Mosè, in faccia a Dio


Ci sono personaggi biblici che ci costringono a spiegare chi sono, per quale motivo sono importanti e dove andarli a rintracciare. Altri, invece, sono molto conosciuti e si ergono in tutta la loro maestosità spaventandoci quasi per quanto sono solenni e centrali. Tra questi spicca senza dubbio Mosè, colui che parlava faccia a faccia con Dio come con un amico (Es 33,11), colui che può riassumere in sé tutta la legge («Mosè e i profeti» è una sintesi dell’Antico Testamento utilizzata dallo stesso Gesù in Lc 16,29).

Raccontare tutto ciò che si dice nella Bibbia di questo uomo centrale è impossibile. Ma per suggerire che cosa la sua vicenda possa insegnare anche a noi e al nostro cammino di fede, può essere sufficiente concentrarci sulla sua chiamata, e poco di più.

Doppio traditore?

Le vicende della vita di Mosè sono narrate in gran parte nel libro dell’Esodo (che abbiamo approfondito nelle 20 puntate di questa rubrica durante il 2021 e 2022, ndr). Da questo veniamo a sapere della persecuzione scoppiata contro gli ebrei da parte del faraone egizio, che avrebbe richiesto alle levatrici di eliminare alla nascita tutti i maschi (Es 1). Mosè, dapprima nascosto dalla madre, viene poi affidato alle acque del Nilo e salvato dalla figlia del faraone, la quale chiamerà ad allevare questo piccolo ebreo, senza saperlo, proprio la sua madre naturale (Es 2).

Fin qui sembrerebbe una storia avventurosa e non senza precedenti. Tutti nell’antichità sapevano che era stato salvato dalle acque, allo stesso modo, anche Sharru-kin, chiamato da altri Sargon, ritenuto il fondatore e il più grande re dell’Impero accadico intorno al XXIII secolo a.C.

Ma il mondo biblico ci stupisce sempre un po’. Lungi dall’indulgere a toni celebrativi o agiografici, la Bibbia, come sempre, ci presenta una vicenda, quella di Mosè, che proprio perfetta non è.

Ci viene narrato, infatti, che questo ebreo cresciuto alla corte del faraone, dopo essere uscito a vedere che cosa accadeva nel regno, incontra una guardia egizia che percuote un ebreo, e la uccide (Es 2,12). Anche se il Dio degli ebrei aveva vietato di uccidere ben prima della legge che avrebbe dato loro sul Sinai (Gen 9,5-6), nelle tradizioni umane un gesto di questo tipo è normalmente considerato eroico. Però Mosè non legge nel proprio gesto un atto di riscatto o l’occasione per acquisire un ruolo accanto ai suoi fratelli, anzi, al contrario, lo nasconde, e, quando il giorno dopo, scopre che in giro si sa dell’omicidio (Es 2,13-14), fugge nel deserto. Qui, nei pressi di un pozzo, incontra la sua futura moglie, Sipporà. Questa è figlia di un sacerdote, Ietro, il che potrebbe sembrare uno sviluppo nobilitante per Mosè, ma di fatto si tratta di un sacerdote di una tribù di pastori seminomadi, i Madianiti, stanziata nelle zone più povere del deserto. Lo stesso Ietro, peraltro, non deve essere in una situazione più florida dei suoi conterranei, se al pascolo deve mandare le proprie figlie nubili.

Insomma, l’inizio della vicenda di Mosè è segnato da un omicidio, una fuga e una «sistemazione» in un contesto di emarginati poveri e insignificanti. Tradisce chi lo ha allevato, senza unirsi ai suoi consanguinei; uccide e non se ne pente, ma ha paura delle conseguenze; si accasa in un contesto nobile, ma di un popolo disprezzato. E dopo essere cresciuto alla corte del faraone, inizia a fare il pastore per il proprio suocero (Es 3,1).

L’incontro e la chiamata

È qui che accade l’incontro che gli stravolge la vita. Mosè vede da lontano un rovo che brucia ma non si consuma, e decide di avvicinarsi a controllare. Inizia la vicenda della chiamata dell’uomo più importante dell’Antico Testamento. Sarà qualcosa di stravolgente e unico? Potrà insegnarci qualcosa?

Di certo possiamo dire che tutto inizia da un Dio che inscena qualcosa di straordinario (un fuoco che non consuma), ma perché la straordinarietà del segno venga colta c’è bisogno di attenzione e disponibilità da parte di Mosè, che vede il fenomeno e decide di non tenersene fuori, ma di avvicinarsi a vedere (Es 3,2-3).

Qui Dio lo chiama, svelandogli di aver visto l’oppressione del suo popolo e di voler intervenire. E inizia uno dei dialoghi più imprevisti e sorprendenti di tutta la Bibbia, tra Dio e un uomo.

Il Signore condivide, infatti, con il pastore improvvisato i propri piani: Mosè farà uscire il popolo di Dio dalla sua schiavitù e lo condurrà in una terra che verrà liberata dagli attuali occupanti, anche se quel popolo neppure si ricorda di essere stato legato in passato a quello stesso Dio.

In situazioni del genere altri personaggi biblici si mettono entusiasticamente a disposizione. Mosè no. La prima obiezione è che gli ebrei chiederanno come si chiama il Dio che vuole liberarli. È l’occasione per una delle definizioni divine più affascinanti e sfuggenti: «Sono (ma anche ero, sarò) ciò che sono (ero, sarò): tu dirai agli israeliti che “Io sono (ma anche ero, sarò)” mi ha mandato a voi» (Es 3,14).

Sfugge da qualunque definizione, si limita a dire che ci sarà, che resterà in relazione, che il popolo vedrà ciò che farà, aspetto, questo, più importante di qualunque nome o descrizione.

Mosè però non è soddisfatto. Dice che non gli crederanno. Dio allora gli insegna tre prodigi da compiere per mostrarsi credibile (Es 4,1-9), ma Mosè obietta ancora di non essere capace a parlare bene ottenendo in risposta l’osservazione che è stato Dio a plasmare la sua bocca, e che suo fratello Aronne potrà parlare al posto suo (Es 4,10-16).

A questo punto, Mosè decide di parlare in modo chiaro ed esplicito: «Signore, manda chi vuoi mandare» (Es 4,13), che nel modo di esprimersi dell’ebraico sottintende «… ma non me; manda un altro». Mosè ha finito le obiezioni, ma non vuole essere inviato. Dio, dal canto suo, si arrabbia, ma poi gli prospetta la soluzione, e gli rinnova l’invio.

Il più grande uomo sulla terra, colui che parlava con Dio faccia a faccia… non avrebbe voluto ascoltarlo, ha tentato di tutto per sottrarsi alla chiamata. E Dio si è anche irritato, ma non lo ha castigato, ha ribattuto con altre argomentazioni, si è impegnato alla pari con l’uomo. Dio ha un piano, un progetto, ma non agisce indipendentemente dall’uomo, chiede e insiste per avere la sua approvazione e collaborazione.

Il chiamato diventa colui che chiama

Non accompagniamo Mosè in tutto il suo percorso: i primi colloqui con il faraone, le piaghe, la notte di Pasqua, la fuga con tutto il popolo, il passaggio del mare, il cammino nel deserto tra sete fame e mormorazioni, la salita sul monte, il ritorno a valle e la scoperta che il suo popolo, non vedendolo arrivare, si era fuso un vitello d’oro da adorare.

Due episodi ulteriori però ci possono insegnare molto.

Proprio quando Mosè scende dal Sinai e trova il popolo in festa intorno a un idolo, sembra che sia Dio stesso a perdere definitivamente la pazienza: «Mosè, basta. Io adesso li distruggo. A te darò un altro popolo, e sarai grande. Ma questi, sono irrecuperabili» (Es 32,9-10).

A questo punto il Mosè timido e pigro, che aveva paura di sfidare il faraone, obietta a Dio stesso: «Perché dovresti distruggerli? Vuoi che si dica che non sei stato capace di nutrirli nel deserto? Ricordati delle promesse fatte ai patriarchi…» (Es 32,11-14). E Dio cambia idea, si pente.

È Mosè a ricordargli la sua parola, la sua dignità, il suo ruolo.

È Mosè a richiamare Dio ai propri doveri. Mosè, come un amico, alla pari, ricorda a Dio la sua vocazione. Era stato il Signore a insistere e argomentare perché l’uomo assumesse la propria chiamata, è l’uomo ora a rammentarla a Dio, come in un rapporto, appunto, tra amici.

Vedere Dio

Quindi, dopo aver riconfortato l’Altissimo, Mosè si occupa delle cose umane, stroncando con durezza il culto del vitello…

Subito dopo, però, e prima di tornare sul monte per riscrivere le tavole divine che ha spezzato, Mosè esprime un desiderio assolutamente comprensibile, dopo tanta strada e tante avventure insieme: «Mostrami la tua gloria» (Es 33,18).

L’uomo che ha guidato un popolo intero in imprese inimmaginabili, che parla faccia a faccia con Dio, chiede di poterne vedere la gloria. Questa non è semplicemente l’esaltazione di qualcuno, ma il suo senso profondo, la sua immagine più autentica e intima. Mosè chiede di capire Dio, ricerca e domanda che possiamo comprendere benissimo (noi potremmo dire, in termini diversi e più laici, che vogliamo cogliere il senso di ciò che facciamo).

E Dio, che da Mosè si è lasciato convincere e convertire, si nega. «Nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20), che a prima vista interpretiamo come «Chi mi vede, muore».

Il Signore ha tuttavia un piano di riserva: «Passerò davanti a te, coprendoti il volto. Vedrai solo le mie spalle, dopo che sarò passato» (v. 22).

Questa ultima indicazione aiuta forse a comprendere meglio il brano, anche alla luce del senso esistenziale che possiamo riconoscervi. Dio si può vedere solo alle spalle, dopo che è passato, dopo che ha già agito. In fondo, è ciò che ci accade con tutto ciò che è più autentico e profondo nelle nostre esistenze: ne cogliamo appieno il senso e il valore quando si sono chiuse, quando l’esperienza non è più attiva. Ecco che allora l’affermazione divina ha un doppio valore. Da una parte, si potrebbe parlare pienamente di Dio solo quando tutta la storia con lui si fosse chiusa, quando fosse conclusa e definita. Dall’altra, Dio sostiene che, almeno da parte sua, finché ci sarà vita, lui non si tirerà fuori dalla storia della relazione con Mosè, o con gli altri esseri umani. Si può vedere la gloria di Dio, il suo volto, solo morendo, perché solo allora, nella morte, si potranno tirare le somme definitive. Dio, infatti, non ha intenzione di ritirarsi dal rapporto con noi, e ci resterà sempre accanto, tutti i giorni della nostra vita. Non quindi «Chi mi vede, muore», bensì: «Per vedermi pienamente, occorre essere morti».

E noi?

C’è quindi qualcosa che possiamo imparare dal grande padre Mosè?

Di certo cogliamo che Dio non privilegia i perfetti, chi non ha dubbi o incertezze o limiti. Mosè è pieno di difetti, eppure diventa l’«amico di Dio». Non conta la perfezione, ma la capacità di mettersi sempre in discussione, in cammino.

E la vita di Mosè, a ben vedere, non si presenta neppure essa come perfetta: al di là delle colpe, dei limiti di parola o di carattere, guida per più di quaranta anni il popolo nel deserto ma muore prima di arrivare alla terra promessa. Eppure, resta colui con cui Dio parlava faccia a faccia. Dio non misura la nostra vita sulla qualità o quantità delle nostre realizzazioni, ma sulla profondità della relazione (anche complessa e contorta) con lui. E se non è lui a «giudicarci» sui nostri risultati, perché dovremmo farlo noi?

Angelo Fracchia
(Camminatori 04-continua)




Tamar, una palma nel deserto


Il Vangelo di Matteo si apre offrendo la genealogia di Gesù a partire da Abramo (Mt 1,1-16). Anche Luca ce ne dona una, che però è diversa (Lc 3,23-28) e parte da Adamo: questo significa che probabilmente nessuno dei due, quando scrive, ha certezza sui dati oggettivi e, in ogni caso, che la decisione di inserire certi nomi piuttosto che altri segue gli obiettivi che ciascuno dei due ha.

A questo punto ci incuriosisce ancora di più il fatto che Matteo decida di inserire nell’elenco maschile della genealogia ben quattro donne prima di Maria. La curiosità cresce quando ci rendiamo conto che tutte e quattro sono, in qualche modo, irregolari e offrono motivo di imbarazzo e scandalo. La prima di loro, forse, è quella più sconosciuta per noi, Tamar.

Il contesto

«Tamar» significa «palma». La sua storia è narrata nel capitolo 38 del libro della Genesi, quasi una parentesi nel racconto che, fin qui e da qui in poi, è incentrato sulle vicende di Giuseppe, penultimo e amatissimo figlio di Giacobbe.

È possibile che chi ha composto il libro volesse inserire una specie di pausa dopo la pagina nella quale si narra di Giuseppe che viene venduto dai fratelli a una carovana di madianiti (e da questi a Potifar, comandante delle guardie del faraone: Gen 37,36) e prima che la sua vicenda si sviluppi tra sogni e carriera.

Come in un film moderno, nel quale tra una vicenda e l’altra deve passare un po’ di tempo, il «regista» ci propone una divagazione con una vicenda secondaria, ma che ci conquista con la sua originalità.

La storia di Tamar, per quanto marginale, si inserisce molto armoniosamente nel contesto del racconto.

A questo punto del libro, Giacobbe ha undici figli (Beniamino non è ancora nato), alcuni dei quali, tutti figli di Lia, si mettono d’accordo per venderne uno, quello nato da Rachele, e fingere che sia morto sbranato da una bestia selvatica (Gen 36,31-33). Da un atto divisivo, verrebbe da dire, nasce ulteriore divisione, perché un altro dei fratelli, Giuda, decide di lasciare la sua famiglia e andare a vivere da solo, sposando una donna del posto, una cananea (Gen 38,1-2), scelta che fino ad allora la sua famiglia aveva evitato e che susciterà molta irritazione nel padre.

Dalla moglie, di nome Sua, nascono tre figli, Er, Onan e Sela. Al primo viene data in moglie Tamar, che resta però presto vedova (Gen 38,6-7).

Il levirato

Per capire ciò che segue dobbiamo ricordarci di una consuetudine degli ebrei, che era diventata una legge (cfr. Dt 25,5-10). Questa prevedeva che qualora un uomo fosse morto senza figli, sua moglie sarebbe dovuta essere data in sposa a un fratello, di modo che il primo figlio della nuova unione fosse ritenuto figlio del morto. Il motivo che sta alle spalle di questa legge, per noi strana, è che per il popolo ebraico la terra non apparteneva a chi la coltivava o viveva, ma a Dio che la concedeva in utilizzo agli ebrei, i quali non potevano quindi venderla o comprarla (ecco la radice di vicende come quella di Nabot, che non vuole cedere la propria vigna al re: 1 Re 21). Si tratta di leggi antiche che servivano a ricordarsi come sulla terra si fosse ospiti, e come nei suoi confronti si avesse la responsabilità di chi non è proprietario, ma amministratore.

La terra poteva, quindi, essere solo ereditata in una trasmissione da padre in figlio che serviva in ultima analisi a dire che ogni bene degli ebrei derivava in origine da Dio.

È anche questo il motivo per cui, in situazioni eccezionali in cui non ci fossero eredi maschi, ma solo femmine, la legislazione ebraica consentiva alle donne di ereditare e possedere, cosa che nelle società antiche era decisamente molto rara (Nm 27,1-7).

Non si sa quanto e fino a quando gli ebrei abbiano davvero rispettato questa regola, ma sappiamo che era nota e che serviva a spiegare alcuni passaggi di storie antiche. Agli antichi lettori della Genesi non ci sarebbe stato bisogno di spiegarla.

La discendenza di Er

Er, quindi, il primogenito di Giuda, rientra esattamente nel caso che abbiamo spiegato. Muore senza aver generato un figlio, e sua moglie, Tamar, che finora per noi è soltanto un nome (non ne conosciamo neppure l’origine), viene data in sposa al fratello più giovane, Onan, che si rifiuta di generare un figlio che poi non sarà suo, e muore a sua volta.

Ci ricordiamo qui della questione che viene sottoposta a Gesù circa i sette fratelli che, proprio nel rispetto della legge del levirato, prendono in moglie uno dopo l’altro la stessa donna, salvo morire prima di avere generato dei figli (Mc 12,20-23; Mt 22,25-28; Lc 20,29-33).
Se succedesse oggi, ci sarebbero sicuramente delle malelingue che commenterebbero che quella donna porta davvero sfortuna, senza escludere che sia stata proprio lei a ucciderli, e che sarebbe meglio starne alla larga.

Questo è precisamente quello che pensa anche Giuda (Gen 38,11), il quale decide di violare la legge, che prescriverebbe di dare Tamar in sposa al suo terzogenito, rimandando la donna da suo padre (e di fatto disconoscendola come nuora) con la scusa che Sela è ancora troppo giovane.

Non dimentichiamoci che, in quella società arcaica, non erano presi in considerazione i diritti delle persone sole e delle donne. Si era tutelati e difesi finché si stava dentro al clan patriarcale, altrimenti ci si doveva fare giustizia e difendere da sé. Quando Giuda ha deciso di andare a vivere da solo, fuori dalla famiglia del padre, ha scelto di vivere come in un Far West.

Le donne, per parte loro, erano protette sì, ma anche asservite prima al padre e poi al marito. Fuori da quella protezione, non avevano garanzie. Il mancato rispetto della legge del levirato, quindi, significa anche lasciare Tamar senza protezione, senza assistenza, senza possibilità di un nuovo matrimonio e di concepire e partorire. Viene restituita al padre, come fosse un elettrodomestico guasto, fuori garanzia, rimandato al fornitore.

C’è la vaga promessa che poi, un giorno, quando Sela sarà cresciuto, Giuda andrà a richiamarla, ma il fatto stesso di rimandarla dal padre serve a disilluderla: quando, anni dopo, sarà il momento, Giuda probabilmente non si ricorderà del suo dovere, e anzi farà di tutto per dimenticarsene.

L’inganno benedetto

In effetti, gli anni passano, ma Sela resta senza moglie e soprattutto Tamar senza marito. Nel frattempo, diventa vedovo anche Giuda. Quando va lontano da casa per tosare le pecore, Tamar lo viene a sapere e decide di agire (Gen 38,12ss).

Confidando forse nella natura maschile, o conoscendo bene il suocero, dismette i vestiti da vedova, si agghinda in modo elegante e si va a sedere sulla strada all’ingresso di un paese che Giuda avrebbe dovuto attraversare. Il messaggio è chiaro, e Giuda non se lo perde: una donna sola, ferma sulla strada, vestita bene, è una prostituta. E Giuda ne approfitta subito. Anzi, preso dalla generosità o dall’astinenza, le promette addirittura in pagamento un capretto. Ovviamente, non ce l’ha con sé, quindi le lascia un pegno, da recuperare quando sarebbe giunto con quanto pattuito: questo pegno sono il proprio cordone e bastone, oggetti personali e riconoscibili.

Una volta tornato a casa, Giuda, che almeno sui debiti si mostra onesto, manda un servo a saldare i conti, ma a questi gli abitanti del posto dicono che lì non c’è mai stata nessuna prostituta. A questo punto Giuda, per non farsi ridere dietro da tutti, suggerisce allo schiavo di lasciare perdere: lui ha provato a pagarla, ma se lei non si fa trovare, pazienza.

Qualche tempo dopo vengono a dire a Giuda che sua nuora è rimasta incinta. E lui, che pareva averla dimenticata, forse pensa di avere l’occasione di liberarsene definitivamente: dal momento che non è sposata, quel figlio non può che essere frutto di un’unione illegittima, e quindi lei deve essere condannata a morte, a meno che il padre non riconosca il figlio e sani la situazione.

Mentre però viene portata al rogo, Tamar allestisce il colpo di scena: «Conosco il padre. È il proprietario di questo bastone e di questo cordone. O suocero, tu che sei legalmente responsabile di me, controlla se riesci a sapere di chi sono» (Gen 38,25). E qui Giuda si riscatta, ammettendo la propria colpa che, per quel mondo, non è tanto quella di essersi unito a una prostituta, quanto di non aver rispettato la legge del levirato: «Lei è più giusta di me», ammette nei confronti di una donna indifesa chi aveva deciso di vivere senza leggi.

Il racconto, per togliere ogni scandalo, aggiunge che Giuda, pur riconoscendo come suoi i figli gemelli che nasceranno, non tornerà a dormire con Tamar.

Una fede coraggiosa e creativa

Il racconto potrebbe a prima vista sembrarci uno dei tanti, un po’ scandalosi e vergognosi, che punteggiano l’Antico Testamento.

Il fatto che Matteo lo abbia ripreso, tuttavia, ce lo riporta alla memoria e può anche suscitarci qualche interrogativo.

Anche le altre donne citate dall’evangelista nella genealogia di Gesù presentano tutte dei comportamenti che, in sé, potremmo trovare decisamente discutibili:  Raab, prostituta di Gerico, Betsabea, moglie rubata da Davide a un suo soldato, e Rut, la più pura che organizza, però, un inganno ai danni del suo futuro marito. Tutte, con questi comportamenti non certo perfetti, compiono la volontà di Dio, spesso con creatività (è il minimo che si può dire dello stratagemma di Tamar). Parrebbe quasi che Matteo porti esempi per giustificare Maria: è vero, Gesù non è figlio di Giuseppe, ma questo non significa che l’intenzione divina non possa passare anche da questo aspetto apparentemente discutibile, così come spesso è accaduto nella storia della salvezza.

Dio guarda cuori e intenzioni, non i comportamenti esteriori, e spesso, se si guarda oltre le apparenze, sono soprattutto le donne a essere premiate.

Quanto a Tamar, si mostra fedele al marito defunto, al suo ricordo, al comando divino, senza fermarsi alla forma, alla lettera della legge. Lei era ben disponibile a offrire un figlio a Er, ma non le è stato concesso. In fondo, era solo una donna, non aveva autonomia legale. E invece si mette in attesa paziente, sfrutta l’occasione, sopporta il rischio della vergogna, dell’umiliazione, addirittura della morte, per non venire meno alla sua fedeltà.

Confida che il Dio di cui si fida non guardi innanzitutto all’applicazione rigorosa delle leggi, ma all’intenzione che le anima. Sa che il Padre nei cieli non la guarderà con riprovazione, ma con la tenerezza sorridente di chi vede i propri figli inventarsi soluzioni impensate. Confida che quel Dio non applica in modo disumano delle regole, ma vede e ama la vita.

Angelo Fracchia
(Camminatori 03-continua)




Giacobbe, il lottatore


Nei salmi e nei profeti ricorre molto frequentemente il nome di Giacobbe. È lui, infatti, chiamato anche Israele, a rappresentare l’unità del popolo ebraico: lui, il capostipite dei dodici patriarchi delle tribù d’Israele.

Potremmo immaginare che si tratti di una figura esemplare, magari raccontata in toni agiografici ed esaltati, ma, a leggere il libro della Genesi che in gran parte è dedicato a lui, si scopre una persona pessima, imbrogliona, violenta e pavida, anche se astuta e decisa.

Sotto la superficie, però, scopriamo anche un percorso di crescita umana molto moderno, con un approdo forse sorprendente e di certo profondo.

In lotta con il fratello

Giacobbe è il gemello di Esaù, nato prima di lui e con il quale ha combattuto fin dalla gravidanza, tanto che la madre aveva deciso di andare a «consultare il Signore» (Gen 25,22: non ci è dato sapere come), ottenendo come risposta: «Due clan nel tuo ventre e due popoli dalle tue viscere si separeranno. Un popolo prevarrà sull’altro popolo e il maggiore servirà il minore» (Gen 25,23). Giacobbe esce dal grembo aggrappato al tallone del fratello, come se avesse tentato fino all’ultimo di precederlo.

I due gemelli continueranno a confrontarsi e differenziarsi: Giacobbe, che preferisce restare nelle tende e coltiva la terra, è il cocco di mamma; Esaù, tutto peloso e rosso, amante della caccia, è il preferito di papà Isacco (figlio di Abramo). Il primogenito, al quale verrà trasmessa la benedizione divina, che erediterà la parte principale dei beni di famiglia, è Esaù. Questi, però, un giorno, mentre torna stanco e deluso dalla caccia, trovando Giacobbe a mangiare, gli offre la primogenitura in cambio di un piatto di minestra (Gen 25). Si potrebbe pensare a un semplice scherzo tra fratelli, ma quando più avanti il padre Isacco, ormai cieco, sente avvicinarsi la morte e chiede a Esaù di andare a cacciare e preparargli un piatto prima di ricevere la benedizione, la madre Rebecca, di nascosto, cuoce un capretto e pone sulle braccia di Giacobbe la pelle dell’animale, perché si spacci per il peloso fratello e ottenga la benedizione da primogenito (Gen 27).

A questo punto Giacobbe deve però fuggire per salvarsi la vita: viene allontanato da casa con la scusa di andare a scegliersi una moglie non tra gli abitanti del paese in cui Isacco è ospite straniero, ma nella terra da cui era venuto il nonno Abramo (Gen 28-29). Arriva nella zona di
Carran in cerca del cugino
Labano, trovando quasi subito sua figlia Rachele, che porta al pascolo le greggi e della quale si innamora immediatamente.

In lotta con il suocero

Giacobbe decide di chiederne subito la mano, ma si trova invischiato in un’altra famiglia problematica.

Il «prezzo» richiesto per il matrimonio da un padre sicuramente non ricco (altrimenti non manderebbe la figlia a pascolare), sono sette anni di servizio da parte di Giacobbe. Per una volta questi non decide per interesse e accetta. La notte delle nozze, però, «lo scaltro Labano» gli porta nella tenda nuziale, al buio, non la bellissima Rachele ma la sorella più vecchia, Lia «dagli occhi smorti». Al mattino, chiarisce a Giacobbe che non era consuetudine che la sorella più giovane si sposasse per prima, ma che avrebbe potuto sposare anche Rachele, in cambio di altri sette anni di servizio (Gen 29).

Giacobbe si trova così con due mogli, due sorelle che competono tra di loro per i figli, in quanto Rachele, pur amata, dapprima sembra sterile (Gen 30), mentre Lia, mal sopportata, gliene partorisce invece sette. Col il tempo Giacobbe, pensando di non essere gradito al suocero, progetta di andarsene, non prima di essersi procurato un gregge, di nuovo ottenuto con l’inganno (Gen 31). Quando infine parte, non lo fa alla luce del sole, ma di nascosto, approfittando dell’assenza del suocero, che lo inseguirà, cercando di ottenere indietro almeno gli amuleti sacri che Rachele aveva rubato per togliere al padre la protezione dei suoi dèi (ancora inganni, ancora falsità, ancora illusioni superstiziose).

Dove rifugiarsi?

A questo punto però Giacobbe deve decidere dove andare. Ha due mogli, un gregge numeroso, schiavi e schiave. È un uomo ricco, ora, ma non ha una patria. Decide di dirigersi verso l’antica terra del padre e del fratello, confidando che il tempo abbia calmato la rabbia e desiderio di vendetta di Esaù.

Mentre è per strada viene a sapere che Esaù gli sta venendo incontro. Il comitato d’accoglienza, però, è composto da quattrocento uomini armati.

L’ingannatore Giacobbe, che finora non si è fatto scrupolo di usare tutto ciò che poteva per il proprio interesse, salvo perdere la testa solo per la moglie Rachele, decide ora di sacrificare eventualmente anche lei. Divide infatti tutta la sua schiera in due gruppi, ognuno composto da una moglie, le sue schiave e schiavi, i figli e metà del gregge. E lui? Lui, come è opportuno che faccia ogni capofamiglia valoroso e sprezzante del pericolo… resta indietro. Invia doni a Esaù per placarlo e manda avanti tutta la sua famiglia e i suoi beni, ma non mette in pericolo se stesso. Anche la simpatia che potremmo provare nei confronti di uno scavezzacollo sbruffone e simpatico, viene probabilmente meno.

Fianco montagnoso della valle del Giordano (fto AfMC/Benedetto Bellesi)

Il guado dello Jabbok

Arriva però il momento in cui Giacobbe deve fare i conti con la propria vita.

Fin qui non si è fatto nessuno scrupolo di passare sopra le persone quando serviva ai suoi interessi. Per una sola, in realtà, aveva deciso di spendere quattordici anni della sua vita, cui ne aveva aggiunti altri sei. Ma anche quella amatissima moglie ha appena deciso di sacrificare, se servisse, in modo da salvare la propria pelle.

Sulla strada verso Canaan, però, arriva anche per lui il momento di attraversare lo Jabbok. Si tratta di uno uadi, ossia del letto di un torrente in secca per gran parte dell’anno, ma che, quando (raramente) piove sull’altopiano desertico da cui proviene, può diventare improvvisamente gonfio di acqua e impossibile da guadare.

Inoltre, in zone in cui la vegetazione è scarsissima, quell’acqua violenta ha scavato un solco molto profondo e stretto nella roccia, il che significa che attraversare uno uadi può voler dire restare esposti per molto tempo ai tiri di frecce di qualunque inseguitore. Fino a lì Giacobbe può immaginare di riuscire a scappare abbastanza agevolmente. Da lì in poi, rischia di restare in trappola.

Il libro della Genesi (32,25-32) racconta che per tutta la notte Giacobbe combatte con uno straniero, senza riuscire a batterlo. Il fortissimo, abile, vincente Giacobbe trova un ostacolo più forte di lui, che gli impedisce di attraversare lo uadi, mentre tutti i suoi sono già di là.

Uno scrittore moderno, forse, avrebbe descritto l’esperienza di Giacobbe parlando di una notte trascorsa nell’angoscia del dubbio, nell’incertezza. L’autore sacro invece di presenta Giacobbe in una lotta con un forestiero. Questi, quando si avvicina l’alba, gli chiede di lasciarlo andare.

Giacobbe accetta, ma solo dopo aver preteso di essere benedetto e di conoscere il nome dell’altro. Le due richieste sono ancora figlie del «vecchio Giacobbe», che si garantisce e premunisce. Per evitare che l’esito dello scontro sia una maledizione, chiede infatti di essere benedetto; per essere sicuro che l’altro poi non cambi le proprie parole, gli chiede il nome, così da poterlo maledire all’occorrenza.

Il forestiero lo benedice, però non gli svela il proprio nome. Colpisce Giacobbe all’anca (quindi poteva farlo anche prima?) e svanisce. Prima di andarsene, però, gli cambia il nome in Israele, «perché hai combattuto con gli uomini e con Dio e hai vinto». Solo adesso Giacobbe si rende conto di aver vissuto un’esperienza decisiva, di «aver visto Dio ed essere rimasto vivo», e si avvia, sia pure zoppicando, verso Canaan.

Giacobbe emerge dalla sua notte di prova decidendo di andare avanti, pur consapevole che stavolta non ha tutto sotto controllo, non ha garanzie, se non una parola di benedizione che è una promessa non impugnabile, non assicurata. Stavolta si trova di fronte alla scelta tra tenersi al sicuro perdendo tutto tranne la vita, oppure fidarsi dell’ignoto che è però illuminato da una sfuggente promessa. E decide per la seconda.

Un uomo nuovo

Il Giacobbe che ha visto Dio è diventato una persona nuova. Già in precedenza aveva avuto visioni, ma ne aveva ricavato semplicemente che Dio lo avrebbe protetto. Ora invece è una persona diversa.

Divide di nuovo il suo gruppo in due schiere, vedendo arrivare Esaù, ma questa volta passa davanti, accogliendo il fratello e mettendosi nelle sue mani.

Per la prima volta nella sua vita, Giacobbe rinuncia a mantenere il controllo della situazione, si affida all’altro. Non ha l’assicurazione degli amuleti, non ha vie di fuga, è solo e quasi nudo davanti all’arrivo del manipolo armato del fratello.

E il fratello arriva, lo guarda, scoppia in lacrime e lo abbraccia. Con il suo primo gesto di fiducia profonda, Giacobbe ha salvato i suoi e la propria vita, e impostato finalmente un rapporto fraterno con Esaù e una nuova relazione con Dio.

Certo, neppure il vecchio Giacobbe muore tutto in una volta: dopo l’incontro con Esaù, accoglie l’invito a risiedere in Canaan, ma non vuole stare nella sua stessa zona né camminare insieme a lui (non si fida ancora del tutto?). Intanto, dopo questa esperienza, sarà sempre più spesso un uomo portato in giro da altri. Crederà alla morte dell’amatissimo figlio Giuseppe, il primo figlio di Rachele (Gen 37,31-35), piangerà la morte di Rachele mentre gli partorisce il secondo e ultimo figlio, Beniamino (Gen 35,16-20), accetterà, pur in lacrime, che questi venga portato in Egitto come pegno per ottenere del cibo (Gen 42,36-43,15), e alla fine si lascerà portare là anche lui, controvoglia (Gen 46,1-7).

L’uomo tranquillo e sicuro di sé ha lasciato spazio a una persona che sa riconoscersi debole, che si affida alle scelte degli altri, che accoglie senza rabbia la sofferenza, che non si vergogna più della propria fragilità, perché ha imparato a fidarsi di un Dio che conosceva già, ma che pensava forse di poter usare come aveva fatto con tutto il resto.

Dopo aver visto Dio, Giacobbe è un vecchio zoppicante, piangente, debole, ma finalmente pronto a vivere in modo più adeguato la propria vita, a essere considerato il patriarca dei patriarchi, a farsi condurre dai figli e da Dio su un cammino di cui non vede la fine, ma nel quale sa che non sarà abbandonato.

Diventa così un modello di umanità anche per tutti i suoi figli spirituali, tra i quali anche noi: non nella forza, nel controllo e nella «scaltrezza» sta il segreto di una vita piena, fruttuosa, ma nello scoprire di che cosa potersi veramente fidare, nell’affidamento, nell’accoglienza anche della propria debolezza e limite. Nel legarsi alla parola di Chi non ci toglie fatica e lacrime, ma ci garantisce che l’esito sarà la nostra vita autentica.

Angelo Fracchia
(Camminatori 02-continua)




Abramo, l’amico di Dio


Abramo viene chiamato l’amico di Dio (Gc 2,23), perché esempio di relazione ideale con il Signore. È considerato tale da ebrei, cristiani e islamici.

C’è chi dice, probabilmente senza allontanarsi dal vero, che non sia mai davvero esistito e che la figura di Abramo sia un’«invenzione», basata su antiche tradizioni riguardanti qualche personaggio lontano nella storia, per porre, all’inizio della Genesi, un’introduzione alle vicende di Giacobbe allo scopo di indicare da subito l’atteggiamento giusto nel rapporto con Dio.

Noi qui, però, non vogliamo fare i lettori super critici e saccenti, ma lasciarci coinvolgere dal racconto, come desiderava chi ha scritto questi testi.

L’inizio di un ascolto

«Esci dalla tua terra, dalla casa di tuo padre, e vai verso un luogo che io ti indicherò» (Gen 12,1). Abbiamo tutti in mente questa chiamata che, soprattutto nella tradizione cristiana, si considera spesso il passaggio centrale per capire la figura di Abramo, visto come un uomo che segue esclusivamente la vocazione divina: lasciare tutto, e seguire Dio.

Una lettura più attenta del testo biblico ci offre però un quadro più complesso e, forse, anche più interessante.

Abramo, come suo padre Terach, è di Ur dei Caldei, nel Sud della Mesopotamia. In Gen 11,31 si dice che lascia, sì, quella terra, ma non suo padre. In effetti, la lascia insieme a lui, ai suoi ordini. È Terach a prendere figlio, nuora e nipote (Lot) per andare nella terra di Canaan, che sarà poi quella che Dio indicherà ad Abramo. Sul cammino, la piccola comitiva si ferma per qualche tempo a Carran, nel Nord della Mesopotamia, più o meno a metà strada, e lì Terach muore. È a questo punto che arriva la chiamata divina ad Abramo. Abramo inizia il suo viaggio semplicemente ubbidendo al padre (come in quella società era previsto facesse, tanto più che non aveva figli propri), ma poi si interrompe a un certo punto per la morte dello stesso. Che cosa fare ora? Nulla dice che Terach avesse condiviso che cosa sperava di trovare in Canaan, e Abramo, suo figlio primogenito ed erede, si trova ora responsabile di una moglie e un nipote. Tornerà indietro con il proprio gregge o proseguirà? In base a che cosa?

Ecco la svolta: Abramo si pone in rapporto con qualcuno che non è suo padre defunto e non è una garanzia mondana. Si mette in relazione e si fida di Qualcuno che, pur non offrendogli prove, gli chiede di affidargli la sua vita con la semplice promessa che non lo abbandonerà.

A 75 anni (Gen 12,4), Abramo ascolta una parola che non gli promette vittoria e bottino, ma di diventare una benedizione per gli altri, e di trasformarsi (lui, vecchio e con una moglie vecchia e sterile) in una grande nazione. Un pazzo illuso, potremmo dire. Ma Abramo parte. Anzi, diciamo che riparte, o prosegue, perché nulla, esteriormente, è cambiato nel suo viaggio, se non che la comitiva ha una persona in meno, che è morta. Eppure, dentro tutto è diverso.

Un arrivo che è inizio

Quando Abramo arriva nella terra di Canaan, questa ovviamente non è vuota (Gen 12,6), né lui si trova immediatamente trasformato in un popolo. Eppure, in questa terra che non è sua, senza nulla che gli confermi di aver fatto bene ad ascoltare la voce di Dio, Abramo gli innalza un altare, come ringraziamento, segno di dedizione e luogo di incontro (Gen 12,7), come farà altre volte in seguito.

Lungo il racconto, la promessa divina si fa sempre più precisa:

  •   dapprima parla di fare di Abramo una grande nazione e un nome benedetto (12,1-2);
  • poi Dio garantisce che sta parlando della terra che Abramo vede davanti a sé, e che sarà offerta ai suoi discendenti (12,7-8);
  • quindi promette che quella discendenza sarà numerosa come la polvere della terra ed erediterà tutto ciò che si vede (13,14-17);
  • più avanti, che la discendenza di Abramo sarà numerosa come le stelle del cielo (15,4-5);
  • e vivrà in un territorio dai confini precisi che andranno ben oltre ciò che un essere umano può vedere solo con lo sguardo  (15,18-21);
  •   e poi che addirittura Abramo sarà capostipite non solo di un popolo ma di «una moltitudine di popoli», che abiterà proprio lì in Canaan e vivrà per sempre in comunione con Dio (17,4-8).

Questo elenco non esaurisce tutte le promesse e benedizioni divine ad Abramo raccolte nella Genesi, ma è già sufficiente per farci stupire del fatto che, davanti a tante promesse e al fatto che finora lui non abbia nulla in mano, Abramo si fida comunque di Dio.

Questa sua fiducia si ripercuote anche intorno a lui. Quando in Canaan le greggi sue e del nipote Lot sembrano essere troppe per la terra che hanno a disposizione, Abramo lo invita a dividersi. La scelta di come dividere il territorio spetterebbe al capo della comitiva, che lascia però decidere al nipote, il quale prende per sé la parte migliore (Gen 13).

I lettori potrebbero pensare che Abramo sia semplicemente un debole o un pavido, ma, subito dopo (Gen 14), una spedizione di cinque re assale Sodoma, dove Lot si è insediato, e porta via in bottino anche lui con la sua famiglia. A quel punto Abramo insegue e sconfigge i cinque re, chiedendo semplicemente la liberazione dei prigionieri.

Poiché vive nella fiducia verso Dio, non si affanna a garantirsi protezioni o garanzie terrene.

 

Perché amico

All’inizio ricordavamo come nella lettera di Giacomo si presenti Abramo non tanto come servo fedele e ubbidiente di Dio, ma come chi entra in una relazione distesa, affettuosa, di amicizia con il Signore. Ci sono almeno tre episodi che confermano di questa relazione alla pari.

I tre viandanti

Molto noto è quello in cui Abramo accoglie nella sua tenda tre viandanti, che poi sembrano diventare uno e si svelano come presenza divina (Gen 18). Abramo, senza una terra e senza discendenza, accoglie con serenità e generosità i tre passanti, in un mondo in cui non c’erano leggi che proteggessero chi non era del posto. E dopo quel gesto di dono, che viene seguito dalla promessa (nuovamente!) di un figlio, Dio e Abramo fanno due passi fino ad affacciarsi sulla profonda valle del Giordano, in fondo alla quale contemplano Sodoma. E Dio si trova a non poter nascondere ad Abramo ciò che ha intenzione di fare: distruggere Sodoma per i suoi peccati (18,17-19). Questa confidenza mostra un atteggiamento intimo di Dio nei confronti di Abramo. Dio non è un padrone, sia pure generoso e benevolo, ma un amico che, in coscienza, non può nascondere dei segreti al proprio amico.

Il figlio della schiava

Un altro passaggio è quello nel quale diventa protagonista anche Sara, la moglie di Abramo (Gen 16). A fronte della costante promessa di una discendenza, è lei ad avere l’idea di far concepire un figlio di Abramo alla sua schiava. Il figlio di una schiava nasce schiavo, ma se venisse adottato dalla padrona (con quel gesto antico e simbolico di parto sulle sue ginocchia), sarebbe libero e potrebbe ereditare i beni del padre. L’atteggiamento di Sara e Abramo nei confronti di Dio è quello non dei creditori che pretendono dal debitore ciò che questi ha promesso, ma degli amici che cercano di venire incontro alla promessa fatta dall’amico, di rendergli la vita più facile, facendo ricorso anche a una certa dose di automortificazione (Sara accetta di essere esclusa dalla promessa) e di inventiva.
Quando, poco dopo (17,18), Abramo, a colloquio con Dio, invocherà: «Possa almeno vivere Ismaele davanti a te!», di fatto pone il figlio della schiava Agar davanti a Dio, quasi a chiedergli: «È questo il figlio di cui parlavi, no?».

E la risposta di Dio è dolce e tenera: «Certo, benedirò anche lui, ma se ti ho promesso un figlio, l’ho promesso a te e a Sara». La promessa divina guarda ad altro, ma Dio non può non contemplare con commozione e un sorriso il tentativo (maldestro) di Abramo e Sara di semplificargli la vita, come tra amici.

L’alleanza

Un altro brano è per noi di comprensione più difficile, più solenne e mistico (Gen 15). Dio invita Abramo a predisporre una scena cruenta, con tre animali divisi a metà. A noi non dice nulla, ma i primi lettori del testo comprendevano bene di che cosa si trattasse: quando si concludeva un contratto, il più forte si impegnava a rispettarlo, mentre il più debole era esposto alla vendetta del primo, se non lo avesse mantenuto. Quando due contraenti si reputavano alla pari, si appellavano, come garante, a qualcuno di superiore. Quando a stringere un’alleanza alla pari erano due re, che non potevano rimandare a nessuno superiore a loro, seguendo un antico rituale hittita, squartavano degli animali e ci passavano in mezzo, mano nella mano: simbolicamente invocavano che chi avesse tradito l’alleanza finisse squartato come quegli animali.

Abramo viene chiamato ad allestire quel quadro, e quindi a pensarsi in un’alleanza alla pari con Dio. Al momento di sigillarla, però, non sa come procedere, finché un torpore non lo blocca, e ode promesse di fatica e schiavitù, ma anche di ricchezza e libertà per i suoi discendenti, e vede passare in mezzo agli animali «un braciere fumante e una fiaccola ardente» (15,17): Dio si impegna in un’alleanza e si offre alla condanna di essere squartato nel caso in cui non la dovesse rispettare. Allo stesso tempo, però, evita ad Abramo di passare a sua volta in mezzo alle due metà di animali, lo protegge (lui e i suoi discendenti) dalle conseguenze di un eventuale futura trasgressione del patto.

Un vero amico, che si espone in prima persona ma non vuole neppure concedere il rischio di male per gli altri.

Maria Mfariji shrine. Marsabit, Kenya – Abramo, icontra i tre alle quercia di Mamre – AfMC / Gigi Anataloni

Il dono definitivo

Il figlio promesso arriva quando Abramo ha cento anni (Gen 21,5). Isacco viene, però, chiesto in dono da Dio, capace di calcare la mano in modo apparentemente crudele sulla richiesta: «Prendi tuo figlio (sì, quello promesso e atteso da tanto tempo), il tuo unico figlio (non ci sono piani di riserva), che ami (non è un figlio ribelle, non sopportato: Abramo gli vuole bene), Isacco (chiamato per nome, non più solo il ruolo) e offrilo in olocausto» (Gen 22,2).

Se per la tradizione cristiana il cuore della chiamata di Abramo è l’iniziale invito a uscire dalla sua terra, per il mondo ebraico è invece questo brano. Se è impegnativo lasciare il quasi niente che si ha, in vista di una promessa più grande, molto più difficile è accettare di rinunciare a ciò che si è desiderato per tutta la vita e alla fine è arrivato.

Conosciamo la storia: Abramo si mette in movimento, inganna il figlio e si accinge a sacrificarlo finché viene fermato da Dio appena in tempo.

Può sembrarci un Dio improvvisamente crudele, ma non dimentichiamoci che il mondo antico riflette e insegna attraverso i racconti. Davvero Abramo avrà predisposto il sacrificio del figlio? Per gli antichi bastava che si fosse posto il problema se restituirlo a Dio qualora glielo avesse chiesto. Abramo continua a confidare fino in fondo nella promessa, senza attaccarsi a ciò che gli è stato donato come se fosse irrinunciabile, sapendo che è la relazione con Dio a garantirgli tutto ciò che gli serve. Dio non chiede il sacrificio della vita umana, e non chiede che si doni a lui ciò che si ama: sarà lui a farlo, con il Figlio suo, sulla croce, compiendo quel dono di sé assoluto, totale e sovrumano che all’uomo non può e non vuole chiedere.

Con una scelta feroce tra i tanti episodi che interessano Abramo (molto di più avremmo potuto riprendere e spiegare), ecco dispiegata davanti a noi un’esperienza umana ideale, fatta di relazione alla pari con Dio, di fiducia, di scambi e aiuto.

Ciò che la Bibbia ci dice è che il Dio di cui ci parla è fatto così, non cerca servi, ma amici con cui conversare, sorridere, vivere. «Non vi chiamo servi, ma vi ho chiamato amici» (Gv 15,15). Il primo, fondamentale uomo che vive in relazione con lui non ubbidisce a leggi ma si pone semplicemente nell’incontro, senza filtri né paure.

Angelo Fracchia
(Camminatori 01 – continua)

Maria Mfariji shrine. Marsabit, Kenya – Abramo, esci dalla tua terra – AfMC / Gigi Anataloni


2023, Un cammino nuovo

Per due anni abbiamo camminato insieme al popolo ebraico lungo le strade del deserto, nei sentieri dell’Esodo.

Quasi a prendere respiro da un percorso compatto e impegnativo, vogliamo dedicare il 2023 a respiri più brevi, ma speriamo non meno corroboranti. Incontreremo dieci personaggi del Primo Testamento, alcuni più noti, altri meno, ma tutti significativi per la loro esperienza ed esempio di fede, perché facciano da modello a noi che viviamo in un contesto completamente diverso.

Come ogni occasione in cui leggiamo la Bibbia, lo scopo non è tanto di imparare qualcosa su un mondo antico e lontano, ma di scoprire pillole di divina umanità utili al nostro cammino quotidiano di oggi.

A.F.




Uno sguardo dall’alto


Durante la lettura del libro dell’Esodo abbiamo cercato di concentrare l’attenzione sul testo biblico, perché fosse quello la nostra guida. Nello stesso tempo, però, abbiamo tentato di segnalare che quel testo non si vuole limitare a raccontare una bella storia (c’è anche questo, nella Bibbia), ma ha anche un intento educativo e propone un percorso di crescita nel rapporto con Dio.

Anche per questo, forse soprattutto per questo, leggiamo testi antichi. Perché ci parlano sì dei tempi ormai passati, ma continuano a valere per l’umanità di sempre.

Vogliamo ora provare a riprendere il discorso, sempre a partire dal libro, ma stavolta nel suo complesso, e guardando maggiormente alla sua validità per l’oggi.

Gli inizi (Es 2-4)

Mosè viene dal mondo ebraico (Es 2), anche se cresce alla corte del faraone. Quasi come se ciò che noi siamo, le nostre origini, siano significative ma non decisive. È vero che è sua madre a farlo crescere, ma, di fatto, non ci è neppure chiaro come sia possibile che, uscito dalla reggia, si riconosca in un ebreo (2,11-12).

Di certo, le sue origini non sono «purissime». È un ebreo, condannato per questo a morte, ma si salva. Cresce alla corte del faraone. Uccide un egiziano (2,12). Scappa per paura delle conseguenze (2,14-15). Nel deserto, finisce con lo sposare la figlia di un sacerdote, è vero, ma un sacerdote madianita tanto povero da mandare la propria figlia a pascolare (2,16-21).

Il percorso umano di Mosè, la figura di riferimento dell’ebraismo, non è perfetto: salvato da neonato a dispetto di altri che sono morti, privilegiato, assassino, pavido, approfittatore, marginale. È il percorso possibile di ogni uomo, non di un supereroe.

Questo uomo qualunque, ridotto a prendere il posto della propria moglie nell’andare a pascolare, si trova di fronte a un avvenimento straordinario, e si mette in gioco (3,1-2). Un roveto arde nel deserto senza consumarsi: l’evento è particolare, ma Mosè potrebbe trascurarlo, invece decide di avvicinarsi, di coinvolgersi, di lasciarsi scomodare.

Non importa quale sia la nostra storia, la nostra vita, le nostre caratteristiche. Non c’è una nobiltà di fondo o di partenza di cui godere. L’importante, nella nostra imperfezione, è avere disponibilità a non chiuderci nel nostro scontato, a lasciarci vincere dalla curiosità di saperne di più.

È da lì, dal muoversi per andare a vedere cosa sia quello strano fenomeno, che inizia il lungo e complesso colloquio con Dio (Es 3-4), un colloquio che si chiude con un Mosè che cerca di tirarsene fuori (4,13). Imperfetto fino alla fine.

Quella dell’imperfezione dei suoi «eroi», è una caratteristica propria dei testi biblici. Quasi tutte le tradizioni letterarie, e soprattutto quelle religiose, infatti, tendono a mitizzare e rendere perfetti i propri eroi (cristianesimo compreso, con le agiografie dei santi). I testi biblici ci restituiscono un’umanità autentica, difettosa, problematica… vera!

Quanti di noi, di fronte all’intuizione del senso della propria vita, non sono tentati di fuggire, di rifugiarsi nel consueto, nel normale, nello scontato, nel già detto, nel non impegnativo? Anche Mosè. E questo non sarà per Dio il motivo di smettere di parlargli.

La prima perseveranza (Es 5-13)

La chiamata divina, l’intuizione di partenza, non risolve tutti i problemi, non è un tocco magico che spiana il percorso davanti a Mosè. «Io sarò con te» non significa che il credente non si troverà davanti l’incredulità del suo popolo, a vantaggio del quale stava mettendosi in pericolo, e la fatica di convincerlo; o il rischio di presentarsi davanti al faraone. Gli stessi prodigi offerti da Dio, vengono dapprima replicati dai sacerdoti egizi (Es 7,11-12.22; 8,3).

Ad ogni passaggio, Mosè è sostanzialmente invitato a fidarsi nuovamente di Dio, a mettere a rischio la propria esistenza, a «scommettere» su chi si è dimostrato affidabile fin lì, ma senza prove o garanzie che continuerà a essere presente ed efficace più avanti.

È la dinamica della fede che qui viene presentata. Ci può essere una lenta fascinazione o un’intuizione improvvisa, ma questa poi deve concretizzarsi in una serie di passaggi quotidiani, «normali», dentro i quali occorre rinnovare la fiducia. E anche quando questa si è nuovamente dimostrata ben riposta, ciò non diventa una garanzia, ma il fondamento per una possibile nuova fiducia, più complessa ed esigente, un po’ più profonda e ulteriore, che non spezza però mai la dinamica di fondo.

Finché non si giunge al momento in cui viene richiesto un passaggio più radicale. Può essere la decisione di consacrarsi in una vita religiosa o di sposarsi, di intraprendere con chiarezza una strada di vita che non consente più di deviare ma, al massimo, di tornare indietro.

Fede come passaggio

Quello che scopriamo sul cammino di fede, infatti, è applicabile a qualunque percorso profondo. La fede non è qualcosa di alieno dall’umano, anzi lo porta al suo compimento più pieno; e ciò che si vive nella dinamica di fede è strutturalmente simile a qualunque forma di donazione o di compimento di sé. Anche per questo è tanto rilevante: perché non si sovrappone all’uomo negandolo, ma lo trasforma da dentro, rendendolo pienamente se stesso.

Per Mosè questo passaggio è la notte di Pasqua (Es 11-13). Quella notte, anche gli ebrei non possono più stare alla finestra a guardare, ma devono decidere da che parte stare. L’angelo del Signore passa di notte, di casa in casa, a reclamare i primogeniti, e solo chi si è esposto, segnando con il sangue di un agnello sacrificato gli stipiti della propria porta, verrà risparmiato. E poi si deve partire, con anziani e bambini, bestie e masserizie, inseguiti da un esercito con carri e cavalli, verso una fuga che non sembra promettere nulla. E quindi occorre fare il grande balzo, accettando di entrare nell’acqua del mare mentre si è inseguiti dai soldati.

È il passaggio più trasparente nella sua dinamica simbolica, e quello forse più sconcertante anche per il nostro mondo. Giunge un tempo in cui la fiducia chiede il passo decisivo, quello che sembra addirittura negare ciò che promette.

Al popolo ebraico viene chiesto di fidarsi di una parola che promette la vita e la libertà entrando dentro la morte (il Mar Rosso), attraversandola. Per i credenti di ogni tempo (e verrebbe addirittura da dire in ogni fede, persino laica) il passaggio del mar Rosso rimanda simbolicamente all’accettazione della sfida di una libertà che si realizza proprio legandosi in una consacrazione, in un legame di coppia, o in una scelta di vita che non ha molte alternative, ma che allo stesso tempo rende possibile il costruire davvero la propria libera scelta.

E si entra nel mare, passando dall’altra parte, non in virtù di prove o dimostrazioni che ciò non sarà pericoloso, ma solo fidandosi delle parole di una promessa: che c’è una terra, ed è più avanti, anche se nulla ancora garantisce che esista davvero. Ma se ci si ferma, o si torna indietro alle cipolle d’Egitto, quella promessa svanirà.

La seconda perseveranza

Abbiamo già fatto notare come le nostre sceneggiature filmiche della storia dell’Esodo tendano a fermarsi qui. La dinamica di lotta e liberazione, persino nella fiducia, è qualcosa di noto e comprensibile per la nostra cultura. Essa tende però a immaginarci finalmente liberi e vincitori solo quando l’esercito nemico è stato vinto. Il racconto dell’Esodo, invece, ci porta più in là.

Un cammino di fiducia cresce, scelta dopo scelta, fino ad arrivare a quella più grande, in qualche modo definitiva: una volta passato il mare, si potrà rimpiangere l’Egitto, come gli ebrei faranno, ma non si potrà più tornare indietro. Ma la storia non è finita. Continua e, anzi, bisognerebbe dire che narra una fase nuova, fatta di cammino nel deserto, di affidamento giorno dopo giorno, nel quale bisogna raccogliere la manna solo per quel tanto che serve a consumarne fino al tramonto (Es 16). È vero, mangiare dello stesso cibo tutti i giorni per quaranta anni può indurre a pensare che di certo ci sarà anche domani, ma in realtà non ne esiste nessuna garanzia. E conservare la manna, per avere un minimo di sicurezza del domani, significa trovarla imputridita al mattino dopo.

Si sta parlando, in fondo, del nostro nutrimento costante, nutrimento di relazioni, di fiducia spirituale, quello che anche Gesù nel Padre nostro suggerirà di invocare come «quotidiano». Perché nelle relazioni, nella fiducia, nella vita, non esistono dispense o congelatori, c’è soltanto il cammino passo dopo passo, giorno dopo giorno nella continuità. Anche con Dio.

Libertà è servizio

Poco dopo aver passato il mare per approdare alla libertà, e prima dei lunghi anni di marcia nel deserto, ecco che quella libertà è chiamata a farsi servizio per diventare autentica e piena (Es 19). Il nostro tempo culturale, che, come tutte le culture, presenta molti pregi e qualche difetto, esalta in ogni modo la libertà. Il che è buono, salvo declinarla a volte come libertà anche di capriccio, di disfare tutto e ripartire sempre da capo. Il libro dell’Esodo ci ricorda che uno stile di questo tipo non costruisce umanità. Dio, che conosce l’uomo, non pretende un’adesione immediata da subito. Ma dopo mesi passati insieme, dopo aver preso chiaramente le parti del suo popolo con le piaghe inflitte agli Egiziani, avergli fatto passare il mare, averlo dissetato e nutrito nel deserto, gli chiede se vuole impegnarsi in una relazione definitiva. Questa, indubbiamente, sarà anche servizio, sarà sottomettersi a un legame che non permette più di mantenersi pienamente liberi. Ma è il solo modo di costruirsi, di essere autenticamente umani, di diventare una nazione «messa da parte» per Dio, la pienezza di chi fa dialogare il mondo divino e quello umano (Es 19,6).

Si tratterà di un servizio da accogliere come dono dall’alto (Es 20), ma anche da rifare costantemente proprio (Es 34,1-4), resistendo alla tentazione di plasmarsi un Dio più prevedibile e appropriabile, che può essere chiuso in una stanza e considerato «mio» (questo, in fondo, è il vitello d’oro: Es 32).
Il Dio d’Israele, invece, è un Dio vivo, che non sopporta su di sé una definizione, ma si fa sempre trovare come una presenza mai del tutto prevedibile, eppure affidabile (Es 3,14).

Fiducia da far crescere affidamento dopo affidamento, con dedizione profonda e totale, fedeltà nel quotidiano (Es 25-31; 35-39), così da poter sperare quella terra promessa che «c’è, ed è avanti. Ciò non significa che la storia abbia senso, proba­bilmente non ce l’ha, ma (è que­sto il paradosso del credente) le verrà dato» (così scrive Paolo De Benedetti, che abbiamo già citato nel numero di ottobre 2021). Fidiamoci, un senso a questa storia Dio lo darà.

Angelo Fracchia
(Esodo 20 – fine)


Cncludiamo qui le venti puntate dedicate al libro dell’Esodo. Ringraziamo di cuore Angelo Fracchia per averci accompagnato in questo «cammino di libertà», sempre coinvolgente e attuale, e Marco Francescato per le sue splendide illustrazioni. Grazie




Dio tra l’uomo (Es 40)

Ci è capitato più volte, nella lettura del libro dell’Esodo, di ricordare che alcuni sottintesi culturali antichi non sono i nostri e quindi abbiamo bisogno di una «traduzione» per comprenderli. A volte ci verrebbe da pensare che questi antichi sottintesi siano davvero difficili, mentre noi ci capiamo immediatamente, mettendo tutto in chiaro. In realtà, anche noi utilizziamo determinati linguaggi culturali, zeppi di sottintesi e «scorciatoie», che però impariamo fin da piccoli, in un lungo apprendistato, e che quindi poi ci suonano assolutamente naturali, come la lingua che abbiamo imparato dai genitori.

Ad esempio, noi siamo abituati a pensare che in un racconto, in un film, in una barzelletta, l’ultimo momento sia il più importante. L’ultima pagina di un libro, l’ultima scena ci devono lasciare il gusto buono, finale, o addirittura la sorpresa che dà improvvisamente senso a tutto il resto. Invece sono rari i contesti in cui ci comportiamo diversamente, come, ad esempio, con le canzoni di musica leggera, che spesso puntano a impressionare soprattutto all’inizio, prendono ancora quota in una parte centrale che spesso è quella che ricordiamo meglio, e poi finiscono ripetendo e sfumando.

Il modo di narrare dell’antichità, come abbiamo già scritto, assomiglia a quest’ultimo «linguaggio culturale»: le cose importanti sono all’inizio o semmai al centro. Le conclusioni spesso ci sembrano mosce, poco significative, e così se le aspettavano gli antichi. E questa è l’impressione che, a una lettura superficiale, potrebbe lasciarci anche il libro dell’Esodo.

Ciò non toglie che anche per l’antichità un libro finisce all’ultima riga, e che il retrogusto lasciato non può non risentire anche delle ultime pagine. I contenuti più importanti del libro dell’Esodo sono già arrivati, eppure anche il capitolo 40 non è semplicemente banale, e chi l’ha composto ha pensato di renderlo in qualche modo significativo. Come?

Capitolo noioso? (Es 40)

Una cosa è chiara: certamente noi non avremmo scritto quell’ultimo capitolo dell’Esodo così come lo leggiamo. In esso si raccontano tutte le indicazioni che Dio affida a Mosè per costruire la tenda del convegno, quel luogo di incontro tra il cielo e la terra che idealmente proseguirà nel Santo dei santi, il punto più interno, intimo e sacro del tempio. È molto probabile che questa pagina per noi suoni noiosa e con poco nerbo. Non l’avremmo messa in un luogo del libro così importante, visibile.

La scelta degli autori è però interessante. All’inizio dell’Esodo non si era parlato di preghiera o di culto, né del Dio creatore. La vicenda era iniziata con un incontro, e costantemente il Dio d’Israele si era presentato innanzi tutto in relazione con il suo popolo. Non aveva esordito chiedendo di pregarlo in certi modi, tempi o parole, non aveva offerto in primo luogo indicazioni morali, ma si era concentrato completamente sulla relazione: «Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio» (Es 6,7). Non sembrava esserci spazio per il rito che, lo sappiamo, si ripresenta sempre uguale e prevedibile, ma rischia di essere difficile da capire, da vivere: tranquillizzante per gli anziani, che sanno come si snoda e come va a finire, noioso per i giovani, perché sembra che non succeda mai nulla di nuovo.

La quotidianità del rito (Es 40,1-33)

Se il rito sembra negare la passione della vita vera, che parrebbe sfuggirle, nello stesso tempo quando l’entusiasmo delle grandi scelte umane deve farsi concretezza, la vita stessa  inizia spesso a parlare quel linguaggio: sono i due fidanzati che riascoltano «la nostra canzone», i due sposi che ritornano nello stesso luogo in cui si sono incontrati la prima volta, i due amici che scherzano con le stesse parole che avevano un senso e un’origine anni prima, e ora rinviano «semplicemente» a tutti gli anni in cui sono state ripetute. Con il recupero di quei gesti e parole che rimandano alla passione dell’inizio, si giustifica e rende profondo il cammino quotidiano.

Chi compone il libro dell’Esodo conosce bene queste dinamiche umane, e dopo aver dato all’incontro tra Dio e l’uomo (faticoso, tormentato, non sempre lineare) tutta la centralità che merita, ricorda che per la maggior parte del tempo della vita umana questo incontro non viene vissuto nell’eccezionalità di un roveto che brucia senza consumarsi o del passaggio tra mura d’acqua nel mare, ma nel quotidiano del cammino fatto passo dopo passo, giorno per giorno, senza paure o gioie eccessive.

Chiudendosi con il luogo del rito (quel luogo che accompagnerà Israele nel deserto, ma arriverà fino al centro del tempio), il testo ci dice che quelle vicende straordinarie, vissute solo dalla generazione dell’esodo e richiamate ogni anno a Pasqua, si prolungano nel quotidiano, nell’ordinario, il quale comprende in sé quelle ritualità che rimandano all’evento dell’origine e che quell’evento mantengono presente e vitale.

Ed è significativo che il cuore del rito venga effettivamente colto nella tenda del convegno, nel luogo dell’incontro. Perché il succo del libro non è nella salvezza umana (che pure c’è), né nel riconoscimento della grandezza divina (che non manca), ma nell’incontro tra i due. Ciò che sta a cuore a Dio, che ne dice la gloria e garantisce la vita dell’uomo, è l’incontro, ritualmente garantito da un luogo e da sacerdoti che si prendano cura di mantenerlo simbolicamente vivo.

L’ultima scena (Es 40,34-38)

Ma l’uscita di scena definitiva deve ancora darsi. Semplice e solenne insieme, è una sigla finale adeguata al gran libro che chiude.

Quando tutto è pronto per l’incontro, quando Mosè ha eseguito tutto ciò che il Signore gli ha ordinato di fare, finalmente la nube copre la tenda del convegno. Non c’è neppure bisogno di ricordare quale nube sia e perché non sia una come tutte le altre. È quella presenza divina che ha accompagnato il popolo fin dall’Egitto, che aveva minacciato più volte di abbandonarlo, e che ora invece copre la tenda del convegno, riconoscendola come il proprio luogo. Infatti, la gloria del Signore riempie la dimora.

La gloria di Dio

Abbiamo già parlato della «gloria» di Dio (vedi MC 8-9/2022 p. 33). Non è, dicevamo, la sua esaltazione, ma il suo volto autentico, il suo mostrarsi per ciò che è. E il Dio dell’Esodo decide di mostrarsi nel con-venire, nel radunarsi con altri, nell’alleanza stretta con il popolo. Dio si riconosce innanzi tutto non come creatore del mondo, non come vincitore di nemici, non come garanzia di vita e salvezza (tutte sue caratteristiche vere e autentiche, certo), ma come colui che dimora nell’incontro con l’uomo. Il Dio creatore, che non aveva sopportato di stare da solo, si compie autenticamente vivendo in comunione con noi, in una relazione che può essere soltanto scelta e accolta e mai imposta, perché fatta non di sovrano e suddito, ma di alleati che si trattano alla pari (cosa che l’uomo non può pretendere, ma solo accogliere come un dono divino). Di fronte all’essere umano che sceglie di stare con Lui e gli prepara una dimora per l’incontro, finalmente anche Dio può restare, fermarsi, riposare. Come in una nuova creazione, il punto d’arrivo è lo smettere di fare, e lo stare insieme.

Come per il racconto della creazione in Genesi 1, questo diventa, senza volerlo, un appello a noi, spesso presi dalle tante cose che sentiamo di dover fare. Dio, nostro creatore e modello, riconosce il punto d’arrivo della sua creazione nel riposare.

In cammino

Eppure, ciò non deve far pensare che, finalmente, siamo arrivati a un punto fermo, stabile, definitivo.

Gli israeliti non sono ancora arrivati alla dimora, e quindi non c’è arrivato neanche Dio, che ha deciso di camminare con loro.

Potremmo essere tentati di immaginarlo mentre li prende miracolosamente e li fa volare nella terra promessa, come spesso ci piacerebbe che facesse anche con noi, liberandoci magicamente da paura e fatica (a volte, addirittura, lo accusiamo di non volerci bene, siccome non ci risolve così i problemi).

Eppure, Dio non lo fa, non toglie loro il sudore e l’angoscia di quaranta anni di cammino nel deserto. Resta però con loro, condivide l’instabilità, la stanchezza, le preoccupazioni. Non al loro posto, ma insieme a loro.

Aperti alla sorpresa

Di più. Li invita a non fidarsi della routine, a restare sempre aperti alla novità, alle sorprese. Ci saranno mattine in cui la nube non si alzerà dalla dimora, e allora anche gli ebrei rimarranno nell’accampamento, ad aspettare. Altre in cui invece partirà, e gli israeliti la seguiranno. Ma ci sarà sempre, lungo le notti (e le notti nel deserto sono cupissime e fredde!), la sua presenza come un fuoco nella dimora, un fuoco che illumina e riscalda.

Dio non promette al suo popolo che avrà sempre le farfalle nello stomaco, né la conclusione delle favole, «e vissero tutti felici e contenti». Dio promette di esserci, di camminare insieme a lui, di non abbandonarlo. Prospetta un percorso anche faticoso, lungo, pieno insieme di pericoli, di gioie e di noie. Invita a restare aperti alle novità che possono arrivare, anche se solo sotto la veste del guardare se anche oggi si parte o si resta fermi.

La scoperta del senso

Il lungo cammino del libro, che nella prossima ultima puntata vorremmo riprendere per coglierlo nella sua globalità e attualità, non ci ha portati a «una fine», ma «al fine», che è l’incontro pieno di Dio con l’essere umano. E che non cancella ma anzi dà sapore, gusto e senso a una vita quotidiana, «normale», ma finalmente libera perché in unione rispettosa con chi guida e illumina le vite dei suoi fedeli.

Coloro che servivano il faraone da schiavi, ora prestano un servizio libero, adulto e dignitoso a un Dio che vuole la loro vita e la loro gioia. Non c’è che un passo piccolo per sentirsi dire: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).

Angelo Fracchia
(Esodo 19 – continua)




Vivere di un Dio buono (Es 34)

Mosè ce l’ha fatta: è riuscito a convincere Dio a restare in comunione con il suo popolo dalla testa dura (Es 34,9). Viene quindi invitato di nuovo a salire sul monte, come prima, come se nulla fosse successo.

Ma, come sa bene chiunque viva in relazioni umane, non si ricomincia mai «come prima». I rapporti incrinati possono essere risanati e possono diventare anche più profondi, autentici e solidi. Ma non è possibile che ritornino come all’inizio. La nostra storia ci segna, diventa parte di noi, di un noi accresciuto, magari con più cicatrici, ma anche più vivo e vero. Vale anche per la relazione tra Dio e l’uomo.

Si riparte (Es 34,1-8)

Dio aveva minacciato di abbandonare il popolo perché morisse nel deserto (Es 32,9-10). A questa intenzione divina Mosè si era contrapposto, richiamando Dio al suo ruolo, alla sua vocazione (32,11-13). Dio aveva allora ipotizzato di far arrivare Israele alla terra promessa, ma senza seguirlo (33,1-3), ma anche su questo aveva dovuto ricredersi (33,15-17). Sono reazioni e dinamiche che ci dicono molto sul Dio d’Israele, e su cui torneremo.

Intanto, però, finalmente Dio richiama Mosè sul monte.

Prima di salire, gli chiede di tagliare due tavole di pietra, «come le prime». Non è chiaro chi avesse tagliato le prime due (Es 24,12; 31,18), quelle che Mosè aveva poi spezzato al vedere il vitello d’oro (24,12). Esodo dice solo che erano state scritte «dal dito di Dio» (31,18). Si può, fino a questo punto, supporre che il lavoro di taglio delle nuove pietre sia soltanto preparatorio, e che sarà poi Dio a scrivervi sopra di nuovo. Non sarebbe, in ogni caso, un passaggio secondario. Conosciamo troppo bene il valore delle reliquie per sottovalutare il gesto di Mosè, il quale, pur fuori di sé per l’offesa fatta a Dio, aveva comunque distrutto un’opera divina. Il fatto che Dio provveda a restaurarla significa che è disposto a passare sopra alla distruzione di un frutto delle sue mani. Ma quando poi Mosè scenderà dal monte con le due tavole in mano, non si dirà più che il «dito di Dio» vi ha scritto sopra. Dobbiamo supporre che, dal momento che non si dice niente, siano nuovamente opera totalmente divina? Oppure che, come le ha tagliate, sia stato ancora Mosè a scriverci sopra? Non lo si dice, e forse c’è un motivo. Ma anche su questo torneremo tra poco.

Perché una cosa chiara, in questa ripartenza, c’è.

Dio si presenta

Dio torna a stringere un’alleanza dicendo chi è, e lo fa in un modo estremamente solenne, ossia ripetendo per due volte il proprio nome. Questo accade molto di rado nella Bibbia, e mai da parte di Dio, ma sempre solo in preghiere di uomini. Chi è arrivato fin qui leggendo il libro dell’Esodo, non può che restarne stupito, e fa bene a riaccendere l’attenzione, se per caso si fosse assopita.

Se in precedenza Dio si era presentato semplicemente come «sarò ciò che sarò» (Es 3,14: occorrerà stare con lui, per conoscerlo) o come «il tuo Signore che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto» (Es 20,2: cioè colui che ha operato prodigi di salvezza per il popolo), qui riconduce tutto all’essenziale e proclama: «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6).

In questa presentazione può valere la pena richiamare il fatto che qui, l’autore di Esodo, pensa a un Dio che premia i suoi fedeli e punisce gli infedeli (Es 34,7). Detto questo, il premio e la punizione vengono elargiti con una sproporzione enorme: la colpa viene castigata fino alla terza o quarta generazione, secondo il modello per cui nonconta il singolo ma il clan, ma l’amore viene ricompensato fino alla millesima. In quel contesto culturale bisogna dire che Dio premia e punisce, ma, nello stesso tempo, che le due possibilità non sono alla pari, e davanti all’uomo si apre, con molta maggiore probabilità, la relazione con un Dio di amore.

Tanto è vero che il Signore applica a sé quattro parole pregnanti. «Pietoso» rimanda al dono gratuito, a un perdono regalato non perché sudato e meritato, ma perché Dio vuole perdonare. «Misericordioso», però, è ancora più profondo, perché richiama le viscere, anzi l’«utero»: l’idea è quella di un sentimento che prende alla pancia, irresistibile, da «farfalle nello stomaco». Dio, insomma, ammette di voler amare il suo popolo per scelta, ma anche perché non può farne a meno, perché è preso da un innamoramento totale.

In quanto agli altri due termini che l’ultima versione della Bibbia Cei ci restituisce con «amore e fedeltà», il primo indica il sentimento di un genitore, quell’affetto che non pretende di essere ricambiato e che esisterà per sempre e comunque, intatto e disponibile, mentre «fedeltà», collegato alla parola che è diventata il nostro «Amen», segnala l’affidabilità e la solidità. Dio dice di non poter fare a meno di amare i suoi, e di farlo con costanza, generosità, totalità e fedeltà.

Un (altro?) decalogo (Es 34,10-28)

A questo punto Dio (ri)condivide i termini dell’alleanza con il suo popolo, mediante quelle che, al v. 28, sono indicate come «le dieci parole», il modo per chiamare il decalogo già offerto al popolo al capitolo 20. Questa nuova offerta del decalogo sarebbe anche comprensibile (Dio riprende l’alleanza con il popolo), se non fosse che i comandi sono diversi.

Come è possibile? Che cosa è successo?

I redattori dell’Esodo sono stati disattenti? O hanno lo hanno fatto apposta, per suggerire qualcosa al lettore? E che cosa? Come nei libri gialli, anche stavolta rimandiamo la risposta a tra poco.

Del «nuovo decalogo» evidenziamo qui almeno un comandamento, che peraltro non si trova solo qui (si era già letto in Es 23,19 e tornerà in Dt 14,21) e che sarebbe poi diventato particolarmente significativo nella storia del popolo ebraico: «Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre» (Es 34,26). Perché? Il senso è che l’uomo ha il diritto di sfruttare la vita animale per nutrirsi, ma non deve dimenticarsi che è vita, dono divino. Utilizzare il latte, alimento che permette di diventare adulti, per cuocere un capretto che, quindi, adulto non diventerà, sarebbe quasi uno scherzo crudele. È vero che né il capretto né la capra coglierebbero questo sarcasmo, ma chi cucina sì, e deve mantenersi compassionevole e misericordioso come Dio. E per essere sicuri di non violare questo comandamento, gli ebrei evitano del tutto di unire nel cibo carne e latte o latticini, mantenendo in cucina due set completi di stoviglie, che non devono mescolarsi. Così, si dice, ogni volta che ci si accinge a cucinare, si deve decidere quale tipo di cibo preparare, e ci si ricorda di dover essere rispettosi verso tutto il creato, che ci dona da vivere ma non deve essere umiliato. È un adattamento possibile al sogno divino di un mondo senza violenza (cfr. Gen 1,29-30).

Qualche risposta

Proviamo a cogliere meglio il senso del racconto, abbozzando anche qualche risposta ai quesiti che abbiamo lasciato sospesi.

L’essere umano è abituato alla dinamica del premio-castigo: se mi comporto bene, sarò premiato, altrimenti sarò castigato. È una logica iscritta talmente nel profondo, che riemerge a volte anche nei rapporti di amicizia o di amore più gratuiti e generosi. Ed è una dinamica che ricompare con forza anche nelle tradizioni religiose. Le religioni antiche, poi, ancora più di quelle che conosciamo oggi, si concentravano moltissimo sulle azioni e sul fare, il che si presta più facilmente a ribadire questa logica.

Il mondo dell’Antico Testamento non fa eccezione, e sono numerosi i passi che richiamano al dovere dell’osservanza di regole o rimarcano come la conseguenza dell’infedeltà sia la punizione. Nello stesso tempo, però, il percorso del popolo d’Israele con Dio lo rende sempre più consapevole che quella relazione è diversa. Il Dio d’Israele è il più importante di tutti gli dei (più tardi si arriverà a dire che è l’unico), eppure ha scelto, come «sua proprietà», un popolo piccolo e debole, dal quale è stato tradito più volte, ma che lui non ha mai abbandonato.

È quello che il racconto del doppio dono delle tavole della legge ribadisce: Dio aveva salvato dalla schiavitù il popolo, gli aveva liberamente chiesto se volesse diventare il «suo popolo» (Es 19,4-8), e, a quel punto, gli aveva dato delle norme che erano state disattese subito, tanto che aveva pensato di abbandonarlo. Ma ha accettato di ritornare nella relazione, affermando di essere un Dio «misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà». E ridà le tavole, «come le prime», offrendo nuovamente dieci comandamenti, che però non sono identici ai primi.

Il racconto intende suggerire che cruciale è la relazione, la quale ovviamente comprende anche dei comportamenti conseguenti, ma in realtà le regole e le leggi non sono il cuore del discorso. Il cuore è la relazione che Dio è disposto a salvaguardare anche a costo di rimangiarsi la propria parola. Non un Dio «che non deve chiedere mai», severo e austero, dunque, ma un Dio amante, che per il suo amore viscerale verso l’uomo perde anche la faccia (o la vita, come comprenderà e vivrà Gesù: cfr. la parabola della vigna di Lc 20,9-13).

E che Dio pensi innanzitutto alla relazione, e a una relazione alla pari, è in fondo detto anche dallo strano gioco sull’autore delle «seconde tavole». Chi le ha scritte? Dio o Mosè? Dal testo non si capisce, e in fondo sembra quasi che Dio, sorridendo, suggerisca che non è importante. Come nel rapporto tra amici, come in una coppia ben affiatata, non è significativo decidere chi metta a disposizione o faccia che cosa.

È la stessa dinamica che i cristiani vivono nell’eucaristia, dove il grano e l’uva sono doni divini, che però devono essere coltivati e non diventano pane e vino senza lavoro, e, una volta offerti, vengono restituiti trasformati ai fedeli. È come in un’amicizia profonda, dove ci si scambia doni di continuo, finché non sia più possibile dire chi abbia dato che cosa, ma si deve giustamente parlare di «comunione».

Un Mosè trasformato

Quando Mosè torna a valle, il suo volto è pieno di «raggi» (Es 34,29). Questa parola in ebraico coincide con «corno», il che ha dato origine alla immagine del Mosè «cornuto» che vediamo, tra l’altro, anche nella statua michelangiolesca.

È il segno che la relazione di Mosè con Dio lo ha cambiato irrevocabilmente. Sembra quasi che gli autori dell’Esodo vogliano suggerire che chi incontra Dio in profondità, intimamente, con quello sguardo «faccia a faccia» da cui Dio non è disturbato né rifugge, resta cambiato, diventa persona nuova. Il suo volto acquisisce uno splendore che rende insostenibile il guardarlo (v. 30), tanto che per parlare con gli altri, con quelli che non hanno ancora completamente incontrato Dio, Mosè si dovrà coprire il volto con un velo, per non abbagliarli.

Si direbbe quasi che la comunione profonda con Dio inizi a portare nel mondo quello splendore del corpo glorioso che sarà pieno solo nell’incontro definitivo, come i discepoli di Gesù  sperimenteranno alla trasfigurazione (Mc 9,2-6), dove pure l’apparire del volto «autentico» di Gesù riempie i discepoli di paura, anche se pure di fascino.

Si può dire che stare con Dio trasformi gradualmente l’uomo in lui, così da essere sempre più profondamente e completamente se stesso. L’uomo pieno, perfetto, diventa come Dio. Come Gesù ridirà con la sua stessa vita.

Angelo Fracchia
(Esodo 18 – continua)

Paesaggio della penisola del Sinai lungo la strada che da Dahab va verso Sharm el Sheikh (foto Benedetto Bellesi)




Le spalle di Dio (Es 33)


Dopo il famosissimo capitolo del vitello d’oro (Es 32), il libro dell’Esodo ce ne riserva uno probabilmente molto meno noto, anche perché di difficile comprensione, ma non meno importante.

Le interpretazioni diverse, soprattutto sui particolari, sono molte. Sembra tuttavia possibile, anche appoggiandoci a tanti biblisti che vanno nella medesima direzione, spiegare il capitolo 33 nel modo che segue.

Fuori dalla luna di miele (Es 33,1-6)

Siamo abituati, soprattutto nella liturgia della messa, a leggere la Bibbia divisa in brani corti. Questo ha il vantaggio di stimolarci ad accostarci a essi con maggiore profondità, ma comporta anche il rischio di farci dimenticare ciò che viene prima e, magari, di non considerare quello che viene dopo.

Tra l’altro, non dobbiamo trascurare il fatto che persino la divisione in capitoli e versetti non risale al tempo in cui sono stati scritti i testi.

Per cui dobbiamo ricordarci che i vari capitoli sono legati l’uno all’altro e quindi che la pagina che ci accingiamo ad approfondire viene subito dopo il racconto dell’adorazione del vitello d’oro.

Proprio quell’esperienza, infatti, spiega forse la stranissima richiesta di Dio agli israeliti, presente nei primi versetti del capitolo 33, di togliersi di dosso tutti i loro ornamenti. Dio promette nuovamente al popolo ebraico il dono della terra, ma aggiunge che Lui non prenderà più parte al cammino: si tira fuori dal gioco (Es 33,3) perché il popolo ha la testa troppo dura, è ribelle e non si fida di Lui (come ha dimostrato con l’episodio del vitello d’oro). A questo punto, quando il popolo viene informato da Mosè di questa decisione, «tutti fecero lutto: nessuno più indossò i propri ornamenti» (33,4). Nel versetto successivo sarà Dio stesso a ordinare (33,5) «ora togliti i tuoi ornamenti». Sembra, peraltro, che questa spogliazione abbia un carattere definitivo: «Gli israeliti si spogliarono dei loro ornamenti dal monte Oreb in poi» (33,6).

Nei versetti successivi, il testo prosegue presentando la normalità di una relazione del popolo con Dio (34,7-11) mediata da Mosè presso la tenda del convegno, alla quale «si recava chiunque volesse consultare il Signore». Più avanti, poi, troviamo di nuovo un Mosè che, come nell’episodio del vitello d’oro, si mette a contrattare e a richiamare Dio alla sua vocazione. Il Signore, che in 32,9-10 aveva pensato di distruggere il popolo garantendo al solo Mosè una discendenza, e che aveva cambiato idea per l’insistenza dello stesso Mosè (32,11-13), ora pare di nuovo recedere dalle sue posizioni: dapprima immagina di garantire terra e vita al popolo senza accompagnarlo, poi concede a Mosè che non lo lascerà solo, infine, quasi con riluttanza, assicura che salirà con il popolo fino alla terra promessa (32,12-17).

Il Dio che aveva detto di essersi stufato di Israele ammette, a denti stretti, che non lo lascerà.

Tuttavia, non si cambia idea sugli ornamenti.

Qualcuno ha visto in questo episodio il fondamento di una religione senza statue, quadri, immagini di Dio. Sembra però strano che un aspetto così centrale della religione ebraica sia giustificato da un passo della Scrittura che a prima vista pare marginale, quasi casuale.

Inoltre, è vero che il culto degli ebrei è molto più asciutto ed essenziale di tanti altri, ma nella storia e nella liturgia ebraica non mancheranno abiti liturgici, filatteri, mezuzot (piccole citazioni della Bibbia da affiggere alle porte o da appendere ai capelli), tallit (il mantello per la preghiera), ecc. (cfr. Es 31,10; Nm 15,38-39; Dt 11,18-20). Dunque, Es 33,4-6 è falso?

Gli ornamenti normalmente sono oggetti che sottolineano e accrescono la bellezza di chi li porta. Spesso sono citati in contesti nuziali: allo scopo della seduzione, si presentano ornate Giuditta (Gdt 10,4; 12,15) ed Ester (Est 5,1c); nei profeti, e nel contesto simbolico in cui si parla della relazione tra Israele e Dio (ossia, dove c’è bisogno che il simbolo parli in modo chiaro) si allude spesso all’unione parlando di ornamenti (Is 49,18; Ger 2,32; Ez 16,39).

La rinuncia a utilizzarne, decisione presa dal popolo ma poi ratificata dal Signore, potrebbe suggerire l’uscita della relazione tra Israele e il suo Signore dal contesto della «luna di miele».

Di fronte al primo tradimento, Dio minaccia di andarsene, ma poi rimane, con la consapevolezza che potrà essere tradito ancora, ma anche con la determinazione a concedere nuove opportunità e spazio a questo amore. Anche Dio sembra passare dall’amore ingenuo, giovanile, a quello adulto, quello consapevole dei limiti dell’altro e della relazione stessa, ma anche determinato a portarla avanti.

È l’amore più tormentato ma anche il più profondo, quello che parte dal cuore, ma coinvolge tutte le dimensioni della persona.

È l’amore con cui ora anche Dio sa di amare Israele. Perché non si ritrova semplicemente attratto dal suo popolo, ma lo ha scelto.

La gloria di Dio

È a questo punto che Mosè decide di porre a Dio una richiesta: «Signore, mostrami la tua gloria» (Es 33,18).

Se ci sembra una frase uscita dal nulla, senza collegamento con il discorso, è perché non ne cogliamo i sottintesi.

La «gloria», nella lingua e nello stile dell’Antico Testamento, è mostrare chi si è davvero. Non si glorifica qualcuno perché lo si acclama o lo si esalta, magari in modo esagerato. La «gloria» di un atleta, ad esempio, può essere la sua medaglia d’oro, il suo record personale, che dicono chi è e che cosa è stato capace di fare, non l’urlo della folla che lo festeggia riconoscendo soltanto quello che lui è. Allo stesso modo la «gloria» di Dio non consiste nelle parole di lode che noi diciamo, ma nel suo mostrarsi per quello che Lui è davvero.

Mosè, insomma, chiede a Dio di poterlo vedere, di poter capire chi è, senza più filtri. Ne avrebbe il diritto, dopo aver fatto per lui tanta fatica. Ed è poi anche il desiderio di ogni innamorato, che vuole sempre contemplare il volto dell’amato. È la richiesta di ogni mistico.

Se ci pensiamo, capita anche a ognuno di noi, magari con meno meriti di Mosè e con parole diverse, di chiedere la stessa cosa: «Dio, se ci sei, fammi capire che cosa vuoi, che cosa progetti… Fammi capire perché tanta ingiustizia, tanta sofferenza… Mostrati, facci vedere chi sei davvero».

Noi potremmo anche pensare di non meritarcelo, ma chi negherebbe che Mosè, forse, questo eventuale privilegio se lo è proprio guadagnato?

Un Dio invisibile?

E invece no, Dio non lo concede. «Non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedere il mio volto e restare vivo» (Es 33,20).

Ci sembra veramente di trovarci davanti a un Dio spietato, insensibile. Forse persino un po’ ottuso. Perché mai bisognerebbe morire solo per averti visto? Non puoi fare in modo che ciò non accada? Non puoi fare un’eccezione almeno per un campione della fede come Mosè?

«Ti coprirò con la mia mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Es 33,22-23). Meglio di niente, certo, anche se dalle spalle non siamo sicuri di riconoscere una persona.

E quanto previsto accade: Dio pone Mosè in una fessura della roccia e gli passa davanti, coprendogli il volto con la mano e proclamando, nello stesso tempo, la propria gloria. La proclama, non gliela lascia vedere. La dice, anche se non lascia che la si veda in faccia. E questa gloria, la natura stessa di Dio, non è quella di un giudice giusto e severissimo, non è quella del creatore o del signore assoluto dell’universo. Il nome che Dio proclama di se stesso è: «A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia» (Es 33,19). Un Dio liberissimo, autonomo, che non rende conto a nessuno. Ma anche un volto che, nel proclamare la propria libertà, riesce a dirla soltanto in positivo: parla di grazia e misericordia, non di castigo. Ciò che si può dire di Dio è bontà, misericordia, salvezza. Peccato solo non poterne vedere il volto.

Quando Dio passa, toglie la mano, e Mosè può vederne le spalle.

Il senso del racconto

L’Antico Testamento molto spesso fa teologia raccontando storie. È quello che fa anche Gesù, con le sue parabole e i suoi discorsi. Dobbiamo quindi provare a capire se per caso questa pagina voglia dirci qualcosa su Dio. Data la domanda di Mosè, è molto probabile.

E ciò che il testo vuole dirci è nascosto tra le sue righe, anzi, forse non è neppure troppo nascosto, si lascia intuire bene.

Quante volte nella nostra vita capita che solo guardandoci indietro possiamo cogliere il valore di certi passaggi, di certe persone, di certi tempi di gioia o di fatica. Quando c’eravamo in mezzo, coglievamo, certo, il sudore che ci chiedevano, a volte persino anche il bene che ricevevamo, ma il valore pieno del tempo vissuto lo capiamo soltanto quando lo ripensiamo a distanza, dopo che è passato.

Guardando indietro possiamo forse anche intuire la presenza di Dio sulle pagine della nostra vita. Anche là dove ci sembrava di essere stati lasciati da soli.

Questo succede soprattutto per le questioni davvero importanti: è necessario che siano passate, che siano chiuse, per riuscire a tracciarne un bilancio e capire a che cosa ci sono servite. È guardando indietro ai tempi della nostra vita ormai sigillati che possiamo apprezzarne e valutarne fino in fondo il valore, cogliendo anche magari come Dio vi fosse all’opera. Ne vediamo le spalle: solo quando Dio è passato riusciamo a capire che c’era, che era con noi. Anche a Mosè è capitato lo stesso.

Chi vede Dio, muore?

Ecco allora la dimensione più profonda del rifiuto di Dio di mostrare il proprio volto a Mosè, di fargli vedere la sua gloria. Per cogliere la realtà autentica, completa, di Dio, occorrerebbe che la nostra storia con lui fosse ormai conclusa. Occorrerebbe, cioè, che la nostra relazione con lui fosse finita, oppure che la nostra vita sia ormai giunta alla fine. Quello che Dio afferma non è che chi lo vedesse, morirebbe, ma che per vederlo completamente, per capire fino alla fine ciò che ha fatto nella nostra vita, per cogliere il suo volto, occorre essere morti, bisogna che la nostra vita abbia detto tutto ciò che doveva dire. Oppure, che la nostra storia con Dio sia ormai conclusa.

Il messaggio divino a Mosè, ma anche ai lettori, è esattamente questo: per vedere Dio occorre essere morti, in quanto lui non ha nessuna intenzione di lasciare che la nostra storia insieme finisca prima. Finché non saremo arrivati alla fine dei nostri giorni, dice Dio, Lui continuerà a essere presente e parlare e camminare con noi. Quindi, non si può ancora vedere fino in fondo il suo volto, non si può tirare un bilancio della relazione con Lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 17-continua)




Un Dio amuleto (Es 32)


L’episodio del «vitello d’oro», nel quale il popolo d’Israele si lascia trascinare dal fascino illusorio di un’alternativa alla promessa concreta e vitale di Dio, è notissimo. Per gli antichi lettori del Primo Testamento era l’esempio definitivo della tentazione dell’idolatria, tanto che sarebbe poi stato ripreso diverse volte in più contesti.

Anche per i lettori moderni continua a essere particolarmente significativo, purché si riesca a penetrarlo in profondità.

Per farlo, dobbiamo richiamare due attenzioni da mantenere mentre lo leggiamo.

Due eccessi

Ci sono infatti due rischi che corriamo quando ci confrontiamo con testi antichi, Bibbia compresa. Ne abbiamo già parlato in passato, ma vale la pena ritornarci.

1. Leggere solo con gli «occhi» del nostro tempo.

Il primo rischio è quello di leggere queste pagine come se fossero state scritte oggi. Potremmo allora scandalizzarci per espressioni o presentazioni del divino che, fortunatamente, ci risultano ormai eccessive, violente e fuori luogo. La lunga frequentazione tra Dio e uomini ci ha progressivamente abituati a conoscerlo meglio, e, nel tempo, a raffinarci anche nel raccontarlo. L’essenziale del messaggio biblico (la vicinanza divina all’umanità tutta, senza alcun tipo di preferenza se non per i più deboli e poveri) resta vero, anche se le forme cambiano.

E leggere di un Dio severo, vendicativo, che punisce, castiga e uccide, ormai ci disgusta. Ottimo. Significa che a forza di stare con Dio ci siamo sempre più umanizzati, anche se quelle presentazioni dure erano efficaci e interessanti per i lettori di quel tempo, e in fondo dicevano il coinvolgimento divino con la sorte degli uomini.

2. Spiegare tutto solo andando alle origini.

C’è però anche il rischio opposto, per il quale un po’ di colpa è dei biblisti. Consiste nel tentativo di spiegare tutti i particolari complicati di un testo a partire da ipotesi sull’origine dello stesso. Si immagina che all’inizio tutto fosse chiaro, ma che poi, un po’ alla volta, nelle successive copiature e redazioni, si siano infilati errori e sovrastrutture che hanno reso il brano incomprensibile. E si ritiene che per capire si debba tornare proprio ai testi più originali e antichi. Così facendo, però, ci si dimentica che gli ultimi redattori che hanno messo mano al libro hanno deciso che, nella forma attuale, il racconto era chiaramente comprensibile per i loro lettori.

Rientrano in questo rischio i tentativi di spiegare che la religione cananea, che gli ebrei si sono trovati di fronte quando sono entrati nella terra promessa, immaginava spesso un Dio invisibile seduto su un trono altrettanto invisibile il quale era sorretto da un vitello. Tale vitello, sostegno del trono di Dio, era spesso rappresentato nei templi con statue ricoperte d’oro o anche in oro massiccio (è consueto collegare l’oro alla divinità). Due vitelli di questo tipo sarebbero stati posti, in epoca storica, al confine settentrionale e meridionale del regno di Samaria, come si racconta nel capitolo 12 del primo libro dei Re (il versetto 28 sembra preso direttamente da questo capitolo 32: «Il re preparò due vitelli d’oro e disse al popolo: “Siete già saliti troppe volte a Gerusalemme! Ecco, Israele, i tuoi dei che ti hanno fatto salire dalla terra d’Egitto”»). Questa pagina potrebbe allora essere una polemica nei confronti di un culto che di per sé, a essere precisi, non venerava i vitelli come dei, ma pensava che costituissero la parte visibile del trono del Dio invisibile. C’è chi ha sostenuto, quindi, che probabilmente Es 32 non facesse parte originariamente del testo, ma sia stato aggiunto a posteriori. L’allusione ai vitelli d’oro di Geroboamo nel primo libro dei Re è troppo chiara per non essere stata voluta, ma non ci dice di preciso chi si sia ispirato a chi (ossia quale testo sia stato scritto prima, Es 32 o 1 Re 12?).

Questa e altre considerazioni sono possibili, a volte addirittura probabili, e non è per nulla insensato porsi queste domande. Ma per noi che meditiamo sul libro dell’Esodo, il capitolo 32 merita di essere letto per come è oggi, a prescindere dal fatto che possa essere stato inserito in una versione successiva. Tanto più che ci sta anche discretamente bene, acquistando un suo senso compiuto e pieno, il quale ha un valore anche per i lettori odierni.

Che cosa si racconta

Il popolo che il Signore ha fatto uscire dall’Egitto, che ha attraversato il deserto, che si è trovato a decidere se stare con Dio o no (Es 19,1-8), è ora sotto il monte. Sopra, è salito solo Mosè. Anche se non tutta la dinamica narrativa è chiarissima, l’impressione lasciata dal racconto è che Dio abbia già finito di spiegare a Mosè non solo il decalogo, scritto su due tavole di pietra (Es 31,18), ma anche le norme che regoleranno il culto del tempio.

Intanto, però, il tempo passa («quaranta giorni e quaranta notti»: Es 24,18) e nell’accampamento l’inquietudine cresce: «A Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es 32,1). Il popolo chiede quindi ad Aronne, fratello di «quell’uomo», di dare loro un nuovo dio. E per farlo Aronne impoverisce il suo popolo, togliendogli quelle ricchezze che erano state donate dagli egiziani (Es 12,35-36) fondendole per farne una statua.

Poi, presenta il vitello d’oro come «il tuo Dio, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto!» (32,4).

Come abbiamo già spiegato, c’è chi ritiene che, in qualche fase nell’evoluzione della religione ebraica, queste fossero forme religiose accettabili. In Es 32, però, il gesto è interpretato da Dio come un tentativo di esautorarlo, di dimenticarlo, al punto che propone a Mosè di dargli un altro popolo, distruggendo questo che era arrivato fino sotto al monte (v. 10).

Ed ecco che Mosè, quello stesso Mosè che in Es 4,13 aveva tentato di tirarsi fuori dal progetto di salvezza divina, di fronte all’idea di abbandonare i suoi compagni decide invece di reagire a Dio, e gli spiega che, se così facesse, verrebbe meno alla sua promessa e sarebbe schernito dagli egiziani stessi. È come se Mosè ricordasse a Dio la sua vocazione e la sua identità, cosa che può accadere solo se il rapporto tra i due è schietto e trasparente come tra amici.

Il primo incontro tra Mosè e il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» era stato inevitabilmente segnato dalla distanza, dal timore magico, dalla solennità divina, quella stessa che si era mostrata nel mandare le piaghe all’Egitto, nel cammino attraverso il mare e il deserto. Quando però, in Es 19,1-8, Dio aveva tirato le somme, non aveva preteso l’ubbidienza di coloro che aveva salvato, ma aveva atteso la loro risposta libera, trattandoli alla pari.

Qui addirittura, come succede nelle relazioni umane più autentiche e profonde, è Mosè stesso a porsi, provvisoriamente, a un piano superiore, rimproverando il proprio Signore e richiamandolo a comportarsi da Dio, per non rinnegare se stesso. E «il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo» (32,14).

Solo a questo punto Mosè ritorna il violento e intransigente difensore della fedeltà a Dio, o addirittura del proprio ruolo: scende a valle, fa a pezzi e riduce in briciole il vitello, per poi scioglierlo in acqua e costringere tutti a berla (ecco che fine fanno le ricchezze portate via all’Egitto!), comanda uccisioni casuali (una violenza terribile che ripugna alla nostra sensibilità) e poi ritorna sul monte, invocando il perdono del popolo (32,30-32) e riscrivendo le tavole della legge. Per altri quaranta giorni e notti.

Libertà o smarrimento?

È come se il racconto, a questo punto, ci sveli i suoi contenuti, che sono in qualche modo risposta e completamento a ciò che si diceva nel capitolo 19. In quel testo Dio, dopo aver condotto il popolo fin lì, si rimetteva al loro giudizio e aspettava che gli dicessero se volevano davvero diventare la sua eredità tra le genti o no. Un atto nel quale la libertà umana veniva sopra a tutto.

Ma già all’uomo antico, come pure – e ancor più – a noi, poteva venire in mente l’idea che in fondo servire Dio era solo un’altra forma di schiavitù, dalla quale, invece, pensavano di essere stati liberati. Essere liberi non significa forse non avere padroni? E un Signore, per quanto divino, non è, appunto, un padrone?

Questo episodio in qualche modo risponde alla questione. Il popolo che recalcitrava, che aveva rimpianto le cipolle d’Egitto, che già aveva contestato tante volte Mosè, quando non lo vede tornare, non si sente finalmente libero, ma smarrito, e chiede che qualcuno lo guidi, che ne sia il capo. Non trovando nessun altro, decide di farsi un dio da sé. Questo dio, però, è solo una statua che non può parlare né udire né muoversi, che non può proteggerlo dai nemici, che non può custodirlo e accompagnarlo. In fondo è solo un dio piccolo piccolo, per restare sotto al quale occorre sdraiarsi, prostrarsi.

L’intuizione è quasi psicologica, pienamente moderna. L’essere umano ha bisogno di un «sopra di lui», ha bisogno di un trascendente che lo renda autenticamente pieno. Se non lo trova, se pensa di essere rimasto senza dio, se lo crea, si inventa qualcosa da servire: saranno i consumi domenicali, l’apparenza fisica, l’orgoglio di «appartenere» a una squadra sportiva (di solito senza scendere in campo), di fare parte del gruppo «giusto», di immaginarsi invidiati da altri per il patrimonio, per la macchina o il telefono nuovo, e tanto altro. Tutte passioni piccole, poco significative, che ci abbassano sotto la nostra dignità autentica. L’uomo lasciato senza nessuno sopra di sé, si costruisce qualcuno o qualcosa a cui obbedire, e gli si prostra davanti. Vivendo peggio.

Certo, il dio costruito dall’uomo ha il vantaggio di stare dove lo si mette, di essere prevedibile, «sicuro», di poter essere chiuso a chiave nelle proprie stanze. Il Dio che si è ricordato del suo popolo sofferente, invece, ama la libertà, non sopporta di essere ridotto a un amuleto, desidera essere amato e amare.

Acquista un pieno significato adesso una frase che Dio aveva apparentemente buttato lì durante il suo primo colloquio con Mosè. Alla richiesta di un segno che potesse renderlo credibile di fronte al popolo, il Signore aveva risposto: «Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte» (Es 3,12). Solo adesso sappiamo che quella di Mosè era stata una chiamata davvero divina. E lo sappiamo in quanto il popolo non serve più padroni umani, che lo costringeranno a sdraiarsi a terra, ma colui che l’uomo può contemplare restando ben dritto e con lo sguardo fisso al cielo. Perché è questo a segnare la differenza tra la schiavitù, vissuta per costrizione, e il servizio, liberamente scelto nei confronti di un «tu» autentico e pieno: il secondo è una scelta autonoma, a vantaggio di qualcuno che desidera essere amato. Chi si mette a servizio di colui che ama, non è schiavo.

Chi ha Dio per Signore, non avrà altri signori.

Angelo Fracchia
(Esodo 16 – continua)




Norme e precetti (Es 25-31; 35-39)


Si legge (e si è scritto anche qui) che il libro dell’Esodo è in fondo un percorso esistenziale di ingresso nella fede. È questo il motivo per cui rappresenta un testo ancora attualissimo e leggibile come un avvincente cammino umano, a patto di essere aiutati a capirne le modalità di espressione.

Ciò non toglie che, a prima vista, risulti ben difficile inserire in tale quadro i capitoli dal 25 al 39, fatto salvo il capitolo 32 che racconta l’episodio del vitello d’oro. Sono infatti pagine per noi estremamente noiose, nelle quali viene descritto con dovizia di particolari tutto ciò che riguarda il culto, a partire da come dovrà essere costruita la tenda del santuario, l’arca dell’alleanza, come dovranno essere i paramenti dei sacerdoti e così via. Noi facciamo fatica a capire come questi testi siano finiti in una vicenda per altri versi vivace e appassionante. Si tratta però di molti capitoli, circa un terzo del libro, e non si può quindi decidere di saltarli. Il nostro disagio forse tradisce il fatto che non li abbiamo capiti bene.

Uno sguardo alla struttura

Innanzi tutto, dobbiamo di nuovo ricordarci che ci troviamo davanti a un «libro» di circa 2.500 anni fa. È vero che continua a mostrare la sua modernità, in quanto parla di dinamiche umane che evidentemente non sono cambiate molto. Ma, nello stesso tempo, è scritto da autori che non potevano conoscere il romanzo moderno e che seguivano, invece, le convenzioni letterarie di quel tempo.

Qualcuna di queste convenzioni può risultarci utile per capire. Noi, infatti, siamo abituati a libri divisi in capitoli, paragrafi e capoversi (il «punto e a capo»), con elenchi numerati, con punteggiatura precisa e magari con l’uso di grassetto e corsivo. Tutti questi elementi della scrittura moderna, che ci aiutano a capire il procedere del discorso, nell’antichità non si usavano. Così come allora si faceva ricorso a «trucchi» ai quali noi non siamo più abituati. Possono sembrarci più complessi e meno chiari di quelli che usiamo noi, e in parte lo sono, ma non dobbiamo dimenticarci neanche che l’antichità aveva a disposizione molti meno testi scritti di noi e meno persone capaci di leggerli, il che significa che quelle poche affrontavano percorsi di alfabetizzazione più lunghi, e quindi anche più approfonditi e ricchi.

Principi di fondo

Per quello che ci interessa, può essere utile recuperare almeno tre principi di fondo.

a) Ciò che è più importante viene prima. Noi siamo abituati ad avere dei riepiloghi finali che sono spesso il cuore del discorso. Anzi, i libri gialli e le barzellette ci hanno abituato all’idea che fino all’ultima parola, potremmo non avere capito l’essenziale. Gli antichi, invece, tendevano a mettere riepiloghi e principi di fondo all’inizio. Certo, a volte c’era da seguire un ordine cronologico, ma anche in quel caso si inserivano all’inizio dei segnali per indicare che un determinato evento doveva essere considerato fondamentale, anche se narrato solo a un certo punto del percorso.

Per fare un esempio, quando nel libro dell’Esodo Dio dialoga per la prima volta con Mosè, gli dice anche che dopo l’uscita dall’Egitto gli israeliti lo avrebbero «servito su quel monte» (Es 3,12). Ovviamente il tema riemergerà solo al capitolo 19, ma intanto il lettore sa già che quell’aspetto è significativo.

b) Ciò che è più importante prende più spazio. Se ci pensiamo, lo fanno ancora i nostri maestri, che ritornano più volte sui concetti fondamentali, dilungandosi a presentarli anche se potrebbero farlo in mezzo minuto. Ma ciò che è esposto in mezzo minuto sarà più facile da dimenticare, mentre se di un’idea parlano per due ore, tutti se ne accorgeranno e la ricorderanno.

c) Si potrebbe ancora aggiungere un mezzo meno frequente, ma interessante per la lettura di questi capitoli: ciò che è inserito dentro a una «cornice» che lo inquadra, va interpretato all’interno di quel contesto. Ad esempio, Es 25-31 sembrano essere ripetuti in Es 35-39. Questo, tra l’altro, vuol dire che forniscono il contesto in cui dovranno essere interpretati i capitoli dal 32 al 34 (di cui ci occuperemo nelle prossime puntate).

Una vita concreta e organizzata

Cominciamo allora a trarre qualche conseguenza. Nei capitoli dal 25 al 31 di Esodo, Dio indica a Mosè come dovrà procedere a organizzare il tempio e il sacerdozio; nei capitoli dal 35 al 39, una buona parte di quelle indicazioni vengono ripetute per dire che Mosè ha fatto proprio come Dio gli aveva detto. Un doppione noiosissimo, diremmo (e, diremmo anche, a ragion veduta!). Al di là della noia, se riusciamo a leggere questi lunghi capitoli di spiegazioni minuziose e ripetitive alla luce dei tre principi spiegati sopra, possiamo darci la possibilità di capire qualcosa di importante: innanzitutto capiamo che la dimensione normativa e rituale della vita di fede, per il popolo uscito dall’Egitto è fondamentale. Questi testi occupano infatti un terzo del libro dell’Esodo.

Poi capiamo anche che, arrivando alla fine del libro, questi capitoli non rappresentano quelli più importanti. Di questi materiali, infatti, non si era offerta alcuna anticipazione nei capitoli precedenti, il che significa che non sono essenziali. L’aspetto rituale, liturgico, è importante e significativo, ma non è il cuore del discorso né il primo mattone.

Se l’Esodo fosse stato scritto oggi, questi capitoli sarebbero riassunti in qualche annotazione esplicita (come queste mie) o con qualche nota a piè di pagina. Gli antichi però non usavano le note e non erano abituati a spiegare il senso di ciò che narravano.

Chi leggeva, però, avrebbe perfettamente compreso che cosa significava concedere tanto spazio a questi temi e allo stesso tempo porli alla fine.

Il senso della concretezza

Iniziamo a cogliere allora che cosa gli autori del libro volevano che si capisse e ciò che probabilmente i lettori avrebbero intuito con relativa facilità.

Il percorso di fede tracciato dal libro si è finora giocato moltissimo sulle dinamiche personali e spirituali. Dalla liberazione dall’oppressione si è giunti alla percezione che era necessario fidarsi di una parola promettente, per poi decidere di legarsi definitivamente a questa presenza (Es 19).

Tutte dinamiche, diremmo, quasi psicologiche, sicuramente interiori. È vero che le scelte comportano anche delle decisioni concrete (dall’Egitto bisogna partire, dentro al mare occorre entrare…), ma queste restano occasionali e secondarie.

Giunti a questo punto del percorso, però, gli autori segnalano che la concretezza della vita può anche essere secondaria rispetto alla fiducia e alla decisione di abbracciare la relazione con Dio, ma non può essere trascurata. Siamo fatti anche di materia, di azioni e di abitudini.

Riprendendo un paragone che abbiamo già fatto, è una dinamica che ricorda la vita insieme di due persone che si amano. A tenerli insieme non sono delle regole, ma l’affetto reciproco, che però deve farsi anche pratico, stabilendo chi cucina, chi fa la spesa, chi pulisce, chi paga le bollette. Sono questioni senza dubbio secondarie, meno fondamentali dell’ispirazione di partenza, ma non possono essere tralasciate. La vita reale passa dal rendere concrete le intuizioni più profonde.

I contenuti

In particolare, il testo di questi capitoli si concentra sugli arredi del santuario (Es 25; 37), sulla sua architettura (Es 26-27; 36,8-38 e poi ancora il capitolo 38), sui sacerdoti (28-29; 39) e infine sugli strumenti al servizio della mediazione tra Dio e gli uomini (l’altare degli incensi, il propiziatorio, il tributo per il tempio, il bacile d’acqua, l’olio per l’unzione, l’incenso, il sabato, le tavole: Es 30-31; 34,29; 35; 38,8.21.24-31).

Nell’insieme delle indicazioni a volte molto minuziose, può essere utile riprendere almeno alcuni elementi.

a) Le differenze. Di solito, quello che è presentato nei capitoli 25-31 è ripreso quasi alla lettera in 35-39. In Es 25,1-7, però, si illustra il materiale necessario per il tempio, che in 35,4-29 è ripresentato in modo nettamente più articolato. Così, l’olio per i candelabri di cui si parla in Es 27,20-21 non trova paralleli nei capitoli successivi, dedicati all’attuazione del progetto.

È interessante che, pur nel contesto di una ripetizione completa e precisa delle indicazioni, per sottolineare che Mosè attua realmente ciò che Dio gli chiede, si ammetta che tuttavia non si dà una corrispondenza perfetta.
La realtà non coincide totalmente con il progetto divino,
che nessuna situazione umana adempierà pienamente.

Anche se la chiesa cristiana o il popolo ebraico tenteranno, in buona coscienza, di pensarsi come la realizzazione precisa dell’intenzione divina, esisterà sempre una differenza di cui tutti devono essere consapevoli. La pienezza del regno divino è sempre oltre ciò che l’uomo potrà costruire nella storia.

b) Un Dio presente e vigilante.

In Es 25,23-30; 37,10-16 si presenta quella che, nella tradizione religiosa non solo d’Israele, era concepita come «la stanza di Dio». Anche Israele, infatti, nell’immaginare il suo rapporto con Dio, copia le modalità che erano consuete tra i popoli che vivevano intorno a lui. Queste prevedevano di preparare alla divinità un ambiente in cui vivere, comprensivo di una tavola per pranzare, a volte strumenti per le diverse attività (arco e frecce, mattoni per gli dèi costruttori…), un letto in cui dormire. Ebbene, in questa presentazione dell’Esodo, di letto non si parla mai, né di strumenti di lavoro. L’unica a essere presente è una tavola, con un rimando al nutrimento che spesso, nel contesto del tempio, punta sui «sacrifici di comunione» (cfr. Lv 7, ad esempio), nei quali l’animale sacrificato era mangiato in parte da chi presentava l’offerta, in parte bruciato sull’altare, come se fosse Dio a cibarsene. Si immaginava, cioè, un banchetto in cui Dio era un commensale. Vale a dire che l’unico elemento che si ritiene di evidenziare è l’intenzione divina di vivere la comunione con i suoi fedeli. Per il resto, il Dio d’Israele non dormirà (cfr. Sal 121,4).

c) Tenda, non reggia. In Es 25,8 si presenta il santuario come «residenza» divina. Il termine utilizzato rimanda alle tende dei nomadi, una dimora preziosa ma non stabile, non fissa. Si suggerisce da subito che essenziale per Dio non è un luogo dove stare, una reggia, ma il poter risiedere insieme al suo popolo. Dal tempio potrà anche fuggire, ma essenziale è la comunione con i suoi fedeli.

d) Partecipazione attiva di tutti. In Es 31,1-11; 35,30-36,7; 38,21-23 si presenta la costruzione e abbellimento del tempio. Potrebbe stupire che non si dica che sia Dio a costruirlo, né Mosè ad eseguire l’ordine divino, bensì i «costruttori», dotati da Dio delle competenze necessarie. La relazione tra Dio e Mosè è privilegiata, ma si coglie sempre che i talenti e i doni di ognuno meritano di essere lasciati liberi di esprimersi, e che il rapporto tra gli uomini e il divino non sopporta di passare solo da pochi eletti. Non è Mosè e neppure Dio a fare tutto, ma ciò che accadrà sarà possibile solo per l’intervento attivo e variegato di ogni fedele.

Angelo Fracchia
(Esodo 15 – continua)