Abramo, l’amico di Dio


Abramo viene chiamato l’amico di Dio (Gc 2,23), perché esempio di relazione ideale con il Signore. È considerato tale da ebrei, cristiani e islamici.

C’è chi dice, probabilmente senza allontanarsi dal vero, che non sia mai davvero esistito e che la figura di Abramo sia un’«invenzione», basata su antiche tradizioni riguardanti qualche personaggio lontano nella storia, per porre, all’inizio della Genesi, un’introduzione alle vicende di Giacobbe allo scopo di indicare da subito l’atteggiamento giusto nel rapporto con Dio.

Noi qui, però, non vogliamo fare i lettori super critici e saccenti, ma lasciarci coinvolgere dal racconto, come desiderava chi ha scritto questi testi.

L’inizio di un ascolto

«Esci dalla tua terra, dalla casa di tuo padre, e vai verso un luogo che io ti indicherò» (Gen 12,1). Abbiamo tutti in mente questa chiamata che, soprattutto nella tradizione cristiana, si considera spesso il passaggio centrale per capire la figura di Abramo, visto come un uomo che segue esclusivamente la vocazione divina: lasciare tutto, e seguire Dio.

Una lettura più attenta del testo biblico ci offre però un quadro più complesso e, forse, anche più interessante.

Abramo, come suo padre Terach, è di Ur dei Caldei, nel Sud della Mesopotamia. In Gen 11,31 si dice che lascia, sì, quella terra, ma non suo padre. In effetti, la lascia insieme a lui, ai suoi ordini. È Terach a prendere figlio, nuora e nipote (Lot) per andare nella terra di Canaan, che sarà poi quella che Dio indicherà ad Abramo. Sul cammino, la piccola comitiva si ferma per qualche tempo a Carran, nel Nord della Mesopotamia, più o meno a metà strada, e lì Terach muore. È a questo punto che arriva la chiamata divina ad Abramo. Abramo inizia il suo viaggio semplicemente ubbidendo al padre (come in quella società era previsto facesse, tanto più che non aveva figli propri), ma poi si interrompe a un certo punto per la morte dello stesso. Che cosa fare ora? Nulla dice che Terach avesse condiviso che cosa sperava di trovare in Canaan, e Abramo, suo figlio primogenito ed erede, si trova ora responsabile di una moglie e un nipote. Tornerà indietro con il proprio gregge o proseguirà? In base a che cosa?

Ecco la svolta: Abramo si pone in rapporto con qualcuno che non è suo padre defunto e non è una garanzia mondana. Si mette in relazione e si fida di Qualcuno che, pur non offrendogli prove, gli chiede di affidargli la sua vita con la semplice promessa che non lo abbandonerà.

A 75 anni (Gen 12,4), Abramo ascolta una parola che non gli promette vittoria e bottino, ma di diventare una benedizione per gli altri, e di trasformarsi (lui, vecchio e con una moglie vecchia e sterile) in una grande nazione. Un pazzo illuso, potremmo dire. Ma Abramo parte. Anzi, diciamo che riparte, o prosegue, perché nulla, esteriormente, è cambiato nel suo viaggio, se non che la comitiva ha una persona in meno, che è morta. Eppure, dentro tutto è diverso.

Un arrivo che è inizio

Quando Abramo arriva nella terra di Canaan, questa ovviamente non è vuota (Gen 12,6), né lui si trova immediatamente trasformato in un popolo. Eppure, in questa terra che non è sua, senza nulla che gli confermi di aver fatto bene ad ascoltare la voce di Dio, Abramo gli innalza un altare, come ringraziamento, segno di dedizione e luogo di incontro (Gen 12,7), come farà altre volte in seguito.

Lungo il racconto, la promessa divina si fa sempre più precisa:

  •   dapprima parla di fare di Abramo una grande nazione e un nome benedetto (12,1-2);
  • poi Dio garantisce che sta parlando della terra che Abramo vede davanti a sé, e che sarà offerta ai suoi discendenti (12,7-8);
  • quindi promette che quella discendenza sarà numerosa come la polvere della terra ed erediterà tutto ciò che si vede (13,14-17);
  • più avanti, che la discendenza di Abramo sarà numerosa come le stelle del cielo (15,4-5);
  • e vivrà in un territorio dai confini precisi che andranno ben oltre ciò che un essere umano può vedere solo con lo sguardo  (15,18-21);
  •   e poi che addirittura Abramo sarà capostipite non solo di un popolo ma di «una moltitudine di popoli», che abiterà proprio lì in Canaan e vivrà per sempre in comunione con Dio (17,4-8).

Questo elenco non esaurisce tutte le promesse e benedizioni divine ad Abramo raccolte nella Genesi, ma è già sufficiente per farci stupire del fatto che, davanti a tante promesse e al fatto che finora lui non abbia nulla in mano, Abramo si fida comunque di Dio.

Questa sua fiducia si ripercuote anche intorno a lui. Quando in Canaan le greggi sue e del nipote Lot sembrano essere troppe per la terra che hanno a disposizione, Abramo lo invita a dividersi. La scelta di come dividere il territorio spetterebbe al capo della comitiva, che lascia però decidere al nipote, il quale prende per sé la parte migliore (Gen 13).

I lettori potrebbero pensare che Abramo sia semplicemente un debole o un pavido, ma, subito dopo (Gen 14), una spedizione di cinque re assale Sodoma, dove Lot si è insediato, e porta via in bottino anche lui con la sua famiglia. A quel punto Abramo insegue e sconfigge i cinque re, chiedendo semplicemente la liberazione dei prigionieri.

Poiché vive nella fiducia verso Dio, non si affanna a garantirsi protezioni o garanzie terrene.

 

Perché amico

All’inizio ricordavamo come nella lettera di Giacomo si presenti Abramo non tanto come servo fedele e ubbidiente di Dio, ma come chi entra in una relazione distesa, affettuosa, di amicizia con il Signore. Ci sono almeno tre episodi che confermano di questa relazione alla pari.

I tre viandanti

Molto noto è quello in cui Abramo accoglie nella sua tenda tre viandanti, che poi sembrano diventare uno e si svelano come presenza divina (Gen 18). Abramo, senza una terra e senza discendenza, accoglie con serenità e generosità i tre passanti, in un mondo in cui non c’erano leggi che proteggessero chi non era del posto. E dopo quel gesto di dono, che viene seguito dalla promessa (nuovamente!) di un figlio, Dio e Abramo fanno due passi fino ad affacciarsi sulla profonda valle del Giordano, in fondo alla quale contemplano Sodoma. E Dio si trova a non poter nascondere ad Abramo ciò che ha intenzione di fare: distruggere Sodoma per i suoi peccati (18,17-19). Questa confidenza mostra un atteggiamento intimo di Dio nei confronti di Abramo. Dio non è un padrone, sia pure generoso e benevolo, ma un amico che, in coscienza, non può nascondere dei segreti al proprio amico.

Il figlio della schiava

Un altro passaggio è quello nel quale diventa protagonista anche Sara, la moglie di Abramo (Gen 16). A fronte della costante promessa di una discendenza, è lei ad avere l’idea di far concepire un figlio di Abramo alla sua schiava. Il figlio di una schiava nasce schiavo, ma se venisse adottato dalla padrona (con quel gesto antico e simbolico di parto sulle sue ginocchia), sarebbe libero e potrebbe ereditare i beni del padre. L’atteggiamento di Sara e Abramo nei confronti di Dio è quello non dei creditori che pretendono dal debitore ciò che questi ha promesso, ma degli amici che cercano di venire incontro alla promessa fatta dall’amico, di rendergli la vita più facile, facendo ricorso anche a una certa dose di automortificazione (Sara accetta di essere esclusa dalla promessa) e di inventiva.
Quando, poco dopo (17,18), Abramo, a colloquio con Dio, invocherà: «Possa almeno vivere Ismaele davanti a te!», di fatto pone il figlio della schiava Agar davanti a Dio, quasi a chiedergli: «È questo il figlio di cui parlavi, no?».

E la risposta di Dio è dolce e tenera: «Certo, benedirò anche lui, ma se ti ho promesso un figlio, l’ho promesso a te e a Sara». La promessa divina guarda ad altro, ma Dio non può non contemplare con commozione e un sorriso il tentativo (maldestro) di Abramo e Sara di semplificargli la vita, come tra amici.

L’alleanza

Un altro brano è per noi di comprensione più difficile, più solenne e mistico (Gen 15). Dio invita Abramo a predisporre una scena cruenta, con tre animali divisi a metà. A noi non dice nulla, ma i primi lettori del testo comprendevano bene di che cosa si trattasse: quando si concludeva un contratto, il più forte si impegnava a rispettarlo, mentre il più debole era esposto alla vendetta del primo, se non lo avesse mantenuto. Quando due contraenti si reputavano alla pari, si appellavano, come garante, a qualcuno di superiore. Quando a stringere un’alleanza alla pari erano due re, che non potevano rimandare a nessuno superiore a loro, seguendo un antico rituale hittita, squartavano degli animali e ci passavano in mezzo, mano nella mano: simbolicamente invocavano che chi avesse tradito l’alleanza finisse squartato come quegli animali.

Abramo viene chiamato ad allestire quel quadro, e quindi a pensarsi in un’alleanza alla pari con Dio. Al momento di sigillarla, però, non sa come procedere, finché un torpore non lo blocca, e ode promesse di fatica e schiavitù, ma anche di ricchezza e libertà per i suoi discendenti, e vede passare in mezzo agli animali «un braciere fumante e una fiaccola ardente» (15,17): Dio si impegna in un’alleanza e si offre alla condanna di essere squartato nel caso in cui non la dovesse rispettare. Allo stesso tempo, però, evita ad Abramo di passare a sua volta in mezzo alle due metà di animali, lo protegge (lui e i suoi discendenti) dalle conseguenze di un eventuale futura trasgressione del patto.

Un vero amico, che si espone in prima persona ma non vuole neppure concedere il rischio di male per gli altri.

Maria Mfariji shrine. Marsabit, Kenya – Abramo, icontra i tre alle quercia di Mamre – AfMC / Gigi Anataloni

Il dono definitivo

Il figlio promesso arriva quando Abramo ha cento anni (Gen 21,5). Isacco viene, però, chiesto in dono da Dio, capace di calcare la mano in modo apparentemente crudele sulla richiesta: «Prendi tuo figlio (sì, quello promesso e atteso da tanto tempo), il tuo unico figlio (non ci sono piani di riserva), che ami (non è un figlio ribelle, non sopportato: Abramo gli vuole bene), Isacco (chiamato per nome, non più solo il ruolo) e offrilo in olocausto» (Gen 22,2).

Se per la tradizione cristiana il cuore della chiamata di Abramo è l’iniziale invito a uscire dalla sua terra, per il mondo ebraico è invece questo brano. Se è impegnativo lasciare il quasi niente che si ha, in vista di una promessa più grande, molto più difficile è accettare di rinunciare a ciò che si è desiderato per tutta la vita e alla fine è arrivato.

Conosciamo la storia: Abramo si mette in movimento, inganna il figlio e si accinge a sacrificarlo finché viene fermato da Dio appena in tempo.

Può sembrarci un Dio improvvisamente crudele, ma non dimentichiamoci che il mondo antico riflette e insegna attraverso i racconti. Davvero Abramo avrà predisposto il sacrificio del figlio? Per gli antichi bastava che si fosse posto il problema se restituirlo a Dio qualora glielo avesse chiesto. Abramo continua a confidare fino in fondo nella promessa, senza attaccarsi a ciò che gli è stato donato come se fosse irrinunciabile, sapendo che è la relazione con Dio a garantirgli tutto ciò che gli serve. Dio non chiede il sacrificio della vita umana, e non chiede che si doni a lui ciò che si ama: sarà lui a farlo, con il Figlio suo, sulla croce, compiendo quel dono di sé assoluto, totale e sovrumano che all’uomo non può e non vuole chiedere.

Con una scelta feroce tra i tanti episodi che interessano Abramo (molto di più avremmo potuto riprendere e spiegare), ecco dispiegata davanti a noi un’esperienza umana ideale, fatta di relazione alla pari con Dio, di fiducia, di scambi e aiuto.

Ciò che la Bibbia ci dice è che il Dio di cui ci parla è fatto così, non cerca servi, ma amici con cui conversare, sorridere, vivere. «Non vi chiamo servi, ma vi ho chiamato amici» (Gv 15,15). Il primo, fondamentale uomo che vive in relazione con lui non ubbidisce a leggi ma si pone semplicemente nell’incontro, senza filtri né paure.

Angelo Fracchia
(Camminatori 01 – continua)

Maria Mfariji shrine. Marsabit, Kenya – Abramo, esci dalla tua terra – AfMC / Gigi Anataloni


2023, Un cammino nuovo

Per due anni abbiamo camminato insieme al popolo ebraico lungo le strade del deserto, nei sentieri dell’Esodo.

Quasi a prendere respiro da un percorso compatto e impegnativo, vogliamo dedicare il 2023 a respiri più brevi, ma speriamo non meno corroboranti. Incontreremo dieci personaggi del Primo Testamento, alcuni più noti, altri meno, ma tutti significativi per la loro esperienza ed esempio di fede, perché facciano da modello a noi che viviamo in un contesto completamente diverso.

Come ogni occasione in cui leggiamo la Bibbia, lo scopo non è tanto di imparare qualcosa su un mondo antico e lontano, ma di scoprire pillole di divina umanità utili al nostro cammino quotidiano di oggi.

A.F.




Cop27, un passo avanti necessario ma insufficiente


La 27ª Conferenza delle parti di Sharm el-Sheikh si è conclusa con un accordo per compensare i paesi del Sud del mondo, i meno responsabili delle emissioni, per i danni che il cambiamento climatico sta causando nei loro territori. Ma sulla mitigazione non si è andati oltre la Cop26 di Glasgow, che era stata troppo debole sull’eliminazione dei combustibili fossili.

Una sintesi efficace di questa Cop27 l’ha tracciata Manuel Pulgar-Vidal, che aveva presieduto l’edizione 2014 del vertice, la Cop20, e ora è il responsabile del clima per il World wide fund for nature, Wwf (già World wildlife fund): «L’accordo su perdite e danni è un passo avanti», ha detto Pulgar-Vidal al New York Times, ma il fondo di compensazione che l’accordo crea «rischia di diventare un “fondo per la fine del mondo” se i paesi non si muovono più veloci per ridurre drasticamente le emissioni. Non possiamo permetterci un altro vertice sul clima come questo»@.

L’accordo su perdite e danni (loss and damage, in inglese)@ prevede l’istituzione di un fondo che compensi i paesi più poveri e vulnerabili per i danni provocati da disastri climatici che le emissioni dei paesi ricchi e il conseguente aumento delle temperature hanno contribuito a rendere più frequenti e intensi.

L’accordo rappresenta una svolta nel lungo e duro scontro fra gli stati del Sud del mondo, che da decenni sollecitano i paesi industrializzati a pagare per i danni causati al clima dalle loro economie, e le potenze come Usa e Ue, decise a evitare che queste compensazioni vengano viste come un’ammissione di responsabilità e per questo dovute per decenni a venire.

Un comitato di transizione, composto dai rappresentati di 14 paesi in via di sviluppo e 10 paesi sviluppati, avrà dunque l’incarico di preparare nel corso del 2023 tutte le raccomandazioni per creare il fondo e regolarne la gestione, in modo che possano essere discusse e adottate durante la Cop28 e che il fondo stesso diventi operativo nel giro di un paio di anni. Le risorse necessarie per le compensazioni, riportava Ferdinando Cotugno su Domani del 21 novembre 2022, «potrebbero essere tra i 300 e i 500 miliardi di dollari all’anno già entro la fine di questo decennio»@.

foto da screenshot della Cop27

I paesi già colpiti

Sherry Rehman – foto da screenshot della Cop27

«Abbiamo lottato per 30 anni su questa strada», ha detto la ministra per il clima del Pakistan, Sherry Rehman, rivolgendosi al presidente della Conferenza, il diplomatico egiziano Sameh Shoukry, nella plenaria conclusiva, «e oggi a Sharm el-Sheikh questo viaggio ha raggiunto il suo primo traguardo positivo. Signor presidente, lei ci ha promesso una Cop di implementazione e ce l’ha data. Per questo mi congratulo con lei e con tutti noi»@.

In molti si aspettavano in realtà una Cop di transizione e il fatto che sia stata presa una decisione come quella sulle compensazioni è in effetti un successo inatteso. La posizione del

Pakistan era quest’anno più dura e significativa, poiché il paese ha subito una delle peggiori catastrofi naturali della sua storia, con alluvioni che hanno sommerso un terzo del territorio, causato oltre 1.100 morti e provocato danni per circa 30 miliardi di dollari. Come presidente di turno della coalizione G77, che riunisce dal 1964 i paesi in via di sviluppo e ha il sostegno della Cina, il Pakistan ha guidato con successo lo sforzo negoziale affermando che riconoscere e risarcire le «perdite e i danni non è beneficenza, ma giustizia climatica»@. Gli scienziati che si occupano di clima e che hanno analizzato gli eventi estremi che hanno colpito il Pakistan si stanno mostrando abbastanza concordi nell’affermare che il riscaldamento globale ha avuto un ruolo non nel determinare il fenomeno – i monsoni, e le piogge abbondanti che questi portano, sono ricorrenti in Pakistan e la loro intensità subisce notevoli variazioni di anno in anno – ma nell’aumentarne la portata, incrementando la quantità di acqua evaporata dall’oceano che si è poi accumulata nell’atmosfera e ha intensificato le precipitazioni. Carbon Brief, un sito web britannico che si occupa di riscaldamento globale e temi connessi, ha una mappa del pianeta interattiva che mostra gli eventi meteorologici estremi legati al cambiamento climatico, quelli che non hanno con questo nessuna connessione e quelli per i quali i dati sono insufficienti per stabilire o escludere un legame@.

Mitigazione, pochi progressi

Al momento, il mondo si trova  su una traiettoria che lo porterà a un riscaldamento fra i 2,1 e i 2,9 gradi celsius entro la fine di questo secolo. Ogni frazione di grado in più rischia di esporre ulteriori milioni di persone a ondate di caldo, scarsità di acqua e inondazioni costiere dagli effetti potenzialmente letali@. Mantenere il riscaldamento del pianeta non oltre 1,5 gradi significa evitare che aumenti la frequenza con cui si presentano i fenomeni più estremi. Mezzo grado può sembrare poco, ma secondo le stime sarebbe sufficiente perché la quota di popolazione mondiale colpita da ondate di caldo estremo almeno una volta ogni cinque anni passi dall’attuale 14% al 37%@.

Per mitigare il cambiamento climatico, cioè prevenirne gli effetti e non solo limitarsi ad adattarsi a essi, il solo modo efficace è ridurre le emissioni. Ma su questo punto la Cop27 non è andata oltre i risultati ottenuti a Glasgow nella conferenza precedente. Anzi, come ha commentato durante la plenaria conclusiva un deluso Frans Timmermans, vicepresidente dell’Unione europea@, durante le negoziazioni ci sono stati troppi tentativi di tornare indietro rispetto alla già poco incisiva Cop26@.

In Egitto, i paesi membri non hanno raggiunto un accordo sulla riduzione dei combustibili fossili appoggiata da un blocco di paesi guidati dall’Unione europea, e il testo finale dell’accordo di Sharm el-Sheikh@ promuove accanto alle rinnovabili anche «fonti di energia a basse emissioni». «Dimmi che stai parlando di gas senza dirmi che parli di gas», commentano con ironia sui loro profili Instagram l’organizzazione ambientalista ZeroCo2 e l’illustratrice e attivista Alessia Iotti@.

L’Ue ha ottenuto il solo risultato di imporre il mantenimento della soglia di 1,5 gradi come limite accettabile per il riscaldamento globale. «Viviamo già in un mondo con un cambiamento di 1,2 gradi e questo mondo è già invivibile per molti», ha concluso Timmermans, «non possiamo fallire di nuovo nel tentativo di evitare il peggio».

foto da screenshot della Cop27

Il ruolo dell’Egitto

Un dato che rischia di non apparire in tutto il suo peso a chi osserva questi vertici dall’esterno è il ruolo decisivo degli aspetti organizzativi e logistici, a cominciare dal ruolo centrale del paese ospitante, che guida le negoziazioni e determina l’agenda.

Se alla Cop27 si è parlato tanto di perdite e danni, fino a raggiungere un importante accordo, è perché questo tema è molto sentito dai paesi a medio e basso reddito, e l’Egitto e uno di essi. Per questo la presidenza egiziana della Cop27 ha dedicato tempo e sforzi a raggiungere un obiettivo condiviso con altri paesi del Sud del mondo, mentre ha messo in secondo piano la mitigazione e la riduzione dei combustibili fossili.

L’Egitto ha fatto di più che trascurare la mitigazione: ha portato avanti la propria agenda di paese esportatore di gas. «Sotto diversi punti di vista», scriveva Ferdinando Cotugno su Domani il 13 novembre scorso, «la Cop27 per l’Egitto sta andando benissimo: partnership energetiche, affari d’oro e incontri bilaterali di prestigio»@.

La prossima Conferenza delle parti, Cop28, si svolgerà a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, uno dei dieci più grandi produttori mondiali di petrolio, e molti stanno già ipotizzando che sarà un’altra conferenza non abbastanza incisiva per la riduzione delle emissioni.

Chiara Giovetti


Come cooperavamo cinquant’anni fa

Negli anni Settanta la rivista Missioni Consolata aveva una rubrica che si chiamava «Appelli dal fronte», attraverso la quale presentava ai benefattori una realtà in missione e chiedeva il loro sostegno per risolvere un problema.

Cinquant’anni fa, nel gennaio del 1973, «Appelli dal fronte» era dedicata a Materi, villaggio nella centrale regione del Meru, ai piedi del monte Kenya. Padre Maggiorino Botta chiedeva ai suoi benefattori di aiutarlo a comprare una pompa, il motore, le tubature e i serbatoi per pompare l’acqua dal fiume Mutunga visto che nella zona, «arida e torrida», non c’era alcuna sorgente. Costo dell’iniziativa: due milioni di lire.

Oggi Matiri (pronunciato Materi ma scritto Matiri secondo la dizione inglese, ndr), gode ancora della presenza dei Missionari della Consolata. Vi prestano servizio due missionari keniani, i padri Stephen Murungi e Matthew Kirema, che seguono la comunità parrocchiale e trenta comunità periferiche.

Scrive Naomi Mwingi, dell’ufficio progetti dei Consolata fathers a Nairobi: «La maggior parte delle attività missionarie sono tuttora di prima evangelizzazione: le persone di questa zona sono ancora profondamente radicate nelle loro credenze e tradizioni culturali, che includono la stregoneria, le mutilazioni genitali femminili e la poligamia.

Il centro sanitario Matiri è sotto la gestione della diocesi di Meru, mentre la scuola elementare e la scuola tecnica sono gestite dalla parrocchia di Matiri; vi sono inoltre altre scuole private. La siccità, che colpisce buona parte del Kenya (20 contee, soprattutto del Nord, su 47), sta peggiorando la situazione in tutta la contea di Tharaka Nithi dove si trova Matiri: i fiumi si prosciugano e i residenti vanno a dormire a stomaco vuoto.

Per questo, la Chiesa cattolica di Matiri ha un programma di emergenza alimentare per sostenere le famiglie più colpite dalla siccità.

L’orto esiste ancora, ma data l’aridità della zona richiede costantemente acqua, che arriva ancora oggi alla missione e alla comunità circostante dal fiume Mutunga, oltre un centinaio di metri più in basso. Non ci sono pozzi d’acqua nella missione che è riuscita ultimamente a sostituire la vecchia pompa a motore con una a energia solare, ma questa pompa ha avuto qualche problema, che ora i missionari stanno cercando di risolvere».

Chi.Gio.

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2023, anno del miglio

Su proposta del governo dell’India, le Nazioni Unite hanno proclamato il 2023 anno internazionale del miglio. Anzi, dei vari tipi di miglio: caratterizzati da un alto valore nutritivo, si legge sul sito delle notizie delle Nazioni Unite. Essi sono un gruppo di graminacee a seme piccolo coltivate principalmente nelle zone aride dell’Asia e dell’Africa. Includono sorgo, miglio perlato, miglio indiano, fonio, panìco, teff e altre varietà più piccole.

L’Onu porta quest’anno il miglio al centro dell’attenzione per il ruolo che potrebbe giocare nell’attuale crisi climatica: si tratta infatti di un cereale che, rispetto ai più noti frumento, riso o mais, è in grado di crescere in condizioni più difficili, di siccità e di precipitazioni molto scarse, e ha una bassa impronta idrica.

Può, inoltre, contribuire a soddisfare i bisogni nutrizionali di un pianeta che, nel 2030, avrà 8,5 miliardi di abitanti e 9,7 miliardi nel 2050: è infatti ricco di vitamine e minerali, tra cui ferro e calcio, di proteine, di fibre, di amido resistente e ha un basso indice glicemico, che può aiutare a prevenire o gestire il diabete@.

Chi.Gio.

Spighe di teff in Etiopia – AfMC/Brusa Domenico

 




Cristiani e musulmani: una parola comune


A partire dal documento firmato nel febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb, un libro che segue le recenti tappe del dialogo tra le due più diffuse religioni al mondo, ricco di sfide difficili, ma belle.

Anche nel nostro tempo segnato da secolarizzazione e pluralismo, le religioni hanno un ruolo importante per la costruzione di un rapporto pacifico tra le culture.

Un segno di questo è la rilevanza assunta dal Documento di Abu Dhabi, poche pagine firmate da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar, il 4 febbraio 2019, nell’ottavo centenario dell’incontro di san Francesco d’Assisi con il sultano d’Egitto.

Ne parlano nel loro volume: Per una fratellanza umana. Cristiani e musulmani uniti nella diversità, edito da Paoline nel 2021, Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba, e Antonio Cuciniello, assegnista di ricerca in studi islamici, entrambi presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.

I due autori rileggono quel documento sotto il profilo dei rapporti tra la Chiesa cattolica e i musulmani, e lo inquadrano nel percorso compiuto negli ultimi decenni, indicandone gli orientamenti di fondo: il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità, la sincerità delle intenzioni (papa Francesco); il «proclamare con chiarezza ciò che abbiamo in comune» (Benedetto XVI); infine i quattro livelli della solidarietà spirituale enucleati da padre Maurice Borrmans, islamista francese e missionario dei Padri Bianchi: il dialogo dei cuori; il dialogo della vita; il dialogo audace su Dio e sull’uomo; il coraggioso dialogo del silenzio, in cui Dio parla al cuore di ciascuno.

Gli autori Barca e Cuciniello ripercorrono, quindi, alcune delle tappe del dialogo islamocristiano che hanno fatto maturare il Documento di Abu Dhabi.

Scrivono della Lettera aperta a sua santità papa Benedetto XVI inviatagli da trentotto sapienti musulmani nel 2006 dopo il suo famoso discorso di Ratisbona (per il quale il trascendentalismo islamico separava fede e ragione). In essa ribadivano che «l’unità di Dio, la necessità di amarlo e la necessità di amare il prossimo sono il terreno comune tra islam e cristianesimo», ricordando che Corano 16,125 invita i musulmani al dialogo con ebrei e cristiani.

I due studiosi della Cattolica ricordano poi la lettera indirizzata nel 2007 da 138 esponenti musulmani a capi religiosi cristiani, intitolata Una parola comune tra noi e voi, citazione del Corano 3,64: «Veniamo a una parola comune tra noi e voi». In essa si sostiene che le differenze tra le religioni non devono provocare odio e conflitto, ma il «gareggiare nelle opere buone» (Corano 5,48).

Nel 2016, trecento personalità musulmane da centoventi paesi, nella Dichiarazione di Marrakech sui diritti delle minoranze religiose nei paesi a maggioranza musulmana, auspicavano una «giurisprudenza della cittadinanza» come base comune per superare le discriminazioni religiose.

Infine, nel Documento di Abu Dhabi, breve e semplice, cristiani e musulmani hanno indicato insieme i valori che li accomunano e che appartengono anche all’etica laica delle dichiarazioni moderne dei diritti.

La fratellanza umana, in tutte le spiritualità, sostiene la dignità di poveri, deboli, vittime.

«In nome di Dio», musulmani e cristiani riconoscono questa fraternità e la cultura del dialogo.

Il pluralismo religioso è parte della volontà di Dio. I linguaggi religiosi orientano, più che definire. Il concetto occidentale di laicità è espresso col termine arabo che significa «civile», né militare, né confessionale.

In particolare, «Dio ha proibito di uccidere, perché chiunque uccide una persona è come se uccidesse tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se salvasse l’umanità intera», detto ebraico, poi islamico, ora anche cristiano, che suggerisce oggi l’illiceità di ogni guerra, incapace di realizzare giustizia.

Nel Documento sono affermati anche i diritti della donna.

Nasce un islam europeo che non è più solo importato. In Italia sono 2,7 milioni i musulmani residenti, tra cittadini italiani e stranieri.

Le giovani donne musulmane a scuola studiano più degli uomini, rispettano i genitori, ma non si riconoscono nel modello materno: cercano un compagno di vita da pari a pari. Se mettono il velo, lo fanno per scelta.

Nello stesso 2019, la dichiarazione, Una fratellanza per la conoscenza e la cooperazione, delle maggiori rappresentanze musulmane di Italia e Francia, ha aderito al Documento di Abu Dhabi e ha istituito, in scuole e università, consigli culturali per un patto educativo globale interreligioso.

Enrico Peyretti

Per approfondire

 

 

 

 

 

 

 

  • Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale. Guida alla lettura di Giacomo Costa, Elledici 2021.
  • Teologia del pluralismo religioso, Pazzini Editore 2013.
  • Il Corano. A cura di Layla Mustapha Ammar. Introduzione, traduzione e commento di Alessandro Bausani, BUR, 2006.
  • Cristianesimo e Islam in dialogo, Claudiana 2004.
  • Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi 2003.
  • Storie italiane di buona convivenza, EDB 2004.
  • Vite e detti di santi musulmani, TEA 1988.
  • Detti e fatti del profeta dell’Islām, Utet 2009.
  • Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 2004.
  • Per un consenso etico tra culture, Marietti 1995.

 

 

 

 

 

 

 


Librarsi per la pace

Inizia con questo numero una nuova collaborazione tra Missioni Consolata e il Centro studi Sereno Regis. In un tempo di generale «chiamata alle armi», sentiamo il bisogno di tutti i contributi possibili per far crescere la cultura della pace.

I l Centro studi Sereno Regis (Cssr) è uno spazio culturale nato a Torino nel 1982 dall’iniziativa di alcune persone impegnate nei campi della pace, nonviolenza, obiezione di coscienza, disarmo, ma anche dell’ambiente, educazione e partecipazione dal basso (ad esempio con il sostegno al sorgere dei comitati di quartiere).

È oggi uno dei più importanti e riconosciuti centri italiani di documentazione e promozione della cultura della nonviolenza e della trasformazione nonviolenta dei conflitti con un patrimonio archivistico unico nel suo genere.

La «mission»

La mission del Cssr si declina in tre ambiti trasversali: ricerca, formazione e azione, e prevede un forte investimento nella condivisione del suo patrimonio archivistico e dei suoi studi, attraverso un programma di attività mirate a intensificare la relazione con il territorio e al coinvolgimento di ampi settori della società con un approccio libero, inclusivo e cooperativo.

La programmazione culturale, che si fonda sull’utilizzo di discipline diverse in dialogo tra loro (tra cui, ad esempio, le arti e il cinema, oltre alle iniziative educative, alle analisi offerte in convegni, e così via), è indirizzata all’approfondimento, alla discussione, al confronto sui temi cardine dell’ambiente, della pace, del dialogo, della partecipazione democratica.

Domenico Sereno Regis

Il Centro studi prende il nome da uno dei suoi fondatori, scomparso prematuramente nel 1984, Domenico Sereno Regis, partigiano nonviolento e, tra le altre cose, instancabile animatore dei primi comitati di quartiere nella Torino del dopoguerra. Il tema della partecipazione consapevole e diffusa, infatti, è da sempre una cifra della vita associativa del Centro. Facilitare i processi partecipativi, dare voce a chi non ne ha, accompagnare lo sviluppo di associazioni e movimenti verso il raggiungimento dei loro obiettivi, fa parte delle competenze che negli anni l’associazione ha sviluppato insieme all’approfondimento delle «tecnologie sociali» che permettono a questi processi di raggiungere i propri obiettivi con inclusività ed equità.

Nonviolenza e riconciliazione

Le figure di Domenico Sereno Regis (1921-1984) e di Nanni Salio (1943-2016), quest’ultimo presidente del Centro studi fino alla sua scomparsa, hanno dato le radici culturali e impersonato le motivazioni politiche e filosofiche dell’associazione.

L’ambito socioculturale di riferimento nel quale il Centro studi si riconosce è quello più ampio e complessivo del Movimento internazionale della riconciliazione (Mir) e del Movimento nonviolento (Mn), a livello internazionale rappresentato dall’Ifor (International fellowship of reconciliation, sei premi Nobel per la pace), di cui il Mir è la sezione italiana, e dalla War resisters’ international, di cui è sezione italiana il Movimento nonviolento.

Luca Lorusso e Cssr

MIR E MN

Il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione) opera congiuntamente al Mn (Movimento nonviolento).
Sulla base dell’insegnamento dei maestri della nonviolenza (Gandhi, M. L. King e Aldo Capitini) il Mir è impegnato nella contestazione radicale della guerra e della dottrina militare, di un modello di sviluppo piramidale basato sulla rapina di risorse umane e naturali, di una democrazia formale che sancisce di fatto il sopruso del forte sul debole.

Persegue il fine di una società pacificata più che pacifica, dove cioè il conflitto venga risolto in modo nonviolento, ma non negato o rimosso. Per questo è attento alle dinamiche sociali, ai fatti politici locali e internazionali, a quanto si muove dal basso nella direzione di una crescita del «potere di tutti».
Gli strumenti del suo agire, in base al principio gandhiano della connessione tra mezzi e fini, rispondono integralmente ai criteri di verità, gradualità, lealtà verso l’avversario.
Il Mir, pur essendo di matrice religiosa, rispetta e valorizza la tradizione laica. Il Mn, pur essendo di matrice laica, rispetta e valorizza ogni fede religiosa.

Cssr

https://serenoregis.org
https://www.ifor.org
https://www.wri-irg.org




Allamano. Quattro anni con don Bosco


Visitando recentemente i locali utilizzati da san Giovanni Bosco a Valdocco (Torino) all’inizio dell’opera salesiana, mi sono interrogato sull’impronta che il santo educatore dei giovani può aver lasciato sul nostro Giuseppe Allamano che trascorse ben quattro anni nell’Oratorio salesiano (1862-1866). Erano gli anni della giovinezza dell’Allamano,  il quale, infatti, per tutta la vita avrebbe ricordato il tempo trascorso vicino a don Bosco.

creazione digitale

Lo stile educativo di don Bosco si basava fondamentalmente su tre capisaldi: «Ragione, religione, amorevolezza». Per «ragione» egli intendeva la formazione umana e civile dei giovani, tesa a prepararli ad affrontare il futuro come cittadini responsabili. «Religione» significava formazione religiosa, senza forzature, impartita con nozioni di catechesi e soprattutto con l’esempio di vita dei formatori. L’«amorevolezza» era da lui considerata l’elemento caratteristico che doveva accompagnare ogni aspetto della formazione dei giovani. Vicinanza e accompagnamento paterno e affabile nei riguardi dei giovani – asseriva – servono più di ogni altra componente formativa.

Questi tre aspetti sono diventati, a mio parere, parte irrinunciabile del bagaglio personale dell’Allamano, tanto da essere poi da lui utilizzati sia con i sacerdoti del Convitto che con i membri dei suoi due istituti missionari. Egli esortava i suoi giovani missionari non solo allo studio serio ma anche all’esercizio del lavoro manuale. Scriveva a quelli che già lavoravano in territori di missione: «Nelle località in cui sia possibile iniziare a promuovere colture di prodotti necessari od utili al proprio sostentamento, i missionari si adoperino a darvi sviluppo. Il che sarà pure una buona scuola per far apprezzare agli indigeni i benefici di una vita laboriosa e stabile».

Il beato Allamano visse tutta la sua vita nell’impegno senza riserve per diventare santo e ai suoi missionari amava ripetere sovente: «Prima santi poi missionari». Ciò che lui viveva lo volle instillare nei suoi figli e figlie. Diceva loro: «Condizione assolutamente necessaria per tutti e in ogni tempo, è il desiderio, la volontà di santificarsi. Si fa santo colui che lo vuole. Questo si richiede: avere fame e sete della santità».

Ciò che tutti hanno sempre ammirato nell’Allamano era, infine, la sua dolcezza e amorevolezza. Se egli era fermo nei principi, era umanissimo nell’applicarli agli altri. Il forte senso di
paternità ne era il segreto. Il prossimo, prima di essere considerato un individuo da istruire o correggere, doveva essere amato. Verso tutti, soprattutto i giovani, si sentiva veramente un «padre».

padre Piero Trabucco

Missionari presenti all’incontro di Murang’a nel 1905 – AfMC/Filippo Perlo


Murang’a 2

Dal 13 al 16 giugno 2022 si è svolto online il Convegno internazionale della famiglia Consolata «Murang’a 2», un evento per fare memoria della «Conferenza di Murang’a»: la missione del Kenya dove dal primo al tre marzo 1904, i primi missionari della Consolata, pieni di problemi all’inizio della loro esperienza in una terra sconosciuta, avevano deciso di fermarsi a pensare, a pregare, a preparare il futuro (vedi il dossier «Il sogno concreto» in MC 10/2022).

Un sogno realizzato

La Conferenza di Murang’a rappresenta una pietra miliare nella storia degli istituti dei missionari e missionarie della Consolata, in quanto ha elaborato una metodologia che costituisce le basi dello «stile consolatino» fondato sulla promozione umana e l’evangelizzazione, caratterizzato dalla formazione ed educazione tramite le scuole, il catechismo, i catechisti; sulla cura delle persone con i dispensari e gli ambulatori; sull’incontro interpersonale con la visita ai villaggi, lo studio delle lingue locali, la vicinanza ai popoli e alle persone, la formazione all’ambiente.

Murang’a 2 ha visto la partecipazione di 656 persone tra missionari, missionarie e laici della Consolata, e si è svolto nello spazio di quattro giornate imperniate ciascuna su una parola chiave: comunione, carisma, missione e sogno.

Come superiore generale, nel tirare le conclusioni di quel convegno, ne ho parlato come di «un sogno realizzato» che ci aiuta a riscoprire, quasi a reinventare, il carisma della vita consacrata rispondendo più direttamente ai bisogni e alle aspirazioni del nostro tempo pur restando fedeli al carisma del padre Fondatore.

Alla scuola di Allamano

I primi allievi e allieve, discepoli e discepole di Giuseppe Allamano videro sempre risplendere «un alone di santità» o di straordinarietà attorno alla sua figura e ai suoi gesti, anche minimi. Sentendosi amati e amate, «coccolati e coccolate» da lui, si diedero da fare per conservare tutto di lui (anche i capelli e i bottoni della sua veste), soprattutto il suo insegnamento, le sue calde raccomandazioni, lettere o bigliettini che volentieri scriveva a molti e a molte di loro.

Più passa il tempo, più Allamano cresce. Più si scava in profondità, più lo si ritrova ingigantito e presente. Questo prete, defunto da quasi un secolo, affascina e stimola ancora. Per noi, missionari e missionarie della Consolata «fa ancora notizia», non commemorazione, non rievocazione: fa ancora scuola. È lui, anche oggi, la novità, la spiegazione, l’attrattiva. Si va da lui non per visitare un monumento, ma per frequentare una persona viva, per ascoltare «un silenzioso che ha qualcosa da dire» (come lo ha definito suor Gian Paola Mina). Per riscoprire, ogni volta che ne sentiamo il bisogno, qual è la nostra vocazione, il nostro posto nella Chiesa, la nostra presenza nel mondo.

Tre perle

Desidero mettere in evidenza tre perle, tra le tante, dell’insegnamento di Allamano che possono orientare ancora:

  1. «Fare bene il bene»: ossia, ricerca della qualità della vita. La qualità della vita viene indicata da Allamano, come «principio ispiratore» della nostra vita e missione. È soprattutto la qualità nell’essere e nel fare missione che vorremmo assumere come principio ispiratore del nostro futuro.
  2. «Nella discrezione e semplicità»: la vita più che le parole del beato Fondatore ci insegna uno stile fatto di discrezione, semplicità e garbo. Sono atteggiamenti che nascono spontanei nella persona che si dona senza mirare a diventare centro d’attenzione, che punta a essere efficace nella sua azione senza giocare il ruolo di protagonista, che è semplice, accogliente dell’altro, aperta alla dimensione comunitaria.
    Esprime questo stile allamaniano il missionario, la missionaria che ha la coscienza di essere servo e serva, che sa ritirarsi nel tempo opportuno senza pretese, che propone ma non impone, che conosce il valore della gratuità. Basta ricordare quanto di lui disse il giornale «Il Momento» il giorno dopo la sua morte: «Non era l’uomo dell’ostentazione. Non era l’uomo eloquente. Era l’uomo del silenzio operoso. Noi crediamo che la caratteristica di tutta la sua vita sia stata questa».
  1. «L’amore alla gente»: «L’Allamano ebbe a cuore la gente, non tanto le idee. E credo che se tornasse per indicarci qual è la prima cosa che dobbiamo fare, continuerebbe a dirci: “Abbiate cura della gente; abbiate a cuore la gente. Beato te perché, quando verrai a visitarci per presentarci la santità di Dio, ci dirai ancora una volta che la prima cosa che dobbiamo fare è avere tanta tenerezza verso tutti quelli che incontriamo”» (don Dario Berruto, rettore del santuario della Consolata).

Ispirati a Murang’a

Siamo eredi di un passato, responsabili di un presente, costruttori di un futuro dalla nostra povertà. Solidali con i nostri popoli e tra noi, dobbiamo cercare di seguire il passo del Signore nel nostro oggi, qui e ora.

Il nostro metodo missionario è caratterizzato da vicinanza, incontro, dialogo e accompagnamento. La missione con i poveri aiuta a superare i rischi dell’autoreferenzialità, senza mai dimenticare che la missione nasce dall’incontro con Cristo. Il missionario, la missionaria, prima di tutto deve essere audace e creativo, al punto da ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi della missione, perché è necessario ripensare tutto alla luce di ciò che esige lo Spirito.

In questo sforzo per rispondere al Signore, contempliamo Maria, missionaria dei cammini di Dio nella storia, «Vergine magnanima del Magnificat», stella dell’evangelizzazione rinnovata. Ella è per noi modello di autentica missione.

padre Stefano Camerlengo

Gruppo di missionari e missionarie dopo la celebrazione della messa presieduta da padre Stefano Camerlengo nella festa della Consolata 2022 – AfMC/Gigi Anataloni

 


La carità nella verità

La vita e il genio di Giuseppe Allamano si esprimono in uno zelo ardente per vivere la verità di Cristo e promuoverne la presenza nelle persone, nelle culture, nella società e in ogni aspetto della vita quotidiana.

 Nella vita della Chiesa occupa un posto di rilievo la storia delle varie spiritualità che sono come dei «tesori viventi» lasciati da individui arricchiti da Dio con un dono sacro e speciale di intuizione e di convinzione.

Papa Benedetto XVI, nell’enciclica «Caritas in veritate», ha affermato che verità e carità in Gesù «si rendono reciprocamente testimonianza, perché l’una non può stare senza l’altra». Anche Allamano si era già avventurato in un’appassionata ricerca per penetrare il significato di questa relazione in ogni aspetto della vita individuale e sociale. Un profondo e incondizionato amore per la verità è divenuto come l’ancora o il fondamento della sua spiritualità. Ne sono prova le sue parole ai missionari quando ha consegnato loro le prime Costituzioni dell’istituto nel 1923: «Ricevetele, o carissimi, non come dalla mia mano, ma dalla mano del Signore e della SS. Consolata che a questo istituto vi chiamarono, con vivo spirito di fede. Questo vi posso assicurare, che ogni singola regola, e non dubito di dire ogni singola parola, fu oggetto di serio studio, di lunghe considerazioni, specialmente di molte preghiere».

Vivere la carità nella verità è saggezza

La spiritualità allamaniana è l’antitesi della mentalità del «ghetto»: essa è fatta di sorgenti e ponti, non di muri e steccati. Allamano si deliziava a invogliare i suoi missionari a contemplare il vero, a dialogare con la gente, a capire la realtà locale con le sue culture. Uno dei suoi slogan era: «Ci vuole fuoco per essere apostoli». Sicuramente intendeva un fuoco nel dialogo con l’altro, che non sia un semplice scambio di vedute, ma una ricerca appassionata della verità.

In più Allamano era convinto che la ricerca intelligente della verità, quando non è fine a se stessa o sterile soddisfazione intellettuale, si orienta necessariamente alla missione, che ha come parte integrante la formazione e promozione umana degli individui e, di conseguenza, l’autentico progresso della società.

La spiritualità nella «pubblica piazza»

Per evangelizzare le persone nella «pubblica piazza», cioè nella società, ci vuole il vero fuoco missionario, non tiepidezze o mezze verità. Oggi, il secolarismo pervade la maggior parte delle società. Esso respinge la scuola di Dio, pone il Creatore fuori gioco, mettendo al centro la creatura.

Conoscendo lo spirito di Allamano, ecco quale sarebbe la sua denuncia al riguardo: distaccata dalla verità di Cristo, la persona afferra solo mezze verità, opinioni parziali e pregiudizi travestiti da dichiarazioni importanti e imperativi categorici. Così la sua condotta scivola nel compromesso permanente, che ottunde lo spirito. Gradualmente l’autentica libertà umana, che deriva dall’amore alla verità, si riduce a «scelte» parziali compiute in modo indiscriminato, quasi obbligatorie perché in voga, subito sostituite da altre nell’insaziabile ricerca di novità.

In questa mentalità secolarizzata Allamano ci invita ad aderire con tutte le nostre forze a ciò che è vero e buono. «Tutto faccio per il Vangelo» (1 Cor 9,23), e Allamano aggiungeva: «Tutto, tutto! Mi spenderò e mi sacrificherò». E continuava: «Non poniamo riserve o indugi nella dedizione di noi stessi per la salvezza delle anime… Ah, non sarà mai missionario chi non arde di questo fuoco divino!».

Fare il bene bene

Come possiamo realizzare la verità unita all’amore, che si rivela essere il fondamento indispensabile per il bene di ogni famiglia e di ogni comunità? Come ridare speranza alla società perché raggiunga il suo fine?

Allamano ci può aiutare anche in questo. La sua robusta spiritualità lo ha aiutato a dare risposte a queste domande. Egli ha cercato per prima cosa la coerenza e l’integrità della propria persona attraverso ciò che definisce «la necessità della scienza», intesa come continua ricerca della verità su Dio e sull’uomo. Ha così raggiunto una grande maturità, che lo ha reso idoneo a diventare l’uomo dell’amore verso gli altri, cioè l’uomo dell’aiuto e del consiglio.

Allamano ha proposto lo stesso suo percorso anche ai suoi figli: «Essendo voi missionari, la vostra scienza è molto più ampia: dovete attendere principalmente agli studi sacri e secondariamente allo studio ed esercizio dei lavori manuali, e poi del catechismo, delle lingue e di quelle nozioni che possono aiutarvi a fare in missione maggior bene».

Quando parlava di studio, Allamano non intendeva solo un’attività intellettuale, ma un impegno di ricerca e quindi di formazione progressiva e continua, che non fosse fine a se stessa, ma in funzione del servizio del prossimo.

La vera scienza porta a Dio e all’uomo in armonia con la natura. In questa prospettiva si comprende l’importanza che l’Allamano dava anche al lavoro manuale. Educarsi alla comprensione di ciò che costituisce il vero essere spirituale e morale di ognuno entra in quell’impegno che Allamano spiegava con l’espressione «fare il bene bene», in base al quale, mentre si conosce il valore immutabile di ogni persona, la si ama in modo concreto.

Questa intuizione è di grande attualità. Infatti, oggi la questione della verità della persona umana, della sua natura e dignità, si è come eclissata; diverse espressioni dell’amore umano appaiono banali e persino distorte. Al contrario Allamano insegna che l’amore, se si illumina con la fede e la verità, conduce l’uomo a un fine «alto», che garantisce una felicità duratura e indirizza alla società, che nella sua espressione più elevata diventa missione «ad gentes».

Thomas Ishengoma

 

 

 




Come i Magi, portando doni


Le celebrazioni del Santo Natale avvengono rispettivamente il 25 dicembre per i cattolici e il 7 gennaio per le chiese ortodosse e i greco cattolici. Tra queste due date don Leszek Krzyża ed io siamo stati nuovamente in Ucraina per portare aiuti umanitari e incontrare le comunità.

Dall’Italia sono partiti due grandi tir con destinazione rispettivamente Odessa e Karkhiv per un totale di oltre 35 tonnellate di aiuti, raccolti con un progetto realizzato dall’Associazione Eskenosen di Como, il gruppo SOS emergenza Ucraina Cantú, la Caritas della comunità pastorale San Vincenzo di Cantù, la parrocchia di Rebbio-Como e il sig. Francesco Aiani e alcuni amici di Milano grazie ai quali sono state raccolte tavole di legno per chiudere le finestre degli edifici bombardati, e anche generatori di corrente elettrica, cibo, medicine oltre a una cospicua somma devoluta per acquistare sul posto piccole stufe casalinghe. Noi stessi abbiamo trasportato sulla macchina sei piccoli generatori e scatole di medicinali. Il programma del viaggio è stato creato giorno dopo giorno tenendo conto dei continui combattimenti in alcune zone del paese e rispondendo ai tanti inviti, ma anche ricevendo in diretta garanzie e suggerimenti sulle strade da percorrere. I nostri spostamenti sono stati sempre seguiti dall’Ambasciata italiana a Varsavia così come dalla Nunziatura apostolica in Ucraina.

1° gennaio

Il primo dell’anno arriviamo a Leopoli in serata. Leopoli è una grande città vicina al confine polacco. Qui vivono centinaia di migliaia di profughi provenienti dalle regioni più colpite. Purtroppo, anche qui sono avvenuti bombardamenti soprattutto sulle centrali elettriche della città e provincia. Don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio aiuto alla chiesa nell’Est presso la Conferenza episcopale polacca, con cui viaggio, ha contatti in tutto il paese. Telefoniamo alle Suore Francescane di frate Alberto (Fratelli Albertini e Suore Albertine), una congregazione polacca, per chiedere ospitalità per una notte. La notte trascorre tranquilla.

2 gennaio

Foto 1 – Fratelli Francescani di padre Alberto distribuiscono cibo ai poveri

Al mattino ci raggiunge Rika Itozawa assistente di don Leszek, che era già in Ucraina da qualche giorno in un orfanotrofio visitato nei viaggi precedenti. Prima di lasciare la città le suore ci mostrano il complesso in costruzione che prevede una nuova parrocchia e una casa di accoglienza per giovani madri coi loro bambini. Molte sono le donne che soffrono non solo a motivo della guerra, ma anche per gravi problemi familiari. Qui fra poco potranno trovare conforto e iniziare una nuova tappa di vita. A fianco di questo centro, sempre in città, incontriamo i fratelli della stessa congregazione che quotidianamente distribuiscono cibo ai senza tetto e ai rifugiati (foto 1). Li salutiamo lasciando un’offerta e anche un nuovo tabernacolo comprato in Polonia per la nuova cappella.

Lo stesso giorno il nostro viaggio continua in direzione di Kiev. Raggiungiamo la capitale in serata accolti nella Nunziatura Apostolica. Kiev si trova nel centro del paese ed è il crocevia per tutte le direzioni delle città più importanti. Fino la notte precedente al nostro arrivo a Kiev sono stati lanciati molti razzi e droni, quasi tutti intercettati dalla contraerea. Infatti, la difesa ultimamente è molto migliorata e le percentuali degli abbattimenti sono molto alte. Purtroppo, i detriti non si possono controllare e a volte causano danni. Su uno di questi lanciato la notte di Capodanno c’erano scritti ironicamente gli auguri di buon anno. A sera facciamo un breve giro della città. (foto 2).

3 gennaio – Odessa

Foto 3 – Don Leszek consegna due generatori al cancelliere del vescovo di Odessa (mons. Stanislav Šyrokoradjuk).

La mattina dopo, ristorati e riposati, partiamo per il Sud, destinazione Odessa, che raggiungiamo dopo poche ore di viaggio. La città che si affaccia sul Mar Nero è ricca di storia e di cultura, ed è il porto principale da cui partono gigantesche navi container che trasportano tonnellate di cereali per tutto il mondo. Da quando è scoppiata la guerra queste navi sono rimaste a lungo bloccate nel porto e questo ha innescato una gigantesca crisi con il rialzo dei prezzi in tutto il mondo. La zona del porto e la spiaggia sono minate, non sono accessibili e non si possono fotografare. Odessa deve difendersi dal tentativo di occupazione, vero obiettivo che garantirebbe il totale controllo del traffico marittimo. La nostra visita è breve. Incontriamo il vescovo locale mons. Stanislav Šyrokoradjuk, a cui lasciamo due generatori di corrente e una somma di denaro per gli aiuti da acquistare sul posto (foto 3). Qui deve arrivare a giorni uno dei due tir provenienti dall’Italia con un carico di generatori e di assi di legno. Vediamo solo velocemente la piazza centrale dove al posto della statua della zarina Caterina II oggi sventola la bandiera ucraina (foto 4). Questa città, infatti, come le altre vicine sulla costa, come Mykolaiv e Kherson, sono state costruite dai russi e ancora oggi la lingua più parlata qui è il russo. Queste premesse però non sono bastate alla popolazione locale per accettare l’occupazione, al contrario ci si difende con tutte le forze.

Da Odessa ci muoviamo per raggiungere in serata Mykolaiv, che è anche sulle sponde del Mar Nero. Sono molti i camion che incontriamo durante il viaggio che termina dopo due ore. Ci accoglie un confratello di don Leszek, don Alessandro, giovane prete ucraino parroco del Santuario di san Giuseppe, una delle due chiese cattoliche della città. Con don Alessandro vivono due suore benedettine. Questa zona e duramente provata dalla mancanza di corrente e di acqua. Il danneggiamento della struttura idrica obbliga l’uso della acqua salata marina che a causa dell’acidità del sale rovina spesso le condutture. Durante la notte suonano le sirene di allarme senza conseguenze. Qui è la quotidianità.

foto 4 – Odessa, piazza centrale, dove al posto della statua della zarina Caterina II oggi sventola la bandiera ucraina

4 gennaio – Kyselivka

Il giorno successivo don Alessandro ci accompagna nel villaggio di Kyselivka, dove c’è la chiesa a lui affidata oltre al santuario dedicato a Maria Immacolata. Il villaggio di Kyselivka si trova a 40 km chilometri da Mykolayiv nell’oblast di Kherson. Lo spettacolo che incontriamo è desolante: tutto qui è distrutto. (foto 11) Dopo un’occupazione durata qualche settimana i russi sono indietreggiati per alcuni chilometri e da lì hanno lanciato in continuazione missili che hanno devastato tutto, chiesa compresa. Passeggiamo tra le rovine delle case incontrando solo cani magri e spaventati che scappano al vederci. La chiesa, che don Leszek venti anni fa aveva rinnovato, oggi è un ammasso di rovine essendo stata colpita da quattro razzi (foto 5-6). Un quinto razzo inesploso lo troviamo nei pressi. Avvertiamo i soldati presenti di modo che si adoperino per mettere in sicurezza il luogo. Sono tanti i colpi inesplosi così come le mine lasciate e che gli artificieri fanno brillare bonificando la zona (foto 12-13). In questo villaggio vivono pochissime persone che incontriamo con le suore e don Alessandro. Lasciamo a loro un generatore e dei vestiti invernali. (foto 7-8) Poi siamo invitati per una cena durante la quale cantiamo i tradizionali canti natalizi. Incontriamo una bambina sorridente che si avvicina. Ai piedi ha un solo pattino a rotelle. Le chiediamo dove sia l’altro pattino e lei ci risponde divertita: «a casa». (foto 9) Siamo accompagnati a vedere gli effetti dell’esplosione di un magazzino di concime altamente combustibile, il razzo che lo ha colpito a provocato un cratere largo decine di metri. (Foto 10)

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La sera concludiamo la giornata con una cena. Ci raggiunge il parroco di Kherson, la città sul fiume a poche decine di chilometri da Mykolayiv. Don Massimo è un giovane sacerdote diocesano parroco dell’unica chiesa cattolica di Kherson. La città liberata a novembre si trova sulla sponda sinistra del fiume Dnieper (o Dnipro), lì dove il fiume sfocia nel mar Nero. Dopo la liberazione l’esercito russo si è ritirato sulla sponda opposta del fiume e da lì continua incessantemente e colpire la città e i dintorni.

Don Massimo ci racconta di quando la vigilia di Natale due razzi hanno colpito la sua chiesa uno entrando dal tetto il secondo nella cantina. In chiesa cerano le donne che stavano preparando le feste natalizie. Miracolosamente i razzi non sono esplosi. Tuttavia, vediamo la preoccupazione del parroco nel diffondere questa notizia nel web con filmati che potrebbero essere vista dagli occupanti. Ci spiega infatti che se non è successo questa volta potrebbe accadere nuovamente con esiti ben peggiori. Anche a lui doniamo un generatore di corrente e un’offerta.

5 gennaio

Il mattino dopo ci rimettiamo in viaggio per attraversare il paese da Sud a Est con direzione Karkhiv. La strada che ci consigliano passa per le città di Krzywy Róg e di Dnieper, lasciando sulla destra la linea del fronte che passa per Zaporizhzhia.

Foto 14 – Cucina inviata dalla protezione civile italiana alla comunità dei Salettiani

Il viaggio è tranquillo. Ci fermiamo per un saluto a Krzywy Róg presso la comunità dei Salettiani. In questa città di miniere lunga ben 50 km, è stata aperta una mensa con l’aiuto della Protezione civile italiana che ha inviato una cucina. (foto 14)

La pausa è breve. Riprendiamo il viaggio per arrivare a Dnieper, la città che dà il nome al più grande fiume ucraino. Qui pranziamo presso la comunità dei frati Cappuccini. Sono molto ospitali. La città è senza energia elettrica. Neanche i semafori funzionano e questo rende il traffico caotico. Ci raccontano che da tempo stanno aspettando un generatore che mai arriva. Cogliamo l’occasione per lasciarne uno a loro dalla nostra macchina. Grande è la soddisfazione per questo dono, infatti l’unica illuminazione erano le lampadine di Natale collegate a delle normali batterie stilo. (Foto 15)

In serata, stanchi per il lungo viaggio sotto una pioggia battente, arriviamo a Kharkiw o meglio ci ritorniamo dopo due mesi. Siamo ospitati da don Wojciech, sacerdote polacco direttore diocesano della Caritas locale. Qui è previsto l’arrivo del secondo tir di aiuti umanitari.

Foto 15 – Dono di generatore alla comunità dei frati cappuccini

6 gennaio

La mattina del 6 gennaio concelebriamo in cattedrale la messa dell’Epifania, festa che esprime l’università della salvezza portata da Gesù omaggiato dai Magi (foto 16). Tra i fedeli presenti c’è anche un soldato. Durante il pranzo con il vescovo locale siamo interrotti da alcune lontane esplosioni che solo il vescovo sente e che ci fa notare, essendo lui abituato da mesi. Con un mezzo sorriso, ci dice qui è la quotidianità. La città si trova a soli 30 km dal confine con la Russia.

Nel pomeriggio siamo accompagnati in macchina nei villaggi vicino al confine con persone che hanno l’autorizzazione a portare aiuti umanitari. Rapidamente la temperatura scende in poche ore fino a -20°. Lungo la strada che si dirige verso il confine vediamo i resti dei combattimenti. I russi infatti erano arrivati fino alla periferia della città per poi essere respinti al di là del confine. Il nostro autista, un volontario della Caritas, ci racconta molti dettagli. Tra questi ci mostra con orgoglio la foto del figlio pilota dei caccia ucraini, morto a 24 anni a soli due mesi dal matrimonio. Il papà lo ricorda senza emozionarsi mostrandoci le sue foto, facendo trasparire l’orgoglio per suo figlio che è stato premiato come eroe nazionale per aver evitato la caduta sulla città del suo aereo colpito, rinunciando a salvarsi la vita catapultandosi. (foto 17-18-19) (20-21-22)

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Visitiamo due famiglie tra le pochissime che ancora qui abitano. Ci raccontano che sono senza corrente dal febbraio scorso. Per scaldarsi usano una stufetta di ghisa mentre una batteria della macchina fornisce un minimo di energia per una lampadina (foto 23 e 24). Ci mettiamo alla ricerca di persone rimaste da sole nelle case. Per trovarle osserviamo se dai camini esce del fumo, segno della presenza in casa di qualcuno. Troviamo un uomo che dopo alcuni minuti apre la porta in risposta al nostro clacson e riceve così del cibo in scatola e, cosa importante, lascia il suo numero di telefono per mantenere un contatto coi volontari.

Ritorniamo al calar del buio, che arriva molto presto in questa stagione, per celebrare la vigilia del Natale ortodosso. Siamo invitati da delle famiglie che abitano nelle cantine dei palazzi colpiti, le stesse famiglie che avevamo incontrato a novembre. Si rallegrano molto della nostra presenza e tra un canto e una preghiera consumiamo la cena che hanno preparato secondo la tradizione. (Video 25)

7 gennaio

Il giorno successivo arriva il tir con gli aiuti spediti dall’Italia e dalla Polonia. Una gioia per il giorno di Natale. La temperatura e molto rigida. L’autista polacco Michele è riuscito ad arrivare in tempo prima del nostro rientro in Polonia. Sono pochi gli autisti che arrivano fino a Karkhiv. (foto 26)
Dopo questo possiamo finalmente metterci sulla strada del ritorno passando solo a salutare le suore Orionine che fuori città si occupane di giovani mamme.

Foto 26 – Camion di aiuti inviato dall’Associazione Eskenosen di Como

Sul tragitto, una inaspettata sorpresa. Incontriamo tre bambini che passano di casa in casa cantando i canti natalizi, tradizione presente in diversi paesi del centro Est Europa. Ci fermiamo per dargli della cioccolata. Ci sorridono e ci ringraziano. (Foto 27) Siamo noi a ringraziarli per portare l’annuncio della buona novella in situazioni così difficili.

Foto 27 – i tre piccoli cantori

Il viaggio di ritorno prenderà due giorni a motivo della lunghezza e dei controlli. L’ultima notte la trascorriamo di nuovo in nunziatura a Kiev dove il personale ci attende per la cena che consumiamo in allegria. (foto 28) Le suore che qui lavorano, di rito greco cattolico, cantano i canti tradizionali di Natale.

Alla fine di questa lunga cronaca mi sento di ringraziare il Signore per averci guidato, le tante persone che ci hanno sostenuto con la loro preghiera e le loro offerte. La pace purtroppo e ancora lontana. Per questo senza scoraggiarci continuiamo a pregare per la pace e a costruirla attorno a noi. (Foto 29)

padre Luca Bovio, IMC

Foto 28 – Cena in nunziatura a Kiev

Foto 29 – Padre Luca Bovio con don Leszek e Rika

 




Sommario MC Gennaio-Febbraio 2023


La rivista di Gennaio-Febbraio è disponibile qui dal 15 gennaio.

L’inizio del nuovo anno ci veda uniti nell’impegno a essere testimoni di Consolazione con grande speranza e coraggio.


Editoriale

Centoventicinque

Dopo dodici direttori, oltre millequattrocento numeri e 60mila pagine, MC entra nel suo 125° anno di onorato servizio all’evangelizzazione nel nome della Consolata. Periodico fondato dal beato Giuseppe Allamano e da subito affidato alle mani capaci del canonico Giacomo Camisassa, nel gennaio 1899 esce «l’anno 1 – n. 1» de «La Consolata». Nasce dopo che, nel 1898, la città di Torino ha vissuto momenti di intensa religiosità mariana e mentre si prepara, per il 1904, alla «celebrazione dell’ottavo centenario del miracolo del cieco di Brianzone (sic invece di Briançon)» con il ritrovamento del quadro della Consolata. Con il periodico, infatti, l’Allamano vuole offrire ai torinesi e ai fedeli di tutto il Piemonte «studi, notizie e relazioni sulla divozione della Consolata fuori del suo santuario in Torino: in Piemonte specialmente, dove esistono santuari, cappelle, compagnie che dal suo nome si intitolano. Daremo notizie sulla divozione della Consolata nel resto d’Italia, in Francia, nell’Inghilterra e nelle Americhe, dove i nostri migranti portano questo tesoro di pietà e di speranza» (da La Consolata 1/1899).


Dossier

Contro la tratta di esseri umani: «Fanciulla, alzati!»

Una rete mondiale che lotta contro la tratta di persone, Per un mondo senza tratta

Il traffico di esseri umani è un crimine grave, molto diffuso nel mondo, a tutte le latitudini. Nel 2009 diverse realtà in lotta contro questo flagello si sono unite dando vita a una rete globale. Pubblichiamo in questo dossier un’intervista esclusiva alla sua coordinatrice internazionale e riportiamo alcuni estratti dell’ultimo rapporto che presenta attività e risultati raggiunti dalla rete.


Articoli

Foto Fernando Florez.

Colombia. Il vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano: Dieci anni di sogni e sognatori

È un giovane vicariato posto in una regione amazzonica tanto affascinante quanto difficile. In queste pagine, mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza, il vescovo che lo guida, ne ricorda il decennale (2013-2023) della nascita.

Puerto Leguízamo. Ricordare è qualcosa di essenziale nella vita umana. La memoria è alla base della nostra identità e del rapporto con il mondo in cui viviamo. È la mappa dei nostri ricordi che ci dice chi siamo e dove siamo. Basta, infatti, un blackout della memoria per perdere la nozione di noi stessi, del mondo e del nostro posto in esso, come succede a volte alle persone anziane.

Questo febbraio celebriamo i dieci anni (febbraio 2013 – febbraio 2023) di vita e storia del vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. E, quando parliamo di celebrare, ci riferiamo a quel «ri-cordare» che, etimologicamente, significa riportare al cuore il sognato, il vissuto, ciò che abbiamo raccolto («cor-cordis», cuore, il muscolo che dagli antichi era ritenuto sede della memoria). Anche se pare ridondante ripassare attraverso il cuore ciò che dal cuore è uscito e ciò che è stato fatto mettendoci il cuore, è così che possiamo contemplare ciò che abbiamo vissuto in questi dieci anni di storia, sfide e opportunità.

Foto: Mauricio Zina

Brasile. Francescani a San Paolo: Il tè del padre

Frei Gabriel è un giovane francescano della metropoli paulista. Con i suoi confratelli distribuisce pasti ad affamati e senzatetto che ogni giorno, a centinaia, fanno la fila davanti al suo convento.

San Paolo. «Questa città è estenuante. È più facile rubare che chiedere l’elemosina», dice un senzatetto a un altro, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto alla richiesta di una moneta.

Ci sono quarantamila senza tetto nella città di San Paolo del Brasile, la metropoli più grande d’America. Il suo centro storico è un posto dove nessuno ti raccomanda di andare.

Praça da Sé, il piazzale che si estende di fronte alla cattedrale neogotica, è il luogo di ritrovo di centinaia di senzatetto (população em situação de rua). In gran parte uomini, vivono accampati in tende o piccole baracche, avvolti nelle coperte grigie, tutte uguali, distribuite dal comune, chiedono l’elemosina, vendono oggetti recuperati chissà dove, giacciono stesi senza sensi sotto gli effetti del crack. Cenciosi, a volte, si accalcano attorno a un predicatore che declama versetti della Bibbia e alza la voce quando nomina «il diavolo, il male!».

A Milano, il secondo Festival della Missione: Svelare l’umano condivisibile

Quattro giorni di convegni, aperitivi missionari, mostre, laboratori, spettacoli. Cento ospiti, centoventi testimonianze, duecento volontari, trentamila partecipanti. Grandi quantità legate a grande qualità e profondità nell’affrontare temi cruciali. Per la vita della Chiesa e della società.

Arriviamo alle colonne di San Lorenzo, a Milano, nel pomeriggio di giovedì 29 settembre.

Sta per iniziare uno dei molti eventi in programma in questa piazza fino a domenica 2 ottobre nella cornice del secondo Festival della Missione. Il cielo è incerto se chiudersi o lasciare il campo a un sole intenso e caldo.

Qui c’è il cuore della movida milanese e, allo stesso tempo, il cuore storico della chiesa Ambrosiana. La basilica sorta tra il IV e il V secolo, infatti, è tra le più antiche della città, e oggi si trova in un contesto di vie molto affollate non distanti dal Duomo, disseminate di bar, locali e negozi.

Sul sagrato, nello spazio suggestivo tra la facciata della chiesa e le antiche colonne, è allestito un palco con megaschermo. L’immagine proiettata è quella di un gomitolo composto da fili di diversi colori dal quale ne esce uno rosso a comporre la parola «missione». È il logo del Festival: un globo terrestre che non presenta confini ma i colori intrecciati dell’umanità. Il tema dell’intero evento è «Vivere perdono»: un gioco di parole nel quale il dono è, allo sesso tempo, causa e fine del vivere.

(Photo by Andrea Ronchini, Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Ucraina e conflitti internazionali: i principi e i saperi della nonviolenza. La guerra dei sonnambuli

Nel tempo del pericolo nucleare, i decisori politici e l’opinione pubblica sono prigionieri della logica binaria che non vede alternative alla violenza per rispondere alla violenza (e «vincere»). È necessario rimettere al centro i principi e i saperi della resistenza nonviolenta. Prima che sia tardi.

Di questi tempi bisognerebbe rileggere il libro I sonnambuli dello storico Christopher Clark che descrive tutti coloro che avevano le leve del potere e dell’informazione nel 1914 come sonnambuli, apparentemente vigili, ma incapaci, in realtà, di rendersi conto che stavano conducendo il mondo nel baratro di quella «grande guerra» che papa Benedetto XV avrebbe definito «l’inutile strage».

Foto Ozan Kose – AFP.

Iran. Da rivolta a rivoluzione? Velo, pallone e turbante

Tutto è iniziato con la rivolta delle donne contro l’obbligo del velo. Poi, sono arrivati i mondiali di calcio con le proteste (più caute) dei calciatori. Il clero sciita al potere ha risposto con la repressione e la violenza. Basterà per fermare un popolo stanco della dittatura teocratica?

Nella prima partita dei mondiali di calcio in Qatar, quando la nazionale iraniana e la nazionale britannica sono entrate in campo, il primo pensiero è andato a come si sarebbero comportati i giocatori dell’Iran.

A cantare subito l’inno, lunedì 21 novembre, sono stati gli inglesi. Per la prima volta, hanno intonato a un mondiale «God save the king». Quando lo speaker dello stadio di Doha ha annunciato l’inno iraniano, sono partite le note. Ma, in solidarietà con le proteste, nessuno degli undici calciatori ha cantato i suoi versi:

Eswatini. Accorato appello al dialogo e alla pace. Un paese in guerra con se stesso?

Dopo i disordini del 2021, gli insistenti appelli al dialogo lanciati da tutte le Chiese del paese sembravano aver aperto vie di speranza.In realtà, nuovi episodi di violenza ai primi di ottobre 2022, segnalano una situazione che sta degenerando, come scrive il vescovo in questo testo indirizzato alla sua gente, ma anche a tutti noi.

Alcuni di noi non hanno mai dimenticato la violenza sperimentata in eSwatini nel giugno 2021@. Nel mio caso perché non ero riuscito a raggiungere casa a Manzini dopo un incontro a Mbabane con il primo ministro in carica. I blocchi istituiti lungo la strada dai giovani mi avevano costretto a cercare un posto alternativo dove dormire. Avevamo trascorso quella notte ascoltando una sparatoria nelle vicinanze. La mattina seguente ci eravamo svegliati trovando pneumatici e veicoli bruciati e pietre sulla strada.

Le domande naturali che ci poniamo sono: a che punto siamo, un anno e mezzo dopo? Che cosa è stato fatto da allora?

Quattro secoli di missione nel mondo. Da «Propaganda» a «Evangelizzazione»

Sotto il titolo «Euntes in mundum universum» (andate in tutto il mondo), si è svolto, dal 16 al 18 novembre 2022, presso la Pontificia università Urbaniana, il Convegno internazionale di studi per celebrare il IV centenario della «Sacra congregatio de Propaganda Fide» (22 giugno 1622-2022).

Nata nel XVII secolo in pieno contesto coloniale, Propaganda Fide (lett. «propagazione della fede», ndr) ha posto al centro della Chiesa l’azione missionaria che ha portato al rifiuto della colonizzazione e del razzismo ad essa correlato, e ha scelto il rispetto delle culture e delle lingue di tutti i popoli.
È stato un percorso segnato inizialmente dalla missione in stile coloniale, per giungere a quella interculturale. Un percorso che è passato dal conflitto e scontro al dialogo nell’incontro con le diverse culture del mondo.

Tutti i relatori del convegno, provenienti da nove nazioni dei cinque continenti, nelle cinque sessioni di lavoro hanno sottolineato l’importanza di «Propaganda Fide» e della sua missione evangelizzatrice nella Chiesa.

 


Rubriche

Noi e Voi

Un Grazie dall’Ucraina

Sia lodato Gesù Cristo.
Carissimi fratelli e sorelle, consentitemi, sotto il suono della sirena, che invita a nascondersi nel rifugio anitaereo, di esprimere a voi e alle vostre famiglie la mia più profonda gratitudine e una preghiera di riconoscenza per il vostro cuore aperto, per il vostro sostegno e la vostra solidarietà verso il popolo ucraino, che sta attraversando ore difficili, a causa della guerra e delle manifestazioni di odio umano da parte della federazione russa.

Condizione delel strade attorno a Isiro

Da Isiro con amore

Dal Nord del Congo vi giunga il mio saluto e il mio grazie per il vostro cuore missionario! Grazie per la vostra generosità verso i nostri piccoli e differenti progetti che realizziamo con il vostro sostegno. La mia salute è abbastanza buona, tolta qualche malarietta che ogni tanto arriva, ma ci si cura e tutto passa.

Sono ora nella parrocchia di Samana, a Isiro, capitale dell’Alto Uélé. La vita, malgrado le diverse difficoltà, è sana e bella e i nostri laici (mamme, papà, giovani, ragazzi) sono molto impegnati. La domenica celebriamo due messe e stiamo pensando d’ingrandire la chiesa perché c’è sempre molta più gente fuori che dentro. Sogniamo anche la costruzione di una scuola, lasciando che le attuali aule diventino sale parrocchiali, visto il crescere di tante attività.

Un grande amico: padre Franco Bertolo

Il 16 ottobre 2022 è morto, improvvisamente, a Torino, nella Casa Madre dei Missionari della Consolata, padre Franco Bertolo, legato a me da profonda e lunghissima amicizia. Pur nel profondo dolore, voglio ricordarne alcuni momenti.

E la chiamano economia

Bambini palestinensi con la bandiera del proprio paese. Foto Hosny Salah-Pixabay.

Etica e affari,  un matrimonio difficile

Ben&Jerry’s, azienda Usa di successo, non vuole più vendere i propri gelati nei territori palestinesi occupati da Israele. Ne è nato un intricato conflitto politico e legale. È possibile tenere insieme ricerca del profitto e principi etici?

Nella storia del capitalismo, di dispute fra imprese se ne sono viste tante, ma che una filiale portasse in tribunale la propria capogruppo, questo no, non era mai capitato. È quanto è successo negli Stati Uniti per una vicenda che riguarda addirittura il conflitto israelo-palestinese. Il dilemma è se vendere o non vendere nei territori occupati da Israele. Non riuscendo a trovare un accordo sul piano politico, le due parti stanno cercando di spuntarla tramite sofisticate battaglie legali. Mentre scriviamo, il contenzioso è ancora in corso, ma qualunque sarà il suo esito vale la pena raccontarlo per i molteplici aspetti che solleva.

Camminatori di Speranza

Abramo, l’amico di Dio

Abramo viene chiamato l’amico di Dio (Gc 2,23), perché esempio di relazione ideale con il Signore. È considerato tale da ebrei, cristiani e islamici.

C’è chi dice, probabilmente senza allontanarsi dal vero, che non sia mai davvero esistito e che la figura di Abramo sia un’«invenzione», basata su antiche tradizioni riguardanti qualche personaggio lontano nella storia, per porre, all’inizio della Genesi, un’introduzione alle vicende di Giacobbe allo scopo di indicare da subito l’atteggiamento giusto nel rapporto con Dio.

Noi qui, però, non vogliamo fare i lettori super critici e saccenti, ma lasciarci coinvolgere dal racconto, come desiderava chi ha scritto questi testi.

Cooperando

Cop27, un passo avanti necessario ma insufficiente

La 27ª Conferenza delle parti di Sharm el-Sheikh si è conclusa con un accordo per compensare i paesi del Sud del mondo, i meno responsabili delle emissioni, per i danni che il cambiamento climatico sta causando nei loro territori.
Ma sulla mitigazione non si è andati oltre la Cop26 di Glasgow, che era stata troppo debole sull’eliminazione dei combustibili fossili.

Una sintesi efficace di questa Cop27 l’ha tracciata Manuel Pulgar-Vidal, che aveva presieduto l’edizione 2014 del vertice, la Cop20, e ora è il responsabile del clima per il World wide fund for nature, Wwf (già World wildlife fund): «L’accordo su perdite e danni è un passo avanti», ha detto Pulgar-Vidal al New York Times, ma il fondo di compensazione che l’accordo crea «rischia di diventare un “fondo per la fine del mondo” se i paesi non si muovono più veloci per ridurre drasticamente le emissioni. Non possiamo permetterci un altro vertice sul clima come questo»@.

Come cooperavamo cinquant’anni fa

Negli anni Settanta la rivista Missioni Consolata aveva una rubrica che si chiamava «Appelli dal fronte», attraverso la quale presentava ai benefattori una realtà in missione e chiedeva il loro sostegno per risolvere un problema.

Cinquant’anni fa, nel gennaio del 1973, «Appelli dal fronte» era dedicata a Materi, villaggio nella centrale regione del Meru, ai piedi del monte Kenya. Padre Maggiorino Botta chiedeva ai suoi benefattori di aiutarlo a comprare una pompa, il motore, le tubature e i serbatoi per pompare l’acqua dal fiume Mutunga visto che nella zona, «arida e torrida», non c’era alcuna sorgente. Costo dell’iniziativa: due milioni di lire.

Librarsi

Sul Documento di Abu Dhabi per la fratellanza umana. Cristiani e musulmani: una parola comune

A partire dal documento firmato nel febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb, un libro che segue le recenti tappe del dialogo tra le due più diffuse religioni al mondo, ricco di sfide difficili, ma belle.

Anche nel nostro tempo segnato da secolarizzazione e pluralismo, le religioni hanno un ruolo importante per la costruzione di un rapporto pacifico tra le culture.

Un segno di questo è la rilevanza assunta dal Documento di Abu Dhabi, poche pagine firmate da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar, il 4 febbraio 2019, nell’ottavo centenario dell’incontro di san Francesco d’Assisi con il sultano d’Egitto.

Allamano

Quattro anni con don Bosco

Visitando recentemente i locali utilizzati da san Giovanni Bosco a Valdocco (Torino) all’inizio dell’opera salesiana, mi sono interrogato sull’impronta che il santo educatore dei giovani può aver lasciato sul nostro Giuseppe Allamano che trascorse ben quattro anni nell’Oratorio salesiano (1862-1866). Erano gli anni della giovinezza dell’Allamano,  il quale, infatti, per tutta la vita avrebbe ricordato il tempo trascorso vicino a don Bosco.

Lo stile educativo di don Bosco si basava fondamentalmente su tre capisaldi: «Ragione, religione, amorevolezza». Per «ragione» egli intendeva la formazione umana e civile dei giovani, tesa a prepararli ad affrontare il futuro come cittadini responsabili. «Religione» significava formazione religiosa, senza forzature, impartita con nozioni di catechesi e soprattutto con l’esempio di vita dei formatori. L’«amorevolezza» era da lui considerata l’elemento caratteristico che doveva accompagnare ogni aspetto della formazione dei giovani. Vicinanza e accompagnamento paterno e affabile nei riguardi dei giovani – asseriva – servono più di ogni altra componente formativa.

 

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


«Ace olleng’ lpateri» Egidio

In questo triste e difficile momento, avendo ricevuto la notizia della sua malattia e morte improvvisa, vorremmo salutare e ringraziare un grande missionario della Consolata, carissimo amico. Uomo determinato, con voce grossa, cuore grande e lacrime facili. Quest’uomo si chiama padre (lpateri in samburu) Egidio Pedenzini.

A me, Edi, ma non solo a me, ha cambiato la vita, dal momento in cui ho iniziato a condividere con lui le gioie e le preoccupazioni tra i suoi tanto amati pastori Samburu, coi quali ha camminato per decenni, donando loro fiducia e speranza, fino ad immedesimarsi totalmente con loro.

La prima volta che sono arrivato in Kenya era il 6 gennaio 1982, ad Archer’s Post, in occasione della benedizione dell’ampliamento della chiesa. Per due anni ho seguito le sue attività ad Archer’s Post, poi, proprio come i nomadi, l’ho seguito a Wamba, dove ho conosciuto tanta gente: suore meravigliose e dottori venuti in ospedale da varie parti del mondo, per dare il loro contributo medico e non solo.

Dopo Wamba, padre Egidio è stato destinato a South Horr, dove è rimasto tantissimi anni. In questa missione ai piedi del Monte Njro, ho condiviso con lui ben 17 intensi anni. Là, l’8 febbraio 1998, lui ha celebrato – alla sua maniera e soprattutto alla maniera dei Samburu – il matrimonio di me e Liliana (detta Lilly). Un giorno assolutamente indimenticabile per noi, in cui, fra l’altro, la tantissima gente presente ci ha regalato emozioni indescrivibili, con testimonianze di affetto e gioia autentica, con i canti e le danze dei moran (guerrieri), e la toccante benedizione finale degli anziani a conclusione della celebrazione durata ben quattro ore. Sapete tutti che le cerimonie del caro padre Egidio non avevano tempo, ed anche in questa occasione ne ha dato dimostrazione fra un sorriso ed una lacrima.

 

La lunga e intensa permanenza a Souh Horr, dove sovente gli faceva visita l’allora vescovo di Marsabit mons. Ambrogio Ravasi, è finita quando l’amico mons. Virgilio Pante (vescovo di Maralal dal 2002 al 2022) ha pensato bene di affidargli la costruzione e la nascita della nuova missione di Sereolipi (all’estremo Nord Est della diocesi). Per padre Pedenzini lasciare South Horr è stata una prova difficilissima e ne ha sofferto molto, per il gran bene che ha voluto a tutta quella gente. Ma l’obbedienza e lo spirito di servizio hanno prevalso, e quindi si è aperto un altro capitolo, per lui ed anche per noi, che lo abbiamo seguito.

Alla fine del 2008 il nostro missionario ha cominciato rimboccandosi subito le maniche per dare vita a quel nuovo progetto di chiesa e comunità. Il primo anno ha condiviso tutto con i suoi collaboratori, trasformando l’ampia sacrestia dietro la vecchia chiesa, tuttora esistente, in cucina, sala da pranzo e dormitorio. Nel 2009 siamo arrivati per la prima volta a Sereolipi e nella misura in cui abbiamo potuto, abbiamo contribuito a realizzare la nuova missione e altre strutture. Sono seguiti altri 13 anni condivisi con quest’uomo meraviglioso che, dopo aver asciugato qualche lacrima, diceva: «Dobbiamo andare avanti, perché siamo qui per loro: sono nostri fratelli che hanno diritto ad una vita dignitosa».

Quante volte si sentiva bussare alla porta, peraltro sempre aperta, e, sentendo bisbigliare timidamente, si intuiva la richiesta di soddisfare una necessità che sarebbe altrimenti rimasta inascoltata. Posso assicurare che ogni volta il grande cuore di padre Egidio si apriva e, con il suo passo recentemente barcollante, andava in camera e soddisfaceva la richiesta salutando con una benedizione. Identico atteggiamento lo aveva quando rilevava ingiustizie, torti o scorrettezze. Mai si è girato dall’altra parte o ha fatto finta di non sentire o non vedere. Tutti ricordiamo la sua voce tonante che denunciava pubblicamente qualsiasi malaffare.

Non possiamo dimenticare le sante messe celebrate nelle out station, nel cuore delle comunità samburu, ove sapeva esprimere il meglio di sé con le parole, l’atteggiamento, i gesti e l’inseparabile bastone da anziano che sempre portava con sé in quelle occasioni.

Abbiamo percorso tanti chilometri insieme su quelle strade e piste polverose, a volte cantando le nostre canzoni popolari o ascoltando i canti delle donne Samburu sedute nella parte posteriore della Land Rover prima, e poi della Toyota. Non è mai stato un grande autista, ma la Provvidenza e il rosario appeso allo specchietto retrovisore ci hanno sempre accompagnati a casa.

Ora concludo questo racconto parziale di quanto abbiamo condiviso.

Caro Egidio, il mezzo che ti porta in questo ultimo viaggio è guidato da Dio e ti farà arrivare, seduto in prima fila, in quel luogo privilegiato riservato alle persone che hanno donato tutta la propria vita e se stessi ai bisognosi. Samburu, Turkana, Rendille, Pokot e tutti gli abitanti della savana e dei monti del Nord del Kenya ti sono grati e ti ricorderanno sempre per il bene che hai fatto e dato loro.

Ace olleng’ lpateri Egidio, grazie di tutto cuore per quello che sei stato e sarai sempre per noi. Lesere, ciao.

Edi e Lilly Martinelli, 17/11/2022

Ecco qui di seguito una breve biografia di padre Egidio Pedenzini che ho conosciuto bene nei miei anni di Kenya e sono andato a visitare a Sereolipi proprio poco prima di rientrare in Italia. È anche il mio modo di dirgli grazie per una simpatica gentilezza che aveva per me: il dono, di tanto in tanto, di un vasetto di polvere di peperoncino rosso (pilipili) che lui stesso coltivava e che andava a ruba qui a Torino tra i confratelli nostalgici di Africa.

«Nato l’8 giugno 1939 a Mezzacorona (Tn), entra tra i Missionari della Consolata e fa la prima professione a fine noviziato in Certosa di Pesio (Cn) il 2 ottobre 1961. Studia teologia a Torino e riceve l’ordinazione sacerdotale a Mori (Tn) il 17 dicembre 1966.

Dopo un anno passato a Londra per l’inglese, nel 1968 arriva in Kenya ed è inviato nella diocesi di Marsabit dove si inserisce come aiutante prima ad Archer’s Post, poi a South Horr e Baragoi, per tornare in seguito ad Archer’s come parroco. Dal 1974 al 1978 va negli Stati Uniti per studi, da dove ritorna in Kenya diventando il responsabile diocesano dell’educazione nel Samburu dal ’79 all’81, quando è nominato di nuovo parroco di Archer’s Post, fino all’87. Da lì è trasferito a Wamba e nel 1990 va a South Horr di cui diventa parroco fino al 2008, quando il vescovo, mons. Virgilio Pante, gli chiede, a quasi settant’anni, di andare a iniziare da zero la nuova missione di Sereolipi».

In tutti questi anni lui è il punto di riferimento, l’enciclopedia, per tutti i missionari per la conoscenza e l’approfondimento della cultura samburu. Là riceve l’ultima irresistibile chiamata, e dopo una brevissima malattia, va nei giardini del cielo, dove acqua, latte e miele scorrono in abbondanza.


Perché ricordate solo alcuni?

Buongiorno,
sono un vostro assiduo lettore, ho vissuto per quattro anni a Dar Es Salaam dove ho conosciuto, tra gli altri, padre Mario Biestra. Siamo diventati amici e ci siamo frequentati anche dopo il mio e suo rientro in Italia. Purtroppo padre Mario ci ha lasciati qualche tempo fa (+12/05/2021). Leggo regolarmente la rivista e ho notato che c’è sempre un ricordo per i padri che vengono a mancare. Purtroppo non tutti i numeri della rivista vengono recapitati regolarmente, qualche volta le poste italiane smarriscono qualche numero. Ma, per quanto abbia cercato attentamente, non ho trovato nessun accenno a padre Mario. Mi è sfuggito? Era in un numero della rivista che non ho ricevuto? Grazie

Giuseppe De Cecco
20/10/2022

Caro Sig. Giuseppe,
grazie per il suo ricordo di padre Mario Biestra. Non ne abbiamo parlato nei numeri precedenti e la sua lettera ci permette di farlo.

Il ricordo dei nostri confratelli dipende proprio dai lettori che ci scrivono, come lei. Ci piacerebbe ricordarli tutti di nostra iniziativa, ma, se lo facessimo, dovremmo occupare buona parte della rivista ogni mese. Nel solo 2022, ad esempio, sono già 14 i missionari tornati alla casa del Padre, 26 nel 2021 e ben 30 nel 2020.

«Padre Mario Biestra nasce a Torino il 1° luglio 1932, nel 1944 comincia il cammino con i Missionari della Consolata e viene ordinato sacerdote nel 1959. Dopo alcuni anni di servizio in Italia, nel 1965 parte per il Tanzania dove rimane fino al 2003, con un intervallo in Italia dal ‘76 all’86. Rientrato in Italia nel 2004, va in cielo il 21/05/2021».

Qui (sotto) un ricordo di padre Mario, in una foto che gli ho scatto nel dicembre 1988 sotto il cielo delle saline vicino alla missione di Sanza in Tanzania.




I costi degli eserciti


La spesa militare continua a crescere. Nei paesi ricchi come in quelli poveri. I soldi vengono sottratti alla sanità, all’istruzione, alla sicurezza sociale. Un domani senza eserciti rimane un sogno lontano.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oltre due miliardi di persone non dispongono di servizi idrici sicuri, mentre quattro miliardi non dispongono di servizi igienici adeguati. La Banca mondiale stima che, per garantire questi servizi minimi a tutti, basterebbero 450 miliardi di dollari. Ma non si trovano, e così gli obiettivi sanitari dichiarati dall’Agenda 2030 rischiano di rimanere lettera morta. In realtà, i soldi ci sono, ma si preferisce spenderli per altri scopi, per obiettivi di morte.

la spesa militare

Il Sipri, l’istituto di Stoccolma per la ricerca sulla pace, ci informa che, nel 2021, la spesa militare mondiale ha raggiunto 2.113 miliardi di dollari, lo 0,7% in più di quanto speso nel 2020 e il 12% in più di quanto speso nel 2012. In termini assoluti, il paese con la spesa militare più alta sono gli Stati Uniti che, nel 2021, hanno investito 801 miliardi di dollari, pari al 38% dell’intera spesa mondiale. Seguono Cina con 293 miliardi, India (76), Gran Bretagna (68), Russia (66). Vale la pena precisare che il 54% della spesa militare mondiale è sostenuta dalla Nato, l’alleanza di cui fanno parte ventisei paesi europei, oltre a Stati Uniti, Turchia e Canada. Non esistono sul pianeta altre alleanze così strutturate.

Oltre che in termini monetari, ci sono altri due modi per rappresentare la spesa militare: in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), ossia alla ricchezza complessiva prodotta nel paese, e in rapporto alla spesa pubblica. A livello globale, nel 2021 la spesa complessiva in rapporto al Pil è stata del 2,2%. Ma con profonde differenze fra singoli paesi. Da questo punto di vista, il primato tocca all’Oman col 12%, seguito da Arabia Saudita (7,7%), Israele (5,6%), Usa (4,5%), Russia (3,7%).

La spesa militare si valuta anche in rapporto alla spesa pubblica, perché è sui bilanci pubblici che essa va a gravare. Ci sono paesi che, pur avendo una bassa spesa militare in termini assoluti, dimostrano di avere una grande propensione per gli armamenti perché vi dedicano una parte cospicua delle proprie entrate pubbliche, pur molto magre. Un esempio è l’Eritrea che, secondo la Banca mondiale, nel 2020 ha destinato all’esercito il 31% del bilancio statale. Ma si può citare anche l’Armenia che ha speso in armi il 16% delle entrate fiscali, o il Ciad che si attesta al 15,6%, e l’Uganda al 13%. Tutti paesi molto poveri con gravi problemi, perché è dimostrato che più si spende in armi, meno soldi rimangono per sanità, istruzione, sicurezza sociale.

Se abbandoniamo i paesi minori e veniamo alle vere grandi potenze militari, troviamo che il paese che dedica alle armi la percentuale più alta di risorse pubbliche è la Russia per una percentuale pari all’11,4%. Seguono l’India (9,1%), gli Stati Uniti (7,9%), la Cina (4,7%), la Gran Bretagna (4,2%).

Le spese militari in Italia

Quanto all’Italia, reperire dati completi sulla spesa militare non è semplice perché alcune voci di costo sono inserite nei bilanci di ministeri diversi da quello della Difesa (da ottobre guidato da Guido Crosetto, consulente e imprenditore del settore militare, ndr). Ad esempio, le spese per le missioni militari all’estero sono inserite nel bilancio del ministero dell’Economia e delle finanze (Mef), mentre alcune somme utili ad acquistare nuove navi o nuovi aerei, prodotti da imprese italiane, sono inserite nel bilancio del ministero per lo Sviluppo economico (Mise). Mettendo insieme tutte le voci, lo stesso ministero della Difesa conferma che, per il 2022, la spesa militare complessiva è fissata in 28,875 miliardi di euro, per il 61% a favore del personale, per il 27% destinati all’ottenimento di nuovi sistemi d’arma, per il 12% per l’acquisto di materiale d’uso corrente.

In termini percentuali, attualmente la spesa militare italiana   rappresenta il 3,5% della spesa pubblica complessiva e l’1,6% del Pil nazionale. Ma il 16 marzo 2022 la Camera dei deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il governo ad aumentare la spesa militare fino al 2% del Pil, presumibilmente entro il 2028. Tradotto in moneta suonante dovremo aspettarci una crescita stimabile in 10 miliardi di euro realizzata, con tutta probabilità, a scapito di altri comparti, magari la sanità, l’istruzione o le pensioni. La conclusione sarà che dedicheremo alla spesa militare il 4,5% dell’intero gettito fiscale solo perché «ce lo chiede la Nato».

Armi e inquinamento

Abbiamo l’abitudine di misurare il comparto militare solo in termini monetari, ma i soldi non danno la vera dimensione del danno che ci procura l’apparato militare. Lasciando da parte la perdita di vite umane e la distruzione di infrastrutture che si verificano quando le armi parlano, non dobbiamo dimenticare che produrre armi e anche solo limitarsi a compiere esercitazioni, comporta un grande consumo di risorse e rilascio di inquinanti. Uno studio della Commissione europea del 2016 sull’industria bellica, sostiene che la produzione di aerei, navi, mezzi meccanici, necessita dell’apporto di trentanove diverse materie prime, fra cui primeggiano alluminio, titanio, rame, cromo, berillio, litio. Tutti materiali con un pesante zaino ecologico, in quanto lasciano dietro di loro grandi quantità di detriti e inquinanti. Ad esempio, per ottenere una tonnellata di alluminio ci vogliono 4,8 tonnellate di bauxite, la quale, a sua volta, richiede l’estrazione di terra e rocce pari a una volta e mezzo il suo peso. E non è tutto perché il passaggio da bauxite ad alluminio richiede non solo una considerevole quantità di energia, ma anche l’apporto di numerosi materiali che però non rimangono nel prodotto finito. In conclusione, il Wuppertal Institute calcola che ogni tonnellata di alluminio lascia dietro di sé 8,6 tonnellate di materiale esausto. Se effettuassimo lo stesso tipo di calcolo per tutti i materiali utilizzati, scopriremmo che, dietro a ogni nave, ogni aereo, ogni carro armato, si celano montagne di scarti. Purtroppo, la produzione di armi è avvolta da una cortina di segretezza che rende difficile ogni tipo di indagine, per cui certe informazioni non le avremo mai. Ciò non di meno alcuni ricercatori hanno provato a valutare il contributo degli eserciti alle emissioni di anidride carbonica. Basandosi sui dati forniti dal Pentagono relativi ai consumi energetici, la professoressa Neta Crawford ha calcolato che l’esercito statunitense produce annualmente 59 milioni di tonnellate di anidride carbonica, una quantità pari a quella emessa da intere nazioni come Svezia o Svizzera. Ma l’ammontare si moltiplica per cinque se ci aggiungiamo le emissioni rilasciate dall’industria delle armi statunitense. La conclusione è che, a livello mondiale, eserciti e produttori di armi, messi assieme, contribuiscono al 6% delle emissioni globali di anidride carbonica.

Integrità e valori

Di fronte a un simile dispiegamento di mezzi, consumo di risorse e produzione di rifiuti, la domanda che sorge spontanea è: «Perché lo facciamo?». La risposta è che gli eserciti servono per difendere la nostra integrità territoriale e i nostri valori, in particolare democrazia e libertà, valori a cui terremmo così tanto da sentirci perfino autorizzati a guerre di aggressione pur di vederli trionfare. Ma tutti sanno che si tratta di motivazioni parziali, se non di paraventi per ragioni ben più venali. Il dato da cui partire è che il sistema economico in cui viviamo, il capitalismo, è aggressivo per costituzione. Il capitalismo è il sistema dei mercanti che hanno come fine l’accrescimento continuo dei profitti, possibile solo se c’è una crescita costante delle vendite. Ma queste possono crescere solo se si produce sempre di più. In altre parole, i mercanti hanno sempre avuto due esigenze: disporre di quantità crescenti di materie prime a basso costo e sbocchi di mercato sempre più vasti. Per queste due ragioni, il capitalismo ha sempre avuto una forte tendenza a virare verso il nazionalismo. Identificandosi con le imprese di casa propria, i governi hanno spesso utilizzato i propri eserciti per aggiudicarsi le risorse a buon mercato presenti nei territori altrui. L’Italia stessa fra le proprie missioni all’estero, ne annovera un paio che hanno come scopo la difesa delle attività estrattive di Eni: una in Libia, l’altra nel golfo di Guinea. E, mentre continuano le operazioni militari dal vecchio sapore colonialista, si è rafforzato il neocolonialismo che oggi si presenta con il volto dello scambio ineguale, del land grabbing, dello strangolamento finanziario. Fino a ieri, la lotta era per il carbone, il petrolio, i minerali ferrosi, oggi è per le terre agricole, i minerali rari, la biodiversità, l’acqua.

Globalizzazione e istinti nazionalistici

La storia coloniale ci ha insegnato che gli eserciti servono anche per spianare la strada alle imprese di casa propria affinché possano garantirsi nuovi sbocchi di mercato. Quando l’India venne conquistata dall’Inghilterra pullulava di artigiani che da tempo immemorabile producevano tessuti in cotone commercializzati in tutta l’area.  Con grave danno per l’industria tessile inglese che chiese al governo di adottare ogni misura doganale e fiscale utile a mettere fuori gioco i produttori indiani. E gli artigiani che continuavano a resistere venivano puniti con il taglio delle dita. La repressione fu così violenta che nel 1834 lo stesso governatore inglese dichiarò che «le ossa dei tessitori imbiancano le pianure indiane».

Ci avevano detto che con la globalizzazione i cannoni avrebbero taciuto per sempre. L’adagio era che, permettendo alle imprese di collocare i propri prodotti ovunque nel mondo, di spostare la produzione dove appariva più conveniente, di trasferire i capitali dove erano garantiti maggiori vantaggi, avremmo creato un mondo più interdipendente e quindi più interessato a mantenere la pace. Ma le crescenti tensioni fra Usa e Cina e, da febbraio 2022, la guerra in Ucraina, che si rivela sempre più un conflitto fra Russia e Occidente, mostrano che la maggior internazionalizzazione degli affari non è sufficiente a sopire gli istinti nazionalistici dei governi i quali mostrano di voler fare di tutto per aprire la strada commerciale alle multinazionali battenti bandiera di casa propria.

Vari analisti hanno dimostrato che l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti del contenzioso Russia-Ucraina è stato condizionato dall’obiettivo di rompere il rapporto privilegiato che l’Europa aveva con la Russia rispetto al gas, in modo da trasformare il nostro continente in un acquirente del gas liquefatto fornito dalle imprese statunitensi.

Industrie belliche e governi

Va da sé, in ogni caso, che le più interessate a spingere gli stati verso scelte militariste sono le imprese che producono armi. L’ammontare totale del loro giro d’affari è avvolto nel mistero, ma il Sipri valuta che, nel 2020, le prime cento imprese mondiali di armi abbiano avuto un fatturato complessivo di 531 miliardi di dollari, una cifra superiore al prodotto interno lordo del Belgio.

Fra le prime cento, compaiono anche le imprese italiane Leonardo e Fincantieri. Leonardo si colloca al 13esimo posto della graduatoria mondiale ed appartiene per il 30% al ministero dell’Economia. Fincantieri si colloca al 47esimo posto ed appartiene per il 71% alla Cassa depositi e prestiti.

Come tutte le imprese, anche quelle di armi hanno bisogno di uno sbocco di mercato che per loro è rappresentato dalle guerre e dalle scelte di riarmo da parte degli stati. Per cui fanno di tutto per ottenere questo doppio risultato.

Non a caso i produttori di armi mantengono rapporti continui con i ministeri della difesa e  spendono fiumi di denaro per ottenere dai governi scelte a vantaggio delle proprie attività. Secondo Open secrets, nei soli Stati Uniti, negli ultimi 20 anni, le industrie belliche hanno speso 285 milioni di dollari per contributi alle campagne elettorali e ben 2,5 miliardi per spingere le istituzioni statunitensi a compiere scelte politiche e finanziarie favorevoli ai propri interessi. Quanto all’Unione europea, i numeri ufficiali, risalenti al 2016, dicono che le prime dieci imprese di armi spendono oltre cinque milioni di euro all’anno e dispongono di trentatré lobbisti a libro paga per esercitare pressione sulle istituzioni di Bruxelles.

Per vivere senza eserciti

È possibile avere un mondo senza eserciti? Qualche stato lo sta facendo. Un esempio è il Costa Rica che, guarda caso, si trova ai primi posti nella graduatoria dell’indice di sviluppo umano. Segno che chi non spende in armi ha più soldi per migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Vivere senza esercito è possibile, ma servono almeno tre passaggi. Primo: bisogna mettere al bando le industrie di armamenti. Secondo: occorre perseguire un modello di economia basato sulle energie rinnovabili e sulla sobrietà in modo da ridurre la tentazione di sopraffare gli altri popoli per impossessarsi delle loro risorse. Terzo: bisogna ridurre il peso del mercato e ampliare quello dell’economia collettiva in modo da poter vivere anche senza dover conquistare i mercati altrui. La conclusione è che non può esserci pace senza un cambio di paradigma economico.

Francesco Gesualdi




Uno sguardo dall’alto


Durante la lettura del libro dell’Esodo abbiamo cercato di concentrare l’attenzione sul testo biblico, perché fosse quello la nostra guida. Nello stesso tempo, però, abbiamo tentato di segnalare che quel testo non si vuole limitare a raccontare una bella storia (c’è anche questo, nella Bibbia), ma ha anche un intento educativo e propone un percorso di crescita nel rapporto con Dio.

Anche per questo, forse soprattutto per questo, leggiamo testi antichi. Perché ci parlano sì dei tempi ormai passati, ma continuano a valere per l’umanità di sempre.

Vogliamo ora provare a riprendere il discorso, sempre a partire dal libro, ma stavolta nel suo complesso, e guardando maggiormente alla sua validità per l’oggi.

Gli inizi (Es 2-4)

Mosè viene dal mondo ebraico (Es 2), anche se cresce alla corte del faraone. Quasi come se ciò che noi siamo, le nostre origini, siano significative ma non decisive. È vero che è sua madre a farlo crescere, ma, di fatto, non ci è neppure chiaro come sia possibile che, uscito dalla reggia, si riconosca in un ebreo (2,11-12).

Di certo, le sue origini non sono «purissime». È un ebreo, condannato per questo a morte, ma si salva. Cresce alla corte del faraone. Uccide un egiziano (2,12). Scappa per paura delle conseguenze (2,14-15). Nel deserto, finisce con lo sposare la figlia di un sacerdote, è vero, ma un sacerdote madianita tanto povero da mandare la propria figlia a pascolare (2,16-21).

Il percorso umano di Mosè, la figura di riferimento dell’ebraismo, non è perfetto: salvato da neonato a dispetto di altri che sono morti, privilegiato, assassino, pavido, approfittatore, marginale. È il percorso possibile di ogni uomo, non di un supereroe.

Questo uomo qualunque, ridotto a prendere il posto della propria moglie nell’andare a pascolare, si trova di fronte a un avvenimento straordinario, e si mette in gioco (3,1-2). Un roveto arde nel deserto senza consumarsi: l’evento è particolare, ma Mosè potrebbe trascurarlo, invece decide di avvicinarsi, di coinvolgersi, di lasciarsi scomodare.

Non importa quale sia la nostra storia, la nostra vita, le nostre caratteristiche. Non c’è una nobiltà di fondo o di partenza di cui godere. L’importante, nella nostra imperfezione, è avere disponibilità a non chiuderci nel nostro scontato, a lasciarci vincere dalla curiosità di saperne di più.

È da lì, dal muoversi per andare a vedere cosa sia quello strano fenomeno, che inizia il lungo e complesso colloquio con Dio (Es 3-4), un colloquio che si chiude con un Mosè che cerca di tirarsene fuori (4,13). Imperfetto fino alla fine.

Quella dell’imperfezione dei suoi «eroi», è una caratteristica propria dei testi biblici. Quasi tutte le tradizioni letterarie, e soprattutto quelle religiose, infatti, tendono a mitizzare e rendere perfetti i propri eroi (cristianesimo compreso, con le agiografie dei santi). I testi biblici ci restituiscono un’umanità autentica, difettosa, problematica… vera!

Quanti di noi, di fronte all’intuizione del senso della propria vita, non sono tentati di fuggire, di rifugiarsi nel consueto, nel normale, nello scontato, nel già detto, nel non impegnativo? Anche Mosè. E questo non sarà per Dio il motivo di smettere di parlargli.

La prima perseveranza (Es 5-13)

La chiamata divina, l’intuizione di partenza, non risolve tutti i problemi, non è un tocco magico che spiana il percorso davanti a Mosè. «Io sarò con te» non significa che il credente non si troverà davanti l’incredulità del suo popolo, a vantaggio del quale stava mettendosi in pericolo, e la fatica di convincerlo; o il rischio di presentarsi davanti al faraone. Gli stessi prodigi offerti da Dio, vengono dapprima replicati dai sacerdoti egizi (Es 7,11-12.22; 8,3).

Ad ogni passaggio, Mosè è sostanzialmente invitato a fidarsi nuovamente di Dio, a mettere a rischio la propria esistenza, a «scommettere» su chi si è dimostrato affidabile fin lì, ma senza prove o garanzie che continuerà a essere presente ed efficace più avanti.

È la dinamica della fede che qui viene presentata. Ci può essere una lenta fascinazione o un’intuizione improvvisa, ma questa poi deve concretizzarsi in una serie di passaggi quotidiani, «normali», dentro i quali occorre rinnovare la fiducia. E anche quando questa si è nuovamente dimostrata ben riposta, ciò non diventa una garanzia, ma il fondamento per una possibile nuova fiducia, più complessa ed esigente, un po’ più profonda e ulteriore, che non spezza però mai la dinamica di fondo.

Finché non si giunge al momento in cui viene richiesto un passaggio più radicale. Può essere la decisione di consacrarsi in una vita religiosa o di sposarsi, di intraprendere con chiarezza una strada di vita che non consente più di deviare ma, al massimo, di tornare indietro.

Fede come passaggio

Quello che scopriamo sul cammino di fede, infatti, è applicabile a qualunque percorso profondo. La fede non è qualcosa di alieno dall’umano, anzi lo porta al suo compimento più pieno; e ciò che si vive nella dinamica di fede è strutturalmente simile a qualunque forma di donazione o di compimento di sé. Anche per questo è tanto rilevante: perché non si sovrappone all’uomo negandolo, ma lo trasforma da dentro, rendendolo pienamente se stesso.

Per Mosè questo passaggio è la notte di Pasqua (Es 11-13). Quella notte, anche gli ebrei non possono più stare alla finestra a guardare, ma devono decidere da che parte stare. L’angelo del Signore passa di notte, di casa in casa, a reclamare i primogeniti, e solo chi si è esposto, segnando con il sangue di un agnello sacrificato gli stipiti della propria porta, verrà risparmiato. E poi si deve partire, con anziani e bambini, bestie e masserizie, inseguiti da un esercito con carri e cavalli, verso una fuga che non sembra promettere nulla. E quindi occorre fare il grande balzo, accettando di entrare nell’acqua del mare mentre si è inseguiti dai soldati.

È il passaggio più trasparente nella sua dinamica simbolica, e quello forse più sconcertante anche per il nostro mondo. Giunge un tempo in cui la fiducia chiede il passo decisivo, quello che sembra addirittura negare ciò che promette.

Al popolo ebraico viene chiesto di fidarsi di una parola che promette la vita e la libertà entrando dentro la morte (il Mar Rosso), attraversandola. Per i credenti di ogni tempo (e verrebbe addirittura da dire in ogni fede, persino laica) il passaggio del mar Rosso rimanda simbolicamente all’accettazione della sfida di una libertà che si realizza proprio legandosi in una consacrazione, in un legame di coppia, o in una scelta di vita che non ha molte alternative, ma che allo stesso tempo rende possibile il costruire davvero la propria libera scelta.

E si entra nel mare, passando dall’altra parte, non in virtù di prove o dimostrazioni che ciò non sarà pericoloso, ma solo fidandosi delle parole di una promessa: che c’è una terra, ed è più avanti, anche se nulla ancora garantisce che esista davvero. Ma se ci si ferma, o si torna indietro alle cipolle d’Egitto, quella promessa svanirà.

La seconda perseveranza

Abbiamo già fatto notare come le nostre sceneggiature filmiche della storia dell’Esodo tendano a fermarsi qui. La dinamica di lotta e liberazione, persino nella fiducia, è qualcosa di noto e comprensibile per la nostra cultura. Essa tende però a immaginarci finalmente liberi e vincitori solo quando l’esercito nemico è stato vinto. Il racconto dell’Esodo, invece, ci porta più in là.

Un cammino di fiducia cresce, scelta dopo scelta, fino ad arrivare a quella più grande, in qualche modo definitiva: una volta passato il mare, si potrà rimpiangere l’Egitto, come gli ebrei faranno, ma non si potrà più tornare indietro. Ma la storia non è finita. Continua e, anzi, bisognerebbe dire che narra una fase nuova, fatta di cammino nel deserto, di affidamento giorno dopo giorno, nel quale bisogna raccogliere la manna solo per quel tanto che serve a consumarne fino al tramonto (Es 16). È vero, mangiare dello stesso cibo tutti i giorni per quaranta anni può indurre a pensare che di certo ci sarà anche domani, ma in realtà non ne esiste nessuna garanzia. E conservare la manna, per avere un minimo di sicurezza del domani, significa trovarla imputridita al mattino dopo.

Si sta parlando, in fondo, del nostro nutrimento costante, nutrimento di relazioni, di fiducia spirituale, quello che anche Gesù nel Padre nostro suggerirà di invocare come «quotidiano». Perché nelle relazioni, nella fiducia, nella vita, non esistono dispense o congelatori, c’è soltanto il cammino passo dopo passo, giorno dopo giorno nella continuità. Anche con Dio.

Libertà è servizio

Poco dopo aver passato il mare per approdare alla libertà, e prima dei lunghi anni di marcia nel deserto, ecco che quella libertà è chiamata a farsi servizio per diventare autentica e piena (Es 19). Il nostro tempo culturale, che, come tutte le culture, presenta molti pregi e qualche difetto, esalta in ogni modo la libertà. Il che è buono, salvo declinarla a volte come libertà anche di capriccio, di disfare tutto e ripartire sempre da capo. Il libro dell’Esodo ci ricorda che uno stile di questo tipo non costruisce umanità. Dio, che conosce l’uomo, non pretende un’adesione immediata da subito. Ma dopo mesi passati insieme, dopo aver preso chiaramente le parti del suo popolo con le piaghe inflitte agli Egiziani, avergli fatto passare il mare, averlo dissetato e nutrito nel deserto, gli chiede se vuole impegnarsi in una relazione definitiva. Questa, indubbiamente, sarà anche servizio, sarà sottomettersi a un legame che non permette più di mantenersi pienamente liberi. Ma è il solo modo di costruirsi, di essere autenticamente umani, di diventare una nazione «messa da parte» per Dio, la pienezza di chi fa dialogare il mondo divino e quello umano (Es 19,6).

Si tratterà di un servizio da accogliere come dono dall’alto (Es 20), ma anche da rifare costantemente proprio (Es 34,1-4), resistendo alla tentazione di plasmarsi un Dio più prevedibile e appropriabile, che può essere chiuso in una stanza e considerato «mio» (questo, in fondo, è il vitello d’oro: Es 32).
Il Dio d’Israele, invece, è un Dio vivo, che non sopporta su di sé una definizione, ma si fa sempre trovare come una presenza mai del tutto prevedibile, eppure affidabile (Es 3,14).

Fiducia da far crescere affidamento dopo affidamento, con dedizione profonda e totale, fedeltà nel quotidiano (Es 25-31; 35-39), così da poter sperare quella terra promessa che «c’è, ed è avanti. Ciò non significa che la storia abbia senso, proba­bilmente non ce l’ha, ma (è que­sto il paradosso del credente) le verrà dato» (così scrive Paolo De Benedetti, che abbiamo già citato nel numero di ottobre 2021). Fidiamoci, un senso a questa storia Dio lo darà.

Angelo Fracchia
(Esodo 20 – fine)


Cncludiamo qui le venti puntate dedicate al libro dell’Esodo. Ringraziamo di cuore Angelo Fracchia per averci accompagnato in questo «cammino di libertà», sempre coinvolgente e attuale, e Marco Francescato per le sue splendide illustrazioni. Grazie




San Lazzaro Devasahayam


«La canonizzazione del beato Lazzaro, chiamato Devasahayam, è un’affermazione del suo essere stato discepolo di Gesù, avendo vissuto pienamente il Vangelo nella sua vita. Era un laico, e questo rivela che la santità è per ogni persona, non solo per i religiosi. Oggi parliamo sempre più spesso della vocazione dei laici nella Chiesa, e qui c’è un laico indiano, un padre di famiglia, che ha offerto una testimonianza vera e genuina dei valori del Vangelo. Amava i poveri e i Dalit ed era un potente testimone dello Spirito di Cristo» (card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai).

Nel regno di Travancore (Thiruvitankur nella linga locale), situato nell’India Sud occidentale, dal 1720 regnava Martanda Varmâ. Nel XVIII secolo questi territori erano ambiti dalla Compagnia olandese delle Indie. Ma il regno di Travancore si opponeva decisamente a questo dominio straniero e nella battaglia di Colachel (10 agosto 1741), sconfisse i mercenari della Compagnia, liberandosi dai legami coloniali e dalle tasse sul commercio delle spezie, in particolare sul pepe nero.

Diversi soldati della Compagnia furono fatti prigionieri, tra di essi il comandante degli olandesi, Eustache de Lannoy, un cattolico francese, che poi accettò di mettersi al servizio del re che gli diede il compito di modernizzare la flotta e l’esercito del suo regno. Da abile stratega militare, De Lannoy organizzò l’esercito di Travancore secondo lo standard europeo. Introdusse le armi da fuoco, promosse un sistema di tassazione accurato, e fece eseguire lavori d’irrigazione per rendere fertili e coltivabili le terre aride della parte interna del paese, salendo di grado fino a diventare ammiraglio capo. Ebbe infine un ruolo importante nella conversione di Nilakandan, un ufficiale dell’esercito reale.

Il regno di Travancore era uno stato principesco del subcontinente indiano. Comprendeva la maggior parte del Sud dell’attuale stato del Kerala e il presente distretto di Kânyâkumârî dello stato del Tamil Nadu. Aveva come capitale Thiruvananthapuram, l’odierna capitale del Kerala.

L’ampio territorio era incorniciato da alte montagne sui cui versanti prosperavano piantagioni di ogni tipo. Con le spiagge degradanti fino al mare, si godeva di un clima tropicale caldo e umido, ricco di precipitazioni e di piogge monsoniche, con temperature elevate durante tutto l’anno. Nel 1503 era stato la prima colonia portoghese in India, e fu per secoli uno snodo fondamentale per il commercio delle spezie verso il Medio Oriente e l’Europa. Era il regno del cocco, del peperoncino, del pepe nero, delle foglie di curry, del cardamomo, dei semi di senape e dei chiodi di garofano, spezie ancora oggi apprezzate dalla popolazione locale.

Statue of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil – CC BY-SA 3.0

La nascita di Nilam

Nel piccolo villaggio di Nattalam, in una famiglia indù, il 12 aprile 1712 nacque Nilam, detto anche Nilakandan. Ricevette subito il titolo di «pillai» perché apparteneva all’alta casta dominante, i Nair, i cui membri lavoravano come soldati al servizio del re.

La carriera militare

Nilam fu educato da tutori competenti e raggiunse un alto livello di preparazione. Si esercitò anche nelle arti marziali tradizionali, mentre studiava e imparava molte lingue.

Con la meditazione e lo yoga, le arti marziali avevano lo scopo di aiutarlo a dominare il corpo e la mente, infondendo nell’animo serenità e pace per servire la divinità con tutto il cuore. Non erano semplici esercizi fisici per difendersi da attacchi improvvisi, ma strumenti di primaria importanza per portare l’esercitante nella via della pace interiore, nell’autocontrollo e nella pratica della nonviolenza. La morbidezza e la cedevolezza nei movimenti erano qualità essenziali nella pratica delle arti marziali. Non bisognava infatti opporsi alla forza dell’avversario, ma utilizzare piuttosto la sua forza per batterlo.

In quanto indù tradizionalista, Nilakandan si dedicò sempre fedelmente alle devozioni degli dei e all’osservanza religiosa, divenendo un ufficiale presso il tempio di Nilakandaswamy, nel Padmanabha­puram.

Grazie alla sua grande intelligenza e ai suoi talenti, intraprese la carriera militare divenendo ministro del regno di Travancore, come funzionario del palazzo reale addetto al tesoro e alle finanze. Era molto amato dal re, perché era un uomo buono e fedele al suo dovere.

Convertito dalla storia di Giobbe

Con il passare del tempo, quando, dopo alcuni cattivi raccolti e una cattiva gestione, perse i suoi beni, Nilakandan corse il pericolo di perdere anche il posto di lavoro e la sua onorabilità. Fu Eustache de Lannoy a consolarlo narrandogli la storia biblica di Giobbe. Gli raccontò che, messo alla prova da Satana, Giobbe aveva sopportato con rassegnazione la perdita dei suoi beni, dei suoi sette figli e tre figlie morte nel crollo della casa, e anche le sofferenze dovute alla malattia che lo aveva colpito.

Fortemente impressionato da questo personaggio, Nilakandan si avvicinò al cristianesimo e, nonostante fosse ben consapevole dell’ostilità che il re aveva verso i convertiti, chiese di ricevere il battesimo dal gesuita padre Giovanni Battista Buttari. Così il 14 maggio 1745 divenne cristiano, scegliendo per sé il nome di Devasahayam, traduzione in lingua tamil del biblico Lazzaro, o Eleazar, che in ebraico significa «aiuto di Dio».

Si consacrò solennemente a Cristo

Nel giorno del suo battesimo Devasahayam si consacrò solennemente a Cristo: «Nessuno mi ha costretto a venire, sono venuto dalla mia propria volontà. Egli è il mio Dio. Ho deciso di seguirlo e lo farò per tutta la mia vita». La sua vita non fu più la stessa: Devasahayam si dedicò alla proclamazione del Vangelo per quattro anni.

I capi indù non videro di buon occhio la sua conversione al cristianesimo. I bramini cominciarono a muovere false accuse contro Devasahayam presso il re che lo fece arrestare nel febbraio del 1749, intimandogli di ritornare all’induismo.

La conversione di un ministro del re era, infatti, ritenuta un tradimento e un pericolo per la solidità dello stato. Il suo rifiuto di adorare le divinità indù e di prendere parte alle tradizionali feste religiose irritò molto il re e i suoi ufficiali che non tolleravano la sua predicazione sull’uguaglianza di tutti i popoli, il superamento delle caste e l’amicizia con gli intoccabili, cosa proibita per una persona di casta elevata.

Tutti gli sforzi del re risultarono vani e Devasa­hayam rimase fermo nella sua nuova fede e si rifiutò di abbandonare Gesù Cristo. In seguito a ripetuti e inutili tentativi di fargli abiurare la fede cristiana, il re ordinò che venisse torturato a lungo pubblicamente, come monito per coloro che pensavano di convertirsi al cattolicesimo.

Persecuzione e tortura

Gli ufficiali di palazzo e i soldati misero in mostra Devasahayam attraverso il regno in un modo ignominioso e straziante. Fu fatto fatto girare nei villaggi seduto su un bufalo e gli furono offerte ridicole corone di fiori, mentre veniva regolarmente picchiato in pubblico con bastoni e spine. Misero polvere di peperoncino sulle sue ferite per aumentare il dolore e le sofferenze. Lo costrinsero a stare in mezzo a insetti voraci. Lo fecero camminare per molti chilometri sotto il sole cocente, con le mani e i piedi incatenati. Arrivati presso una roccia a Puliyoorkurichy, era molto assetato, ma i soldati si rifiutarono di dargli da bere. Cadde allora in ginocchio e pregò: l’acqua sgorgò e placò la sua sete, e sulla roccia rimasero le impronte delle sue ginocchia.

Gli ufficiali per intensificare le sue sofferenze lo portarono in un posto chiamato Peruvilai dove lo consegnarono ai carnefici. Essi lo legarono strettamente a un albero, impedendogli così di sedersi o sdraiarsi. All’aperto, sotto il sole cocente, la pioggia o il vento, soffrì la fame per sette mesi. Accettò ogni cosa felicemente e offrì tutto per la gloria di Dio. In mezzo a tutte queste sofferenze, la sua fede in Gesù non fu mai scossa ed egli rimase fedele a Cristo, non smise mai di pregare e meditare.

A closer look of the rock where Devasahayam is believed to have prayed and left imprints of his knee and elbow – CC BY-SA 3.0 Jayarathina

Il martirio

A Peruvilai una grande folla cominciò a recarsi presso di lui ogni giorno, per ricevere le sue benedizioni e preghiere. I soldati lentamente cominciavano a essere gentili con lui fino al punto da suggerirgli di fuggire. Venuto a conoscenza della nuova situazione, il re e gli ufficiali di palazzo si sentirono sconfitti nel loro desiderio di far cambiare idea a Devasahayam e, per evitare che ancora più gente diventasse cristiana, ordinarono che fosse portato in una prigione segreta presso Aralvaimozhy, al confine Sud Est del regno.

Anche a Aralvaimozhy le torture continuarono e, giorno dopo giorno, la sua salute divenne precaria. Infine, arrivò il momento supremo del martirio, che egli desiderava da molto tempo.

Il 14 gennaio 1752 gli ufficiali ricevettero l’ordine speciale da parte del re di ucciderlo in segreto. Devasahayam fu svegliato prima della mezzanotte e i soldati lo portarono sulle loro spalle, non essendo in grado di camminare, fino in cima a una collinetta nella foresta di Aralvaimozhy.

Per l’ultima volta egli chiese ai soldati un po’ di tempo per pregare. Nel mezzo della notte si inginocchiò sulla roccia e si abbandonò completamente al Signore.

Quando finì di pregare, chiese ai soldati di fare il loro dovere, ed essilo fecero. Gli spararono tre volte e Devasahayam cadde sulla roccia gridando: «Gesù, salvami!». Quindi per assicurarsi che fosse morto, gli spararono altri due colpi. Lo gettarono nella foresta perché il suo cadavere venisse divorato dalle belve e così distruggere ogni prova della sua uccisione.

Dopo cinque giorni, i cattolici che vivevano nelle vicinanze vennero a sapere dell’esecuzione. Raccolsero i suoi resti e li seppellirono nella Chiesa di San Francesco Saverio a Kottar, l’attuale cattedrale della Diocesi di Kottar, nello stato di Tamil Nadu.

Una santità riconosciuta

Tomb of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil (CC BY-SA 3.0)

Ben presto Devasahayam venne venerato nella regione, e nel 1993 la diocesi di Kottar aprì canonicamente la causa di beatificazione.

La sua santità era ancorata a due capisaldi: anzitutto il grande desiderio di offrirsi a Dio, di appartenergli totalmente donandogli la vita, anche in modo cruento nel martirio. Poi, vivere in ascolto della parola di Dio, sottomettendosi totalmente al servizio della verità del Vangelo nella società. Visse così da vero testimone di Cristo la sua fede battesimale e il suo impegno cristiano. Dopo lunghe ricerche, Benedetto XVI autorizzò la promulgazione del Decreto super martyrio il 28 giugno 2012.

«La Chiesa indiana è grata per questa figura così eroica nel diffondere il Vangelo nella nostra terra anche nelle tribolazioni. È un dono all’India e alla Chiesa universale: sono sicuro che guiderà la vita di molti cristiani» (cardinal Baselios Cleemis, siro-malankarese).

Nella città di Nagercoil (diocesi di Kottar), il 2 dicembre 2012, si svolse la cerimonia di beatificazione, con grandissima partecipazione di popolo.

La canonizzazione è stata poi resa possibile dal riconoscimento di un miracolo avvenuto per sua intercessione, cioè la guarigione nel grembo di una donna indiana di un feto di 20 settimane che la medicina aveva ufficialmente dichiarato morto.

Gli esami ecografici a cui si era sottoposta laa donna avevano riscontrato mancanza di battito cardiaco e di movimento fetale. La donna, di religione cattolica, si fece portare dai genitori dell’acqua attinta dal pozzo di Nattalam, luogo di nascita del beato Lazzaro, di cui era molto devota: la bevve e continuò a pregare. Circa un’ora dopo aver bevuto, la donna sentì che il feto si muoveva. L’attività cardiaca fetale fu accertata da successive ecografie. Il bambino nacque senza parto cesareo, sano e in buone condizioni cliniche generali.

Papa Francesco nel concistoro del 3 maggio 2021 fissò la data di canonizzazione per il 15 maggio 2022.

Monsignor Peter Remigius, vescovo emerito di Kottar, dove si trovano i luoghi di nascita e di martirio di Devasahayam, assicura che «Da quando papa Francesco ha autorizzato il processo di canonizzazione, migliaia di persone stanno accorrendo nel luogo in cui è stato fucilato. In tutte le parrocchie della diocesi c’è grande giubilo, la notizia è diventata virale sui social. Inoltre, la donna del miracolo appartiene alla diocesi e abita molto vicino alla casa natia del beato».

Giuseppe Ronco