I perdenti 47.

I martiri d’Algeria

Testo di Don Mario Bandera


L’8 dicembre 2018, in Algeria a Orano nel santuario di Notre Dame di Santa Cruz,  avvenne la cerimonia di beatificazione di mons. Pierre Claverie. Con il Vescovo di Orano. Con lui venne ricordato anche Mohamed Bouchikhi, musulmano, suo autista e amico, entrambi uccisi in un agguato ordito dagli estremisti musulmani. Unitamente a loro vennero beatificati i sette monaci trappisti di Tibhirine e altri undici religiosi, tra i quali sei suore, uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996. Quello fu un evento straordinario nella storia della Chiesa Universale, infatti, fu la prima volta che dei martiri cristiani vennero elevati alla gloria degli altari in un paese musulmano con una celebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Profondamente amati dal popolo algerino, è ancora oggi molto viva la memoria dei diciannove martiri cristiani uccisi negli anni tragici che insanguinarono il paese africano, in cui furono massacrati anche giornalisti, attivisti per i diritti umani, intellettuali e imam propensi al dialogo interreligioso. Della loro vicenda parliamo con mons. Pierre Lucien Claverie, nato ad Algeri nel 1938, frate domenicano e vescovo di Orano, ucciso il 1° agosto 1996.

Mons. Pierre, quale messaggio lasciano i martiri di Tibhirine?

Uno dei significati della loro vita e di conseguenza della loro beatificazione è che – come credenti – siamo chiamati ad accogliere le differenze: sociali, culturali e religiose, che gli altri portano in sé, anche se non condividono la nostra fede.

Però troppo spesso l’altro ci fa paura e si preferisce vivere tra quelli che ci assomigliano.

Penso che nel mondo di oggi la differenza ci sia donata per arricchirci, perché ci fa crescere nella nostra identità. Non ce la fa perdere ma ci permette di andare a fondo alle nostre radici, sia umane, sia culturali che religiose.

Chi erano i martiri di Tibhirine? C’è un filo rosso che li accomuna?

Erano religiosi che davano una profonda testimonianza di fede e svolgevano bene il loro compito nella società algerina, facendo parte integrante della Chiesa locale che è piccola, di sole tremila persone, e immersa in un paese al 99% musulmano. C’era da parte di tutti loro una dedizione al popolo algerino. Molti erano un punto di riferimento per il territorio in cui vivevano.

Erano rimasti presenti durante gli anni tragici in Algeria per tenere viva una flebile fiammella di speranza e di umanità. E per testimoniare fino alla fine la loro amicizia anzitutto con Gesù e quindi con la gente che viveva loro accanto.

Non erano però i soli in quel frangente a dare una vivida testimonianza di fede cristiana.

No, tra i martiri algerini di quegli anni ci sono anche sei religiose, sicuramente meno conosciute dei monaci di Tibhirine. C’erano sorelle che si dedicavano all’educazione delle ragazze con un centro di ricamo in una zona povera di Algeri, altre impegnate nel campo delle cure ai bambini disabili e altre ancora venivano incontro ai bisogni delle famiglie. Erano persone molto semplici che hanno vissuto nella quotidianità un rapporto con l’altro, l’altro musulmano, per tessere un dialogo che non era solo dialogo teologico, ma dialogo della vita, e così facendo, ci hanno dimostrano che vivere insieme, pur praticando fedi diverse, è una meta possibile.

Per questo erano amati anche dai musulmani. Come visse la comunità algerina la loro beatificazione?

Sicuramente erano costruttori di pace, persone che hanno avuto il coraggio e anche il desiderio di rimanere accanto al popolo algerino proprio quando questi attraversava una violenta tragedia. La beatificazione che si è tenuta ad Orano in Algeria, l’anno scorso, fu un evento unico nella storia della Chiesa sia per la Chiesa Universale che per quella algerina.

Questo evento dice molto della memoria ancora oggi ben viva di voi martiri d’Algeria.

Teniamo conto che circa il 65% della popolazione odierna algerina non era nato negli anni Novanta, però la loro storia è conosciuta. Per esempio, ad Orano dove io sono stato vescovo per 15 anni, è ancora molto forte la traccia che ho lasciato in città, perché cercavo di entrare in dialogo non solo con i cristiani, ma con tutti, con il mondo della cultura, dell’educazione, con i politici e con loro ho intrecciato legami di amicizia fortissimi.

E poi va detto che i monaci di Tibhirine erano una significativa presenza di dialogo, anche se vissuto in maniera silenziosa nelle montagne dell’Atlante algerino.

Oggi il loro monastero è diventato meta di pellegrinaggio per centinaia di persone e – cosa particolarmente significativa da segnalare – il 95% dei pellegrini che va a visitare il convento è musulmano.

La testimonianza di voi martiri dei nostri tempi fu e resta una provocazione alla società algerina e alla Chiesa Universale.

Oggi si vive in un clima di individualismo sfrenato che porta a mettersi sempre in mostra e a cercare innanzitutto il riconoscimento di se stessi nel rapporto con l’altro. I martiri, invece, provocano le coscienze proprio per la gratuità del servizio che prestavano dando interamente la loro vita agli altri, come un dono, coscienti dei rischi che correvano.

E se interrogano tutti con la loro morte, lo fanno ancora di più con il perdono che hanno donato.

Come si può perdonare qualcuno che ti vuole morto?

Il testamento di Christian de Chergé, superiore della comunità dei monaci di Tibhirine, è una pagina oggi molto sentita, uno dei testi più belli, densi e importanti della spiritualità del XX secolo. E in questo testo egli dà il perdono a chi lo avrebbe ucciso. Questi martiri hanno scelto di condividere fino alla morte la sorte del popolo algerino.

Nella vostra scelta di rimanere c’era anche la volontà di vivere il perdono nei confronti di chi vi avrebbe uccisi.

Siamo spesso chiamati testimoni della speranza, perché in mezzo a una guerra fratricida e a un mare di sangue che travolse l’Algeria, siamo stati una piccola fiamma di speranza, la speranza di una umanità migliore e di un futuro più giusto e fraterno.

 

Centocinquantamila morti ammazzati tra il 1992 e il 2001. L’Algeria, stretta nella morsa di una guerra civile tra islamisti ed esercito, ha visto cadere anche 19 religiosi cattolici, suore, consacrati, monaci, un vescovo. Vite innocenti stroncate dalla furia omicida che bollava umili religiose e uomini di preghiera con l’epiteto di «crociati». Niente di più falso: la vicenda della chiesa in Algeria è una delle pagine più evangeliche del Novecento. Una presenza semplice, spoglia, libera e fedele a Cristo, soprattutto durante il dramma del terrorismo islamista. Papa Francesco ha riconosciuto il martirio di questi «oscuri testimoni della speranza» elevandoli agli altari. Uomini e donne che, mentre intorno a loro migliaia di persone venivano massacrate, non sono fuggiti né si sono messi in salvo, ma hanno deciso di restare a fianco dei propri fratelli e sorelle a costo della vita. In questa scelta di libertà, raccontata anche nel celebre film «Uomini di Dio», si staglia la grandezza di questi religiosi, che avevano già donato la vita nel quotidiano. E perciò hanno accettato serenamente il rischio di una fine violenta, come testimonia il testamento spirituale di Christian de Chergé, superiore della comunità di Tibhirine. Questa stupefacente storia di fede e umanità continua a parlarci e a interrogarci ancora oggi con la forza inesauribile dei martiri di ogni epoca.

Mario Bandera


Per un approfondimento vedi


I martiri d’Algeria

L’8 maggio del 1994, nella biblioteca della diocesi di Algeri, nella casbah, vengono assassinati fratel Henri Vergès, fratello Marista, e suor Paul-Hélène Saint-Raymond delle Piccole Sorelle dell’Assunzione. Nel quartiere di Bab el-Oued, ad Algeri, suor Caridad Álvarez Martín e suor Ester Paniagua, agostiniane missionarie, spagnole, si stanno recando a messa quando sono uccise il 23 ottobre 1994.

Il 27 dicembre dello stesso anno a Tizi Ouzou, nella Cabilia, nella piccola comunità di Missionari d’Africa (meglio conosciuti come «Padri Bianchi») irrompe un gruppo di uomini armati. Immersi nelle loro attività quotidiane, muoiono i francesi padre Jean Chevillard, padre Alain Dieulangard, padre Christian Chessel e il belga padre Charles Deckers.

Stanno rientrando dopo essere state a messa suor Bibiane Leclerq e suor Angèle-Marie Littlejohn, missionarie di Nostra Signora degli Apostoli, quando il 3 settembre 1995, ad Algeri, vengono trucidate.

Poco più di due mesi dopo, il 10 novembre, ad Algeri, un terrorista spara a suor Odette Prévost, piccola sorella del Sacro Cuore.

Rapiti la notte del 26 marzo 1996 nel loro monastero di Notre Dame de l’Atlas a Tibhirine, a una sessantina di km da Algeri, il 25 maggio, dopo due mesi di ricerche, vengono ritrovate solo le loro teste nei pressi di Medea. Sono: fratel Paul Favre-Miville, fratel Luc Dochier, p. Christophe Lebreton, fratel Michel Fleury, p. Bruno Lemarchand, p. Célestin Ringeard e p. Christian de Chergé. Vengono sepolti nel cimitero del loro monastero il 4 giugno.

L’ultimo dei martiri cristiani in Algeria è il vescovo di Orano mons. Pierre Claverie, religioso domenicano. Viene ucciso il 1° agosto 1996 da un’autobomba, insieme al suo autista e amico musulmano Mohammed Bouchikhi, davanti alla Curia della diocesi.

(adattato da www.vaticannews.va)

 




Casa comune, problemi comuni

Testo di Chiara Giovetti | foto di padre Andrés Fernández da Bayenga RD Congo


Nel mondo i popoli indigeni contano circa 370 milioni di persone: il 5% della popolazione mondiale ma il 15% dei poveri del pianeta. Quanto ai migranti, sono circa 300 milioni e uno su dieci è un rifugiato o richiedente asilo.

L’equazione è piuttosto semplice: i popoli indigeni proteggono con la loro stessa presenza l’ambiente naturale in cui vivono, a cominciare dalla foresta. Se i popoli indigeni scompaiono, anche le foreste scompaiono e i disastri ambientali aumentano. Su tutto il pianeta. Anche nel cortile di casa nostra. Quindi, a ben guardare, casa nostra è tutto il mondo.

Questo breve ragionamento è probabilmente la risposta più lineare alla domanda: «Perché mai dovrebbe interessarmi l’Amazzonia?», quesito che ha fatto da sottofondo a tutto il Sinodo dei vescovi per la regione Panamazzonica, celebrato lo scorso ottobre a Roma. Non è difficile trovare esempi di questo ruolo di custodi che i popoli indigeni hanno nei confronti dell’ambiente nel quale vivono: la nostra rivista ne ha illustrati diversi in un dossier dell’agosto 2017 che riportava analisi di Survival International. Da quelle analisi emergeva chiaramente che i popoli indigeni – non solo quelli dell’Amazzonia, ma anche quelli del resto delle Americhe, dell’Africa e dell’Asia – «sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni» e che la loro presenza incrementa la biodiversità, controlla gli incendi e il bracconaggio, ferma la deforestazione e lo sfruttamento eccessivo. Il loro sostentamento, viceversa, deriva da attività come la caccia svolte in modo del tutto non dannoso per l’ambiente@.

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Un’emergenza silenziosa

Difficile è piuttosto far capire l’urgenza di proteggere questi gruppi umani e i biomi in cui vivono. Perché l’ipotesi che i popoli indigeni scompaiano appare lontana a chi, specialmente da questo lato del mondo, non è addentro alle questioni ambientali o a quelle della solidarietà internazionale.

Eppure il rapporto 2018 del Consiglio indigenista missionario (Cimi)@, ente legato alla Conferenza episcopale brasiliana, racconta una storia che ha tutti i caratteri dell’urgenza. Presentato dal Cimi l’11 ottobre presso la casa generalizia dei missionari della Consolata a Roma, il documento sottolinea che nel 2018 in Brasile i casi di invasioni a scopo di accaparramento delle terre indigene, esplorazione illegale delle risorse naturali e danni vari al patrimonio sono stati 109: 13 in più dell’anno precedente. Ancora più preoccupante è il fatto che i dati preliminari del 2019 – cioè quelli relativi ai primi nove mesi – riportano 160 casi, testimoniando per il triennio una tendenza al rialzo.

Il rapporto raccoglie e racconta con grande precisione i singoli episodi. Vediamone uno, relativo al popolo indigeno dei Waimiri Atroari di Roraima, a titolo esemplificativo: «La deforestazione nella terra indigena ha raggiunto i 1.372 ettari. In un’area che ospita diverse specie di fauna e flora ancora sconosciute, sono stati sequestrati 7.387 tronchi, volume sufficiente per caricare un migliaio di camion […]. Dopo 37 giorni dal sequestro, il Fronte di protezione etno-ambientale dei Waimiri Atroari della Funai (ente pubblico che si occupa della protezione degli indigeni) ha riferito che i tronchi venivano rubati dentro la sede della polizia federale. È stata aperta un’inchiesta per indagare sul caso».

Il rapporto segnala anche diverse situazioni che contraddicono l’affermazione di grandi agricoltori e politici «complici» secondo la quale c’è «troppa terra per troppi pochi indigeni». Al contrario, si legge nel rapporto, nello stato del Mato Grosso do Sul, per fare solo un esempio, «ciò che è troppo è il numero di aree degradate», cioè aree le cui caratteristiche sono state modificate oltre il limite del naturale recupero del suolo.

Nel 2019, prosegue il rapporto, il numero di pascoli degradati raggiunge i 14 milioni di ettari (pari alla superficie di tutte le regioni del Nord Italia più la Toscana) su un totale di 28 milioni esistenti. Nel frattempo, migliaia di indigeni vivono in una situazione di isolamento e, nella riserva indigena di Dourados, circa 13mila indigeni abitano su meno di 3.500 ettari: per numero di abitanti la riserva si colloca più in alto nella lista rispetto a 32 città dello stato. A detta di diversi esperti, questa situazione è la causa principale degli alti tassi di suicidio tra gli indigeni Guaraní e Kaiowá. Secondo il distretto sanitario indigeno locale, negli ultimi 13 anni circa 611 indigeni di questa popolazione si sono suicidati: 1 ogni 7,7 giorni.

Alfabetizzazione di bambini pigmei

Non solo Amazzonia

Ma non è solo l’area amazzonica a destare preoccupazione. Nella Rift Valley del Kenya è in atto l’ennesimo braccio di ferro per l’occupazione di intere aree della Mau Forest. Non si tratta di una foresta qualsiasi: è un complesso di 400 mila ettari che custodisce la più grande delle cinque maggiori riserve idriche del Kenya, per questo ribattezzate water towers (serbatoi d’acqua). È la fonte di 12 corsi d’acqua che sfociano in tre laghi, fra cui il Lago Vittoria, e si calcola che circa 10 milioni di persone dipendano da questo complesso idrogeologico. Human Rights Watch segnalava lo scorso settembre@ che nel 2018 il governo del Kenya nel tentativo, anche lodevole, di preservare la Mau Forest ha effettuato sfratti forzati, violenti e senza compensazione di chiunque avesse occupato il territorio della foresta. Inclusi gli Ogiek, popolo indigeno locale che ha nella foresta il proprio territorio ancestrale, nel quale ha sempre vissuto sostenendosi grazie alla caccia e all’apicoltura. I tentavi di rimuovere gli Ogiek dalla foresta si sono succeduti sin dall’epoca coloniale, precisa Survival International@, con il pretesto che la loro presenza degrada la foresta. In realtà succede esattamente il contrario: «Quando gli Ogiek vengono rimossi, la loro foresta non viene protetta ma piuttosto sfruttata dal disboscamento e dalle piantagioni di tè, alcune di proprietà di funzionari governativi».

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Via da casa, per non morire

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A volte, anche la decisione di restare nella propria terra è un suicidio. È il caso degli indigeni Warao che, insieme ad altri connazionali venezuelani, hanno abbandonato le loro case e stanno emigrando in massa verso Colombia, Perù, Brasile e altri paesi latino americani. Secondo la Bbc@, che cita dati dell’Organizzazione internazionale per migrazioni (Iom) e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) lo scorso giugno le persone che avevano lasciato il Venezuela avevano raggiunto i 4 milioni, facendo di quella venezuelana la seconda crisi a livello mondiale dopo la Siria, che ha visto quasi 6 milioni di sfollati@.

Secondo l’Acnur, ad oggi sono quasi 71 milioni le persone sul pianeta che sono state costrette a lasciare il luogo dove vivevano a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o violazioni dei diritti umani. Di questi, quasi 26 milioni sono rifugiati, 41 milioni sono sfollati interni e 3 milioni e mezzo sono richiedenti asilo, cioè sono in attesa di una decisione sulla loro richiesta di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato o un’altra forma di protezione internazionale. Nel 2018 ci sono stati 37mila di questi spostamenti forzati ogni giorno, uno ogni 2 secondi.

In 4 casi su 5 i rifugiati vivono in paesi confinanti; a ospitare più rifugiati è stata per il quinto anno consecutivo la Turchia, con 3,7 milioni di persone accolte. Seguono il Pakistan (1,4 milioni), l’Uganda (1,2 milioni), il Sudan e la Germania (entrambi 1,1 milioni di rifugiati ospitati).

Chiara Giovetti

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei


Il nostro lavoro per le terre ancestrali e i popoli che le abitano

IN RD CONGO

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Da decenni lavoriamo con i pigmei bambuti, tradizionali custodi della foresta pluviale dell’Ituri, nel Nord Est paese.

Minacciati da Mobutu Sese Seko, che già negli anni Ottanta li forzò a lasciare la foresta e a sedentarizzarsi, emarginati dalla maggioranza bantu che li considera esseri subumani, oggi vedono la loro foresta e se stessi minacciati anche dalle attività estrattive condotte da grandi imprese e da minatori artigianali.

Il nostro lavoro con loro consiste nel proteggerne la cultura e lo stile di vita e, al tempo stesso, di sostenere il loro tentativo di relazionarsi con gli altri popoli, ad esempio attraverso l’istruzione, e di garantire loro l’assistenza sanitaria essenziale.

(vedi Marco Bello, Sempre nomadi, ma fino a quando, MC 10/2019 e anche Chiara Giovetti, Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile, MC 6/2017)

NELL’AMAZZONIA

Visita al rifugio dei Warao in Pacaraima (Roraima – Brasile

Il nostro impegno per i popoli indigeni e la salvaguardia delle terre ancestrali giunge anche all’Amazzonia, sia quella brasiliana che quella colombiana ed ecuadoregna.

Nell’Amazzonia del Brasile sosteniamo la lotta per i diritti del popolo yanomami insediati nella foresta attorno al rio Catrimani e quelli dei popoli (Macuxi, Wapichana, Taurepang e altri) della terra indigena Raposa Serra do Sol nello stato di Roraima.

In Colombia siamo attivi nel Caquetá, dove, con i gruppi di giovani delle nostre parrocchie e delle scuole secondarie, sosteniamo le iniziative locali di formazione alla cura dell’ambiente sia nei quartieri dei centri abitati della zona che nelle zone del fiume vicine a questi centri, e progetti alternativi alla produzione della coca.

Aiutaci a coprire i costi per l’iscrizione di un bambino pigmeo alla scuola primaria nella foresta del Congo o a realizzare corsi di formazione e iniziative di salvaguardia dell’ambiente in Amazzonia.


Il nostro lavoro accanto ai migranti e ai warao

Dal maggio 2018 un’équipe itinerante dei missionari della Consolata è attiva a Boa Vista (Brasile)  nell’accoglienza dei rifugiati venezuelani, in particolare del popolo warao.

Boa Vista sta affrontando un’emergenza senza precedenti: quella di assistere migliaia di migranti e richiedenti asilo venezuelani, 40mila secondo le fonti ufficiali e oltre il doppio secondo conteggi informali. Per ora sono disponibili solo 13 centri di accoglienza che ospitano 6.500 persone, mentre tutti gli altri vivono in 16 occupazioni se non addirittura per strada.

Gli sforzi dei missionari della Consolata si concentrano sulle persone più vulnerabili che vivono nello spazio di Ka Ubanoko, un complesso sportivo abbandonato occupato la scorsa estate. Lì vivono circa 650 venezuelani, la maggior parte Warao, alcuni indigeni E’ñepa e oltre un centinaio di persone che non hanno avuto la possibilità di essere assistiti da un centro di accoglienza e vivevano all’ombra degli anacardi nel quartiere di Pintolândia.

Fra questi rifugiati i bambini sono circa 250 e i missionari cercano di fornire loro cibo e un minimo di istruzione, visto che nella loro condizione frequentare la scuola è impossibile.

Aiutaci a coprire i costi per l’istruzione dei bambini venezuelani rifugiati.


Natale di solidarietà 2019

UNA CASA PER TUTTTI

Per aiutare tramite MC
vai al sito della Onlus

oppure vai alla nostra pagina «aiutaci-donazioni»




Il lavoro nella bibbia e la voce delle donne

Testi di Chiara Brivio


I libri che vi suggeriamo questo mese riguardano entrambi la riflessione sulle Sacre Scritture, ma con due approcci ben distinti tra loro. Da una parte è il lavoro come opera umana e divina il fulcro dell’analisi dell’autore, l’economista Luigino Bruni. Dall’altra è il ruolo delle donne nella Chiesa di Francesco, quello attuale e le sue prospettive future, affrontato dalla giornalista Sabina Caligiani attraverso le voci di 17 donne, tra le quali eminenti teologhe e ricercatrici.

L’arca e i talenti

L’Arca e i talenti. Quel che dice la Bibbia sul lavoro è un bel libro, un breve saggio, chiaro e scorrevole, su quello che le Sacre Scritture hanno da dire circa l’operare con le nostre mani, il lavoro e l’economia.

Non stupisce che a scriverlo sia stato uno degli economisti più noti in Italia, Luigino Bruni, professore di Economia politica all’Università Lumsa di Roma, editorialista di «Avvenire», saggista, coordinatore internazionale del progetto Economia di comunione (edc-online.org).

Il libro, edito da San Paolo, concentra la decennale riflessione di Bruni sull’economia e sulle relazioni sociali, e su come questi due temi possano essere illuminati dal messaggio della Bibbia, testo fondamentale e fonte di speranza e di sorpresa anche per l’uomo di oggi costretto a vivere in un mondo dominato da un capitalismo rapace e alienante.

Ripercorrendo le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, Bruni attua una vera e propria mappatura dei libri biblici e delle parabole più famose, riportandone in vita le narrazioni e contestualizzandole nel nostro tempo. Così nel confronto tra le storie di Noè e di Babele, ritroviamo la contrapposizione tra un lavoro di cooperazione «buono» ed edificante che porta alla costruzione dell’Arca, e un lavoro «cattivo», quello degli ingegneri e dei muratori di Babele, che porta all’innalzamento della famosa torre.

«Ci sono lavori che è bene che vadano dispersi», scrive Bruni, «i lavori creati oggi dai potentissimi imperi delle mafie, della pornografia, dell’azzardo, delle imprese che avvelenano, delle guerre, della prostituzione, dobbiamo continuare a disperderli». Ci sono gli schiavi di ieri e quelli di oggi, i domini (anche economici) che continuano a generare sfruttamento, i faraoni dell’antico Egitto paragonati ai moderni dirigenti e manager che «aumentano stress e malessere nei luoghi di lavoro».

I paragoni proposti da Bruni possono, a prima vista, sembrare azzardati, ma non lo sono affatto, e anzi contribuiscono a orientare la riflessione sul valore intrinsecamente umano del lavoro e delle relazioni tra gli uomini che lo svolgono.

Così Bruni ritrova nei libri di Isaia e Geremia alcune delle pagine più belle ed edificanti sull’operare con le mani: «Dio ci attende nelle botteghe, manovrando il tornio dal suo banco di lavoro», e si spinge a dire che alcuni versetti del libro del Qoelet dovrebbero essere affissi «all’ingresso di tutte le business schools, imprese, banche».

Gli ultimi capitoli del libro sono dedicati alle parabole più conosciute (e forse più interpretate) del Nuovo Testamento, tra le quali quella del figliol prodigo, quella dei talenti, del buon samaritano, interpretate anche alla luce di nuovi studi biblici («che in un libro sul tema del lavoro nella Bibbia può valere la pena almeno conoscere»). Così il figliol prodigo diventa il migrante moderno che lascia la casa paterna e si ritrova a svolgere i lavori più umili, e scopriamo che il racconto del buon samaritano ha ispirato le teorie del premio Nobel per l’economia Amartya Sen sulla giustizia come equità e imparzialità.

L’Arca e i talenti è un libro semplice che fa riflettere sulle condizioni del lavoro di ognuno di noi, forse «meno divino» di quello raccontato dalle Sacre Scritture, e sulla possibilità di considerarlo, come farebbe San Francesco, un «fratello lavoro», capace di generare relazioni di cooperazione e amicizia.

 


La voce delle donne

Le diciassette voci raccolte dalla giornalista Sabina Caligiani e pubblicate nel volume La voce delle donne. Pluralità e differenza nel cuore della Chiesa, recentemente uscito per le edizioni Paoline, sono le voci di teologhe, filosofe, sociologhe, bibliste, storiche dell’arte, laiche e religiose, che hanno focalizzato la loro ricerca, in un modo o nell’altro, sul ruolo e sul contributo delle donne nella Chiesa, soprattutto nella Chiesa di Francesco.

Nell’introduzione al volume, Caligiani dice di essere stata ispirata dal libro di Beate Beckmann Zöller, Frauen bewegen die Päpste: Hildegard von Bingen, Brigitta von Schweden, Caterina von Siena, Mary Ward, Elena Guerra, Edith Stein, su quanta influenza le donne del passato ebbero nelle gerarchie ecclesiastiche storiche, e di come posero le basi per la «costruzione di una “teologia al femminile”». Dalla lettura di quel libro è nata l’idea di raccogliere alcuni contributi sui nostri giorni di donne che si trovano ad affrontare gli stessi problemi e le stesse questioni del passato.

Le voci che ne emergono non sono un unisono, anzi, alle volte sono molto discordanti tra loro, riflesso di modi diversi di vivere la propria «missione» all’interno della comunità secondo il carisma e la sensibilità di ciascuna.

Un filo comune tuttavia c’è: la ricerca di nuovi modelli e prospettive per la costruzione di una nuova «teologia al femminile». Ciò che non viene negato è l’indiscusso, ma forse poco conosciuto, contributo delle donne nella storia della chiesa, ma da tutte le interviste emerge, più o meno marcatamente, che soltanto con l’accesso delle donne alle facoltà teologiche sancito dal Concilio Vaticano II si è avuto un vero punto di svolta nello studio e nella riflessione biblico-teologica.

Le dissonanze si sentono su altre questioni: se da una parte le riflessioni di studiose e teologhe del calibro di Cettina Militello, Adriana Valerio, Cristina Simonelli, Marinella Perroni e Serena Noceti puntano l’attenzione sugli stereotipi di genere, sull’emarginazione delle donne, sul «femminismo come onda d’urto», sull’antropocentrismo e sull’«esercizio diffuso del potere maschile», sia a livello politico che ecclesiale, affrontando anche di petto la questione del gender (inteso come genere) e le relazioni di potere uomo-donna (modelli e paradigmi che continuano a essere perpetuati), dall’altra, i toni di Mery Melone, di suor Marcella Farina, tra le altre, si fanno più pacati e più in linea con l’idea del «genio femminile» della Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II.

Diverse e molteplici sono anche le considerazioni sull’istituzione del diaconato femminile, per il quale, ad esempio, Serena Noceti si dichiara a favore perché introdurrebbe un «necessario riequilibrio con la figura del prete nella comunità».

Nonostante l’intento del libro non sia quello di fornire una summa sulla discussione in atto nella Chiesa circa la teologia femminile e femminista, ma piuttosto di stimolare una discussione sul tema, l’assenza di una conclusione comune sembra indebolire il volume lasciandolo in una certa misura irrisolto.

Dal libro, tuttavia, emerge un’opinione condivisa e una speranza che il futuro potrà essere più «roseo» per le donne in questa Chiesa di Francesco, e la necessità di una comunione di visioni, nel rispetto delle differenze individuali di ciascuna, che possa costituire un «approccio fecondo» alla discussione.




Tu, l’Eterno, in un tempo e in un luogo

Testo di Luca Lorusso


Si narra che sei venuto nella carne. Poco più di duemila anni fa. Proprio tu. Il Signore della vita. Il Creatore. Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, e di tutti i viventi.

Si narra che sei nato come tutti noi e sei stato allevato secondo la cultura e sensibilità del tempo. Tu, l’eterno, in un anno preciso, in un luogo, una lingua, una religione, un contesto irripetibile, come irripetibile è ogni contesto e ogni vita.

Si narra che sei nato da una giovane donna capace di dire un sì limitato che ha aperto orizzonti illimitati. Una ragazza capace di cantare la gioia per lo sguardo d’amore che ha sentito su di sé, per i troni rovesciati e gli umili innalzati, per la promessa ad Abramo realizzata, e non ancora, nel suo grembo.

Si narra che sei stato accolto e accudito da un falegname sognatore che ti ha salvato dal tiranno portandoti profugo in un paese straniero. Un uomo semplice e giusto, capace di leggere e affrontare la storia con occhi resi limpidi dallo Spirito.

Si narra che il cosmo intero si era predisposto a darti il benvenuto e che tu hai ricambiato l’attesa squarciando le tenebre con la tua luce.

Da quel giorno sono accaduti diversi prodigi straordinari, e molti altri ordinari, al culmine dei quali sei morto e poi risorto. Tu, Amato dell’Amante, hai riposto la morte e la vita nell’Amore. Amante a tua volta di ciascuno di noi, ci immergi nel tuo Amore perché anche noi vi immergiamo qualunque creatura incontriamo.

Buon Avvento e buon Natale da amico.

Luca Lorusso


Sulle strade del mondo e della vita

Giovani in viaggio verso l’altro e verso se stessi

Cinque esperienze dell’estate 2019 e tanto altro tutto da scoprire sulle pagine del sito di Amico

Tanzania 100

Il gruppo di Bevera (LC)

Tanzania: dono da custodire

Il gruppo di Regina delle Missioni (Torino)

1000 mondi a Galatina

Il gruppo di Galatina (LE)

Certosa: l’arte del scegliere

SìAmo viaggi!

Giovani al campo missionario del CAM di Martina Franca (TA)

 

 




In uscita con Filippo

Teasto di Angelo Fracchia |


Si è detto per lungo tempo, e qualcuno ripete ancora oggi, che il vero fondatore del cristianesimo non sia stato Gesù di Nazaret, ma Saulo di Tarso. Il grande e imprevedibile snodo della prima generazione cristiana è stata la scelta di non chiudere le porte della propria comunità a chi non era ebreo, e il grande teorizzatore di questa scelta è stato, appunto, Saulo/Paolo.

Probabilmente erano insinuazioni diffuse già nel primo secolo d.C., se è vero che Luca, quando scrive la storia della prima comunità cristiana, si concentra principalmente su Paolo, sforzandosi però nel contempo di dimostrare che non è stato lui l’artefice dell’apertura del battesimo ai gentili (ossia agli appartenenti alle genti, vale a dire tutti coloro che non facevano parte dell’unico vero popolo, quello ebraico).

Abbiamo già visto come e con quale intensità Luca si sforzi di indicare ai suoi lettori il responsabile ultimo che ha guidato la Chiesa ad aprirsi a tutti: lo Spirito Santo.

È in questo contesto, e con questo scopo, che va letto il capitolo 8 degli Atti degli Apostoli, probabilmente meno noto di altri brani, ma non meno significativo.

Al di là dell’ortodossia religiosa

Filippo è uno dei sette diaconi, destinati, ci dice Luca, alla distribuzione dei viveri tra le vedove ellenistiche (cfr. Atti 6,1-6 e anche MC 8-9, pag. 33). «Ci dice Luca» è un inciso obbligatorio, perché in realtà di quei sette, cinque non lasciano altre tracce nello scritto lucano.

Il primo, quindi il più importante, Stefano, muore linciato per aver predicato contro il tempio (cfr. Atti 7). Il secondo che viene citato è Filippo: anche lui non viene mai presentato nell’atto di gestire le mense, il che vuol dire che i diaconi come minimo facevano anche altro. In verità, quando Stefano viene ucciso e una persecuzione disperde i fratelli in giro per il Vicino Oriente (Atti 8,4), anche Filippo parte da Gerusalemme, ma per andare a predicare.

E se lo stupore non fosse già abbastanza («Ma non doveva occuparsi del sostegno alle vedove ellenistiche»?), ci sorprende il luogo in cui si reca a predicare: va infatti in Samaria (Atti 8,5). Noi lettori moderni, quando sentiamo parlare della Samaria, rischiamo di essere fuorviati dalla parabola del «buon samaritano» (cfr. Lc 10,30-35) e da qualche altro accenno benevolo di Gesù nei loro confronti (cfr. Lc 17,11-18; Gv 4), pensandoli come brave persone e basta. In realtà la tensione tra giudei e samaritani ai tempi di Gesù è altissima da almeno due secoli. Non è un caso che persino nei vangeli ce ne siano echi:

  • in Mt 10,5 Gesù manda i discepoli a predicare, ma dice loro di non entrare nelle città dei samaritani,
  • in Lc 9,52-55 un villaggio samaritano non lascia passare Gesù che è diretto verso Gerusalemme (e Giacomo e Giovanni invocano su quel villaggio un «fuoco dal cielo»),
  • addirittura Gesù viene accusato di essere un samaritano (o un indemoniato: evidentemente si pensava che i due termini fossero in qualche modo sinonimi – cfr. Gv 8,48). Secondo la tradizione ebraica, i samaritani non sono ebrei, e possono essere disprezzati più dei pagani.

Filippo in Samaria

Eppure Filippo si incammina verso la vicina comunità eretica, dove peraltro la sua predicazione incontra un (insperato?) successo. La dinamica di questi capitoli è significativa. A volte (come nell’episodio di Pietro e Cornelio: Atti 10) le aperture che si verificano sembrano essere frutto di iniziative nettamente nelle mani dello Spirito Santo. Altre volte invece, come qui, si direbbe che a venire per prima sia la decisione umana, la quale dà vita a un frutto che evidentemente dipende dallo Spirito.

In questo capitolo di Atti, a Gerusalemme vengono a sapere che qualcosa è successo in Samaria e mandano Pietro e Giovanni a controllare (e a sgridare Filippo?): loro guardano che cosa accade, vedono che sono visibili i frutti dello Spirito, e ritornano a Gerusalemme lodando Dio per ciò che ha compiuto (Atti 8,14-17).

Anche con questi particolari, apparentemente secondari, Luca insegna che dire: «Dio e l’uomo collaborano nella costruzione del regno di Dio» non è solo un’affermazione scontata, ma è davvero un agire insieme, in una cooperazione tanto piena che non si può neppure prevedere, di volta in volta, chi compia il primo passo e chi si adegui. Sempre, comunque, Dio e l’uomo si dimostreranno corresponsabili della diffusione del Vangelo. Metterli in contrapposizione («Non faccio niente perché lascio fare a Dio»; oppure «Dio agisce esclusivamente attraverso le mie mani») non è cristiano.

Al di là dei vantaggi economici

Segue un episodio che ci può sembrare banalmente buffo e secondario, anche se in realtà è probabile che Luca lo inserisca con piena intenzione. Semplicemente, noi non siamo lettori antichi e alcuni sottintesi non risuonano in noi come risuonavano duemila anni fa.

Per noi, attentissimi al denaro al punto da calcolare con quello anche la forza d’attrazione di professioni e passatempi (una professione vale tanto quanto è pagata), i soldi devono tenersi lontani dalle scelte ideali. Ci viene persino difficile ammettere che chi si dedica a una missione venga anche nutrito dai frutti di quella missione. Per la religione, questo vale in modo ancora più pressante.

L’antichità si comportava in modo diverso: la ricchezza di un tempio era segno dell’affidabilità della sua divinità, che attirava sacrifici e donazioni anche da molto lontano. Quella ricchezza che arrivava a un tempio veniva utilizzata per retribuire i sacerdoti, per riparare le strutture sacre e per fare la carità ai mendicanti i quali, vivendo alle spalle del tempio, dimostravano che la divinità era buona, generosa e capace di aiutare. Ricevere denaro era segno che chi lo offriva riconosceva il valore e l’affidabilità di quella divinità.

Noi oggi tendiamo a vergognarci di santuari o ordini religiosi troppo ricchi, mentre nel primo secolo d.C. era un motivo di vanto, quasi una conferma che la divinità onorata e servita da quel tempio era davvero importante e influente.

Simone di Samaria

Su questo sfondo acquisisce un significato notevole l’episodio di Simone di Samaria (Atti 8,9-13.18-24). Questi era un uomo che faceva prodigi, un po’ come Gesù, e di certo era ritenuto persona importante e affidabile in campo spirituale. Lui, a sorpresa, non si contrappone all’opera di Filippo (come faranno tante autorità religiose da allora in poi e come era già accaduto a Gesù, a Pietro e a Stefano), ma si fa battezzare e cerca poi di entrare nel gruppo dirigenziale del nuovo movimento, offrendo denaro per poter gestire lo stesso potere di guarigione e di effusione dello Spirito che ha visto passare dalle mani dei discepoli.

La risposta di Pietro è durissima: accettare quel pagamento andrebbe a danno del dono di Dio, che è gratuito, e interpretare l’opera divina come compravendita implica di essere malvagi e non aver capito Dio.

Con poche parole Pietro rimarca che al cuore della comunità voluta dal Dio di Gesù c’è la comunione tra Dio e gli uomini e degli uomini tra di loro, e null’altro. La chiesa di Gesù può essere poverissima, perché a interessare a Dio è la relazione personale con gli uomini, che non dipende dalle strutture. Il Dio di Gesù non cerca riconoscimenti o potere, vuole solo donarsi gratuitamente agli uomini.

Filippo battezza Etiope

Al di là dei tabù fisici

Quindi ritorna in scena Filippo, che era rimasto un po’ in secondo piano dopo la prima evangelizzazione della Samaria. Questa volta, però, a condurre le danze è Dio. Un angelo spinge il diacono sulla strada che da Gerusalemme scende al mare di Gaza (ossia, geograficamente dalla parte opposta rispetto alla Samaria): qui trova un eunuco della regina Candace che legge, senza capirlo, un passo di Isaia (At 8,26-40).

Qui, se vogliamo, Luca gioca forse un po’ sporco. Alla corte dei re etiopi, le cui regine avevano il titolo di Candace (non il nome proprio, ma un titolo, come si usa faraone per indicare il re dell’Egitto), i funzionari regi erano definiti eunuchi, anche se ormai da secoli per servire a corte non dovevano fisicamente esserlo. Questo eunuco, se sta tornando da Gerusalemme e legge il rotolo del libro di Isaia, è probabilmente di religione ebraica: forse è andato alla città santa in pellegrinaggio. Gli eunuchi veri e propri, ossia, in genere, coloro che evidentemente non avrebbero potuto generare dei figli, non potevano far parte del popolo ebraico (cfr. Dt 23,2). Ecco perché abbiamo scritto che forse Luca qui gioca un po’ sporco: è probabile che non abbiamo a che fare con un vero eunuco ma solo un funzionario della regina etiope. In ogni caso Filippo è spinto dallo Spirito a parlargli, a spiegargli l’Antico Testamento, a fargli scoprire che esso si compie in Gesù, e a battezzarlo, vedendo scendere su di lui lo Spirito Santo. Di conseguenza siamo portati a pensare che nel Vangelo non si dà più l’impossibilità, per persone come lui – eunuco -, di entrare nella comunità dei credenti in Cristo. Tra l’altro, quasi a mettere una ciliegina sulla torta, il brano di Isaia che l’eunuco sta leggendo parla della debolezza, fragilità e svuotamento di sé del servo di Dio (At 8,32-33, che riprende Is 53,7).

Filippo, missionario degli esclusi

Filippo, protagonista di un solo capitolo degli Atti, è colui che porta il Vangelo della povertà e della fragilità a coloro che erano esclusi dal popolo ebraico, che ciò accada per ragioni fisiche o religiose, e che aiuta a cogliere che il Dio di Gesù non cerca denaro o potere.

E poi, come per magia, viene di nuovo portato dallo Spirito lontano da lì, sulla strada che da Azoto andava lungo il mare fino a Cesarea, ancora in territorio non ebraico.

Il Vangelo, insomma, non ha confini, è per tutti gli uomini aperti a farsi domande e ad accogliere la presenza di Dio, senza precondizioni fisiche, economiche o religiose. E a volere questa apertura sono stati alcuni uomini più coraggiosi, ispirati o aperti, ma, insieme, è stato lo Spirito Santo, che non sopporta vincoli. Il battesimo, ufficialmente, non è ancora aperto a tutti, ma già sono tanti gli ex pagani che fanno parte della comunità dei fratelli. La legge interverrà più tardi, con fatica, a ratificare ciò che lo Spirito ha già compiuto di slancio.

Angelo Fracchia
(continua)




Pakistan: Una chiesa piccola ma tenace

Testo di Marta Petrosillo e foto di ACS, Aiuto alla  Chiesa che soffre |


In Pakistan la chiesa è piccola e perseguitata, ma anche apprezzata da molti per le sue opere. I missionari che lavorano nel paese tra scuole, ospedali, evangelizzazione, sono persone forti, determinate e di grande fede.

«Vivo da molti anni in Pakistan. La difficile missione in questa terra islamica dà tanto valore alla mia vita paolina. Mi sento privilegiata a stare tra questi cari cristiani perseguitati. Con la loro fede e testimonianza, mi evangelizzano. Come Paoline abbiamo un compito, un ruolo, una missione apostolica significativa. Ci sentiamo e siamo riconosciute come “sorelle della Bibbia” che lavorano per raggiungere il popolo con la Parola di Dio. Un dono per la nostra vocazione, un impegno, una passione, una scelta del cuore. Lui mi ha condotta in tutti questi anni; mi ha dato gioia, amore e grazia. La sua tattica spirituale è inconfondibile: chiama alla missione attraverso non pochi sacrifici e chiede sempre distacco…». Così scriveva suor Daniela Baronchelli, figlia di San Paolo, che ha vissuto trentasette dei suoi ottantasette anni di vita – conclusasi il 23 marzo 2019 – in Pakistan.

In una terra difficile

Suor Daniela amava profondamente il Pakistan, terra difficile, a volte ostile, così come amava il popolo pachistano tutto, sia cristiano che musulmano. Al punto che, come lei stessa ci ha confidato, dal 2016 aveva scelto di non tornare più in Italia. «Oramai è questa la mia terra, e voglio essere sicura di morire qui». Oggi la sua tomba, nel cimitero cristiano di Lahore, è meta di pellegrinaggio delle tante persone che ha aiutato.

Come lei, tantissimi altri missionari hanno trascorso la loro vita nel paese asiatico, contribuendo in modo determinante all’evangelizzazione e allo sviluppo della piccola minoranza cristiana, ma anche dell’intera popolazione. Come sempre, infatti, nonostante le modeste dimensioni della comunità cattolica – appena l’1% dei 190 milioni di abitanti -, la Chiesa ha fatto molto, e continua a fare moltissimo in ambito educativo e sanitario.

Il ruolo dei missionari

I primi missionari giunsero in queste terre da Portogallo, Francia e Gran Bretagna, al seguito delle potenze coloniali. La prima chiesa cattolica in Punjab, a Lahore, fu costruita intorno al 1597 dai gesuiti provenienti dallo stato indiano di Goa, allora colonia portoghese. Più tardi, il cristianesimo fu portato principalmente dall’impero britannico, alla fine del Settecento e nell’Ottocento. Questo è evidente se si guardano i centri urbani fondati dagli inglesi, come la città portuale di Karachi dove si erge la maestosa cattedrale di San Patrizio, una delle chiese più grandi del Pakistan, oppure le chiese di Rawalpindi, dove gli inglesi si stabilirono.
Il ruolo dei missionari è stato fondamentale: molte congregazioni sono all’origine della nascita delle diverse diocesi. I cappuccini hanno dato vita a quella di Lahore, gli Oblati di Maria Immacolata al vicariato apostolico di Quetta, la Società missionaria di San Giuseppe di Mill Hill alla diocesi di Islamabad Rawalpindi.

La scuola, tra le altre cose

«Sono davvero molto grato e ho profondo rispetto per l’immensa opera compiuta dai missionari europei in Pakistan. Questi religiosi hanno giocato un ruolo determinante per lo sviluppo della nostra Chiesa», ci dice il cardinale Joseph Coutts, unico porporato del paese.

Il viso del cardinale s’illumina ricordando i tanti missionari che ha incontrato nel suo cammino, prima di sacerdote e poi di vescovo, e che hanno fatto parte della sua vita fin da prima della sua nascita: «I miei genitori sono stati sposati nel 1940 dall’allora parroco della cattedrale di St. Patrick, James Cornelius van Miltenburg, un francescano olandese poi divenuto arcivescovo di Karachi e in seguito di Hyderabad».

Molte delle scuole cattoliche del Pakistan sono nate grazie all’opera dei missionari. «Oggi le nostre scuole continuano il lavoro dei primi missionari», afferma il cardinal Coutts notando come nel paese vi siano oltre 300 istituti cattolici. A Karachi ve ne sono 56, di cui tre situati nel compound della cattedrale. E – come abbiamo potuto osservare di persona – non è raro che all’orario di uscita degli studenti, l’auto del porporato debba faticare un bel po’ per entrare dal cancello principale.

L’educazione è essenziale in un paese nel quale l’analfabetismo sfiora in alcune zone l’85%. «Le nostre scuole sono molto apprezzate, anche dai musulmani, perché insegniamo valori come la fratellanza. Nei nostri istituti hanno studiato anche ex presidenti, così come molti impiegati pubblici, militari, ambasciatori e altri funzionari».

«Libri, non mattoni»

A Youhanabad, quartiere cristiano di Lahore, vive un religioso che incarna la bellezza della chiesa pachistana. È padre Edward Thuraisingham, degli Oblati di Maria Immacolata. È giunto in Pakistan dallo Sri Lanka ormai 40 anni fa. Si è sempre dedicato ai poveri e in particolar modo all’educazione dei bambini. Padre Edward è fortemente impegnato a salvare dalla schiavitù, attraverso l’istruzione, i figli dei lavoratori delle fornaci di mattoni (vedi MC 8-9/2019 p. 20).

In queste fabbriche, intere famiglie sono costrette a lavorare per pochi euro al mese, spesso allo scopo di restituire debiti contratti con i proprietari della fornace. «Libri, non mattoni», è il motto del religioso che ha aperto ben cinque scuole per questi ragazzi e per altri bimbi orfani o appartenenti a famiglie povere. Durante una nostra visita a Lahore, padre Edward ci ha accompagnato in una di esse, poco distante da una fabbrica di mattoni. La struttura è, in realtà, una parte della stessa casa di Solomon Bhatti e di sua moglie Sabbah, che insegnano anche a leggere e a scrivere ai piccoli alunni di età compresa tra i 5 e i 15 anni. «Pensiamo a tutto noi, libri, retta scolastica e divise – ci dice padre Edward -. Se dovessero affrontare delle spese, le famiglie non li manderebbero a scuola. Anzi, in realtà non è sempre facile convincere i genitori, perché in molti preferiscono che i figli li aiutino a fabbricare mattoni». Proprio mentre parla con noi, padre Edward viene informato da uno degli insegnanti che un bambino si è presentato a scuola senza scarpe. Prontamente il sacerdote fruga nelle sue tasche per racimolare qualche rupia e provvedere ad acquistarne un paio. I vestiti del sacerdote sono logori e macchiati del fango della fabbrica, e il suo pakol, berretto tipico dell’Afghanistan e di alcune zone del Pakistan, ha probabilmente qualche anno. Ma padre Edward non se ne cura e riserva ogni singola donazione ai suoi bambini.

«L’istruzione è l’unica via per uscire dalla schiavitù delle fornaci e da un destino segnato come quello di tanti cristiani qui in Pakistan», afferma raccontando come una delle sue ex alunne, Lina, sia oggi microbiologa alla Nasa.

Ospedali missionari

Un altro fiore all’occhiello legato alla presenza dei missionari in Pakistan sono gli ospedali cattolici. A Karachi abbiamo visitato l’Holy Family Hospital, oggi considerato uno dei migliori ospedali della città. La struttura è stata fondata nel 1948 dalle Medical Mission Sisters, un ordine religioso femminile con sede a Philadelphia, Usa, in un momento in cui esistevano pochissime strutture sanitarie in Pakistan. La fondatrice delle Medical Mission Sisters, la dottoressa Anna Dengel, arrivò nel 1920 a Rawalpindi per lavorare come medico. Poi si trasferì a Karachi. Oggi l’ospedale è gestito da suor Mary.

«Suor Mary è stata un dono del cielo per noi – ci ha raccontato il cardinal Coutts -. Si dedica giorno e notte al nostro ospedale che, pur essendo una struttura cattolica, conta soltanto uno o due medici cristiani. Per il resto il personale è composto soprattutto da musulmani e da qualche indù. Noi lavoriamo così: tutti insieme. Ed è anche attraverso strutture come l’Holy Family Hospital che diffondiamo i nostri valori cristiani».

La Madre Teresa del Pakistan

Una vera e propria icona della sanità pachistana è suor Ruth Katherina Martha Pfau, nota come la Madre Teresa del Pakistan. Nata nel 1929 a Lipsia, in Germania, da genitori cristiani luterani, nel 1957 la Pfau, dopo essersi laureata in medicina, si unì all’ordine delle Figlie del Cuore di Maria a Parigi. Nel 1960 fu inviata nell’India meridionale, ma un problema con il visto la costrinse a rimanere a Karachi.

Aveva solo 31 anni suor Ruth quando, un giorno per caso, visitò il lebbrosario vicino alla stazione ferroviaria della città. Fu allora che decise di dedicare il resto della sua vita al popolo pachistano e alla battaglia contro la lebbra fino alla sua morte avvenuta il 10 agosto 2017.

In una piccola capanna del lebbrosario diede vita a un piccolo centro per le cure, poi divenuto il Centro di lebbra Marie Adelaide. Iniziò a viaggiare in tutto il paese per curare i malati di lebbra, principalmente i bambini che spesso venivano abbandonati dalle loro famiglie, oppure chiusi in piccole stanze per tutta la vita.

Grazie ai suoi continui sforzi, nel 1996 l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarò il Pakistan uno dei primi paesi in Asia ad aver controllato la lebbra. Le autorità pachistane la nominarono consigliere federale per la lebbra presso il ministero della Sanità nel 1979, e nel 1988 le concessero la cittadinanza, un fatto piuttosto raro, considerando che quasi tutti i missionari stranieri, pur essendo in Pakistan da decenni, sono costretti a rinnovare il visto ogni anno e con non poche difficoltà.

Il popolo la ama, come dimostra la cura con cui tantissimi tengono in ordine la sua tomba nel cimitero di Gora Qabaristan a Karachi, che abbiamo avuto modo di visitare. Proprio lì abbiamo incontrato delle persone che, pur non conoscendola, si recano spesso a pregare di fronte alla sua lapide. «Siamo stati anche al suo funerale – ci racconta Hamid, circa una cinquantina d’anni -, è stato emozionante, tante persone erano lì per ringraziarla». Suor Ruth ha avuto l’onore dei funerali di stato. Dietro al feretro, durante la camera ardente, uno striscione ricordava i 57 anni di servizio per sconfiggere la lebbra e risollevare le sorti degli emarginati del Pakistan, e riportava la frase: «È difficile dimenticare qualcuno che ti ha donato così tanto».

Pakistan, Sr. Daniela Baronchelli (Figlie di San paolo – Paoline), St. Paul Book Center in Karachi

Le postine di Dio

Il lavoro dei missionari non riguarda ovviamente soltanto l’ambito umanitario, ma anche la cura pastorale e l’evangelizzazione. Le Figlie di San Paolo sono le uniche a distribuire la Bibbia cattolica nel paese. Abbiamo visitato una delle loro librerie a Karachi. Nella grande metropoli pachistana il bookshop si trova nel caotico quartiere di Saddar. La cattedrale di San Patrizio non è molto distante, ma la presenza musulmana è ovunque. Uomini con abiti e copricapo islamici affollano il marciapiede di fronte alla libreria.

Le suore, oltre a libri cattolici di dottrina e spiritualità, rosari, cd e dvd su temi cristiani, vendono anche immagini sacre, cosa che dai musulmani viene considerata un peccato grave.

Come ci racconta suor Agnese Grones, missionaria del bellunese in Pakistan dal 1980, nel 2005 la polizia effettuò un raid nella libreria dopo che, dalle colonne del quotidiano nazionale «Nawa-I-Waqt», estremisti locali avevano accusato i cristiani di vendere cd contenenti caricature della morte di Maometto. Alcuni leader musulmani avevano perfino emesso una fatwa, un verdetto di condanna, contro i filmati e chiesto l’apertura di una causa per blasfemia contro le suore. Spesso i talebani fanno circolare dei biglietti con la scritta: «Chiudete o morirete». Ma, pur coscienti del pericolo, le missionarie non si danno per vinte.

«All’inizio è stato difficile – ci dice suor Agnese -, ma ora è questa casa mia. Anzi quando d’estate torno in Italia, mi rendo conto che non sono più abituata neanche al freddo delle mie montagne». Per sicurezza, le religiose vestono «alla pachistana» con il tipico abito shalwar kameez celeste e lo scialle bianco, ma tutti ovviamente sanno chi sono quando le vedono girare per le diverse basti (le grandi periferie di Karachi) per insegnare il catechismo ai bambini e spiegare alle mamme l’importanza di educare i propri figli alla fede.

In tutto il Pakistan le Paoline distribuiscono catechismi e Bibbie e hanno persino un cineforum itinerante grazie al quale proiettano ovunque film sulle vite dei santi e altri video per diffondere i valori cristiani. «Siamo coscienti del pericolo, ma è un rischio che tocca tutti i cristiani in Pakistan – ha più volte testimoniato suor Daniela Baronchelli -. Distribuire la Bibbia è una grande gioia per noi che siamo le suore della Bibbia, le postine di Dio».

Marta Petrosillo
portavoce di Acs Italia




Tutti «a casa loro», ma quale casa?


Circa un miliardo di persone sul pianeta vive in una baraccopoli, 100 milioni sono senzatetto e altrettanti sono i bambini e ragazzi di strada. Dal 2008 a oggi una media di 24 milioni di persone all’anno ha perso la propria casa per inondazioni, tempeste, terremoti o siccità.

«Come ci si sente / ad essere senza una casa / un completo sconosciuto / proprio come un vagabondo (o, alla lettera, una pietra che rotola)». Così Bob Dylan cantava nel 1965, raccontando nei versi della sua celeberrima@ Like a Rolling Stone, la triste storia di una giovane donna nata ricca e finita poi a vivere per strada, dopo essersi lasciata illudere, sfruttare e infine abbandonare da un mondo luccicante ma spietato.

L’ultima volta in cui si tentò di quantificare le persone sul pianeta che non avevano una casa era il 2005@: le Nazioni Unite stimarono che i senzatetto veri e propri fossero circa cento milioni, mentre un miliardo di persone mancavano di un alloggio adeguato. Studi più recenti fotograferebbero una situazione nettamente peggiorata: le persone senza una casa degna di questo nome sono stimate oggi in 1,6 miliardi.

Altre indagini si concentrano sui luoghi simbolo dell’emergenza abitativa, le baraccopoli: secondo il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, Un Habitat, nel 2014 erano oltre 880 milioni di esseri umani a vivere in una baraccopoli.

È difficile contare in maniera oggettiva queste persone: ad esempio, ricorda l’Onu in un documento con principi e raccomandazioni per i censimenti@, «la definizione di senzatetto può variare da paese a paese, si tratta essenzialmente di una definizione culturale basata su concetti come alloggio adeguato, standard abitativo minimo della comunità o certezza del diritto fondiario».

Per farsi un’idea più immediata è forse più utile citare alcuni esempi: secondo il sito Homeless World Cup Foundation, in Nigeria ci sono 24,4 milioni di senzatetto; nella sola città di Manila, capitale delle Filippine, se ne contano circa tre milioni. La Germania ha fra i 335mila e i 420mila senzatetto, che salgono a 860 mila se si includono i rifugiati, la Francia ne conta 141mila e l’Italia 50.724@.

I bambini e ragazzi di strada sono un’ulteriore declinazione del fenomeno. Nel 2003 Unicef riportava stime secondo cui erano 100 milioni le ragazze e i ragazzi che non avevano raggiunto l’età adulta, privi di protezione o guida da parte di responsabili adulti e per i quali «la strada (nel senso più ampio della parola, comprese le abitazioni o i terreni abbandonati, ecc.) è diventata dimora abituale e/o fonte di sostentamento» (definizione ufficiale Unicef)@.

Come si finisce in strada o in una baraccopoli?

I motivi per cui ci si trova senza casa o in un contesto abitativo degradato sono diversi. Le Nazioni Unite citano fra questi la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, speculazioni su case e terreni a fini di investimento, privatizzazione dei servizi pubblici, ad esempio il trasporto, conflitti etnici e armati e una rapida quanto mal programmata urbanizzazione. Questi elementi poi si sovrappongono e incrociano con altri, come la perdita del lavoro, l’abuso di alcol, l’uso di droga, le malattie mentali.

A complicare notevolmente le cose vi sono poi le prospettive per il trentennio che abbiamo davanti: secondo le proiezioni Onu, nel 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, contro il 55% odierno pari a 4,2 miliardi di persone. Questo significa che «il graduale spostamento della popolazione umana dalle aree rurali a quelle urbane, combinato con la crescita complessiva della popolazione mondiale potrebbe aggiungere altri 2,5 miliardi di persone alle aree urbane entro il 2050, con circa il 90% di questo aumento concentrato in Asia e Africa»@.

Uno dei falsi miti sugli slum (inglese per baraccopoli) è l’idea che non sia possibile prevedere quanto cresceranno, spiegava al The Guardian@ nel 2016 William Cobbett, della rete globale per lo sviluppo sostenibile delle città, Cities Alliance, e la cosa è affrontata in modo inadeguato specialmente in Africa. «Si pensa che le popolazioni degli slum stiano crescendo principalmente a causa della migrazione urbana. Non è così. In tutto il continente, il grosso dell’aumento di abitanti delle baraccopoli deriva dalla crescita naturale della popolazione». Le proiezioni Onu sul secolo 1950-2050, continua Cobbett, dicono che la popolazione dell’Uganda in un secolo aumenterà di venti volte, la Tanzania di 18 e la Nigeria di 10,5.

Un secondo mito è quello che gli abitanti di una baraccopoli, se potessero, sceglierebbero sempre di vivere in un alloggio «vero». In questo caso la risposta è ni: dipende da quanto bene le autorità competenti pianificano la ricollocazione delle persone. Anche nelle situazioni di degrado più grave spesso si formano delle reti sociali che forniscono servizi informali di solidarietà come il guardarsi a vicenda casa e bambini mentre si è al lavoro. Ricollocare le persone significa strappare queste reti e rendere più difficile la vita sia di chi viene spostato sia di chi resta. Un caso citato dal The  Guardian è quello della baraccopoli di Kibera, a Nairobi: molti abitanti dello slum, inizialmente entusiasti dell’opportunità di trasferirsi in un complesso di appartamenti chiamato The Promised Land, hanno finito per lasciare le nuove sistemazioni perché vi erano disservizi idrici, mentre altri hanno fiutato l’affare decidendo di dare le loro nuove case – in cambio di un affitto molto più alto rispetto a quello agevolato richiesto a loro – ai keniani della classe media. Anche chi era rimasto a Promised Land continuava comunque a fare la spesa nella baraccopoli, perché lì il cibo costava meno.

Perdere la casa per gli eventi naturali

C’è un ulteriore modo per rimanere senza casa: che un ciclone se la porti via. È successo quest’anno in Mozambico, quando il ciclone Idai – seguito dal ciclone Kenneth – ha rovesciato in poche ore la pioggia che di solito cade in mesi. Il ciclone e le successive inondazioni hanno ucciso più di 600 persone e ne hanno ferite circa 1.600. Un milione e 800mila sono state variamente toccate dai danni, pari a 773 milioni di dollari, provocati da Idai a edifici, infrastrutture e coltivazioni@.

Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre@, che monitora le popolazioni sfollate, dal 2008 a oggi una media annuale di 24 milioni di persone ha perso la casa a causa di un evento naturale estremo improvviso, a fronte dei sette milioni e mezzo di sfollati all’anno a causa dei conflitti. Anche quest’anno le cose non sembrano andare molto meglio: nella prima metà del 2019 gli sfollati a livello mondiale sono stati 10,8 milioni, di cui 7 milioni dovuti a catastrofi naturali.

Lo scorso giugno Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, ha avvertito che gli effetti del cambiamento climatico potrebbero creare altri 120 milioni di poveri, vanificando gli ultimi 50 anni di sforzi per ridurre la povertà. «Rischiamo uno scenario da apartheid climatico» ha dichiarato Alston, «in cui i ricchi pagano per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti mentre il resto del mondo è abbandonato alla sofferenza»@.

Il problema del cambiamento climatico si interseca con quello dell’urbanizzazione: il disastro di Freetown, in Sierra Leone, del 2017, in cui 1.141 persone morirono a causa degli allagamenti e smottamenti legati alle forti piogge, ha mostrato che cosa succede quando un evento meteorologico estremo colpisce un agglomerato urbano costruito deforestando ed edificando in maniera informale@.

Chiara Giovetti
[continua a dicembre]


Il nostro impegno con i ragazzi di strada

  • Familia ya ufariji (Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di strada fondata nel 1996 dai missionari della Consolata a Nairobi, Kenya. Ospita fino a ottanta bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Familia ha anche alcune attività agricole che aiutano la struttura a produrre parte del proprio cibo e permettono ai ragazzi ospitati di imparare e praticare l’orticoltura.

  • La Faraja House (Casa della Consolazione) apre nel 1993 a Mgongo (Iringa, Tanzania) per iniziativa dei missionari della Consolata con l’obiettivo di assistere e reinserire i ragazzi di strada. La struttura, in grado di accogliere fino a 100 persone, sorge accanto a una scuola tecnica – nella quale i ragazzi ricevono formazione professionale – e a un dispensario che fornisce loro le cure fondamentali.

Aiutaci a coprire i costi per dare una casa a un bambino di strada perché possa mangiare, studiare e ricevere le cure necessarie alla sua età.


Il nostro lavoro accanto a chi ha perso la casa per un evento naturale estremo

Lo scorso marzo il ciclone Idai si è abbattuto sul Mozambico. Le inondazioni che ne sono seguite hanno colpito anche diverse zone in cui sono presenti i missionari della Consolata, fra cui Cuamba e Tete. In quest’ultima località Missioni Consolata Onlus, grazie alla generosità di diversi donatori, ha contribuito alla ricostruzione di 12 case.

  • Sarà possibile sostenere questo progetto anche visitando la mostra di solidarietà che gli Amici Missioni Consolata organizzano ogni anno in occasione della festa dell’Immacolata.
    La mostra sarà aperta dal 4 all’8 dicembre nei locali della parrocchia Maria Regina delle Missioni, a Torino, in via Cialdini 20, vicino al Provveditorato.

  • Si può anche sostenere il progetto con donazioni attraverso Missioni Consolata Onlus.

Aiutaci a ricostruire le case distrutte da eventi climatici estremi.




Per un salario dignitoso (nell’era della disoccupazione)

Testo di Francesco Gesualdi |


Un sistema economico fondato sulla competizione internazionale tende a comprimere salari e diritti. In questo modo i nemici dei lavoratori diventano altri lavoratori. L’introduzione di salari minimi che assicurino la vivibilità appare ancora lontana. Intanto l’occupazione continua a ridursi a causa dell’avanzata dell’automazione. Una questione affrontabile soltanto con la ridistribuzione: del lavoro o del reddito.

Una società che si preoccupa del lavoro mi è sempre sembrata strana. Quando, ancora ragazzo, passai dal mondo rurale a quello urbano, rimasi sbalordito sentendo che la gente si angosciava per il lavoro. Davanti agli occhi avevo l’immagine del contadino sfinito dietro all’aratro. Fra lui e i buoi non si capiva chi faticasse di più, ed ero cresciuto con la convinzione che meno si lavora, meglio si sta, perché il lavoro è abbrutimento e fatica. Ma poi mi ritrovai in un mondo dove la gente si disperava se non faticava. Che fossero tutti matti? Tanto più che guardandomi attorno vedevo un sacco di lavoro da fare. Strade sporche da pulire, scuole scrostate da intonacare, giardini pubblici da sistemare. Se la gente aveva così tanta voglia di fare, perché non si dedicava a ciò di cui c’era bisogno?

Mi ci volle del tempo per capire che si scrive lavoro, ma si pronuncia denaro. Non potevo immaginare che il mondo fosse popolato da una massa di nullatenenti che per vivere devono implorare un padrone perché compri il loro lavoro in cambio di un salario che poi spenderanno in un supermercato. Tanto meno potevo immaginare che questa dipendenza fosse considerata normale. Dov’è la nostra libertà se la nostra sopravvivenza dipende dalle decisioni di altri?

Lavoratori contro lavoratori

Ora che siamo in trappola abbiamo due problemi: come vivere da prigionieri nel miglior modo possibile e come uscire dalla trappola. Finché siamo in prigionia il nostro obiettivo è un posto di lavoro a condizioni decenti. Compito non facile, perché per costringerci ad accettare di lavorare per salari sempre più bassi, il mercante ha cercato di trasformarci in gladiatori: lavoratori contro lavoratori in lotta per posti di lavoro sempre più scarsi. In passato il gioco al massacro venne evitato perché invece di combattersi, i lavoratori si allearono. Così riuscirono ad imporre aumenti salariali, diritti sindacali, tutele previdenziali. Per tutti. Oggi dobbiamo fare lo stesso se vogliamo uscire dall’angolo. Ma il contesto si è fatto più difficile e servono nuove strategie.

Un tempo, quando le economie erano più chiuse, la competizione si giocava fra lavoratori che potevano dialogare fra loro perché appartenevano agli stessi territori. E avevano capito che conveniva unirsi piuttosto che combattersi. Ma oggi che merci, capitali e investimenti sono stati messi in libertà, la competizione si è fatta internazionale. Le imprese si comportano come avvoltoi che volteggiano in cielo pronti a gettarsi dove avvistano la loro preda. Che tradotto significa trasferimento della produzione dove i salari sono più bassi e i diritti meno tutelati.

Così abbiamo finito per sentirci in guerra col cinese, con l’indiano, col polacco e acclamiamo chi paventa guerre commerciali con paesi stranieri e applica riduzioni di tasse sui capitali per richiamare la produzione in patria.

Salari minimi: dignità è vivibilità

Il nostro progetto deve essere ambizioso. Dobbiamo costringere a livello globale le imprese a mettere radici nei territori in cui si impiantano perché, ogni volta che se ne vanno, gettano decine, se non migliaia di famiglie nella disperazione. E poiché le differenze salariali sono il grande incentivo alla delocalizzazione, l’obiettivo su cui dobbiamo concentrarci è l’uniformità salariale. Certo non si può pretendere di avere contratti collettivi mondiali, né salari uguali in tutti i paesi. Ma si può cercare di ridurre le differenze spingendo tutti i paesi del mondo ad adottare gli stessi criteri per la definizione dei salari minimi. Criteri che per essere dignitosi non possono essere che quelli del salario vivibile, un concetto messo a punto dalla «Clean Clothes Campaign» (vedi riquadro p. 42) secondo la quale il salario deve coprire quanto meno le spese per i bisogni fondamentali del lavoratore stesso, del coniuge e di due figli a carico. Se in Italia avessimo un salario minimo legale fissato secondo questo criterio non esisterebbe lo scandalo di contratti pirata che per le categorie più basse prevedono salari inferiori ai sei euro all’ora. Non avremmo neanche lo scandalo di paesi con salari minimi legali ben al di sotto della soglia di vivibilità. In Ungheria ad esempio il salario minimo corrisponde appena al 22% di quello necessario per vivere dignitosamente, mentre in Bulgaria al 18%. Queste gravi sfasature non potrebbero esistere se il principio del salario vivibile facesse parte integrante della normativa internazionale. Ma si può sempre rimediare spingendo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), l’organismo dell’Onu dedicato al lavoro, ad adottare una convenzione ad hoc. L’aspetto interessante è che dentro a questo organismo siedono anche i sindacati che potrebbero farsi promotori di una simile iniziativa. Una circostanza che permette anche a noi di giocare un ruolo attivo, portando la proposta dentro al sindacato in cui militiamo. Senza dimenticare che in attesa di una convenzione internazionale, potremmo attivarci per ottenere un’anticipazione almeno a livello di Unione europea. Il tempo pare propizio considerato l’impegno assunto dalla neo commissaria Ursula von der Leyen a favore di un salario minimo comunitario. Ma tutto dipende dai contorni che assumerà. Sarebbe un grave flop se,  invece di affermare il principio del salario vivibile, ancora una volta trionfasse la logica dei costi e della concorrenza.

L’avanzata dell’automazione

L’altro grande nemico dell’occupazione è l’automazione. Per ammissione generale il settore che ne risentirà di più sarà quello manifatturiero, e per ironia della sorte i lavoratori maggiormente a rischio saranno quelli dei paesi di recente industrializzazione. Foxconn, l’azienda taiwanese che produce quasi la metà dei componenti elettronici destinati al consumo di massa e che ha tra i suoi clienti tutti i colossi del settore, da Apple a Microsoft, ha già intrapreso una lenta, ma costante, marcia verso l’automatizzazione.

Anche in ambito tessile sono stati messi a punto robot capaci di tagliare e assemblare vestiti rendendo superflui milioni di lavoratrici asiatiche e mandando contemporaneamente in fumo i sogni di sviluppo occupazionale perseguiti da un paese come l’Etiopia che ambisce a diventare la Cina dell’Africa. Uno studio condotto nel 2016 dall’Oil su Cambogia, Indonesia, Vietnam, Filippine e Thailandia, prevede che a causa della tecnologia, questi paesi avranno una perdita del 56% dei posti di lavoro. Praticamente tre su cinque.

A fine Settecento, era sorto un vero e proprio movimento, il luddismo, contro l’avanzare della tecnologia che estrometteva manodopera. Ma il movimento venne sconfitto, le macchine continuarono ad avanzare e la catastrofe non si palesò. Soprattutto a causa della crescita economica che assorbiva i fuoriusciti. Tutt’oggi il sistema propone questa ricetta come soluzione, dimenticando però, che non siamo più all’anno zero. Dopo due secoli di crescita galoppante, le risorse si sono assottigliate e i rifiuti accumulati: la crescita non è più possibile a meno di non volerci votare all’autodistruzione. E allora non ci rimane che una strada, in parte già battuta nel passato.

La necessità di ridistribuire

Se di lavoro salariato ce n’è meno perché le macchine si sostituiscono a noi, dobbiamo accettare di vivere in una società dove pochi lavorano e molti fanno la fame oppure dobbiamo ridistribuire ciò che c’è. Con due opzioni possibili: la ridistribuzione del lavoro o la ridistribuzione del reddito.

Ridistribuire il lavoro significa creare lavoro per tutti tramite la riduzione dell’orario di lavoro. Ridistribuire il reddito significa garantire una sopravvivenza a tutti prelevando i soldi a chi ce li ha. In un caso abbiamo una società di uguali tramite il lavoro; nell’altro una società di uguali tramite il sistema fiscale. Personalmente propendo per una distribuzione del lavoro: non mi pare né logica, né dignitosa, una società di pochi che lavorano e molti che vivono alle loro spalle. Ma la riduzione dell’orario di lavoro è fortemente osteggiata dalle imprese perché, a loro dire, fa aumentare il costo del lavoro. Forse anche per questo si è fatta strada la proposta della distribuzione del reddito che però non ha vita facile neanch’essa. La prospettiva di pagare più tasse fa torcere il naso non solo agli ultra ricchi, ma anche al ceto medio. E nel tentativo di non scontentare nessuno, una certa politica sceglie l’assistenza finanziata a debito. Ma si tratta di una toppa peggiore del buco perché, passato il sollievo del momento, la situazione si fa ancora peggiore per gli interessi da pagare e il capitale da restituire.

Per la casa comune con la tassazione del tempo

Se proprio debito deve essere fatto, che almeno sia a vantaggio della casa comune, la parte di economia che dovremmo rafforzare per tre buone ragioni.

La prima: si occupa di beni comuni e bisogni fondamentali. La seconda: è a vantaggio di tutti perché funziona sulla base della solidarietà invece che della compravendita. La terza: può essere un volano potente di creazione di posti di lavoro. Un aspetto, quest’ultimo, che ci sfugge perché abbiamo la testa impregnata di mercato. Nel nostro immaginario le uniche che possono creare lavoro sono le imprese che producono per vendere. Invece esiste anche l’altra possibilità: la comunità imprenditrice di se stessa che si organizza per la difesa dei beni comuni e la garanzia dei diritti per tutti. E se da una parte si attrezza di campi, boschi, macchinari, fabbriche e tutto il resto che serve per produrre beni e servizi, dall’altra fa funzionare la sua macchina produttiva col lavoro di tutti retribuito non con un salario, ma con l’accesso a servizi gratuiti. Ecco il nuovo patto che ciascuno di noi dovrebbe stipulare con la collettività: lavoro gratuito in cambio di servizi gratuiti. Se entrassimo nella logica di contribuire alla cosa pubblica più che attraverso la tassazione del reddito attraverso la tassazione del tempo, potremmo trasformare la macchina pubblica in una grande area di sicurezza occupazionale per tutti. Il tempo di lavoro calcolato in base ai bisogni da soddisfare e all’ammontare complessivo di tempo che i cittadini possono mettere a disposizione. Forse non verrebbe fuori neanche una giornata a testa a settimana, ma rappresenterebbe un minimo occupazionale garantito per tutti che ci farebbe sentire tutti cittadini con pari dignità. La dimostrazione che per risolvere i problemi sociali serve testa, cuore e fantasia.

Francesco Gesualdi

 


Una proposta dall’Asia

Il salario «vivibile»

  • Cos’è: salario che permette al singolo lavoratore e ai suoi familiari (partner e due figli) di far fronte ai bisogni di base individuati in cibo, alloggio, vestiario, sanità, energia, trasporti, istruzione. L’orario di riferimento è quello previsto dalla legislazione nazionale, in ogni caso mai superiore alle 48 ore settimanali.
  • Chi l’ha promosso: a livello mondiale il gruppo che ha elaborato la proposta più articolata di salario vivibile è l’Asia Floor Wage Alliance, espressione asiatica della Clean Clothes Campaign. La campagna comprende organizzazioni sindacali e non governative non solo dell’Asia (Bangladesh, India, Indonesia, Hong Kong, Malesia, Pakistan, Sri Lanka, Thailandia), ma anche d’Europa e America del Nord.
  • Progressi realizzati: nel 2009, l’Asia Floor Wage Alliance ha messo a punto un sistema di calcolo di salario vivibile valido per i paesi asiatici. La proposta è usata come base di contrattazione dalle diverse piattaforme nazionali. In Europa il concetto di living wage è stato inserito nella legislazione inglese, ma assume come riferimento la linea di povertà individuata nel 60% del salario medio nazionale.
  • Il sito: https://asia.floorwage.org
  • Il fumetto: dal sito è possibile scaricare due fumetti in inglese che possono servire a due scopi: far riflettere i ragazzi (e gli adulti) sulla tematica del salario giusto e ripassare la lingua inglese.

F.G.




La Chiesa sul divano

Testi di Giacomo Mazzotti e Francesco Pavese, a cura di Sergio Frassetto |


È stata una fortuna (oltre che una grande gioia) per i missionari e missionarie di fondazione italiana, poter iniziare il mese di ottobre incoraggiati da papa Francesco che ha voluto incontrarli e parlare loro a cuore aperto, alla vigilia del «mese missionario straordinario». Con la schiettezza e la sobrietà di stile che lo caratterizzano, ha lasciato loro alcune «perle» che vogliamo condividere con chi ha in cuore passione e «fuoco» missionario (come diceva l’Allamano).

Ci ha colpito non poco la sua descrizione del missionario come di uno che «vive il coraggio del Vangelo senza troppi calcoli, andando anche oltre il buon senso comune, perché spinto dalla fiducia riposta esclusivamente in Gesù». Ma anche il papa è stato colpito nel sentire i missionari, nel loro saluto, ribadire senza tentennamenti: «Siamo missionari ad gentes… ad extra… ad vitam!». «Questo – ha commentato il pontefice – non lo dite come uno slogan, […] ma nella consapevolezza della crisi attuale, accolta come opportunità di discernimento, di conversione, di rinnovamento».

«La gioia del Vangelo» è una delle espressioni più care al papa, che è riuscito a infilarla in una sua «pillola» di metodologia missionaria: «Con la vostra partenza, voi continuate a dire: con Cristo non esistono noia, stanchezza e tristezza, perché Lui è la novità continua del nostro vivere. Al missionario serve la gioia del Vangelo: senza questa non si fa missione, si annuncia un vangelo che non attrae… Anche la Chiesa italiana ha bisogno di voi, della vostra testimonianza, del vostro entusiasmo e del vostro coraggio nel percorrere strade nuove per annunciare il Vangelo – ci sentiamo un po’ imbarazzati nel riportare queste parole, ma… le ha dette proprio il papa – perché la Chiesa esiste in cammino; sul divano non c’è, la Chiesa».

Last, but not least, nel suo discorso, papa Francesco ha dato spazio anche alla gratitudine verso chi ha dato vita agli istituti missionari italiani: «Prima di tutto sento il bisogno di esprimere riconoscenza ai vostri fondatori. In un’epoca storica travagliata, la fondazione delle vostre famiglie religiose, con la loro generosa apertura al mondo, è stata un segno di coraggio e di fiducia nel Signore. Quando tutto sembrava portare a conservare l’esistente, i vostri fondatori, al contrario, sono stati protagonisti di un nuovo slancio verso l’altro e il lontano; dalla conservazione, allo slancio».

E mentre queste parole risuonavano nella splendida sala Clementina, in Vaticano, beh, un fremito di commozione ha attraversato il cuore dei missionari e missionarie della Consolata presenti, facendo affiorare sulle loro labbra il nome del loro beato padre fondatore…

P. Giacomo Mazzotti


Al tramonto

Durante l’ultima malattia l’Allamano era assistito dalle suore missionarie infermiere. Il suo più grande desiderio era di celebrare ogni giorno la santa messa. Un giorno, alla suora di turno disse con tono implorante: «Prega perché possa celebrare la santa messa fino all’ultimo». E al dott. Battistini che gli aveva proibito di alzarsi: «Professore si ricordi che lei ha già sulla coscienza tre messe da me non celebrate». Ed alla suora che gli faceva notare che però aveva fatto la comunione: «Sì, è vero; ma tu non sai che cos’è celebrare una messa!».

Sul fatto di non potere celebrare la messa ritornò più volte: «Sono sacrifici questi tanto grandi, che non ho mai compiuti in vita mia». «Se comprendeste che cosa significa una santa messa in più!». «Ah! La comunione è una gran cosa, ma quale sacrificio per me, non poter celebrare la messa!».

La volontà di Dio prima di tutto

Un giorno la suora che lo assisteva si era assentata per il pranzo. Appena tornata ebbe l’impressione che l’Allamano si fosse aggravato ed esclamò allarmata: «Padre, lei mi muore». Con tranquillità egli rispose: «E tu prega perché si compia la volontà di Dio».

Negli ultimi tempi, avendogli il professore proibito il vino, intervenne tranquillamente con il dott. Battistini che cercava di rimediare: «Lasciamo, signor dottore, che la scienza applichi i suoi ritrovati; io avrò occasione di fare una piccola mortificazione, applicandoci alla sorella acqua, come la chiamava San Francesco d’Assisi, e a un poco di latte annacquato, e così ne sarà glorificato il Signore che ce ne ripagherà largamente nell’ultima cena».

Pochi giorni prima di morire, fece notare ai sacerdoti della Consolata: «Nell’altra malattia [quella del 1900] vi siete preoccupati di farmi ricevere i santi sacramenti, mentre io mi sentivo perfettamente tranquillo; in questa invece, sono io che mi preoccupo di ricevere i conforti religiosi, perché mi sento che mi avvio al termine». Fu subito accontentato con una solenne celebrazione.

L’Allamano fu ardente apostolo fino alla fine. Poche ore prima di entrare in agonia, a suor Paola Rossi che lo assisteva negli ultimi giorni e che era stata da lui incaricata a preparare al battesimo una giovane di 18 anni, con un fil di voce disse: «Mi raccomando quella ragazza!».

Diario degli ultimi giorni

Questa suora infermiera ebbe un’idea intelligente e molto utile: redasse un diario essenziale, datato 20 febbraio 1926, che inizia il 31 gennaio e termina il 16 febbraio. In questo diario descrisse in breve lo stato di salute dell’Allamano: i miglioramenti, i peggioramenti, le visite dei dottori e di tante altre persone. Riferì anche alcune parole che l’Allamano pronunciò nelle diverse situazioni. Ne riporto alcune qui di seguito, con le rispettive date, ma senza fare commenti.

  • Notte tra 8-9 febbraio, alla suora che gli porgeva da bere: «Non ho mai fatto sacrifici così grossi: non celebrare la messa e fare la comunione non digiuno… ma, tra poco diremo la messa eterna».
  • 11 febbraio, alla suora che gli domandava che cosa facesse: «Prego per te e per tutti voi, non posso far altro; e questa è la mia occupazione continua».
  • Notte tra l’11-12 febbraio, alla suora che voleva chiamare l’infermiera per porgergli qualche calmante: «No, aspetta fino alla sveglia delle 5, chissà quanti soffrono questi dolori… non solo io!».
  • Alla suora che gli fece notare come il triduo di preghiere nel Santuario otteneva un effetto positivo sulla sua salute, ripeté per tre volte: «Non questo dovete chiedere, non questo voglio, ma solo il compimento della volontà di Dio».
  • Alla superiora che gli disse che, incominciando il mese di San Giuseppe, avrebbero pregato per la sua guarigione, allargando le braccia: «La volontà di Dio, la volontà di Dio».
  • Esclamava: «Paradiso, Paradiso, Paradiso: ricordati, tre volte Paradiso». Quando gli si raccontava qualcosa di poco piacevole egli ripeteva: «Oh, in Paradiso non ci saranno più queste miserie».
  • 15 febbraio: il mattino fu visitato dal canonico Francesco Paleari della Piccola Casa del Cottolengo, che gli assicurava che faceva pregare le sue suore. Rispose: «Sì, per le cose di lassù». Insistendo il Paleari nel dire che ci sono delle catene che tirano in su, ma ce ne sono tante che tirano in giù, con la speranza di vincere: «No, no, che si faccia la volontà di Dio, non come quella gente lì (alludendo alle suore missionarie) che prega solo per le cose materiali (con ciò voleva dire che pregavamo solo per la sua guarigione)».
  • Più tardi visitato da un signore suo conoscente, il quale gli disse che pregava perché il Signore ce lo conservasse ancora molti anni: «Oh… che si faccia la volontà di Dio»; alla sorella che pure insisteva sulla stessa cosa: «Ma per l’amor del Padre, dovete desiderare che vada in Paradiso. Farò più di là che di qua».
  • Al nipote che, dopo avergli fatto indossare la nuova biancheria, gli disse che sembrava uno sposo: «Oh, sì, fra poco vado alle nozze…».

I più vicini al suo capezzale poterono cogliere ancora dalle sue labbra qualche monosillabo; poi si udì con chiarezza un «Amen» e dal movimento delle labbra si poté cogliere: «Ave Maria». Fu l’ultima parola dell’Allamano su questa terra.

P. Francesco Pavese


L’Allamano: «Mission influencer»

Si è svolto a Roma, dal 25 marzo al 7 aprile scorso, un corso per i nostri formatori Imc, organizzato dalla Direzione Generale. Sono arrivati, quindi, 25 missionari (maestri di noviziato, direttori di seminari teologi, formatori dei Caf, testimoni di situazioni missionarie particolari) provenienti da Brasile, Colombia, Venezuela, Argentina, Kenya, Tanzania, Angola, Portogallo, Italia, Corea. Le due settimane sono state un tempo prezioso di comunione, per conoscersi, condividere le varie esperienze e sentirsi «famiglia della Consolata» nel non facile compito della formazione di coloro che, in un domani non lontano, saranno i futuri missionari della Consolata, figli di Giuseppe Allamano, che potrebbe essere definito, oggi, in un linguaggio comprensibile ai giovani: «Mission influencer».

La presenza del fondatore, visibile già nel logo del corso, è stato come il filo conduttore che ha guidato e unificato temi e contenuti che, essendo la nostra Famiglia missionaria ormai multietnica e internazionale, non potevano che essere variegati e molteplici.

È stato padre Piero Trabucco, ex superiore generale ed esperto in spiritualità a presentare ai formatori la figura del beato Allamano come formatore. Da questa angolatura, padre Piero, supportato da documenti storici, è riuscito a tratteggiare i le caratteristiche di uno stile fatto di atteggiamenti e strumenti formativi, capaci di trasmettere ai missionari la sua vicinanza paterna e «il suo spirito» (come lui lo chiamava). Tutta la sua persona è stata strumento per formare all’amor di Dio e alla passione per «le anime», per fare, cioè, innamorare i missionari di Gesù e della gente: santi, per la missione.

Gli spunti della ricca e corposa relazione di padre Piero sono diventati così il punto di partenza per riflettere su chi è il fondatore per i nostri formatori e come la sua figura, il suo esempio, la sua presenza entrano nei cammini formativi della varie comunità dei giovani aspiranti alla vita missionaria. Ecco alcuni… tweets:

– L’Allamano è importante perché, se non ci fosse lui, non ci saremmo nemmeno noi; rimaniamo senza identità, perché è lui che ha ricevuto l’ispirazione di fondare l’Istituto; è quindi fonte della nostra spiritualità e del nostro carisma.

– La sua umanità (paternità) si vedeva nei rapporti personali, nell’ascolto, nell’accoglienza (aveva tempo per tutti e per ciascuno); la sua pedagogia era fatta di bontà, vedeva sempre il positivo negli altri, anche se non taceva sugli aspetti negativi e da correggere (senza troppi rimproveri).

– Alcuni suoi aspetti ci colpiscono ancora: l’attenzione che aveva per le famiglie degli alunni; l’accogliere le sfide del suo tempo e con coraggio trovare la strada per andare avanti; il suo amore appassionato per l’eucarestia e la Consolata, l’impegno e la generosità nel «fare bene il bene»…

– Lui entra concretamente nel nostro lavoro di formatori quando cerchiamo di vivere la sua spiritualità, trasmettiamo i suoi insegnamenti ai giovani, dedichiamo tempo per leggere di lui e conoscerlo sempre di più, conduciamo uno stile di missione, secondo i suoi insegnamenti…

Al termine di questi giorni, intensi e preziosi, nella messa conclusiva del 7 aprile, è stato consegnato a tutti un messaggio, nel quale tra l’altro si leggeva:

«L’ascolto della parola di Dio ci ha aiutato a rileggere e rimotivare il nostro ministero di formatori, riconoscendo come essenziale e fondamentale l’esperienza di Dio, che siamo chiamati a suscitare anche nella vita dei giovani che accompagniamo.

L’aver riscoperto il nostro fondatore Giuseppe Allamano come modello di formatore, paterno e attento con tutti, ci ha stimolato a guardare alla formazione anzitutto come capacità di accogliere, di stare vicini, di far sentire ai giovani che ci sono cari e di incoraggiarli a vivere con autenticità e generosità l’identità di missionari della Consolata.

L’esortazione di papa Francesco ai giovani, pubblicata proprio in questi giorni, offre un messaggio di speranza e un’indicazione anche a noi formatori di giovani missionari: “Lo sguardo attento di chi è stato chiamato ad essere padre, pastore e guida dei giovani consiste nell’individuare la piccola fiamma che continua ad ardere, la canna che sembra spezzarsi ma non si è ancora rotta. È la capacità di individuare percorsi dove altri vedono solo muri, è il saper riconoscere possibilità dove altri vedono solo pericoli. Così è lo sguardo di Dio Padre, capace di valorizzare e alimentare i germi di bene seminati nel cuore dei giovani” (Christus vivit, 67).

Ringraziamo tutti coloro che ci hanno accompagnato con la loro preghiera e chiediamo al Signore, per intercessione di Maria Consolata e del beato Giuseppe Allamano, di benedire i nostri cammini di formazione per la missione, facendo germogliare i semi di bene seminati in questo corso».

Insomma: riscoprire la «pedagogia allamaniana» per formare dei veri missionari della Consolata, orgogliosi della loro vocazione e felici di poter servire il Signore con gioia e santità di vita, in questo nostro mondo così complicato, differenziato e, spesso, pieno di tanta sofferenza… e  secondo le parole del logo del corso (scritte… in latino, per ovvi motivi di internazionalità): «Andando, annunciate il Vangelo a tutti i popoli», ma in perfetto… Allamano’s style!

p. Giacomo Mazzotti




Libri: Superare i Confini

Testp di Chiara Brivio |


Tre volumi scritti con tre stili, metodi, culture di provenienza differenti. Da una giornalista cattolica, un antropologo e un eclettico intellettuale. Tre testi che parlano di confini: quelli attraversabili dei missionari, quelli sempre in fase di assestamento delle comunità in cerca di identità, quelli che vengono di volta in volta aperti e poi ricostruiti dal tiremmolla tra il potere e la libertà.

Ci sono diversi modi di descrivere i «confini»: possono essere fisici, psicologici, emotivi, immaginari o reali. Abitualmente si tracciano per separare un fuori da un dentro, un di là da un di qua, per fermare dall’altra parte quello che non vogliamo con noi, ad esempio quelle persone che preferiamo non avere nella nostra comunità, nel nostro paese.

I tre libri di questo mese affrontano il tema dei «confini» da punti di vista diversi: da quello di una chiesa, quella missionaria, che aspira all’universalità, e per questo i confini li valica; da quello delle nuove «comunità», altrimenti dette community, che sembrano ignorare completamente i confini in un’epoca nella quale stanno rifiorendo le comunità chiuse; infine da quello di chi vede nei confini creati dal potere un ostacolo alla libertà umana e creativa.

Dove solo l’anima arriva

La giornalista Monica Mondo, conduttrice della fortunata trasmissione Soul su Tv2000, ha raccolto 15 interviste a missionari e missionarie che negli anni sono stati ospiti del suo programma. Le testimonianze sembrano convergere su una domanda chiave: «Che cosa vuol dire fare missione oggi, soprattutto in territori dove la chiesa va completamente rifondata?».

Tra essi c’è chi costruisce interi villaggi, come Pedro Paolo Opeka – vincenziano «carpentiere» che è stato visto a fianco di papa Francesco nella sua recente visita ad Antananarivo, capitale del Madagascar -; chi porta avanti una «intifada dei rosari» tra Israele e Cisgiordania, come suor Donatella Lessio; e c’è chi, come il missionario Fabio Mella, ha portato il cantautore Enzo Jannacci a visitare i boat people, persone senza diritti che vivono su imbarcazioni di fortuna nella baia infestata dai liquami di Hong Kong.

Ma ci sono anche intellettuali e teologi – dal domenicano inglese Timothy Radcliffe al neo cardinale e poeta portoghese José Tolentino Mendonça -, a testimonianza del fatto che la missione si può fare sia «stando là», anche a rischio della propria vita, sia stando «qua», cercando di instaurare un dialogo con laici, non credenti e coloro che si sono allontanati dalla chiesa.

Forse la cosa più curiosa che emerge da questi racconti, a tratti coloriti e divertenti, spesso tragici e commoventi, preceduti dalla prefazione di Paolo Ruffini, prefetto del dicastero vaticano per la Comunicazione, è il ruolo del film di Franco Zeffirelli sulla figura di Francesco d’Assisi, simbolo di povertà radicale. Molti degli intervistati hanno, infatti, dichiarato che fu proprio quella pellicola a confermare e rafforzare la loro vocazione.

Quelli raccontati da Monica Mondo sono uomini e donne che costruiscono ponti, superando ogni confine, come dice uno dei protagonisti: «Dobbiamo essere ponti e non muri. Ponti fra popoli, ponti fra chiese, ponti fra culture».

Comunità

Marco Aime è uno degli antropologi più famosi in Italia, nonché uno dei più prolifici. Questo suo breve e agile saggio, pubblicato dalla casa editrice bolognese Il Mulino, esplora il concetto di comunità dal punto di vista sociologico, antropologico e storico, spiegando come si sia passati dalle «antiche» comunità alle community online del nostro tempo.

Se la caduta del muro di Berlino nel 1989, era forse stato l’emblema della dissoluzione dei confini, oggi, con l’avvento dell’epoca dei Trump e dei Salvini con i loro «prima noi» (americani o italiani che siano), c’è stato un pericoloso ritorno alla paura del diverso, dell’altro, all’ansia generata dall’apparente disgregazione di antiche comunità, spesso puramente immaginarie (à la Benedict Anderson).

Aime fa notare che il paradosso odierno risiede proprio nel rafforzamento di quell’idea di «comunità chiuse» nell’era della globalizzazione e della rete, dove i confini sono stati virtualmente cancellati. L’antropologo ne rintraccia le cause nel passaggio dalla società contadina a quella industriale, con l’avvento del capitalismo che ha monetizzato e commodificato il tempo, fino all’arrivo delle società liquide della rete dove la tecnologia ha annullato questo concetto, rendendoci sempre reperibili e contattabili, nonché sempre più soli.

Il problema fondamentale è che non esiste più il luogo «fisico» dell’incontro, anima dell’essere umano come animale sociale, ma spesso solo quello virtuale. Quanto ha influito questo sulle relazioni sociali? Molto, secondo l’antropologo. Il quale teorizza una fine alquanto funesta per le comunità di oggi, se non saranno in grado di rimettere al centro le relazioni umane, a partire dalle famiglie stesse. «Forse sarà proprio dal nostro spirito di sopravvivenza che nasceranno nuove forme di convivenza, capaci di abbattere e superare certi confini», chiosa l’autore. Non abbiamo quindi che da sperare.

Smurare la libertà

Wole Soyinka è un intellettuale nigeriano, drammaturgo, scrittore, poeta e saggista premio Nobel per la letteratura nel 1986. Il suo volume L’uomo è morto? Smurare la libertà, edito da Jaca Book, raccoglie tre dei suoi testi scritti in diversi momenti sul tema della libertà. I primi due sono il discorso dello scrittore al Nobel del 1986 e un saggio del 1988 sul teatro nelle culture tradizionali africane. Entrambi già pubblicati negli anni ’80. Il terzo, invece, è un inedito intitolato Smurare la libertà, inizialmente scritto del 2004 e successivamente rimaneggiato.

Il filo rosso che lega le parti del libro è quello della libertà:

  • la libertà dal razzismo e dall’apartheid nel discorso di Stoccolma, dedicato a Nelson Mandela;
  • la libertà di espressione artistica scevra da ogni «colonizzazione della mente» nel secondo testo sul teatro;
  • la libertà contro il potere nel terzo testo che contiene una forte critica anche alle religioni cristiana e islamica.

In Smurare la libertà, fulcro della riflessione di Soyinka è il rapporto tra Potere e Libertà (entrambi maiuscoli nel testo): «Il Potere ama i confini. Il Potere si manifesta all’interno di confini, viene esercitato nell’ambito di territori in qualche modo delimitati». Un potere che lotta per la conquista di tutti i territori, spirituali, fisici e corporei, secondo una logica di assoggettamento e asservimento, in un chiaro richiamo all’epoca coloniale. Per il drammaturgo nigeriano ci sono state due cadute negli ultimi decenni che simboleggiano la lotta tra potere e libertà: quella del muro di Berlino nel 1989, che ha visto trionfare la libertà, e quella delle torri gemelle nel 2001, che ha visto prevalere il potere facendo ripiombare il mondo nella paura, dividendolo tra «credenti infedeli» e tra «alleati o terroristi», tra i Bin Laden e i Bush dell’epoca.

Come uscire dalla paura? Come liberarsi dal dominio del potere, esercitato con terrore e violenza? Soyinka non ha una risposta, se non quella di continuare a lottare contro il sistema che vuole «riabilitare questa mentalità fanatica […] dell’Altro violento, dell’Altro suprematista, intollerante, fascista, apocalittico».