Colombia: salviamo il bioma amazzonico e tutta la sua diversità


La «Minga» amazonica trifronteriza

La situazione

Il Vicariato Apostolico di Puerto Leuguizamo Solano, nella Colombia Sud orientale, si estende su una vasta regione con caratteristiche particolari: il suo territorio infatti è distribuito tra tre dipartimenti, Caquetá, Putumayo e Amazonas, e sta a ridosso delle frontiere con Perù ed Ecuador. In esso avviene il 2,5% delle relazioni commerciali, sociali, culturali e politiche tra i tre paesi latinoamericani. Infine si trova al centro del 6% dell’Amazzonia colombiana.

Queste caratteristiche rendono il Vicariato un luogo di particolare interesse per il mondo intero, non solo perché in esso si incontrano diversi popoli, ciascuno con la propria visione ancestrale del mondo, ma soprattutto perché è il cuore di una grande biodiversità, ricchezza di acqua e di potenziale energia. Allo stesso tempo il suo territorio, compreso tra i fiumi Caquetá, Putumayo e loro affluenti, è segnato da una grande vulnerabilità, perché isolato e generalmente trascurato dallo stato. Il fatto che le uniche vie di comunicazione tra la zona del Vicariato e il resto del paese siano fluviale o aerea, comporta diversi problemi: l’alto costo della vita famigliare, lo spostamento di molti in altre regioni, il non soddisfacimento dei bisogni di base della popolazione, come l’alloggio, l’istruzione, la sanità, l’occupazione, e la presenza di gruppi armati che si spostano liberamente tra i dipartimenti e, in certi momenti, tra Perù, Colombia ed Ecuador.

Ad aggravare la situazione concorre anche l’attività di estrazione, sfruttamento e traffico delle risorse naturali. L’estrazione del caucciù all’inizio del XX secolo, per esempio, ha prodotto gravi danni ambientali e socioculturali, come la schiavitù a cui è stata sottoposta la popolazione indigena della zona e addirittura l’estinzione di vari gruppi etnici.

La proposta: «Minga», lavoriamo insieme

In questo contesto, gli incaricati della pastorale sociale, educativa e indigena del Vicariato hanno organizzato un incontro di studio e lavoro a inizio novembre allo scopo di incrementare l’impegno per il territorio e di renderlo maggiormente visibile, di promuovere una riflessione che permetta agli operatori pastorali di appropriarsi del contesto sentendosi parte di un popolo multietnico e di crescere nella capacità di custodire la Casa comune, senza sempre aspettare iniziative o proposte che vengano da fuori. L’incontro si chiama «Minga», un termine indigeno che indica il lavoro fatto insieme per il bene comune. Da questo incontro è uscito il seguente documento programmatico.

Partecipantes a la Minga


Il Manifesto

Alla popolazione e a tutti coloro che servono l’Amazzonia e amano questa causa.

Convocati dal Vicariato Apostolico di Puerto Leguízamo – Solano, nel contesto della celebrazione del suo quinto anniversario, nei giorni 6-7-8 novembre 2017, i Vescovi e rappresentati delle equipe pastorali di Florencia, San Vicente del Caguán, Puerto Leguízamo – Solano (Colombia), San José del Amazonas (Perú) y San Miguel de Sucumbíos (Ecuador) insieme agli indigeni, contadini e alle istituzioni pubbliche e private per riflettere sulle opportunità e le sfide dell’Amazzonia nella tripla frontiera di Colombia/Ecuador e Perù.

Obispos partecipantes – I vescovi delle cinque circoscrizioni ecclesiastiche durante la Minga.

Come comunità di fede che offre il suo servizio nell’evangelizzazione dei popoli amazzonici, prendendosi cura della causa comune

Costatiamo:

  • Il forte impegno delle organizzazioni comunitarie per preservare, conservare e curare la vocazione di questo bioma amazzonico come regolatore del climatico mondiale
  • La crescente coscienza della responsabilità ambientale e sociale che ha portato alla conformazione di iniziative di grande impatto come la Rete ecclesiale pan-amazzonia (Repam)
  • L’assenza di politiche pubbliche a livello locale, regionale, nazionale e internazionale dirette alla cura, preservazione e conservazione dell’Amazzonia.
  • L’esistenza di progetti economici disarticolati, come lo sfruttamento petroliero, minerario, boschivo, le monoculture, l’allevamento estensivo e la pesca eccessiva, senza uno sguardo ecologico-ambientale e privi di responsabilità verso la preservazione della selva a medio e lungo termine.
  • La forte minaccia che mina la stabilità del sistema ecologico ambientale della nostra Amazzonia dovuta ad una deforestazione indiscriminata.
  • La contaminazione dei grandi fiumi e suoi affluenti che vengono convertiti in depositi di scarichi solidi, chimici e residuali, minacciando seriamente e irreversibilmente tutti gli organismi viventi.
  • L’impatto nocivo di agenti esterni sulla sopravvivenza e identità culturale delle comunità autoctone.
  • Il narcotraffico e le miniere illegali (che) diventano una fonte permanente di degrado e distruzione dell’ambiente e delle relazioni familiari e comunitarie.
  • La presenza insufficiente dello stato nei luoghi più isolati dell’Amazzonia che garantirebbe alla popolazione i suoi diritti fondamentali alla vita, educazione, salute e sicurezza.

Facciamo appello a

  • Le autorità nazionali e internazionali,
    1. affinché garantiscano la cura e la protezione del bioma amazzonico e tutta la sua diversità; i diritti dell’Amazzonia devono essere tutelati e garantiti da ogni singolo paese e dal sistema globale;
    2. garantiscano che vengano consultati anticipatamente popoli indigeni in qualsiasi progetto che si pretenda sviluppare, soprattutto quelli di carattere estrattivo o le opere civili, proteggendo i popoli, i loro usi e costumi.
  • Le autorità locali, affinché i loro piani di sviluppo abbiano uno sguardo veramente amazzonico, stabilendo alleanze che rafforzino le organizzazioni presenti nel territorio.
  • Le organizzazioni indigene, contadine, urbane e di afro-discendenti, affinché cerchino consensi e impegni effettivi che generino condizioni per una vita degna, giusta e rispettosa dell’ambiente.
  • Tutta la comunità,
    1. affinché si educhi ad un uso adeguato dei residui solidi contaminanti per diminuire l’impatto ambientale negativo.
    2. (si impegni) a sostituire l’uso dei pesticidi e di altri chimici agrari con pratiche agro-ecologiche che non colpiscano la flora e la fauna del territorio amazzonico
  • Il mondo accademico, perché si coinvolga con decisione nei processi di ricerca scientifica, formazione e divulgazione della nostra realtà amazzonica per il beneficio di tutti.
  • Gli agenti di pastorale, affinché assumano una voce più profetica e decisa nella difesa della pan-amazzonia.

Ci impegniamo a:

  • Sintonizzarci con la proposta del Sinodo per l’Amazzonia convocata dal Papa Francesco per il 2019, partecipando attivamente nella sua preparazione, realizzazione e implementazione.
  • Assumere, come discepoli missionari, uno stile di vita che metta in pratica la cura e la protezione della causa comune nelle nostre azioni quotidiane.
  • Integrare nei piani pastorali un’azione evangelizzatrice che promuove la cura della vita in tutte le sue manifestazioni, ispirati dalla teologia della creazione.
  • Stabilire in ogni chiesa locale un vincolo più stretto con la Repam
  • Accompagnare le Comunità nella costruzione ed esecuzione di progetti produttivi sostenibili e confacenti all’ambiente amazzonico circostante.
  • Dare vita ad azioni che si oppongano a tutto ciò che va contro la vita in Amazzonia.

Puerto Leguizamo, 8 novembre 2017

Arbol signo de la Amazonia – L’albero simbolo dell’Amazzonia




Cari Missionari,

scambio di lettere e email

Agli amici di Neisu

Un caro saluto dal Congo. Vi spero bene in buona salute e sereni! […] È solo la forza che ci viene dallo Spirito Santo che ci spinge ad annunciare la Buona Novella di Gesù sapendo superare le diverse difficoltà che incontriamo nel nostro essere missionari nel Congo.

Repubblica Democratica del Congo: un grande e ricco paese, gente molto accogliente, allegra, ricca di fede e di sacrifici che continua a credere in un futuro più giusto e fraterno anche se il domani appare ancora incerto e insicuro… Le famose elezioni che dovevano realizzarsi l’anno scorso, poi quest’anno, saranno ancora rimandate al 2018 sperando che questo non provochi altri disordini, saccheggi, rivolte… la nostra gente è stanca.

Qui a Neisu c’è calma ma nello stesso territorio della diocesi le cose non sono tranquille, soprattutto i ribelli ugandesi Lra (Lord Resistance Army di Josef Koni) continuano devastazioni, saccheggi, uccisioni, …in altre regioni interi villaggi abbandonati, migliaia di persone in fuga. Fino a quando?

Arrivato in Congo nel 1991, non mi ricordo un anno tranquillo di pace su tutto il territorio di questa nostra nazione. Abbandonare il Congo, andare in un altro paese più tranquillo, ritornare a casa… pensieri che a volte arrivano alla testa ma non al cuore e allora, malgrado tutto, si continua, rinnovando il mio sì al Signore, che amandomi mi ha chiamato a vivere qui. La missione, lo sappiamo, non è mia ma sua! Il Vangelo è magnifico!

Continuate a essere missionari là dove il Signore vi ha chiamato e con tutta la Chiesa, in particolare con i missionari e le missionarie che amate, stimate, aiutate e per loro pregate tanto.

Da parte mia vi assicuro la mia preghiera, il mio grazie, il mio affetto. Con la Madonna continuiamo ad annunciare Gesù suo Figlio e nostro Salvatore. Un abbraccio fraterno,

padre Rinaldo Do
Neisu, 03/10/2017

Trovare Neisu su una cartina geografica è molto difficile. Se provate con Google Earth o Map, non cercate Neisu, ma «Egbita», che è il nome del posto ai tempi coloniali. Lì c’era una piccola stazione della ferrovia a scartamento ridotto che arrivava fino a Isiro. L’ospedale si trova nel punto di incontro tra la curva del tracciato ferroviario e la strada che viene da Est. È riconoscibile per il profilo della torre dell’acquedotto e il grande edificio quadrato. Sulla cartina osservate la devastazione della foresta causata dallo sfruttamento illegale del legname e dalle miniere di coltan e altri minerali strategici.

Ho visitato il posto nel 1983, tanti anni fa, quando ancora era vivo padre Oscar Goapper e a Neisu c’era solo un dispensario vicino alla chiesa in costruzione. Allora era tutta foresta fittissima. Oggi alla devastazione dell’ambiente corrisponde il dramma di un popolo che vive da tanti anni nella precarietà e nell’insicurezza. Sono molti nel mondo i missionari come padre Rinaldo che condividono la sofferenza del popolo affidato loro.

Preghiera e Messaggi

Caro Direttore,
sto leggendo un libro di Saverio Gaeta: «Il veggente». Parla di Bruno Cornacchiola, devo spiegarle chi è? No vero, lo sa chi è (*). Ha trascritto un messaggio della Madonna datato, non è ben specificato, sembra il 9 gennaio 1986. «Vi dico che è realmente così: la vostra situazione è drammatica, è deleteria per le anime! Seguite la Chiesa di mio Figlio, perché essa non perderà mai la forza della verità, della salvezza, anche se gli uomini cercano di demolirla e indebolirla della sua forza divina: non riusciranno, i caparbi!».

E ancora: «Figli, ascoltate la Chiesa, autorità visibile, e con umile ubbidienza servitela nella verità! Contro di essa, Satana non può far nulla, perché è divina, ma contro le anime che vivono in essa può molto: anzi, presenterà il male sotto la veste morale, religiosa, politica e sociale! Verranno colpite le famiglie, specialmente trascinandole nell’indifferentismo e nell’incredulità, oppure a una forma esagerata di pietà devozionale rasentante l’idolatria! Questo è il male dei tempi in cui voi vivete, figli miei cari al nostro Cuore! È il male dilagante di ogni male nel tempo passato riunito nel tempo presente sotto ogni forma! Voi avete la terribile responsabilità di scegliere: o Dio o il mondo con tutte le sue mire ingannatrici!».

Una frase che ho sottolineato (evidenziata in corsivo, ndr) mi ha colpito. Conosco fratelli e sorelle che organizzano gruppi di preghiera dove si recitano rosario, coroncina, invocazioni a san Michele, a san Giuseppe, a santa Rita e altri santi. Chi partecipa anche più volte al giorno alla santa messa, digiuna, fa adorazione anche notturna. Tutto questo sarebbe «idolatria»? Perché non sta in famiglia, critica sovente il papa per le sue battute, si lamenta dei suoi familiari che non capiscono l’urgenza del momento – la battaglia finale – o solo perché manca l’atto d’amore? «Gesù ti amo!». Cordialmente saluto.

Emanuela Rossetto
08/06/2017

Abbiamo passato la lettera a don Paolo Farinella, ecco qui la sua risposta.

Gentile Emanuela,
lei porta un «nome» che è la sintesi di tutto e anche la risposta alla sua lettera: «Emanuela – Immànuel/Dio-con-noi» non nel senso blasfemo di Hitler (**), ma nel senso che egli è «con – tra – fra – dentro – in mezzo a noi».

Una delle parole più forti del Vangelo è: «Non abbiate paura». San Giovanni ci garantisce che «Io ho vinto il mondo». Se abbiamo più fede nel maligno che può distruggere le anime piuttosto che in Dio, il quale «vuole che nulla vada perduto», penso che abbiamo perso già in partenza. Mi dispiace deluderla, io non mi occupo di apparizioni, la mia vita è presa, vissuta e consumata dalla Parola di Dio «sulla» quale cerco di stare fermo, ma vivente, immerso e abbandonato.

Non capisco queste apparizioni di Madonne che dicono sempre la stessa cosa, ormai da secoli solo per la soddisfazione di chi dice di avere avuto messaggi personali. Sto con la Chiesa che non mi obbliga a credere ad esse, nemmeno a quelle riconosciute come Fatima o Lourdes. Infatti un cattolico che affermasse: «Io non credo alle apparizioni della Madonna di Fatima o di Lourdes» non è meno cattolico di chi afferma di credervi.

Io penso che il ricorso continuo alle apparizioni nasca dalla poca frequentazione che si ha con la Bibbia, la Parola che fu «dal principio». Non basta una vita per assaporarla. Perché perdere tempo dietro ad aspetti secondari, per altro comuni a tutte le religioni (fatto che dovrebbe fare riflettere), e sottrarlo così al «mangiare il rotolo» per gustarne la dolcezza? (cf Ez 1).

Sono molto occupato a cercare di credere in Gesù Cristo, Dio incarnato, che non mi resta proprio tempo per preoccuparmi di chi è questo o quello. Non ho la pretesa di insegnare nulla, esprimo solo una via, un’esperienza, fondata sulla Parola di Dio e sulla mia serietà che è garantita dal mio totale disinteresse, sotto qualsiasi aspetto.

Lei sa che la Chiesa del secolo I-II scelse i nostri quattro vangeli tra il centinaio di apocrifi, per una sola ragione: erano e sono gli unici nei quali non vi è abbondanza di soprannaturale, mentre gli apocrifi abbondano di apparizioni, miracoli, straordinario. Ecco il criterio: la sobrietà.

Avere paura che il demonio possa avere il sopravvento significa non avere fede in Cristo risorto. A noi non è dato salvare il mondo, ma testimoniare Dio, Padre d’amore, che ci ama e non ci abbandona mai. Il resto, tutto il resto, anche le apparizioni, sì, possono venire dal maligno. «Preoccupatevi prima del Regno di Dio, il resto verrà da sé come un regalo» (cfr. Mt 6,33). Un caro saluto.

Paolo Farinella, prete

(*) Bruno Cornacchiola (1913-2001) di Roma, dal 1947 avrebbe avuto delle rivelazioni dalla «Vergine della Rivelazione» presso le Tre Fontane. È in corso la causa della sua beatificazione.

(**) Gott mit uns (in italiano: Dio con noi) era in origine il motto dell’Ordine Teutonico. Dopo la caduta dello stato dei Cavalieri Teutonici, divenne il motto dei re di Prussia, fino a divenire motto degli Imperatori tedeschi (da Wikipedia) e quindi dei loro soldati. Era il motto inciso nelle fibbie delle cinture dei soldati tedeschi e quindi anche di quelli nazisti.

Grazie

Ciao padre Gigi,
grazie per la fotostoria del XIII capitolo generale, non solo per le foto (belle e con opportuna didascalia) ma per la chiara e succinta informazione su ogni continente con statistiche problemi e proposte. Il tutto presentato in un clima di serenità e speranza, notando la novità e la continuità nella vita del nostro istituto. Che il Signore ci aiuti a portare nella nostra vita personale e comunitaria le «convergenze importanti».

Molto bello l’articolo sull’Isola «bella» col parroco africano. Anche questo rileva le novità. Opportuno anche il dossier sulla Corea del Nord. Grazie.

padre Mario Barbero
03/10/2017

Ciao

Preg.mo direttore, ciao.
A proposito dell’editoriale che lei ha definito poco originale e che invece è un autentico capolavoro di ricerca su un termine quanto mai originale e sale che da sapore a tutte le minestre (cfr. MC 8/9, 2017 pag. 3). Compiacimenti non solo per l’editoriale ma per tutta la rivista, con ricchi articoli di informazione e cultura tra cui la foto storia dal XIII Capitolo Generale, tanto necessaria per essere informati sul cuore pulsante della Missione Consolata.

Ho avuto occasione di leggerlo con interesse e tempo a disposizione perché costretto per un incidente a stare in casa. Non tutti i mali vengono per nuocere, in questo caso per apprezzare la vostra rivista. Esorto i lettori frettolosi che, come me un tempo, si riducono a una scorsa veloce, ad approfondire per apprezzarla.

Don Pietro Cioffi
27/09/2017

Parchi e uomini

Cari missionari,
credo abbiano ragione gli amici di Survival International quando, nel dossier pubblicato nel n.8/9 di MC, condannano un certo ambientalismo ipocrita e invitano a riflettere sul fatto che, in non pochi casi, proprio coloro che hanno ricevuto il compito di vigilare sull’integrità degli ecosistemi sono gli autori/complici degli abusi più gravi.

La denuncia di Survival mi ha fatto tornare in mente un libro letto una ventina d’anni fa, intitolato «Fight for the tiger» edito da Headline. Il suo autore, l’inglese Michael Day, raccontava le settimane trascorse nel Parco Nazionale di Khao Sok, nel Sud della Thailandia, e denunciava senza peli sulla lingua la cattiva gestione di quel parco, accusando i pezzi grossi, locali e nazionali, di essere responsabili della decimazione delle tigri nell’area, ben più di quanto fosse la gente del posto (***).

Ha ragione chi dice che gli uomini vengono prima dei parchi e che l’ambientalismo non può diventare il giustiziere delle popolazioni indigene. Ha ragione però anche chi ricorda che le accuse e le denunce devono essere il più possibile precise e circostanziate. Non si può far di tutta l’erba un fascio.

A me la dizione «Parchi Nazionali» non dispiace affatto. Dipendesse da me, ne istituirei anche degli altri, specialmente nei paesi dove vivono minoranze tribali, inserendoli nel programma Unesco «L’Uomo e la Biosfera» (****).

A fare la differenza non sono le etichette giuste ma le persone giuste. Tutti noi siamo chiamati a diventare giusti, non solo chi indossa una divisa o chi ha un certo titolo di studio e ha ricevuto una certa nomina.

Se un parco, o riserva, peggiora la sua condizione, è per colpa dei crimini di pochi, ma anche dell’indifferenza di molti. Se invece un parco migliora la sua condizione e anche le minoranze etniche che vivono all’interno di quel parco stanno meglio, è perché quell’indifferenza è stata combattuta, rintuzzata, superata, e anche coloro che prima abusavano, si sono ravveduti e hanno iniziato un nuovo percorso, una nuova carriera, una nuova vita. Una vita più gratificante, perché coltivare, custodire e conservare, anche sotto il profilo estetico, è meglio che abusare, depredare e distruggere. Cordialmente

Carlo Erminio Pace
08/09/2017

(***) Michael Day, Fight For The Tiger: One Man’s Fight To Save The Wild Tiger From Extinction, Trafalgar Square Publishing, Londra 1995.

(****) «Il Programma sull’uomo e la biosfera (o Programma Mab per l’uomo e la biosfera) è uno dei cinque programmi dell’Unesco nel quadro delle scienze esatte e naturali. […] Questo programma, iniziato nel 1968 e formalmente istituito nel 1971, mira a creare una base scientifica per migliorare i rapporti uomo-natura a livello globale» (Wikipedia).

A commento di quanto scritto dal signor Pace, riporto qui quanto ha detto papa Francesco il 7/09 scorso a Bogotà ai vescovi della Colombia.

«E prima di concludere un pensiero vorrei rivolgere alle sfide della Chiesa in Amazzonia, regione della quale siete giustamente orgogliosi, perché è parte essenziale della meravigliosa biodiversità di questo paese. L’Amazzonia è per tutti noi una prova decisiva per verificare se la nostra società, quasi sempre ridotta al materialismo e al pragmatismo, è in grado di custodire ciò che ha ricevuto gratuitamente, non per saccheggiarlo, ma per renderlo fecondo. Penso soprattutto all’arcana sapienza dei popoli indigeni dell’Amazzonia e mi domando se siamo ancora capaci di imparare da essi la sacralità della vita, il rispetto per la natura, la consapevolezza che la ragione strumentale non è sufficiente per colmare la vita dell’uomo e rispondere alla ricerca profonda che lo interpella.

Per questo vi invito a non abbandonare a sé stessa la Chiesa in Amazzonia. Il rafforzamento, il consolidamento di un volto amazzonico per la Chiesa che qui è pellegrina è una sfida di tutti voi, che dipende dal crescente e consapevole appoggio missionario di tutte le diocesi colombiane e di tutto il suo clero. Ho ascoltato che in alcune lingue native amazzoniche per riferirsi alla parola “amico” si usa l’espressione “l’altro mio braccio”. Siate pertanto l’altro braccio dell’Amazzonia. La Colombia non la può amputare senza essere mutilata nel suo volto e nella sua anima».

«Minga» Amazonica Trifronteriza

La situazione

Il Vicariato Apostolico di Puerto Leuguizamo Solano, nella Colombia Sud orientale, si estende su una vasta regione con caratteristiche particolari: il suo territorio infatti è distribuito tra tre dipartimenti, Caquetá, Putumayo e Amazonas, e sta a ridosso delle frontiere con Perù ed Ecuador. In esso avviene il 2,5% delle relazioni commerciali, sociali, culturali e politiche tra i tre paesi latinoamericani. Infine si trova al centro del 6% dell’Amazzonia colombiana.

Queste caratteristiche rendono il Vicariato un luogo di particolare interesse per il mondo intero, non solo perché in esso si incontrano diversi popoli, ciascuno con la propria visione ancestrale del mondo, ma soprattutto perché è il cuore di una grande biodiversità, ricchezza di acqua e di potenziale energia. Allo stesso tempo il suo territorio, compreso tra i fiumi Caquetá, Putumayo e loro affluenti, è segnato da una grande vulnerabilità, perché isolato e generalmente trascurato dallo stato. Il fatto che le uniche vie di comunicazione tra la zona del Vicariato e il resto del paese siano fluviale o aerea, comporta diversi problemi: l’alto costo della vita famigliare, lo spostamento di molti in altre regioni, il non soddisfacimento dei bisogni di base della popolazione, come l’alloggio, l’istruzione, la sanità, l’occupazione, e la presenza di gruppi armati che si spostano liberamente tra i dipartimenti e, in certi momenti, tra Perù, Colombia ed Ecuador.

Ad aggravare la situazione concorre anche l’attività di estrazione, sfruttamento e traffico delle risorse naturali. L’estrazione del caucciù all’inizio del XX secolo, per esempio, ha prodotto gravi danni ambientali e socioculturali, come la schiavitù a cui è stata sottoposta la popolazione indigena della zona e addirittura l’estinzione di vari gruppi etnici.

La proposta: «Minga», lavoriamo insieme

In questo contesto, gli incaricati della pastorale sociale, educativa e indigena del Vicariato hanno organizzato un incontro di studio e lavoro a inizio novembre allo scopo di incrementare l’impegno per il territorio e di renderlo maggiormente visibile, di promuovere una riflessione che permetta agli operatori pastorali di appropriarsi del contesto sentendosi parte di un popolo multietnico e di crescere nella capacità di custodire la Casa comune, senza sempre aspettare iniziative o proposte che vengano da fuori. L’incontro si chiama «Minga», un termine indigeno che indica il lavoro fatto insieme per il bene comune.

 




Colombia: Giardini pensili


Alla scoperta delle bellezze di una natura ancora incontaminata e sempre capace di sorprendere, nello scenario dei grandi fiumi che dalle Ande colombiane scendono a confluire nel grande Rio delle Amazzoni.

Ricevo un’offerta che non posso rifiutare. «Andiamo in Colombia?». Ma dai! Quasi non ci credo. Subito penso che padre Angelo (Dutto) mi stia prendendo in giro perché conosce i miei interessi per lo studio degli insetti e la mia passione per le foreste tropicali. Ma il tono è serio e poi so che lui da sempre ci tiene a conoscere quella fetta di Sudamerica dopo quarant’anni passati in Africa orientale. Anzi, per la verità il Sudamerica era stata la sua prima scelta quando gli avevano domandato dove avesse voluto andare dopo l’ordinazione.

«D’accordo, ma purché si vada in Amazzonia», rispondo io. È la parte più «selvaggia» di quelle terre, ancora ricca di foreste percorse dai grandi corsi d’acqua che alimentano il re dei fiumi: il Rio delle Amazzoni.

Conosco padre Angelo da almeno una trentina di anni, da quando, missionario in Tanzania, sugli altopiani amati da Livingstone e da Hemingway, mi ospitava e prendeva parte attiva alle mie ricerche di entomologia. Ora è tornato a Torino ed è uno dei responsabili del Museo etnografico e di scienze naturali dei missionari della Consolata.

Trovato il volo che fa per noi, ci dividiamo la logistica: a me la parte tecnica, a lui il contatto con i colleghi missionari di quei luoghi. Come meta si sceglie Puerto Leguìzamo, cittadina ai confini col Perù posta sul fiume Putumayo, raggiungibile solo con piroga o con piccoli aerei. Saremo accolti nella casa del vescovo e qui troveremo, grazie all’appoggio di colleghi naturalisti, un aiuto insperato nella persona di un’ornitologa locale di nome Flor, una rarità per quelle latitudini.

A Bogotá arriviamo ai primi di ottobre, ospiti della casa regionale dei missionari nel quartiere di Modelia. I 2.600 metri di altitudine si fanno sentire con una leggera emicrania che però passa presto. Il tempo di prendere fiato e già siamo di nuovo in volo per Florencia, una cittadina ai piedi delle Ande. È una soluzione di ripiego: i voli diretti per Puerto Leguìzamo sono al momento indisponibili e questa è la sola possibilità; da qui con un secondo volo potremo raggiungere l’Amazzonia. Come sempre siamo accolti a braccia aperte. Sorvolate le Ande ci troviamo a fare i primi incontri con la natura lussureggiante dei tropici.

Non è vero che i giardini pensili li hanno inventati i babilonesi. Sono creazioni degli alberi. Questi giganti che trovi nelle foreste sudamericane ospitano una quantità tale di epifite che non finiscono mai di stupirci: dagli umili muschi, ai licheni, alle felci, ai cactus, a decine di bromelie per giungere a orchidee dalle forme e dai colori che solo l’illimitata fantasia della natura può creare. Ogni albero è una serra che ospita decine di specie vegetali in continua eterna competizione, lottando per sfruttare le posizioni migliori di luce, umidità e temperatura. Ogni centimetro di corteccia è un piccolo mondo adatto a essere colonizzato dal più forte o da quello che meglio si sa adattare alle peculiari condizioni microclimatiche. Ogni specie ha il suo spazio preferenziale adatto alle proprie esigenze e grazie al quale riesce a prendere il sopravvento sulle specie rivali. A una osservazione superficiale sembra una disposizione caotica e disordinata, ma in realtà nulla è lasciato al caso, come una rigorosa scacchiera.

Sul fiume Putumayo. «Vedi Napoli e poi muori», recita un detto. Bisognerebbe dire «vedi i fiumi del bacino amazzonico e poi muori». Almeno per i naturalisti come noi. La grandiosità dello spettacolo che offrono è da mozzafiato. Viaggiare ore su una piroga con la foresta che fa da muro e a volte da tetto, fra stormi di pappagalli multicolori e chiassosi, tucani dai becchi enormi, farfalle dai colori impossibili, scorgendo la sagoma di qualche scimmia, su acque perennemente limacciose da cui puoi aspettarti di vedere emergere per pochi istanti la sagoma di un delfino rosa, è bellissimo. Dalla riva, dove si scorgono piccoli nuclei di capanne o isolate palafitte, pescatori ti guardano passare indifferenti, concentrati a lanciare le reti a sparviero con cui traggono a riva pesci dalle forme e dalle livree impensabili.

Sono le quattro del pomeriggio e il sole comincia a rifiatare dandomi un po’ di tregua. Il fiume è immobile. Calma piatta. Nemmeno gli uccelli si fanno sentire. La lenza penzola inerte dalla canoa. Se continua così stasera a cena si tira la cinghia. All’improvviso uno sciacquio: un branco di pesci schizza fuori dall’acqua. Sembrano impazziti. Pochi istanti e ne capisco la ragione: le inia sono in caccia! Eccoli finalmente i delfini rosa delle Amazzoni! Cominciavo a pensare di non poterli osservare. Sono almeno quattro, usano la stessa tattica delle balene con le sardine e con manovre circolari spingono i pesci a formare un branco nel quale entrare poi a turno per fare man bassa. Sono tranquilli. La calma della sera mi ha favorito. Ogni tanto emergono per respirare e Angelo ha la possibilità di scattare qualche difficile foto. Non li vedo saltare come i fratelli del mare, ma scivolano invisibili sotto la superficie, favoriti dalle acque perennemente torbide.

Uno strattone secco alla lenza. Ha abboccato finalmente. Emerge dall’acqua fangosa un figuro dai bargigli lunghissimi, un pesce gatto armato di spine pettorali e dorsali taglienti come rasoi. So che devo stare attento a slamarlo per non ferirmi. Inutile: come lo sfioro mi frega. Lo adagio sul fondo della canoa e non credo alle mie orecchie: parla! Emette suoni gutturali, una sorta di singhiozzo ripetuto forte e ben udibile. A vedere il mio stupore Flor si mette a ridere: «Los peces de aca, hablan, bailan y toman», «i nostri pesci parlano, ballano e bevono». Vengo così a sapere che questa non è un’eccezione, che l’enorme variegato siete-babas fa altrettanto. Giuro che non userò mai più l’espressione «muto come un pesce».

Oggi ho tempo, ho finito con gli insetti e mi viene di tentare i piraña. Il ragazzo della finca (fattoria) mi indica l’ansa giusta dove posso trovarli, mi procuro un pugno di carne e getto l’amo. Non devo attendere molto. Uno strattone e recupero il filo. Strano. È pesante, si sente che c’è qualcosa attaccato, ma si lascia trascinare inerte. Stai a vedere che ho pescato il classico scarpone. Con mia grande sorpresa emerge invece un granchio rosso. È enorme, trattiene nella chela più grande il mio pezzo di carne e pare non abbia alcuna intenzione di mollarlo. Anzi pare voglia sfidarmi ruotando la seconda chela. Cerco di convincerlo con le buone a mollare la presa e alla fine cede. Non sarà l’unico, praticamente non mi lasceranno portare a casa la cena: all’esca arrivano prima loro dei voraci piraña.

È tardi, mi rendo conto che tra meno di mezz’ora sarà buio e viaggiare sul fiume a notte fonda non è prudente. I grossi tronchi galleggianti trascinati dalla corrente possono sfondare una piccola imbarcazione come la nostra. Ma c’è troppo da fare e da vedere e da imparare. Quando il marito di Flor accende il motore della piroga la notte ci ha già sorpresi. Strano però, anche col buio siamo circondati da decine di uccelli in volo. No, non sono uccelli ma pipistrelli! Cacciano a fior d’acqua, agilissimi e silenziosi, con un volo vellutato. Sono di medie dimensioni, e la loro taglia mi fa pensare che la loro dieta non sia solo a base di insetti, ma anche di piccoli pesci e questa spiega la loro massiccia presenza sul fiume.

Certe cose si avvertono subito a pelle. È un tipo squinternato padre José Fernando (Florez Arias di Puerto Leguízamo), ma quando lo vedo arrivare di corsa in maglietta sudata, sporca quasi quanto la mia, stivaloni infangati, barba trascurata mi è subito simpatico. Capelli lunghi, occhi neri e penetranti, fisico atletico, avrà sì e no quarant’anni. Non fa complimenti ma col suo atteggiamento ti fa sentire subito a tuo agio. È un missionario da avamposti persi nella foresta, uno con gli attributi insomma. Sta preparando le provviste per ritornare alla comunità in cui vive, a un paio di ore di piroga a motore, sulla sponda opposta del fiume Putumayo, in Perù. In questi posti la frontiera esiste solo sulle mappe e la gente passa il confine senza problemi. Ci propone di andare con lui e ovviamente accettiamo. Il posto per un naturalista come me è incantevole, c’è la foresta a un tiro di schioppo, ma non è certo l’ideale per chi ama le comodità. Vive in due stanzette di pochi metri quadrati con l’indispensabile per sopravvivere: un letto con zanzariera, un fornello per cucinare e far bollire l’acqua da bere, una biblioteca tascabile, un lavabo, un servizio igienico. L’unica cosa grande è la chiesa, quella sì, in grado di accogliere una quarantina di fedeli: nessun banco ovviamente, solo sedie. Ma qui si trasforma, sembra un’altra persona e assume un carisma insospettato che catalizza il rispetto dei fedeli presenti. Inutile aggiungere che la messa domenicale diventerà una celebrazione commovente. Solo chi le ha vissute può comprenderne l’intensità emotiva.

Gianfranco Curletti*
* Curatore entomologico del Museo di Carmagnola (Torino).

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I due viaggiatori ringraziano il vescovo del vicariato di San Vicente del Caguán, mons. Francisco Múnera, e quello del vicariato di Puerto Leguízamo, mons. Joaquín Pinzón, nonché tutti i padri che ci hanno aiutati nella ricerca entomologica, in particolare Rino Delaidotti a Solano. Per curiosità, la spedizione ha portato alla scoperta di nuove specie di insetti che saranno oggetto di pubblicazioni scientifiche. Ma questa è un’altra storia.

 




Una storia troppo sporca


«Gli abitanti si atteggiano a vittime per ottenere risarcimenti». «Gli ambientalisti esagerano sempre e ostacolano il progresso». Anche in Ecuador è normale sentire giudizi di questo tenore. Siamo andati a vedere e toccare con mano cosa ha lasciato nell’Amazzonia ecuadoriana la multinazionale petrolifera Chevron-Texaco. Il disastro – ambientale, umano, culturale – è pesantissimo e certificato dai tribunali. Eppure, a distanza di 6 anni dalla condanna, la compagnia statunitense nega qualsiasi risarcimento. A dispetto di quest’arroganza e impunità, le vittime, riunite in un’associazione, non si arrendono.

Nueva Loja (Lago Agrio) – Ci mostra le carte. Soltanto in queste stanze sono archiviate – in bell’ordine – centinaia di buste gialle contenenti documenti processuali di ogni tipo. Mentre prende dagli scaffali una busta qualsiasi, ci spiega: «Conserviamo più di 250.000 fogli». La apre: «Anno 2003, Corte Superior de Justicia de Nueva Loja, contra Chevron Corporation», si legge sul frontespizio della prima pagina.

Siamo con Donald Moncayo nella sede di Udapt, Unión de afectados y afectadas por las operaciones petroleras de Texaco, l’organizzazione nata a Nueva Loja nel 2001 per riunire tutte le vittime – sia indigeni che coloni – della compagnia petrolifera statunitense.

Come accaduto a Coca, anche qui ci viene proposto di andare a vedere e toccare con mano i danni prodotti dall’attività petrolifera1. Con la nostra guida lasciamo dunque la sede di Udapt per andare al pozzo denominato Lago 8 e perforato nel 1968, poco fuori della città.

Prove contundenti

Per ridurre al minimo i costi, la Texaco aveva scelto di costruire le vasche di contenimento per l’acqua di produzione (altamente contaminata) nel terreno e a cielo aperto.

«E soprattutto – spiega Donald – esse erano poste molto vicine a fiumi o a esteros (zone paludose). In questo modo, tutti i reflui delle estrazioni andavano in queste piscine e da qui, attraverso tubi, venivano dispersi nei corsi d’acqua e nella palude con conseguenze devastanti per l’ecosistema. Come ciò non bastasse, con l’espansione urbana, oggi ci sono case costruite a pochi metri da queste vasche».

La Texaco si è sempre difesa affermando di aver completato la bonifica delle piscine – ne sono state individuate 880 – nel 19982.

«Cosa hanno fatto? Semplicemente hanno tappato le vasche con circa 50-90 centimetri di terra pulita. E così dicono di avere bonificato. Un’operazione in cui hanno speso 40 milioni di dollari. L’ironico della vicenda è che, per difendersi dal giudizio, la compagnia sta spendendo 2.000 milioni di dollari. Se a quei tempi questa cifra fosse stata investita in un adeguato ripristino ambientale, adesso non ci sarebbero simili problemi».

Indossiamo degli stivali per andare a vedere una delle piscine incriminate. Una di quelle che Texaco dice di aver sistemato e ripulito. Donald prende una bottiglia d’acqua, un machete e un aese per fare buche, una specie di trivella manuale. Passiamo accanto a un tubo dell’oleodotto. «Qui passa il petrolio del pozzo Lago 29. Un petrolio leggero, un buon petrolio».

Arriviamo in uno spazio coperto da sterpaglia. «Questa era una piscina – ci indica Donald -. Il problema sta sotto la copertura di terra. Sta nell’acqua sotterranea che è stata contaminata. Purtroppo le persone quell’acqua la utilizzano».

Donald comincia a liberare un pezzo di terreno con il machete e poi, indossati un paio di guanti, inizia a bucarlo con la trivella a mano.

Lo scavo dura qualche minuto. La terra asportata dall’attrezzo comincia a diventare via via più nera. «Annusate», ci dice Donald a un certo punto. L’odore inizia ad essere pungente. «È l’odore tipico dei cosiddetti composti aromatici, altamente tossici per l’uomo e l’ambiente».

Viene estratto un sacchetto di plastica. «Nel pozzo erano gettati sacchi di sale. Neppure quelli hanno tolto in una decontaminazione che loro hanno definito perfetta».

«Facciamo una prova», dice Donald. Prende la bottiglia di acqua e ne taglia la parte superiore con il machete. «Mettiamo nell’acqua pulita un po’ della terra che abbiamo raccolto. Poi, con un pezzetto di legno pulito, mescoliamo il tutto. Come potete notare, la terra si deposita mentre il petrolio, più leggero, va verso l’alto». L’evidenza è clamorosa: siamo davanti a una bottiglia di petrolio, trovato a meno di 50 centimetri dalla superficie. Una prova evidente del danno ambientale procurato dalla Texaco.

Donald immerge la propria mano inguantata nel liquido. La risolleva e la apre davanti ai nostri occhi e al nostro naso. Sì, è proprio petrolio. «E poi dicono di aver risanato» chiosa Donald.

Ci propone di sentire quanto bruci la mano sporca di petrolio dopo pochi secondi al sole. «Mettetevi un guanto». Obbediamo e sì, la mano si riscalda subito.

Sono state 105 le relazioni degli esperti di ogni campo – chimici, biologi, naturalisti – che hanno dimostrato il danno che i signori di Texaco hanno prodotto. Un danno che continua, anche se in apparenza non si nota. «Qui non abbiamo acqua potabile, né acqua trattata. Se manca la pioggia, la gente deve per forza ricorrere all’acqua sotterranea. Non c’è altra possibilità». Donald parla di razzismo: «È un razzismo completo di tutte le sue lettere: r-a-c-i-s-m-o – scandisce -. È una lotta tra chi ha denaro e chi no. Tra chi preferisce spendere milioni di dollari in processi piuttosto che in azioni di bonifica ambientale».

Più di tutto può la necessità di lavorare. «La gente sa. Molti però preferiscono non parlare perché prestano servizio nelle imprese petrolifere. Che pagano bene: un addetto può guadagnare 800-900 dollari al mese, una cifra impossibile da raggiungere se lavori nella finca. Ti pagano per lavorare. E per tacere. Se inizi a parlare, fanno presto a licenziarti».

È arrivato il cancro

Forse la piscina del pozzo Lago 8 è semplicemente un caso isolato. Una piscina che non è stata ripulita bene dalla Texaco. Una situazione particolare, ingigantita dagli esponenti di Udapt per giustificare i propri reclami.

Risaliamo in auto per andare in un’altra zona, distante chilometri da qui. «Andiamo a trovare una famiglia che è stata vittima della Texaco», ci spiega Donald. Entriamo in foresta fino a raggiungere la casa su palafitte della famiglia Cabrera. Troviamo Ilterio Cabrera seduto all’ombra della palafitta proprio mentre è intento a sfogliare un recente libro fotografico sulle vittime della Texaco.

Alla sua famiglia l’autore ha dedicato alcune pagine perché essa è stata duramente colpita dalle operazioni della multinazionale, che nella sua finca aveva costruito una piscina. Per una «strana coincidenza» nella famiglia ci sono stati 3 morti per cancro: il fratello minore nel 1999, la mamma nel 2004 e il papà nel 2006. «Anche i nostri vicini hanno avuto morti per tumore» ci spiega l’uomo con un sorriso amaro.

Ilterio Cabrera vive qui con la moglie Marlene e 3 dei 5 figli. «Quando non trovo lavoro, coltivo la terra: cacao e mais soprattutto». Un’esistenza sul filo perché la contaminazione continua ancora oggi.

Una guerra di resistenza

Andiamo al pozzo chiamato Charapa 1. A ricordarlo, oltre al cartello con il nome, c’è un misuratore di pressione e qualche tubo arrugginito.

«Fu perforato da Texaco nel 1971. Per esso costruirono tre piscine. Una là e altre due da questa parte. Una di esse sta a 40 metri dalla casa della famiglia Cabrera». Ci muoviamo verso una di esse. È differente da quella del pozzo Lago 29, perché qui il petrolio è immediatamente visibile sotto le foglie sparse sul terreno. «Qui versavano – spiega Donald – il cosiddetto petrolio di prova. Quando si riempiva il buco, il petrolio defluiva fuori. I contadini chiamavano l’impresa che mandava qualcuno ad aspirarlo. Poi esso veniva riversato sulle strade per – si giustifica la compagnia – evitare la polvere. Peccato che qui le piogge siano frequenti e che esse spargessero il petrolio per ogni dove. Ecco perché non occorre vivere nei pressi di una piscina per ammalarsi di cancro o di altre patologie. Oltre a questa opzione, ce n’era poi una seconda: bruciare il petrolio della piscina. Bruciava per giorni e la colonna di fumo generata si vedeva da ovunque».

Donald scende nella buca con il badile. Il terreno è morbido. Non occorre scavare: già con la prima badilata si estrae un materiale vischioso dal colore e odore inconfondibili. È petrolio.

I responsabili di tutto questo hanno perso il giudizio, ma non hanno mai pagato. «In Ecuador la Texaco non possiede più nulla e pertanto siamo andati a reclamare in altri paesi dove essa opera: in Argentina, in Brasile e in Canada abbiamo aperto dei procedimenti per sequestrare i beni della compagnia. Purtroppo, facciamo fatica perché non abbiamo denaro. Loro pensano che allungando i tempi dei processi alla fine noi desisteremo per mancanza di risorse. Ma questo non succederà».

La passione con cui la nostra guida ci ha condotto in questo itinerario tra i disastri della Texaco è contagiosa. Impossibile rimanere indifferenti.

«Questa – conclude Donald Moncayo – è come una scuola, un’università. Noi abbiamo il dovere di mostrare al mondo cosa fanno le imprese multinazionali fuori dei loro paesi. Perché ciò che è accaduto qui non si ripeta in altri luoghi».

Paolo Moiola
(fine quarta puntata – continua)


Note

1 – Nella precedente puntata (MC 7/2016, pp. 51-57) è stato raccontato il «toxitour» a Coca, la seconda città petrolifera del paese, dopo Nueva Loja. I toxitour non sono gite turistiche. Chi li organizza lo fa per motivi informativi e didattici. Non esiste un prezzo. Chi vuole, lascia un’offerta.

2 – Il 30 settembre del 1998 la Texaco si accordò con il governo di Jamil Mahuad certificando di aver riparato i danni prodotti in Amazzonia e liberandosi di ogni futura responsabilità. Riparazioni poi giudicate parziali o fittizie.

 




Dalla montagna del vento


 

Invasioni, epidemie, distruzioni. Davi Kopenawa, sciamano e voce internazionale del popolo yanomami, ha conosciuto e pagato sulla propria pelle l’incontro con l’uomo bianco. Con la forza della sua intelligenza è riuscito a non farsi fagocitare. Oggi è conosciuto in tutto il mondo e la causa indigena ha trovato in lui un rappresentante di grande spessore, rispettato e ascoltato. Lo abbiamo incontrato nella sede di Hutukara, a Boa Vista.

Boa Vista. La sede dell’associazione si trova in una via tranquilla. La si nota
immediatamente perché sul muro di cinta della casa che la ospita è stato
disegnato il suo logo multicolore. Il nome Hutukara rimanda al mito yanomami sull’origine del mondo, quando una parte della vecchia volta celeste cadde formando la terra attuale (Urihi).

Nella stanza d’entrata incrociamo un paio di persone che via
radio stanno comunicando con qualche villaggio indigeno. Di lì a poco compare il padrone di casa. Capelli neri e lisci, volto tondo, una collanina nera al collo, indossa una maglietta bianca con inserti verdi e dei pantaloncini a
scacchi, proprio come un bianco. Ma bianco non è, anche se ha spesso corso il
rischio di diventarlo o di apparire tale agli occhi degli altri. Lui è Davi
Kopenawa Yanomami, sciamano, presidente di Hutukara, ma anche noto portavoce internazionale del popolo yanomami. È arrivato nella capitale proveniente da Watoriki, il villaggio yanomami il cui nome significa «montagna del vento».

Davi non lesina sorrisi, in particolare all’amico Carlo Zacquini, un napë (non-Yanomami) conosciuto nel lontano 1977. Fratel Carlo ha
portato con sé The Falling Sky. Words of a Yanomami Shaman, l’edizione inglese del libro autobiografico scritto da Davi assieme all’antropologo francese Bruce Albert. Glielo consegna per farsi fare una dedica. Davi si siede al tavolino e inizia a scrivere. Lo fa lentamente scandendo a voce alta ogni parola scritta in lingua yanomae sulla pagina bianca.

Nel frattempo i nostri programmi subiscono un imprevisto rallentamento. Si presenta un giornalista di San Paolo, che naturalmente ha
fretta. Ci chiede di parlare per primo con Davi. «Soltanto pochi minuti», ci assicura. Ci facciamo da parte, pur sapendo di rischiare, con l’arrivo del tramonto, di fare foto e riprese senza la luce naturale (come infatti avverrà). Fratel Carlo ci fornisce immediatamente una lettura di quanto accaduto: «Oggi i bianchi lo cercano. Spesso lo adulano, o gli fanno proposte che per molti altri sarebbero allettanti. Per Davi non è facile».

Occupiamo il tempo a conversare con una delle persone intente a parlare via radio. Lucivaldo è tecnico d’infermeria e lavora al polo
base di Demini, che serve anche Watoriki. «È un lavoro – spiega Lucivaldo – che richiede molta disponibilità perché il territorio è di difficile accesso. Si lavora nella comunità per 30 giorni, lontani dalla propria famiglia. Poi si torna in città per 15 giorni». La comunità dove Lucivaldo lavora conta 190 indigeni, seguiti da un’équipe di 4 persone, un infermiere e 3 tecnici d’infermeria.

Dopo circa mezz’ora torna Davi, finalmente libero di conversare con noi. Ci sistemiamo all’aperto, in un cortiletto interno della casa.

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Tags: Yanomami, Roraima, Indios, Amazzonia, Indigeni

Paolo Moiola