niente. La sua famiglia era una delle quattro che teneva il proprio gregge insieme al nostro. Anche loro sono dovuti venire in città dopo lo dzud. Il papà della mia amica non ha un lavoro e certi giorni non può comprare da mangiare. Lui è molto arrabbiato per questo e una volta l’ho visto fuori dalla sua gher che urlava e faceva piangere la mamma di Sarnai. Altre volte l’ho visto che camminava in un modo strano, non riusciva a tenere dritte le gambe, sembrava che gli facessero male. Forse è malato.

Io sono più fortunata, perché mio papà ha trovato un lavoro. Un suo amico che viveva già in città gli ha insegnato ad aggiustare le macchine e adesso lavora nell’officina. Così noi abbiamo sempre da mangiare. Solo una volta che mio fratello si era ammalato la mamma ha dovuto comprargli delle medicine e per un po’ di giorni abbiamo mangiato solo pane e latte perché non c’erano abbastanza soldi. Questa è un’altra cosa che ho notato della città: i grandi parlano sempre di soldi. Quando eravamo nella steppa, invece, papà dei soldi non parlava quasi mai e parlava sempre di pecore. Forse i soldi sono le pecore della città.

Donne in festa durante cerimonie di iniziazione nel Samburu, Kenya

Mi chiamo Naisula
e oggi si sposa mia sorella Regina. Sono tornata alla mia manyatta (recinto per gli animali di una famiglia nel quale ci sono una o più capanne secondo il numero delle mogli di un uomo, ndr) vicino a Maralal per un po’ di giorni. Perderò un po’ di lezioni all’università, ma ne vale la pena.

Prima di venire al villaggio sono passata a Wamba per far visita a sister Grace, la missionaria preside della scuola secondaria che ho frequentato: era commossa quando mi ha salutato. Lei sa bene che sono venuta a festeggiare qualcosa di più di un matrimonio ed è anche grazie alla sister se le cose sono andate così.

Era con lei che a scuola parlammo del cut (più esattamente Mgf, mutilazione genitale femminile, ndr), il taglio che le ragazze della nostra «tribù» devono farsi fare per poter essere considerate donne e sposarsi. In quei giorni la nostra preside era molto triste: una delle ragazze della scuola era morta da poco in conseguenza di un’infezione causata proprio dalla Mgf praticata durante le vacanze tra un anno scolastico e l’altro. E pensare che era stata lei a volere il taglio, per non essere trattata con disprezzo – da inferiore – dalle sue compagne di scuola già iniziate.

Noi eravamo spaventate, perché sapevamo che presto la cerimonia poteva toccare anche a noi, o alle nostre sorelle più piccole, come Regina. Allora sister Grace ci parlò della cosa con calma e delicatezza, ma anche con molta determinazione: «Non sono arrabbiata con nessuno – disse -, ma non voglio che questo succeda a un’altra di voi».

Insieme a lei c’era Catherine, una signora di un villaggio non lontano dal mio, anche lei aveva frequentato la stessa scuola anni prima e aveva poi iniziato a lavorare in un centro per la promozione delle donne.

La signora ci parlò a lungo; ci disse di non avere paura, che ci avrebbe aiutate e che sarebbe venuta nei nostri villaggi. Era necessario venire di persona per parlare con i nostri genitori, perché aveva visto che non bastava affrontare la questione solo con noi. Prima che la nostra amica morisse, alcune organizzazioni avevano iniziato a fare delle cerimonie di iniziazione alternative, senza il taglio. Ma le facevano lontane dai villaggi e senza la famiglia, senza il coinvolgimento degli anziani, perciò per la gente del villaggio non valeva niente. E alla fine le ragazze venivano «tagliate» comunque.

Noi sapevamo bene il perché. Nei rituali dell’iniziazione il taglio è solo il culmine più evidente di tanti altri gesti che preparano e celebrano la «nascita di una persona nuova» nella famiglia, nel villaggio, nel clan. E il padre, in tutto questo, ha un ruolo speciale, unico. Ogni padre ci tiene moltissimo, anche il mio. Le famiglie vogliono che sia fatta nella casa dove le ragazze sono cresciute e che la gente del villaggio partecipi alla festa. Anzi, questo è talmente importante che ogni quattordici anni circa, tutte le famiglie di un clan si spostano per mesi in un villaggio speciale, detto lorora, proprio per celebrare l’iniziazione e l’inizio di una nuova generazione.

Catherine venne al villaggio, parlò con la comunità e poi con le singole persone. Parlò anche con i miei tre fratelli e con i loro amici. Spiegò a tutti perché era morta la nostra amica e anche che cosa era successo ad altre ragazze che erano ancora vive ma avevano enormi problemi di salute: erano finite all’ospedale per un’infezione, avevano dolori continui e a causa di questo spesso non potevano lavorare o studiare. La sua proposta era semplice: la cerimonia sarebbe rimasta identica in tutto, tranne che nella parte in cui si faceva il taglio.

Ci volle un po’ perché la gente del villaggio smettesse di rifiutare l’idea. Molti padri e anche diverse madri all’inizio dicevano che, senza taglio, nessuno avrebbe più voluto le loro figlie come mogli. Qualcuno pensava anche che le ragazze avrebbero più facilmente preso malattie come l’Hiv o che sarebbero diventate prostitute.

Catherine rispose a tutte queste obiezioni, con pazienza, tornando al villaggio parecchie volte, anche con gli infermieri dell’ospedale e altre donne che lavoravano con lei al centro. Mio padre a poco a poco si convinse. Disse che non era d’accordo con tutti questi cambiamenti e non li capiva, ma che mia madre aveva ragione su una cosa: le sue figlie non potevano morire come la loro amica. Io e mia sorella ricevemmo il permesso di fare la cerimonia senza il taglio.

Anche gli animali domesitci sono parte delel cerimonie di iniziazione.

Tre anni dopo nostro padre annunciò che stava negoziando la dote con la famiglia di un ragazzo che voleva mia sorella in moglie, una famiglia importante che aveva molto più bestiame di noi. Regina era spaventata. Adesso era entrata anche lei alla secondaria e non voleva lasciarla. E non aveva idea di chi fosse il ragazzo che l’aveva chiesta in sposa. Raccontai tutto a Catherine che tornò al villaggio per parlare con mio padre e mia madre, spiegò loro che Regina era troppo giovane e che per il suo bene era meglio aspettare ancora qualche anno e lasciare che finisse la secondaria. Mio padre si arrabbiò moltissimo: «Ho già accettato la cerimonia come la volete voi», disse, «ora basta. A sposarsi non si muore. Se io non do mia figlia a una famiglia che me la chiede, qualcun altro rifiuterà la propria figlia a un membro della mia famiglia. I miei parenti soffriranno a causa mia e non mi vorranno più fra loro».

Papà sembrava inamovibile e Regina, che si era rassegnata, lasciò la scuola; dimagrì tanto, mangiava a stento e cominciò a non parlare quasi più.

Ma in quei giorni la figlia di un nostro parente perse il bambino che portava in grembo, finì all’ospedale e rimase in vita per un soffio. Aveva sedici anni e il suo corpo, semplicemente, non era pronto per una gravidanza. Mio padre fu molto colpito, credo abbia pensato che quello che era successo era un segno, un messaggio per lui. Non volle vedere nessuno per due giorni, poi chiese lui di vedere Catherine.

Rimasero tanto tempo seduti a parlare su un tronco al limitare della manyatta e quando ebbero finito, mio padre chiamò mia madre, Regina e i miei fratelli e disse a mia sorella che poteva tornare a scuola. Mia madre non mosse un muscolo del viso mentre mio padre parlava, ma Regina dice che appena lui girò le spalle per rientrare in casa lei fece un sorriso come non le aveva mai visto fare.

Regina ha continuato e finito la secondaria e mentre era a Wamba a studiare ha conosciuto Daniel, il giovane uomo smilzo diplomato in elettrotecnica che sta per diventare mio cognato. A dire la verità lo è già: lui e Regina si sono sposati la settimana scorsa in chiesa a Wamba ma hanno voluto fare anche il matrimonio tradizionale qui al villaggio, per rendere omaggio ai loro genitori e alla cultura dalla quale veniamo. La famiglia di Daniel ha anche pagato la dote, come vuole la tradizione.

Guardo il bel viso di mia sorella decorato con ocra rossa, il suo collo ornato di collari colorati, cerco di immaginare la sua gioia quando fra poco indosserà il mporro engorio, la collana delle donne sposate, e ringrazio Dio perché siamo qui.

Donne Warao a Pacaraima, Roraima, Brasile

Mi chiamo Milagros,
ma a scrivere questa lettera è mia nipote, Noellys. Io so leggere ma ho difficoltà a scrivere. Alle donne indigene della mia età non è stato insegnato bene.

Domani partiamo. Lasciamo la nostra terra e andiamo in Brasile. Qui a Tucupita non si può più stare. Il Venezuela ormai è troppo povero. Io ho il diabete e qui non riesco più a comprare le medicine. Mio figlio Raphael ha un lavoro, ma il suo salario di un mese basta appena per mangiare una settimana e niente altro.

Andremo prima in un posto che si chiama Pacaraima. Hanno fatto tutti così. Tutti quelli che sono partiti prima di noi. Sono tantissimi. Poi andremo a Boa Vista oppure a Manaus, così ha detto Raphael. Lui cercherà un lavoro e speriamo di poter stare meglio.

Sono preoccupata, molto preoccupata. Il viaggio è lungo e io sono vecchia. Farò molta fatica. Poi bisogna sperare che tutto vada bene. Che facciamo se i brasiliani non ci vogliono? Se ci cacciano? Se ci attaccano? A qualcuno partito prima di noi è successo@.

E quando saremo di là che cosa succederà? Mio figlio e mia nuora troveranno lavoro? Io potrò aiutarli? Certamente terrò i miei nipoti mentre i loro saranno al lavoro. Io so anche fare le amache e i cesti di moriche. Io e mia sorella Maria lo abbiamo insegnato a tante donne, eravamo le più esperte. Troverò la palma di moriche là dove andiamo? E qualcuno vorrà le mie ceste?

Chiara Giovetti

Queste storie, raccontate da donne immaginarie, non sono inventate, piuttosto le abbiamo messe insieme. Sia le donne che le storie. Le abbiamo ascoltate nella periferia della capitale della Mongolia, dove vivono le bambine come Oyun alle prese con il difficile adattamento alla città. Un’impresa per chi ha vissuto sempre all’aria aperta con le greggi e si trova ora a dover affrontare povertà, alcolismo, violenza ed emarginazione. E un inquinamento mostruoso, con quantità di polveri sottili 133 volte più alte di quelle che l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) considera accettabili e una funzionalità polmonare dei bambini del 40% più bassa rispetto ai coetanei che vivono in aree rurali.

Le abbiamo incontrate in Kenya, dove organizzazioni locali – nelle quali spesso lavorano donne formate nelle nostre scuole – cercano di accompagnare le comunità a comprendere i danni causati dalla Mgf e trovare vie alternative all’iniziazione alla vita adulta e al matrimonio.

Le abbiamo intuite nelle parole delle anziane indigene come Milagros, che si trovano a vivere in un mondo capovolto dove nessuno le può più proteggere e accudire perché possano riposare dopo una vita passata a lavorare e prendersi cura della famiglia ma, al contrario, devono rimettersi in gioco e migrare – come a oggi stanno facendo centinaia di migliaia di venezuelani – o, bene che vada, cavarsela da sole@.

Chiara Giovetti


A tutte queste donne è dedicato il nostro Natale. Perché siamo convinti che prima dei doni da scambiarsi e da aprire venga il dono delle persone. E chi dice donna, dice dono.

Vuoi aiutarci?




Giovani, missione e cooperazione: l’occasione del Sinodo

 


Dal 3 al 28 di ottobre si svolgerà la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, quest’anno dedicato ai giovani. Vediamo come questo evento può essere un’occasione di riflessione sul rapporto fra giovani, missione e cooperazione.

«Il Sinodo ha un nome lungo – I giovani, la fede e il discernimento vocazionale – ma diciamo: il Sinodo dei giovani. Si capisce meglio». Così Papa Francesco, con il linguaggio diretto che lo contraddistingue, ha indicato quello che sarà il tema su cui i vescovi riuniti a Roma si concentreranno dal 3 al 28 ottobre. «È un Sinodo», ha aggiunto il Santo Padre, «dal quale nessun giovane deve sentirsi escluso, perché è di tutti i giovani». Anche i giovani agnostici, quelli che hanno una fede tiepida, quelli che si sono allontanati dalla chiesa e i giovani atei. A tutti va prestato ascolto. Perché «ogni giovane ha qualcosa da dire agli altri, agli adulti, ai preti, alle suore, ai vescovi e al Papa»@.

Colombia

Il ribaltamento di prospettiva è evidente: per anni la Chiesa si è chiesta come parlare ai giovani, andare verso di loro, raggiungerli, coinvolgerli, in tempi in cui il loro allontanamento si è fatto sempre più evidente. «Se agli inizi degli anni 2000 il 70-80 % dei giovani si dichiarava cattolico», riporta Sara Falco sul sito di Azione Cattolica, «negli ultimi anni la percentuale è scesa al 50%. Osservando gli anni più recenti, si può notare che oggi circa il 50% di adolescenti e giovani si dicono cattolici, circa il 25% è ateo o agnostico e il restante 25% si dichiara cristiano senza altra specificazione»@.

Papa Francesco, invece, ha messo l’accento sull’ascolto, un approccio che propone sempre con forza e su tutti i temi di cui la Chiesa intende occuparsi. Anche nel documento preparatorio del sinodo del prossimo anno sull’Amazzonia, infatti, il pontefice ha sottolineato l’importanza cruciale dell’ascoltare i popoli amazzonici.

Le iniziative ideate per realizzare questo ascolto sono state diverse, a cominciare dall’incontro presinodale dello scorso marzo che ha visto riuniti a Roma 300 giovani da tutto il mondo e che ha analizzato i contributi di circa 15 mila giovani arrivati attraverso la pagina Facebook appositamente creata@.

Tanzania

Al sondaggio preparatorio avevano partecipato 221mila giovani, di cui 100.500 avevano completato il questionario. Fra questi ultimi, «il 73,9% si dichiarano cattolici che considerano importante la religione, mentre i restanti sono cattolici che non considerano importante la religione (8,8%), non cattolici che considerano importante la religione (6,1%) e non cattolici che non considerano importante la religione (11,1%)@».

Altro strumento è stato #Velodicoio@, un progetto del Servizio nazionale per la Pastorale giovanile della Cei che si è proposto di «fornire uno strumento che possa essere messo a disposizione di tutti per favorire un confronto di gruppo con i più giovani su dieci tematiche specifiche: ricerca, fare casa, incontri, complessità, legami, cura, gratuità, credibilità, direzione e progetti».

Una tappa importante verso il sinodo è stato l’incontro che il Papa ha avuto con 70mila giovani da 195 diocesi lo scorso 11 agosto al Circo Massimo, a Roma@.

Durante l’incontro Francesco ha risposto alle domande di alcuni giovani, esortando tutti i presenti a non lasciarsi rubare i sogni e a non stare alla larga dai luoghi di sofferenza, di sconfitta, di morte@.

«Non accontentatevi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila», ha detto il Santo Padre. «Ci vuole il coraggio di rischiare un salto in avanti, un balzo audace e temerario per sognare e realizzare come Gesù il Regno di Dio, e impegnarvi per un’umanità più fraterna. Abbiamo bisogno di fraternità: rischiate, andate avanti!».

Costa D’Avorio

Giovani e missione, quello che c’è

Il Sinodo dei giovani avrà fin da subito uno stretto legame con la missione. Non a caso, il messaggio del Papa per la giornata missionaria mondiale 2018, anch’essa in ottobre, si intitola Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti e comincia proprio con «Cari giovani». Il messaggio sottolinea sin dalle prime battute che «ogni uomo e donna è una missione, e questa è la ragione per cui si trova a vivere sulla terra». Essere attratti ed essere inviati «sono i due movimenti che il nostro cuore, soprattutto quando è giovane in età, sente come forze interiori dell’amore che promettono futuro e spingono in avanti la nostra esistenza». «Le Pontificie opere missionarie», si legge ancora nel testo, «sono nate proprio da cuori giovani», e tanti ragazzi «trovano, nel volontariato missionario, una forma per servire i “più piccoli”».

Molte congregazioni e istituti missionari hanno saputo accogliere, negli ultimi decenni, questa spinta dei giovani a mettersi al servizio, in Italia come all’estero.

Padre Giorgio Licini racconta come il Pime ha prima osservato e poi organizzato questo istinto di solidarietà: «Era la fine degli anni Ottanta, quasi trent’anni fa, quando al Centro Missionario Pime di Milano ci rendemmo conto che un flusso spontaneo di giovani si era incamminato da anni dall’Italia verso le missioni del Pime nel mondo. Si trattava soprattutto di compaesani, amici e parenti dei nostri missionari mossi dalla curiosità e dall’affetto verso coloro che non aspettavano più al ritorno in patria, ma andavano ad incontrare là dove avevano scelto di spendere la vita». Questa presa di coscienza fu presto organizzata e strutturata da un altro padre, Davide Sciocco: «Non più partenze all’arrembaggio e fai da te, ma preparazione, contenuti, motivazioni, obiettivi. Qualcosa che lasciasse un segno indelebile e positivo nella futura vita dell’adulto». Il risultato è stato l’invio in missione di oltre duemila ragazzi in 25 anni e il racconto di queste esperienze è diventato un libro, pubblicato nel 2015 da PIMEdit@.

Inviare giovani in missione per fare esperienza diretta in campi di lavoro in Africa e America Latina era una proposta comune a tutti gli istituti missionari ed era già iniziata negli anni Sessanta con Mani tese, fondata nel 1964 proprio con il contributo di missionari di vari istituti. Campi erano organizzati dagli universitari animati da don Tullio Contiero@ da Bologna, quelli di Africa Oggi a Milano@ e tantissimi altri. I missionari della Consolata dagli anni Settanta hanno inviato alcune migliaia di giovani per questi campi dai loro centri di animazione missionaria e probabilmente altrettanti «turisti» a visitare le loro missioni, prima con Amitour e poi con i viaggi organizzati per anni da padre Adolfo De Col.

Santiago di Compostela – Spagna

Laicato missionario

Vi è poi l’esperienza del laicato missionario, grazie al quale giovani (e anche meno giovani) hanno la possibilità di intraprendere un percorso di fede nel quale la solidarietà e, di fatto, l’impegno nella cooperazione hanno un ruolo centrale.

Fra i laici missionari della Consolata un’esperienza esemplificativa è quella di due laici spagnoli che hanno vissuto per sei anni della loro vita – dai trenta ai trentasei – in missione in Roraima, Brasile. Tutti e tre i loro bambini sono nati in missione. «Sì», raccontava Luis nel settembre 2008, «vedere il nostro progetto di famiglia crescere insieme a questa esperienza in Brasile e ai missionari della Consolata è una delle più grandi soddisfazioni che gli anni di missione ci hanno dato. Essere laici e vivere da missionari tra i missionari ci ha arricchito immensamente»@.

Tante sono anche le esperienze ispirate da un sacerdote con una sensibilità missionaria che hanno preso la forma di organizzazione strutturata e laica. La Lvia, Ong di Cuneo, nasce alla fine degli anni Sessanta dall’intuizione di don Aldo Benevelli.

«Adoperava termini strani (cooperazione, solidarietà, giustizia, comunità)» racconta di lui Riccardo Botta, uno dei primi giovani volontari che si fece coinvolgere da don Aldo. «Ebbe l’intuizione di parlare chiaro in difesa dei poveri e del mondo degli ultimi, di portare all’attenzione del mondo occidentale il cosiddetto terzo mondo». Don Aldo, scriveva lo scorso febbraio Luciano Scalettari su Famiglia Cristiana, «è prima di tutto, uno dei “padri” della cooperazione italiana, quando ancora la parola cooperazione non era nel vocabolario»@. I giovani che lo seguirono abbandonarono lavoro, famiglia e carriera per dedicarsi a una lunga formazione professionale e comunitaria per poi partire alla volta di Kenya, Burundi, Senegal, Burkina Faso, Etiopia. La prima volontaria Lvia, Rosanna Cayre, arrivò a Meru nel 1967, ospitata dai missionari della Consolata, mentre è del 1972 l’arrivo del primo volontario in Etiopia, che lavorerà come insegnante nella scuola tecnica degli stessi missionari a Meki@.

A raccogliere l’eredità di queste intuizioni e a federarle è stata la Focsiv, Federazione degli organismi oristiani servizio internazionale volontario, che ha appena compiuto 46 anni e conta oggi un’ottantina di organizzazioni aderenti. Dalla sua nascita, si legge sul sito, «Focsiv e i suoi soci hanno impiegato 27.000 volontari internazionali e giovani in servizio civile».

Siamo alla rocca di Cornuda con il campo mobile dei ragazzi di prima superiore

Giovani e missione: quello che ancora manca

Le realtà di cooperazione di ispirazione missionaria hanno indubbiamente contribuito a fare da ponte fra il mondo missionario e i giovani: i ragazzi che partono, infatti, non sono necessariamente credenti ma, attraverso un percorso professionale, vengono a contatto con la missione e con i suoi valori.

Questo reciproco conoscersi, come l’impegnarsi su problemi condivisi e confrontarsi lavorando nello stesso contesto permette tanto ai giovani che partono quanto ai missionari che li accolgono di superare i cliché e di trovare un linguaggio comune. «Ho lavorato con un missionario che era proprio “avanti”, non sembrava neanche un prete!», è la frase che chi scrive ha sentito pronunciare in diverse occasioni da ragazzi che, partiti con mille pregiudizi, si sono trovati a condividere mesi di lavoro con missionari capaci di leggere il loro tempo e di reagirvi con efficacia. E di ascoltare i dubbi, le proposte, le ingenuità e le intuizioni di un giovane che voleva confrontarsi con loro.

Questo ascolto e questo confronto li ho vissuti in prima persona: «Capisco la tua rabbia di fronte a un’ingiustizia come quella di una baraccopoli», mi disse una volta un missionario della Consolata oggi scomparso, «ma non hai capito niente se pensi che centinaia di migliaia di abitanti delle bidonville dovrebbero mettersi tutti insieme e marciare armati fino al Parlamento per chiedere case decenti e strade asfaltate. Otterrebbero solo scontri e il dispiegamento dell’esercito. Quello che fanno, invece, è organizzarsi in comitati, associazioni e gruppi e lottare giorno per giorno perché un chilometro in più sia asfaltato, un quartiere in più della baraccopoli sia riqualificato, una scuola e un dispensario in più siano costruiti. E noi siamo qui – e in tutto il mondo, anche a casa – proprio per non lasciare solo in questa lotta chi chiede giustizia».

Con quel «non sembra neanche un prete» i giovani intendono indicare probabilmente qualcosa di molto simile a quello che Papa Francesco ha stigmatizzato senza mezzi termini proprio davanti ai 70mila del Circo Massimo quando ha detto: «Penso tante volte a Gesù che bussa alla porta, ma da dentro, perché lo lasciamo uscire, perché noi tante volte, senza testimonianza, lo teniamo prigioniero delle nostre formalità, delle nostre chiusure, dei nostri egoismi, del nostro modo di vivere clericale. E il clericalismo, che non è solo dei chierici, è un atteggiamento che tocca tutti noi: il clericalismo è una perversione della Chiesa».

Chissà che non sia proprio la missione la chiave di volta per reggere la costruzione di un nuovo rapporto fra i giovani e la Chiesa.

Chiara Giovetti

Argentina

 




Mali, LVIA, una Ong contro la guerra

Testo di Marco Bello, foto di Archivio dell’Ong LVIA |


Nel paese, in conflitto dal 2012, è crisi umanitaria. Centinaia di migliaia di sfollati, mancanza di acqua, cibo e assistenza medica. Gli attacchi sono quotidiani e le violazioni dei diritti una costante. Spuntano anche le fosse comuni di civili. In mezzo a tutto questo una Ong piemontese, la Lvia, propone la sua via per la pace. Abbiamo incontrato il suo rappresentante.

Parigi, 26 maggio 2018. Mamoudou Gassama, è un immigrato clandestino di 22 anni. Nel diciottesimo arrondissement salva un bimbo appeso a un balcone, arrampicandosi a mani nude, con l’agilità di un gatto, fino al quarto piano di un palazzo. Ricevuto all’Eliseo dal presidente francese Emmanuel Macron, gli viene immediatamente concessa la nazionalità francese e gli è proposto un lavoro come vigile del fuoco.

San Calogero (Vibo Valentia, Calabria), 2 giugno. Tre immigrati vengono presi a fucilate da un italiano. Stavano cercando vecchie lamiere in una fabbrica abbandonata per costruire baracche. Sacko Soumayla, 29 anni, regolare e sindacalista, cade a terra morto. Il giorno prima al Quirinale ha giurato il governo Lega – Movimento 5 stelle, detto «del cambiamento».

Mamoudou e Sacko, entrambi migranti, entrambi maliani. Due storie simili, due destini diversi.

Anche Ousmane ag Hamatou, 37 anni, è del Mali. Lui lavora a Bamako, la capitale, per una Ong italiana, l’Lvia di Cuneo, della quale è il responsabile nel paese africano. Ousmane non ha nessuna intenzione di migrare. È in Italia, su invito della sua Ong, per formazione e una serie di incontri, poi tornerà in patria dalla sua famiglia e al suo lavoro.

Lo incontriamo, per farci spiegare cosa sta succedendo in Mali, e per provare a capire perché, ragazzi come Mamadou e Sacko sono scappati dal paese e molti altri continuano a farlo.

Perché si scappa dal Mali

Ma facciamo un passo indietro. Il Mali, paese cerniera tra l’Africa subsahariana e il Sahara, nel 2012 precipita in una crisi profonda, dopo un ventennio di relativa stabilità (cfr. MC giugno 2017). Il Nord del paese, l’Azawad, ha visto, negli anni precedenti, l’infiltrazione di gruppi estremisti islamici (jihadisti) dall’estero, in particolare dall’Algeria, che si sono inizialmente alleati con le milizie locali indipendentiste di etnia tuareg. Insieme conquistano il territorio del Nord, occupando le città e imponendo la loro legge. I soldati regolari fuggono a Sud. Ma l’alleanza si rompe e i jihadisti hanno la meglio sui Tuareg. A gennaio 2013 puntano addirittura sulla capitale Bamako. È per questo che intervengono prontamente i militari francesi, in protezione dell’ex colonia (e dei propri interessi). L’operazione francese Sérval respinge i miliziani e riconquista le città del Nord. Islamisti e indipendentisti si rifugiano nello sconfinato territorio desertico. Quando l’operazione Barkhane sostituisce Sérval, intervengono i caschi blu, con la Minusma: missione composta da soldati africani dei paesi vicini, ma anche da un grosso contingente tedesco. Gli eserciti stranieri affiancano quello maliano, le Forze armate del Mali (Fama), che sono allo sbando.

«La situazione oggi è complessa e molto volatile – commenta Ousmane -, perché dopo la firma degli accordi di pace tra il governo e i gruppi armati nel giugno 2015 (solo alcuni dei gruppi, quelli indipendentisti tuareg non radicalizzati, ndr), c’è stata una mancanza di volontà, in primo luogo dello stato, di mettere in pratica le condizioni sancite dagli accordi stessi (L’accordo prevede, tra l’altro, la smobilitazione dei combattenti; la creazione di pattuglie miste governo – ex ribelli; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, per una definizione politica dell’Azawad).E c’è anche una certa reticenza da parte dei gruppi armati per quanto riguarda il processo di disarmo, perché le armi sono l’unica garanzia che hanno per poter fare un’eventuale negoziazione». La non applicazione degli accordi crea una situazione di vuoto istituzionale, che ha ripercussioni importanti. «Lo stato non è presente in certe zone e i gruppi armati “firmatari” non si incaricano della sicurezza territoriale. Questo fa sì che sul terreno ci sia un’avanzata delle forze islamiste, che approfittano della situazione di abbandono del territorio. Assistiamo inoltre, per lo stesso motivo, a una disgregazione dei gruppi armati in tanti gruppuscoli più piccoli, con tendenza a diventare formazioni a carattere comunitario, ovvero a base etnica. Ogni comunità si organizza e si dissocia dai gruppi principali che sono i firmatari degli accordi. Esse temono, infatti, che se un giorno ci saranno i dividendi degli accordi, non tutte le comunità rimaste nei grossi gruppi saranno soddisfatte».

Ousmane (© Marco Bello)

Molti attori sul terreno

Oltre alla Minusma e all’esercito maliano – tornato nel Nord, dove controlla oggi le città, grazie all’intervento militare francese nel 2013 – la realtà degli attori sul terreno è complessa e variabile. Racconta Ousmane: «C’è il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma), il quale costituisce l’insieme dei grossi movimenti armati indipendentisti che hanno proclamato l’indipendenza dell’Azawad, poi ci sono diversi gruppi islamisti radicali, alcuni gestiti da maliani, altri da stranieri (in particolare algerini, ndr). Oltre a questi ci sono tante piccole milizie locali, comunitarie, che son state create e contribuiscono a rendere il clima pesante. Sono anche presenti bande di malviventi che operano e ostacolano il lavoro delle Ong, rubando le loro auto e compiendo assalti. Un insieme di attori armati che rende la situazione piuttosto complessa».

La popolazione è la principale vittima di questa situazione di insicurezza e instabilità, nella quale gli assalti si susseguono quotidianamente. Continua Ousmane: «La popolazione del Nord Mali cerca di capire cosa stia succedendo, perché ci sono stati troppi cambiamenti in questi ultimi tempi. Siamo partiti nel 2012 con uno stato maliano centrale relativamente forte, per arrivare a una situazione in cui il Nord è caduto nelle mani di diversi gruppi armati, uno stato autoproclamato dell’Azawad, per poi passare a uno stato islamista, perché gli jihadisti hanno cacciato gli indipendentisti. Siamo quindi ritornati a uno stato maliano diverso da quello del 2012, appoggiato da forze straniere e delle Nazioni Unite».

Oltre alla sicurezza sono i servizi a mancare: «La violenza è a tutti i livelli, anche nei piccoli villaggi, in zone dove lo stato non esiste più e i servizi sociali di base, come l’acqua, l’educazione, la salute, non sono garantiti. Per questo motivo c’è un grande numero di sfollati, sia verso paesi confinanti sia all’interno del Mali in direzione del centro e Sud del paese». I dati delle Nazioni Unite di aprile 2018 parlano di circa 60.000 persone sfollate all’interno e 137.000 rifugiate in Burkina Faso, Niger e Mauritania.

Anche nel centro del Mali la situazione è divenuta complessa. «Le condizioni nella zona centrale non sono diverse, è la stessa crisi del Nord che avanza nel centro, con gli stessi attori. Dato che non si trova soluzione alla base, la crisi si estende anche verso il Sud e ora tocca paesi limitrofi come il Sahel burkinabè (il Nord del Burkina Faso, ndr), che è stato contagiato dalla crisi, e la frontiera con il Niger (Nord Est, ndr). È tutta un’area geografica che vede la crisi estendersi».

In particolare il centro del paese è diventato teatro di scontri tra diverse etnie (cfr. MC giugno ‘17). «La Lvia interviene a Mopti, insieme all’Ong Cisv e con finanziamenti di emergenza del ministero per gli Affari esteri italiano, appoggiando i centri di salute. La particolarità di questa zona sono gli scontri intercomunitari tra la popolazione Peulh, allevatori, che si organizza in milizie, e quella Dogon, agricoltori, che inizia a prendere le armi».

Costretti all’emergenza

Lvia lavora in Mali da 30 anni, ed essendo una Ong che si occupa di sviluppo, ha sempre lavorato su programmi di lunga durata. Ousmane ci spiega cosa è cambiato con la crisi: «Non siamo una Ong di emergenza, ovvero non andiamo di proposito in quei paesi dove c’è la guerra per intervenire, ma in Mali siamo in un contesto che conosciamo bene, abbiamo molti contatti, siamo riconosciuti dalle comunità, dagli enti locali e anche dal governo. Abbiamo fatto tesoro di questo riconoscimento e della nostra conoscenza del terreno per realizzare progetti di emergenza umanitaria. Sono programmi su temi che abbiamo sviluppato anche in contesto non di crisi, come le infrastrutture idrauliche (pozzi artesiani, ndr), per dare acqua potabile alla gente. Per noi il fatto importante che cambia, è che oggi, con la crisi, ci sono bisogni primari da soddisfare, in modo anche urgente. Ad esempio, nell’ambito della nutrizione, perché gli indicatori di malnutrizione nel Nord del paese sono piuttosto alti. Sosteniamo alcuni centri di salute, quelli ancora funzionanti, per accogliere i bambini denutriti e seguirli. Facciamo anche molta sensibilizzazione e accompagnamento delle comunità, nell’ambito della valorizzazione dei prodotti agricoli locali e la loro integrazione nell’alimentazione di base».

Non sparate sulle Ong

In un contesto di crisi, oltre alle normali difficoltà c’è anche un altro problema per le Ong, quello della sicurezza dei propri operatori. «È una grande sfida, perché occorre abituarsi a lavorare in un contesto di sicurezza imprevedibile, dove anche se le nostre organizzazioni non sono prese particolarmente di mira, operiamo in un clima nel quale tutto può succedere. Abbiamo avuto incidenti come furti di auto o assalti a mano armata. È un contesto non controllabile, per cui occorre adattare la nostra missione, i nostri interventi, ogni giorno, informandoci in modo continuo e seguendo alla lettera le raccomandazioni di sicurezza».

Politica: evoluzione?

Il Mali sta vivendo anche un periodo di transizione politica, perché il 29 luglio si terranno le elezioni presidenziali (leggerete queste righe ad elezioni avvenute; pubblicheremo un resoconto delle stesse su www.rivistamissioniconsolata.it), che però non dovrebbero portare particolari sorprese. Oltre al presidente uscente Ibrahim Boubacar Keita (detto Ibk), eletto nel 2013, favorito, sono una ventina gli altri candidati. A inizio giugno una manifestazione di una coalizione di opposizione è stata repressa sul nascere mediante l’uso di gas lacrimogeni. I manifestanti chiedevano più trasparenza e più equità sui media nazionali per la copertura della campagna elettorale.

Chiediamo a Ousmane cosa ne pensa. «Visto il clima d’insicurezza che regna nel paese, con continui attacchi, penso che il contesto non sia propizio alla tenuta di elezioni libere, trasparenti e soprattutto credibili. C’è piuttosto un’urgenza nel mettere in sicurezza il paese e migliorare le condizioni di vita della popolazione più che organizzare delle elezioni.

L’impressione è quella che chi è al potere, ma anche chi vive nel Sud del Mali, dove c’è un piccolo spazio in sicurezza e normalità, non sia molto cosciente di cosa succede nel resto del paese. Il Nord non è mai stato una priorità per le autorità centrali e lo è ancora meno adesso. Colpisce anche il fatto che si organizzino elezioni quando molta gente è fuori dal paese o dalla sua zona di residenza abituale. Non è logico organizzare delle elezioni quando la popolazione non può votare». Occorre considerare che il paese, la cui superficie è di oltre 1,2 milioni di km2 (quasi quattro volte l’Italia) ha una vasta fetta di deserto del Sahara, l’Azawad appunto, che occupa una superficie di 822.000 km2. La capitale dello stato, Bamako, si trova invece nell’estremo Sud del paese.

«Bisogna riconoscere che il presidente attuale ha assunto la carica in un momento piuttosto particolare. È arrivato nel 2013 quando il paese attraversava una crisi molto grave, difficile da gestire. Gli si può però contestare che certi impegni presi nell’ambito dell’accordo di pace non sono stati applicati. Questo è un punto importante sul quale il governo ha fallito». Il Mali è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è anche il capo dell’esecutivo. Un cambio del presidente prevede anche un nuovo governo.

«L’opinione pubblica a Bamako è molto divisa su Ibk. C’è chi pensa che questo governo, in un secondo mandato non possa fare meglio di quanto ha già fatto, altri che pensano occorra un vero cambiamento. Io personalmente, tra i candidati, non vedo nulla di nuovo, sono le stesse figure che hanno contribuito, negli anni, a portare questo paese a terra. Resta la stessa generazione di politici maliani che, ormai da decenni, non riesce a far uscire il paese da questa situazione».

Il pantano degli scontri etnici

La novità degli ultimi due anni sono gli scontri a base etnica nelle due regioni centrali di Mopti e Ségou, che nulla hanno a che vedere con l’Azawad e i Tuareg, ma dove si sono inaspriti conflitti atavici tra gli allevatori peulh e gli agricoltori dogon, con la compiacenza dei Bambara del Sud. Sovente i cacciatori bozo di etnia bambara fanno il lavoro sporco coperti dai militari.

È del giugno scorso la scoperta di almeno tre fosse comuni di civili uccisi, sembra giustiziati, anche per rappresaglie, dall’esercito maliano. Il 19 giugno, in seguito a un’operazione militare, erano scomparse 18 persone dalla località di Gassel (dipartimento di Douentza, regione di Mopti), tutte di etnia peulh. Il 20 è stata scoperta una fossa con almeno 7 corpi. Pochi giorni prima, il 15 giugno a Nantaka e Kobaka, nel comune di Sokoura, i corpi di 25 persone erano stati scoperti in tre fosse comuni. Anche loro, con tutta probabilità, peulh. Le responsabilità sarebbero dell’esercito regolare, fatto questa volta confermato da un comunicato del ministero della Difesa.

Scontri nei quali si sono insinuati gli islamisti radicalizzati, come Amadou Koufa, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, legato al capo tuareg radicale Iyad ag Ghali (lui di Kidal, nel Nord). Fronte che ha avuto come filiazione il primo gruppo di combattenti jihadisti del Burkina Faso, Ansarul Islam (cfr. MC giugno ‘17), nato nella confinante provincia del Sahel burkinabè.

Crisi senza soluzione?

In una situazione così ingarbugliata è difficile vedere una via d’uscita. Chiediamo a Ousmane, uomo del Nord, che vive in capitale e che ha una visione d’insieme, di dirci quale sarebbe, secondo lui, una pista per la soluzione. «Secondo me è difficile prevedere. L’insicurezza ha gravi ripercussioni sulla situazione umanitaria e su quella politica. Tutto è molto complesso.

La prima cosa da fare è applicare l’accordo di pace di Algeri, per cominciare a trovare una soluzione politica alla ribellione tuareg nel Nord del Mali. In questo modo si farebbe un grande passo in avanti e ci si potrebbe occupare degli altri problemi, che sono nell’insieme una conseguenza di questa  guerra.

Il presidente che arriverà dovrà prendere di petto l’applicazione di questi accordi, per farci andare avanti nella via della prosperità e della pace».

Ma i jihadisti, in particolare quelli stranieri, non hanno partecipato agli accordi. Con loro non si può negoziare? «I jihadisti non hanno nulla da negoziare. Lo hanno detto quando hanno conquistato il Nord, che non erano venuti per negoziare uno stato o una soluzione politica, erano venuti per instaurare uno stato islamico in Mali. Per cui occorre che il governo maliano trovi una soluzione politica alla situazione dei Tuareg nel Nord del Mali e a questo punto, tutti noi maliani, ci possiamo mettere insieme per combattere gli islamisti. Io penso che non resisterebbero a un Mali unito, ma nelle condizioni attuali sono loro che approfittano e creano ogni giorno il caos sulla nostra terra».

Ci sono islamisti stranieri ma anche maliani che si sono radicalizzati. In particolare il capo più importante del momento è il tuareg Iyad ag Ghali. Già leader delle grandi ribellioni tuareg dal 1991 in avanti, si è poi islamizzato, ha fondato il gruppo Ansar Dine, tra i fondatori di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), e nel 2017 ha riunito in un fronte comune diverse formazioni nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim).

«Io penso che rispetto agli islamisti maliani si possa trovare una soluzione. Secondo me, la maggior parte di loro si sono radicalizzati perché hanno visto questo passaggio come un modo per continuare la lotta politica per l’indipendenza del Nord. Se invece sentissero che c’è una reale volontà per una soluzione politica con i gruppi armati tuareg o di altre comunità del Nord, sarebbe possibile negoziare con loro. Per gli altri islamisti che non sono maliani, l’unica soluzione è combatterli. Con o senza l’appoggio delle forze straniere. Non abbiamo necessariamente bisogno di eserciti stranieri, ma è invece obbligatorio ritrovare quello che ci unisce come maliani, come nazione, e a quel punto possiamo vincere la guerra contro gli islamisti, contro il sottosviluppo, e ben altre sfide».

Marco Bello




Popoli indigeni e alfabetizzazione


In agosto e settembre cadono due ricorrenze che riportano l’attenzione su due temi mai come oggi attuali: la giornata internazionale dei popoli indigeni del mondo (9 agosto) e la giornata internazionale dell’alfabetizzazione (8 settembre).

Era il 1994 quando le Nazioni Unite hanno fissato nel 9 agosto la giornata internazionale dei popoli indigeni. È stato scelto questo giorno perché in esso cade l’anniversario della prima riunione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sui Popoli indigeni, che aveva avuto luogo nel 1982.

Di fatto, l’ingresso delle popolazioni indigene fra i temi all’attenzione dell’Onu è storicamente avvenuto attraverso la porta dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo) che si occupa dei popoli indigeni sin dagli anni Venti, quando l’organizzazione «madre» non era ancora l’Onu, bensì la Lega delle Nazioni.

Il motivo per cui l’Ilo, a suo tempo, ha portato alla ribalta il tema indigeno è che una serie di studi sui lavoratori rurali avevano mostrato come gli indigeni rappresentassero, all’interno di questa categoria, un gruppo piuttosto significativo e altrettanto discriminato.

Uno dei primi aspetti che le organizzazioni internazionali hanno tentato di affrontare è stato quello della definizione di popoli indigeni. Un primo contributo sostanziale è stato la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite durante la sua 62ª sessione in New York il 13 settembre 2007@.

Poi, in un rapporto del 22 novembre 2017, Decent Work for Indigenous and Tribal Peoples in the Rural Economy@, l’Ilo ricorda che: «Non esiste una definizione universale di popoli indigeni e tribali, ma la Convenzione Ilo sui Popoli Indigeni e Tribali del 1989, N. 169, fornisce un insieme di criteri soggettivi e oggettivi che vengono applicati congiuntamente per identificare chi sono questi popoli in un determinato paese».

Il criterio soggettivo sia per i popoli indigeni che per quelli tribali è il sentimento di appartenenza, cioè il sentirsi parte di un gruppo. I criteri oggettivi sono poi, nel caso dei popoli indigeni, il fatto di discendere da popoli che abitavano in quella zona all’epoca della colonizzazione, della conquista o della definizione degli attuali confini dello stato. A questo si aggiunge un secondo criterio oggettivo, cioè il fatto di conservare in tutto o in parte le proprie istituzioni sociali, economiche, culturali e politiche, a prescindere da quale sia il loro status giuridico.

Baragoi, Kenya

Chi è indigeno?

I criteri oggettivi riguardanti i popoli tribali, invece, sono il fatto di avere condizioni sociali, culturali ed economiche che li distinguono dalle altre componenti della comunità nazionale e l’avere uno status regolato in tutto o in parte dalle loro consuetudini e tradizioni o da leggi o regolamenti speciali.

Il rapporto del 2017 precisa, inoltre, che «data la diversità dei popoli che cerca di proteggere, la Convenzione usa la terminologia inclusiva di popoli “indigeni” e “tribali” e attribuisce a entrambi lo stesso insieme di diritti. Ad esempio, in alcuni paesi latino-americani il termine “tribale” è stato applicato ad alcune comunità afro discendenti».

La Convenzione, si legge sul sito di Survival, una delle organizzazioni più attive nel sostenere i diritti dei popoli indigeni, è importante perché «riconosce i diritti di proprietà della terra dei popoli tribali e stabilisce che essi debbano essere consultati ogniqualvolta vengono varati leggi o progetti di sviluppo che possono avere un impatto sulle loro vite. […] riconosce, inoltre, le pratiche culturali e sociali dei popoli tribali, garantisce il rispetto delle loro tradizioni e chiede che le loro risorse naturali vengano protette». A oggi è stata ratificata da 22 stati prevalentemente latinoamericani e, fra gli europei, solo da Danimarca, Olanda, Norvegia e Spagna.@

Per fare alcuni esempi, e limitandosi ad alcuni dei popoli con i quali i missionari della Consolata lavorano, sono identificati come popoli indigeni: i Pigmei in Rd Congo, i Turkana, i Samburu, i Masaai in Kenya, gli Yanomami, i Makuxì in Brasile, i Guarani-Kaiowá, i Toba, i Tupi-Guarani in Argentina.

South Horr, Kenya

Un quadro complesso e variegato, dunque, come lo è la realtà dei popoli indigeni ai quali ad oggi appartengono circa 370 milioni di persone che vivono in 90 stati e parlano una larga maggioranza delle lingue del mondo, le quali, secondo le Nazioni Unite, sono tra 6.000 e 7.000.

Ma ci sono anche alcuni elementi che accomunano la condizione delle popolazioni indigene: il rapporto Ilo indica che queste costituiscono il 5% della popolazione del pianeta ma al tempo stesso rappresentano il 15% dei poveri del mondo e la loro aspettativa di vita, riporta il Programma Onu (Undp) per lo sviluppo, è di 20 anni più bassa rispetto ai non indigeni@. Sono loro che si prendono cura di circa un quinto della superficie terrestre e proteggono quasi l’80% della biodiversità rimanente sulla Terra.

Quest’anno, la giornata del 9 agosto fa da preludio a una serie di iniziative che si terranno nei mesi successivi. Infatti, il 2019 è stato dichiarato Anno internazionale delle lingue indigene@.

«Nonostante il loro valore immenso», si legge nel Piano d’azione per l’organizzazione dell’anno internazionale, «le lingue di tutto il mondo continuano a scomparire a tassi allarmanti. […] Secondo il Forum permanente sulle questioni indigene, non meno del 40% delle circa 6/7.000 lingue parlate nel 2016 rischiavano di scomparire. Il fatto che molte di queste sono le lingue indigene mette a rischio le culture e i sistemi di conoscenza a cui appartengono quelle lingue».

Altro evento che vedrà come protagonisti i popoli indigeni sarà nell’ottobre 2019 il Sinodo sull’Amazzonia. Nella presentazione del documento di preparazione all’Assemblea speciale per la Regione Panamazzonia si insiste molto sulla «urgenza dell’ascolto», sulla imprescindibilità dell’ascoltare i popoli che abitano l’Amazzonia e i popoli indigeni in particolare@ (cfr. MC luglio 2018).

Bayenga, Congo RD

Alfabetizzazione, va meglio ma non basta

L’8 settembre si celebra la giornata internazionale dell’alfabetizzazione. Nel 2017 Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, aveva diffuso alcuni dati statistici aggiornati@: il tasso di alfabetizzazione globale fra le persone da 15 anni in su aveva raggiunto l’86%, dato che aumentava al 91% se si considerava solo la fascia d’età fra i 15 e i 24 anni. Tuttavia, sottolineava Unesco, 750 milioni di persone nel mondo erano analfabete e due terzi di queste erano donne, mentre i giovani fra 15 e i 24 anni non in grado di leggere e scrivere erano 102 milioni.

I tassi più bassi di alfabetizzazione si registrano nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale e sono inferiori al 50% in venti paesi: Afghanistan e Iraq in Asia; Benin, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone e Sud Sudan, in Africa, e Haiti in America Latina.

Quanto ai bambini in età da scuola primaria e secondaria fino a 14 anni, secondo i dati 2016 non sono a scuola 63 milioni fra i 6 e gli 11 anni e 61 milioni fra i 12 e i 14 anni. Non solo: fra quelli in classe il problema è la qualità dell’insegnamento. Secondo un rapporto Unesco del 2014 i cui dati sono tuttora citati@, dei 650 milioni di bambini delle scuole primarie 250 milioni non stanno imparando in modo sufficiente le basi della lettura e della matematica. Di questi, quasi 120 milioni non sono arrivati alla quarta classe, mentre i restanti 130 milioni sono a scuola ma non hanno raggiunto gli standard minimi di istruzione. Questi bambini, precisa il rapporto, spesso faticano a capire una frase elementare e non hanno una preparazione adeguata per il passaggio alla scuola secondaria.

Anche nell’ambito dell’alfabetizzazione e dell’istruzione i popoli indigeni sono spesso penalizzati rispetto agli altri membri della comunità nazionale in cui vivono. Le principali cause sono la carenza di adeguate strutture e di personale qualificato nelle aree indigene e anche il mancato rispetto delle specificità delle culture nei programmi scolastici e nei metodi di insegnamento. Tutto questo fa sì che l’istruzione per i popoli indigeni sia non solo difficilmente accessibile ma anche espressione di una cultura imposta e lontana da loro.

Dianrà, Costa d’Avorio

I progetti dei missionari della Consolata

L’etno educazione è un ambito nel quale alfabetizzazione e cultura indigena trovano un terreno comune. Padre Corrado Dalmonego, che dal 2010 segue diverse attività di etno educazione con gli Yanomami del Catrimani (Roraima, Brasile), riporta che gli obiettivi dell’etno educazione sono quelli di «costruire con le comunità un processo specifico, differenziato, interculturale e bilingue, a partire dalle conoscenze e da una pedagogia propri. L’etno educazione non si riduce solo alla scuola, e neppure solamente all’alfabetizzazione; nasce dal modo di essere Yanomami e si espande attraverso tutte le relazioni interetniche».@

Iniziative che vanno in questa direzione sono in corso anche nella terra indigena di Raposa Serra do Sol, sempre in Brasile, ad esempio a Linha Seca, dove padre Joseph Musito ha seguito la realizzazione delle aule per la scuola Indio Luiz. «Questa scuola», scrive padre Joseph, «non ha solo il ruolo di trasmettere agli alunni le conoscenze sulla società moderna, ma anche la storia e i valori tradizionali attraverso i racconti orali, i canti, le danze, il disegno, le consuetudini e la lingua indigena».

Quanto alle iniziative con i popoli indigeni dell’Africa, ricordiamo la scuola itinerante che padre Andrés García Fernández sta portando avanti a Bayenga, nel Congo Rd, con i pigmei Bambuti@. Si tratta di un percorso prescolare rivolto ai bambini di 33 insediamenti nella foresta, realizzato «con metodi il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti» (cfr. MC giugno ‘17).

Al di là dell’ambito dell’istruzione, poi, il lavoro dei missionari della Consolata con i popoli indigeni consiste anche nell’accompagnare le comunità nel loro sforzo di mettersi in relazione con la cultura dominante senza esserne travolte. È il caso, ad esempio, dei progetti di promozione dell’artigianato Warao o delle attività generatrici di reddito legate alla sartoria nella zona di Tucupita, in Venezuela (vedi MC luglio 2018).

Altra iniziativa che ha come principale obiettivo quello della promozione, valorizzazione e difesa della cultura indigena è il Centro di documentazione Indigena dei missionari della Consolata a Boa Vista, Brasile. Fratel Carlo Zacquini, veterano della missione in Roraima, vi ha riunito le testimonianze e i materiali che, insieme a diversi suoi confratelli, ha raccolto in 53 anni di lavoro con gli Yanomami.

Infine, vale la pena di citare un’iniziativa di alfabetizzazione non legata a popoli indigeni ma attiva in uno dei paesi con tassi di analfabetismo intorno al 50%. A Dianrà, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata organizzano corsi rivolti a circa 220 persone fra adulti e bambini in abbandono scolastico. Si svolgono presso i locali della missione della Consolata e nell’apatam (paillote) costruito a questo scopo in un villaggio vicino. Anche Marandallah, la missione a 80 chilometri da Dianra, ha realizzato progetti dedicati a chi non ha potuto ricevere un’istruzione scolastica o ha dovuto interromperla: fra il 2013 e il 2015 grazie al sostegno dell’Opera di Promozione dell’Alfabetizzazione nel Mondo (Opam) è stato possibile costruire degli apatam e dotarli di impianto fotovoltaico.

Chiara Giovetti

Tucupita, Venezuela