A Medyka e Shehyni alla frontiera Sud Est tra Polonia e Ucraina


Aggiornamento al 2 aprile 2022 |

Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Carissimi tutti,
con questo 4 aggiornamento oltre a ringraziare tutti voi per la continua solidarietà concreta che state dimostrando in questa situazione, desidero condividere l’esperienza che ho fatto questa settimana recandomi in Ucraina.

Il viaggio è nato da una proposta arrivata da don Leszez Kryza direttore nazionale dell’Ufficio di aiuto alla chiesa in oriente, struttura appartente alla Conferenza episcopale polacca.

Dopo aver riempito completamente la macchina di beni di prima necessità, quali cibo e medicinali, siamo partiti all’alba di giovedì 31 marzo, in direzione della frontiera di Medyka a sud est della Polonia. Con noi si è unita Clara la volontaria infermiera che da settiane è con noi. Dopo cinque ore di viaggio in un clima che si è fatto improvvisamente invernale alternando la pioggia alla neve, arriviamo presso la frontiera.

Non sono tanti i mezzi che passano il confine dalla Polonia all’Ucraina; tuttavia, i tempi di controllo dei documenti sono lunghi, dovuto sia al controllo dei documenti sia al controllo della merce trasportata, entrando in un paese in guerra i soldati vogliono essere certi di cosa si trasporta.

La frontiera polacca la passiamo senza difficoltà, invece dalla parte ucraina siamo fermati a lungo, per la mancanza di un documento della nostra macchina che abbiamo solo in versione on line e non stampata. Dopo piu di tre ore di attesa, siamo costretti a rientrare in Polonia a motivo della mancanza di questo documento. Cambiamo il nostro piano. Decidiamo di lasciare gli aiuti trasportati presso la sala di una parrocchia dei francescani vicino alla frontiera, per essere già nei prossimi giorni di nuovo spedita oltre il confine con un altro trasporto.

Questo cambio di situazione ci porta alla decisione di entrare in Ucraina a piedi. Il controllo dei documenti dalla Polonia all’Ucraina avviene in modo sbrigativo anche se non siamo soli, alcuni rifugiati, non molti, ritornano. Ci spiegano che sono coloro che abitano vicino a questo confine in una zona meno bombardata di altre. Hanno i mariti che li aspettano nelle loro case e inoltre trovare lavoro in Polonia non è facile… Aiutiamo una giovane donna a portare due borse della spesa pesanti. È tutto quello che ha con sé. La soldatessa ucraina mi chiede cosa andiamo a fare in Ucraina. Le spiego il problema che abbiamo avuto poco prima con la macchina aggiungendo che vorremmo organizzare il passaggio dei beni. Fissandomi seriamente negli occhi per un momento fa poi un mezzo sorriso e ringrazia per quello che stiamo facendo. Sono parole che mi colpiscono perché dette da un soldato non sono per niente scontate.

Entrando in Ucraina notiamo dalla parte opposta una coda molto piu lunga di rifugiati che attendono di entrare in Polonia. Nella vicinanza delle frontiera da entrambi i paesi ci sono tante organizzazioni umanitarie, sono volontari provenienti da tutto il mondo: americani, spagnoli, portoghesi, ebrei, sono tutti giovani sorridenti che trasmettono un calore umano fatto di sorrisi di mille piccole attenzioni verso i profughi. Alcuni sono vestiti da clown come al circo per strappare un sorriso ai bambini che scappano dalla guerra. Altri si prestano con carrelli della spesa ad aiutare a portare i pochi bagagli dei profughi. Altri ancora offrono bevande calde, pasti, cioccolata… siccome la giornata è fredda e umida vengono distribuite delle mantelline per la pioggia che anche noi beneficiamo e si organizzano dei ripari dalla pioggie mista a neve che cade ininterrottamente, usando delle serre per fiori che qualcuno ha offerto. Ci sono anche delle stufe a gas come quelle che si trovano nei ristoranti all’aperto che riscaldano nelle immediate vicinanze.

Incontriamo un gruppo di volontari polacchi che hanno allestito un campo a fianco della frontiera, in Ucraina. Conosciamo Magdalena che fin dall’inizio è qui presente. Ci racconta che la situazione in questi giorni è meno pesante rispetto all’inizio; tuttavia, non c’è sicurezza e da un momento all’altro potrebbe di nuovo tutto precipitare a seconda degli sviluppi della guerra nel paese.

Solo da questa frontiera sono passate circa 700.000 persone (circa la capienza di 10 grandi stadi di calcio) su un totale di 2.700.000 che hanno varcato il confine con la Polonia.

I primi giorni sono stati i più drammatici. Magdalena ci racconta che i primissimi aiuti sono arrivati tutti da Ovest fermandosi in territorio polacco senza oltrepassare il confine. Ancora oggi lì ci sono decine e decine di tende di volontari. Molto meno se ne trovano ancora oggi dalla parte ucraina, dove ci sono le code piu lunghe di profughi.

Ci sono video che mostrano all’inizio del conflitto, code di oltre 30 km di macchine in attesa di passare il confine. Erano tra i pù fortunati perche stavano al caldo e seduti, al contrario della maggioranza di essi che aspettavvano all’aperto giorno e notte anche per tre e quattro giorni, per passare il confine. Anche se le pratiche burocratiche sono state semplificate l’ondata di profughi da smaltire è stata così grande che non lasciava alternative. Per scaldarsi durante la notte si bruciava tutto quel poco che si trovava compresi i vestiti non utilizzati. Ci sono stati, ci raccontano i volontari, anche casi di parti precoci a seguito dello stress e della stanchezza.

Avendo lasciato la macchina al di là del confine, verso sera ci rimettiamo in coda con i profughi per rientrare in Polonia. Ci colpisce molto la dignita di queste persone. Non sentiamo un lamento o una imprecazione. Ci si guarda solo negli occhi. Le storie che ci raccontano sono terribili e talmente crudeli che si fanno fatica a descrivere. Sono tutte persone che scappano dall’estremo est del paese, Mariopol, Charchowy, Donbas, Kiev…

Le uniche persone accompagnate dai volontari che accorciano le file sono solo alcuni anziani su carrozzine avvolti da coperte. Gruppi di persone poco nominate in questo conflitto, ma che rappresentano un altro lato debole della popolazione. Nessuno si lamenta di questo anche se la stanchezza e il freddo non aiutano. Dopo circa tre ore in fila ritorniamo in Polonia. A differenza dei profughi, abbiamo una macchina ad attenderci e un luogo sicuro dove ritornare. È notte fonda quando ritorniamo a casa presso la nostra comunità dopo quasi 24 ore di viaggio. Siamo stanchissimi, ma anche coscienti che abbiamo visto molto e come testimoni molto possiamo continuare a fare molto insieme a tutti voi. Dopo Pasqua probabilmente ci recheremo ancora in Ucraina questa volta per qualche giorno.

padre Luca Bovio IMC




Con la Consolata in Polonia per L’Ucraina /3


Kieplin, 19/03/2022. Con questo 3° aggiornamento provo a darvi a qualche informazione attuale salutandovi e ringraziandovi per le vostre preghiere e i vostri aiuti. Stiamo tutti bene sempre impegnati a organizzare vari aiuti.

Le ultimi informazioni ufficiali governative indicano che si è superato il numero di di 2.000.000 di profughi accolti in Polonia su una popolazione che sfiora i 40.000.000. La capitale Varsavia, che nel 2019 contava 1.800.000 abitanti, ha già accolto quasi 500.000 profughi. Si è fatto notare come questa, che riguarda la Polonia principalmente ma non solo, sia la piu grande ondata di profughi avvenuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. I numeri sono costantemente in crescita ed è ragionevole pensare che soltanto la fine del conflitto potrebbe mettere un freno a questa migrazione. La fine del conflitto tanto sospirata sembra essere ancora lontana.

Le stazioni dei treni di Varsavia sono allestite in modo da accolgliere le migliaia di persone che ogni giorno arrivano. Volontari di gruppi e associazioni umanitarie così come singoli cittadini, si impegnano giorno e notte fornendo informazionie e aiuti di prima necessità, come cibo, bevande calde e schede telefoniche prepagate. I mezzi di trasporto di tutto il paese sono gratuiti per i profughi. Ogni profugo ha diritto di ricevere il codice fiscale polacco che permette l’accesso al servizio di assistenza sanitario nazionale.

Come già scrivevo in precedenza sono pochissimi i palazzetti e le scuole che ospitano i grandi gruppi per dormire, perche la maggior viene ospitata nelle case di gente comune in tutto il paese.

Vorrei ringraziare due sacerdoti che abbiamo contattato telefonicamente a Lublino, non lontano dai confini con l’Ucraina, e che hanno organizzato in piena emergenza l’accoglienza per una notte di due gruppi di donne e di bambini. Ogni gruppo contava quasi cento persone. Il giorno successivo con dei pullman questi due gruppi sono partiti per Il Portogallo.

Qui a Łomianki continuiamo il lavoro in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita. Il numero dei profughi, circa 1500 nel solo comunenon è aumentato per una semplice ragione: non ci sono piu posti liberi nelle case. Il centro di distribuzione degli aiuti presso la parrocchia continua a lavorare ogni giorno grazie a un centinaio di volontari che fanno i turni. Gli aiuti che mandate sono distribuiti lì. E da lì sono messi a disposizione per le famiglie presenti ma anche spediti in Ucraina. Ricordo che i beneficiari sono prevalentemente mamme con bambini. I generi alimentari piu richiesti sono la farina, marmellate, olio non necessariamente di oliva, i semolini. Con parte delle vostre offerte questa settimana abbiamo acquistato una tonnellata e mezzo di farina, sufficiente per qualche giorno di distribuzione.

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki

Da pochi giorni si è unita alla nostra comunità una volontaria infermiera di Torino, Clara, che aiuta nello smistamento delle medicine che arrivano. Un lavoro umile e importante.

Stiamo riuscendo con l’aiuto di molti a organizzare l’accoglienza per i profughi in diversi luoghi in Italia.

Pochi giorni fa alcuni volontari di Sovere (Bg) sono venuti con le macchine per portare aiuti e al ritorno hanno viaggisto con ben 14 profughi che sono stati ospitati presso le famiglie del loro comune. Questa mattina l’associazione Eskenosen di Como similmente, dopo essere arrivati con ben 8 furgoni di aiuti sono ritornati con 11 madri e bambini di varie età.

Mi preme sottolineare che il desiderio di tutti i profughi è quello di tornare al più presto nelle loro case in Ucraina. Siccome non si sa ancora quando e in quale forma questo potrà avvenire (dipenderà molto dall’esito finale della guerra), alcuni sono disposti a intraprendere viaggi in paesi piu lontani per assicurarsi nell’immediato, un futuro piu sicuro e per i loro bambini continuare l’istruzione nelle scuole.

Nel caso di una eventuale disponibilità per l’accoglienza potete contattarci scrivendoci dove questa puo avvenire e le condizioni dell’alloggio. Queste sono informazioni basilari che possiamo dare ai profughi che devono fare, come immaginate, un grande atto di fiducia nel prendere queste decisioni.

Oggi e la festa di S. Giuseppe, festa dei papà. Affidiamo alla sua protezione tutti i papà del mondo specialmente quelle rimasti in Ucraina, e alla sua intercessione chiediamo la fine della guerra e una benedizione per tutte le famiglie.

Preghiamo per la pace, costruiamo la pace.

PadreLuca Bovio
Superiore dei missionari della Consolata in Polonia

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki


Post precedenti

Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia

In Polonia per Ucraina con la Consolata /2




In Polonia per Ucraina con la Consolata /2

Carissimi
con questo terzo scritto provo ad aggiornarvi su quanto sta accadendo attorno a noi in questi ultimi giorni. Permettetemi come sempre di ringraziare anzitutto quanti da ogni parte d’Italia e non solo, in diverse forme e modi, continuano a sostenere i progetti che abbiamo intrapreso come missionari della Consolata presenti in Polonia.

Arrivo degli aiuti della parrocchia di sant’Anna di Milano.

Nella nostra comunità di Kiełpin proprio oggi salutiamo Pietro e la figlia Anastasia che scappando dall’Ucraina, dopo aver vissuto in casa nostra per una decina di giorni, voleranno in America dove ad attenderli ci sono dei familiari.

La scorsa notte hanno dormito in casa nostra anche una mamma Anastasia con i due figli Ivan e Yeva. Siamo riusciti ieri a far loro avere un visto dall’Ambasciata italiana, che ringraziamo sinceramente, e dopo un breve riposo nel cuore di questa notte hanno preso un volo per Milano. Sono già arrivati accolti da alcuni loro familiari.

La nostra comunità sarà presto di nuova pronta per accogliere ancora qualcuno nei prossimi giorni.

Sempre ieri dall’Italia è arrivato il primo trasporto di aiuti, organizzato dalla famiglia Pozzi e amici, provenienti dalla Parrocchia di S. Anna (Milano) e da un gruppo di simpatici tifosi interisti a cui piace farsi chiamare ironicamente “internati”, persone sensibili a organizzare raccolte di materiale per portare consolazione ai colpiti della guerra. A nome dei volontari che hanno accolto i loro preziosi aiuti un grande grazie. Già la prossima notte aspettiamo tre automezzi in viaggio in queste ore, partiti da Sovere (Bergamo). Altri trasporti si stanno organizzando ancora i prossimi giorni. Ricordiamo che i beneficiari di queste raccolte sono soprattutto donne e bambini. Ieri presso il punto di distribuzione della Parrocchia oltre 400 persone hanno beneficiato di questi aiuti. Attualmente sul territorio delle nostre parrocchie sono ospitate 1500 persone, tutte presso le famiglie. Questa situazione prevediamo che durerà a lungo.

 

Accoglienza

Mi sento di dire qualcosa sul tema dell’accoglienza in senso generale che sta avvenendo nel nostro paese. I numeri sono vertiginosi. Pochi giorni fa il governo parlava già ufficialmente di 1.500.000 profughi accolti. Questa cifra ad oggi va sicuramente aggiornata in forte crescita. È risaputo che per vari motivi la Polonia si presenta come il paese che offre migliori possibilità per i profughi. Come spesso ripetiamo e i media ben dimostrano, la maggior parte di essi sono mamme con bambini ucraini. Alcune voci, sostenute anche da articoli pubblicati qua e là, creano qualche dubbio su questa reale apertura del governo polacco nei confronti di coloro che provengono sì dall’Ucraina ma che non sono ucraini. Si tratta di persone presenti in Ucraina per motivi di studi o di lavoro prevenienti dall’Africa o dall’Asia che, trovatisi in mezzo al conflitto, cercano anche loro di fuggire dal paese. Pochi giorni fa mi trovavo sulla banchina dei treni della stazione centrale di Varsavia, punto di arrivo di moltissimi profughi perché, tra l’altro, nella capitale ci sono le ambasciate di tutti i paesi. I treni provenienti dal confine sono tutti pieni di passeggeri che viaggiano gratuitamente. Ho visto personalmente scendere dal treno migliaia di profughi e tra questi, centinaia di loro avevano i tratti somatici di persone non ucraine, per intenderci africani e asiatici. Non solo. La nostra comunità ha accolto una giovanissima coppia di studenti nigeriani che scappava di Kiev, con il loro neonato di 4 mesi. Attualmente vivono dai nostri vicini. Così come un nucleo familiare di origine gambiana.

Detto questo, mi sento di poter affermare come testimone (con tutti i limiti che la mia testimonianza può avere) che non posso escludere a priori singoli casi di problemi nell’accoglienza nel contesto delle cifre che ricordavo prima, ma non c’è stata una discriminazione organizzata. Piuttosto vorrei fa rilevare come si sia messa in moto spontaneamente una gigantesca organizzazione di accoglienza che coinvolge un intero paese. Qualcuno faceva giustamente notare come sia pochissimi i grandi hub ufficiali sotto i quali i profughi trovano riparo e protezione, quanto piuttosto il maggior numero di essi sia accolto presso le famiglie, in un clima molto meno anonimo e molto più umano.

Nella comunità di Kiełpin

Il dramma delle famiglie miste russo-ucraine

Vorrei anche condividere un aspetto che i media mi sembra che non sottolineano abbastanza. Il tessuto sociale delle famiglie presenti in Ucraina, al di là del fatto che scappino o restino, non è come sembra a vista d’occhio divisibile: da una parte le famiglie ucraine attaccate dalle forze russe, così come il conflitto sembra mostrare. La realtà vista più da vicino mostra che i nuclei familiari spesso sono costruiti con dei mix. Ad es. mamma ucraina e marito di origine russa o bielorussa. Oppure il contrario. Lo stesso fenomeno si può leggere al contrario. Anche tra i soldati dell’esercito russo non è raro trovare uomini che hanno origini familiari ucraine. Questa informazione mi sembra importante da tenere in conto anche se rende ancora più tragica e senza senso questa guerra.

In conclusione, vi saluto tutti a nome anche dei confratelli e dei tanti volontari che ogni giorno cercano di portare un po’ di sollievo. Preghiamo per la pace, costruiamo la pace

padre Luca Bovio
Superiore dei missionari della Consolata in Polonia
Kiełpin 11.03.2022

Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia (prima parte)

Per aiutare:
fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus,

specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Per chi desidera contattare padre Luca per inviare cibo e medicine, scrivete a konsolatapl@gmail.com


 




Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia


Aggiornamento al 4 marzo 2022 |

Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Łomianki, 5 marzo 2022, visita del Nunzio apostolico, mons. Salvatore Pennacchio al centro di raccolta che ad oggi ufficialmente segue 1200 rifugiati, tutti ospitati nelle famiglie.

 


Notizie 4 marzo 2022

Carissimi tutti,
condivido qualche aggiornamento sulla situaizone che stiamo vivendo, ringraziando ciascuno (e siete davvero tanti!) per linteresse e gli aiuti che state organizzando.

La situazione in generale, come è ben descritta da tutti i mas media, è quella di un costante e continuo giornaliero aumento di rifugiati specialmente qui in Polonia. Notevole è lo sforzo di accoglienza che si sta organizzando.

Il nostro aiuto, come missionari della Consolata presenti in Polonia (siamo qui da anni attualmente con 6 confratelli provenienti da 5 paesi diversi da tre continenti) come vi ho scritto precedentemnte, si sviluppa in tre direzioni:

  • Accoglienza dei profughi
  • Raccolta di beni
  • Raccolta di offerte

Dove aiutiamo:

Kiełpin – Łomianki (vicino a Varsavia)

La nostra comunità di Kiełpin collabora strettamente con la parrocchia di s. Margherita, sul terreno della quale ci troviamo. Qui il numero di profughi ospitati ad oggi è di oltre 800 persone. Il numero è in costante e regoalre crescita. Questo si spiega per il fatto che siamo a pochi chilometri dalla capitale, Varsavia, dove si trovano le ambasciate di tutti i paesi. Molti profughi, infatti, cercano di raggiungere i propri familiari anche fuori dall’Europa come ad esempio in America e per questo hanno bisogno dei documenti e dei permessi. I rifugiati sono principalmente ucraini, donne e bambini ma con non rare eccezioni. In casa nostra ospitiamo un papà ucraino Pietro con la figlia Anastasia di 9 anni. Sono scappati dalla regione del Donbas in accordo con la moglie inpossibilitata a partire a motivo dell’invalidità della sua mamma che è su una sedia a rotelle. Vorrebbero raggiungere un familiare in America.

I nostri vicini di casa, Raffaele e Giulia da poco sposati, stanno ospitando in casa invece una giovane coppia di nigeriani con un neonato di soli 4 mesi. Essi sono scappati da Kiev dove stavano studiando all’università. Questi sono piccoli esempi di storie ordinarie di questi giorni. La maggiornaza dei profughi qui presenti sono comunque mamme e bambini ucraini.

Białystok

A Białystok gia da mesi stiamo collaborando con la caritas locale con aiuti arrivati dall’Italia a favore dei migranti bloccati sul confine (che ancora ci sono) prima ancora che scoppiasse il conflitto. Di fronte all’emergenza di questi giorni è nostro impegno continuare questa collaborazione. Stiamo preparando una nuova sede piu spaziosa nel centro della città dalla quale potremo in un futuro prossimo organizzare diversi aiuti a seconda delle necessatà ed emergenze. Qui al momento i flussi dei profughi non sono altissimi come in altre regioni della Polonia per un motivo semplicemnete geografico, questa città confina con la Bielorussia con la quale i confini sono rigorosamente chiusi. Tuttavia, già ieri i primi profughi sono arrivati anche a Białystok e se ne prevedono altri.

Ukraina – Konotop

La nostra comunità ha da 5 anni vicino a sé una fondazione di volontariato giovanile missionario col nome: Opera per la missione. In breve, sono i nostri giovani volontari missionari polacchi provenienti da tutta la Polonia con base presso la nostra comunità. Essi tra le tante iniziative, da tempo hanno un contatto sul luogo in Ucraina a Konotop, una cittadina di circa 85.000 abitanti a 250 km. a nord est da Kiev, non lontano dal confine con la Russia. Qui vive un frate francescano p. Romualdo. Prima che iniziasse la guerra, c’era il piano di fare un campo di lavoro lì questa estate, piano che ora inevitabilmente è stato abbandonato. I nostri giovani volontari non si arrendono e sono in contatto in questi giorni con p. Romualdo e insieme stiamo organizzando in quale forma aiutare lì, sul posto, con l’invio di offerte (più probabile) e se riusciremo di beni. Purtroppo, quella zona e fortemente militarizzata e occupata.

Luca Bovio


Notizie 3 marzo 2022

Lavoriamo in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita in Łomianki vicino a Varsavia, sul terreno della quale la nostra comunità di Kiełpin si trova, e con la Caritas. Di fronte alle richieste della situazione, abbiamo creato tre aree di aiuto:

1. Accoglienza dei profughi.

Sono già partite delle macchine dalla parrocchia dirette al confine con lo scopo di portare qui i primi profughi. dalle informazioni che abbiamo si tratterebbero di madri con bambini. Stiamo organizzando l’accoglienza presso le famiglie che si dichiarano pronte per questo. Anche la nostra comunità si è resa disponibile.

2. Raccolta di generi di aiuto.

I beneficiari dei generi raccolti sono sia le persone qui ospitate nelle nostre case,  sia le persone rimaste nel paese. Iniziamo a raccogliere cibo che non si deteriori, indumenti in buono stato (anche per bambini), prodotti per la pulizia della casa, medicinali, ecc…

3. Offerte in denaro

I soldi raccolti serviranno a coprire i costi per i servizi resi alle persone qui sul luogo e in Ucraina come ad. esempio, pagamenti d’affitto di casa se ce ne fosse bisogno, aiuto dato a famiglie che ospitano ma che non hanno le possibilità economiche, cure mediche, ecc.

 

Le immagini sono del centro di raccolta e di distribuzione presso la parrocchia e la nostra comunita di Kielpin. Ad oggi (2 marzo 2022) sono gia ospitate piu di 600 rifugiati nel nostro comune di che conta circa 20.000 abitanti.

Queste sono le prime informazioni che posso darvi in una situazione che, come potete immaginare, è in continuo divenire.

notizie ricevute tramite padre Luca Bovio
superiore del gruppo dei missionari della Consolata in Polonia


Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”

 

 




Nel cuore e alle frontiere d’Europa

Il vecchio continente è il «qui e ora» della missione. Per i Missionari della Consolata è il luogo delle radici, della sorgente del loro carisma. Sempre più è vera frontiera di testimonianza, annuncio e consolazione.

Non come lupi solitari, ma come tessitori di reti.

«Le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità» (Laudato si’, n. 17).

Questa breve citazione di papa Francesco, tratta dall’enciclica Laudato si’, sarebbe potuta essere il cappello sotto cui collocare tutta la riflessione della prima Conferenza della neonata Regione Europa dei Missionari della Consolata.

Questo incontro, iniziato in streaming lo scorso mese di maggio e conclusosi in presenza a Fátima (Portogallo) dal 20 al 24 settembre 2021, ha di fatto sancito l’unione in un’unica circoscrizione (iniziata giuridicamente due anni fa) delle nostre comunità di Missionari della Consolata in Italia, Polonia, Portogallo e Spagna.

Ne è nato un documento interessante, il Progetto missionario regionale, una sorta di vademecum che, definendo in modo chiaro alcuni obiettivi, cerca di individuare criteri e linee di azione per giungere a una nuova comprensione, e quindi a un nuovo orientamento di ruolo e azione, del missionario della Consolata oggi in Europa.

Momenti della Conferenza e veduta dei partecipanti

Il contesto

Come emerge chiaramente dalla citazione di papa Francesco, il confronto con l’hic et nunc, il «qui e ora» della missione, deve essere l’imprescindibile punto di partenza come anche l’auspicato traguardo dell’impegno missionario nel continente.

La Conferenza ha ribadito l’importanza di dedicare tempo e attenzione all’analisi del contesto, in modo che essa possa diventare atteggiamento e metodo, ispirazione e prassi.

È inutile ricordare come la missione in Europa sia stata caratterizzata fino a non molti anni fa da una dimensione totalmente opposta: era una missione ibi et post, «lì e dopo», che si svolgeva altrove, e per la quale in Europa ci si preparava, tanto da un punto di vista accademico professionale, quanto economico e strutturale.

La Conferenza regionale ha scelto di focalizzare il proprio lavoro sull’analisi della realtà, nella consapevolezza che è il contesto che sceglie noi, ci interpella come cristiani e missionari, ci obbliga a prendere decisioni, orientare la preghiera, ispirare l’azione.

Mentre scrivo, svariati paesi dell’Europa sono nuovamente sfidati da una crescita esponenziale del Covid, le cui conseguenze economiche e sociali generano un malcontento popolare difficile da controllare e per giunta cavalcato in modo opportunista e strumentale da frange estremiste e xenofobe.

Al confine orientale dell’Unione europea va in scena una tragedia umana di dimensioni epocali con migliaia di migranti esposti ai rigori dell’inverno, che rischiano di morire di freddo, stenti o botte al confine tra Polonia e Bielorussia.

Reticolati e muri diventano la cifra delle nostre relazioni, mentre la Cop26 ha lasciato senza risposta gli interrogativi circa la volontà dei governi di assumere impegni concreti e soprattutto urgenti e credibili nei confronti della salvaguardia del pianeta (cfr il Dossier di questo numero).

In soli dieci giorni tutti questi fatti sono stati oggetto di cronaca, hanno rappresentato il «qui e ora», uno scenario in cui anche il missionario può dire la sua. Anzi, è chiamato a farlo.

11.11.2021 – Fot. Irek Dorozanski / DWOT

Dal Marocco alla Bielorussia

Ecco allora che, qualcuno dice profeticamente, la prima Conferenza della Regione Europa Imc ha dato il visto buono all’apertura della comunità di Oujda, in Marocco, vicino al confine con l’Algeria. Il Marocco non è in Europa, ma Oujda è, oggi, un punto di approdo per chi ha appena terminato di attraversare il deserto e arriva in condizioni di grande bisogno a un punto cruciale del suo viaggio della speranza verso l’Europa. Sono stati i nostri confratelli in Spagna, da anni parte di una rete/osservatorio sui movimenti migratori nel Mediterraneo, a spingere affinché l’Istituto scegliesse un impegno concreto in questa realtà.

La stessa Conferenza ha dato il via libera alla volontà dei missionari della Consolata in Polonia, di aprire una seconda comunità, in una città a trenta chilometri dalla frontiera con la Bielorussia.

Nel 2008, il nostro Istituto aveva scelto di dare vita a una presenza in Polonia per essere germe di universalità e interculturalità in una Chiesa tradizionalmente molto forte, ma che sentiva il bisogno di essere maggiormente stimolata nella propria dimensione missionaria.

Sarebbe dovuto anche essere un primo passo verso un’ulteriore apertura nell’Est Europa. Oggi, è significativo essere presenti come segno di fraternità universale in quella frontiera simbolo della chiusura delle nostre frontiere e dei nostri cuori.

Senza il bisogno di tante parole, le nostre comunità interculturali, formate da confratelli provenienti da tre diversi continenti, annunciano che la logica del Vangelo è quella del ponte, non certo quella del muro o del cavallo di frisia.

Ovviamente, è importante formarsi in maniera adeguata a questa missione. Il Progetto missionario regionale europeo ha ben chiaro che soltanto chi saprà usare in modo armonico Bibbia e giornale, spiritualità e attenzione alla realtà, riuscirà a penetrare le pieghe di una cultura in continua evoluzione e rispondere a sfide importanti come quelle che la Chiesa sta vivendo oggi in Europa: la perdita di significato e di credibilità, la marginalizzazione, l’essere divenuti minoranza.

Educarsi alla missione in Europa, oggi richiede il coraggio di cambiare paradigma formativo, associando alla ricerca di una spiritualità forte, costruita sull’incontro costante e profondo con la Parola, l’inserimento in comunità che siano allo stesso tempo apostoliche e formative, in cui la ricerca di una buona preparazione accademica si sposi con un’approfondita conoscenza della realtà e delle persone che la compongono.

Climate March

Carisma

Va da sé che la bontà o meno del Progetto regionale, la sua assunzione da parte delle comunità di missionari della Consolata e la messa in pratica nelle varie attività regionali, dipenderanno in gran parte dalla capacità che le comunità avranno di rileggere e interpretare il carisma del nostro istituto alla luce dell’oggi.

Le nostre comunità Imc in Europa, in particolare quelle in Italia, sono depositarie di un patrimonio spirituale e carismatico importante. Esse vivono e operano nei luoghi dove tutto ebbe inizio, ma guai se questi si trasformassero in una sorta di museo spirituale, dove trovare una collezione di cimeli con i quali crogiolarsi nel ricordo dei «bei tempi andati».

Oggi il nostro Istituto, come del resto altre congregazioni fondate più o meno nello stesso periodo (a cavallo fra 19° e 20° secolo), sta vivendo un’esperienza particolare: da una parte l’estinzione di una generazione di missionari che ha conosciuto o è stata molto vicina alle fonti dirette del carisma, le ha studiate e tramandate, alcune volte pubblicando testi che sono ancora imprescindibili per chi vuole conoscere la storia e lo spirito delle nostre missioni; dall’altra l’emergere di una nuova generazione di missionari che corre il rischio di perdere il legame vitale con la storia dell’Istituto e quindi di non essere capace di trasmettere con efficacia l’eredità spirituale di chi ci ha preceduto.

La Regione Europa Imc ha il dovere di continuare a essere «culla» del carisma, ma deve altresì essere anche «girello», strumento attraverso cui il pensiero di Giuseppe Allamano e le intuizioni significative dei missionari cresciuti sotto le sue ali, vengono portati per le vie della nostra missione di oggi nel continente. Pensieri e intuizioni depurati di tutto quanto non è più attuale e creativamente nutriti delle nuove e dinamiche manifestazioni dello Spirito.

Manifestante alla protesta contro il mandato vax protesta con cartello con messaggio “Nessun vaccino forzato”

Le parole della missione

Come comprendere e declinare, allora, alcune parole che fanno parte del nostro bagaglio missionario alla luce di dove e di quanto stiamo vivendo?

La parola annuncio, per esempio, attraverso la quale il missionario riscopre oggi, anche in Europa, il suo ruolo di araldo del Vangelo, di messaggero del primo annuncio, di testimone di Cristo, presentato a chi non lo ha incontrato prima o a chi, forse, ne ha soltanto sentito parlare in tempi ormai lontani.

Oggi, il missionario, per essere tale, per poter continuare a fregiarsi di un titolo che gli viene attribuito in virtù di una vocazione specifica, non può abdicare alla missione di cercare «i lontani», anche quelli che si trovano dietro l’angolo, di entrare in dialogo con quelle frange di umanità che non hanno mai frequentato, o non frequentano più, i nostri abituali recinti.

Come comprendere oggi la parola consolazione? L’assemblea dei missionari riuniti in Conferenza ha cercato di leggere la portata attuale di questo termine che è parte del nostro nome, parola con la quale ci presentiamo. Le nostre comunità non cessino di essere presenza viva, autentica e prossima a chi sta sempre ai margini, affamato di compassione e condivisione.

Che senso possiamo dare oggi alla parola parrocchia, perché indichi una realtà che sia un segno distintivo del nostro modo di vivere la missione ad gentes, soprattutto nelle periferie delle città europee?

Come ricomprendere il termine economia, riferita alla vita materiale delle nostre comunità Imc, in modo che diventi non soltanto uno strumento funzionale all’organizzazione della vita e delle opere dei missionari, ma sia una vera e propria dichiarazione di intenti nella testimonianza di giustizia, impegno per la pace e salvaguardia della casa comune nella quale viviamo?

Riempire le parole di un significato nuovo e attuale, non lasciare che risuonino vuote, fare in modo che parlino veramente alla testa e al cuore delle persone che incontriamo, è una delle prime condizioni per dare corpo alla nostra missione in Europa.

Celebrazione eucaristica presieduta da padre Alvaro Pacheco

Camminare insieme

Sappiamo che la strada da percorrere non è facile.

I missionari della Consolata riuniti a Fátima non hanno peccato di ingenuità, e sono stati ben contenti di ritrovarsi insieme in un luogo benedetto dalla presenza della Vergine Maria, loro protettrice, per affidare ancora una volta a lei le scelte impegnative che li attendono dietro l’angolo.

Alcune circostanze del contesto europeo non vanno prese sottogamba, e obbligano chi dirige oggi il cammino della Regione a fare i salti mortali per riuscire ad armonizzare l’utopia con il disincanto, la provvidenza con il realismo.

In alcuni casi saremo certo obbligati a puntare al ribasso: la nostra missione è oggi più povera di risorse, tanto umane quanto economiche, rispetto al passato; ciò avviene per tante e diverse ragioni che vanno dalla perdita, nella società, del senso religioso e dell’affezione verso il mondo missionario, al crollo di fiducia (soprattutto delle generazioni più giovani) verso la Chiesa vista come istituzione.

Stiamo diventando (fisicamente e metaforicamente) più anziani e, con l’età, non mancano gli acciacchi. Questo ci obbliga a «dimagrire», a spendere energie in un processo di spoliazione tanto doloroso quanto inevitabile. Questo fenomeno, non serve nascondersi dietro un dito, condizionerà le scelte attuali e future e andrà tenuto sempre presente per poter progettare una missione che sia anche fattibile.

Tuttavia, non siamo esentati dal sollevare la testa guardandoci intorno. Dobbiamo continuare a dire: «Possiamo», se lo vogliamo, e, soprattutto, se crediamo fermamente che lo vuole il Signore. Lui non farà mancare il suo aiuto nei momenti di aridità, di «impantanamento», di difficoltà anche drammatica, come tante volte ha dimostrato nel passato. A noi sta il compito di provarci sempre e comunque.

Nel corso dei prossimi mesi, MC vi porterà a spasso per alcune delle nostre comunità in Europa, perché vogliamo condividere con voi alcuni tentativi già in atto di vivere l’ad gentes alla luce dei tempi e dei luoghi in cui siamo inviati ad annunciare il Vangelo.

Saranno questi percorsi, accompagnati dalla viva voce dei missionari che li hanno intrapresi, a spiegare con chiarezza, sicuramente meglio delle parole di questo articolo, che cosa intendiamo per missione in Europa oggi.

Nel fare questo, inoltre, non nascondiamo il nostro desiderio di coinvolgere in questa avventura anche voi che, in questo momento, state leggendo MC.

L’invito a seguirci che vi rivolgiamo, vuole, infatti, sancire un altro dei criteri che il Progetto regionale reputa fondamentali per vivere la nostra missione nella gioia ed efficacemente: fare rete, non pensare di voler costruire il Regno di Dio da soli, camminare con altri.

La Chiesa oggi chiama questo stile «sinodalità», e dà a esso così tanta importanza da aver deciso di istituire un Sinodo su questo tema, e di voler dedicare il tempo che intercorrerà tra adesso e la sua celebrazione (ottobre 2023) a un cammino di ripensamento della Chiesa sulla base del coinvolgimento comunitario. La missione oggi in Europa non può essere fatta da «lupi solitari»; non è più il tempo per camminare da soli.

A questo riguardo, nel ribadire che il vero agente della missione è la Chiesa locale, la Conferenza dice che, pur preservando le nostre specificità e il nostro carisma, è soltanto all’interno di essa e in comunione con essa che la nostra missione sarà gioiosamente efficace, gratificante e, chissà, magari anche profetica.

Il nostro stile di presenza in un mondo caratterizzato sempre più dalla multiculturalità ci apre a bellissime esperienze di collaborazione in tutto il Continente, tanto nel catecumenato, quanto, più in generale, nella catechesi degli adulti, nella formazione dei catechisti e nella pastorale migranti.

In contesti, anche ecclesiali, tentati dalla chiusura e dall’autoreferenzialità, il nostro apporto negli uffici missionari delle varie diocesi può essere (e di fatto lo è) valorizzato come una boccata d’aria fresca. Sempre e soltanto nel momento in cui, però, la chiesa locale diventi veramente famiglia, compagna di viaggio.

Infine, sempre nello spirito della sinodalità, la nostra missione in Europa deve continuare a guardare fuori dal proprio orto. Grazie alla generosità e al sacrificio di tanti, le nostre comunità hanno potuto costantemente dare una mano a quelle degli altri continenti. Secondo il principio che si può aiutare le nuove chiese sia partendo che donando, molti nostri benefattori ci hanno permesso di non essere estranei a tante situazioni di dolore e necessità nel mondo.

Chiediamo però che questa disposizione, sempre attiva nel sostenere progetti di sviluppo, programmi di formazione e sostegno a distanza, crei rapporti di interscambio con altre realtà del mondo che, grazie al dono della loro cultura e delle loro tradizioni, possano aiutarci a far comprendere e accogliere alle nostre chiese il dono dell’altro.

Ugo Pozzoli
* Regione Europa Imc

Visione generale del Santuario di Fatima dalla spianata




Altrove in ogni dove

testo di Ugo Pozzoli |


Prima puntata di una serie di riflessioni e racconti di esperienze sul campo per inquadrare la missione nel vecchio continente. Dallo spunto del messaggio del papa per la giornata missionaria, mettiamo i primi tasselli.

«Tutto in Cristo ci ricorda che il mondo in cui viviamo e il suo bisogno di redenzione non gli sono estranei e ci chiama anche a sentirci parte attiva di questa missione». Così scrive papa Francesco nel messaggio per la Giornata missionaria mondiale in programma il 24 ottobre.

«Il mondo in cui viviamo» è il contesto nel quale ci troviamo, l’ambiente dove siamo chiamati a vivere la nostra fede come persone e comunità cristiane.

«Nessuno è estraneo – continua Francesco -, nessuno può sentirsi estraneo o lontano a questo amore di compassione», amore che avvicina, tocca, chiama, convoca, sana, perdona, riconcilia… salva.

Tutti chiamati a essere «altrove e in ogni dove», dove l’altrove è uno spazio diverso dal nostro, da quello che occupiamo, dal metro quadrato dei nostri bisogni, delle nostre certezze, del nostro io ingombrante. L’ogni dove è dappertutto, ogni spazio conosciuto e non, al di là di oceani e deserti o anche solo dietro l’angolo, magari dentro di noi.

L’altrove è lontano

Facciamo fatica ad accogliere l’idea che «altrove e in ogni dove» può essere anche qui in Europa. Questo, del resto, è anche abbastanza comprensibile, per esempio, per un Istituto come il nostro, nato in Italia all’inizio del XX secolo (1901), in un tempo di piena espansione missionaria (e coloniale), quando la terra di origine era considerata «solo» una «base logistica» di missioni concepite per altri continenti.

«Siamo per i pagani», recitava il mantra del buon missionario animato dallo spirito di quel tempo. Siamo per i non cristiani, per andare in Kenya, Etiopia, Tanzania, Mozambico; poi in America: Brasile, Argentina, Colombia; infine, in Asia. In Europa si rimaneva per servizi specifici in favore dell’Istituto, e si ritornava, obtorto collo, per dare una mano in quella che prima era chiamata «propaganda» e poi «animazione» missionaria, l’attività che aveva lo scopo di sensibilizzare le nostre Chiese alla missione, raccogliendo fondi e suscitando vocazioni, per continuare il lavoro ad gentes da un’altra parte, qualunque essa fosse.

L’altrove è qui

Oggi non è più così. Stiamo vivendo un tempo che non è soltanto un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento di epoca.

È sufficiente guardare le nostre chiese vuote e le strade piene di gente di ogni provenienza per capire che i crocicchi dove il Signore ci invia a chiamare partecipanti al banchetto del Regno (Mt 22, 9) possono essere gli incroci dei quartieri delle nostre città europee. Sentirsi chiamati e inviati ad annunciare il nome di Cristo a chi non lo ha mai sentito pronunciare non implica obbligatoriamente dei grandi spostamenti. Quegli «estremi confini» che rappresentano l’orizzonte del mandato missionario, risultano essere a volte fisicamente vicini. Eppure, non per questo più facili da raggiungere.

La missione è un dono ricevuto che a nostra volta offriamo, è il dono della fede, aperto alla speranza e reso autentico nell’amore. È il frutto di un’esperienza di incontro con il Signore, un incontro talmente profondo e significativo che cambia la vita e stimola alla condivisione, a far parte con altri della ricchezza ricevuta.

Oggi più che mai, anche in Europa, questo dono aspetta di essere scambiato.

Non possiamo tacere

«Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» è il titolo del messaggio che il papa rivolge quest’anno alla cristianità in occasione di questa domenica speciale dedicata alla missione. È una citazione dal libro degli Atti degli Apostoli (At 4,20), il libro della missione tanto caro a Francesco, «Cosa, però, abbiamo visto e ascoltato? O per meglio dire, abbiamo visto e ascoltato qualcosa?».

Vedere e ascoltare sono verbi fondamentali per chiunque voglia imbarcarsi nell’avventura di essere discepolo missionario del Vangelo.

Ma vedere e ascoltare che cosa? Innanzitutto, la realtà. Vivere con attenzione per poter cogliere i segni dei tempi: leggere la vita che scorre nelle vene di questo nostro continente, e non leggerla soltanto attraverso le pagine di un libro.

Il missionario è persona che si cala nel contesto e incontra la cultura del suo tempo nel luogo nel quale essa esiste e si esprime: nelle persone.

La missione nasce da un incontro, si perfeziona nel dialogo e si concretizza in un abbraccio.

Eppure, lo sappiamo bene, si possono vivere un tempo e un luogo senza realmente vederli e sentirli. Anche oggi, anche qui, nel mondo dove, come dice Francesco nel suo messaggio, la pandemia ha evidenziato e amplificato il dolore, la solitudine, la povertà e le ingiustizie di cui tanti già soffrivano, si può vivere senza rendersi conto di ciò che chiama la nostra presenza e, se non ce ne rendiamo conto, neppure ce ne facciamo carico.

La pandemia colpisce in particolare le persone più vulnerabili, che restano indietro e rischiano di diventare invisibili e il cui grido rimane muto.

L’esperienza di vedere e ascoltare l’uomo non può prescindere, per il missionario, dall’esperienza del vedere e ascoltare il Maestro, Gesù.  L’incontro con l’uomo è in stretta connessione con ciò che abbiamo visto e ascoltato nell’incontro con Lui, con ciò che abbiamo appreso e che non possiamo tenere per noi stessi. Non possiamo tacere l’amore che ci sospinge. E siamo chiamati a condividerlo lì dove ci troviamo, facendo nostre le ansie, le gioie, le paure, i sogni delle persone che quotidianamente incontriamo.

YARA NARDI /ITALIAN RED CROSS – salvando un migrante in mare

Sognare l’Europa

Proprio i sogni, ci ricorda ancora papa Francesco, sono importanti, e lui ne ha riservati parecchi anche per l’Europa. Nel messaggio pronunciato il 6 maggio 2016, in occasione del conferimento del premio Carlomagno, il papa si è rivolto alla terra dei suoi avi (l’Europa appunto) confidandole i sogni che nutre per lei. Merita riportarli qui, perché ognuno di essi rappresenta un possibile impegno missionario verso una terra che ha bisogno di sentire nuovamente scorrere nelle sue vene aperte il flusso inarrestabile del Vangelo: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, “un costante cammino di umanizzazione”, cui servono “memoria, coraggio, sana e umana utopia”. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo.

Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».

Sognare missione Europa

Nei prossimi mesi, a partire da questo, MC vi porterà a spasso per il nostro vecchio continente, facendovi percorrere le strade intasate di un quartiere multietnico di una grande città del Nord Italia, partecipare alla vita che si svolge quotidianamente fra i palazzoni della periferia di Lisbona, esplorare le rotte mediterranee della miseria e della speranza che uniscono il Nord Africa con la Spagna. Vi farà incontrare persone, consacrate e non, che vivono la loro missionarietà senza farsi troppi scrupoli sul dove e il perché, ma semplicemente, come dice ancora Francesco nel suo messaggio, «lasciano fiorire il miracolo della gratuità, del dono gratuito in sé» e vivono la loro vocazione come restituzione di quanto hanno ricevuto, confidando che il sogno possa, al risveglio, trasformarsi in realtà.

Ugo Pozzoli

 * Regione Europa IMC

Senzatetto – Lisbona, Portogallo




Europa la missioni ci sfida alla novità


La visita di Papa Francesco a Lampedusa e quella più recente all’isola di Lesbo hanno contribuito, attraverso il potere forte delle immagini, a rendere l’idea che la missione in Europa sta cambiando. Anzi, ha già modificato il suo volto: basta guardarsi in giro, esplorando facce e contesti. Questa trasformazione esige oggi risposte diverse rispetto a quelle che la Chiesa e gli Istituti missionari erano abituati a dare in passato.

Il fenomeno delle migrazioni di massa che hanno riversato nelle nostre vie e nelle nostre vite persone di differente credo e cultura si è incrociato con il progressivo invecchiamento della chiesa. Questa appare sterile ed incapace di coinvolgere le nuove generazioni nell’entusiasmo evangelico e nell’incontro/confronto con la complessa realtà secolarizzata e scristianizzata di gran parte dell’Europa.

Questo cambiamento epocale interpella innanzitutto la nostra chiesa locale, e, dentro di essa, gli Istituti missionari che non possono semplicemente stare a guardare, ma sono chiamati a offrire risposte adeguate e competenti, mettendo a disposizione il loro carisma specifico con determinazione e originalità. Serve, oggi, un «progetto missionario» per l’Europa che individui obiettivi e ambiti specifici in cui la nostra missione venga definita con chiarezza e illumini le nostre scelte. Il momento critico che stiamo vivendo può diventare un’opportunità in cui, di fronte alla tentazione, ormai ben radicata nella mentalità di molti, di creare muri e barriere, si possa opporre il modello delle nostre «comunità ponte», interculturali e segno di frateità universale.

Il primo passo in questa direzione consiste nel coltivare una maggiore consapevolezza della nostra identità, riandando all’essenza del nostro carisma e confrontandolo con la mutevole realtà del continente. Se siamo missionari, lo siamo ovunque, anche qui in Europa. Il nostro carisma non ci spinge ad essere missionari soltanto per l’Africa, l’America Latina o l’Asia, ma per tutti coloro che non sono cristiani, dovunque essi siano. Come missionari, destinati a un primo annuncio del Vangelo, sentiamo l’urgenza di andare verso quelle persone e popoli che ancora non conoscono la Buona Notizia o l’hanno completamente dimenticata. Quindi anche in Europa.

Se questo è il criterio di fondo, resta da approfondire in che ambiti e con che stile siamo chiamati a essere missionari oggi in Europa.

Il mondo giovanile, quello dei poveri e degli emarginati, il complesso mondo dei media in cui far risuonare la Buona Notizia, sono contesti che sempre ci hanno visti impegnati nella nostra attività evangelizzatrice e con cui dobbiamo oggi continuare a confrontarci. Nel fare ciò, è però necessario che il missionario si caratterizzi e contraddistingua per scelte di campo precise, che non snaturino ed appiattiscano il suo carisma originale uniformandolo a quello di altre forze ecclesiali.

Oggi, la presenza del nostro Istituto in Europa, tradizionalmente dedicata all’animazione missionaria e vocazionale e alla formazione di futuri missionari, richiede di trovare nuove vie.

Una di esse potrebbe essere quella di guardare alla realtà con gli occhi dei nostri confratelli giovani, in gran parte provenienti da altri continenti. La loro sensibilità e il loro modo di vedere può cogliere aspetti nuovi e offrire proposte alternative agli schemi tradizionali. Il confronto di questa nuova sensibilità con l’esperienza di chi, nato in Europa, si è arricchito con anni di impegno missionario in altri continenti può dare frutti inediti. Se novità ed esperienza si incontrano, da una parte si può superare la frustrazione di una sterile ripetitività, dall’altra si tracciano nuove piste sulla solidità di un bagaglio umano e spirituale maturato negli anni.

E la missione in Europa sarà capace di scoprire le mille meraviglie che Dio continua a operare in questo continente.

Ugo Pozzoli




Missione Europa: dalla memoria all’azione


Due anni fa, come missionari e missionarie della Consolata abbiamo promosso in tutte le nostre comunità sparse per il mondo un anno speciale dedicato al beato Giuseppe Allamano. Lo scopo di quell’iniziativa era di riscoprire e rinnovare il legame affettivo con la persona del nostro fondatore, per scongiurare il rischio di lasciare arrugginire il rapporto vitale con la nostra storia.

Quando uno entra a far parte dei missionari della Consolata,  è chiamato a vivere una relazione speciale con l’Istituto, che l’Allamano ha sempre considerato come una famiglia. In questa maniera non banalizza né narcotizza nella routine quotidiana uno stile di vita per la missione che invece va continuamente rivitalizzato e rinnovato. La missione non si vive per abitudine, ma richiede di essere riscoperta, rivissuta e ripresentata con forza in modo appassionato e coinvolgente.

Se questa riflessione è valida per tutti i missionari sparsi nei vari continenti, in Europa è ancora più urgente, a causa della profonda trasformazione che il continente sta vivendo. Una situazione che offre spunti di enorme interesse alla riflessione sulla missione. Per anni l’Europa è stato lo scrigno della nostra tradizione. Ma ora rischia di essere la nostra tomba. Senza voler essere irriverenti, dobbiamo oggi estrarre il «tesoro» del beato Allamano che abbiamo chiuso nel sepolcro in cui egli è venerato, allo scopo di proiettarlo, senza bisogno di troppe parole ma attraverso la nostra vita e le nostre scelte, nelle periferie geografiche ed esistenziali dell’Italia, del Portogallo, della Spagna e della Polonia, i paesi europei in cui lavoriamo.

Siamo quindi chiamati oggi a coltivare una duplice spiritualità: della memoria e dell’azione. Innanzitutto della memoria: qui siamo nati, qui l’Istituto ha mosso i primi passi, qui si è sviluppato e da qui ha vissuto la propria missione, dedicandosi all’animazione missionaria della Chiesa locale, alla ricerca di aiuti e vocazioni per le missioni. Qui alcuni grandi confratelli e consorelle hanno dedicato con zelo e passione la loro vita per mantenere e far crescere la dimensione missionaria della Chiesa in Europa. Riscoprire la figura dell’Allamano sacerdote in Europa, e quella dei confratelli che ne hanno continuato lo spirito, è il primo compito che ci proponiamo. Saremo forse nani sulle spalle di giganti, come diceva Wittgenstein dei grandi filosofi dell’antichità, ma dall’alto di quelle robuste spalle che ci sostengono, vogliamo guardare lontano.

La memoria da sola non basta, va perciò coniugata con una spiritualità dell’azione per capire come tradurre in atteggiamenti concreti lo spirito del missionario della Consolata in un contesto come quello europeo. Senza abbandonare quella che era «l’animazione missionaria», oggi abbiamo in atto tante nuove esperienze di consolazione e annuncio all’interno delle chiese europee. L’apertura di nuove presenze in quartieri marginali, l’accoglienza di profughi e migranti in alcune delle nostre case, il servizio alle comunità etniche o alle donne sfruttate, le molteplici attività di consolazione dirette a curare l’uomo di oggi ferito dalla solitudine e dal sentirsi uno scarto della società, la vicinanza ai giovani ormai lontani dalla vita ecclesiale, eppure così desiderosi di qualcuno che parli loro di Dio …

Possiamo riscoprire la nostra vocazione di annunciatori della Buona Notizia nei «nostri» paesi diventati un terreno fertile per vivere la nostra vocazione delle origini: il primo annuncio del Vangelo.

Ugo Pozzoli

 




Pillole «Allamano» 7: Canali e conche

Siate conche, non canali, con i beni spirituali – Siate canali, non conche, con i beni materiali

7.

Un medico cinese (ma sarebbe stato d’accordo con lui anche
il mio vecchio pediatra) direbbe che la medicina ha bisogno di un approccio
«olistico» se vuole essere efficace e portare a un benessere effettivo
dell’individuo. Detto in parole povere, essa deve coinvolgere ogni aspetto
riguardante l’essere umano, tanto materiale quanto spirituale.


La pillola di questo mese è un medicamento antico che punta
a offrire una cura completa, un ritrovato che il nostro «farmacista» Giuseppe
Allamano ha ereditato da una tradizione lontana. Antico non significa
necessariamente antiquato, superato o, per usare un termine farmaceutico –
visto che si parla pur sempre di pillole – scaduto. I rimedi della nonna
rivelano, talvolta anche oggi, la loro efficacia, nonostante noi, gente super
sofisticata del 21° secolo, facciamo fatica a crederlo.

Lo spunto per riflettere su questo consiglio che
l’Allamano ci offre lo troviamo in un passo del Sermone 18 al Cantico dei
Cantici
di san Beardo da Chiaravalle. In esso il santo, dottore della
Chiesa e maestro di spiritualità medievale, mette in guardia coloro che
vogliono effondere lo Spirito prima che esso venga in loro infuso. In breve,
secondo Beardo, lo Spirito Santo compie in noi una duplice operazione:
infusione ed effusione. La prima ci fortifica interiormente, a nostro vantaggio
e per la nostra crescita spirituale. Attraverso l’infusione dello Spirito in
noi, riceviamo doni come fede, speranza e carità, doni che sono nostri, che
servono alla nostra salvezza. Altri doni (per esempio, scienza, sapienza,
profezia, guarigione, lingua, ecc.) li riceviamo per il bene spirituale del
prossimo, per donarli a chi ne ha bisogno. Di fatto, ricorda Beardo, essi non
sono indispensabili per la nostra salvezza, ma ci sono concessi a beneficio
altrui, per compiere verso il nostro prossimo un atto di misericordia che serva
da aiuto in un cammino di crescita spirituale.

I primi doni, quelli infusi, sono condizione affinché i
secondi possano convertirsi in strumenti di salvezza. È necessario essere
ripieni dello Spirito prima di poterlo effondere, sostiene Beardo. A poco
servirebbero il dono della parola o quello della scienza se per mancanza di
carità non li condividessimo con il nostro prossimo; ugualmente sterile sarebbe
però la persona che volesse condividere i suoi talenti senza fondarli su una
solida base spirituale. Solo in questo modo i doni condivisi saranno in grado
di dissetare, sanare, esortare, far crescere nella fede, dare speranza,
riempire di amore. Beardo teme la superficialità e per questa ragione
definisce la persona saggia come colei che è capace di essere conca, vasca,
piuttosto che canale. Il canale, infatti, nel momento in cui riceve riversa,
mentre la conca raccoglie, aspetta di essere piena e comunica della sua
abbondanza. Purtroppo, è l’amara constatazione di san Beardo, si hanno nella
Chiesa molti più canali che conche; molte più persone che vogliono trasmettere
ciò che non hanno, insegnare quanto non hanno imparato, parlare prima di
ascoltare, indicare ad altri cammini che non si sono mai percorsi, né si saprebbe
come iniziare a esplorare. Dai tempi di Beardo, passando per quelli di
Giuseppe Allamano fino ad arrivare ai giorni nostri, le cose non sono cambiate
più di tanto. Risuonano profetiche ed attuali le parole dell’esortazione
apostolica Evangelii Nuntiandi, scritta ormai quasi 40 anni fa e
giustamente riproposta con insistenza in questi ultimi tempi, in cui papa Paolo
VI ricordava a tutti come, in materia di evangelizzazione, il mondo fosse molto
più interessato all’ascolto dei testimoni piuttosto che dei maestri (EN 41).

Le
persone che incontriamo sono completamente disincantate nei confronti di parole
pur belle ma vuote. Le parole piene, al contrario, sono quelle che non girano
semplicemente nella bocca, ma ricevono la loro forza dal cuore. La conca in cui
sono custodite le rende cristalline e pure, permette ai detriti di depositarsi
sul fondo lasciando che le mani che si racchiudono per bere attingano all’acqua
più pura. A volte anche le buone azioni possono essere piene di detriti e
persino l’esercizio della misericordia corre il rischio di essere frainteso,
equivocato e abusato se non scaturisce da una fonte profonda e ricca.

Giuseppe Allamano raccoglie le parole di
Beardo e le fa sue. Professore di morale per molti anni, sa per esperienza
che il bene è un oggetto fragile e va trattato con dolcezza e delicatezza. Se
lo si porge con poco garbo si può rompere facilmente e solo con difficoltà può
essere riparato. Lo vediamo anche noi oggi. Ne facciamo esperienza quotidiana
entrando in contatto con persone ferite dalla banalità di un cristianesimo di
facciata, raccogliendo storie che narrano promesse di grazia tradite, incontri
col nulla camuffati da esperienze di fede, bisogni reali affrontati a colpi di bla
bla bla
e mai soddisfatti. A volte sono le nostre stesse debolezze a fare
strage delle speranze altrui, a tradie le aspettative; non lo si può evitare,
è lo scotto che si deve pagare al fatto di essere umani e fallibili. Questa
fragilità può essere però limitata. L’apertura allo Spirito è la prima
attitudine da coltivare se si vuole essere fonti vive. Tuttavia, sappiamo bene
che tale apertura non potrà aver luogo se non si ricercano momenti di
preghiera, silenzio e incontro con Cristo in grado di permetterci di accogliere
il dono del suo Spirito. Occorre trovare spazi che permettano l’echeggiare
della Parola nel profondo di noi stessi, anche se ciò potrà essere causa di
sofferenza. La Parola, infatti, è spada a doppio taglio, che penetra e
purifica, divide, pota, converte (cf. Eb 4,12).

La
nuova evangelizzazione, di cui tanto si parla in questi ultimi tempi, altro non
è che un modo credibile di presentare la Buona Notizia di sempre. Oggi, in
effetti, la gente non ha bisogno di tante parole. Bastano 64 battute per
lanciare un tweet nel ciberspazio ed essere letto da centinaia,
migliaia, milioni di followers (Papa Francesco ha 14 milioni di persone che lo
seguono su Twitter). La differenza la fanno il contenuto e ciò che sta sotto a
esso. Le banalità possono risultare interessanti e anche divertenti, ma alla
fine stancano. C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere
la propria missione in modo autentico ed efficace.

Trattenere
i beni spirituali, arricchirsi di essi è un atto di misericordia e non di
egoismo. Chi si fa conca dei doni dello Spirito automaticamente dona con
generosità, perché è lo Spirito stesso che, infuso, effonde grazia su grazia,
annunciando ciò che deve e non ciò che vuole, senza risparmiare le verità
scomode, senza ammiccare al mondo per paura di non piacere.

Giuseppe Allamano prende il consiglio di San
Beardo, lo completa e lo propone ai suoi missionari in una versione riveduta
e corretta che ci fa vedere la sua originalità di pensiero: «S. Beardo dice
che noi a riguardo del prossimo dobbiamo essere conche e non solo canali […],
ma in questo [beni materiali] dobbiamo essere solamente canali e non conche, e
questo lo dico io» (Conferenze IMC, III, pagg. 46-47).

«E
questo lo dico io!». Giuseppe Allamano è un sacerdote che desidera fortemente
che i suoi siano persone spiritualmente ricche; vuole però anche che la loro
spiritualità non si converta in uno spiritualismo eccessivo, avulso dalla realtà.
I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare alla corrente del canale che
scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente
avete ricevuto, gratuitamente date». La missione è annuncio di un dono, del
regalo che Dio fa al mondo tanto amato: l’unico suo Figlio offerto per la
salvezza di tutti (Gv 3, 16). Un mondo scettico, qual è quello di oggi, deve
essere aiutato a credere, e per questa ragione deve poter vedere il dono. Non
possiamo trattenerlo, nascondendolo alla vista di chi lo cerca, a volte con
ansia o con disperazione. Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero
sacramentini, che avessero uno spirito eucaristico, che fossero pane spezzato
per calmare la fame delle genti. Per decenni i Missionari e le Missionarie
della Consolata ne hanno seguito l’invito e si sono fatti essi stessi dono,
aiutati dalla generosità di tanti amici e benefattori che, pur senza partire
fisicamente per la missione, ne hanno sostenuto lo svolgersi e lo sviluppo,
talvolta a prezzo di grandi sacrifici.

Giuseppe
Allamano
ha parlato al cuore di molti, con il suo spirito semplice e diretto, e
oggi continua a parlare anche a noi, invitandoci a essere segni di uno stile di
vita alternativo a quello che il mondo propaganda, esortandoci a non stancarci
di dare. La crisi che stiamo vivendo suggerirebbe forse di trasformarci in
conca anche per quanto riguarda i beni materiali, perché «non si può mai sapere
…». In effetti oggi il cristiano è chiamato a fidarsi maggiormente della
Provvidenza anche nel nostro Occidente che, fino a poco tempo fa, dispensava i
più dal doverlo fare con radicalità. Del resto, la vita stessa di Giuseppe
Allamano è stata un canto alla Provvidenza, la storia di un uomo che si è
fidato di Dio, investendo tutto quanto aveva nel progetto missionario al quale
si sentiva chiamato. «Bisogna fidarsi della Provvidenza e meritare i suoi aiuti»,
sosteneva. «Mai ho perso il sonno per questioni di denaro», ha detto più volte
ai suoi missionari, testimoniando con la sua esperienza che il dare senza
risparmio, senza se e senza ma, paga i suoi dividendi nel modo misterioso che
solo Dio conosce.

Inutile
dire che essere una conca ripiena di spirito aiuta a comprendere la sapienza
nascosta dietro alla necessità di essere anche canale in cui scorrono
copiosamente e generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro
prossimo.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Pillole «Allamano» 1: Cercate Dio solo e la sua santa volontà

I dieci consigli («pillole») contro il logorio della vita
modea che, a partire da questo mese e per tutto l’anno, MC vi offre, sono
anche conosciuti come «I dieci comandamenti» dell’Allamano. Nati dalla creatività
di mons. Luis Augusto Castro (missionario della Consolata e arcivescovo di
Tunja, Colombia) essi riassumono in poche parole il pensiero del nostro
Fondatore. La sintesi che ci propongono non è sicuramente esaustiva. Del resto,
come potrebbero dieci frasi esaurire il pensiero di un uomo che ha dedicato
tutta la sua vita all’apostolato diocesano e alla missione? Sono però dieci
passwords che colpiscono per la loro brevità e immediatezza, e offrono una
chiave di accesso all’umanità e alla spiritualità di un santo prete, come fu
senza ombra di dubbio Giuseppe Allamano. Va detto inoltre che lo spirito di
questi brevi articoli non è tanto quello di spiegare il pensiero del nostro
Fondatore, quanto quello di partire da alcuni suoi spunti per offrire una
scintilla di spiritualità missionaria che possa illuminare la nostra
quotidianità.

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«Contro il logorio della vita modea» era il motto che reclamizzava anni fa un noto liquore digestivo. La vita contemporanea non ha certamente diminuito il suo impatto devastante sui nostri sistemi gastrici, né ha contribuito a migliorare la qualità delle nostre relazioni. Va da sé che, forse, il nostro logorio esistenziale vada affrontato con qualcosa di diverso di un digestivo, qualcosa che tocchi alla radice il malessere del quotidiano che ci sfida impedendoci di raggiungere la serenità nella quale vorremmo essere immersi. Fermo restando che la perfetta felicità è un obiettivo che raggiungeremo a tempo debito, viene da chiedersi se, in materia spirituale, sconfiggere le amarezze con qualcosa di amaro sia il rimedio più adatto.

La cura offerta dai consigli di Giuseppe Allamano vuole essere un rimedio dolce, se non altro perché proprio la dolcezza era una delle qualità principali del nostro Fondatore, come venne del resto raccontato da chi ebbe modo di incontrarlo di persona. Certamente, come tutti i rimedi, anche questa cura potrà lasciarci in bocca il sapore non gradito di una medicina, ma pensiamo che, se davvero potrà farci bene, il gioco varrà la candela. Il beato Allamano, ce l’avrebbe somministrata con uno zuccherino, giusto per darci un incoraggiamento, una spinta a fare bene, meglio o diversamente.

Devo dire che non mi piace definire questi pensieri come dei «comandamenti». Innanzitutto perché estrapolati come sono da un contesto più ampio perdono obbligatoriamente la loro forza coercitiva; non appartengono a nessun codice. In secondo luogo perché l’insegnamento spirituale di Giuseppe Allamano è caratterizzato da un approccio molto dialogico ed esperienziale in cui il «si deve fare così» o il «non si deve fare così» non nascono tanto dall’esigenza di imporre una dottrina, quanto e soprattutto dalla comunicazione di un’esperienza di vita, la sua o quella dei suoi punti di riferimento: Cristo, la Madonna e i Santi, iniziando da suo zio, San Giuseppe Cafasso.

Questo approccio mi sembra molto moderno e attuale. Forse è per questo che, in un’epoca in cui ogni tipo di autorità viene messa in dubbio, e quella ecclesiale in particolar modo soffre la sindrome dell’abbandono, la figura dell’Allamano continua ad attirare le persone, anche al di fuori della vita religiosa o del sacerdozio. Il suo understatement, tipico del piemontese doc quale lui era, lo rendeva una persona affabile e disponibile ai suoi contemporanei e continua a renderlo tale a noi. A tutti, ieri e oggi, Giuseppe Allamano propone il suo primo Consiglio, la prima e fondamentale medicina per l’uomo contemporaneo: «Cercate Dio solo e la sua santa volontà».

Ad maiorem Dei gloriam … per la maggior gloria di Dio. In un periodo in cui la spiritualità è intrisa degli insegnamenti di Sant’Ignazio di Loyola, Giuseppe Allamano fa suo questo motto del fondatore dei gesuiti per tracciare quello che per lui è un vero e proprio programma di vita. Durante le sue conferenze, importanti momenti di insegnamento e condivisione rivolti a missionari e missionarie in formazione, ne ripete varie volte le parole e il senso. In un mondo che ha celebrato nel recente passato «la morte di Dio» e che continua oggi a vivere e operare scelte come se Dio non esistesse, questo prete piemontese ci invita ad andare «in direzione ostinata e contraria» (prendo a prestito questa frase da una canzone di Fabrizio De André), scegliendo Dio come unica ragione del nostro esistere. Solo Dios basta, diceva Teresa d’Avila, altra santa amata e citata da Giuseppe Allamano. Dio è sufficiente: lui soltanto è il termine ultimo del nostro tanto arrabattarci.

Chiaramente il «cercare Dio soltanto» significa relativizzare i nostri bisogni, le nostre necessità e, perché no, almeno ogni tanto, anche i nostri capricci. Un esercizio chiaramente in controtendenza in un’epoca in cui, al contrario, si relativizza Dio in nome di un individualismo sempre più sfrenato.

Mi sembra importante l’accento che Giuseppe Allamano pone sull’azione di «cercare» Dio, condizione necessaria per potee fare poi la volontà. Dobbiamo imparare a lasciare parlare il Signore, mettendoci, come lui stesso diceva, in un atteggiamento di «santa indifferenza», che non vuol dire farsi gli affari propri, quanto invece «mettere da parte il nostro ingombrante io» per cogliere la presenza di Dio lì dove egli vuole manifestarsi ed essere disponibili a fare ciò che da noi vuole, con determinazione e perseveranza.

Il cammino di fede si genera nell’incontro con Cristo, incontro che deve però essere continuamente alimentato per poter crescere, rafforzarsi, diventare energia vitale capace di muovere montagne (cf. Mt 17,14-20). Ognuno di noi conosce bene i mille terreni accidentati di cui è formata la propria esistenza, in cui il seme della Parola che cade non trova le condizioni per dare frutto. La vita di fede è fatta di un continuo procedere alla ricerca del terreno fertile e, una volta trovata la terra buona questa va curata, coltivata, concimata e difesa da chi potrebbe rovinarla. Il missionario e, più in generale, il cristiano non può permettersi di smettere di cercare Dio e la sua volontà lì dove vive, ogni giorno della sua vita.

Sicuramente Giuseppe Allamano è un uomo di preghiera. Dio lo cerca nel silenzio del Santuario della Consolata, nel «coretto» da cui può contemplare in un’unica occhiata i due amori della sua vita: la Madonna e l’Eucaristia. Tuttavia, la straordinaria capacità che gli viene riconosciuta nel rispondere ai bisogni delle persone o delle situazioni che si trova davanti, dimostra come Dio gli si presenti anche in tanti altri modi: nei drammi personali ascoltati nel confessionale, nelle solitudini e nelle sofferenze delle persone che assiste nel suo apostolato, nelle lettere e nei diari dei suoi missionari e missionarie che, da lontano, gli raccontno le giornie e le difficoltà della vita in missione.

Oggi abbiamo bisogno di riscoprire questo approccio che ci impone di cercare Dio «solo», ma ci chiede anche di non cercarlo «da soli». Papa Francesco ci spinge, con la forza di cui è capace il Vangelo quando deve imporre la verità, a percorrere strade affollate, a farci compagni di viaggio di chi cammina, a volte con fatica, i percorsi accidentati della vita. Non possiamo permetterci, come missionari del Vangelo, di annunciare un Dio che non è in sintonia con la vita che viviamo, che non parla il linguaggio dei giovani, che non si interessa di chi sta per perdere il lavoro, che non viaggia sui gommoni di chi fugge dalla fame o dalla guerra, che non dice due paroline giuste nell’orecchio di chi, in nome dei diritti del proprio Ego, è disposto ad abbandonare ai margini della storia chi non riesce a trovar posto nel suo progetto di vita.

Come alcuni anni fa sosteneva giustamente Stephen Bevans, uno dei più importanti teologi contemporanei della missione, la figura del missionario può essere paragonata a quella di un «cacciatore di tesori», che si reca in un posto carico della ricchezza della buona novella e l’annuncia, rendendosi però conto molto presto che le sue parole non evocano assolutamente nulla alle orecchie di chi lo ascolta, proprio perché non sono espresse con la lingua e con le forme culturali appropriate. Scavare nelle culture per estrarre il tesoro nascosto vuol dire essenzialmente incontrare l’essere umano nel suo contesto, agire con una mistica dagli occhi aperti, capace di una spiritualità concreta, atterrata nella vita di tutti i giorni. Vuol dire scavare non da soli, ma con la gente che ci è vicina, con la quale ci si incontra o ci si scontra tutti i giorni in famiglia, per la strada, al lavoro, o nelle nostre comunità ecclesiali. Dio vive nella storia, e la sua ricerca, fenomeno che nasce e matura inizialmente nel cuore dell’essere umano, assume la sua forma più piena e compiuta quando viene condivisa, con chi è di casa e con chi è lontano, con chi la pensa come noi e con chi può insegnarci qualcosa da un’esperienza diversa dalla nostra, con chi ci precede nel cammino della fede o con chi si aspetta da noi una parola di consolazione.

Ancora oggi colpiscono l’immediatezza e la concretezza di Giuseppe Allamano, qualità che sintetizzano molto bene la cultura contadina delle sue origini e la mentalità dell’uomo vissuto quasi sempre in città, capace però di spalancare le finestre della sua casa sugli orizzonti infiniti della missione. Pur con un raggio di azione davvero limitato (l’Allamano ha vissuto 46 anni della sua vita come rettore sempre dello stesso santuario), questo sacerdote della diocesi di Torino ha insegnato alle prime generazioni di missionari della Consolata ad allargare i paletti delle loro tende e spinge noi, figli e figlie del nostro tempo, a essere uomini e donne globali, planetari (per usare la definizione di un altro grande prete a noi più contemporaneo, Eesto Balducci) desiderosi di cercare Dio, ma anche di non limitare la ricerca solto ai posti dove pensiamo di trovarlo con certezza.

Ugo Pozzoli

 

Incontro al beato Giuseppe Allamano tramite le sue foto.

L’Allamano è vissuto nel tempo che ha visto nascere la fotografia, uno strumento in cui ha creduto, anche se non ha mai amato farsi fotografare. è lui che ha chiamato Secondo Pia, il fotografo della Sindone, a fare le prime foto del quadro della Vergine Consolata. è lui che ha voluto che i suoi missionari in partenza per l’Africa fossero dotati delle più modee macchine fotografiche e imparassero «il mestiere» dai professionisti. è lui che per il periodico «La Consolata», madre di questa rivista, ha voluto stampe fotografiche di altissima qualità ottenute con lastre allora prodotte solo a Vienna, in Austria.

La foto che vi presentiamo questo mese è stata fatta nel 1923 in occasione del suo 50° di sacerdozio. È il particolare di una lastra da 13x18 cm, in cui il beato Allamano è ritratto seduto con lo sguardo rivolto a una statuetta della Consolata e con il libro del regolamento di vita dei Missionari della Consolata da lui fondati in mano. Per l’occasione i fotografi crearono un set improvvisato nel cortile di Casa Madre, a Torino, utilizzando due tappeti, uno di rovescio (con la fodera rossa x creare lo sfondo nero) e uno in terra, e un tavolino per dare l’illusione di una sala arredata. La foto, pesantemente ritoccata sulla lastra originale per correggere i limiti di stampa del tempo, è ora visibile nella sua bellezza originale che ci restituisce il volto sereno del nostro Beato Padre Fondatore.

Nota di correzione al testo.

Scrive p. Pavese nel libro fotografico Giuseppe Allamano, l’uomo per la missione, EMC, Torino 2009, pag. 232: [Sono] Otto le fotografie dell’Allamano in occasione del 50° di ordinazione sacerdotale. Dalle testimonianze risulta che le prime quattro furono riprese alla Consolata (nell’annesso cortile del Convitto Ecclesiastico, ndr.), per interessamento dei canonici G. Cappella e N. Baravalle. Sarebbe stato lo stesso Baravalle (secondo una testimonianza del Cappella, ndr.) a suggerire all’Allamano di sorridere, perché abitualmente era serio di fronte all’obiettivo fotografico».

La testimonianza del Cappella e i pochi dettagli visibili in una delle fotografie sono gli indizi che ci permettono di collocare questa foto e le altre tre (purtroppo la lastra originale con l’Allamano chiaramente sorridente è andata perduta) nel contesto del Santuario della Consolata. L’impianto scenografico casereccio era legato alla necessità di fotografare alla luce diua, quindi in esterno, preferibilmente in un giorno con le nuvole per avere una luce diffusa senza ombre nette. (Gigi Anataloni)

Ugo Pozzoli