Vite nel Paese che non c’è
C’è un filo rosso che collega le vite di tanti congolesi. Il piccolo venditore di carbone di Kinshasa, Marten e Daniel del Katanga, Stella del Kivu. Quello di una vita senza diritti, vissuta in affanno, alla ricerca di una condizione migliore. Il nostro reportage.
Kinshasa. Sono le sei di sera, stiamo rientrando al nostro alloggio. È a Masina III, uno dei quartieri più difficili della capitale della Repubblica democratica del Congo, perfetto per indagare i lati più oscuri di una metropoli che, con i suoi quasi 18 milioni di abitanti, è lo specchio di un Paese dilaniato. Quella mattina, all’uscita, eravamo rimasti colpiti da un bambino in strada, ma presi dallo sfuggire al caotico traffico della città, non ci eravamo potuti fermare. Al nostro rientro quel bambino era ancora lì, con il viso e i vestiti più sporchi rispetto all’inizio della giornata. È un «charbonnier», nome con cui si indicano i produttori e venditori di carbone da legna – makala in lingua lingala -, un combustibile essenziale per la popolazione congolese, usato per cucinare. Quel bambino, però, è visibilmente troppo piccolo per quel lavoro: i sacchi di carbone da trasportare sono più alti e sicuramente più pesanti di lui. Non è da solo, ci sono ragazzi più grandi: qualcuno dorme sui sacchi ammassati, altri danno ordini su come procedere.
Ci avviciniamo e, dopo una mancia (indispensabile per convincere le persone a parlare), rispondono a qualche domanda. È un lavoro duro, fisicamente stancante – dicono -, il cui guadagno dipende da quanti sacchi si riescono a vendere. Questo, tuttavia, vale per gli adulti, perché quando chiediamo a quel bambino quanto guadagni per trascorrere, a otto anni, le sue intere giornate lì, la sua risposta è «rien», niente. Ma niente è meglio della strada che altrimenti lo aspetterebbe. In questo modo ha almeno la possibilità di ottenere qualcosa da mangiare o qualche franco congolese per sopravvivere.
Lui, come molti bambini a Kinshasa, è figlio della strada: abbandonato dalla famiglia e cresciuto da solo, però non si è dato ai furti, come invece capita a molti altri. Questi minori si riconoscono facilmente: sono quelli che si aggrappano ai finestrini delle auto per chiedere denaro, quando si rimane bloccati per ore nel traffico della capitale. Uno di questi aveva un taglio profondo sul viso, così recente da sanguinare ancora, ma servono soldi per farsi curare in ospedale, quelli che stava cercando per strada.
La vita a Kinshasa
Forse è proprio «la strada» a essere il centro di tutto a Kinshasa: l’intera vita della maggior parte della popolazione si svolge lì, nelle vie non asfaltate, spesso invase da odori nauseanti, che però ospitano chiunque. È per strada che vive il commercio informale di cui si nutrono i kinois (abitanti di Kinshasa). Le donne – spesso chiamate mamas in lingala – al mattino danno vita a un vero e proprio mercato di strada. Sedute su teli di plastica e coperte con qualche foglia che fa da tetto di fortuna per ripararsi dal sole, vendono prodotti locali: banane, farina di mais, pane e, vicino ai corsi d’acqua, pesci, spesso ancora vivi, messi in ciotole di plastica. C’è poi chi svolge il suo commercio andando avanti e indietro con bottigliette d’acqua, altre bibite o cibo preparato da vendere a chi è bloccato nel traffico. Si aggiunge il via vai di chi trasporta taniche da riempire ai pozzi o direttamente ai corsi d’acqua, vista la mancanza di impianti idrici nelle case.
Chi vende mattoni, chi ripara motociclette, perfino chi taglia i capelli: la strada è di tutti. Regolare un flusso così corposo di persone risulta impossibile: le centinaia di poliziotti in circolazione non incutono timore alla popolazione: «Molti di quelli che vedi armati, in realtà hanno il Kalashnikov scarico. I soldi per le forze di sicurezza qui sono limitati e così gli stessi militari sono corrotti: spesso, quando fermano qualcuno per un’infrazione stradale, si fanno dare qualche franco congolese e non fanno la multa», ci spiega Gloire, la nostra guida in città.

La storia di Marten
Tuttavia, in questa metropoli così caotica c’è chi ha ritrovato la sua serenità: è la storia di Marten, trasferitosi a Kinshasa da
Lubumbashi, capoluogo della provincia sudorientale dell’Alto
Katanga, 2.257 km a Est. È questa la distanza che Marten ha posto tra sé e il suo passato. Lui, come molti in quella regione del Congo, è stato vittima dell’estrattivismo minerario: «Lavoravo nella miniera di Kimpe, una cava situata a 95 km da Lubumbashi, verso lo Zambia, precisamente a 35 km da Kasumbalese, una città sul confine.
Kimpe è una miniera artigianale dove i giovani si riuniscono in cerca di una vita migliore, perché nel nostro Paese trovare lavoro è difficile. Così ho preso coraggio e con mio cugino ho cominciato anch’io. All’inizio trasportavamo i materiali dalla montagna al villaggio; per un sacco di materiale venivamo pagati 20mila franchi congolesi (7,15 dollari). I sacchi però erano pesanti e per portarli dovevo dividerli: per esempio, trasportavo un sacco in due viaggi e quindi in tutta la giornata guadagnavo solo 20mila franchi».
Un lavoro duro, spiega Marten, ma migliore di quello successivo: «Dopo abbiamo iniziato a lavorare in quelli che da noi si chiamano “mungoti” o “bovu”, tunnel profondi scavati nel sottosuolo alla ricerca di rame. Lì la vita era ancora più difficile: i guadagni dipendevano dalla fortuna di trovare qualcosa scavando. Poteva passare anche un mese senza trovare nulla. Ecco perché molti si sono indebitati con i cinesi, che, oltre alle loro miniere industriali, guadagnano anche dalla filiera artigianale, prestando soldi ai minatori perché possano sopravvivere e, quindi, continuare a scavare».
A Marten quella vita non piaceva, ma non trovava la forza per andarsene, almeno fino quando a motivarlo non è stato il dolore di una perdita: «I rischi sono sempre stati elevati. Quando scavi sotto la terra può esserci un crollo e tu rimani sommerso. Non ci sono protezioni, nessuno verrà a tirarti fuori. Quando poi le miniere raggiungono livelli profondi si incontrano le falde acquifere, l’acqua stagnante e il lavoro in spazi ristretti consumano ossigeno fino a far diventare l’aria irrespirabile. È il motivo per cui solitamente si ricorrere a motopompe, ma se queste si fermano le persone sono condannate.
Mio cugino, Mateso Nyembo, è morto così. Era una sera, abbiamo mangiato, e lui alle quattro del mattino, mentre altri dormivano, ha deciso di rientrare nel tunnel. Abbiamo provato a salvarlo ma e stato impossibile».
Quello di Mateso non è un caso isolato: secondo Siddharth Kara, autore nel libro Rosso Cobalto, sono circa duemila i morti annuali tra i minatori artigianali, sebbene avere stime attendibili sia complesso vista l’illegalità del settore.

Nelle miniere del Katanga
Per capire meglio questa complessa realtà, da Kinshasa abbiamo preso un volo per Lubumbashi. Poi, per arrivare a Lwembo – piccola città situata in una regione chiave per l’estrazione di rame e cobalto – abbiamo percorso molti chilometri in auto. Qui le strade non asfaltate hanno un colore rossastro che crea contrasto con il verde della vegetazione, ed è poco più scuro delle capanne di paglia ai margini della strada. Se ne trovano molte lungo la via, spesso abbastanza distanziate tra loro, oppure a gruppetti di due o tre: non si tratta di veri e propri villaggi strutturati, ma di accampamenti informali.
La stessa città di Lwembo è interamente organizzata in funzione dell’estrattivismo minerario e spesso le capanne vengono costruite il più possibile vicino alle cave. Quasi tutti i minatori quotidianamente percorrono a piedi la strada per arrivare alle miniere. La sera se ne vedono molti ricoperti di polvere e di terra rientrare nelle loro abitazioni. Hanno picche e pale, gli unici attrezzi di cui sono in possesso per scavare, ma la maggior parte lavora a mani nude.
In questa zona ci sono anche le grandi miniere industriali, principalmente appannaggio di multinazionali cinesi. Circondate da alte mura e filo spinato, intravediamo i macchinari utilizzati per l’estrazione e i cumuli di terra e sassi. Sono molti i congolesi impiegati in queste miniere, presenti in svariate zone dell’Alto Katanga. Uno di questi è Daniel Masumbulo Nyembo che, per ragioni di sicurezza, chiede che non venga citato il nome della società per cui lavora: «Lavoro dieci ore al giorno, dalle otto e mezza alle cinque e mezza del pomeriggio, e ho uno stipendio di 600 dollari al mese». La paga è molto più alta rispetto a quella dei minatori artigianali, ma i pericoli sono comunque tanti: «Soprattutto durante le stagioni di pioggia – ci spiega -, il rischio di crolli è elevatissimo. Kasengo Didie, 29 anni, era un mio amico ed è morto schiacciato dalla terra. La cosa assurda è che le autorità statali, quando arrivano, vengono corrotte con denaro dal capo della società per insabbiare tutto».
L’assenza di diritti e tutele per questi minatori è una costante, oggi accresciuta da ciò che sta accadendo a Nord, in Kivu, con le milizie M23: «Abbiamo paura che i ribelli possano arrivare anche qui», dice Daniel.

Minaccia dal Kivu
Questo è difficile da prevedere; almeno negli intenti, l’M23 non sembra voler limitare le sue conquiste a Est: «Adesso stanno tendando di prendere Uvira (Sud Kivu) ma i congolesi non si arrenderanno. Probabilmente ci saranno combattimenti porta a porta, spargimenti di sangue. A difendere la città ci sono i Babembe, una tribù affiliata ai Mai-Mai, che cerca di resistere ai ribelli. Tuttavia, benché amino la patria, non sono molto rispettosi dei diritti umani e spesso le violenze si riversano sulla stessa popolazione. Se Uvira dovesse cadere, si aprirebbe la strada per un’avanzata in Alto Katanga», racconta Ursula Vitali (pseudonimo per proteggerne l’identità), che da anni risiede a Bukavu, nel Sud Kivu. Lei racconta anche della resilienza di una società civile che, seppure terrorizzata, non vuole piegarsi: «A Bukavu e Goma ci sono state alcune donne che sono andate direttamente a chiedere ai ribelli di liberare i propri figli o mariti che erano stati costretti ad arruolarsi. In alcuni casi le famiglie hanno dovuto pagare il riscatto per liberarli».
Dal Kivu arriva anche la testimonianza di un’altra donna, Stella Yanda, impiegata da diversi anni nell’ambito della tutela dei diritti umani: «Con l’arrivo dell’M23, ogni giorno assistiamo ad una drastica restrizione dello spazio democratico e della libertà di espressione. A causa della guerra che stiamo vivendo, il corpo delle donne è diventato un secondo campo di battaglia. Le violenze hanno gravemente danneggiato anche l’economia famigliare delle vittime, perché colpire la donna significa attaccare il pilastro della famiglia.
Anche io sono stata oggetto di minacce perché avevo partecipato a un rapporto per denunciare il saccheggio delle miniere da parte degli occupanti. Perché, del resto, sono le miniere il fulcro centrale di questo conflitto e della condanna a cui il Paese sembra essere soggetto. Basti pensare al ruolo giocato dal Rwanda che viene lasciato libero di depredare i minerali di uno Stato sovrano».
In Repubblica democratica del Congo la quantità immensa di risorse – tanto da essere definita «scandalo geologico» – non solo non arricchisce la popolazione, ma la rende schiava di potenze straniere.
Sara Cecchetti*
Laureata in filosofia alla Normale di Pisa, ha come interesse geopolitico il continente africano.
Ha realizzato diversi reportage sulla Rd Congo. Scrive per «Atlante delle guerre» e collabora con diverse altre testate.















