Vivere di Dio (Es 20,18-23,19)


Il decalogo (Es 20,1-17) non è il riassunto o la conclusione della legge, ma semmai il suo sfondo, quasi la sua «costituzione». Evidentemente, però, le leggi non possono esaurirsi in una presentazione profonda e sintetica (quasi solo dei titoli), ma poco dettagliata. E in effetti il libro dell’Esodo fa seguire le dieci parole da quasi tre capitoli di regole più specifiche e precise, che possono tuttavia causarci qualche problema, anche se, secondo alcuni, essi sono solo il primo commento e applicazione dei «comandamenti».

La prima raccolta di leggi ebraiche

Le nuove parole divine, che iniziano in Es 20,22, sono estremamente concrete, puntano a regolamentare una vita reale, quindi una vita ambientata in un tempo storico preciso. Ecco perché, ad esempio, non solo accettano l’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo e anche la schiavitù (che nei tempi biblici non vediamo mai sparire), ma danno anche per scontato che il tempio non sia uno solo, e ve ne sia, invece, uno in ogni cittadina o addirittura in ogni casa (cfr. 21,6). Questo è un tema che diventerà fondamentale nel libro del Deuteronomio. In questi capitoli abbiamo, quindi, una raccolta di leggi e norme piuttosto antica, che tradisce il suo essere nata in un contesto contadino arcaico.

In questa raccolta si parte dalle questioni riguardanti il culto (20,23-28) per poi passare ad alcune regole sugli schiavi (21,1-8) e sulle donne (21,6-11, con una certa sovrapposizione dei temi), per poi giungere ai casi di omicidio e lesioni fisiche (21,12-36), anche qualora a perpetrarle siano animali, tanto che, per affinità di tema, si arriva a contemplare il caso di furto di bestiame (21,37). A sua volta, quest’ultimo argomento porta l’attenzione più generale sulla tutela delle proprietà (22,1-14). Quindi, si prende in carico la difesa dei deboli (22,15-26) e di Dio (22,19.27-30). Si passa poi a diverse norme relative al rapporto con il prossimo, anche nel caso della gestione di animali (23,1-9), e, infine, nuovamente, a questioni religiose: l’anno sabbatico (23,10-12) e alcune feste (23,13-19).

Il tutto si chiude rinnovando la garanzia dell’assistenza permanente da parte di Dio (23,20-33), che lega il nostro brano con ciò che segue e che analizzeremo con più calma nella prossima puntata.

Alcuni casi particolari

Omicidio. Può essere interessante riprendere in particolare alcune delle norme inserite in questi capitoli.

Si stabilisce, ad esempio, che chi uccide un uomo vada messo a morte (21,12-14), anche se questi può rifugiarsi in alcune città specifiche, qualora l’omicidio non sia intenzionale (21,13; cfr. Nm 35; Gs 21). Qui l’omicida non può essere arrestato, sempre che non abbia ucciso con inganno, nel qual caso può anche essere strappato via dall’altare del tempio dove si è rifugiato (Es 21,14). Il senso generale pare abbastanza chiaro: la tutela della vita è qualcosa di imprescindibile (cfr. Gen 9,5), al punto che persino quando l’omicidio non è intenzionale, va perseguito. Nello stesso tempo, occorre prevedere delle vie di scampo legittime per chi davvero non ha cercato la morte del fratello. La vita è sacra al di là di ogni intenzione omicida, ma anche la vita dell’omicida è da tutelare.

Questa raccolta di leggi recupera poi anche la norma del taglione, «occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede…» (21,21). Questa consuetudine, che a noi oggi sembra crudele, era in origine un limite alle faide e a vendette sproporzionate. Come vedremo tra poco, non dobbiamo dimenticarci che si tratta di regole antiche, che sarebbero state superate già durante l’elaborazione del Primo Testamento.

Donne e spose. È questo contesto arcaico a spiegare anche norme che oggi, fortunatamente, ci paiono disumane e insensate, come quella che equipara sostanzialmente una donna vergine al valore economico che ha per la sua famiglia nel caso che la sua verginità sia violata prima del matrimonio (cfr. Es 22,15-16): si parla di rimborsi, come fosse un costo che lo sposo o il violatore deve pareggiare. Il contesto culturale era quello, incapace di cogliere nella giovane una persona, autonoma e sensibile, benché questa dimensione sia poi pienamente colta in Gen 1-2, testi che vengono scritti probabilmente secoli dopo.

Maghe. Questo stesso spirito «arcaico» si muove nelle condanne a morte delle maghe (22,17) e di chi compie atti di bestialità (22,18). Il motivo di punizioni così gravi è probabilmente da identificare in ragioni religiose: in Egitto si veneravano diversi animali come dèi, e il rapporto con il Dio d’Israele non sopporta manipolazioni magiche, che non coinvolgono la persona ma che lasciano intendere che di Dio ci si possa servire come di uno strumento.

Anno sabbatico. Peraltro, non abbiamo certezze che queste misure così dure siano mai state applicate, così come è rimasto sempre un bel progetto mai applicato quello dell’anno sabbatico (23,10-11). Succede anche a noi oggi, quando offriamo il racconto della nostra vita, e certamente accadeva per i testi biblici, di descrivere come una realtà quello che invece era un desiderio o un progetto che ritenevamo giusto e bello da realizzare. Sono incoerenze che da una parte dicono il limite umano nel non riuscire a tradurre in realtà ciò che è solo ideale, e dall’altra mostrano la capacità di cogliere con onestà che l’ideale è altro rispetto a ciò che si fa.

Il senso nel contesto

Qual è il senso di questi capitoli, allora?

La prima impressione che proviamo di fronte a questi testi è quella di un certo straniamento. Essi sembrano incoerenti con il contesto degli altri capitoli.

Fino a ora, infatti, il libro dell’Esodo ha presentato un poderoso cammino di fede, sia pure in modi e forme narrative inconsuete per noi. Un percorso di approfondimento nella conoscenza e nell’intimità con Dio, nella fiducia in un Signore che si prende carico delle vite umane.

Lo stesso decalogo, come abbiamo visto, lungi dall’essere un elenco di regole, è quasi un manuale d’istruzioni per l’esistenza, criteri di fondo per poter vivere una vita bella e piena.

Qui, invece, improvvisamente, ci troviamo in un testo arido, formale, legalista, che ci parrebbe completamente fuori luogo in un libro tanto ricco.

L’intuizione spirituale antichissima che lo ispira, però, è che i moti profondi dello spirito esigono di essere tradotti in misure pratiche. Una coppia che inizi una vita insieme dovrà mettersi d’accordo su chi fa la spesa, chi cucina, chi pulisce, chi pensa alla posta e alle bollette: tutti questi accordi pratici non sono la ragione per cui si sta insieme, ma la incarnano. Si vive insieme per amore, per dedizione reciproca, cosa che ha un valore spirituale profondissimo, ma che si deve concretizzare in scelte pratiche e minute. Anzi, si dovrebbe addirittura dire che proprio perché ha un valore spirituale profondo si incarna in scelte pratiche.

Il mondo cristiano dovrebbe essere consapevole che non si dà conoscenza di Dio se non nell’umano, non si vive di spirito se non nella carne, non si rende reale un’intuizione dell’animo se non dentro al corpo: anche di questo parla l’incarnazione del Verbo. Ma qui intuiamo che tale percezione profonda era già presente negli autori antichi, che hanno contribuito a formare il Primo Testamento.

Una fede incarnata

Se si vuole essere fedeli al Dio creatore e salvatore, occorre iniziare dal rispetto di norme esteriori e poco importanti in sé, ma che incarnano scelte di vita e di fede fondamentali. Anche riportare al padrone un bue smarrito (Es 23,4) è uno dei tanti modi concreti con cui esprimere la propria fede nel Dio liberatore che ha fatto uscire il popolo dall’Egitto. In questo senso, tutte le norme elencate nei capitoli dal 20 al 23, norme che non sono sicuramente centrali, costituiscono tuttavia la conseguenza pratica dell’adesione all’alleanza.

Per tornare all’esempio della vita di coppia, non è tanto importante chi porti fuori da casa la spazzatura, ma che in quel gesto molto semplice si ribadisce l’intenzione di tenere in piedi e rendere viva un’unione spirituale decisa tempo prima. Il gesto in sé può essere trascurabile, ma è espressione di amore.

Ecco perché queste norme, sicuramente datate e limitate, vengono inserite nella Bibbia, e in una posizione importante. Che non siano regole eterne è dimostrato dal fatto che verranno riprese e modificate almeno altre due volte (nel «codice deuteronomico», Dt 12-26, e nella «legge di santità», Lv 17-26). Qualunque interpretazione letterale di queste norme («Bisogna fare così perché nella Bibbia è scritto così») è una forma di integralismo che non tiene conto del fatto che agli stessi problemi la Bibbia ha risposto nel tempo con leggi diverse incarnate in nuovi contesti di vita.

Detto questo, però, ci è utile capire che nel contesto e nel tempo in cui sono state formulate, quelle regole erano il modo preciso con cui accogliere l’alleanza con Dio. Mantengono un valore autentico di «parola di Dio» per lo spirito profondo che le abita, anche se la lettera è superata dal tempo.

È anche per questo motivo che tali leggi possono, in fondo, restare incompiute. Non è neppure lontanamente ipotizzabile che questo «corpo legale» possa regolamentare la vita di una società intera. Di fatto, si riprendono soltanto alcune questioni, e forse neppure le più importanti.

Non sappiamo se la società ebraica avesse prodotto raccolte di leggi complete (se l’ha fatto, non ci sono arrivate). A chi ha redatto l’Esodo, di certo, questo non importava: bastavano alcuni esempi, non esaustivi, che ricordassero a tutti i fedeli che i grandi moti dell’anima esigono una traduzione corporea.

Al centro c’è l’essere umano

Queste regole incomplete sono attraversate comunque da un’attenzione che era già presente nel decalogo e che è diffusa in tutto il Primo Testamento: ciò che sta a cuore a Dio è la vita dell’uomo.

Possiamo infatti notare che per alcune colpe si prevede addirittura la pena di morte, per altre delle sanzioni che sembrano delle semplici multe. E quasi sempre la pena di morte è prevista per chi ha ucciso altri esseri umani. Per chi ha rubato o danneggiato i beni altrui, sono previste anche pene importanti, ma sempre senza andare a toccare la vita.

Questi capitoli suggeriscono che i beni, il buon nome delle persone, le stesse norme liturgiche, sono tutte cose importanti, ma per Dio lo sono meno della vita delle sue creature. L’essere umano viene prima di tutto, anche prima della legge divina. Questa intuizione, in forme diversissime tra di loro, attraversa tutta la Bibbia. Mai il Dio che impone delle regole si mostra più interessato al rispetto di queste piuttosto che all’esistenza autentica delle persone.

È un’attenzione che si coglie tra le righe in diverse norme: ad esempio, si prevede un limite al tempo in cui uno schiavo può restare tale (21,2-4), salvo che sia lui a non voler essere liberato (21,5-6); una ragazza può essere anche venduta schiava, ma va trattata quasi fosse una moglie (21,7-11); e sono originali e commoventi, nel contesto del Vicino Oriente Antico, le norme che vanno a proteggere orfani, vedove e forestieri, ossia coloro che, in quel mondo culturale, basato sul clan, non avrebbero avuto nessuno che li proteggesse (22,20-23). Alla base di tutto non c’è la gestione ordinata di una società, magari, come spesso succede, allo scopo di tutelare ricchi e potenti, quanto l’attenzione paterna nei confronti di ogni singolo essere umano.

Il rispetto dell’alleanza con Dio comporta insomma di intraprendere percorsi concreti tramite i quali esprimere la scelta religiosa di fondo. Percorsi che sono situati in un tempo e in un contesto, che invecchieranno e saranno superati, ma che continuano a indicare un modo possibile con cui accogliere e rispondere con coerenza all’amore di Dio Padre. Ecco perché il loro valore materiale decade, ma quello spirituale dura sempre, e vengono inseriti nel libro dell’Esodo.

Angelo Fracchia
(Esodo 13 – continua)




Spiritualità e prove impossibili


Le vita ci mette spesso di fronte prove che ci sembra di non sapere superare. Eppure gli eroi di questi film ci provano. E alcuni ci riescono pure. Forse anche grazie a una buona carica spirituale.

Amore e morte

Tutti coloro che amano il cinema lo sospettavano, ma i dati ufficiali sono stati peggiori delle attese. I rilevamenti ufficiali dell’Anica, Associazione nazionale industrie cinematografiche, resi noti a fine dicembre, ci dicono che in Italia nel 2021 i cinema hanno registrato un incasso complessivo di 170 milioni di euro. Il 73% in meno rispetto alla media del triennio 2017-2019. I biglietti staccati al botteghino sono stati 30 milioni, prima della pandemia si oscillava tra gli 80 e i 100 milioni.

Però, anche se è stato un anno terribile per il grande schermo, il più importante festival del cinema indipendente italiano, il Torino film festival, ha battuto un colpo, ed è tornato, a novembre, a respirare in grande.

Il premio come miglior film è andato a «Between two dawns», tra due albe, del regista turco Selman Ancar, che a soli 32 anni, al suo esordio, lascia pubblico e giuria a bocca aperta. Tutto nasce da un incidente mortale all’interno della fabbrica di famiglia di Kadir, il protagonista. Kadir si fa carico di tutto ciò che comporta un dramma di quelle dimensioni, ma non è sempre così facile fare i conti con se stessi in situazioni simili. In una recente intervista rilasciata ad Antonio Maiorino per il sito

taxidrivers.it, è lo stesso Selman Ancar a spiegare: «Ho sempre trovato molto cinematografica la nostra incapacità di raggiungere una conclusione riguardo problemi di questo tipo, così come l’opportunità di poterli osservare da diversi punti di vista. In più, volevo ritrarre il momento in cui un personaggio attraversa un conflitto morale, intrappolato tra la coscienza, la famiglia e i propri sogni».

Un altro regista che ha fatto del realismo e della scelta morale un tratto distintivo della sua cinematografia è Uberto Pasolini, romano trapiantato a Londra, che è stato nelle sale a fine anno con «Nowhere special», bellissimo e struggente. È la storia di un padre un po’ scalcagnato e solo, che ha ancora pochi mesi da vivere a causa di un tumore, e un bimbo di 4 anni al quale decide di trovare una famiglia solida e ricca a cui affidarlo dopo la sua morte. Inutile dire che il bambino, Daniel Lemont, è una vera sorpresa. Amore e morte in «Nowhere special» si tengono per mano. Però Uberto Pasolini (Uberto, non Umberto, e non è parente del grande Pier Paolo) ha una cifra stilistica che strappa applausi ed è capace di vette altissime di tenerezza. Per averne conferma prima di guardare «Nowhere special» (lo trovate per fortuna su Netflix, visto che è sparito dalle sale troppo presto per essere apprezzato come meriterebbe), concedetevi anche «Still life» (lo trovate a noleggio su Google Play e su

iTunes), che il regista romano ha girato nel 2013. È la storia di un impiegato pubblico londinese il cui compito è, ogni volta che muore una persona sola, di trovare qualche amico, parente, conoscente da avvisare e portare al funerale. Nessuno deve fare l’ultimo viaggio da solo.

Il picchiatore con le mani ferite

A queste storie di forte realismo e grandissima umanità possiamo aggiungere un esperimento interessante in corso su Sky. Il 28 gennaio è andata in onda la prima puntata della prima stagione di «Christian». Nella periferia romana un uomo, Christian, lavora per un boss della mala e come tale si comporta. È un picchiatore, uno tosto, fino a quando le mani iniziano a essere doloranti, a tal punto da sanguinare. Ha le stigmate. E la storia prende un’altra piega. La serie è tutta inserita nel genere crime, ma la scelta fatta da Sky e da Lucky Red (che produce) è avvincente. Diretta da Stefano Lodovichi e con un bravo Edoardo Pesce nella parte del picchiatore che deve fare i conti con qualcosa per lui del tutto incomprensibile, «Christian» inaugura un filone definito «dramady supernatural», che ha le carte in regola per fare strada. Il rischio di cadere nel ridicolo è dietro l’angolo, la possibilità di fare a pugni con la sensibilità religiosa, con l’idea di sacro è concreta, ma nelle prime due puntate il rischio pare scampato. Vedremo nel prosieguo della serie.

Spiritualità on demand

Rimanendo nel mondo delle piattaforme che, almeno in questa fase pandemica e post pandemica, hanno soppiantato il ruolo delle sale cinematografiche, vale la pena segnalare che Netflix ha arricchito il suo carnet di titoli a carattere religioso. Digitando le menù di ri-cerca la parola «spiritualità», l’elenco delle proposte è interessante: film, serie tv e documentari che nella home della multinazionale trovano poco spazio, ma che meritano attenzione.

Tra questi: «Blue Miracle. A pesca per un sogno», di Julio Quintana, uscito nel 2021. Tratto da una storia realmente accaduta, Blue Miracle ricostruisce in chiave di dramma a sfondo sportivo la vicenda di Casa Hogar, l’orfanotrofio messicano di Cabo San Lucas che, nel 2014, fece scalpore per la sua incredibile vittoria al Torneo annuale di Bisbee Black & Blue, la competizione di pesca sportiva più importante del paese. La sopravvivenza dell’orfanotrofio dipendeva da quella gara di pesca: vincere o morire.

Infine vale la pena segnalare la nuova avventura sul piccolo schermo di Davide Demichelis, ideatore e conduttore di «Radici, l’altra faccia dell’immigrazione», che, dopo sei stagioni, va ancora in onda in replica su Rai3, la domenica alle ore 13.

Visto che le nuove stagioni, per ora, rimangono nel cassetto delle ipotesi, il gruppo di lavoro di Demichelis trasloca su Green explorer, nuova trasmissione che andrà in onda sul Canale 176 di Sky. Lo stesso autore sui canali social presenta così la stagione che va a iniziare: «Abbiamo fatto un bel viaggio, fra le isole del mar Tirreno, per esplorarne l’ambiente e raccontare storie di na-tura, persone e animali.

Abbiamo esplorato con i volontari di Delphis i delfini di Ischia, e poi il vero oro di Capri (l’olio), le borracce di Procida, le miniere dell’Elba, il miele di Ponza, il carcere della Gorgona che ne protegge la natura, le berte di Ventotene e ancora molte altre storie di persone, animali e ambienti. Filo rosso delle nostre esplorazioni: una barca a vela. Il mezzo di trasporto più ecologico per raggiungere questi luoghi».

Sante Altizio




Compagni di viaggio


In questi mesi tutte le comunità diocesane e parrocchiali sono impegnate ad approfondire i temi che i vescovi Italiani hanno sottoposto alla nostra riflessione. Si tratta dell’attuazione di quel Sinodo di tutta la Chiesa, voluto da papa Francesco, per offrire a ogni comunità cristiana l’opportunità per una conversione pastorale in chiave missionaria ed ecumenica.

Colpisce come il primo passo proposto dai vescovi per realizzare questo cammino sinodale sia quello di sentirci tutti «compagni di viaggio», persone in cammino non solo con coloro che si dicono credenti e praticanti, ma con ogni membro della società. Pare di risentire il mandato di Gesù ai primi discepoli: «Andate ovunque e annunziate che il Regno di Dio è presente tra noi». Non si tratta tanto di mettere in atto alcune iniziative, ma di fare crescere in noi un «sentire» di fraternità e di solidarietà verso tutti, come di viandanti che battono lo stesso cammino, fianco a fianco e sanno fare propri le gioie e i dolori, le fatiche e i successi dei loro compagni di viaggio.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, questo invito a una partecipazione sinodale rimanda all’esemplarità dei due sacerdoti che sono stati protagonisti nella nascita dei nostri due Istituti: il beato Giuseppe Allamano e il canonico Giacomo Camisassa. Di quest’ultimo ricordiamo quest’anno il centenario della morte. Veramente essi sono stati compagni di viaggio, camminando fianco a fianco per ben 42 anni. Una vicinanza e collaborazione che oggi leggeremmo come autentica «sinodalità». Il padre Domenico Fiorina, già superiore generale dell’Istituto, ha saputo descrivere efficacemente il loro «camminare insieme»: «Vi era impegno nei due di studiare personalmente i problemi in tutti gli aspetti, mettendo poi in comune i risultati a cui ciascuno era giunto. Tutto era visto in senso unitario, quasi come l’azione di una persona sola in cui l’intelligenza, la bontà, la volontà si fondevano in unità. Ognuno portava in questo studio se stesso con tutta libertà, senza costrizioni o timori. Ognuno però teneva il suo posto. Così che non mancava all’Allamano la serena e libera necessità di dovere prendere e fissare una decisione, né mancava al Camisassa la sincera e voluta accettazione di questa decisione e l’impegnata volontà e azione per eseguirla». Questo è un passo importante che tutti noi siamo chiamati a compiere, in questo cammino sinodale. Possa l’esemplarità dei nostri due fondatori essere luce nel discernimento e spinta all’impegno.

padre Piero Trabucco


L’Eucaristia: pane della vita

Il beato Giuseppe Allamano trovava nell’eucaristia il nutrimento della sua vita spirituale
di sacerdote e missionario e voleva che i suoi missionari fossero dei «sacramentini» nel senso
che proprio dall’eucaristia quotidiana dovevano trarre la forza e l’entusiasmo di svolgere l’opera missionaria a cui si erano consacrati.

Comunione con Gesù

Nel discorso sull’Eucaristia, riportato dall’evangelista Giovanni, Gesù si autodefinisce «il pane della vita» (Gv 6,35) e spiega: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). In sostanza, Gesù promette e illustra il mistero che realizzerà nell’ultima cena: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo…» (Mt 26,26.27), che a sua volta anticipa il mistero della morte e risurrezione del Signore. Ecco perché la Messa non è solo «sacrificio», ma anche «banchetto» e «comunione».

Il significato e l’importanza della comunione eucaristica, collegata con il sacrificio eucaristico, sono stati illustrati da san Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica «Mane nobiscum Domine» (Signore rimani con noi), che ha accompagnato la Chiesa durante l’anno dell’Eucaristia (ottobre 2004-2005): «Alla richiesta dei discepoli di Emmaus che Egli rimanesse con loro, Gesù rispose con un dono molto più grande: mediante il sacramento dell’Eucaristia trovò il modo di rimanere in loro. Ricevere l’Eucaristia è entrare in comunione profonda con Gesù. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4)».

Nutrimento indispensabile

L’Eucaristia è un pane del quale non si può fare a meno: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6,53). Sull’Eucaristia come cibo, cioè nutrimento e forza per la vita spirituale, come pure sulla sua necessità per la vita, l’Allamano è molto esplicito. Non guarda tanto alla dignità della persona che riceve l’Eucaristia, quanto alla forza vitale che promana da essa in favore della persona.

Il 6 dicembre 1912, inaugurando la cappella della prima casa madre delle suore missionarie, così si espresse: «Gesù si pose stamane in questo santo Ciborio anche per farsi cibo delle anime vostre; anzi questo è il fine principale della sua dimora. Da quest’altare Egli vi ripete: venite e mangiate il mio pane, che è pane di vita».

L’incontro con Gesù nella comunione eucaristica è un momento importante. L’Allamano insegna a desiderarlo ardentemente e a prepararsi, perché sia realizzato nel modo più fervoroso possibile. I suoi suggerimenti sono semplici, pratici, e sicuramente risentono della sua esperienza personale: «Se ci svegliamo di notte, e al mattino appena alzati, immaginiamo che il Signore ci dica come a Zaccheo: “Scendi presto, perché oggi devo fermarmi nella tua casa”; e discesi in Cappella, al più presto possibile, diciamo al Signore: “Stamane starò e ti vedrò, ti conoscerò, o Signore”. Queste sembrano piccolezze, ma servono molto; siamo tanto materiali che abbiamo bisogno di queste cose».

«Tre atti servono a infervorarci. L’atto di fede: pensare che proprio là c’è Gesù. Proprio Gesù in corpo, sangue, anima e divinità, proprio vivo com’è in cielo. Avere questo pensiero di fede. Poi umiltà: “Signore, non sono degno”, le parole del centurione, ed esamino le mie miserie. E poi desiderio, amore: “Vieni Signore, non tardare”, desiderarlo di cuore, il Signore vuole amore. Questi tre atti si potrebbero cominciare dalla sera, facendo la preparazione remota alla Comunione. Questi tre atti ci aiutano a fare la comunione con più devozione».

Nutrimento quotidiano

Per l’Allamano l’Eucaristia è «pane da mangiare ogni giorno». Egli era fautore convinto della comunione frequente, giornaliera, pur vivendo in un periodo in cui ciò era poco o quasi nulla attuato anche negli ambienti religiosi. Secondo le testimonianze dei sacerdoti che erano stati in seminario con lui, l’Allamano era tra i pochi seminaristi che frequentavano la comunione ogni giorno. Questa sua esperienza l’ha trasmessa ai suoi missionari e missionarie, pur lasciando ovviamente piena libertà. L’Eucaristia non solo nutre per la vita, ma crea unità. Anche questo aspetto è sviluppato nella già citata Lettera Apostolica «Mane nobiscum Domine»: «Questa speciale intimità (con Gesù) che si realizza nella “comunione” eucaristica non può essere adeguatamente compresa né pienamente vissuta al di fuori della comunione ecclesiale. In effetti, è proprio l’unico pane eucaristico che ci rende un corpo solo. Lo afferma l’apostolo Paolo: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,17).

Nel mistero eucaristico Gesù edifica la Chiesa come comunione, secondo il supremo modello evocato nella preghiera sacerdotale: “Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Se l’Eucaristia è sorgente dell’unità ecclesiale, essa ne è anche la massima manifestazione. L’Eucaristia è epifania di comunione».

Centro di unità

L’Allamano, a sua volta, immagina l’Eucaristia come centro di unità, all’interno dell’Istituto, specialmente in due modi. L’Eucaristia (il tabernacolo vivo) è centro della casa, a cui tutto tende. Ovviamente per casa intende non i muri, ma la comunità.

Inoltre, l’Eucaristia crea e garantisce l’unità perché è Gesù che dal tabernacolo forma i missionari e dà loro una fisionomia unica secondo l’ispirazione originaria. Nella conferenza del 21 dicembre 1919, l’Allamano afferma: «Non dovete accontentarvi di divenire religiosi, sacerdoti, missionari solo per metà; ci vuole proprio il superlativo. E per questo dobbiamo pregare molto Gesù nel tabernacolo; è Lui che deve formarci. I superiori sono solo delle paline che indicano il viaggio per andare a Lui; è Gesù che deve poi fare. Egli ci formerà».

padre Francesco Pavese


Preti, cioè missionari

L’esempio è… Allamano

Presentiamo una sintesi della tesi* di dottorato in missiologia di padre Luca Bovio, missionario della Consolata e segretario nazionale della Pontificia unione missionaria in Polonia, dove lavora dal 2008. Partendo dalla vita e dal pensiero del beato Giuseppe Allamano, sacerdote diocesano di Torino e fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata, l’autore vuole dimostrare che la missione universale fa parte del Dna costitutivo di ogni sacerdote o, più semplicemente, che «prete e missionario» sono… la stessa cosa.

Sono molti gli studi, gli approfondimenti e gli articoli scritti su Giuseppe Allamano dai suoi missionari e missionarie in oltre un secolo di storia, così come esiste una solida bibliografia su di lui, scritta da persone non appartenenti all’Istituto.

L’idea portante della mia tesi di laurea è nata mettendo insieme «la lettura delle Conferenze del Fondatore, raccolte da padre Igino Tubaldo, e il servizio che da anni svolgo in Polonia per le Pontificie opere missionarie, incontrando centinaia di seminaristi, e i numerosi contatti coi sacerdoti nelle parrocchie». Dall’insieme è nato il tema di questo lavoro, che si potrebbe riassumere così: «Ogni sacerdote per sua natura è missionario. Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano».

Missionario… a chilometro zero

Indipendentemente dal lavoro e dal servizio pastorale svolto, la vita dell’Allamano e il suo insegnamento dicono a tutti e, in modo particolare ai sacerdoti, che occorre vivere in pienezza il proprio sacerdozio, uniti misteriosamente per partecipazione a Cristo, sommo e unico sacerdote (Eb 8,1-9). Questa chiamata al sacerdozio trova nella missione la sua naturale realizzazione, non nel senso stretto che tutti i sacerdoti devono partire per la missione (anche se una parte, certamente, dovrebbe farlo), ma che tutti devono avere in sé uno spirito missionario.

L’Allamano, pur nutrendo un sincero desiderio (ancora da seminarista) di partire per le missioni, non riuscì mai a realizzare questo progetto, a causa dei noti problemi di salute. Tutta la sua vita sacerdotale è stata vissuta nella città di Torino, tra il santuario della Consolata (di cui era rettore) e l’adiacente Convitto per i giovani sacerdoti, le conferenze settimanali ai missionari in Casa Madre e gli esercizi spirituali al clero nelle Valli di Lanzo, presso il santuario di S. Ignazio. I viaggi più lunghi che intraprese nella sua vita furono quelli a Roma, per incontrare il papa e recarsi alla congregazione di Propaganda Fide. Mai uscì dai confini dell’Italia.

Mancano completamente i viaggi nelle missioni. Eppure, il suo sacerdozio, vissuto in tanti e diversi incarichi, ha in sé una straordinaria prospettiva missionaria.

Come Cristo, sacerdoti per l’umanità

Come Segretario nazionale della «Pontificia unione missionaria» in Polonia, ho visitato quasi tutti i seminari diocesani polacchi e alcuni di quelli dei religiosi dove ho presentato la vocazione missionaria evidenziando il legame tra sacerdozio e missione lasciandomi ispirare dall’insegnamento di Giuseppe Allamano.

Nonostante gli eventi tragici che hanno toccato la storia della Polonia negli ultimi secoli e il secolarismo che avanza, la Chiesa in questo paese è una presenza significativa.

Nel paese ci sono molti sacerdoti e dal confronto con la figura dell’Allamano, potrebbero trovare aspetti arricchenti per la loro vita sacerdotale, e scoprire che la missione non è un elemento lontano o aggiuntivo al sacerdozio, ma è quell’orizzonte di santità a cui tutti i sacerdoti sono chiamati.

Nel pensiero dell’Allamano la dimensione missionaria è profondamente unita al suo sacerdozio. La missione, per lui, è anzitutto un modo di essere sacerdote prima che fare delle opere, le quali lui stesso non disdegnava, essendone attivo promotore.

La chiave per comprendere il suo essere sacerdote missionario è la sua apertura di cuore e di mente. Egli fu un sacerdote che desiderò profondamente donarsi a Dio e ai fratelli, unendo in sé la dimensione particolare con quella universale. Proprio servendo in verità e profondità le persone incontrate ogni giorno, restò aperto al richiamo dell’umanità intera per la quale Cristo ha donato la sua vita.

Il rapporto tra sacerdozio e missione non è immediato, anzi spesso appare separato nel modo di pensare di chi distingue tra «sacerdoti diocesani» e «sacerdoti missionari». Tuttavia da un punto di vista teologico non c’è differenza tra sacerdozio e missione: ogni sacerdote è per sua natura missionario. Ogni sacerdote, infatti, partecipa dell’unico e universale mistero della salvezza e da questa ampia prospettiva, scaturisce una profonda unità tra sacerdozio e missione.

Occorre, perciò, superare questa divisione e trovare un’unità, fondata su un punto vista teologico e non solo pastorale; quella stessa unità che si può vedere, in modo evidente, nella vita dell’Allamano.

La forma del sacerdozio (o il servizio pastorale) presenta delle differenze: abbiamo sacerdoti diocesani, ci sono sacerdoti missionari, altri professori e insegnanti, o impegnati ancora in vari campi caritativi, o pastorali. Tuttavia, la forma esterna non può mai essere ridotta o separata dalla natura interna, dall’orizzonte universale salvifico di Cristo a cui ogni sacerdote partecipa.

padre Luca Bovio

* Ogni sacerdote è per sua natura missionario.
Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano
, IMC, Varsavia 2020.

 

 




Terzo a chi?

La riforma di un settore cruciale


Il terzo settore è entrato oggi in una nuova fase, quella dell’attuazione della riforma, per la quale si sta costruendo il «Registro unico nazionale», che permetterà, fra l’altro, ai cittadini di accedere alle informazioni sugli enti. Molti strumenti introdotti dalla riforma – come il bilancio sociale – fanno già parte del quotidiano delle organizzazioni coinvolte. Cerchiamo di orientarci fra gli acronimi e di capire che cosa manca ancora.

Lo scorso 21 febbraio si è conclusa la cosiddetta «fase 1» della creazione del «Registro unico nazionale del Terzo settore», o Runts, la piattaforma digitale che raccoglierà le sette categorie che ne fanno parte (vedi box a pag. 65).

La fase 1 è consistita, in sostanza, nella trasmigrazione dei dati delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale dai Registri regionali e delle province autonome al registro unico; dal 22 febbraio ed entro il 20 agosto di quest’anno, poi, gli uffici del Runts verificheranno i dati ricevuti e richiederanno, se necessario, le integrazioni agli interessati@.

Quanto alle Onlus, per l’iscrizione al registro, devono presentare domanda, ma, spiega il portale di divulgazione sulla normativa «Cantiere terzo settore», a oggi manca il provvedimento con cui l’Agenzia delle entrate comunica al registro i dati degli enti iscritti all’Anagrafe unica delle Onlus. Finché non ci sarà questo provvedimento, le Onlus non potranno fare domanda@.

«Tra alcuni mesi», si legge tuttavia sul sito del ministero del Lavoro a cui fa capo il Registro, «tutti i cittadini potranno consultare gli statuti, i bilanci, le informazioni previste dalla legge relativamente agli enti iscritti, che dovranno assicurarne periodicamente l’aggiornamento attraverso il sistema»@.

Dalla riforma ci si aspetta maggiore uniformità e trasparenza per un settore che, stando ai dati del censimento permanente Istat delle istituzioni no profit, conta quasi 363mila organizzazioni e poco meno di 862mila dipendenti@.

Quanto è grande il terzo settore

Quanti sono 862mila dipendenti e 363mila organizzazioni? Ovvero, quanto è davvero grande il settore? Per farsi un’idea – molto grezza – dei volumi, si può fare un confronto con i dati Istat sulle imprese italiane e i loro dipendenti suddivise per comparto economico, tenendo però in mente che, all’interno di ciascun comparto, sono incluse anche le cooperative sociali e le imprese sociali, che sono a loro volta enti del terzo settore e che quindi ci sono «pezzi» di terzo settore dentro a molte di queste categorie. Guardando solo alla dimensione complessiva dei comparti economici, si può dire che il numero di Ets è vicino a quello delle imprese attive nel settore manifatturiero, che con 372mila aziende occupa la quarta posizione dopo commercio, attività professionali, scientifiche e tecniche, e le costruzioni@.

Quanti e dove

Quanto ai volumi del lavoro, i dipendenti del Terzo settore sono un numero non lontano da quello dei dipendenti del settore delle costruzioni; considerando, inoltre, che il totale dei lavoratori dipendenti in Italia nel quarto trimestre del 2021 era di circa 17,9 milioni, cinque ogni cento lavorano nel Terzo settore@.

La scheda sui numeri proposta dal portale Cantiere terzo settore a partire dai dati Istat, riporta che l’85%, cioè 308mila, degli Ets sono associazioni e danno lavoro a un dipendente su venti nel settore. Inversa è la proporzione per le cooperative sociali, che sono solo 15mila (poco più di quattro su cento) ma impiegano oltre la metà dei lavoratori del Terzo settore, 456mila su 862mila, una media di 31 dipendenti a cooperativa. «Si contano poi quasi 8mila fondazioni con oltre 102mila addetti retribuiti», conclude il sito Cantiere terzo settore, e «le quasi 40mila altre forme giuridiche che danno lavoro a oltre 138mila persone».

Circa la metà delle Ets ha sede nel Nord Italia e impiega il 58% dei dipendenti del Terzo settore; il Nord Ovest, in particolare, ha 183 lavoratori del settore ogni diecimila abitanti, seguito dal Nordest con 178. Prendendo le singole regioni, è la provincia autonoma di Trento ad avere il rapporto più alto con 253 dipendenti di Ets ogni 10mila abitanti, mentre il Lazio, con i suoi 191, supera il Piemonte, il Veneto, l’Emilia Romagna e si colloca poco sotto la Lombardia@.

Ragioni e ambiti

Il motivo per cui il terzo settore si chiama così è definito dal Cantiere in modo molto chiaro: è un «sistema sociale ed economico che si affianca alle istituzioni pubbliche e al mercato e che interagisce con entrambi per l’interesse delle comunità». Ha elementi del primo settore, lo stato, così come del secondo, il mercato: «Come il mercato, è composto da enti privati, come le istituzioni pubbliche, svolge attività di interesse generale. Questi aspetti si rimescolano, dando vita ad un nuovo originale soggetto».

Agire senza scopo di lucro, chiarisce ancora il portale, non significa non avere profitti: significa essere obbligati a reinvestirli per finanziare le proprie attività invece di redistribuire gli utili fra i membri o i dipendenti. Per questo, la definizione no profit, spesso usata come sinonimo di terzo settore, in realtà non esaurisce gli Ets e, anzi, riguarda solo una parte delle organizzazioni del settore.

Guardando agli ambiti di attività in cui queste ultime operano, sono le attività sportive le più rappresentate (120mila enti), seguite da quelle culturali e artistiche (61mila), da quelle ricreative e di socializzazione (49mila). Al quarto posto l’assistenza sociale e la protezione civile (34mila), che però è l’ambito che impiega più persone, 324mila, mentre la Sanità è il secondo ambito per numero di dipendenti. La cooperazione e solidarietà internazionale conta 4.550 enti che occupano 3.900 persone.

Fra il 2011 e il 2019, gli enti sono passati da 301mila agli attuali 362mila, con un aumento intorno al 20%, mentre i dipendenti dieci anni fa erano 680mila e sono dunque aumentati del 27%.

Punti chiave

La riforma ha iniziato a prendere corpo nel 2014, ma l’approvazione della legge delega n. 196 è arrivata due anni dopo, il 6 giugno 2016 e, a partire dal 2017, hanno iniziato a essere approvati i decreti attuativi. L’intento dell’intervento legislativo è stato quello di procedere a un riordino della normativa come risposta alla richiesta «di regole precise e del superamento della frammentazione legislativa che ha caratterizzato per decenni le tante organizzazioni impegnate nel sociale».

Prima della riforma, infatti, organizzazioni diverse erano iscritte a registri territoriali diversi e facevano riferimento a norme specifiche: la legge quadro 266/1991 regolava il volontariato, la legge 383/2007 disciplinava le associazioni di promozione sociale, le Onlus erano soggette al decreto legislativo 460/1997 mentre per le imprese sociali la norma di riferimento era il decreto legislativo 155/2006. La riforma abroga del tutto o in parte queste norme, raggruppa in un solo testo – il Codice del terzo settore – gli enti interessati, e rende l’iscrizione al Registro unico obbligatoria per essere riconosciuti come Ets.

Apre, inoltre, a tutti gli enti iscritti al registro la possibilità di partecipare all’assegnazione del 5 per mille, introduce diversi obblighi «su democrazia interna, trasparenza, rapporti di lavoro, assicurazione dei volontari, destinazione di eventuali utili» e definisce le attività di interesse generale – determinanti per il riconoscimento come Ets – attraverso un elenco che comprende 26 aree@.

Punti critici

Ad oggi, a fronte di indubbi vantaggi di semplificazione, restano ancora diversi aspetti critici. Ne citiamo solo alcuni a esempio. Il primo riguarda gli aspetti fiscali: come scriveva lo scorso 19 febbraio su Vita.it il commercialista e consulente Marco D’Isanto, il Titolo X del Codice del terzo settore che comprende molte delle disposizioni fiscali «è sospeso perché la sua applicazione decorre dal periodo di imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea, richiesta che il governo non ha ancora formulato»@.

L’entrata in vigore del Titolo X, fra l’altro, comporterà l’abrogazione definitiva della legge sulle Onlus e l’applicazione, appunto, delle norme fiscali contenute nel Codice. Per ora, tuttavia, se una Onlus decidesse di cancellarsi dall’anagrafe unica delle Onlus e iscriversi al Runts, a Titolo X ancora sospeso, perderebbe le agevolazioni fiscali previste dal decreto legislativo 460/1997 senza poter ancora beneficiare di quelle introdotte dal Codice@.

Altra questione è quella della frammentazione legislativa, che non è del tutto superata: le imprese sociali, le cooperative sociali e le società di mutuo soccorso, «seguono leggi proprie, diverse fra loro e dal codice». La cooperazione allo sviluppo, inoltre, ha una legislazione parallela a quella del Codice imperniata sulla legge 125/2014 e un’autorità di vigilanza specifica, l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo (Aics)@.

Infine, a preoccupare sono anche le difficoltà legate agli aspetti burocratici: in un dibattito in streaming sul canale YouTube di Terzjus, portale specializzato negli aspetti giuridici del Terzo settore@, la responsabile del servizio per le politiche per l’integrazione e il terzo settore della regione Emilia Romagna, Monica Raciti, riportava che, durante la presentazione di un rapporto sull’impatto della pandemia sul terzo settore, alla domanda su quale fosse l’elemento che destava in loro più preoccupazione rispetto al futuro, le associazioni emiliano-romagnole, presenti all’evento, non hanno indicato le difficoltà economiche o la diminuzione dei volontari, ma proprio «la riforma del terzo settore e tutto quello che porta con sé». Ciò che mette in difficoltà le organizzazioni, specialmente quelle piccole e piccolissime, è soprattutto la mole di lavoro necessaria a far fronte agli adempimenti amministrativi e la complessità di alcune procedure.

Effetti su Mco

Mco è una Fondazione, una Onlus e un’organizzazione della società civile (Osc) presente nell’elenco dell’Aics delle organizzazioni di cooperazione allo sviluppo. Alla data di chiusura di questo articolo, dunque, la sua situazione è la stessa delle altre Onlus in attesa di poter fare domanda per l’iscrizione al Runts, che dipende dalla comunicazione fra Agenzia delle entrate e Runts e dallo «sblocco» del Titolo X del Codice che subentrerà al decreto legislativo 460/1997 nel regolare gli aspetti fiscali.

A livello operativo, per la nostra organizzazione, la principale novità introdotta dalla riforma è stata per ora quella della elaborazione e pubblicazione del Bilancio sociale, seguita da una riorganizzazione del sito che permette di accedere con più agilità ai documenti come, appunto, i bilanci, i rendiconti del 5 per mille e l’elenco dei fondi pubblici ricevuti.

Chiara Giovetti


Quali enti sono Ets, quali no

L’articolo 4 del Codice del terzo settore stabilisce che sono Enti del terzo settore [Ets]:

  • ❶ le organizzazioni di volontariato (Odv);
  • ❷ le associazioni di promozione sociale (Aps);
  • ❸ gli enti filantropici;
  • ❹ le imprese sociali, incluse le cooperative sociali;
  • ❺ le reti associative;
  • ❻ le società di mutuo soccorso (Soms);
  • ❼ le associazioni riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato, diversi dalle società, costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale di cui all’art. 5 del Codice, in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi. Tutti questi si trovano a volte indicati per brevità come «altri enti».

Per essere Ets, questi sette tipi di ente devono anche essere iscritti al Registro unico nazionale del Terzo settore [Runts].

Gli enti religiosi civilmente riconosciuti possono essere considerati Ets limitatamente allo svolgimento delle attività di interesse generale di cui all’art. 5 del Codice.

Non sono Ets le amministrazioni pubbliche, le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni di datori di lavoro, gli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati dagli enti appena elencati (con alcune eccezioni).

Rielaborazione delle definizioni presenti sul sito del ministero del Lavoro
 e delle Politiche sociali@  a cura di Mco


Farsi un’idea sulla riforma in pochi minuti

Il portale Cantiere Terzo settore mette a disposizione diverse schede sul settore, sulla riforma e i suoi aspetti chiave e aggiorna man mano le proprie pagine dando conto delle scadenze e dei progressi. Segnaliamo in particolare:

 

 




Ucraina, tempo di deporre le armi


L’aggressione della Russia all’Ucraina rientra nella prassi delle grandi potenze. In questo caso, a causa del pericolo nucleare, la situazione è ancora più rischiosa. La domanda da porsi è la seguente: è possibile difendersi da arroganza, soprusi e violenza senza ricorrere alle armi?

L’aggressione contro l’Ucraina da parte della Russia di Putin è l’ennesimo esempio di come le grandi potenze si sentano autorizzate a utilizzare la forza delle armi ogni volta che non trovano altro modo per imporre la propria volontà. Per quanto riguarda la Russia, era già successo negli anni passati con l’aggressione alla Cecenia (1999-2009) e alla Georgia (2008). Per quanto invece riguarda l’Occidente, possiamo citare l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan. Ovviamente una giustificazione è fornita sempre, possibilmente nobile. Ad esempio: la difesa della libertà, l’esportazione della democrazia, la liberazione delle donne. E, naturalmente, la sicurezza, ragione principe invocata anche dalla Russia per giustificare l’invasione dell’Ucraina.

Crimea e Donbass

Fino al 1991, l’Ucraina era una delle Repubbliche dell’Unione Sovietica. Poi, quando l’Urss si disgregò, divenne una nazione indipendente, al pari della Russia. Con una popolazione di 44 milioni di persone, il 70% dei residenti in Ucraina parla ucraino, l’altro 30% russo, porzione collocata soprattutto nella parte meridionale e orientale del paese, in particolare nelle regioni della Crimea e del Donbass. Da vari anni in queste regioni si erano sviluppati movimenti separatisti, che, nel 2014, diedero alla Russia il pretesto per invadere e annettersi la prima. E non è un caso se, nel febbraio 2022, l’invasione dell’Ucraina è cominciata proprio con l’invio di truppe in Donbass, dove, va detto, il conflitto che dura da oltre un lustro ha già provocato all’incirca 14mila vittime da ambedue le parti, le milizie filo russe e l’esercito ucraino.

La Crimea venne occupata sostenendo che lo chiedeva la popolazione locale. In realtà interessava alla Russia per la sua posizione strategica: affacciata sul Mar Nero, essa permette alle fregate russe di raggiungere il Mediterraneo attraverso il Bosforo e lo stretto dei Dardanelli. Ma l’invasione avvenne nel febbraio 2014, una data che, collegata ad altri eventi, mostra come l’annessione della Crimea avesse anche un altro scopo, al tempo stesso punitivo e intimidatorio. Da tempo fra Ucraina e Unione europea erano in corso trattative per stipulare un accordo di libero scambio (in vista di una piena adesione all’Ue), ma quando arrivò il tempo della firma, nel novembre 2013, il presidente in carica, Viktor Janukovyč, si rifiutò di farlo. Immediatamente nel paese si svilupparono vaste proteste represse nel sangue dalla polizia ucraina. Esse, però, alla fine ebbero come risultato la fuga e la messa in stato di accusa di Janukovyč. Le proteste popolari mostrarono chiaramente che una larga fetta della popolazione voleva e vuole un processo di avvicinamento all’Unione europea, ma questo alla Russia non è mai piaciuto. E qui sta il vero nodo del contendere: la Russia non tollera di avere un paese confinante deciso ad orbitare attorno a un altro centro gravitazionale. Non lo tollera per ragioni economiche e per ragioni militari.

Ucraina e Unione Europea

Come c’era da aspettarsi, nella fase iniziale di spezzettamento dell’Unione Sovietica, le relazioni economiche dell’Ucraina erano principalmente con Mosca. Tuttavia, un po’ alla volta, la Russia è stata sostituita con l’Unione europea che, oggi, assorbe il 43% delle esportazioni ucraine e contribuisce al 41% delle sue importazioni. I settori forti dell’economia ucraina sono la siderurgia, l’agricoltura, il settore minerario. Settori che la rendono importante perfino a livello mondiale. In campo agricolo, ad esempio, l’Ucraina è il primo esportatore mondiale di olio di girasole, il terzo produttore al mondo di patate e il quinto esportatore di grano. In ambito minerario è il primo paese europeo per riserve di uranio, il secondo paese del mondo per riserve di ferro, l’ottavo al mondo per riserve di carbone, minerale tornato tristemente in auge.

L’Ucraina svolge un ruolo importante anche come paese di transito del gas russo. Ruolo che tuttavia si è andato attenuando da quando nel 2012 è entrato in funzione il Nord Stream, il gasdotto che porta il gas direttamente in Germania passando per il Mar Baltico. Tant’è che oggi solo il 30% del gas russo diretto all’Europa passa per l’Ucraina, con danno evidente per l’economia del paese che si vede ridurre gli introiti per questo servizio. Pur con questo neo, nell’ultimo decennio l’economia ucraina è cresciuta costantemente. Con i suoi 44 milioni di consumatori, molti servizi pubblici privatizzabili, abbondanza di terre agricole, vasti giacimenti da sfruttare, l’Ucraina esercita un forte appeal sull’Unione europea che, pur di averla come 28° membro, ha anche deciso di spenderci. Dal 2014 a oggi, l’Unione europea ha sborsato all’Ucraina 17 miliardi di euro, parte a fondo perduto, parte sotto forma di prestiti, per consentirle di portare avanti le riforme necessarie a poter entrare nell’Unione. La Russia, da parte sua non ha speso neanche un rublo, ma vorrebbe tanto che l’Ucraina divenisse il sesto membro dell’«Unione economica euroasiatica», l’alleanza economica instituita nel 2014 fra Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia.

Il ruolo della Nato

Più dello smacco economico, a innervosire la Russia è però la questione militare. Quando il mondo comunista cominciò a disgregarsi, sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, esistevano due alleanze militari: da una parte il Patto di Varsavia, dall’altra l’Alleanza Atlantica, in sigla Nato.

Il Patto di Varsavia era stato istituito nel 1955 e, oltre all’Unione Sovietica, comprendeva altri sette paesi del blocco comunista: Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica democratica tedesca, Romania, Bulgaria, Ungheria e Albania. Il Patto Atlantico, invece, era stato istituito nel 1949 e oltre a Stati Uniti e Canada, comprendeva un’altra decina di stati europei del blocco capitalista. Le due alleanze avevano entrambi lo scopo di permettere ai paesi aderenti di sostenersi a vicenda nel caso uno di loro fosse stato attaccato da un paese del blocco opposto. Con il disgregarsi del blocco comunista e il conseguente sfaldamento del Patto di Varsavia, molti si dissero che la Nato non aveva più ragione d’esistere, ma invece di dissolversi si rafforzò perché molti paesi ex comunisti chiesero di farne parte. E oggi la Nato è un’alleanza militare formata da 30 paesi, che complessivamente spendono in armamenti oltre 1.000 miliardi di dollari all’anno, oltre le metà della spesa mondiale per armamenti che, nel 2021, è stata pari a 1.981 miliardi. In testa gli Stati Uniti che da soli hanno speso 778 miliardi, il 39% della spesa mondiale. La Cina, seconda in classifica, spende 252 miliardi, mentre la Russia si attesta a 62 miliardi dietro l’India che ne ha spesi 73. In termini di spesa pro capite fa 2.364 dollari per gli Usa e 430 per la Russia.

Oltre a chiedere di entrare nell’Unione europea, l’Ucraina chiede di entrare anche nella Nato. Il processo di ammissione è in atto in entrambi i casi. Per l’entrata nell’Alleanza, un tavolo di consultazione permanente è stato istituito nel 1997. Nel frattempo, sono possibili piani di collaborazione, come l’invio di istruttori militari da parte della Nato o la messa a disposizione di truppe da parte del nuovo candidato, per operazioni militari che coinvolgono la Nato. Ad esempio, nel 2003 l’Ucraina ha inviato in Iraq qualche migliaio di soldati che ci sono rimasti fino al 2008. Scelta ripetuta nel 2007 con l’invio di truppe in Afghanistan. Gli Stati Uniti hanno ringraziato, inviando 2,7 miliardi di dollari dal 2014 a oggi per il rafforzamento dell’esercito ucraino.

Intanto, nel 2017, un nuovo atto del parlamento ucraino ha confermato la richiesta di ingresso nella Nato, permettendo al presidente Zelensky di proseguire con le procedure di ammissione. La Russia però si oppone strenuamente a questa prospettiva, perché non gradisce l’idea di avere basi e truppe Nato a ridosso dei propri confini. Da un trentennio Mosca si oppone all’allargamento dell’Alleanza Atlantica, chiedendo all’Ucraina di scegliere la strada della neutralità, come fanno vari altri paesi in Europa: Moldova, Svezia, Finlandia, Austria, Irlanda, Svizzera. E, fra tutti, il riferimento è la Finlandia, paese nordico che confina con la Russia. La Finlandia fece la scelta della neutralità nel lontano 1955 come contropartita dello smantellamento della base militare russa a Porkalla, un porto navale a pochi chilometri da Helsinki. Un precedente storico che dovrebbe far riflettere.

Tra sanzioni e armi

Fortunatamente, la scelta effettuata dall’Occidente come contromisura contro le ripetute aggressioni russe è stata quella delle sanzioni economiche, anche se, in controtendenza, in occasione dell’aggressione di febbraio è stato deciso di inviare anche armi alle forze ucraine. Scelta che era meglio non fare, ricordandoci che, secondo l’articolo 11 della Costituzione, «l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Che non significa rinunciare a difenderci o tollerare qualsiasi sopruso e arroganza, ma rivedere il modo di opporci alle violenze. La politica perseguita fino a oggi dall’Occidente, Italia compresa, è l’attuazione del motto «Si vis pacem, para bellum», se vuoi la pace prepara la guerra. La cosa da fare è ribaltare questo postulato affermando che la pace si prepara con la pace. Che in concreto significa due cose.

La prima: prepararci a forme di difesa basate sulla non collaborazione. Ad esempio, nel caso ucraino piuttosto che armi avremmo dovuto inviare corpi civili di pace col duplice scopo di soccorrere la popolazione locale e mettere in difficoltà l’esercito invasore.

La seconda scelta è quella di smettere di intervenire a cose fatte, quando il vaso si è rotto e cercare invece di prevenire la rottura del vaso. Che, fuori di metafora, significa lavorare per la distensione invece che per la tensione. Oggi, un passo fondamentale in questa direzione sarebbe lo smantellamento della Nato e di qualsiasi altra organizzazione militare che crea blocchi militari. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è la chiara dimostrazione di come i blocchi militari generino paura e la paura generi violenza.

I vuoti proclami delle Nazioni Unite

L’unica strada per interrompere l’escalation militare è il multilateralismo. Il rafforzamento, cioè, di sedi internazionali all’interno delle quali portare i dissidi internazionali con l’intento di trovare soluzioni basate sulla mediazione e l’accordo, piuttosto che sulle armi. L’umanità aveva già fatto un tentativo in questa direzione tramite l’istituzione delle Nazioni Unite. Ma non ci ha creduto abbastanza e oggi le Nazioni Unite sono poco più di un luogo dove si pronunciano vuoti proclami. È arrivato il tempo di cambiare tutto questo.

Francesco Gesualdi




Non diamoci pace


Condividiamo queste poche righe del superiore generale del Missionari della Consolata, padre Stefano Camerlengo. Sono tratte da un documento che egli invia ai missionari, ma certamente sono parole intense che valgono per tutti.

Quest’anno siamo giunti alle soglie della Quaresima “avvolti” dal dramma della guerra scoppiata tra Russia e Ucraina…: una guerra che ha di certo conseguenze ben più vaste… Dolore e silenzio ci trafiggono il cuore… le grida di dolore e sofferenza non potevano che farsi più lancinanti dinanzi a una guerra che è tornata a insanguinare le terre europee e che peraltro deve ridestare l’attenzione sui tanti conflitti che, vicini o lontani da noi, interpellano la nostra coscienza di uomini, di credenti e di missionari.

Davanti a queste guerre e a tanto odio e malvagità ci sentiamo impotenti. Rimane la preghiera e la generosità della nostra vita. Ma, la preghiera autentica ha un prezzo da pagare perché colui che prega in modo autentico, prima che cambiare Dio o la storia, deve lasciarsi personalmente cambiare dall’incontro con Dio, per stare nella situazione in cui si trova con una responsabilità che non viene attenuata o attutita, ma al contrario potenziata dall’incontro con Dio, con il suo desiderio e con la sua grazia.

Cerchiamo di convertire la nostra esistenza per poter non semplicemente giungere a Pasqua, ma per poterla sperimentare nella carne.

Aggiungiamo però un suggerimento: non accogliamo nel cuore e nella mente ciò che è contro la pace (pensieri, parole, azioni) e apriamoci ogni giorno a ciò che la costruisce in noi e attorno a noi! Ogni giorno facciamo CONCRETAMENTE un atto di DISARMO e un atto di PACIFICAZIONE: dobbiamo assolutamente cambiare rotta! Dobbiamo far soffiare venti buoni nel mondo a partire dalle  nostre case! Dobbiamo smetterla di attendere che la pace sia decretata e fatta dai governanti: dobbiamo decretarla e farla noi! E il primo disarmo dobbiamo farlo in noi stessi come diceva il Patriarca Atenagora. Meditiamo a fondo le sue parole: “La guerra più dura è la guerra contro sé stessi. Bisogna arrivare a disarmarsi. Ho perseguito questa guerra per anni, ed è stata terribile. Ma sono stato disarmato. Non ho più paura di niente, perché l’amore caccia il timore. Sono disarmato della volontà di aver ragione, di giustificarmi squalificando gli altri. Non sono più sulle difensive, gelosamente abbarbicato alle mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non ci tengo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti. Se uno me ne presenta di migliori, o anche di non migliori, ma buoni, accetto senza rammaricarmene. Ho rinunciato al comparativo. Ciò che è buono, vero e reale è sempre per me il migliore. Ecco perché non ho più paura. Quando non si ha più nulla, non si ha più paura. Se ci si disarma, se ci si spossessa, ci si apre al Dio-Uomo che fa nuove tutte le cose, allora Egli cancella il cattivo passato e ci rende un tempo nuovo in cui tutto è possibile.”

Sì: “NON DIAMOCI PACE” FINCHÉ NON CI SIA PACE IN TUTTI E PACE PER TUTTI!

Buona Quaresima e una Santa Pasqua!

Stefano Camerlengo
Da Notiziario IMC, N. 51
Roma, 31 marzo 2022




A Medyka e Shehyni alla frontiera Sud Est tra Polonia e Ucraina


Aggiornamento al 2 aprile 2022 |

Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Carissimi tutti,
con questo 4 aggiornamento oltre a ringraziare tutti voi per la continua solidarietà concreta che state dimostrando in questa situazione, desidero condividere l’esperienza che ho fatto questa settimana recandomi in Ucraina.

Il viaggio è nato da una proposta arrivata da don Leszez Kryza direttore nazionale dell’Ufficio di aiuto alla chiesa in oriente, struttura appartente alla Conferenza episcopale polacca.

Dopo aver riempito completamente la macchina di beni di prima necessità, quali cibo e medicinali, siamo partiti all’alba di giovedì 31 marzo, in direzione della frontiera di Medyka a sud est della Polonia. Con noi si è unita Clara la volontaria infermiera che da settiane è con noi. Dopo cinque ore di viaggio in un clima che si è fatto improvvisamente invernale alternando la pioggia alla neve, arriviamo presso la frontiera.

Non sono tanti i mezzi che passano il confine dalla Polonia all’Ucraina; tuttavia, i tempi di controllo dei documenti sono lunghi, dovuto sia al controllo dei documenti sia al controllo della merce trasportata, entrando in un paese in guerra i soldati vogliono essere certi di cosa si trasporta.

La frontiera polacca la passiamo senza difficoltà, invece dalla parte ucraina siamo fermati a lungo, per la mancanza di un documento della nostra macchina che abbiamo solo in versione on line e non stampata. Dopo piu di tre ore di attesa, siamo costretti a rientrare in Polonia a motivo della mancanza di questo documento. Cambiamo il nostro piano. Decidiamo di lasciare gli aiuti trasportati presso la sala di una parrocchia dei francescani vicino alla frontiera, per essere già nei prossimi giorni di nuovo spedita oltre il confine con un altro trasporto.

Questo cambio di situazione ci porta alla decisione di entrare in Ucraina a piedi. Il controllo dei documenti dalla Polonia all’Ucraina avviene in modo sbrigativo anche se non siamo soli, alcuni rifugiati, non molti, ritornano. Ci spiegano che sono coloro che abitano vicino a questo confine in una zona meno bombardata di altre. Hanno i mariti che li aspettano nelle loro case e inoltre trovare lavoro in Polonia non è facile… Aiutiamo una giovane donna a portare due borse della spesa pesanti. È tutto quello che ha con sé. La soldatessa ucraina mi chiede cosa andiamo a fare in Ucraina. Le spiego il problema che abbiamo avuto poco prima con la macchina aggiungendo che vorremmo organizzare il passaggio dei beni. Fissandomi seriamente negli occhi per un momento fa poi un mezzo sorriso e ringrazia per quello che stiamo facendo. Sono parole che mi colpiscono perché dette da un soldato non sono per niente scontate.

Entrando in Ucraina notiamo dalla parte opposta una coda molto piu lunga di rifugiati che attendono di entrare in Polonia. Nella vicinanza delle frontiera da entrambi i paesi ci sono tante organizzazioni umanitarie, sono volontari provenienti da tutto il mondo: americani, spagnoli, portoghesi, ebrei, sono tutti giovani sorridenti che trasmettono un calore umano fatto di sorrisi di mille piccole attenzioni verso i profughi. Alcuni sono vestiti da clown come al circo per strappare un sorriso ai bambini che scappano dalla guerra. Altri si prestano con carrelli della spesa ad aiutare a portare i pochi bagagli dei profughi. Altri ancora offrono bevande calde, pasti, cioccolata… siccome la giornata è fredda e umida vengono distribuite delle mantelline per la pioggia che anche noi beneficiamo e si organizzano dei ripari dalla pioggie mista a neve che cade ininterrottamente, usando delle serre per fiori che qualcuno ha offerto. Ci sono anche delle stufe a gas come quelle che si trovano nei ristoranti all’aperto che riscaldano nelle immediate vicinanze.

Incontriamo un gruppo di volontari polacchi che hanno allestito un campo a fianco della frontiera, in Ucraina. Conosciamo Magdalena che fin dall’inizio è qui presente. Ci racconta che la situazione in questi giorni è meno pesante rispetto all’inizio; tuttavia, non c’è sicurezza e da un momento all’altro potrebbe di nuovo tutto precipitare a seconda degli sviluppi della guerra nel paese.

Solo da questa frontiera sono passate circa 700.000 persone (circa la capienza di 10 grandi stadi di calcio) su un totale di 2.700.000 che hanno varcato il confine con la Polonia.

I primi giorni sono stati i più drammatici. Magdalena ci racconta che i primissimi aiuti sono arrivati tutti da Ovest fermandosi in territorio polacco senza oltrepassare il confine. Ancora oggi lì ci sono decine e decine di tende di volontari. Molto meno se ne trovano ancora oggi dalla parte ucraina, dove ci sono le code piu lunghe di profughi.

Ci sono video che mostrano all’inizio del conflitto, code di oltre 30 km di macchine in attesa di passare il confine. Erano tra i pù fortunati perche stavano al caldo e seduti, al contrario della maggioranza di essi che aspettavvano all’aperto giorno e notte anche per tre e quattro giorni, per passare il confine. Anche se le pratiche burocratiche sono state semplificate l’ondata di profughi da smaltire è stata così grande che non lasciava alternative. Per scaldarsi durante la notte si bruciava tutto quel poco che si trovava compresi i vestiti non utilizzati. Ci sono stati, ci raccontano i volontari, anche casi di parti precoci a seguito dello stress e della stanchezza.

Avendo lasciato la macchina al di là del confine, verso sera ci rimettiamo in coda con i profughi per rientrare in Polonia. Ci colpisce molto la dignita di queste persone. Non sentiamo un lamento o una imprecazione. Ci si guarda solo negli occhi. Le storie che ci raccontano sono terribili e talmente crudeli che si fanno fatica a descrivere. Sono tutte persone che scappano dall’estremo est del paese, Mariopol, Charchowy, Donbas, Kiev…

Le uniche persone accompagnate dai volontari che accorciano le file sono solo alcuni anziani su carrozzine avvolti da coperte. Gruppi di persone poco nominate in questo conflitto, ma che rappresentano un altro lato debole della popolazione. Nessuno si lamenta di questo anche se la stanchezza e il freddo non aiutano. Dopo circa tre ore in fila ritorniamo in Polonia. A differenza dei profughi, abbiamo una macchina ad attenderci e un luogo sicuro dove ritornare. È notte fonda quando ritorniamo a casa presso la nostra comunità dopo quasi 24 ore di viaggio. Siamo stanchissimi, ma anche coscienti che abbiamo visto molto e come testimoni molto possiamo continuare a fare molto insieme a tutti voi. Dopo Pasqua probabilmente ci recheremo ancora in Ucraina questa volta per qualche giorno.

padre Luca Bovio IMC




Con la Consolata in Polonia per L’Ucraina /3


Kieplin, 19/03/2022. Con questo 3° aggiornamento provo a darvi a qualche informazione attuale salutandovi e ringraziandovi per le vostre preghiere e i vostri aiuti. Stiamo tutti bene sempre impegnati a organizzare vari aiuti.

Le ultimi informazioni ufficiali governative indicano che si è superato il numero di di 2.000.000 di profughi accolti in Polonia su una popolazione che sfiora i 40.000.000. La capitale Varsavia, che nel 2019 contava 1.800.000 abitanti, ha già accolto quasi 500.000 profughi. Si è fatto notare come questa, che riguarda la Polonia principalmente ma non solo, sia la piu grande ondata di profughi avvenuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. I numeri sono costantemente in crescita ed è ragionevole pensare che soltanto la fine del conflitto potrebbe mettere un freno a questa migrazione. La fine del conflitto tanto sospirata sembra essere ancora lontana.

Le stazioni dei treni di Varsavia sono allestite in modo da accolgliere le migliaia di persone che ogni giorno arrivano. Volontari di gruppi e associazioni umanitarie così come singoli cittadini, si impegnano giorno e notte fornendo informazionie e aiuti di prima necessità, come cibo, bevande calde e schede telefoniche prepagate. I mezzi di trasporto di tutto il paese sono gratuiti per i profughi. Ogni profugo ha diritto di ricevere il codice fiscale polacco che permette l’accesso al servizio di assistenza sanitario nazionale.

Come già scrivevo in precedenza sono pochissimi i palazzetti e le scuole che ospitano i grandi gruppi per dormire, perche la maggior viene ospitata nelle case di gente comune in tutto il paese.

Vorrei ringraziare due sacerdoti che abbiamo contattato telefonicamente a Lublino, non lontano dai confini con l’Ucraina, e che hanno organizzato in piena emergenza l’accoglienza per una notte di due gruppi di donne e di bambini. Ogni gruppo contava quasi cento persone. Il giorno successivo con dei pullman questi due gruppi sono partiti per Il Portogallo.

Qui a Łomianki continuiamo il lavoro in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita. Il numero dei profughi, circa 1500 nel solo comunenon è aumentato per una semplice ragione: non ci sono piu posti liberi nelle case. Il centro di distribuzione degli aiuti presso la parrocchia continua a lavorare ogni giorno grazie a un centinaio di volontari che fanno i turni. Gli aiuti che mandate sono distribuiti lì. E da lì sono messi a disposizione per le famiglie presenti ma anche spediti in Ucraina. Ricordo che i beneficiari sono prevalentemente mamme con bambini. I generi alimentari piu richiesti sono la farina, marmellate, olio non necessariamente di oliva, i semolini. Con parte delle vostre offerte questa settimana abbiamo acquistato una tonnellata e mezzo di farina, sufficiente per qualche giorno di distribuzione.

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki

Da pochi giorni si è unita alla nostra comunità una volontaria infermiera di Torino, Clara, che aiuta nello smistamento delle medicine che arrivano. Un lavoro umile e importante.

Stiamo riuscendo con l’aiuto di molti a organizzare l’accoglienza per i profughi in diversi luoghi in Italia.

Pochi giorni fa alcuni volontari di Sovere (Bg) sono venuti con le macchine per portare aiuti e al ritorno hanno viaggisto con ben 14 profughi che sono stati ospitati presso le famiglie del loro comune. Questa mattina l’associazione Eskenosen di Como similmente, dopo essere arrivati con ben 8 furgoni di aiuti sono ritornati con 11 madri e bambini di varie età.

Mi preme sottolineare che il desiderio di tutti i profughi è quello di tornare al più presto nelle loro case in Ucraina. Siccome non si sa ancora quando e in quale forma questo potrà avvenire (dipenderà molto dall’esito finale della guerra), alcuni sono disposti a intraprendere viaggi in paesi piu lontani per assicurarsi nell’immediato, un futuro piu sicuro e per i loro bambini continuare l’istruzione nelle scuole.

Nel caso di una eventuale disponibilità per l’accoglienza potete contattarci scrivendoci dove questa puo avvenire e le condizioni dell’alloggio. Queste sono informazioni basilari che possiamo dare ai profughi che devono fare, come immaginate, un grande atto di fiducia nel prendere queste decisioni.

Oggi e la festa di S. Giuseppe, festa dei papà. Affidiamo alla sua protezione tutti i papà del mondo specialmente quelle rimasti in Ucraina, e alla sua intercessione chiediamo la fine della guerra e una benedizione per tutte le famiglie.

Preghiamo per la pace, costruiamo la pace.

PadreLuca Bovio
Superiore dei missionari della Consolata in Polonia

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki


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Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia

In Polonia per Ucraina con la Consolata /2




Noi e Voi

Ricordando Daniele dal Bon

Dal Bon Daniele

Daniele arrivava in redazione sempre senza preavviso. Bussava alla porta della mia stanza e si
affacciava con la testa chiamandomi per nome e cognome. «Posso salutarti?». Già sapevo che non sarebbero stati pochi minuti.

Scarmigliato, occhiali abbassati sul naso, borsa a tracolla, Daniele non badava minimamente al suo aspetto esteriore. Mai. «Cosa ne pensi di… ?», trovato l’argomento di discussione non si schiodava facilmente e spesso ripeteva più volte la domanda o la risposta ricevuta. Lui era così, anche nel blog, nelle email, su YouTube o nei suoi libri autoeditati.

Certamente, tra gli argomenti di gran lunga favoriti c’erano la fotografia e il volontariato (in Italia, Africa e America Latina), passioni a cui ha dedicato l’intera sua esistenza. E, naturalmente, c’era il Nicaragua: le sue diapositive del periodo sandinista (mitico per molti di noi) sono conservate nell’archivio di questa rivista.

All’inizio di gennaio, appena conosciuta la sua dipartita (avvenuta il 31 dicembre 2021), i social sono stati sommersi da ricordi commossi di una miriade di amici e conoscenti.

Quasi a confermare una delle citazioni con cui Daniele spesso terminava le sue email, quella del teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer: «Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo».

Paolo Moiola
06/01/2022

Daniele Dal Bon è stato un frequentatore assiduo del nostro Centro di Animazione di Via Cialdini 4 fin dai primi anni ‘80. Buon fotografo, ha offerto molte volte le sue foto alla rivista diventandone un collaboratore regolare dal 2001 al 2007. Nel nostro archivio ci sono migliaia di sue foto del Sud America, Africa e Asia e su argomenti specifici come migranti, comunità etniche a Torino, Rom, volontariato e tanti altri temi sociali. Era diventato il fotografo ufficiale dell’Ufficio migranti della diocesi di Torino e di tante altre organizzazioni.

Teneva un blog, sul quale aveva raccolto tutto il suo itinerario esistenziale. L’ultimo messaggio (pubblicato per lui da amici il 3 gennaio 2022) dice: «Carissimi, questo non è un addio, ma un arrivederci. Ora sono insieme a mia mamma, mio papà e mia sorella e sappiate che sto bene e continuo a fotografare ogni giorno. Non vi preoccupate se non riceverete più mail, messaggi, articoli o telefonate da parte mia, anche se non sarò più presente fisicamente agli eventi e agli incontri voi pensatemi e ricordatevi di me».

Manifestazione a Torino


Finalmente sepolto nel Resurrection Garden

Padre Ottavio Santoro, IMC, è stato fondatore e architetto del Resurrection Garden di Karen, Nairobi, Kenya, un sereno giardino per la meditazione spirituale. Proprio in quel giardino è stato traslato il 16 dicembre durante una solenne cerimonia presieduta dall’arcivescovo Philip Anyolo dell’arcidiocesi di Nairobi.

Padre Santoro è nato il 1° luglio 1933 a Martina Franca in provincia di Taranto. È arrivato in Kenya come missionario della Consolata nel 1959, lì ha lavorato nella parrocchia di Kiriani nella diocesi di Muranga. Tra il 1963 e il 1965 è stato vicerettore del Seminario minore San Paolo a Nyeri e insegnante a Kerugoya. Nel 1965 è partito per gli Stati Uniti e nel 1969 è tornato in Kenya (vedi MC 5/2016 p. 5-7).

È stato un «grande uomo» dalla mente visionaria e dalle capacità creative. Come amministratore regionale dell’istituto in Kenya e Uganda ha anzitutto realizzato la ristrutturazione e l’ampliamento della casa regionale a Westlands, Nairobi.

Padre Ottavio, abile amministratore, è ricordato come l’uomo che ha coordinato la costruzione dei primi edifici dell’Università Cattolica dell’Africa Orientale (Cuea) dal 1986 al 1994. È anche il cervello che ha gestito la costruzione del Tangaza university college, in particolare la sezione di teologia, dove studiano quasi tutti i religiosi del Kenya, e la vicina Allamano House di Karen, che è il seminario di formazione per teologi della Consolata.

Visita da Giovanni Paolo II in Kenya – al Resurrection Garden con padre Santoro e cardinal Otunga

Era legato da profonda amicizia con il compianto Servo di Dio Maurice cardinale Otunga. Con lui ha sviluppato e attuato l’idea di costruire per la Chiesa del Kenya un giardino (prendendo spunto dai sacri monti tipici di molte parti d’Italia) che potesse essere utilizzato per la preghiera e la mediazione. Padre Ottavio, con la benedizione del cardinale Otunga, ha dato la sua saggezza e la sua forza a questo progetto, dando vita al giardino che poi ha diretto e curato fino alla sua morte il 18 novembre 2015.

Fu allora sepolto nel cimitero dei Missionari della Consolata al Mathari, Nyeri. Tuttavia, il desiderio di far tornare i suoi resti a «casa sua», al Giardino della Resurrezione, era vivo fin da allora.

«Il compianto padre Santoro mancherà ai Missionari della Consolata, ai suoi familiari, agli amici, ai cristiani dell’Arcidiocesi di Nairobi e a tutta la Chiesa del Kenya. Sarà ricordato come un amministratore spirituale, innovativo, altruista, amichevole, generoso, ospitale, impegnato e un missionario caritatevole», ha detto Michael, un giovane che ha potuto compiere i suoi studi grazie alla generosità del missionario pugliese.

Tradotto e adattato da Catholic Information service Africa (Cisa)
Nairobi, 17/12/2021

Tumulazione di padre Santoro Ottavio nel Resurrection Garden da lui fondato e costruito.


Festival della Missione

Nel 2022, dal 29 settembre al 2 ottobre, l’Arcidiocesi di Milano accoglierà il 2° «Festival della Missione», promosso dalla Fondazione Missio e dalla Cimi (Conferenza degli istituti missionari presenti in Italia).

Cos’è

Il Festival è un tempo e uno spazio di festa, riflessioni, esperienze in cui narrare la fede così com’è vissuta nelle periferie. I fatti, ma anche e soprattutto ciò che di invisibile, misterioso e prezioso già sta nascendo: un modo nuovo per un nuovo mondo, fondato sulla fratellanza umana e l’amicizia sociale, in cui riconoscerci tutti fratelli e sorelle.

Come si sviluppa

Il FdM è stato lanciato il 25 ottobre 2021 e si sviluppa su due anni sociali (2021/2022 e 2022/2023) in tre fasi: un prima, un durante e un dopo Festival.

Abbiamo costruito un percorso che vorremmo armonioso e fecondo: cerchiamo di preparare il terreno perché possa ricevere e custodire i molti semi che saranno gettati in vista del e durante il Festival, da cui raccogliere in seguito i frutti.

Dove si svolge

Le giornate del Festival si svolgeranno principalmente a Milano, alle Colonne di San Lorenzo, ma gli eventi e le iniziative pre e post Festival interesseranno il territorio, le parrocchie, gli oratori, gli istituti missionari, i monasteri e anche le carceri, di tutte le diocesi italiane che desiderano partecipare a questo percorso, rimodulato secondo il proprio contesto.

Qual è il tema

Vivere per dono è il titolo scelto per il Festival: tre parole dense di significato, che fanno da filo conduttore per tutte le iniziative promosse e organizzate, e da nucleo di riflessione per quelle di confronto e formazione.

Concretamente…

Animazione missionaria: trovate sul sito tre schede, scaricabili, per organizzare incontri formativi del gruppo missionario parrocchiale o della commissione missionaria di zona. Per info:
missionaria@diocesi.milano.it

Catechesi: trovate fiabe e giochi dal mondo raccolte ne I Racconti del Beijaflor, pubblicato da Itl e disponibile nelle librerie cattoliche o su piattaforme online. Trovate il video di una fiaba turca, Kelolan e lo scoiattolo sul canale YouTube del Festival e il testo nella scheda della Giornata Missionaria Ragazzi scaricabile dal sito. Per informazioni: scuola@festivaldellamissione.it

Adolescenti e giovani: per ragazzi e giovani dai 16 ai 30 anni proponiamo un Song Contest. Sei un cantante, un gruppo, un cantautore? Hai una canzone che racconti la tua storia o una storia che parta dalle periferie della società? Inviaci la tua canzone. Tra i brani ricevuti, verranno scelti 10 finalisti che registreranno in uno studio professionale e parteciperanno al concerto finale a Milano il 2 ottobre 2022. Scarica il regolamento e i moduli per l’iscrizione, da effettuare entro il 15 marzo. Firma e invia la tua canzone (testo + mp3) a musica@festivaldellamissione.it

Laudato Si’: vi suggeriamo la visione di Anamei, un documentario su una terra devastata come l’Amazzonia ma anche sulla profezia di speranza che lo stesso papa ha voluto far conoscere al mondo con il Sinodo del 2018. Può essere usato per proiezioni in teatri e sale parrocchiali, e per incontri sull’ecologia integrale. Per vedere il documentario è necessario scrivere a: laudatosi@festivaldellamissione.it e chiedere la password.

Potete trovare informazioni su:
www.festivaldellamissione.it




Decalogo: istruzioni per vivere (Es 20,1-17)


Solo dopo che il popolo ha affermato di voler vivere insieme al suo Dio, riconosciuto come Signore (Es 19,8), riceve la legge: una sorta di sintesi scritta di ciò che Dio si aspetta dai suoi: un documento che si apre con un testo assolutamente centrale per la vita del popolo, tanto è vero che verrà citato da Gesù (Mc 10,19; Lc 18,20), da san Paolo (Rom 13,9) e addirittura ripreso quasi alla lettera in un altro brano del Primo Testamento (in Dt 5,6-21). Non è frequente che due passi biblici siano uguali: il Deuteronomio riprende la rivelazione e la ridice in un altro modo, ma quando arriva al Decalogo preferisce usare quasi le stesse parole, salvo pochi cambiamenti. Uno scrittore che si comportava così, nell’antichità, lasciava intendere che non si sarebbe potuto riscrivere meglio il testo, che restava quindi intatto. Non è un plagio, è un omaggio.

Un modello di morale?

Nella tradizione ebraica e cristiana il Decalogo è diventato la sintesi delle norme morali, da insegnare al catechismo e da utilizzare per l’esame di coscienza. L’impressione era, infatti, che raccogliesse tutto ciò che Dio «comandava» agli esseri umani. Intorno al Decalogo si è spesso strutturata la morale. Esso è servito come strumento d’ordine di tutti i doveri e i divieti, religiosi e non, a volte elaborati anche al di là del suo stretto contenuto.

Una lettura un po’ attenta ci aiuta però ad accorgerci che dentro al testo del Dealogo c’è qualcos’altro. Qualcosa di più prezioso di un codice di comportamento etico.

Nelle nostre presentazioni del Decalogo spesso si parla di due parti (d’altronde, Es 34,29 parla di due tavole di pietra), una prima riguardante le relazioni con Dio, che coprono tre comandi, e l’altra sui rapporti con gli altri uomini. Nei secoli di elaborazione da parte della Chiesa, poi, gli ultimi comandamenti hanno finito con l’essere molto ampliati (a essere onesti soprattutto il sesto) dando l’impressione che essi avessero un peso maggiore. Possiamo però notare che nell’antichità, lo scrittore faceva come oggi fanno spesso gli insegnanti: dava maggiore spazio a ciò che riteneva più importante, a costo di ripetersi. Possiamo allora notare che ai primi tre comandamenti nel testo dell’Esodo sono dedicati dieci versetti, per un totale di 134 parole (in ebraico), mentre gli altri sette coprono nove versetti, ma solo 44 parole. La prima parte, insomma, è decisamente più ampia, perché evidentemente chi l’ha scritta la considerava molto più importante.

Ma anche un altro particolare ci stimola a ripensare il senso del Decalogo. La prima affermazione del testo, infatti, può sembrare strana per un elenco di norme (Es 20,2: «Io sono il Signore, tuo Dio»): non ordina niente. Sembra piuttosto una presentazione, quasi una premessa, in cui Dio spiega chi è. In effetti le tradizioni catechistiche l’hanno trattata come un’introduzione, che però nel testo è un’altra, al versetto 1 («Dio pronunciò tutte queste parole:»). In più, si tratta di un’autopresentazione ampia, in cui Dio si definisce con il suo nome proprio, poi aggiunge che si tratta del «tuo Dio», precisando di essere colui che ha fatto uscire il popolo dalla terra d’Egitto, «dalla condizione servile». Non si tratta semplicemente di una carta d’identità, ma della spiegazione della relazione che lo lega a Israele. E questa relazione è di salvezza, di liberazione, di legame interiore con qualcosa di nuovo. «Io sono il tuo Dio»: tu hai un Dio, non sei abbandonato, non sei solo, non rimani senza custodia e accompagnamento. Pensavi di essere solo, ma non lo sei; di più, hai accanto a te un Dio, che è tuo.

Un’intuizione e le sue conseguenze

Se lo ripensiamo così, il Decalogo acquisisce subito un’intonazione diversa. Non si tratta più di dover rispettare delle regole, magari specificando quali punizioni o conseguenze ci saranno per i trasgressori. Si tratta invece, come intuizione di partenza, di renderci conto che non siamo soli.

Israele, questo popolo che ancora non ha scoperto di essere un popolo, ha un Dio. E non nel senso che abbia qualcuno da venerare, per il quale faticare, a cui presentare offerte. Ha un Dio perché colui che lo lega a sé lo ha già liberato, lo ha fatto uscire dall’Egitto che era una terra di schiavitù.

Quella che ci sembrava una pallida introduzione ai comandamenti, è in realtà il cuore pulsante di tutta questa pagina: il popolo ebraico, e chiunque vorrà mettersi su quella strada, non è solo. Non siamo soli. C’è un Dio pronto a mettersi dalla nostra parte e a muoversi per primo, rendendoci liberi. Perché non è un Dio che cerchi schiavi, ma persone autonome che decidano di legarsi a lui non per costrizione ma per amore, non servi ma amici, o addirittura sposi (cfr. Os 2,21-22; Is 61,10-11; Ez 23; Gv 15,15).

Al primo versetto del nostro testo, Dio si presenta al suo popolo, ma per presentarsi non usa una definizione filosofica, non dice «Io sono l’essere perfettissimo…». Al contrario, si presenta in relazione: «Io sono il tuo Dio, io ti ho fatto uscire dall’Egitto». Non si presenta in astratto, ma in rapporto con coloro con cui parla. Non è l’amore, è l’amante.

Letta così, la prima frase non può essere una semplice introduzione, ma l’intuizione di fondo. Israele non è solo, noi non siamo soli. Dio c’è, ed è in relazione con loro, con noi. Il resto, in fondo, sono conseguenze.

Se Dio c’è, ed è in relazione con Israele, perché andare a cercare altri dèi («Non avrai altri dèi di fronte a me», Es 20,3)? Non ce n’è bisogno. Dio c’è già.

Ma non solo non c’è bisogno di cercare degli dèi. Bisogna anche evitare di trasformare il Dio d’Israele in un amuleto, in qualcosa di oggettivato, di fisso, di rigido, di «sicuramente nostro». Anche questo dice il versetto 4 («Non ti farai idolo né immagine alcuna…»), che è stato inteso nella tradizione ebraica come invito a evitare di farsi una qualunque immagine di Dio (anche perché l’immagine di Dio, nel mondo, esiste già, ed è l’uomo che vive: cfr. Gen 1,26; S. Ireneo dirà che «gloria di Dio è l’uomo vivente»). Ma in più c’è l’intuizione, colta plasticamente nell’episodio del vitello d’oro (Es 32), che in assenza di Dio non si sia più liberi, ma si diventi servi di altro, oltre tutto di qualcosa che non è superiore all’uomo. Chi ha Dio come Signore, invece, non ha altri signori.

Un sostituto di Dio, poi, può essere, sì, un idolo, ma anche la tentazione di ridurre il Dio vivente a un’immagine sola, a un’idea sola. Es 20,4 ci dice che Dio continuerà a sorprenderci, pur continuando a essere affidabile. È vivo, non è un ritratto o una statua, non è un’idea sempre rigida e fissa. Potrà anche essere imprevedibile, arrabbiarsi e castigare, anche se promette già che manterrà l’ira per tre o quattro generazioni, ma la bontà per mille (Es 20,5-6).

A cerchi sempre più larghi

Il testo del Decalogo parte da questo discorso di fondo e lo sviluppa come una serie di conseguenze man mano più ampie.

Se JHWH è il nostro Dio, non c’è bisogno di cercarne altri. Ma a questo punto, come ulteriore conseguenza, occorre evitare di appellarci a Dio per ciò che non è da Dio (v. 7). È inutile pretendere che possa salvaguardarci e vivere al posto nostro, sostituirsi alle nostre decisioni, cambiare il mondo compiendo ciò che sarebbe affidato a noi. Sarebbe un «invocare Dio invano», perché se ne ridurrebbe il ruolo a qualcosa di infimo e marginale; come sposarsi per avere a disposizione una cuoca o uno spaccalegna. Dio si propone come nostro compagno, come garanzia ed esito della speranza, non come tappabuchi alle cose che, nella nostra vita, potrebbero non funzionare.

E ancora, e sempre di conseguenza: se Dio può essere questo elemento centrale della vita umana, occorre trovare tempo per lui. Lui per primo è consapevole che la nostra vita si muove tra moltissimi impegni e urgenze. Ma se riconosciamo che qualcosa è centrale nella nostra esistenza, sentiremo il bisogno di donargli tempi e spazi. Non necessariamente la parte maggiore del tempo, di certo, ma la più importante. «Tempo di qualità», diremmo noi oggi, senza però aver inventato l’idea. Secondo l’intuizione dell’Esodo, si tratta di un giorno su sette, destinato a recuperare ciò che ci fa autenticamente esseri umani, anzi creature, se è vero che al riposo settimanale sono richiamati non solo tutti gli esseri liberi, ma anche gli schiavi e il forestiero e addirittura il bestiame (v. 10: «il settimo giorno è il sabato, in onore del Signore»). Di più, persino Dio si è fermato il settimo giorno (20,11), perché il ritorno all’essenziale della nostra esistenza, indipendentemente da tutto il lavoro più urgente che dobbiamo accollarci, è un’esigenza dei viventi tutti.

Fino a coinvolgere gli altri

I cerchi non si fermano. Il v. 12 («Onora tuo padre e tua madre») sembra quasi collegare la dimensione divina con quella umana. Invita a «dare peso» ai genitori, che rappresentano ciò da cui veniamo senza averlo deciso, il dono di una vita che è in nostra gestione ma non ci siamo guadagnati. Non si toglie l’autonomia alle persone libere, non si dice che occorra ubbidire a ogni ordine dei «padri», ma che va concessa loro importanza, rilievo, peso. Non ci siamo fatti da noi, occorre riconoscerlo.

Nei primi «comandi», quelli fondamentali, il testo offre anche delle motivazioni. Qui lo fa per l’ultima volta, indicando, più che la ragione, lo scopo: «perché si prolunghino i tuoi giorni». Il verbo ebraico può essere tradotto «allungarsi» («prolunghino» nella traduzione Cei), come fanno tutte le versioni moderne, ma anche «approfondirsi», come se la percezione di ciò da cui veniamo, la consapevolezza di dover essere grati per un dono che non ci siamo cercati, permetta non solo di allungare il tempo della nostra vita, ma (soprattutto?) di viverlo in profondità, conoscendone il pregio. È diverso il nostro rapporto con un oggetto che ci siamo comprati da quello che abbiamo con un regalo ricevuto.

Gli altri comandamenti, più veloci e secchi, si pongono a questo punto ancora come conseguenza dell’intuizione di fondo iniziale.

Dal momento che conosco il pregio della mia vita, rispetterò anche quella altrui («Non uccidere», v. 13).

Anzi, non mi limiterò a rispettare la vita fisica, ma anche quella dimensione di speranza e costruzione di vita che è soprattutto il legame di coppia: «Non commettere adulterio» (v. 14). Questo comandamento nella tradizione si è ampliato a tutti i reati sessuali, ma non è così nel testo biblico, il quale non sembra tanto interessato al sesso in sé, quanto alla relazione tra persone.

Ma sono a servizio della vita anche i possedimenti altrui («Non rubare», v. 15), e il buon nome che tutela una piena vivibilità dell’esperienza umana («Non risponderai contro il tuo prossimo una testimonianza falsa»: v. 16).

All’ultimo cerchio concentrico troviamo anche il semplice desiderio dei beni degli altri, perché sentirsi minacciati nelle proprie «cose» rende precaria la vita. L’elenco del v. 17 («Non desidererai la casa del tuo prossimo», la moglie, lo schiavo, il bue, l’asino, ecc.) risente di una cultura contadina arcaica, nei fatti molto maschilista e pronta non solo a considerare la moglie uno dei tanti beni, ma a metterla in un ordine approssimativamente di costo economico: per questo viene dopo la casa, anche se prima del bue… (v. 17).

È come se, progressivamente, si cogliessero, una per volta, le conseguenze del passo precedente. Al centro di tutto, però, come causa prima delle nuove intuizioni, c’è la percezione che non siamo soli, che Dio è con noi, che è in relazione con noi, che intende salvarci. Tutto il resto è conseguenza. E non tanto comando, ordine, quanto, per così dire, percorso per assomigliare sempre più a Dio, istruzioni per vivere bene questa relazione con lui che trasforma la nostra vita.

Angelo Fracchia
(Esodo 12 – continua)