Sommario Luglio 2021

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Allamano, Giocando a bocce… coi giovani

il beato Allamano oggi secondo padre Giacomo Mazzotti |


È inutile nasconderla, questa voglia di vacanza, che seduce proprio tutti. Da tempo, le varie agenzie tentano di infilare un po’ dovunque le proposte più furbe, per accalappiare clienti. Non fanno eccezione i missionari, che propongono vacanze alternative, esperienze controcorrente, condivisione con popoli e culture lontane. Tutto questo, mentre aspettiamo il prossimo Sinodo di ottobre, scandito da tre flash, luminosi e provocanti: giovani – fede – vocazione (altro che vacanze!). Come sempre, papa Francesco non ha perso l’occasione per proporre un Sinodo diverso, con i giovani davvero protagonisti.

Citando la Scrittura, ha ricordato che spesso sono proprio i giovani a riaprire la porta della speranza nei momenti di crisi, mentre una Chiesa che non osa strade nuove è condannata a invecchiare.

Questo intreccio di idee mi ha fatto riaffiorare – spontaneamente – il volto paterno e amico dell’Allamano che, a cinquant’anni suonati, si ritrovò non solo a fondare un Istituto missionario, ma anche a diventare padre e guida di un bel grappolo di ragazzi e giovani che avevano nel cuore il sogno di mollare i loro amici per condividere, con gente ritenuta (allora) esotica e lontana… l’Evangelii gaudium, la gioia, cioè, di incontrare Gesù, portatore di una «buona notizia» per tutti. Per raccontare, allora, cosa sia stato il Fondatore per quei primi giovani sognatori e cosa furono loro per lui, ricordiamo un piccolo, simpatico episodio, quasi una parabola, che vale un libro di parole…

Durante le vacanze a S. Ignazio (luogo di villeggiatura), dopo pranzo i ragazzi dovevano ritirarsi nelle loro camere e non andare a giocare per non disturbare chi si riposava. L’assistente era inflessibile. Una volta, quando l’Allamano era presente, alcuni sgusciarono dalle camerette e bussarono alla sua porta, mentre riposava. «Cosa volete?» – «Signor Rettore, non possiamo dormire e vorremmo andare a giocare alle bocce» – «Andate pure» – «Ma, Sig. Rettore, l’assistente non ce lo permette, teme che disturbiamo la comunità». Avendo capito perché si erano rivolti a lui, si dimostrò comprensivo e rispose: «Vengo anch’io…». E poi si fermò con loro, contava i punti, lodando chi giocava meglio…

C’è proprio tutto: i giovani, la missione, la formazione, il cuore di un padre e… persino l’aria di vacanza, che tira in questi giorni d’estate.

padre Giacomo Mazzotti


I giovani aspettavano lui

Alla comunità dei missionari alla Consolatina, prima Casa Madre dell’Istituto, l’Allamano diede un’organizzazione semplice, come era il suo stile, e sufficiente: due suore di S. Gaetano per i vari servizi e un sacerdote, don Luigi Borio, per la celebrazione della messa e per l’assistenza ai giovani. L’anima della comunità, però, era lui, pur vivendo al santuario della Consolata. All’inizio specialmente, veniva ad incontrare i suoi giovani come gruppo e individualmente, non tutti i giorni, ma quasi. Li voleva conoscere bene e preparare alla missione secondo il suo spirito in modo da «saper essere con loro», in futuro, anche da lontano.

C’è da aggiungere un particolare di grande importanza. L’Allamano non agì da solo. Per il Santuario e per il Convitto ecclesiastico, si era scelto come collaboratore un sacerdote di sua fiducia, il can. Giacomo Camisassa. Per i due Istituti missionari il Camisassa è da considerare a buon diritto il «Confondatore» perché fu il braccio destro dell’Allamano, soprattutto sul piano organizzativo, dei lavori e delle spedizioni di persone e di merci.

Il programma formativo

Appena un mese dopo l’apertura della casa, l’Allamano inviò al piccolo gruppo di aspiranti alla missione una magnifica lettera, indicando le vie maestre della formazione missionaria. Ecco la parte centrale: «Non potendo per ora soddisfare al mio desiderio di trovarmi frequentemente in mezzo a voi per aiutarvi a mettere le fondamenta al nostro piccolo Istituto, stimo bene con questa lettera di aprirvi il mio cuore.

Anzitutto godo di dichiararvi che i vostri principi mi sono di vera consolazione. Il vostro buon animo, la carità vicendevole e lo spirito di sacrificio di cui siete animati promettono bene della vostra opera. Deo gratias! Gesù Sacramentato deve essere contento delle frequenti vostre visite. Il S. Tabernacolo è il centro della casa ed ogni punto deve tendere come raggio colà. Quante grazie deriveranno su di voi e sull’Istituto! Egli stesso, Gesù nostro padrone, si formerà i suoi apostoli!

Tenete caro il libretto del Regolamento, meditatene ogni giorno qualche punto, procurando di osservare, per quanto è possibile al presente, quanto vi è prescritto. Amate quindi il ritiro nelle vostre camerette, dove attendete allo studio della S. Scrittura, delle lingue e delle materie insegnate. Riservandomi di dirvi a poco a poco, a voce o per scritto, tante altre cose che vi aiutino a perfezionarvi ed a prepararvi alla grande opera dell’apostolato, vi benedico».

I giovani aspettavano lui

Gli scritti del Fondatore erano attesi e graditi, ma i giovani aspettavano soprattutto lui. Volevano vederlo, incontrarlo di persona, parlargli.

Uno di essi, poi missionario in Tanzania, p. Gaudenzio Panelatti, scrisse: «La sua presenza era sempre una grande e attesa gioia. Egli c’intratteneva familiarmente e c’infervorava, quasi sen-za che ce ne accorgessimo, nella nostra vocazione. A volte ci leggeva lettere o brani di lettere scritte dall’Africa da coloro che noi avevamo conosciuto, e di qui prendeva lo spunto per le sue considerazioni così pratiche e incisive che non si son più potute dimenticare.

Ciascuno era libero di parlargli in privato; e prima di partire ci lasciava ogni volta la sua paterna benedizione, ovunque ci trovava raccolti.

A me dava l’impressione ch’Egli avesse giammai niente da fare. Da noi occupava molto bene il suo tempo, poi per andare alla Consolata; mai che mostrasse avere impegni o urgenze, e più tardi soltanto venimmo a sapere che dirigeva mezza Diocesi ed era occupatissimo. L’ordine gli diede modo di attendere a tutto.

Dava importanza alla preghiera, quale mezzo principale di formazione sacerdotale, religiosa e missionaria. Una volta gli sfuggì questa confidenza: “Dicono che vi faccio pregare troppo, ma in Cielo che faremo d’altro? Gli Apostoli non si riservarono, come compito proprio, la Parola di Dio e l’orazione?”».

Uno dei primi fratelli coadiutori laici, fr. Benedetto Falda, volle lasciare il suo ricordo in modo brioso: «Alla domenica poi era tutto per i suoi figli. Giungeva per i Santi Vespri e dopo la S. Benedizione si recava nel salone, o, tempo permettendolo, in giardino e là ci voleva tutti attorno a sé. La sua conferenza non aveva nulla di cattedratico o di rigido, ma era il Padre che, seduto in mezzo ai suoi figli, che voleva ben vicini, specialmente i Coadiutori, ci parlava alla buona. Erano consigli detti quasi all’orecchio, ma che restavano impressi nell’animo e ci imbeveva del suo spirito!

Alla fine della conferenza, faceva portare una bottiglia di vino scelto e distribuiva a ciascuno dei biscotti (che veramente i benefattori gli regalavano per il suo stomaco delicato) poi si alzava e dopo una visita al SS. Sacramento lo si accompagnava tutti assieme fino al cancello della palazzina. Un giorno che toccò a me l’onore di accompagnarlo al tram, ad una svolta mi congedò dicendomi: “Proseguo a piedi, così risparmio due soldi che sono della Provvidenza!”».

Giovani alla tomba del beato Giuseppe Allamano.

Difese lo spirito delle origini

L’Allamano aveva una convinzione di fondo che lo guidò nel realizzare il suo compito di fondatore. Era convinto che lo Spirito Santo non solo lo avesse indotto a dare vita a quest’opera, ma gli avesse pure ispirato i valori da infondere e trasmettere ai futuri missionari e missionarie e che nessuno aveva il diritto di modificare.

Questa grazia delle origini si chiama «Carisma di fondazione», divenuta poi il «Carisma dell’Istituto». Ecco perché più di una volta, l’Allamano intervenne, anche con energia, a difendere questo spirito delle origini. Ad un anno appena dalla fondazione, nel marzo del 1902, sentì il bisogno di parlare chiaro ai suoi giovani, senza paura di offenderli, anzi sicuro di aiutarli: «Sono io, e chi vi pongo io a guidarvi che dovete solamente ascoltare. La forma che dovete prendere nell’istituto è quella che il Signore m’ispirò e m’ispira, ed io atterrito dalla mia responsabilità voglio assolutamente che l’istituto si perfezioni e viva vita perfetta. Sono d’avviso che il bene bisogna farlo bene; altrimenti fra le altre mie occupazioni, non mi sarei sobbarcato ancora questa gravissima della fondazione di sì importante istituto».

Queste parole sembrano piuttosto severe, ma a giustificarle c’è una postilla annotata di suo pugno in calce al manoscritto della conferenza: «Così parlai perché taluni, anche buoni, venivano a disturbare i giovani con idee…».

padre Francesco Pavese

 

Alla tomba del beato Allamano (16 febbraio 2018).


Novena e festa del beato Allamano

La comunità di Casa Madre si è preparata alla festa dell’Allamano assieme alle missionarie della Consolata, mediante la novena celebrata nella chiesa che accoglie il sepolcro del Fondatore delle nostre famiglie missionarie.

Padre Giuseppe Ronco, con le sue riflessioni, ci ha coinvolti con la spiritualità del Beato partendo da una pagina degli «Atti capitolari», frutto del Capitolo generale svoltosi l’anno scorso, dove si parla della necessità di rivitalizzare e di ristrutturare l’Istituto tenendo presente il suo fine che è la missione.

«Il cuore di ogni rinnovamento umano e spirituale del missionario – scrive il Capitolo – sta nel recuperare la centralità di Cristo» nella vita.

La tematica è presente nel Fondatore il quale l’ha espressa con i termini del suo tempo presentando Cristo come modello per eccellenza di tutte le virtù.

Si appoggiava, in questo, sull’autorità di san Giuseppe Cafasso, suo zio: «Come diceva il nostro venerabile: “Bisogna che facciamo tutte le cose come nostro Signore quando era su questa terra”».

L’Allamano dava molta importanza all’imitazione di «Gesù mite», un concetto che si riassume nell’esortazione: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione».

Il missionario deve saper trasformare la realtà non dominando, non spadroneggiando sul gregge, ma col cuore umile e mite, facendosi quasi pecora al seguito del suo pastore.

Citando san Basilio, il Fondatore definisce la mitezza come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo, non solo nel campo dell’evangelizzazione, ma anche nel tessuto sociale e umano. «Mi sta a cuore la mansuetudine. Quando si tratta di salvare un’anima, si pensi che una parola secca basta a impedire una conversione forse per sempre».

Giuseppe Allamano ci insegna, attraverso la sua vita, che noi potremo imboccare la strada della trasformazione con la virtù della mitezza. Trasformare, non rompendo, ma con umiltà e mitezza di cuore.

Ne corso della novena, parlando di «ristrutturazione», p. Ronco ha messo in evidenza come il Fondatore non era interessato alla «quantità» ossia ad aprire più missioni possibile, ma alla qualità. Si interessava cioè alle persone che aveva a disposizione, e voleva che fossero missionari santi e qualificati per compiere una missione di qualità ottimale: «Noi non abbiamo la mania di avere molta terra e non le mani per lavorarla; meglio poche missioni ma curate bene».

La missione era l’orizzonte di ogni suo desiderio, era la lente fissa davanti ai suoi occhi attraverso la quale guardava tutto. «Noi siamo per i pagani», diceva, che tradotto vuol dire: «Noi siamo ad gentes».

L’Allamano vedeva la missione come un’attività da svolgere in una comunione di vita che aveva come modello Gesù, primo apostolo del Padre. Da qui egli deduceva che la vocazione missionaria è la più bella in assoluto e invitava a ringraziare sempre il Signore per questo dono.

Inoltre voleva una missione «inglobante» e il fatto che lui abbia speso tutta la sua vita a Torino, testimoniando il Vangelo nel suo ambiente, fa capire che la missione non è solo quella geografica. In questo senso è missione il dialogo interreligioso, l’ecumenismo, la collaborazione tra le fedi, ecc.

L’Allamano voleva anche una missione «integrale»; il termine indica la metodologia della missione. Essa cioè deve rivolgersi alla persona umana nella sua parte spirituale e poi nella sua parte materiale. Fu lui a volere l’integrazione della promozione umana con l’evangelizzazione. Per lui l’uomo e il cristiano andavano formati insieme.

Un quarto aspetto della missione nel pensiero dell’Allamano era «lavorare insieme con spirito sinodale». Il concetto significa «camminare insieme», missionari, missionarie, catechisti, e tutto il popolo. E questo comporta un metodo di lavoro che è quello dell’armonia, della condivisione, del mettere insieme.

Infine l’Allamano era convinto che la missione dipendesse dalla qualità del missionario, espressa dalla frase «Prima santi e poi missionari». «La vostra santità deve essere maggiore di quella dei semplici cristiani, superiore a quella dei religiosi, distinta da quella dei sacerdoti secolari; la santità dei missionari deve essere speciale, anche eroica e all’occasione straordinaria da operare miracoli».

Il 16 febbraio, giorno della nascita al cielo del beato Allamano, missionari e missionarie, assieme a tanti laici amici, si sono stretti nella chiesa-santuario dove riposano i suoi resti mortali per partecipare all’eucaristia solenne presieduta da mons. Giacomo Martinacci, rettore del santuario della Consolata e perciò successore dell’Allamano nella guida del santuario.

Parlando dell’Allamano alla luce del Vangelo: «Lo Spirito del signore è su di me e mi ha mandato…», «Davvero lo Spirito di Dio è stato su questo sacerdote – ha detto -. Egli non l’ha tenuto per sé, ma ha portato frutto che ha espresso, prima di tutto come formatore di sacerdoti e poi come fondatore di famiglie missionarie per portare il Vangelo di Gesù alle genti.

Sergio Frassetto

 

Novizie della missionarie della Consolata alla tomba del beato Giuseppe Allamano.




I Perdenti 30:

Ezechiele Ramin, martire della carità

Conosciuto familiarmente come «Lele» in Italia ed «Ezequiel» in Brasile, fu definito «martire della carità» da papa Giovanni Paolo II, dopo essere stato assassinato in Brasile a causa del suo impegno in favore dei piccoli agricoltori e degli indios Surui, comunità indigene situate nello stato di Rondônia (territorio parte della vasta area amazzonica brasiliana), e della loro lotta contro i latifondisti locali.

Ezechiele nasce a Padova nel 1953, in una famiglia di modeste condizioni economiche. È il quarto di sei figli. Dopo le scuole dell’obbligo, frequenta il liceo classico presso il Collegio Vescovile Barbarigo. In quel periodo incomincia a prendere coscienza degli squilibri e delle disuguaglianze presenti nel mondo. Ciò lo spinge fin dai primi anni della giovinezza ad aderire e collaborare con Mani Tese, associazione per la quale organizza diversi campi di lavoro per raccogliere fondi in sostegno di progetti di sviluppo e promozione umana.
Nel 1972 entra nell’Istituto dei missionari Comboniani, studia teologia prima allo studio teologico fiorentino di Firenze, poi a Venegono Inferiore (Va) al seminario arcivescovile di Milano e, infine, a Chicago negli Stati Uniti, dove si laurea alla Catholic Theological Union. Dopo aver fatto esperienze missionarie dapprima con un gruppo emarginato di nativi americani nel Sud Dakota e poi, per un anno, nella Bassa California in Messico, viene ordinato sacerdote il 28 settembre 1980 nella sua città natale.
Dopo l’ordinazione sacerdotale, è assegnato ad una parrocchia gestita dai comboniani a Napoli. Negli anni trascorsi in Campania partecipa in prima persona ai tragici avvenimenti del terremoto dell’Irpinia del 1980. In quei giorni si prodiga in maniera encomiabile a San Mango sul Calore in provincia di Avellino per assistere le vittime del sisma.
Nel 1981 ritorna a Napoli, dove organizza una delle prime manifestazioni non violente contro la Camorra. L’anno successivo è trasferito a Troia in provincia di Foggia dove ricopre il ruolo di animatore vocazionale per le Puglie. Nel gennaio 1984 i superiori lo inviano in Brasile, dove raggiunge la comunità dei padri Comboniani che operano in Rondônia. Dopo alcuni mesi di studio della lingua portoghese viene inviato a Cacoal, sperduta cittadina dell’Amazzonia. Preoccupato della situazione che incontrerà accetta il nuovo incarico con le parole: «Se Cristo ha bisogno di me, come posso rifiutare?».

Per la nostra chiacchierata partiamo proprio da qui: la pastorale della Chiesa brasiliana aveva bisogno di una stabile presenza missionaria nel vivo della foresta amazzonica e tu – pur essendo l’ultimo arrivato – non ti tirasti indietro…

A dire il vero un po’ di paura l’avevo, ma già che ero in ballo… e fidandomi completamente del Signore, accettai di essere inviato a Cacoal dove tra l’altro operavano da tempo altri missionari comboniani.

Che situazione incontrasti in quella realtà?

Incontrai una situazione complessa e difficile. I molti piccoli agricoltori presenti sul territorio erano oppressi, con mezzi sia legali che illegali, dai latifondisti locali. Inoltre la tribù indigena dei Surui era stata da poco costretta a diventare sedentaria dal governo brasiliano che aveva forzatamente assegnato loro della terra da coltivare, e questo nuovo modo di vivere, al quale gli indios non erano stati preparati, stava iniziando a creare dei problemi.

Tra le tue letture giovanili – se non sbaglio – un autore ti aveva particolarmente attratto: Dietrich Bonhoeffer, il teologo protestante che aveva militato nella resistenza antihitleriana. La sua testimonianza divenne un punto fermo della tua vita spirituale e di conseguenza nelle tue scelte pastorali…

Infatti le sue lettere dalla prigione, raccolte nel libro autobiografico «Resistenza e resa», erano state a lungo sul mio tavolino quando ero studente di teologia a Firenze. La categoria bonhoefferiana dell’«esistere-per-gli-altri» aveva orientato fin da allora tutte le mie scelte e quindi la prospettiva di una morte violenta era ben presente tra le possibilità del mio percorso esistenziale.

Ispirato quindi dagli insegnamenti del tuo amato maestro ti esponesti in prima persona nella lotta per la giustizia di quelle genti, tentando di persuaderli a intraprendere la strada della protesta pacifica piuttosto che quella della lotta armata, o sbaglio?

Dirò di più, ero fiero di servire una Chiesa che aveva fatto la scelta preferenziale per i poveri, che promuoveva le comunità di base e si riconosceva nella Teologia della Liberazione. Il mondo latinoamericano che mi affascinava da sempre, mi aveva completamente conquistato. Mi sentivo in sintonia con le sue angustie e le sue grandi speranze.

Dì la verità. Più ti inserivi in quella realtà, più capivi che dovevi schierarti apertamente a fianco di quelle comunità che caratterizzavano la Chiesa brasiliana di quegli anni…

Il cammino me lo avevano indicato le Comunità Ecclesiali di Base, che promuovevano la crescita integrale della persona, i senza terra che lottavano per il riconoscimento dei propri diritti e gli indios che resistevano all’invasione del loro habitat indispensabile per sopravvivere secondo la loro cultura.

Si può dire che avevi fatto tue le parole di Bonhoeffer: «Solo chi grida per salvare la vita agli ebrei può cantare il gregoriano». Solo chi alza la sua voce contro l’ingiustizia, può annunciare il Vangelo.

Denunciando le ingiustizie che si consumavano a ripetizione sulle popolazioni indigene ero consapevole di mettere a rischio la mia vita: sapevo bene che non si può difendere i poveri in Amazzonia senza avere problemi, ma capivo anche che non potevo non difenderli, avrei tradito la mia vocazione sacerdotale e missionaria.

Il 24 luglio 1985 padre Ramin, insieme a un sindacalista locale, partecipò a un incontro nella Fazenda Catuva ad Aripuanã nel vicino Mato Grosso con l’intenzione di persuadere i piccoli agricoltori lì impiegati a non prendere le armi contro i latifondisti. Al ritorno, fu vittima di un’imboscata da parte di sette sicari armati di pistola, che lo colpirono con oltre 50 proiettili. Prima di morire, riuscì a sussurrare le parole «Vi perdono». Poiché la salma di padre Ramin non poté essere recuperata dai suoi confratelli prima di 24 ore dopo l’omicidio, un gruppo di indios Surui vegliarono su di essa fino al loro arrivo. Alcuni giorni dopo il suo omicidio, papa Giovanni Paolo II definì padre Ezechiele Ramin un «martire della carità».
I missionari comboniani stanno promuovendo il riconoscimento ufficiale di Padre Ezechiele come martire (e quindi come Beato e, possibilmente, come Santo) da parte della Chiesa cattolica, anche se la comunità comboniana in Brasile sembra riluttante in quanto «per loro e per la gente che lo conosceva, padre Lele Ramin è già un santo».
Nel 1988 due degli uomini che uccisero padre Ramin, Deuzelio Goncalves Fraga e Altamiro Flauzino, furono condannati rispettivamente a 24 e 25 anni di reclusione dal tribunale di Cuiabá. Gli altri sicari non sono stati ancora identificati.
Nell’aprile 2016 è stata aperta la rogatoria presso la diocesi di Padova per la sua beatificazione e canonizzazione.

Don Mario Bandera




Con le mani sporche come niente fosse


In Italia, più le indagini giudiziarie si moltiplicano, più politica e magistratura sono in conflitto. Il problema di fondo è il persistere e l’aggravarsi della «questione morale»: corruzione, partiti come lobby d’affari, clientelismo, conflitti d’interesse, collusioni mafiose. Nel nostro paese trascorrono gli anni, ma le mani sporche rimangono una consuetudine. In più, sullo sfondo, c’è il dibattito attorno alla riforma della Costituzione. Sulla quale i magistrati hanno il sacrosanto diritto di esprimere la propria opinione.

Politica e magistratura. Un tema che è più di un fiume carsico: sembra essere un’inesauribile ondata di piena. Negli ultimi mesi alimentata da alcune dichiarazioni del premier Matteo Renzi e di Pier Camillo Davigo (dall’aprile 2016 neo presidente della Anm, l’Associazione nazionale magistrati). Lo scenario di fondo è costituito dalle numerose indagini per fatti di corruzione e dintorni che vari uffici giudiziari stanno svolgendo.

Davigo ha il merito di aver riproposto all’attenzione di tutti una questione che troppi vorrebbero ridurre a fumisterie di parrucconi fuori del tempo. Ed è la «questione morale», cioè la trasformazione della politica in lobby d’affari, la contaminazione fra apparati dei partiti e mondo affaristico-economico. Con il corollario del clientelismo, del conflitto di interessi e di varie forme di illegalità, dalla corruzione alle collusioni con la mafia. Dunque una questione democratica e istituzionale di formidabile attualità. Con il suo stile (non felpato, mai in «giuridichese», ma chiaro e netto, perciò temuto da chi preferisce ripararsi dietro cortine fumogene: in sostanza, «pane al pane e vino al vino»), Davigo ha voluto ricordare che la questione morale non può essere considerata un reperto archeologico.

Eppure da noi, più che altrove, le dimissioni da parte di persone che hanno responsabilità nazionali o locali, anche a livello istituzionale (persone che abbiano avuto «incidenti di percorso», vale a dire vicende che – anche a prescindere dal loro esito giudiziario – comprendono comunque gravi e sicure responsabilità politiche e morali), non rientrano ancora nell’ordine della normalità. E comunque, se pure talvolta si verificano, restano rare.

Chi viene trovato con le mani sporche di marmellata – magari fino al gomito – riesce ancora ad essere commensale abituale e rispettato in banchetti esclusivi, dove può continuare a rimpinzarsi come se niente fosse. Non succede neppure al gioco del Monopoli, dove chi pesca un «imprevisto» sta almeno fermo un giro. Invece in Italia si continua a giocare con la stessa «pedina», le stesse «case» e gli stessi «alberghi». Tutto come prima, anzi: si direbbe che spesso gli imprevisti facciano… curriculum.

Davigo ha semplicemente riproposto la questione del rapporto tra etica e politica. Ma, evidentemente, il vecchio rilievo machiavellico secondo cui gli stati non si governano con i pater noster gode ancora, da noi, di ampia considerazione. Mentre dovrebbe essere pacifico che la corruzione è priva di ogni giustificazione e che corrotti e collusi restano tali a prescindere dal loro status di uomini di successo e di potere.

La crociata antigiudiziaria e una giustizia «à la carte»

Circa 25 anni fa (era il 1992, ndr) la stagione di «Mani pulite» e delle inchieste sui rapporti fra mafia e politica segnò – per il nostro paese – un forte recupero di legalità. Per un po’ di tempo sembrò che potesse prevalere quell’Italia che le regole le vuole applicare in maniera eguale per tutti e non soltanto enunciarle. Le inchieste su Mani pulite e su Mafiopoli avevano innescato un sentimento di fiduciosa aspettativa nei confronti della giustizia e dei giudici (talora persino sopra le righe, come quando ci furono addirittura toni da tifo calcistico). Questa «luna di miele» è durata poco, perché la novità di una magistratura che – sia pure con tutti i suoi limiti – cercava finalmente di applicare la legge anche ai «potenti» non poteva lasciare questi ultimi indifferenti. E difatti i «potenti» hanno reagito con vigore, in tutti i modi possibili, senza risparmio di mezzi ed energie. Ecco dunque lo scatenarsi, ormai da circa 25 anni, di una crociata antigiudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali. Invero, non solo in Italia ci sono stati personaggi pubblici inquisiti, ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati «eccellenti» abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (spesso indicati «tout court» come avversari politici). Con il dilagare dell’idea, terribilmente italiana, di una giustizia «à la carte» valida per gli altri ma mai per sé. E con l’irresistibile tendenza a valutare gli interventi giudiziari non in base ai criteri della correttezza e del rigore, ma unicamente in base all’utilità per sé e per la propria cordata.

Oltretutto, la corruzione «sistemica» che Mani pulite aveva evidenziato avrebbe dovuto offrire materiale di conoscenza prezioso, utilissimo per produrre nuove forme di contrasto efficace (controlli preventivi e misure repressive). Invece, niente di tutto questo è accaduto. Sicché la corruzione inesorabilmente ha finito per riprendere vigore. Per impedirlo, occorrevano interventi che la rendessero non più conveniente: un obiettivo ancora da realizzare.

Col risultato che quel recupero di legalità in atto agli inizi degli anni Novanta è stato costretto a percorrere strade sempre più impervie. E la questione morale, che l’estendersi del controllo di legalità stava rilanciando, dalla politica è stata relegata in soffitta. Perché mettere sotto accusa i magistrati, invece dei corrotti e collusi, comporta per costoro un evidente vantaggio: una minore fatica per riproporre le pratiche di sempre, più spazio e più tempo per ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste.

Esemplare, in questo percorso, è stato l’uso cinico del termine «giustizialismo». Un tempo la parola era del tutto sconosciuta nel lessico giudiziario. Cominciò a fae parte quando, con una furbata, qualcuno pensò di escogitare (con precise finalità mediatiche) un qualche modo per suggerire l’idea di un uso scorretto della giustizia, costringendo il dibattito a partire da una sorta di verità rovesciata. Introducendo nel contempo concezioni perverse del «garantismo»: un neo-garantismo «strumentale», diretto a depotenziare la magistratura, che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico; insieme ad un garantismo «selettivo», che gradua le regole in base allo «status» dell’imputato. E francamente dispiace constatare che l’attuale presidente del Consiglio abbia riesumato – addirittura intervenendo in Senato (il 19 aprile 2016) – proprio questa parola, parlando, con riferimento agli ultimi 25 anni, di pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo.

Dalla falsa neutralità alla reale indipendenza

Altra parola usata spesso a sproposito è quella con cui si accusa la magistratura di «politicizzazione». È facile constatare (basta un buon libro di storia) che fino agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso la commistione tra magistratura e luoghi del potere politico era la regola. Ma veniva inabissata sotto il dogma della apoliticità di giudici e giurisdizione. Era l’epoca in cui, al riparo di tale dogma, il procuratore generale della Cassazione definiva gli infortuni sul lavoro «una fatalità», gran parte della magistratura siciliana era attestata sulla tesi che «la mafia non esiste», la Procura della Repubblica di Roma era allegramente (e non per caso) chiamata «porto delle nebbie», i vertici della magistratura partecipavano a cerimonie in cui imprenditori inquisiti e politici corrotti venivano insigniti delle massime onorificenze della Repubblica e poteva anche accadere che un Procuratore generale non disdegnasse di rilasciare affidavit per il suo amico Sindona.

La magistratura – per usare parole di Luigi Ferrajoli – era «un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un “corpo separato” dello stato, come allora si diceva, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subaltee ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili». Questa, pur con molte eccezioni (di giudici e pubblici ministeri capaci di essere indipendenti e imparziali) era la linea di tendenza prevalente in magistratura, ed era una linea di politicizzazione di fatto.

La vulgata di un bel tempo antico in cui i magistrati erano apolitici è dunque una favola. Utile per delegittimare i cambiamenti intervenuti successivamente, quando gran parte della magistratura cominciò una lunga marcia verso una reale indipendenza, sostitutiva della tradizionale falsa neutralità. Cambiamenti che innescarono un processo che è un po’ come la storia di quando le donne portavano il velo. A quel tempo le donne erano tutte belle, ma quando il velo cadde si cominciarono a constatare delle differenze. Più o meno la stessa cosa è successa per la magistratura. Quando i giudici non davano «fastidio», quando cioè non erano scomodi, per il potere erano tutti bravi e belli. Ma quando hanno cominciato ad assumere un ruolo preciso, a dare segni di vitalità, a pretendere di esercitare il controllo di legalità anche verso obiettivi prima impensati, ecco che è cominciata l’accusa di politicizzazione (intrecciata con quella di protagonismo).

I magistrati e la Costituzione: in silenzio no

Da ultimo, la polemica fra politica e magistratura ha assunto toni vieppiù incandescenti in vista del referendum sulla riforma della Costituzione (previsto per ottobre 2016, ndr). Si sostiene che i magistrati non dovrebbero occuparsene. Assurdo. Le ripercussioni della riforma sul settore giustizia potrebbero essere importanti (ad esempio sulle modalità di elezione di componenti della Corte costituzionale e del Csm). E in un paese in cui tutti parlano di giustizia – e spesso con toni da bar – sarebbe ben strano se gli unici a doversene astenere fossero i magistrati. Come se i medici non potessero parlare di sanità o i giornalisti di informazione. In ogni caso non si tratta di una questione di schieramenti politici cui i magistrati dovrebbero restare estranei. Si tratta, invece, di una questione istituzionale decisiva per la democrazia, che interpella tutti. Proprio tutti.

Il vero problema è infatti la qualità della democrazia. La Costituzione repubblicana vigente disegna una democrazia basata sul primato dei diritti e sulla separazione dei poteri, senza supremazia dell’uno sugli altri, ma con reciproci bilanciamenti e controlli. C’è il rischio che a questa concezione di democrazia se ne sostituisca una basata non più sul primato dei diritti, ma sul primato della politica (meglio, della maggioranza politica del momento), per di più con un’inedita concentrazione di poteri. Mentre, se è vero che in democrazia la sovranità appartiene al popolo (per cui chi ha più consensi ha il diritto-dovere di operare le scelte politiche che vuole), è altrettanto vero che ogni potere democratico incontra – non può non incontrare – dei limiti prestabiliti. Tali limiti presidiano una sfera non decidibile, quella della dignità e dei diritti di tutti: sottratta al potere della maggioranza e tutelata da custodi (una stampa libera e una magistratura indipendente) estranei al processo elettorale ma non alla democrazia. Se invece la maggioranza, forte del fatto di aver avuto più consensi, si prende tutto e non lascia spazi effettivi alle minoranze, allora l’alternanza – che è il Dna della democrazia – viene ridotta a simulacro e la democrazia cambia qualità. L’effettività di tali spazi dipende in particolare dal controllo sociale, che presuppone un’informazione pluralista. E dal controllo di legalità, che presuppone una magistratura autonoma ed indipendente.

Dunque, la domanda di fondo è questa: quale tipo di democrazia conviene di più? La prima o la seconda? Ed ecco perché anche i magistrati hanno pieno titolo (come ogni altro cittadino, se non più) per occuparsi di Riforma della Costituzione. Partecipando al dibattito nelle forme più opportune.

Per concludere, ricordiamo – parafrasandolo – un celebre passaggio di Piero Calamandrei: Sotto questa Costituzione (la Costituzione del ‘48, ndr) ci sono tre firme che sono un simbolo, De Nicola, Terracini, De Gasperi. Tre nomi, tre idee, tre concezioni che costituiscono le correnti più importanti del nostro paese. Cosa vuol dire? Vuol dire che intorno a questo Statuto si è formato il consenso dell’intero popolo italiano, di tutti. Questo è il valore della nostra Costituzione. Non è l’imposizione di qualcuno sugli altri a colpi di maggioranza. È il consenso dell’intero popolo italiano che si è formato intorno a questo documento. Il consenso di tutti.

Gian Carlo Caselli




Italia: il paese della mafia e dell’antimafia


Il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Questo è l’obiettivo della legge 109 del marzo 1996. Una legge nata da una bestemmia: «la mafia dà lavoro». Quella norma fu promossa da «Libera», l’organizzazione fondata nel 1995 da don Luigi Ciotti per lottare contro tutte le mafie. E che oggi, a 20 anni di distanza, è ancora in prima linea, a dispetto di chi la vorrebbe delegittimare.

L’Italia ha gravi problemi di mafia. Ma possiamo orgogliosamente dire di essere pure il paese dell’antimafia. Non solo per il prezzo che abbiamo pagato con un numero infinito di vittime innocenti. Non solo per l’efficace legislazione che ci siamo dati (sostanzialmente fatta propria da una Convenzione Onu del dicembre 2000 sottoscritta da tutti gli stati del mondo, la Convenzione di Palermo). Non solo per l’organizzazione del contrasto (non a caso Eurojust, l’embrione della futura procura europea, è modulato sulla nostra «Procura nazionale antimafia»). Ma anche per quel fiore all’occhiello – ovunque studiato – che è la pratica dell’antimafia sociale o dei diritti: quella che paga in termini di lavoro e recupero di dignità; che materializza la legalità come vantaggio; che si affianca all’antimafia della repressione e della cultura, creando così un triplice fronte di contrasto, ben più efficace della semplice «delega» a forze dell’ordine e magistratura.

Non «baciamo le mani»

L’antimafia sociale o dei diritti nasce con la legge 7 marzo 1996 n. 109 sulla gestione e destinazione dei beni confiscati ai mafiosi. Una legge che ha compiuto da poco vent’anni e ha segnato una svolta decisiva nell’ordinamento italiano. Un capolavoro ideato da Luigi Ciotti ragionando su una bestemmia (strano per un prete, ma vero). La bestemmia che «la mafia dà lavoro». Falso, eppure tanti ci credevano. Non solo grazie alla black-propaganda (informazioni false prodotte da un soggetto coinvolto, ndr). Soprattutto perché, un tempo, i beni tolti ai mafiosi cessavano di essere «produttivi». Erano irreversibilmente condannati a coprirsi di ruggine e ragnatele. Per cui il mafioso espropriato aveva buon gioco a dire in giro: «Ecco, quando il bene era mio, produceva ricchezza soprattutto per me, è vero; ma qualcosa c’era anche per voi altri che ora restate a secco. Dunque, fatevi i conti: meglio prima o adesso?».

Il ragionamento (ancorché i mafiosi lasciassero agli altri solo briciole, tanto per tenerseli buoni) aveva una certa presa. Ed era facile, allora, che i cittadini scegliessero di allearsi non con lo stato ma con la mafia, quanto meno mediante un comportamento omertoso di accettazione rassegnata.

La restituzione del «mal-tolto»

La situazione viene ribaltata con la citata legge 109/96: i beni confiscati ai mafiosi sono destinati ad attività socialmente utili. Cioè restituiti alla collettività cui la mafia li ha rapinati, così che la collettività possa trae profitti sociali. Ed ecco che la villa di Riina diventa un istituto agrario e poi una caserma; ecco che i terreni agricoli già dei mafiosi sono lavorati da cornoperative di giovani che producono vino-olio-pasta e via elencando; ma soprattutto ecco iniziative economiche e lavoro liberi. Libertà che dei soggetti coinvolti fa cittadini titolari di diritti, non più sudditi costretti a baciare le mani del mafioso di tuo (sporche del sangue dell’ultimo delitto commesso). Sta qui il significato profondo della legge: fare dell’antimafia una legalità che conviene, che restituisce quel che la mafia ha «mal-tolto». Una legalità che non sia soltanto questione di guardie e ladri, ma sappia invece coinvolgere chi prima restava alla finestra, se non peggio.

Il capolavoro di Ciotti non è consistito soltanto nella formulazione di un progetto di legge. All’idea don Luigi aveva dato gambe organizzando una raccolta di firme per sostenerla. Alla fine le firme erano state un milione. Una montagna. A una tale pressione non si poteva resistere. Ed ecco che la legge era stata approvata all’unanimità (ma senza estenderla ai corrotti, come invece stava scritto nel progetto originario). Una unanimità che, in ogni caso, ha costituto una formidabile legittimazione da parte di tutto il popolo italiano alle cornoperative che da allora lavorano sui beni confiscati ai mafiosi assieme a varie associazioni scelte con bando pubblico, fra le quali figura «Libera», l’associazione che rappresenta l’ennesimo capolavoro di don Ciotti.

Col tempo, la confisca e l’assegnazione dei beni mafiosi hanno raggiunto dimensioni enormi. Perché enormi sono i beni che la mafia ha potuto accumulare in anni e anni di sostanziale impunità «patrimoniale». E perché enormi sono stati i progressi degli inquirenti sul versante dell’attacco alle ricchezze mafiose. Enormi, purtroppo, sono diventati anche i problemi da affrontare per la gestione e assegnazione dei beni, a fronte dell’esiguità di uomini e mezzi dell’Agenzia a ciò preposta. Mentre è venuta delineandosi anche un’antimafia degli affari o delle partite Iva: un sistema di relazioni opache.

Contro «Libera»: schizzi di fango, guerre e falsità

Schizzi di fango, ogni tanto, si tenta di indirizzare addirittura verso «Libera» e don Ciotti, con accuse inconsistenti che, in un’apposita audizione dell’Antimafia (lo scorso 13 gennaio, ndr), sono state tutte smontate. Chi riesce a tenere la barra sempre dritta diventa un simbolo e può urtare la «suscettibilità» di qualcuno. Soprattutto se una certa informazione preferisce concentrarsi morbosamente sui presunti retroscena, scorgendo scandali anche quando non ce ne sono. In «Libera» non c’è alcuna «guerra». Esistono una dialettica, uno scambio, una differenza di vedute: fatti normali nella vita di un’associazione in cui le persone discutono apertamente e talora anche aspramente. Il confronto è sempre un arricchimento. Ma può anche accadere che, dietro uno sbandierato impegno, si nascondano intenti non del tutto disinteressati. C’è il rischio (che Ciotti non si stanca di ricordare) che il «Noi» si riduca a un’etichetta dietro la quale agisce indisturbato l’«Io». In particolare, sulla gestione dei beni confiscati, circolano falsità assortite. Per cui conviene fissare alcuni punti:

  • «Libera» non gestisce terreni confiscati: la gestione è affidata a realtà che aderiscono a «Libera terra», ma come soggetti autonomi d’impresa sociale;
  • sono soltanto 5 in tutta Italia i beni gestiti da «Libera», utilizzati come sedi locali dell’associazione;
  • «Libera» non riceve contributi pubblici per gestire beni confiscati, ma solo per attività statutarie di formazione, studio e ricerca;
  • oggi sono più di 500 le iniziative di riutilizzo sociale dei beni confiscati che coinvolgono realtà laiche o religiose: associazioni, cornoperative, comunità, gruppi e parrocchie.

Quanto alla propria struttura, da tempo in «Libera» è in atto un profondo cambiamento. Negli ultimi mesi, l’associazione ha tenuto tre affollate assemblee nazionali, nelle quali i nuovi organismi direttivi sono stati votati praticamente all’unanimità. Nessuno è perfetto, ma è davvero difficile parlare (come taluno ha fatto) di una carenza di democrazia1 nei processi partecipativi. Quanto alle presunte tiepidezze o, peggio ancora, omissioni a fronte di certe illegalità o manifestazioni mafiose2, non si possono dimenticare le denunzie pubbliche di Ciotti sul pericolo mafia nella città di Roma formulate, ad esempio, nell’ottobre 2014, all’apertura di «Contromafie». O le richieste del marzo 2014  di un albo sugli amministratori giudiziari, con trasparenza e rotazione negli incarichi, compreso un tetto ai compensi. Più in generale non si può ignorare la limpida condanna che Ciotti, in epoche assolutamente non sospette, ha sempre scagliato contro quella parte di antimafia da operetta o di facciata se non anche opaca o inquinata. Ed è più che logico dedue una sua speciale e concreta  attenzione per rendere «Libera» immune da questi mali e salvaguardae la pulizia morale. Testimoniata del resto dal lavoro quotidiano dell’associazione: a partire dall’esposizione delle facce dei suoi giovani  in moltissimi tribunali italiani, per sostenere in pubblica udienza, a fronte degli imputati detenuti e dei loro familiari, le tante costituzioni di parte civile contro la mafia che sono prova inconfutabile di coscienza civica e coraggio.

Un obbligo morale: includere anche i corrotti

Per altro, sul versante dell’antimafia e dei beni confiscati ci sono varie cose da aggioare. Il pacchetto delle auspicabili riforme è consistente. Tra i punti qualificanti figurano: il potenziamento dell’Agenzia nell’ambito di una procedura più efficiente e più  garantita; una particolare  attenzione alla gestione delle aziende, per le quali  sono previsti uno speciale fondo di rotazione e garanzia (già finanziato dalla legge di stabilità con 10 milioni di euro) e la destinazione prioritaria a cornoperative di lavoratori, se ne ricorrono le condizioni; un vigoroso giro di vite sulla disciplina degli amministratori giudiziari (indispensabile dopo il «caso Saguto»3). Di grande rilievo è poi l’ampliamento del novero dei soggetti cui possono essere applicati sequestro e confisca, così da ricomprendervi (oltre al caporalato e altre ipotesi) anche i reati più gravi contro la pubblica amministrazione, a partire dalla corruzione. Andrà meglio che nel 1996? L’estensione sarà ancora, per qualcuno, un boccone troppo amaro? Speriamo di no, ma non è un buon segnale che, dopo l’approvazione alla Camera, la discussione in Senato stenti a iniziare.

Gian Carlo Caselli

Note

(1)  Intervista a Franco La Torre, sul sito de L’Huffington Post, 1 dicembre 2015. (Ndr)

(2)  Intervista a Catello Maresca, pm di Napoli, sul settimanale Panorama del 14 gennaio 2016. (Ndr)

(3)  Il riferimento è allo scandalo che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. (Ndr)

Siti internet

  • www.libera.it -È il sito di «Libera», l’associazione fondata da don Luigi Ciotti nel 1995.
  • www.benisequestraticonfiscati.it -È il sito di Anbsc, l’«Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata».



Vecchio continente nuova missione


Iniziamo in questo numero una serie di brevi articoli per raccontare la nostra (come vissuta e sentita da noi missionari della Consolata) missione nel vecchio continente. Come è oggi, e come sogniamo che sia domani.

2016_04 MC Hqsm_Pagina_81L’Europa, un tempo bacino di vocazioni missionarie e deposito di risorse per la cooperazione, ha cambiato volto. Non siamo semplicemente passati da un tempo di vacche grasse a uno di vacche magre: il cosiddetto «vecchio continente» è diventato qualcosa d’altro. Sono cambiati i contesti culturali, sociali e religiosi, e questa mutazione (ancora in atto) è stata talmente veloce da coglierci impreparati. Cambiano le istituzioni, fra cui anche la Chiesa, e oggi, ci dicono le statistiche, il Vangelo trova più facilmente casa altrove. In alcuni dei nostri paesi siamo ancora pieni di diocesi, vescovi, strutture, ma le chiese si svuotano, e al di fuori di esse non si vede un grandissimo fermento ecclesiale, soprattutto fra i più giovani. L’inarrestabile fenomeno migratorio sta cambiando in maniera irreversibile le nostre città e i nostri paesi. Di questi tempi, per trovare non cristiani, non dobbiamo più andare in Agrica o nell’estremo Oriente: li troviamo «comodamente» dietro l’angolo. Sono coloro che vengono da altre culture e tradizioni, ma anche gli stessi europei che, per mille ragioni diverse, hanno abbandonato la Chiesa e, spesso, anche la pratica personale della fede.

Di fronte a questa lettura della realtà, pur superficialmente tratteggiata, anche i missionari della Consolata si stanno interrogando sul ruolo da assumere oggi in Europa. Appare chiaro che esso non può essere uguale a quello di un tempo. La missione di una volta non esiste più; facciamo fatica a rendercene conto, ma questa è la realtà. Oggi, la media dei missionari europei è avanti negli anni, e la maggior parte delle nostre attività si svolge in altri contesti. Cambia, in modo significativo, anche la nostra geografia vocazionale. Infatti, sono ormai parecchi i confratelli provenienti da altri continenti, in particolare da quello africano, che lavorano oggi in Europa.

A partire da questo mese, vi racconteremo come stiamo provando ad assumere le esigenze di questa nuova missione, con profonda attenzione ai tempi che viviamo, e nella fedeltà al nostro carisma. La chiamata ad annunciare il Vangelo è per sempre; cambiano gli stili, si modificano i contesti, ma il mandato missionario alla testimonianza e all’annunzio resta invariato. Per questo motivo, da qualche tempo, abbiamo intensificato la riflessione sulla nostra missione in Europa, partendo da quanto già facciamo in alcune realtà ad gentes che ci vedono impegnati in Italia, Spagna e Portogallo.

Il primo obiettivo che ci siamo dati consiste nello stabilire una concordanza sui criteri comuni che fanno di noi dei missionari della Consolata ovunque siamo e da qualsiasi parte del mondo proveniamo. Questo è il primo fondamentale passo per arrivare alla redazione del «Progetto missionario del Continente Europa», che stiamo preparando per vivere con maggior entusiasmo ed efficacia la nostra missione al servizio delle chiese locali. Vorremmo farlo in modo originale e creativo, mettendo in gioco le caratteristiche proprie del nostro carisma, il bagaglio di esperienza missionaria maturata in altre aree del mondo e il ricco patrimonio della convivenza interculturale che, se ben vissuta, può diventare oggi uno strumento potente di evangelizzazione.

Ugo Pozzoli


Questi brevi articoli sono pubblicati in contemporanea su Antena misionera in Spagna e Fatima missionaria in Portogallo.




il sogno premonitore

Luisa non perché moglie del catechista, ma per
la simpatia e sensibilità: era molto attenta alle altrui necessità.
Se non vedeva una famiglia alla celebrazione domenicale,
s’informava prontamente cosa fosse capitato.
E se la causa dell’assenza era dovuta a qualche malattia,
invitava la comunità ad aiutare la famiglia con la preghiera
e opere di solidarietà. Nella comunità svolgeva il
ruolo di madre: nei momenti difficili esortava i fedeli ad
avere fiducia e pregare molto, anche in famiglia.
Una domenica la catechista Luisa aveva accompagnato
il missionario per celebrare la messa nella mia comunità;
i miei genitori non si recarono in chiesa, perché
ero malata e, secondo loro, senza speranza. Nella tarda
mattinata venne lei a casa mia per pregare e confortare
i genitori. Arrivò anche il missionario, che mi amministrò
il battesimo e l’unzione degli infermi. In seguito i genitori mi dissero che, dal momento di quella visita, avevo
cominciato a migliorare e il giorno seguente avevo ripreso
a parlare. Quando Luisa venne a conoscenza della
mia guarigione, affermò che Dio mi aveva salvata ed era
a Lui che avrei dovuto consacrarmi. «Con questo segno
Dio ti dice che ha bisogno di te» mi disse.
I miei genitori non credevano che avrei recuperato
completamente la salute; per questo non fecero caso alle
sue parole e non parlarono mai con nessuno dell’accaduto.
Solo in seguito, quando manifestai il desiderio di
diventare suora, si ricordarono delle sue parole.
Gli anni passavano e la situazione causata dalla guerra
peggiorava. La famiglia di Luisa fu una delle prime
a lasciare la terra natale per la città di Massinga. Molti
cristiani trascorrevano la notte in casa sua e, durante
il giorno, tornavano nei propri villaggi a lavorare i campi
e procurarsi gli alimenti necessari. Essa accoglieva
sempre tutti con amore, nonostante la disapprovazione
del marito. Diceva: «La situazione è difficile; ma non scoraggiatevi,
La sua simpatia e disponibilità attiravano molte persone.
Fu così che crescemmo insieme, come cristiani e
come famiglia.
Prima di partire per il Guiúa, la comunità fece per lei
e la sua famiglia una grande festa. Si cantò e si ballò;
ma il volto di Luisa rivelava una grande tristezza. Chiese
un momento di silenzio; poi raccontò di aver fatto un
sogno: «Fratelli miei, ho pregato molto, perché questo
è un momento difficile nella mia vita. Vado al Guiúa per
volontà di Dio, ma un sogno fatto ieri mi ha turbata. Due
scene ho davanti a me: una bella, piena di cose allegre;
ma nell’altra ho visto la croce di Cristo. Per questo, fratelli,
ho pregato molto, perché sento che questa è l’ultima
volta che ci vediamo».
Tutti i presenti rimasero turbati e le dissero, piangendo,
di non partire. Ma essa non toò sulla sua decisione.
La notizia del sogno si diffuse in tutta la comunità.
Alcuni giorni dopo, presi con sé un figlio e il nipotino
di cinque anni, partì per Guiúa. Desiderava far conoscere
loro il luogo dove, in caso di necessità o malattia,
avrebbero potuto rintracciare lei e il marito. Attendavamo
il ritorno del figlio; invece ricevemmo la notizia
della morte di tutti e tre; allora tutti ricordammo il sogno
di Luisa.
Nessun cristiano che l’abbia conosciuta potrà mai dimenticare
questa figura: in particolare, il suo presentimento
e la lettura dei fatti accaduti alla luce della fede. Io
sono sua figlioccia di cresima e la considero una donna
forte e santa, per ciò che ha rappresentato nella mia vita
e in quella di molti altri.
Sono certa che vicino a Gesù, che l’ha scelta, intercede
per noi e spero che la chiesa riconosca la figura di
questa martire di Cristo e dei fratelli.

suor Emilia Arlando Zunguze




Russia: IL NEMICO CATTOLICO

Ho letto con costeazione la lettera del vescovo
TADEUSZ KONDRUSIEWICZ, metropolita di Mosca. Mi ha
amareggiato perché ero convinto che certe cose potessero
accadere solo in paesi islamici.
Mi sono sentito interpellato dal grido del vescovo
«esprimete la vostra solidarietà!». Così ho fatto centinaia
di fotocopie della sua lettera; le ho inviate a
quotidiani, riviste e le ho diffuse presso la parrocchia
dove lavoro come catechista. Ho scritto anche al presidente
Putin e farò volantinaggi in tutti gli ambienti
dove ci saranno conferenze e dibattiti.
La lettera è stata pubblicata dalla rivista Vita Pastorale,
ottobre 2002. Vi prego di pubblicarla (almeno
in parte), perché sensibilizzi i lettori… voi che siete
così attenti ai diritti dei poveri, delle minoranze.

«È in atto davanti ai nostri occhi – scrive Tadeusz
Kondrusiewicz, presidente dei vescovi cattolici –
il dramma della chiesa cattolica in Russia, che dopo aver
sopportato le crudeli persecuzioni del secolo XX,
che l’avevano distrutta quasi completamente, dopo un
decennio di faticosa ricostruzione è sottoposta a nuove
prove…
Negli ultimi tempi si è attivata nel paese una campagna
anticattolica a tutto campo: manifestazioni e
picchettaggi, divieti di costruire chiese, atti di vandalismo
e profanazioni di edifici di culto, diffusione
dell’immagine mitizzata del “cattolico nemico”, ecc. I
cattolici russi sopportano le prove che gli vengono inferte
con la preghiera e la temperanza cristiana. Tuttavia,
negli ultimi mesi è iniziata la sistematica espulsione
dal paese di sacerdoti stranieri. Ciò viene
compiuto a scopo dimostrativo, con l’accompagnamento
di volgarità e offese, senza la minima spiegazione
dei motivi dell’espulsione…
Nessuna risposta chiara è stata data alle nostre richieste,
rivolte alle autorità statali della Federazione
russa con la preghiera di spiegare le cause del rifiuto
d’ingresso. Come cittadino della Federazione rivendico
la necessità di osservae le leggi. La chiesa cattolica
in Russia è una chiesa di russi, che collabora alla
costruzione di uno stato democratico di diritto. Le associazioni
religiose, secondo la legislazione russa e i
propri statuti, hanno diritto di invitare sacerdoti da
altri paesi…
Viene messa in dubbio la libertà religiosa, garantita
dalla costituzione, e l’uguaglianza di tutte le religioni
davanti alla legge. La situazione che si è creata fa sorgere
sospetti e diffidenze; non aiuta il consolidamento
della società né il dialogo intercristiano e interreligioso».

LUIGI PANICO




BUONI E CATTIVI CHI LO STABILISCE?

Su «Battitore libero» di Missioni Consolata, ottobre
2002, compare un intervento di GIUSEPPE TORRE che
definisce bene alcuni fatti bellici recenti: dall’aggressione
alla Jugoslavia da parte della Nato, all’Afghanistan
e ai reiterati tentativi (finora solo verbali) verso
l’Iraq. Circa la Nato: essa nacque solo per difenderci
dai «rossi», giusto? Ora che i «rossi» non ci sono più,
da chi ci difendono le basi della Nato disseminate ovunque?
Da Bin Laden, Saddam Hussein?
L’Iraq, con poco più di 20 milioni di abitanti, può veramente
mettere in pericolo l’equilibrio del mondo? Armi
non convenzionali sono possedute da tanti paesi:
e chi ci dice che questi ne facciano un uso assennato?
La corsa alle armi parte dalla militarizzazione di «qualcuno
», che oggi ha il colore e i tratti a stelle e strisce
(vedi l’ultimo capitolo di spesa Usa).
Bin Laden è una creatura Usa. Non solo: ma Bin Laden
esiste realmente o le «prove» su di lui sono solo
immagini di non si sa bene quale provenienza?… La
storia (laica) recente è carica di bugie: dalla «strage
del mercato» in Bosnia-Erzegovina a quella serba di
Racak… «prove» per attaccare l’Afghanistan, o prove
accampate (ma non verificate) dal dossier di Blair su
Saddam Hussein…
Dopo «l’11 settembre 2001», gli Stati Uniti, per
autodefinizione interpreti del bene, si riservano ogni
scelta su altri popoli: se a loro non piacciono, prima
intervengono con la propaganda, poi con le «bombe
umanitarie». Anni fa il presidente pakistano Musharraf,
dopo la proliferazione nucleare del suo paese, fu
messo dagli Usa al bando, mentre nella guerra in Afghanistan
si è rivelato un alleato. Un tempo Saddam
Hussein era un amico: nel 1983 gli Usa «derubricarono
» l’Iraq dai paesi «fomentatori di terrorismo» e aprirono
a Baghdad un’ambasciata… poi divenne «peggio
di Hitler». Sorge la domanda: chi tiene l’elenco
dei «buoni» e dei «cattivi»?
Ancora: Israele da chi ottiene l’impunità per l’inottemperanza
a circa 200 risoluzioni Onu e per il genocidio
palestinese? Dal 1967 occupa la terra d’altri e se
i legittimi proprietari si lasciano esplodere è perché,
forse, sono giunti ad una disperazione senza ritorno.
Il 18/10/2002 su «La 7», con Ferrara e Leer, è stato
concesso uno spazio non piccolo a Norman Filkenstein,
autore de «L’industria dell’olocausto», dove è
scritto che dietro all’olocausto c’è una rendita (detto
da un figlio di sopravvissuti fa effetto). Lo stesso Ferrara
gli ha chiesto: «Professore, è motivo di sorpresa
se gli ebrei di questa vicenda hanno fatto un affare?».
Io non sono sorpreso… Filkenstein scrive che «l’olocausto
più che insegnato viene venduto».
Ritorna la domanda di fondo: chi compila l’elenco
dei «buoni» e dei «cattivi»? Chi non ha capito il disegno
strategico Usa per aggredire a tutti i costi l’Iraq?
Analogamente al dottor Torre, mi compiaccio nel
constatare come Missioni Consolata, nel mare della disinformazione
corrente, mantenga molto equilibrio: oltre
la «destra» e la «sinistra», due forme di paralisi
mentale.

LETTERA FIRMATA




MAUA (MOZAMBICO): la grande occasione della pace

SE LA ZAPPA PARLA AL COMPUTER

Non è il titolo di una favola nell’era dell’informatica,
ma la strategia culturale elaborata da un missionario
in un contesto agricolo.
Per valorizzare la ricchezza della tradizione
di fronte alla modeità.

Da Beira, la seconda città del
Mozambico, sono in partenza
per Cuamba, nel cuore
della regione del Niassa. Il viaggio
sarà in aereo fino a Nampula e
poi in auto.
Il velivolo ritarda. Fortunatamente
sono con Raffaele Carpaneto, ingegnere
(per gli amici Lino), e padre
Filipe J. Couto, rettore dell’università
cattolica, che ammazzano il tempo
in sala di attesa discutendo persino
di matematica pura. Io sbadiglio
al cospetto di una gigantografia,
che raffigura il primo volo aereo dal
Portogallo alla colonia del Mozambico.
Di botto mi assale il detto di
Karl Kraus: «L’uomo che sbadiglia
assomiglia ad un animale».
Dopo quasi cinque ore, decolliamo
per Nampula e, subito, puntiamo
verso Cuamba. Sono le 14,30.
Ci attendono 400 chilometri in terra
battuta, con la Toyota che arranca
sui dossi, sprofonda nelle buche,
sbanda sulle inclinazioni, sussulta
sui tratti corrugati: e noi con essa.
Ora l’ingegnere e il rettore non
discettano più di matematica pura,
ma (soprattutto padre Couto, affabulatore
instancabile) si abbandonano
al genere «barzellette». Cessano
anche queste, come il sole che
tramonta. Ed è subito «Africa nera», rischiarata appena dai fari dell’auto
che mettono in fuga qualche
lepre sulla via. Si scorge solo l’erba
alta ai margini della strada, che la
Toyota schiaffeggia. Sembra di avanzare
tra due pareti interminabili
e ondeggianti.
Alle 22,30 ecco Cuamba e il sorriso
ospitale di padre Adriano Prado,
brasiliano, che ci offre cena. Ma,
con gli sballottamenti sofferti, preferiamo
ritirarci. Ci attendono una
branda traballante e la compagnia
delle zanzare. Ma, sulla porta della
cameretta, si affaccia il rettore magnifico
Couto con uno zampirone.
«Accendetelo! Meglio il fumo che le
zanzare malariche». Un bel gesto.

POICHÉ «LUI» NON C’È
Il giorno seguente padre Couto si
separa. L’ingegnere Lino ed io partiamo
alla volta di Maua, a tre ore di
auto. Altri sobbalzi, ma questa volta
la strada è da «formula uno» rispetto
a quella di ieri.
Giunti a destinazione, «lui»… non
c’è. «Sta visitando una comunità. Ritoerà
certamente prima di notte»
ci risponde fratel Gerardo Secondino
con uno sguardo un po’ ironico.
Quasi a dire: «Qui si lavora!». Però,
di fronte alla nostra delusione, soggiunge:
«Forse ritoerà nel primo
pomeriggio. Intanto pranzate con
noi. Poi, se Deus quiser…». Dio vuole
che gustiamo un buon risotto (un
piatto luculliano in Mozambico) in
compagnia anche di padre Julius
Mwangi, kenyano.
Nel pomeriggio (poiché «lui» non
è ritornato) visitiamo una scuola per
«l’insegnamento a distanza» a pochi
chilometri da Maua. Gli allievi sono
tutti adulti: frequentano il centro una
volta al mese e acquisiscono alcune
nozioni basilari; a casa si esercitano
nei compiti da consegnare all’insegnante
il mese successivo. Ideata
dai missionari, la scuola viene incontro
alle esigenze degli adulti nei villaggi
sprovvisti di strutture educative.
Gli studenti provengono da distanze
notevoli: anche tre ore di bici.
Ritorniamo alla missione. «Lui» è
sempre assente. Passeggiamo lungo
la strada principale di Maua. È sorprendente
il movimento: donne in
fila verso il mulino per macinare granoturco,
uomini che trasportano pesanti
e lunghi pali per costruire una
nuova casa e un viavai costante al
mercatino per acquistare o vendere
pesce secco, olio, scampoli coloratissimi
di stoffe. C’è pure una piccola
banca: segno che gira denaro.
Sulla facciata di una scuola statale
campeggiano le parole «produrre,
studiare, combattere», ispirate a
suo tempo dalla Frelimo (Fronte di
liberazione del Mozambico), il partito
al potere dall’indipendenza del
paese (1975). Alcuni ragazzi siedono
davanti ad un modesto monumento
a piramide (opera anch’esso
della Frelimo), che ostenta una zappa,
un martello e una stella rossa; su
un blocco di cemento bianco si legge:
«Difendere la patria, vincere il
sottosviluppo, costruire il socialismo
(Maua, aprile 1983)». La
data ricorda un congresso
del partito nel cuore della
guerra civile. Oggi tuttavia,
dal 1992, il paese vive
in pace.
Durante la guerra civile i
cristiani di Maua non disponevano
di una chiesa ove celebrare
i funerali di
tante vittime, pregare
per la riconciliazione
nazionale
e la pace. Né potevano
costruirla in
cemento e ferro, perché
tali mezzi erano
irreperibili. Ma padre
Franco Gioda ragionò
davanti a tutti: «La chiesa
è fatta soprattutto di
cristiani, e i fedeli,
graças a Deus, non
mancano; poi servono cose materiali.
Vi domando: i nostri foaciai
non possono cuocere mattoni e tegole,
i nostri falegnami non sono in
grado di squadrare con l’accetta le
finestre e i fabbri forgiare i serramenti?
I muratori non possono erigere
muri e i pittori decorarli con colori
tratti dalle argille locali? Così si
supera anche il cruciale problema
della dipendenza dall’estero…».
In pieno conflitto è sorta la chiesa
di Maua, opera del popolo.
Stiamo per entrare. L’occhio ammira
il portone d’ingresso in legno
massiccio, finemente intarsiato con
immagini bibliche dagli artigiani del
paese. L’interno è una sinfonia di colori,
che i bagliori del sole tonificano.
La suggestione smorza la parola.
Diventa contemplazione.
«Che ne dite?». La domanda risuona
alle nostre spalle. È «lui», che
ha pure realizzato il sogno di padre
Franco.

UNA MONTAGNA DI CARTE
«Lui» è GIUSEPPE FRIZZI (*), missionario
della Consolata, come il
rettore Couto, fratel Gerardo
e i padri Julius e Franco. Però
è specialmente un mio compagno del liceo e della filosofia. Incontrarlo
a Torino, alla redazione di
Missioni Consolata, è un piacere; ma
abbracciarlo a Maua, fra il popolo
dei macua, è una commozione.
Mise piede in Mozambico quando
il paese era ancora colonia portoghese
e lottava per l’indipendenza
nazionale. In seguito soffrì con la
gente i 16 anni di guerra civile ed esultò
per la pace nel 1992.
Durante gli anni drammatici del
conflitto, padre Giuseppe non se ne
stette in casa ad aspettare la fine delle
ostilità; ma visitava le comunità
per settimane e settimane, a piedi e
in bicicletta: informava, ascoltava,
interrogava, rifletteva, annotava, incoraggiava.
Ha pregato e cantato
ovunque, soffrendo la penuria
come tutti e rischiando
il sequestro di persona
da parte della Renamo
(Resistenza nazionale mozambicana,
il partito armato
che si opponeva alla
Frelimo).
Ritornato a Maua, trascriveva organicamente
i miti e proverbi raccontati
dagli anziani, le favole e gli
indovinelli delle nonne, le ricette
psicosomatiche del curandeiro (medico
tradizionale). Il suo ufficio è diventato
una montagna di carte.
«I proverbi sono 9.708 – precisa
padre Giuseppe prendendo in mano
un fascio di fogli -. Le favole sono
un migliaio; poi abbiamo circa 2
mila indovinelli e tanti canti sull’iniziazione
femminile e maschile».
Mentre l’ex compagno parla, sul
suo tavolo di studio mi incuriosisce
un «coso», ricoperto da un drappo
rosso che sollevo e, stupito, tocco
un computer, alimentato da pannelli
solari. Ebbene: quel
vasto e prezioso materiale
etnografico è
stato elencato, catalogato.
La cultura
macua non
sarà più soltanto
orale, bensì scritta,
anzi computerizzata.
E, nel profondo dell’Africa,
computerizzati sono pure numerosi
disegni di artisti locali.

LE PORTE APERTE
Per fare che cosa?
«Ho già inserito proverbi e disegni
nel libro del catechismo e nella
bibbia appena tradotta in macua –
risponde il missionario -. Ma il materiale
può servire anche per una riflessione
antropologica nel contesto
del Mozambico moderno».
All’università la facoltà di pedagogia
o diritto, ad esempio, non dovrebbe
sorvolare sui valori culturali
dell’iniziazione tradizionale. L’insegnamento
di etica (una disciplina
presente in tutte le facoltà dell’università
cattolica) non dovrebbe ignorare
la ricerca del missionario di
Maua. È una ricerca non individuale,
ma comunitaria, che si è avvalsa
degli anziani (uomini e donne), degli
esperti del culto agli antenati, degli
operatori tradizionali della salute:
i depositari della cultura macua
insomma.
Lo studio delle radici culturali, da
applicarsi alla società attuale, è terminato?
«Stiamo completando l’applicazione
alla liturgia e alla catechesi. A
Maua, grazie anche alla Conferenza
episcopale italiana e alle Suore di
san Pietro Claver, abbiamo composto
e pubblicato canti e preghiere,
abbiamo tradotto, commentato e illustrato
la sacra scrittura. Oggi, dopo
alcune esperienze, può iniziare il
lavoro nelle scuole medie e superiori,
introducendo magari il bilinguismo
(macua e portoghese)».
Con quale risultato?
«Alcuni risultati sono sorprendenti:
ad esempio, chi sa scrivere il
macua impara meglio il portoghese.
Uno studente, dopo essersi identificato
con la propria cultura macua,
ora sta specializzandosi con successo
in Cina. Se dal macua si passa al
portoghese, il processo non è solo
più facile, ma più ricco. Se si dà all’alunno
la coscienza che, fin dal suo
villaggio, egli non è un selvaggio ignorante,
entrerà nella scuola modea
più convinto dei propri mezzi
e imparerà meglio le nuove discipline.
La matematica occidentale è
astrusa per i macua; invece diventa
più facile se si passa dalla loro alla
nostra matematica».
E tu, straniero, come sei stato accolto
dalla gente?
«Questa domanda dovresti farla
alla gente. L’accettazione dell’“altro”
dipende sempre dalla sua simpatia
e sintonia verso la cultura locale.
Nel mio caso, posso dire che
mi si aprono tutte le porte».
Non è poco. Infatti, se è vero che
la cultura tradizionale avalla lo spirito
comunitario, è vero altresì che
non elimina una «riserva mentale»
verso l’«altro» fra gli stessi macua.
La riserva è più accentuata, a fortiori,
per uno straniero. Se di fronte
a padre Giuseppe Frizzi la riserva
è caduta, il fatto è straordinario.

IL TOPOLINO NON SALTA
A Maua è nato il Centro di cultura
macua, oggi collegato anche alla
facoltà di agricoltura di Cuamba
dell’università cattolica.
Perché proprio la facoltà di agricoltura?
«La proposta al rettore dell’università,
padre
Couto, è stata
q u e s t a :
poiché la facoltà di agricoltura è frequentata
soprattutto da macua, facciamo
loro delle lezioni sulla cultura
tradizionale per spiegare il rapporto
“cordiale e religioso” dei loro
anziani con la terra».
Non ti sembra di sognare il tempo
passato?
«Me l’aspettavo tale obiezione!
Dopo 28 anni vissuti con i macua,
prima di utilizzare i mezzi dell’agricoltura
modea, ritengo necessario
partire dalle radici culturali di quella
tradizionale, che rappresenta una
filosofia di vita. Non vogliamo polemizzare
con le facoltà di agricoltura
occidentali: sappiamo che non dobbiamo
essere dei nostalgici e sappiamo
pure che, oggi, si possono
mungere le mucche utilizzando il
computer. Ma, per favore, il computer
non disprezzi la mano che, fino a
ieri, mungeva la vacca. Né l’aratro a
dischi disprezzi la zappa della donna
del villaggio. Giova, invece il dialogo
tra la zappa e il computer…».
Bussano. All’«avanti», una ragazza
posa sul tavolo un vassoio di vimini
con tre tazze in terracotta (tutta
produzione locale) e un thermos
di tè. Indicando il thermos e gli altri
oggetti, esclamo: «Ecco il frutto del
dialogo tra computer e zappa!».
L’ingegner Lino sorride divertito,
mentre gli occhi azzurri del compagno
di scuola sprizzano serenità.
In attesa che il tè bollente diventi
bevibile, chiedo a padre Giuseppe
qualche considerazione sulla vita
di tutti i giorni, dopo la firma della
pace nel 1992.
«Le cose potrebbero andare meglio.
I macua hanno l’impressione di
essere ignorati dal governo. Però, se
tieni presente che durante la guerra
a Maua circolavano solo due bici,
mentre oggi se ne contano due in ogni
famiglia… La pace è stata raggiunta
quando si è capito che essa
vale di più (anche economicamente!)
del commercio delle armi. Questo
è stato l’argomento che ha disarmato,
ad esempio, la Renamo».
Dal punto di vista etico…
«Ecco il nocciolo della questione
– interrompe il missionario -. Non
dimentichiamo che la guerra è stata
civile: non solo tra Frelimo e Renamo,
ma anche tra famiglie, tra genitori
e figli all’interno della stessa
casa con odi, furti e omicidi da ogni
parte. Che ci siano strascichi è deprecabile,
ma comprensibile. Però,
con la pace, la vita a Maua è ripresa
senza vendette. Non conosco un solo
caso di vendetta personale».
Finita la guerra, si è parlato subito
di riconciliazione nazionale; qualcuno
ha suggerito di invitare da America
e Europa tecnici per la pacificazione.
Ma gli anziani di Maua
hanno scosso la testa citando il proverbio
«il topolino salta la strada solo
per necessità». Però, se non c’è alcun
pericolo, il topo segue la strada,
cioè la tradizione.
Così a Maua un combattente della
Renamo, uxoricida, ha rischiato
il linciaggio; però, consigliato dal
missionario e appellandosi alla tradizione
che prevede il perdono, ha
confessato il delitto in pubblico, ed
è stato graziato. «Ecco la riconciliazione
» conclude padre Giuseppe.
Seduto su una dura sedia da circa
un’ora, mi è spontaneo allungare
le gambe sotto il tavolo.
Un piede tocca una pila di legni
accatastati, che si ribaltano rumorosamente.
«Piano! Tu non sai che c’è qui sotto
». Giuseppe raccoglie un legno. È
un crocifisso. Uno fra tanti, tutti
modellati sulla sagoma dell’albero.
«Provengono dalla nostra scuola
d’arte. La croce-albero ricorda la filosofia
tradizionale della pianta: la
pianta che rinfresca con la sua ombra,
che dona cibo con i suoi frutti e
medicine con le foglie e cortecce…
L’albero è vita. Pertanto, modellata
a forma d’albero, la croce rimanda
doppiamente all’albero della vita,
perché il crocifisso è il figlio di Dio…
Signor Lino, posso farle questo omaggio?».
L’ingegnere, confuso, riceve
il crocifisso dalle mani
del missionario.

(*) PADRE GIUSEPPE FRIZZI,
missionario della Consolata in Mozambico
dal 1975, licenziato in filosofia all’Università
urbaniana (Roma) e laureato
in teologia biblica all’università di
Münster (Germania). Ha scritto un catechismo
in macua e tradotto l’intera
bibbia. In italiano ha pubblicato «Gesù
mediatore e maestro», ricco di illustrazioni
(Istituto di San Pietro Claver
via Marmolada 40 – 00048 Nettuno).

Francesco Beardi