Luca ci racconta la vita di Gesù, da una prospettiva più simile alla nostra. E poi un diario dal carcere, quello di un missionario rapito dagli islamisti nel Sahel. Infine, come si è vissuta la pandemia in una terra molto speciale.
Ma Dio ci ama gratis?
È uscito a novembre e, complice l’impossibilità di essere presentato nelle librerie a causa delle restrizioni sanitarie legate alla pandemia, se n’è parlato poco, ma Dio ti ama gratis. In cammino con Luca merita tutta l’attenzione possibile. Scritto dal torinese Paolo De Martino e pubblicato dalla casa editrice veronese Gabrielli, è un libro che si inquadra perfettamente all’interno della nuova realtà che, a partire dal marzo del 2020, si è modellata sotto i nostri occhi.
Paolo De Martino, insegnate di religione in una scuola superiore, diacono della diocesi di Torino, è anche il responsabile dell’apostolato biblico e non è nuovo alle avventure editoriali. Questa volta, però, il viaggio all’interno del Vangelo di Luca ha una valenza precisa: ricordarci che la buona notizia c’è, anche se attorno a noi tira un’aria cupa. E questa buona notizia va semplicemente letta e fatta nostra. Anche e soprattutto oggi che abbiamo un gran bisogno di notizie buone.
Luca è l’evangelista che non ha conosciuto Gesù, proprio come noi, e si rivolge a persone che a loro volta non hanno mai visto il Nazareno. Eppure, ci ricorda l’autore nell’introduzione, «Se non avessimo avuto il suo vangelo, non conosceremmo la parabola del buon samaritano, della pecora perduta, non sapremmo nulla del buon ladrone e di Zaccheo, ci sfuggirebbe il particolare che Gesù era seguito e mantenuto da un gruppo di donne».
Luca intervista, chiede, viaggia, studia, mette insieme i pezzi e ci offre un quadro d’insieme di grande umanità perché «vuole semplicemente inserire la vicenda di Gesù nella storia universale».
Oggi quella storia e quelle parole dell’evangelista risultano urgenti. «Dio ci ama gratis – ci dice l’autore raggiunto nel suo ufficio della Curia torinese -, non ci chiede redenzione o qualcosa in cambio. Lui ci perdona, poi saremo noi che, inevitabilmente, cambieremo il nostro punto di vista».
Con questa pandemia non siamo diventati migliori, anzi, la società è divisa come poche al-tre volte in tempi recenti. La lettura del Vangelo di Luca accompagnata dalla guida di Paolo De Martino, per molti di noi, potrebbe rivelarsi un’occasione da non perdere.
Sciogliere le catene
Se c’è qualcuno che non ha mai perso la speranza, anche se la sua vita era appesa a un filo, questi è padre Pier Luigi Maccalli, religioso della Società per le missioni estere (Sme) di Genova, cremasco di nascita, che fu rapito nella notte tra il 17 e il 18 settembre del 2018 in Niger, nella parrocchia di Bomoanga, a circa 150 km dalla capitale Niamey, e poi liberato due anni dopo, nei primi giorni di ottobre del 2020.
Quella difficile esperienza è diventata ora un libro, pubblicato dalla Emi, che porta la firma dello stesso Pier Luigi Maccalli, «Catene di libertà». Il religioso italiano racconta il suo rapimento, ma soprattutto chiude un cerchio: deve fare in modo che quella pagina della sua vita possa essere messa alle spalle una volta per tutte: «Adesso sono libero per liberare il perdono e spegnere sul nascere ogni inizio di violenza – scrive padre Maccalli -. Sono libero per liberare l’accoglienza e consolare chi è affaticato e oppresso. Sono libero per liberare la parola e dire a tutti di non incatenare mai nessuno». C’è una domanda che lo arrovella mentre è, letteralmente e fisicamente, in catene: «Perché il Signore mi ha abbandonato?». Due anni tra le savane del Sahel e le dune del Sahara, dormendo ogni notte all’addiaccio, il più delle volte solo con i suoi carcerieri, altre volte con altri ostaggi, sono un’esperienza dalla quale si può uscire vivi, ma non si è più se stessi. Scrivere diventa terapeutico, diventa lo strumento per tornare davvero tra i vivi e i liberi. Infatti «Catene di libertà», che la stessa Emi, presentandolo, ha definito un «quaderno dal carcere», oscilla tra cronologia e introspezione, in cui i momenti di sconforto, accentuato dal pensiero costante dei familiari e degli amici che il missionario immagina angosciati e preoccupati a casa, si alternano a quelli di speranza. Con sè, ovviamente, non ha una Bibbia e men che meno può permettersi di celebrare i sacramenti. È sottoposto a un lunghissimo «digiuno eucaristico», ma padre Luigi scopre nuove risorse e una nuova dimensione del vivere e del credere: «È proprio in questa prova delle catene che il mio spirito si libera. Perché i miei piedi sono incatenati, ma il cuore no».
C’è una grande dose di nuova fiducia nel futuro nel diario di padre Maccalli, un’eredità preziosa.
Da una terra molto speciale
Rimanendo legati agli effetti di questo lungo periodo segnato dal Covid-19, vale la pena segnalare, a due anni dal primo lockdown italiano, La pandemia in Terra Santa. Diario di un francescano, uscito nella seconda metà del 2021 per Edizioni Terra Santa.
A scriverlo è stato padre Ibrahim Faltas, frate francescano che vive a Gerusalemme. Attualmente è direttore delle scuole della Custodia di Terra Santa ed è stato vice parroco a Betlemme, parroco a Gerusalemme e responsabile dello status quo della basilica della Natività. «Il mio diario – spiega il religioso – racconta l’esperienza di quest’anno di pandemia. Noi francescani abbiamo continuato la nostra missione in Terra Santa senza mai fermarci, per dare un messaggio di speranza e di attesa di un nuovo futuro». Ci sono ricordi, appunti e immagini, che vanno dalla Pasqua 2020 alla Pasqua 2021: due date fortemente simboliche. La prima è stata una festa umiliata e dimessa con celebrazioni cancellate, santuari vuoti, la gente chiusa in casa e le comunità francescane rinserrate nei conventi. E poi i morti, i malati, la paura. Un anno dopo: tanti fedeli locali e lavoratori migranti che respirano nuovamente la gioia di camminare da Betfage a Gerusalemme per celebrare i riti del tempo pasquale in presenza, nel calore e nella condivisione dei fratelli di fede.
Anche se non tutto è alle nostre spalle, il diario di padre Faltas è una lettura utile per osservare da un altro punto di vista quello che tutti quasi ovunque abbiamo subìto e vissuto. Però, farlo dalla Terra Santa che, per definizione, è il luogo della Resurrezione, ha un sapore intenso e anche un po’ consolante. Il filo che lega le pagine scritte dal francescano è chiaro: la speranza non deve mai cedere il passo allo sconforto.
Sante Altizio
Il deserto alla gola
Come da bambino tra le braccia di tuo papà, tranquillo come quando riposavi sul seno di tua mamma, così ti sei sentito al Giordano (cfr Lc 3,22). E ancora adesso, dopo quaranta giorni di fame e arsura. «Figlio. Figlio prediletto», senti all’orecchio del tuo cuore, «in te mi sono compiaciuto, figlio. Figlio». Da quaranta giorni il vento ti ripete le parole di tuo Papà. E conferma che tutto ti è dato. Nulla ti è chiesto in cambio. Sei conservato con cura nelle mani dell’amore.
Da quaranta giorni, tuttavia, il deserto ti si aggrappa alla gola con un fuoco che ti inquieta (cfr Lc 4,1-13): il sospetto che sia tutto illusione, un vacillare della tua identità. «In questo mondo di fame e violenza, non attenderti il pane dagli uomini. Il pane è finito. Usa le pietre, e non le loro mani, per generare altro pane. La speranza è sfiorita in un pugno di sabbia. Attira tutti a te con la tua grandezza, e mostra loro quanto ignobile è la loro vita perché si convertano alla tua gloria».
«Sempre che tu sia figlio, a condizione che tu davvero sia figlio».
Ma tu lo sai che sei figlio. E che ti è stata data ogni cosa non per la tua gloria, ma per quella del Padre, non per la condanna, ma perché nessuno venga perduto, e perché chi è perduto venga ritrovato.
Da quaranta giorni capita che, di tanto in tanto, per un momento, la voce del vento sia sovrastata da un rombo che sale dalla terra. È il tremore del suolo battuto dai piedi dell’umanità che come atterrita da se stessa, in affanno per conservare la propria vita: «È vero che sei figlio. Allora va.
E, con le tue prerogative, salvali. Ecco tutti i regni della terra. Governali tu, re sapiente e salvatore. Dal trono donerai loro, finalmente, la giustizia, quella che da secoli invocano. E con il tuo potere, non moriranno più».
Ma tu sai che la tua sapienza sta nella piccolezza e non nel potere, nella debolezza e non nella forza, nell’incontro di occhi e non nella costrizione. Tu lo sai che tuo Padre non abita palazzi, ma il cuore dell’uomo, e che la morte non è l’ultima parola sulla vita, ma una porta.
E il vento fa sentire di nuovo la sua voce. Il Padre ama l’uomo come ama te, gli dà il potere di essere suo figlio, come lo sei te.
E tu vieni sospinto tra la gente. Tutto ti è donato. Tutto ti doni.
In questo tempo di Quaresima, buon cammino di abbandono nelle mani dell’Amore da amico
Luca Lorusso
Sul sito di Amico trovi per questo mese:
Incontro di preghiera. Le sette domeniche
Progetto Kenya: A scuola sotto un tetto
Missione e missioni: Missione è anche… punteggiatura
Parole di corsa: #CAMminiamo #Cambiamo
Leggi tutto, clicca qui:
In Polonia per Ucraina con la Consolata /2
Carissimi
con questo terzo scritto provo ad aggiornarvi su quanto sta accadendo attorno a noi in questi ultimi giorni. Permettetemi come sempre di ringraziare anzitutto quanti da ogni parte d’Italia e non solo, in diverse forme e modi, continuano a sostenere i progetti che abbiamo intrapreso come missionari della Consolata presenti in Polonia.
Arrivo degli aiuti della parrocchia di sant’Anna di Milano.
Nella nostra comunità di Kiełpin proprio oggi salutiamo Pietro e la figlia Anastasia che scappando dall’Ucraina, dopo aver vissuto in casa nostra per una decina di giorni, voleranno in America dove ad attenderli ci sono dei familiari.
La scorsa notte hanno dormito in casa nostra anche una mamma Anastasia con i due figli Ivan e Yeva. Siamo riusciti ieri a far loro avere un visto dall’Ambasciata italiana, che ringraziamo sinceramente, e dopo un breve riposo nel cuore di questa notte hanno preso un volo per Milano. Sono già arrivati accolti da alcuni loro familiari.
La nostra comunità sarà presto di nuova pronta per accogliere ancora qualcuno nei prossimi giorni.
Sempre ieri dall’Italia è arrivato il primo trasporto di aiuti, organizzato dalla famiglia Pozzi e amici, provenienti dalla Parrocchia di S. Anna (Milano) e da un gruppo di simpatici tifosi interisti a cui piace farsi chiamare ironicamente “internati”, persone sensibili a organizzare raccolte di materiale per portare consolazione ai colpiti della guerra. A nome dei volontari che hanno accolto i loro preziosi aiuti un grande grazie. Già la prossima notte aspettiamo tre automezzi in viaggio in queste ore, partiti da Sovere (Bergamo). Altri trasporti si stanno organizzando ancora i prossimi giorni. Ricordiamo che i beneficiari di queste raccolte sono soprattutto donne e bambini. Ieri presso il punto di distribuzione della Parrocchia oltre 400 persone hanno beneficiato di questi aiuti. Attualmente sul territorio delle nostre parrocchie sono ospitate 1500 persone, tutte presso le famiglie. Questa situazione prevediamo che durerà a lungo.
Accoglienza
Mi sento di dire qualcosa sul tema dell’accoglienza in senso generale che sta avvenendo nel nostro paese. I numeri sono vertiginosi. Pochi giorni fa il governo parlava già ufficialmente di 1.500.000 profughi accolti. Questa cifra ad oggi va sicuramente aggiornata in forte crescita. È risaputo che per vari motivi la Polonia si presenta come il paese che offre migliori possibilità per i profughi. Come spesso ripetiamo e i media ben dimostrano, la maggior parte di essi sono mamme con bambini ucraini. Alcune voci, sostenute anche da articoli pubblicati qua e là, creano qualche dubbio su questa reale apertura del governo polacco nei confronti di coloro che provengono sì dall’Ucraina ma che non sono ucraini. Si tratta di persone presenti in Ucraina per motivi di studi o di lavoro prevenienti dall’Africa o dall’Asia che, trovatisi in mezzo al conflitto, cercano anche loro di fuggire dal paese. Pochi giorni fa mi trovavo sulla banchina dei treni della stazione centrale di Varsavia, punto di arrivo di moltissimi profughi perché, tra l’altro, nella capitale ci sono le ambasciate di tutti i paesi. I treni provenienti dal confine sono tutti pieni di passeggeri che viaggiano gratuitamente. Ho visto personalmente scendere dal treno migliaia di profughi e tra questi, centinaia di loro avevano i tratti somatici di persone non ucraine, per intenderci africani e asiatici. Non solo. La nostra comunità ha accolto una giovanissima coppia di studenti nigeriani che scappava di Kiev, con il loro neonato di 4 mesi. Attualmente vivono dai nostri vicini. Così come un nucleo familiare di origine gambiana.
Detto questo, mi sento di poter affermare come testimone (con tutti i limiti che la mia testimonianza può avere) che non posso escludere a priori singoli casi di problemi nell’accoglienza nel contesto delle cifre che ricordavo prima, ma non c’è stata una discriminazione organizzata. Piuttosto vorrei fa rilevare come si sia messa in moto spontaneamente una gigantesca organizzazione di accoglienza che coinvolge un intero paese. Qualcuno faceva giustamente notare come sia pochissimi i grandi hub ufficiali sotto i quali i profughi trovano riparo e protezione, quanto piuttosto il maggior numero di essi sia accolto presso le famiglie, in un clima molto meno anonimo e molto più umano.
Nella comunità di Kiełpin
Il dramma delle famiglie miste russo-ucraine
Vorrei anche condividere un aspetto che i media mi sembra che non sottolineano abbastanza. Il tessuto sociale delle famiglie presenti in Ucraina, al di là del fatto che scappino o restino, non è come sembra a vista d’occhio divisibile: da una parte le famiglie ucraine attaccate dalle forze russe, così come il conflitto sembra mostrare. La realtà vista più da vicino mostra che i nuclei familiari spesso sono costruiti con dei mix. Ad es. mamma ucraina e marito di origine russa o bielorussa. Oppure il contrario. Lo stesso fenomeno si può leggere al contrario. Anche tra i soldati dell’esercito russo non è raro trovare uomini che hanno origini familiari ucraine. Questa informazione mi sembra importante da tenere in conto anche se rende ancora più tragica e senza senso questa guerra.
In conclusione, vi saluto tutti a nome anche dei confratelli e dei tanti volontari che ogni giorno cercano di portare un po’ di sollievo. Preghiamo per la pace, costruiamo la pace
padre Luca Bovio Superiore dei missionari della Consolata in Polonia Kiełpin 11.03.2022
Łomianki, 5 marzo 2022, visita del Nunzio apostolico, mons. Salvatore Pennacchio al centro di raccolta che ad oggi ufficialmente segue 1200 rifugiati, tutti ospitati nelle famiglie.
Notizie 4 marzo 2022
Carissimi tutti,
condivido qualche aggiornamento sulla situaizone che stiamo vivendo, ringraziando ciascuno (e siete davvero tanti!) per linteresse e gli aiuti che state organizzando.
La situazione in generale, come è ben descritta da tutti i mas media, è quella di un costante e continuo giornaliero aumento di rifugiati specialmente qui in Polonia. Notevole è lo sforzo di accoglienza che si sta organizzando.
Il nostro aiuto, come missionari della Consolata presenti in Polonia (siamo qui da anni attualmente con 6 confratelli provenienti da 5 paesi diversi da tre continenti) come vi ho scritto precedentemnte, si sviluppa in tre direzioni:
Accoglienza dei profughi
Raccolta di beni
Raccolta di offerte
Dove aiutiamo:
Kiełpin – Łomianki (vicino a Varsavia)
La nostra comunità di Kiełpin collabora strettamente con la parrocchia di s. Margherita, sul terreno della quale ci troviamo. Qui il numero di profughi ospitati ad oggi è di oltre 800 persone. Il numero è in costante e regoalre crescita. Questo si spiega per il fatto che siamo a pochi chilometri dalla capitale, Varsavia, dove si trovano le ambasciate di tutti i paesi. Molti profughi, infatti, cercano di raggiungere i propri familiari anche fuori dall’Europa come ad esempio in America e per questo hanno bisogno dei documenti e dei permessi. I rifugiati sono principalmente ucraini, donne e bambini ma con non rare eccezioni. In casa nostra ospitiamo un papà ucraino Pietro con la figlia Anastasia di 9 anni. Sono scappati dalla regione del Donbas in accordo con la moglie inpossibilitata a partire a motivo dell’invalidità della sua mamma che è su una sedia a rotelle. Vorrebbero raggiungere un familiare in America.
I nostri vicini di casa, Raffaele e Giulia da poco sposati, stanno ospitando in casa invece una giovane coppia di nigeriani con un neonato di soli 4 mesi. Essi sono scappati da Kiev dove stavano studiando all’università. Questi sono piccoli esempi di storie ordinarie di questi giorni. La maggiornaza dei profughi qui presenti sono comunque mamme e bambini ucraini.
Białystok
A Białystok gia da mesi stiamo collaborando con la caritas locale con aiuti arrivati dall’Italia a favore dei migranti bloccati sul confine (che ancora ci sono) prima ancora che scoppiasse il conflitto. Di fronte all’emergenza di questi giorni è nostro impegno continuare questa collaborazione. Stiamo preparando una nuova sede piu spaziosa nel centro della città dalla quale potremo in un futuro prossimo organizzare diversi aiuti a seconda delle necessatà ed emergenze. Qui al momento i flussi dei profughi non sono altissimi come in altre regioni della Polonia per un motivo semplicemnete geografico, questa città confina con la Bielorussia con la quale i confini sono rigorosamente chiusi. Tuttavia, già ieri i primi profughi sono arrivati anche a Białystok e se ne prevedono altri.
Ukraina – Konotop
La nostra comunità ha da 5 anni vicino a sé una fondazione di volontariato giovanile missionario col nome: Opera per la missione. In breve, sono i nostri giovani volontari missionari polacchi provenienti da tutta la Polonia con base presso la nostra comunità. Essi tra le tante iniziative, da tempo hanno un contatto sul luogo in Ucraina a Konotop, una cittadina di circa 85.000 abitanti a 250 km. a nord est da Kiev, non lontano dal confine con la Russia. Qui vive un frate francescano p. Romualdo. Prima che iniziasse la guerra, c’era il piano di fare un campo di lavoro lì questa estate, piano che ora inevitabilmente è stato abbandonato. I nostri giovani volontari non si arrendono e sono in contatto in questi giorni con p. Romualdo e insieme stiamo organizzando in quale forma aiutare lì, sul posto, con l’invio di offerte (più probabile) e se riusciremo di beni. Purtroppo, quella zona e fortemente militarizzata e occupata.
Luca Bovio
Notizie 3 marzo 2022
Lavoriamo in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita in Łomianki vicino a Varsavia, sul terreno della quale la nostra comunità di Kiełpin si trova, e con la Caritas. Di fronte alle richieste della situazione, abbiamo creato tre aree di aiuto:
1. Accoglienza dei profughi.
Sono già partite delle macchine dalla parrocchia dirette al confine con lo scopo di portare qui i primi profughi. dalle informazioni che abbiamo si tratterebbero di madri con bambini. Stiamo organizzando l’accoglienza presso le famiglie che si dichiarano pronte per questo. Anche la nostra comunità si è resa disponibile.
2. Raccolta di generi di aiuto.
I beneficiari dei generi raccolti sono sia le persone qui ospitate nelle nostre case, sia le persone rimaste nel paese. Iniziamo a raccogliere cibo che non si deteriori, indumenti in buono stato (anche per bambini), prodotti per la pulizia della casa, medicinali, ecc…
3. Offerte in denaro
I soldi raccolti serviranno a coprire i costi per i servizi resi alle persone qui sul luogo e in Ucraina come ad. esempio, pagamenti d’affitto di casa se ce ne fosse bisogno, aiuto dato a famiglie che ospitano ma che non hanno le possibilità economiche, cure mediche, ecc.
Le immagini sono del centro di raccolta e di distribuzione presso la parrocchia e la nostra comunita di Kielpin. Ad oggi (2 marzo 2022) sono gia ospitate piu di 600 rifugiati nel nostro comune di che conta circa 20.000 abitanti.
Queste sono le prime informazioni che posso darvi in una situazione che, come potete immaginare, è in continuo divenire.
notizie ricevute tramite padre Luca Bovio superiore del gruppo dei missionari della Consolata in Polonia
Lo abbiamo già detto: nel nostro immaginario, condizionato ad esempio dalle riduzioni cinematografiche, la vicenda dell’Esodo, spesso, si concentra e si conclude sul passaggio del Mar Rosso, miracoloso e spettacolare.
Se seguiamo, però, la logica del racconto biblico, il cuore della vicenda non sta nel passaggio del mare, ma in ciò che succede più avanti, nel capitolo 19, il punto di svolta decisivo.
Il popolo d’Israele, fidandosi in modo progressivamente sempre più intenso e radicale, si è lasciato condurre da Dio fuori dall’Egitto, al di là del mare. È stato nutrito dalla manna, dall’acqua, dalle quaglie; ha vagato nel deserto, sostenuto da un Dio che si è mostrato guida di giorno, sotto forma di colonna di nubi, e protezione di notte, come colonna di fuoco; ha imparato a collaborare con Mosè scegliendosi giudici che ne alleggerissero in parte il lavoro. Ma ancora vaga nel deserto senza un punto fermo. È giunto quindi il momento di porne uno in modo definitivo.
Le radici nel passato (ES 19,1-4)
Diversi commentatori moderni hanno richiamato l’attenzione sulle incoerenze del testo, che in questi capitoli sembra faticare a presentarci spostamenti ed eventi in modo lineare. Di solito, questo è un segno di abbondanti riletture e riscritture, e quindi di quanto, lungo i secoli, si siano ritenuti centrali questi episodi.
I biblisti spesso amano indagare queste incoerenze per capire le caratteristiche delle aggiunte e delle correzioni, e poi stabilire se è più importante la versione di partenza o il testo di arrivo. Qui non si intende negare l’importanza di tali indagini e ricostruzioni, noi lettori ci troviamo però davanti a un libro offerto a noi in una forma definitiva, l’unica a disposizione del nostro ascolto e della nostra meditazione. Chi ha composto la versione finale del libro, in ultimo, era convinto che fosse sufficientemente comprensibile e significativo. Per questo, senza disprezzarli, tralasciamo tutti i pur preziosi tentativi di ricostruzione storica e cronologica, evitando di addentrarci con troppa pignoleria sui tempi e glispostamenti delle vicende raccontate.
Così facendo, peraltro, siamo coinvolti in un percorso che è particolarmente significativo anche per noi, per i nostri cammini di fede moderni.
È vero che in Genesi ci troviamo davanti un’esperienza di fede limpida come quella di Abramo, pronto a stare al gioco divino senza argomenti e motivazioni, e semplicemente fidandosi. Chi ha composto l’Esodo, invece, pare dire che, senza nulla togliere a quella fede eccezionale, il percorso degli uomini è di solito diverso.
Lo stesso Mosè ha titubato non poco di fronte alla chiamata di Dio (Es 3-4), prima di farsi suo portavoce coraggioso e deciso. Gli ebrei sembrano aver dapprima assistito quasi passivamente allo scontro tra Mosè e il faraone (Es 5-10), ma poi hanno dovuto decidere da che parte stare, «denunciarsi» come ebrei nella notte di Pasqua, partire all’avventura (Es 11), affrontare la minaccia angosciante e mortale del mare (Es 12) e poi il deserto.
Su ali d’aquila
Ora, al capitolo 19, dopo tante settimane o mesi di percorso, Dio li invita a guardarsi indietro, a ricordarsi della schiavitù e di come ne sono venuti fuori, «come sulle ali» di un rapace. Di un’«aquila», dicono le nostre traduzioni del salmo 90. Alcuni propongono, con qualche ragione, che il salmo si riferisca piuttosto a un «avvoltoio», uccello – è vero – impuro, ma che gli ebrei ammiravano non solo per il suo volo tanto controllato, ma anche per la cura che presta ai suoi piccoli. Non è raro che non riusciamo a ricostruire il senso preciso, esatto, di un termine ebraico nella Bibbia, ma comunque è chiaro il messaggio: il salmista pensa a un uccello in grado di volare sicuro, padrone dell’aria, e mosso da un esemplare affetto da genitore.
Si potrebbe obiettare che in realtà il cammino del popolo nel deserto non sia stato per nulla come un volo su ali d’aquila. È stato, anzi, difficile, tra ansie, rimpianti, fatiche, fame e sete, calura, incertezze. Il testo biblico, però, molto spesso non pretende di essere un resoconto formale, ma piuttosto il racconto di un innamorato. Dio non assomiglia a un poliziotto che redige un verbale, ma a un amante che ricorda gli inizi della sua storia di coppia. E per lui, dal momento che il cammino nel deserto ha portato all’incontro decisivo nel quale può finalmente porre al suo amato Israele la domanda fatidica, è un cammino buono, compiuto come in volo. Fatica e tempo non contano, perché finalmente si è insieme.
C’è poi un elemento essenziale, in questa presentazione. Spesso gli esseri umani immaginano di dover dare qualcosa a Dio, convincerlo, sedurlo, per averne qualcosa in cambio. Qui, invece, il primo a dare, a mettersi in gioco, è l’Altissimo, e non l’uomo. Prima Dio agisce, e solo dopo offre all’uomo di entrare in una relazione più stabile. Anche questa, peraltro, non viene imposta all’uomo, quasi fosse un pagamento obbligatorio per la salvezza, ma gli è offerta come proposta, come possibilità a cui l’essere umano è chiamato a rispondere liberamente.
Tutto fa pensare non a un rapporto tra padrone e servo, ma a una relazione tra amanti. Dio spera e desidera di essere scelto liberamente, di essere amato. Non pensa di avere diritto a pretendere dall’uomo di essere onorato.
Alleanza come matrimonio
Quello che Dio prospetta al popolo, qualora esso decida di sceglierlo come suo Signore, ha in effetti a che vedere con un legame personale più che con un servizio formale. Dio propone un’alleanza, un patto che si stringe solo tra chi si considera alla pari (anche quando, come in questo caso, i due non sono affatto allo stesso livello). L’uomo può rifiutarsi di accogliere la relazione.
Da parte sua, però, Dio può proporla consapevolmente e in modo non superficiale perché, spiega, «mia è tutta la terra» (Es 19,5). Se avesse voluto, avrebbe potuto andare a prendere il suo popolo ovunque. Il fatto di scegliere proprio Israele è, per il popolo, la garanzia che il Signore vuole restargli vicino e fedele sempre, perché non ci sono poteri esterni che possano separarli. Tra i vari popoli di tutta l’umanità, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ha deciso di restare fedele al gruppo guidato da Mosè, e si pone davanti a lui in attesa di una risposta. Gli prospetta di farne una «proprietà particolare», una «cosa sua».
L’espressione potrebbe in teoria far pensare a un possesso, se non fosse accompagnato da tutte queste formule che, insieme alla libertà di scelta, rimandano a un legame personale, quasi come fosse un matrimonio. Non però un matrimonio come lo si viveva al tempo di Mosè, dove gli sposi a volte non avevano grande libertà di scelta (e quasi nessuna ne aveva la donna!), ma come lo concepiamo noi, tra due libertà che decidono di vincolarsi a vicenda perché si riconoscono reciprocamente come promessa di vita piena. E se una prospettiva di questo tipo è comprensibile per l’uomo, non può che stupirci che anche Dio attenda del bene dalla sua relazione con l’essere umano.
Certo, in seguito a questa decisione anche umana, il Signore potrà presentarsi come «Dio geloso» (Es 20,5; 34,14), ma parliamo della gelosia di un amante equilibrato, che sa di dover custodire con cura la relazione più importante della sua vita, quella che costituisce per lui qualcosa di unico, insostituibile. Potrebbero dirlo gli uomini, ma lo dice anche Dio.
Una missione comune (Es 19,6)
Come un fidanzato che prospetta alla su futura sposa come sarà la vita insieme, così Dio spiega al suo popolo, da cui attende una risposta, quali progetti ha su di lui: «Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa».
A noi la parola «regno» non evoca quello che diceva ai lettori antichi. A noi, guardando soprattutto alle esperienze delle monarchie assolute dei secoli passati, richiama inevitabilmente l’opposto di repubblica e l’idea del dominio di uno sugli altri. Nell’antichità non era così: le popolazioni potevano strutturarsi in clan disordinati, spesso nomadi, o in regni. Il re era colui che imponeva la direzione di fondo a una comunità organizzata di persone, era concepito come l’ordine in mezzo al caos.
E Dio indica anche la direzione generale che immagina prenderà questo suo regno: sarà una nazione «di sacerdoti». Il sacerdote era colui che mediava tra l’umanità e Dio, tra il cielo e la terra. Faceva salire al cielo le offerte e ne faceva discendere la volontà divina, garantendo così l’ordine nell’universo, perché assicurava la comunicazione tra le sue due entità più significative.
Quello che Dio prefigura, insomma, è che gli ebrei, riconoscendolo come Dio, avrebbero potuto far dialogare la storia e l’eterno, il trascendente e il mondano, a beneficio di tutti (un sacerdote non si limita mai a mediare solo per sé). Dio sta sognando un suo rapporto con tutti gli uomini, garantito dagli ebrei. Li chiama a collaborare alla sua opera di vita e salvezza per tutti.
Per questo può dire loro che saranno una «nazione» messa da parte, riservata, «santa».
Gli ebrei, nei secoli, distingueranno il loro ruolo (di «popolo») da quello di tutti gli altri (che sono definiti «nazioni», «genti»). Qui Dio usa il termine che solitamente si utilizzava per indicare «gli altri» applicandolo agli ebrei. Parola accompagnata però dall’aggettivo «santo». Il «santo» non indicava, come poi si è inteso nella storia più recente, una persona dalla vita vissuta in modo esemplare e perfetto, bensì uno che era messo da parte, riservato, solitamente, per Dio. Con questo Egli riconosce che i discendenti di Giacobbe sono una nazione come le altre, ma che diventerà speciale agli occhi dell’Altissimo, esattamente come una fidanzata riconosce che esistono tanti uomini nel mondo, ma ha occhi solo per il suo amato.
La risposta umana
Per fortuna ci manca il tempo per metterci a fantasticare sulla possibile ansia divina nell’attendere la risposta degli ebrei. E anche il libro dell’Esodo risolve in fretta la risposta umana. Tutto, nel testo, lascia però intendere che davvero Dio lasci pienamente liberi coloro che ha strappato dalla schiavitù dell’Egitto.
Certo, l’antichità non pensava alla libertà del singolo e insisteva sulla dimensione comunitaria (saranno poi i profeti a cogliere che davanti a Dio siamo più propriamente individui). Ma la libertà di scelta è garantita, difesa, voluta da Dio, che non cerca servi, ma amici (cfr. Gv 15,15).
Cogliamo forse adesso quello che evidentemente era già chiaro a Dio fin dall’inizio (Es 3,12): il percorso di liberazione poteva essere compiuto solo arrivando qui, per essere non più schiavi del faraone, ma servi del Signore, in un rapporto di esclusività che sia però scelto consapevolmente, e non subìto come imposizione. È la differenza che passa tra servire per ubbidienza o per amore.
E la risposta del popolo arriva veloce: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (Es 19,8). La successiva visione di Dio che avvolge il monte è quasi la festa davanti al «sì» del popolo.
Angelo Fracchia (Esodo 11 – continua)
Nel cuore e alle frontiere d’Europa
Il vecchio continente è il «qui e ora» della missione. Per i Missionari della Consolata è il luogo delle radici, della sorgente del loro carisma. Sempre più è vera frontiera di testimonianza, annuncio e consolazione.
Non come lupi solitari, ma come tessitori di reti.
«Le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità» (Laudato si’, n. 17).
Questa breve citazione di papa Francesco, tratta dall’enciclica Laudato si’, sarebbe potuta essere il cappello sotto cui collocare tutta la riflessione della prima Conferenza della neonata Regione Europa dei Missionari della Consolata.
Questo incontro, iniziato in streaming lo scorso mese di maggio e conclusosi in presenza a Fátima (Portogallo) dal 20 al 24 settembre 2021, ha di fatto sancito l’unione in un’unica circoscrizione (iniziata giuridicamente due anni fa) delle nostre comunità di Missionari della Consolata in Italia, Polonia, Portogallo e Spagna.
Ne è nato un documento interessante, il Progetto missionario regionale, una sorta di vademecum che, definendo in modo chiaro alcuni obiettivi, cerca di individuare criteri e linee di azione per giungere a una nuova comprensione, e quindi a un nuovo orientamento di ruolo e azione, del missionario della Consolata oggi in Europa.
Momenti della Conferenza e veduta dei partecipanti
Il contesto
Come emerge chiaramente dalla citazione di papa Francesco, il confronto con l’hic et nunc, il «qui e ora» della missione, deve essere l’imprescindibile punto di partenza come anche l’auspicato traguardo dell’impegno missionario nel continente.
La Conferenza ha ribadito l’importanza di dedicare tempo e attenzione all’analisi del contesto, in modo che essa possa diventare atteggiamento e metodo, ispirazione e prassi.
È inutile ricordare come la missione in Europa sia stata caratterizzata fino a non molti anni fa da una dimensione totalmente opposta: era una missione ibi et post, «lì e dopo», che si svolgeva altrove, e per la quale in Europa ci si preparava, tanto da un punto di vista accademico professionale, quanto economico e strutturale.
La Conferenza regionale ha scelto di focalizzare il proprio lavoro sull’analisi della realtà, nella consapevolezza che è il contesto che sceglie noi, ci interpella come cristiani e missionari, ci obbliga a prendere decisioni, orientare la preghiera, ispirare l’azione.
Mentre scrivo, svariati paesi dell’Europa sono nuovamente sfidati da una crescita esponenziale del Covid, le cui conseguenze economiche e sociali generano un malcontento popolare difficile da controllare e per giunta cavalcato in modo opportunista e strumentale da frange estremiste e xenofobe.
Al confine orientale dell’Unione europea va in scena una tragedia umana di dimensioni epocali con migliaia di migranti esposti ai rigori dell’inverno, che rischiano di morire di freddo, stenti o botte al confine tra Polonia e Bielorussia.
Reticolati e muri diventano la cifra delle nostre relazioni, mentre la Cop26 ha lasciato senza risposta gli interrogativi circa la volontà dei governi di assumere impegni concreti e soprattutto urgenti e credibili nei confronti della salvaguardia del pianeta (cfr il Dossier di questo numero).
In soli dieci giorni tutti questi fatti sono stati oggetto di cronaca, hanno rappresentato il «qui e ora», uno scenario in cui anche il missionario può dire la sua. Anzi, è chiamato a farlo.
11.11.2021 – Fot. Irek Dorozanski / DWOT
Dal Marocco alla Bielorussia
Ecco allora che, qualcuno dice profeticamente, la prima Conferenza della Regione Europa Imc ha dato il visto buono all’apertura della comunità di Oujda, in Marocco, vicino al confine con l’Algeria. Il Marocco non è in Europa, ma Oujda è, oggi, un punto di approdo per chi ha appena terminato di attraversare il deserto e arriva in condizioni di grande bisogno a un punto cruciale del suo viaggio della speranza verso l’Europa. Sono stati i nostri confratelli in Spagna, da anni parte di una rete/osservatorio sui movimenti migratori nel Mediterraneo, a spingere affinché l’Istituto scegliesse un impegno concreto in questa realtà.
La stessa Conferenza ha dato il via libera alla volontà dei missionari della Consolata in Polonia, di aprire una seconda comunità, in una città a trenta chilometri dalla frontiera con la Bielorussia.
Nel 2008, il nostro Istituto aveva scelto di dare vita a una presenza in Polonia per essere germe di universalità e interculturalità in una Chiesa tradizionalmente molto forte, ma che sentiva il bisogno di essere maggiormente stimolata nella propria dimensione missionaria.
Sarebbe dovuto anche essere un primo passo verso un’ulteriore apertura nell’Est Europa. Oggi, è significativo essere presenti come segno di fraternità universale in quella frontiera simbolo della chiusura delle nostre frontiere e dei nostri cuori.
Senza il bisogno di tante parole, le nostre comunità interculturali, formate da confratelli provenienti da tre diversi continenti, annunciano che la logica del Vangelo è quella del ponte, non certo quella del muro o del cavallo di frisia.
Ovviamente, è importante formarsi in maniera adeguata a questa missione. Il Progetto missionario regionale europeo ha ben chiaro che soltanto chi saprà usare in modo armonico Bibbia e giornale, spiritualità e attenzione alla realtà, riuscirà a penetrare le pieghe di una cultura in continua evoluzione e rispondere a sfide importanti come quelle che la Chiesa sta vivendo oggi in Europa: la perdita di significato e di credibilità, la marginalizzazione, l’essere divenuti minoranza.
Educarsi alla missione in Europa, oggi richiede il coraggio di cambiare paradigma formativo, associando alla ricerca di una spiritualità forte, costruita sull’incontro costante e profondo con la Parola, l’inserimento in comunità che siano allo stesso tempo apostoliche e formative, in cui la ricerca di una buona preparazione accademica si sposi con un’approfondita conoscenza della realtà e delle persone che la compongono.
Climate March
Carisma
Va da sé che la bontà o meno del Progetto regionale, la sua assunzione da parte delle comunità di missionari della Consolata e la messa in pratica nelle varie attività regionali, dipenderanno in gran parte dalla capacità che le comunità avranno di rileggere e interpretare il carisma del nostro istituto alla luce dell’oggi.
Le nostre comunità Imc in Europa, in particolare quelle in Italia, sono depositarie di un patrimonio spirituale e carismatico importante. Esse vivono e operano nei luoghi dove tutto ebbe inizio, ma guai se questi si trasformassero in una sorta di museo spirituale, dove trovare una collezione di cimeli con i quali crogiolarsi nel ricordo dei «bei tempi andati».
Oggi il nostro Istituto, come del resto altre congregazioni fondate più o meno nello stesso periodo (a cavallo fra 19° e 20° secolo), sta vivendo un’esperienza particolare: da una parte l’estinzione di una generazione di missionari che ha conosciuto o è stata molto vicina alle fonti dirette del carisma, le ha studiate e tramandate, alcune volte pubblicando testi che sono ancora imprescindibili per chi vuole conoscere la storia e lo spirito delle nostre missioni; dall’altra l’emergere di una nuova generazione di missionari che corre il rischio di perdere il legame vitale con la storia dell’Istituto e quindi di non essere capace di trasmettere con efficacia l’eredità spirituale di chi ci ha preceduto.
La Regione Europa Imc ha il dovere di continuare a essere «culla» del carisma, ma deve altresì essere anche «girello», strumento attraverso cui il pensiero di Giuseppe Allamano e le intuizioni significative dei missionari cresciuti sotto le sue ali, vengono portati per le vie della nostra missione di oggi nel continente. Pensieri e intuizioni depurati di tutto quanto non è più attuale e creativamente nutriti delle nuove e dinamiche manifestazioni dello Spirito.
Manifestante alla protesta contro il mandato vax protesta con cartello con messaggio “Nessun vaccino forzato”
Le parole della missione
Come comprendere e declinare, allora, alcune parole che fanno parte del nostro bagaglio missionario alla luce di dove e di quanto stiamo vivendo?
La parola annuncio, per esempio, attraverso la quale il missionario riscopre oggi, anche in Europa, il suo ruolo di araldo del Vangelo, di messaggero del primo annuncio, di testimone di Cristo, presentato a chi non lo ha incontrato prima o a chi, forse, ne ha soltanto sentito parlare in tempi ormai lontani.
Oggi, il missionario, per essere tale, per poter continuare a fregiarsi di un titolo che gli viene attribuito in virtù di una vocazione specifica, non può abdicare alla missione di cercare «i lontani», anche quelli che si trovano dietro l’angolo, di entrare in dialogo con quelle frange di umanità che non hanno mai frequentato, o non frequentano più, i nostri abituali recinti.
Come comprendere oggi la parola consolazione? L’assemblea dei missionari riuniti in Conferenza ha cercato di leggere la portata attuale di questo termine che è parte del nostro nome, parola con la quale ci presentiamo. Le nostre comunità non cessino di essere presenza viva, autentica e prossima a chi sta sempre ai margini, affamato di compassione e condivisione.
Che senso possiamo dare oggi alla parola parrocchia, perché indichi una realtà che sia un segno distintivo del nostro modo di vivere la missione ad gentes, soprattutto nelle periferie delle città europee?
Come ricomprendere il termine economia, riferita alla vita materiale delle nostre comunità Imc, in modo che diventi non soltanto uno strumento funzionale all’organizzazione della vita e delle opere dei missionari, ma sia una vera e propria dichiarazione di intenti nella testimonianza di giustizia, impegno per la pace e salvaguardia della casa comune nella quale viviamo?
Riempire le parole di un significato nuovo e attuale, non lasciare che risuonino vuote, fare in modo che parlino veramente alla testa e al cuore delle persone che incontriamo, è una delle prime condizioni per dare corpo alla nostra missione in Europa.
Celebrazione eucaristica presieduta da padre Alvaro Pacheco
Camminare insieme
Sappiamo che la strada da percorrere non è facile.
I missionari della Consolata riuniti a Fátima non hanno peccato di ingenuità, e sono stati ben contenti di ritrovarsi insieme in un luogo benedetto dalla presenza della Vergine Maria, loro protettrice, per affidare ancora una volta a lei le scelte impegnative che li attendono dietro l’angolo.
Alcune circostanze del contesto europeo non vanno prese sottogamba, e obbligano chi dirige oggi il cammino della Regione a fare i salti mortali per riuscire ad armonizzare l’utopia con il disincanto, la provvidenza con il realismo.
In alcuni casi saremo certo obbligati a puntare al ribasso: la nostra missione è oggi più povera di risorse, tanto umane quanto economiche, rispetto al passato; ciò avviene per tante e diverse ragioni che vanno dalla perdita, nella società, del senso religioso e dell’affezione verso il mondo missionario, al crollo di fiducia (soprattutto delle generazioni più giovani) verso la Chiesa vista come istituzione.
Stiamo diventando (fisicamente e metaforicamente) più anziani e, con l’età, non mancano gli acciacchi. Questo ci obbliga a «dimagrire», a spendere energie in un processo di spoliazione tanto doloroso quanto inevitabile. Questo fenomeno, non serve nascondersi dietro un dito, condizionerà le scelte attuali e future e andrà tenuto sempre presente per poter progettare una missione che sia anche fattibile.
Tuttavia, non siamo esentati dal sollevare la testa guardandoci intorno. Dobbiamo continuare a dire: «Possiamo», se lo vogliamo, e, soprattutto, se crediamo fermamente che lo vuole il Signore. Lui non farà mancare il suo aiuto nei momenti di aridità, di «impantanamento», di difficoltà anche drammatica, come tante volte ha dimostrato nel passato. A noi sta il compito di provarci sempre e comunque.
Nel corso dei prossimi mesi, MC vi porterà a spasso per alcune delle nostre comunità in Europa, perché vogliamo condividere con voi alcuni tentativi già in atto di vivere l’ad gentes alla luce dei tempi e dei luoghi in cui siamo inviati ad annunciare il Vangelo.
Saranno questi percorsi, accompagnati dalla viva voce dei missionari che li hanno intrapresi, a spiegare con chiarezza, sicuramente meglio delle parole di questo articolo, che cosa intendiamo per missione in Europa oggi.
Nel fare questo, inoltre, non nascondiamo il nostro desiderio di coinvolgere in questa avventura anche voi che, in questo momento, state leggendo MC.
L’invito a seguirci che vi rivolgiamo, vuole, infatti, sancire un altro dei criteri che il Progetto regionale reputa fondamentali per vivere la nostra missione nella gioia ed efficacemente: fare rete, non pensare di voler costruire il Regno di Dio da soli, camminare con altri.
La Chiesa oggi chiama questo stile «sinodalità», e dà a esso così tanta importanza da aver deciso di istituire un Sinodo su questo tema, e di voler dedicare il tempo che intercorrerà tra adesso e la sua celebrazione (ottobre 2023) a un cammino di ripensamento della Chiesa sulla base del coinvolgimento comunitario. La missione oggi in Europa non può essere fatta da «lupi solitari»; non è più il tempo per camminare da soli.
A questo riguardo, nel ribadire che il vero agente della missione è la Chiesa locale, la Conferenza dice che, pur preservando le nostre specificità e il nostro carisma, è soltanto all’interno di essa e in comunione con essa che la nostra missione sarà gioiosamente efficace, gratificante e, chissà, magari anche profetica.
Il nostro stile di presenza in un mondo caratterizzato sempre più dalla multiculturalità ci apre a bellissime esperienze di collaborazione in tutto il Continente, tanto nel catecumenato, quanto, più in generale, nella catechesi degli adulti, nella formazione dei catechisti e nella pastorale migranti.
In contesti, anche ecclesiali, tentati dalla chiusura e dall’autoreferenzialità, il nostro apporto negli uffici missionari delle varie diocesi può essere (e di fatto lo è) valorizzato come una boccata d’aria fresca. Sempre e soltanto nel momento in cui, però, la chiesa locale diventi veramente famiglia, compagna di viaggio.
Infine, sempre nello spirito della sinodalità, la nostra missione in Europa deve continuare a guardare fuori dal proprio orto. Grazie alla generosità e al sacrificio di tanti, le nostre comunità hanno potuto costantemente dare una mano a quelle degli altri continenti. Secondo il principio che si può aiutare le nuove chiese sia partendo che donando, molti nostri benefattori ci hanno permesso di non essere estranei a tante situazioni di dolore e necessità nel mondo.
Chiediamo però che questa disposizione, sempre attiva nel sostenere progetti di sviluppo, programmi di formazione e sostegno a distanza, crei rapporti di interscambio con altre realtà del mondo che, grazie al dono della loro cultura e delle loro tradizioni, possano aiutarci a far comprendere e accogliere alle nostre chiese il dono dell’altro.
Ugo Pozzoli * Regione Europa Imc
Visione generale del Santuario di Fatima dalla spianata
Gli incendi bruciano anche il nostro futuro
In Italia, ogni anno, migliaia di ettari di aree boschive sono perse a causa del fuoco. Sei incendi su dieci sono di origine dolosa e criminale. In Siberia e Brasile la situazione è ancora peggiore.
Ogni anno, durante il periodo estivo, sono molte le regioni italiane nelle quali vaste aree boschive sono colpite da incendi. E la situazione sta rapidamente peggiorando. Nell’estate 2021, tra le regioni più interessate da incendi ci sono state la Sardegna, la Sicilia e la Calabria, che hanno registrato il maggior numero di danni, ma anche la Campania, la Basilicata, l’Abruzzo, le Marche, il Molise e la Toscana. Secondo il report di Europa Verde Incendi e desertificazioni, in Italia, dall’inizio dello scorso anno, sono bruciati circa 158mila ettari di boschi e di macchia mediterranea e questo ha ovviamente comportato la morte di migliaia di animali selvatici, nonché la perdita di oliveti e di pascoli. Nel 2021 l’Italia ha detenuto in Europa il record estivo d’incendi, che sono cresciuti del 256%, rispetto alla media storica 2008-2020, secondo i dati Effis (European forest fire information system). Secondo la Coldiretti, 6 incendi su 10 sono di origine dolosa.
Meno agricoltori e zero forestali
La situazione è aggravata dalla dismissione di parecchie aziende agricole, quindi dalla cospicua riduzione del numero di agricoltori, che hanno sempre esercitato un’azione di vigilanza e di gestione del patrimonio boschivo, che in Italia rappresenta un terzo della superficie, per un totale di 11,4 milioni di ettari (di cui il 32% fa parte di aree protette).
Un altro colpo alla sorveglianza e alla salvaguardia delle aree boschive in Italia è stato dato dalla riforma Madia del 2016, durante il governo Renzi, che ha riformato il Corpo forestale dello stato, sotto la spinta della spending review e sostanzialmente privatizzato la flotta dei canadair. Purtroppo in Italia, secondo il «Rapporto ecomafie 2020» di Legambiente, gli incendi scoppiano più frequentemente nelle regioni a forte presenza della criminalità organizzata, che spesso colpisce le aree naturalistiche sotto vincolo, come è avvenuto nella riserva dello Zingaro, in provincia di Trapani, nel Metapontino in Basilicata, nella riserva di Punta Aderci e nelle colline intorno a Pescara, nelle aree protette del Lazio, sulla costiera amalfitana, nella Sila e in provincia di Olbia. In Italia, la situazione è aggravata da due fattori: da un lato l’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni, che hanno caratterizzato gli ultimi anni con conseguente siccità sulle foreste, che risultano quindi meno resilienti nei confronti degli incendi; dall’altro gli errori nella scelta delle piante nelle attività di forestazione. Talora, infatti, vengono scelte, per la piantumazione di aree verdi, specie che soddisfano solo le ragioni estetiche, ma sono inadatte a resistere all’impatto climatico. Come capitò nel 2017 quando un incendio colpì le pendici del Vesuvio, dove erano stati piantati dei pini, che nulla avevano a che fare con la flora del territorio, cioè la macchia mediterranea, la quale ha una maggiore capacità di resistere alle temperature locali. In Italia, il pericolo d’incendi ha un andamento stagionale legato al fattore climatico, che influenza il grado di umidità della vegetazione, in particolare di quella erbacea del sottobosco.
Ci sono zone dove il pericolo d’incendio è maggiore che in altre. In base all’andamento meteorologico e climatologico, possiamo individuare due periodi di particolare pericolosità: quello estivo per le regioni del Sud e per la Liguria, e quello invernale per le regioni dell’arco alpino, quindi ancora la Liguria, il Piemonte, la Lombardia e il Veneto.
Ci sono, inoltre, diverse situazioni, che possono favorire lo scoppio di incendi boschivi come l’afflusso turistico, il già citato abbandono rurale delle campagne, particolari attività agronomiche e pastorizie, le vendette e le speculazioni. Queste ultime andrebbero sempre e comunque contrastate in base all’art. 9 della legge 1 marzo 1975, n.47, che vieta l’insediamento di qualsiasi tipo di costruzioni nelle zone boschive distrutte o danneggiate dal fuoco, impedendo così che tali zone assumano una diversa destinazione rispetto a quella avuta prima dell’incendio.
Non sempre però gli incendi sono di origine dolosa, seppure correlati alle attività umane. È stato, infatti, osservato che ad un progressivo aumento del numero dei veicoli circolanti e dello sviluppo viario, corrisponde un progressivo aumento degli incendi boschivi. Si è, inoltre, osservato che molti incendi hanno inizio ai bordi di strade e di autostrade. Anche le linee ferroviarie possono essere responsabili dell’innesco di incendi, quando nelle cunette e nelle scarpate c’è dell’erba secca, che può prendere fuoco per le scintille sprigionate dalle ruote dei treni. Da tutto ciò si evince che non solo è necessario ripristinare il Corpo forestale, rafforzando i nuclei investigativi con risorse umane e materiali adeguate, ma è indispensabile formare personale, che sia in grado di prevenire gli incendi con le tecniche più avanzate, tra cui quella degli incendi volontari controllati («fuochi prescritti»).
Nel resto del mondo
Se la situazione italiana quest’anno è stata drammatica, la mappa elaborata dal Fire information for resource management system della Nasa ci mostra che le fiamme hanno devastato i territori di molti stati nel mondo, soprattutto laddove le temperature estive sono state molto alte a lungo. Nel Sud dell’Europa, oltre all’Italia, sono state colpite la Grecia, la Turchia e la Spagna. Nel Nord Europa, la Finlandia e nell’Europa nord orientale, vaste regioni della Russia meridionale. Oltre oceano sono state interessate da incendi ampie zone del Nord e del Sud America. Nella zona centro meridionale dell’Africa, gli Stati più colpiti sono Zambia, Angola, Malawi e Madagascar. Le fiamme hanno inoltre colpito la penisola arabica e in Asia, le coste dell’India, la Siberia, la Cina e l’Indonesia.
In Siberia, il bilancio degli incendi da cui è stata colpita quest’anno, complici le insolite ed elevatissime temperature (intorno ai 39°C), che hanno interessato per giorni questa immensa regione russa, è superiore a quello disastroso del 2012, in cui aveva perso 181.100 Km2, infatti a metà settembre è stata registrata una perdita di 181.300 Km2 di foresta, ma se si considera che le fiamme hanno colpito anche praterie, canneti e tundra, l’estensione dei fuochi potrebbe essere superiore a 300mila Km2 (cioè un territorio di poco inferiore all’Italia). Gli incendi che colpiscono la taiga siberiana, cioè la più grande regione boschiva del mondo (comprendente quasi un quarto delle foreste del pianeta), sono estremamente dannosi perché non solo rilasciano enormi quantità di anidride carbonica (immagazzinata sia nella vegetazione, che nella torba del terreno) in atmosfera, ma riescono a sopravvivere all’inverno continuando a bruciare nel sottosuolo. Essi, pertanto, restano invisibili fino al rialzo delle temperature, pronti a tornare poi in superficie durante la stagione estiva. Il sistema di monitoraggio satellitare europeo Copernicus ha rilevato una quantità di 970 Mega tonnellate (Mt) di CO2 immessa nell’atmosfera tra giugno e agosto 2021 dovuta solo agli incendi siberiani. Tale quantità aumenta a 1.258 Mt a luglio e 1.384,6 Mt ad agosto, se si considerano le immissioni di CO2 dovute agli incendi, in tutto l’emisfero boreale.
Se in quest’ultimo la maggior parte degli incendi boschivi è legata a incuria, combustione di rifiuti, eventi accidentali, incidenti industriali e talvolta dolo, nelle regioni tropicali e subtropicali, gli incendi sono appiccati per lo più intenzionalmente con lo scopo di cambiare la destinazione d’uso dei terreni, che possono essere così utilizzati per la coltivazione e gli allevamenti intensivi.
Il decadimento dell’amazzonia
È evidente che il cambiamento climatico, con l’innalzamento delle temperature per lunghi periodi dell’anno, favorisce l’attecchimento degli incendi boschivi e la loro propagazione, ma la CO2 rilasciata in atmosfera dai roghi è essa stessa causa dell’innalzamento globale della temperatura, pertanto si instaura un circolo vizioso. Si stima che ogni anno gli incendi delle foreste immettano in atmosfera una quantità di CO2 equivalente a quella immessa dall’Unione europea e che vi siano circa 340mila morti premature causate da problemi respiratori e cardiovascolari attribuiti al fumo degli incendi.
Se da un lato la perdita di enormi quantità di foreste è dovuta agli incendi, dall’altro essa è legata al disboscamento illegale causato dall’agricoltura commerciale e dalla richiesta di legname. Secondo il rapporto Forest Trends 2021, il Brasile è il paese maggiormente responsabile di disboscamento illegale, insieme al Congo e all’Indonesia. Questi tre paesi, insieme, rappresentano il 50% del global logging (termine anglosassone che accorpa il taglio e il trasporto del legno). A sua volta, la Cina è responsabile del disboscamento illegale della taiga siberiana, essendo il più grande importatore di legname al mondo e avendo vietato il disboscamento delle proprie foreste.
Si stima che, tra il 2013 e il 2019, quasi 2/3 delle perdite delle foreste tropicali sia stata causata dall’agricoltura commerciale e che 3/4 della conversione agricola dei terreni sia avvenuta illegalmente.
Secondo i dati della Ong brasiliana Imazon, tra agosto 2020 e luglio 2021, il disboscamento dell’Amazzonia ha raggiunto 10.476 Km2, cioè una superficie grande il doppio di quella della provincia di Roma. L’ecosistema forestale amazzonico sta versando in condizioni critiche con 10mila specie dichiarate a rischio. Inoltre, con il 35% della superficie disboscata o degradata, uno studio decennale è arrivato alla conclusione che la foresta attualmente emette più CO2 di quanta ne assorba, per cui non può più essere considerata il polmone verde della terra.
Le promesse della Cop26
Durante la conferenza sul clima dell’Onu, la Cop26 di Glasgow (cfr. dossier in questo stesso numero), oltre 100 paesi hanno sottoscritto una dichiarazione sulle foreste e sull’uso del suolo, che dovrebbe limitare e invertire la deforestazione entro il 2030.
In pratica 114 paesi, che detengono insieme l’85% delle foreste mondiali, si sono impegnati a mettere a disposizione circa 16,5 miliardi di euro, tra fondi pubblici e privati, per il recupero dei terreni danneggiati, per la gestione degli incendi e per gli aiuti alle comunità che vivono in questi ambienti. La prima criticità di questo accordo è rappresentata dal fatto che i paesi partecipanti hanno avuto una richiesta, non un obbligo, a «rivedere e a rafforzare gli obiettivi sul clima al 2030 nei loro contributi nazionali entro la fine del 2022 di quanto è necessario per allinearli con l’obiettivo di temperatura dell’Accordo di Parigi, tenendo in considerazione le diverse circostanze nazionali», come recita il punto 29 del patto sul clima di Glasgow. Questo ha permesso ad Australia e Nuova Zelanda di affermare che non presenteranno contributi nazionali volontari prima della Cop27 del prossimo anno, perché si ritengono già allineate. Un’altra criticità emersa da Glasgow è il ruolo della piantagione di nuovi alberi (l’Unione europea si è impegnata a piantare 3 miliardi di piante entro il 2030), unitamente al contrasto alla deforestazione, nella lotta al cambiamento climatico. Di per sé, la piantagione di nuovi alberi sembra una buona soluzione, ma non può essere considerata fondamentale per la lotta al cambiamento climatico perché prima che, in un terreno distrutto da un incendio, essa sia in grado di ricostituire un bosco, devono passare almeno 15 anni, troppi per i danni all’ambiente e all’economia delle popolazioni locali.
È molto più importante perseguire politiche di prevenzione degli incendi e del disboscamento illegale, così come la lotta alla criminalità organizzata, piuttosto che correre ai ripari a cose fatte. È altrettanto importante un’azione di educazione delle popolazioni alla conoscenza e alla salvaguardia dei boschi e delle foreste, soprattutto perché le piante, con la loro organizzazione, hanno molto da insegnarci. Ogni singola pianta è infatti costituita da una rete di moduli e una foresta è una rete di reti, cioè un superorganismo. Dall’unione di tante unità emergono caratteristiche, che non esistono nel singolo individuo, ma permettono di superare le difficoltà presentate dall’ambiente. Le piante quindi ci insegnano la cooperazione, il senso di comunità e di rete, cioè che non vince il più forte, ma chi sa cooperare.
Rosanna Novara Topino
Una difesa naturale
Piante fuocoresilienti
Può sembrare strano l’utilizzo del fuoco per controllare gli incendi. Si tratta di una tecnica già utilizzata negli Stati Uniti dai primi anni del secolo scorso. Essa mira a sfruttare la capacità di resistenza di alcune specie di piante nei confronti del fuoco. Pertanto, la loro presenza può salvaguardare il bosco da un incendio più distruttivo. Un esempio è dato dal comportamento del Pinus palustris, che allo stadio giovanile è poco più di un ciuffo di aghi verdi su un esile fusto, che rimane a lungo in questo stato, se circondato e sovrastato da erbe e arbusti, che lo adombrano e gli tolgono spazio. Quando però un incendio colpisce il suo territorio, con l’eliminazione delle piante concorrenti, questo tipo di pino cresce molto rapidamente, diventando in breve tempo una delle piante più alte del bosco. Come ci riesce? Grazie alla protezione della propria gemma apicale con un mazzetto di aghi lunghi circa 20 centimetri, che bruciano se attaccati dal fuoco, lasciando la gemma intatta alla loro base. Anche il cisto e il pino di Aleppo utilizzano il fuoco per svilupparsi. Lo stesso discorso vale per la quercia da sughero, la cui spessa corteccia serve proprio a proteggere la pianta dal fuoco, oppure per i castagni, i corbezzoli e le robinie, tutte piante capaci di sopravvivere a un incendio emettendo nuovi fusti dai ceppi residui o dalle radici. La tecnica del fuoco prescritto sfrutta tutto questo: serve a selezionare piante resistenti e autoctone e nel contempo a eliminare il carico di combustibile presente nel territorio, in modo che un incendio incontrollato possa raggiungere le chiome degli alberi. È chiaro che, per poterla applicare, sono necessarie condizioni meteorologiche favorevoli (vento e umidità) e uno studio accurato del territorio. Nei terreni dove da lungo tempo manca un incendio, può verificarsi il cosiddetto «paradosso del fuoco» cioè l’accumulo di arbusti, legno e foglie secche diventa un pericoloso combustibile, che per un evento accidentale (fulmini, forte siccità, azioni umane) può dare origine ad un incendio devastante e incontrollabile. Per evitare tutto questo, se non si vuole ricorrere alla tecnica del fuoco prescritto, a cui non tutti sono favorevoli perché comunque essa può alterare la flora e la fauna del sottobosco, è necessario ricorrere a un’asportazione meccanica dei carichi d’incendio e quindi un controllo costante del patrimonio boschivo, che da anni in Italia è abbandonato a sé stesso. (RNT)
Dal partenariato alla fratellanza
Ivana Borsotto, già vicepresidente della Ong Progettomondo, è dal dicembre del 2020 la presidente della Focsiv, Federazione di organismi di ispirazione cristiana. Facciamo insieme a lei il punto sulla Federazione, sullo stato della cooperazione e sulle principali sfide di oggi.
Ivana, cominciamo spiegando che cosa è la Focsiv e che cosa la caratterizza oggi.
Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) è una federazione che raccoglie 86 organismi di ispirazione cristiana che operano nella realizzazione di programmi, progetti e azioni di solidarietà e cooperazione internazionale in 80 paesi del mondo. Nel 2022, a maggio, compirà 50 anni: è un traguardo importante e con il nuovo consiglio direttivo, in carica da un anno, abbiamo deciso di rendere questo anniversario non solo un’occasione per celebrare ma soprattutto per riflettere.
Da questa riflessione stanno emergendo diverse cose: in primo luogo, nelle due encicliche di papa Francesco Laudato si’ e Fratelli tutti troviamo conferma del fatto che la direzione del nostro lavoro si muove verso quell’orizzonte. Laudato si’ ce lo conferma con il suo promuovere un cambio di paradigma economico e sociale che abbandoni l’idea di dominio e sfruttamento sulla natura e si concentri sulla cura. Fratelli tutti ci rafforza nella convinzione che l’esistenza di più religioni è una grazia. Anche se il dialogo interreligioso a volte è faticoso, a volte perfino doloroso, è in esso che troviamo il vero senso della nostra vita e del nostro lavoro.
Come si riflettono nel lavoro sul campo queste indicazioni del papa?
Fratelli tutti, di fatto, ci dice che il partenariato non basta: è la fratellanza ciò a cui siamo chiamati. In estrema sintesi, quindi, potrei risponderti: dobbiamo cercare di trasformare i nostri progetti, che spesso si svolgono in paesi a maggioranza musulmana, in laboratori di dialogo che ci aiutino a fare questo passaggio dal partenariato alla fratellanza.
Una cosa è mettersi attorno a un tavolo con i partner nei paesi in cui si lavora e dire: c’è un bando, proviamo a ragionare insieme su come ideare un progetto, partiamo da una lettura condivisa dei problemi e lavoriamo perché ogni progetto si traduca in pratiche che gli amministratori locali possono usare per risolvere quei problemi. Questo è un livello, quello del partenariato e della politica locale, e noi già siamo impegnati nel costruirlo il meglio possibile.
Ma c’è un altro livello, più profondo: quello di entrare nell’ordine di idee che la realizzazione di quel progetto possa generare non solo un’équipe che lavora, ma anche una comunità che dialoga.
Per entrare in questo ordine di idee, ci guidano ancora una volta le parole che il papa ha pronunciato a Qaraqosh, durante il suo viaggio in Iraq, sottolineando come il dialogo interreligioso non può nascere «a freddo», da riflessioni teoriche fatte a tavolino. Al contrario, può sorgere solo se si fa uno sforzo fondamentale che riguarda la quotidianità: riconoscere il bisogno dell’altro come proprio. Facendo poi fronte comune davanti a quel bisogno, si possono creare le condizioni per il dialogo e la fratellanza. Ecco, allora, che i progetti possono essere lo strumento per creare quel livello di amicizia, di profondità e di autenticità di relazioni necessario per poi arrivare ad affrontare insieme anche aspetti delicati del dialogo che altrimenti sarebbe difficile toccare.
Una nuova presidente e nuovo consiglio: come pensate di rilanciare la Federazione? Vedi la tua come una presidenza di continuità o di rottura?
«Rottura» non mi piace. Ma «continuità» nemmeno. Credo che le priorità per la Focsiv siano valorizzare il lavoro dei nostri volontari, rafforzare la relazione tra soci e federazione interpretandola come uno scambio continuo, promuovere la partecipazione e incarnare l’idea di sussidiarietà.
Un altro punto è sicuramente la formazione, specialmente attraverso la nostra Scuola di politica internazionale cooperazione e sviluppo (SpiceS).
Dobbiamo poi sforzarci di passare da essere un insieme a diventare un sistema: il nostro è un mondo in cui ci sono molte reti che rischiano di essere autoreferenziali, chiuse nei loro perimetri. Dalla campagna di ascolto dei soci che il nuovo consiglio Focsiv ha condotto, è emerso che essi vorrebbero conoscersi e collaborare di più: la Federazione deve diventare una continua occasione di scambio, conoscenza e lavoro condiviso attraverso tavoli tematici, tavoli geografici sovraregionali, temi trasversali su questioni come il ricambio generazionale e programmi e progetti condivisi.
Più in generale, io credo che il nostro mondo sia capace di autoriforma, senza dover aspettare sollecitazioni esterne: ad esempio, ora abbiamo una grande sfida sulla trasparenza. Viviamo in un momento culturale in cui si concepisce la cooperazione come un lusso, un costo, mentre è proprio il contrario: è un investimento, ma soprattutto un modo di stare al mondo. Però dobbiamo anche tener presente che alcuni episodi infelici hanno spinto diverse persone a non fidarsi più: «Quello che dono arriverà a chi ne ha bisogno?», si e ci chiedono. Per questo bisogna essere sempre più trasparenti, anche al di là di quello che la legge ci richiede.
C’è poi il delicato tema della nostra comunicazione, che non sempre è efficace. Troppo spesso siamo chiamati a raccontare la drammaticità delle cose e penso che invece dovremmo raccontare con altrettanta intensità la speranza che vediamo. Anche perché il racconto di questa speranza rafforza anche chi ascolta.
Di tavoli, gruppi di lavoro, incontri vari, se ne sono fatti tanti, negli anni: che cosa ti fa pensare che quelli che state avviando ora in Focsiv possano portare risultati? E, più in generale, che cosa può dare maggiore efficacia al lavoro delle reti della cooperazione?
In questo momento, complice anche la pandemia, io avverto una forte consapevolezza del fatto che da soli non si va da nessuna parte. La cifra del nostro tempo è forse la fatica di vedersi nel futuro, che per la prima volta nella storia dell’umanità ci fa paura, mentre prima era il tempo in cui si proiettavano sogni e speranze. Ecco, forse il pensarsi insieme agli altri è l’unico antidoto alla paura.
Questo stare insieme richiede al tempo stesso coerenza – se stai in una rete che ti rappresenta devi cedere un minimo di autonomia – ma anche la capacità di andare oltre le reti: il Terzo settore ha bisogno di sentirsi una cosa sola, di non limitarsi a un approccio strumentale – «quanto mi serve quella Federazione e i servizi che mi offre?» – e di esprimere un potenziale politico che c’è ma che ora non sta ancora emergendo in tutta la sua forza.
Altro punto è quello dei tanti temi e fronti su cui si lavora: migrazione, diritti umani e multinazionali, giustizia climatica. Forse focalizzarsi su un tema, o almeno darsi delle priorità, aiuterebbe a essere più incisivi.
Te lo dico con una battuta: dobbiamo passare dal paradigma «tema – svolgimento», al paradigma «problema – soluzione». Approfondimenti e ricerche sono fondamentali e ne abbiamo sempre bisogno, ma dobbiamo essere ancora più concreti e puntuali nella nostra capacità di porre questioni alla politica, altrimenti rischiamo di far parte di quello che Greta Thunberg ha chiamato il blablà.
Parliamo di progetti: che cosa ne pensi della contrapposizione grandi progetti burocratizzati ma capaci di raggiungere tante persone e di avere effetti strutturali versus micro e medi progetti, come quelli portati avanti dalle Ong missionarie, più vicini – forse – alla gente, ma a volte più simili a un rimedio temporaneo e limitato?
Toglierei il versus. Bisogna accettare che le forme della cooperazione sono tante e che la loro efficacia non si misura solo dalla grandezza o dal numero di beneficiari coinvolti. In Focsiv ci sono sia associazioni di volontariato puro, senza dipendenti, che sostengono piccole opere di singoli missionari, sia Ong strutturate che lavorano su grandi progetti istituzionali, e questa, secondo me, è una grande ricchezza.
Certo, so che c’è un dibattito nel mondo della cooperazione in cui una parte sostiene che il troppo piccolo non ha senso, ma io convintamente dissento: spesso anche il piccolo dà risposte dove non ce ne sarebbero altre, io in questo già vedo un senso. Il denaro pubblico è sacro, e un’organizzazione deve dimostrare di avere la struttura e le competenze per gestirlo, ma non è la grandezza che fa la differenza. L’indicatore più importante è quello più volte citato da papa Francesco: dobbiamo incidere sulle cause. Anche un’azione che a noi sembra minuta a volte ha la capacità di entrare in un sistema e cambiarlo.
Ci descrivi in due parole la campagna 070, che mira a far pressione per portare allo 0,70% del Pil la quota di risorse per la cooperazione?
È una campagna sostenuta insieme da Aoi (Associazione Ong italiane), Cini (Coordinamento italiano Ngo internazionali), Link2007 (Organizzazione di coordinamento tra 14 Ong) e Focsiv, e vede quindi le rappresentanze unite nell’interloquire con il governo. L’obiettivo immediato, lo scorso autunno, era quello di far sentire la nostra voce nelle settimane della discussione sulla legge di bilancio.
Il secondo obbiettivo è quello di avanzare una proposta di legge che vincoli l’Italia al raggiungimento dell’obiettivo dello 0,70% del Pil per la cooperazione entro quattro, cinque anni: finché non c’è una legge, la cooperazione rischia di rimanere la Cenerentola nella destinazione di fondi pubblici. Ora siamo allo 0,22%; indicativamente, per arrivare almeno allo 0,40% servirebbero 2,3 o 2,4 miliardi di euro.
La campagna ha l’obiettivo di parlare alla politica ma anche alla gente: non si limiterà ad attività di lobbying e advocacy verso le istituzioni, ma cercherà di attivare le comunità locali, coinvolgendo organismi di cooperazione internazionale, i centri missionari, le Caritas, i gruppi di lavoro dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS) e del Terzo settore.
Questo significherà confrontarsi con quella comunicazione e quelle posizioni culturali e politiche che ci sono ostili, rispondere nelle piazze e nei dibattiti a chi ti dice «prima gli italiani».
Si è chiusa lo scorso 13 novembre la Cop26. Che giudizio dai sull’accordo di Glasgow?
C’è un po’ di delusione sui risultati, ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile trovare una convergenza su punti di vista e interessi così diversi.
Va preso atto del fatto che si sono finalmente chiamate le cose con il loro nome: ad esempio riconoscere in modo esplicito che le fonti fossili sono una delle cause principali del cambiamento climatico è un passo in avanti. Inoltre, la distensione climatica fra Usa e Cina è un elemento positivo, così come lo è tutto quello che apre il dialogo rispetto alla chiusura di prima.
Mi auguro che la citrica ai risultati non si traduca in un ulteriore indebolimento del sistema delle Nazioni Unite e che la società civile, e i giovani in particolare, continuino a fare pressioni paese per paese, perché al di là dell’accordo sono le azioni che ogni singolo paese intraprende a poter fare la differenza.
Ecco, i giovani. Tu sei nella cooperazione da oltre vent’anni con Progettomondo: come sono cambiati i giovani che vogliono lavorare in questo ambito? E come li accoglie, che cosa offre loro il mondo della cooperazione, oggi?
Il nostro settore esercita una forte attrattiva sui giovani. Credo che oggi più che mai ci sia bisogno di dare loro risposte personalizzate, senza mai generalizzare: ci sono giovani con un approccio incentrato sull’esperienza in sé, per cui ne fanno una e passano subito alla successiva; altri che hanno già in mente un loro percorso e sanno che il loro lavoro con noi non è che una tappa; altri ancora che si affidano a noi e che partono, si lasciano mettere in discussione e poi si “innamorano” dell’organizzazione e rimangono. Noi dobbiamo cercare di essere rispettosi di tutti questi approcci ed è una nostra responsabilità fornire loro un’esperienza strutturata e seguita.
C’è evidentemente una questione di ricambio generazionale e io credo che vada migliorato il dialogo intergenerazionale nelle nostre organizzazioni: se gli adulti sostengono di averle provate tutte per convincere i ragazzi a restare e i giovani oppongono che però mancano gli spazi per inserirsi davvero, specialmente in termini lavorativi concreti, è chiaro che qualcosa non sta funzionando. Dobbiamo, da un lato, accompagnare questi ragazzi a capire il valore dell’organizzazione e del volontariato e, dall’altro, essere disposti a farci mettere in discussione da loro.
Chiara Giovetti
Correva l’anno del Signore 1922
In quell’anno moriva presso il santuario della Consolata, in Torino, il canonico Giacomo Camisassa. Ancora giovane sacerdote, non esitò a mettersi al fianco di colui che era stato suo direttore spirituale nel seminario, il canonico Giuseppe Allamano, e che era appena stato nominato rettore del santuario della Consolata, per offrire la sua collaborazione fedele e operosa. E lì rimase per ben 42 anni, amico e aiuto prezioso del giovane rettore. Ad un gruppo di missionarie, giunte nel suo ufficio per porgergli le condoglianze, il canonico Allamano disse, con le lacrime agli occhi: «Tutte le sere passavamo qui lunghe ore… qui nacque il progetto dell’Istituto, qui si è parlato di andare in Africa… insomma tutto si combinava qui. Ora non c’è più, cosa farò io?».
L’eredità lasciata da Giacomo Camisassa alla chiesa torinese e ai missionari e missionarie della Consolata è ancora oggi un tesoro a cent’anni di distanza. La sua testimonianza di vita interpella e stimola tutti ad aprirsi con coraggio verso la missione evangelizzatrice della Chiesa e a una solidarietà generosa nei confronti degli ultimi e degli emarginati. Per questo motivo, ritorneremo nel corso dell’anno 2022 a presentare aspetti esemplari della sua figura, sicuri di offrire ai lettori proposte capaci di rinfrancare i cammini che papa Francesco ci invita a intraprendere come «discepoli» e «missionari».
In questi giorni la Chiesa universale e quella italiana invitano a compiere un «cammino sinodale» fatto di coinvolgimento e dialogo, di collaborazione e operosità all’interno delle nostre comunità cristiane per risvegliare in tutti lo zelo missionario e attirare coloro che dalla Chiesa si sono allontanati. Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa, pur in epoche lontane, hanno saputo essere esempio di dialogo e discernimento, collaborazione e spinta ai lontani, mossi da un intenso fervore di vita spirituale. Utilizzavano soprattutto mezzi semplici, ma quanto mai efficaci. Leggiamo, ad esempio, nella sua biografia: «Dopo cena [i canonici Allamano e Camisassa] si trovano per vagliare quanto nella giornata è emerso e quanto il domani sembra prospettare. Niente di formale, niente di rigido, ma tutto è chiarezza, ricerca, gioia di camminare insieme. Due ore al giorno passano così nel dialogo. Quei due che si fanno scrupolo di non perdere un minuto, non ritengono sia sprecato quello speso per chiarirsi le idee, per approfondire problemi, per giungere a conclusioni. Gli incontri danno tranquillità al Fondatore, perché chi gli sta accanto è un uomo sincero, capace di contestarlo per farlo riflettere, ma attento e fedele ai suoi cenni come se venissero da Dio» (Mina, «La beatitudine di essere secondo», pp. 73-74).
Che il beato Giuseppe Allamano e il canonico Giacomo Camisassa aiutino anche noi ad essere oggi persone capaci di discernimento, dialogo e fattiva intraprendenza a favore dei poveri e dei lontani dalla Chiesa.
padre Piero Trabucco
Chiedete e vi sarà dato
«Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto» (Mt 7,7): questo invito di Gesù ha suscitato una profonda eco nello spirito del beato Giuseppe Allamano, il quale lo ha trasmesso ai suoi figli e figlie, esortandoli a pregare con fiducia e a vivere l’eucaristia in unione al sacrificio redentivo di Cristo.
Pregare con fiducia
La vera preghiera, sembra suggerire l’Allamano, nasce da un rapporto positivo con Dio. Nessuna paura, nessun dubbio, tanta confidenza e fiducia: sono atteggiamenti interiori che creano un clima di vera sintonia tra noi e Dio. L’Allamano ci fa capire che il Signore ci conosce nell’intimità, di conseguenza è logico fidarsi. Lo dice sotto tutti i toni: «Pensare sovente al Signore che può, sa, e vuole aiutarci». «Bisogna avere molta confidenza in Dio e voler sempre quello che egli vuole».
«Se uno domanda le grazie senza speranza d’ottenerle, non le ottiene sicuramente. Bisogna domandarle con fede, con quella confidenza da far miracoli. Bisogna importunarlo, nostro Signore, fare come quel tale della parabola del Vangelo che andò durante la notte a domandare del pane all’amico… a forza d’importunarlo glielo diede».
Pregare con perseveranza
L’Allamano insegnava a pregare con perseveranza, fidandosi senza tentennamenti, anche quando le circostanze sembravano suggerire il contrario. Di ritorno da Roma, dopo la beatificazione dello zio materno, Giuseppe Cafasso, riferì agli allievi che i cardinali, entusiasti del nuovo beato, gli avevano detto: «Ora tocca a voi farlo far santo, ottenendone i miracoli». Ma aggiunse subito un suo commento sapiente e concreto: «Questo è un buon principio. E voi domandate grazie spirituali, queste piacciono più a lui e le fa più volentieri. Ma siccome queste non bastano, domandate pure grazie materiali, soprattutto miracoli di chirurgia (si fa una novena, poi una seconda, una terza senza mai stancarsi). Soprattutto domandate vero spirito religioso».
Alle suore, nella conferenza del 9 maggio 1915 sulla «preghiera», così si espresse: «Generalmente quando per ottenere una grazia si fa una novena ai santi, non si ottiene subito dopo questa grazia (non sembra che sentano la prima volta); se ne fa una seconda (e il santo comincia a sentir di più); se ne fa una terza (ed il santo apre e ci ottiene la grazia). Quando non riceviamo quello che abbiamo chiesto, pensiamo che neppure un filo, una parola della nostra preghiera è caduta nel vuoto».
L’Allamano al santuario della Consolata (fotomontaggio)
La messa, primo amore dell’Allamano
L’Allamano sottolinea che l’eucaristia è il centro del culto della Chiesa, specificando che è proprio la santa messa la fonte di tutto il mistero eucaristico: «Certamente la prima, la più eccellente e potente orazione è la santa messa. In essa parliamo all’Eterno Padre con Gesù; è Gesù che si offre e prega per noi; e soddisfa ai nostri debiti. Guai al mondo se non vi fosse la santa messa. Al sacrificio della messa tendono come al centro tutte le altre orazioni dei sacerdoti».
Rivolgendosi ai suoi missionari diceva: «La santa messa, la comunione e la visita al Santissimo Sacramento devono essere i nostri tre amori»; «Gesù è veramente con noi là nel santo tabernacolo; e vi è come vittima, cibo ed amico; vittima nella santa messa, cibo nella santa comunione, ed amico nelle visite al Santissimo».
L’Allamano, secondo la fede della Chiesa, ha evidenziato il significato sacrificale della messa: «Nella messa si ripete sempre il sacrificio della croce tale e quale; se nostro Signore non fosse morto sulla croce, morirebbe ogni giorno sull’altare. Il Signore si sacrifica all’eterno Padre per i nostri peccati, per ottenere le grazie di cui abbiamo bisogno; si offre al Padre ed è sempre una vittima, un olocausto».
Nella teologia eucaristica ha un valore essenziale l’aspetto dell’offerta di Gesù al Padre come vittima in favore nostro e di tutta l’umanità. Ora, il dono di Gesù al Padre coinvolge la Chiesa chiamata a offrirsi assieme a Gesù. L’Allamano ha percepito bene questo significato dell’offerta sacrificale, vivendolo personalmente ed insegnando ai suoi missionari e missionarie a offrirsi al Signore con generosità, come «olocausti».
Sul Calvario con Maria
C’è da aggiungere un altro suggerimento interessante che l’Allamano ci offre: vivere la messa come se si fosse sul Calvario con Maria. Emerge qui il senso mariano dell’eucaristia. Non si dimentichi che al vertice dei misteri della luce del santo Rosario c’è proprio l’istituzione dell’eucaristia. Il papa Giovanni Paolo II così conclude la sua lettera apostolica per l’Anno (2004-2005) dell’Eucaristia Mane nobiscum Domine: «La Chiesa, guardando a Maria come a suo modello, è chiamata ad imitarla anche nel suo rapporto con questo mistero santissimo. Il Pane eucaristico è la carne immacolata del Figlio: Ave verum corpus natum de Maria Virgine» (n. 31).
La pietà mariana dell’Allamano lo ha portato a comprendere bene la partecipazione di Maria alla redenzione e, quindi, il suo speciale coinvolgimento nel mistero eucaristico. Nel suo quaderno spirituale da seminarista leggiamo: «Voglio assistere alla messa in compagnia di Maria Santissima sul Calvario ed accostarmi alla comunione con gli stessi sentimenti di Maria SS. al Verbum caro factum est» .
E, parlando della messa alle suore, disse: «La santa messa è certo la più gran cosa e per essere degna bisognerebbe che Dio stesso la celebrasse. È lo stesso sacrificio della croce; il sacerdote è solo ministro secondario; Gesù è la vittima e il primo ministro: è lui che si offre, che domanda perdono, che ringrazia, che impetra grazie! Dobbiamo figurarci di assistere al Calvario con la Madonna e san Giovanni».
Condividendo i sentimenti della Madonna – sembra dirci l’Allamano – si partecipa alla messa non solo con la testa, ma anche con il cuore.
padre Francesco Pavese
Mons Martinacci (al centro) con i missionari della Consolata che celebrano i loro giubilei di ordinazione e professione religiosa
Maestro del clero
Monsignor Giacomo Maria Martinacci, rettore del santuario della Consolata, qualche tempo fa, ha incontrato i missionari che celebravano i 25 anni di ordinazione o professione religiosa e ha parlato loro del beato Giuseppe Allamano come «Maestro del clero». Di seguito riportiamo una sintesi del suo intervento.
Mi sembra importante, guardando al beato Giuseppe Allamano, vederlo inserito – pur con la sua inconfondibile originalità – nel contesto di un clero e di una intera comunità diocesana torinese segnato – particolarmente nei due ultimi secoli – da itinerari di santità esplicitamente riconosciuta dalla Chiesa stessa.
L’Allamano nasce a Castelnuovo d’Asti nel 1851, dove prima di lui erano nati lo zio san Giuseppe Cafasso (1811) e san Giovanni Bosco (1815) e dove concluderà la sua breve vita san Domenico Savio (1857): una coincidenza storica davvero unica per un paese non grande come appunto era ed è tuttora Castelnuovo (Provincia di Asti e Arcidiocesi di Torino).
È certamente curioso che un sacerdote, il quale mai è stato addetto a una parrocchia venga affiancato ai giovani sacerdoti per aiutarli a diventare buoni viceparroci e parroci; altrettanto stupefacente è che uno che mai era stato nelle missioni e mai vi è poi andato, fondi due Istituti missionari e sia formatore e maestro di missionari e di missionarie. Eppure, questa è la storia del beato Giuseppe Allamano. A lui, dopo alcuni anni nel seminario teologico dell’Arcidiocesi – prima come assistente (1873-76) e poi come direttore spirituale (1876-80) -, fu affidata la responsabilità del Santuario mariano più importante di Torino, a cui si aggiunse due anni dopo quella di rettore del rinato Convitto ecclesiastico per i giovani sacerdoti e successivamente divenne fondatore di due famiglie religiose missionarie.
Padre Pavese, riferendo gli insegnamenti dell’Allamano come maestro nella formazione del clero diocesano nel Convitto ecclesiastico, nota una evidente differenza tra le conferenze ai sacerdoti del Convitto ecclesiastico e quelle tenute ai missionari e alle missionarie.
«Le prime sono di carattere ascetico, ma soprattutto pastorale. L’Allamano intendeva preparare i sacerdoti al ministero, insegnando loro come agire e come evitare i difetti che purtroppo si riscontravano. Le seconde, cioè quelle ai missionari, sono piuttosto di carattere ascetico. Intendeva preparare missionari “santi”, sicuro che il metodo dell’apostolato l’avrebbero poi imparato in loco».
Ai sacerdoti convittori (quelli dei primi anni del Convitto li aveva conosciuti nel seminario in quanto era stato il loro direttore spirituale, ma successivamente sarebbero stati sacerdoti che incontrava per la prima volta) manifestava accoglienza cordiale e aperta, presentando anche il Regolamento del Convitto, con cui intendeva mettere le basi alla vita di comunità. Insegnava poi ad essere fedeli al ritiro mensile e agli esercizi spirituali annuali; sulla necessità della meditazione quotidiana era irremovibile, la faceva precedere a qualsiasi altra preghiera, santa Messa esclusa. Privilegiava poi la visita al santissimo Sacramento: un tema ricorrente nei suoi interventi. Prendendo lo spunto da circostanze diverse, insegnava ai convittori come vivere certi avvenimenti ecclesiali, come compiere alcuni atti propri dei sacerdoti e, in particolare, quali fossero le virtù da curare, che indicava come «sacerdotali».
Circa le virtù sacerdotali raccomandava: l’ardore apostolico o zelo, come si diceva allora; l’educazione e la modestia; la castità; il disinteresse e il distacco dai parenti. Circa il modo di vivere certi eventi sottolineava: la novena del Natale e quella dello Spirito Santo; la presenza della Madonna e la pietà mariana; la consacrazione delle chiese. Per il modo di compiere gli atti propri del sacerdote insisteva su: celebrazione della santa Messa e della liturgia; visita al santissimo Sacramento; benedizione eucaristica. Non mancava di evidenziare la necessità dello studio, dell’esame di coscienza e della lettura spirituale.
Per parte mia devo riscontrare che tutte queste indicazioni e sottolineature io, che sono stato ordinato sacerdote 55 anni fa, le ho ancora riscontrate praticamente pari pari negli anni del nostro seminario e nell’anno trascorso qui al Convitto ecclesiastico. Se guardiamo al clero torinese, formato nel Convitto a partire dal fondatore teologo Luigi Guala – iniziato nel 1817 – e dal suo primo successore san Giuseppe Cafasso, per giungere al beato Allamano e al beato Luigi Boccardo che fu suo diretto e principale collaboratore per trent’anni nel Convitto (mentre il canonico Giacomo Camisassa lo fu per il Santuario e successivamente anche per missionari e missionarie), dobbiamo rilevare che la straordinaria fioritura di santità sacerdotale degli ultimi due secoli non può non essere anche conseguenza di quanto i sacerdoti avevano ricevuto nella formazione seminaristica e nel Convitto.
Non è mio compito entrare nel campo degli insegnamenti offerti dall’Allamano ai missionari e alle missionarie, tuttavia come attuale rettore del Santuario (qui sono il decimo successore del beato), desidero farmi eco dell’Allamano ricordando a voi, proprio in questo luogo santo, la caratteristica assolutamente indispensabile da lui costantemente richiesta e ribadita ai missionari e alle missionarie: la vostra santificazione.
Monsignor Giacomo Maria Martinacci
Pensando di fare cosa gradita ai nostri lettori, a cominciare da questo numero, presentiamo alcune pagine del volume «Giuseppe Allamano – uomo per la missione», edito da Edizioni Missioni Consolata a cura del defunto padre Francesco Pavese con l’apporto sostanziale di suor Angeles Mantineo, Missionaria della Consolata.
Il volume, che ha visto la luce nel 2009, è una sorta di autobiografia in cui l’Allamano comunica se stesso, raccontandosi volentieri e con semplicità, come un padre che si intrattiene con i figli, sicuro di essere capito e accettato. Per questo mantiene tutta la sua freschezza e immediatezza anche oggi.
Il testo è corredato da una ricca documentazione fotografica in cui vengono presentate tutte le foto del Fondatore assieme ai luoghi in cui è vissuto e le persone con le quali si è interfacciato.
Il titolo del volume «Uomo per la missione» è parso il più espressivo per caratterizzare l’identità profonda dell’Allamano fondatore di due istituti missionari, che voleva farsi missionario fin da quando era seminarista. Il sottotitolo «Adesso voglio parlarvi un po’ di me» riporta sue parole e indica il criterio con cui è stato realizzato il libro.
Giuseppe Allamano si racconta
Il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata, educava alla missione i giovani dei suoi due Istituti comunicando loro il proprio spirito con l’insegnamento e la testimonianza di vita. Il suo metodo pedagogico valorizzava grandemente l’esperienza quotidiana. In genere, la sua dottrina veniva esemplificata con fatti e vissuto personali. Ecco perché ai suoi figli e figlie parlava spesso di sé. Sono simpatiche e accattivanti certe espressioni con le quali introduceva o giustificava le sue confidenze, quali: «Adesso voglio parlarvi un po’ di me»; «Vi dico tutto come un padre di famiglia»; «Stasera voglio farvi il mio panegirico, a gloria di Dio».
Sono pure significative le parole con le quali invitava i suoi giovani a imitarlo: «Provate anche voi»; «Fate così»; «Felici voi se farete così».
A questa facilità di comunicazione fa contrasto la sua ritrosia a lasciarsi fotografare. Le sue fotografie sono relativamente poche e la maggior parte di esse sono in gruppo. Tuttavia servono per accendere la fantasia di chi lo ascolta e rendere più concrete le sue confidenze. Fa piacere vederlo, oltre che ascoltarlo.
Il presente volume offre la possibilità di ascoltare e vedere questo grande «Uomo per la missione». Esso può definirsi un’autobiografia fotografica dell’Allamano, proprio perché raccoglie e integra armonicamente moltissime espressioni dove egli parla di sé o manifesta il proprio pensiero, assieme a un gran numero di fotografie sue e di personaggi e luoghi a lui strettamente collegati. In certo
senso, l’Allamano si racconta e assieme si presenta e continua a proporre un particolare cammino di santità in vista della missione universale della Chiesa.
POSTULATORE – P. GIACOMO MAZZOTTI
Chi ricevesse una grazia per intercessione del beato Giuseppe Allamano è pregato di notificarlo ai seguenti indirizzi:
POSTULAZIONE MISSIONI CONSOLATA
• Viale Mura Aurelie, 11-13 – 00165 Roma
• Corso Ferrucci, 14 – 10138 Torino
E-mail: postulazione@consolata.org https://giuseppeallamano.consolata.org
La Letteratura che parla della vita
Un cantautore, un Rom e due donne
Una storia vera e due inventate, ma che parlano di cose vere. L’esperienza di un bambino francese che perde la madre a sei anni, quella di un Rom, perseguitato da uno stigma che gli brucia come un marchio a fuoco, quella di una donna alle prese con un trasloco a novant’anni, e della donna che le porta la notifica di sfratto.
Solo i bambini sanno amare
Gli editori indipendenti sono retti da gente coraggiosa. Coraggiosa e creativa. Chi ama leggere lo sa: nei cataloghi indipendenti spesso si nascondono pagine di letteratura che dovrebbero avere molta più fortuna di quella che hanno.
Ho appena finito di leggere Solo i bambini sanno amare, pubblicato nel 2021 da Vague Edizioni. Lo ha scritto Bruno Caliciuri, in arte Cali, un cantautore francese sconosciuto in Italia, ma di buon seguito oltralpe. In Francia il libro è uscito nel 2018. Vague Edizioni ha scovato la classica perla che rischiava di andare perduta.
I cantautori, almeno in Italia, si concedono spesso digressioni narrative. Da Ligabue a Francesco Guccini, da Roberto Vecchioni a Giuliano Sangiorgi, gli esempi non mancano. Non ho idea se anche in Francia succeda qualcosa di simile, di certo Solo i bambini sanno amare è un libro che non dovrebbe passare inosservato.
Cali, con coraggio e una dose rara di umanità, racconta i mesi terribili che sono seguiti alla morte di sua mamma, la maestra di Vernet Les Baines, un piccolo paesino della Francia meridionale. Lui aveva sei anni.
È un racconto in prima persona, senza distanza temporale. È Cali bambino che si racconta. Attraversa il disorientamento, il dolore, la rabbia, la ricerca di quell’amore materno perduto e che lui ha bisogno in qualche modo di rimpiazzare. Peccato che ci siano vuoti che non possono essere colmati e che capirlo a 6 anni è dura.
Leggendo questo libro, ho rivisto pezzi di Romain Gary, sicuramente con meno ironia, ma di certo con la medesima lucidità. Cali è un autore che vale la pena scoprire come narratore e, se andrete a cercare sue tracce canore su YouTube o Spotify, non resterete di certo delusi.
Un’ultima nota importante sull’editore: Vague Edizioni pubblica solo autori francofoni e rappresenta, per la letteratura francofona, ciò che Sur rappresenta per quella sudamericana, Iperborea per il Nord Europa o Miraggi per il mondo slavo.
Ogni luogo un delitto
Vi segnalo un’altra recente lettura che mi ha colpito non poco. Credo di aver letto, per la prima volta in vita mia, un libro nel quale uno dei due protagonisti, eroe positivo, è un Rom. Un Rom brutto sporco e cattivo, come vogliono gli stereotipi, ma non solo.
Il Rom e tutta la sua comunità vengono raccontati per quello che sono: un popolo imperfetto, con una cultura ancestrale e una religiosità incrollabili alle spalle. Ma anche uno stigma indelebile che li perseguita.
Lo stigma che spinge la signora Pautasso a stringere a sé la borsetta quando li incrocia al mercato, e che fa raccogliere firme nei gazebo per far sgomberare a colpi di ruspa l’accampamento sorto troppo vicino alle nuove villette a schiera.
Gli zingari popolano il razzismo che crediamo di non avere, e che mai nessuno redimerà.
Flavio Troisi, scrittore, ghostwriter e youtuber, ha scritto per Autori Riuniti, Ogni luogo un delitto. È uscito a febbraio del 2021 ed è già alla prima ristampa. Non sono sorpreso. Flavio (che è un tipo interessante, colto, con una visione del mondo che non ama l’ovvio) ha scritto davvero un bel libro, un intrigante viaggio nel mondo zigano, in un accampamento che ha collocato in Val Susa, nella «valle che resiste» (più ai tempi che cambiano troppo rapidamente le vite, che al treno veloce), ma soprattutto ha trasformato un riuscitissimo racconto thriller in un piccolo manifesto di lucida protesta.
Tutti i protagonisti del libro di Troisi sono alla ricerca di un «piano B», di una seconda possibilità. Sono stanchi di un modello sociale nel quale non si identificano, e, alla faccia di ogni regola non scritta, si costruiscono, un pezzo alla volta, un’alternativa, un luogo nel quale poter essere se stessi fino in fondo.
Costel, autorevole boss della comunità rom, e Fabio, ex dirigente scaricato dalla multinazionale di turno, reinventatosi muratore, si ritrovano senza volerlo per un secondo a fare i conti con una brutta (bruttissima) storia di sangue.
Tra loro nasce quel legame di amicizia che nessuno dei due avrebbe mai messo in conto, e scoprono due cose: innanzitutto di essere dei discreti investigatori, poi di essere molto più simili di quanto fosse ipotizzabile.
Costel è un uomo in fuga, come tutti gli zingari del globo, da una storia infinita di pregiudizi. Fabio, invece, dopo essere stato preso a calci nel sedere da ciò in cui credeva, ha bisogno di riprendere in mano la propria esistenza.
Questa storiaccia brutta, darà loro l’opportunità per svoltare.
Non so se in un libro vada cercata la «morale della storia», ma io, in Ogni luogo un delitto, ho trovato questa: la ricerca di un posto nuovo nel quale dormire il sonno del giusto, prima o poi, tocca tutti. E questa ricerca ci rende, che lo si voglia o meno, nomadi.
Anche se non abbiamo origini slave, non suoniamo violini zigani, non siamo circensi, non svuotiamo appartamenti o rubiamo portafogli sul tram. Siamo un po’ Rom, anche se siamo gagi (non Rom). Rom, per la cronaca, significa uomo.
Olmo
Chiudiamo con Olmo, il sesto romanzo di Marcello Loprencipe, uscito con Campi di Carta nel 2021.
Loprencipe, autore con una vicenda personale intrigante (Google vi aiuterà a scoprirla), ci sorprende con una storia intima e tutta al femminile. Le protagoniste infatti sono due donne, molto diverse tra loro per età, vissuto e approccio alla vita e ai sentimenti. Margherita è una novantenne che vive sola in una casa, piena di ricordi, che dovrà lasciare. Viola è la giovane donna che le consegna la notifica di sfratto, ma che non rimane indifferente al racconto dell’anziana.
Quasi tutta la vicenda si svolge su una panchina, dove le due donne si raccontano.
È qui che il romanzo prende corpo, nell’immersione dentro il sentire femminile e, allo stesso tempo, nella rottura degli stereotipi sulla vecchiaia, sui rapporti di forza, sull’importanza del passato e sulle paure del futuro e della morte. Infatti non è detto che Margherita viva nel passato e che Viola progetti il futuro.
Intensa, densa, poetica, come sempre, la scrittura di Loprencipe, che non ama dilungarsi e che in ogni pagina racconta un mondo, in fondo conosciuto e vissuto da ognuno di noi.
Rimane il perché del titolo Olmo. Cosa rappresenta, cos’è, chi è? La risposta la troverete leggendo il libro, ma ciascuno di voi se ne farà un’immagine diversa, ne sono certo.