Carbone vegetale,

risorsa o piaga?

Testo di Chiara Giovetti |


Un terzo della popolazione mondiale usa legna e carbone per cucinare e a volte anche per fornire energia alle proprie piccole e medie imprese. In Africa si tratta di un settore in forte espansione e i potenziali danni per ambiente, finanze pubbliche e lotta al terrorismo non sono da sottovalutare.

Una donna seduta su uno sgabello a bordo strada e, accanto, qualche sacco chiaro alto più di un metro, con le scritte sbiadite di questa o quella industria locale, di questa o quella agenzia umanitaria. Dentro, tanti cubi neri trattenuti da una rete di cordicelle o di foglie di palma annodate ai bordi del sacco. Oppure un uomo che spinge una bicicletta con almeno un paio di questi sacchi posati uno sopra l’altro e assicurati al portapacchi con un legaccio di camere d’aria annodate fra loro. Succede spesso di imbattersi in scene come queste lungo le strade africane, in città come nelle zone rurali. I cubi neri sono pezzi di carbone vegetale e il loro impiego più frequente è quello di fare fuoco per cucinare.

A vederli così, questi venditori improvvisati, si direbbe che quello del carbone è uno dei tanti piccoli commerci con cui molte famiglie africane si guadagnano di che sopravvivere. Ma sarebbe un’impressione errata. Aggregando tutte le donne sedute a bordo strada e gli uomini che spingono una bici nel continente, il giro d’affari del carbone vegetale appare nella sua reale dimensione: colossale. E ingenti sono i danni che rischia di infliggere all’ambiente, alle finanze pubbliche e persino alla lotta al terrorismo perché, nonostante abbia un ruolo di primo piano nelle economie del continente, il settore del carbone e della legna da ardere rimane per la maggior parte informale.

Vendita di carbone nello slum di Kibera a Nairobi (© The Seed / Pamela Adinda)

Legna e carbone vegetale in numeri

Secondo i dati del rapporto The Charcoal Transition della Fao, nel 2016 il mondo ha estratto circa 3,7 miliardi di metri cubi di legno dalle foreste del pianeta. Di questi, circa la metà sono stati usati come combustibile e sono diventati per l’83% legna da ardere e per il 17% carbone vegetale. Quest’ultimo è dunque è quantificabile 351 milioni di metri cubi, pari a in 52 milioni di tonnellate, di cui 32 milioni prodotti nella sola Africa@.

Per farsi un’idea delle proporzioni può essere utile un confronto con i volumi italiani: nel 2016 una nota del Crea (Consiglio per la ricerca nell’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) riportava che i boschi italiani contengono «oltre 1,2 miliardi di metri cubi di legno, con un aumento annuale di massa legnosa di oltre 36 milioni di metri cubi. Di questi ogni anno vengono tagliati oltre 10 milioni di metri cubi»@.

Sempre i dati Fao indicano che ancora oggi quasi due miliardi e mezzo di persone sul pianeta ricorrono a legna e carbone per cucinare: un terzo della popolazione mondiale. In Africa subsahariana, il dato sale di parecchio: a contare su queste fonti di energia è il 90% della popolazione. Sostengono il trend, in crescita, della produzione e del consumo principalmente due fattori: l’aumento demografico e la rapida urbanizzazione.

Trasporto di carbonea Bagamoyo, Tanzania (© AfMC / Jaime Patias)

In Tanzania, ad esempio, l’85% della popolazione urbana utilizza carbone sia per cucinare che per la fornitura di energia a piccole e medie imprese: secondo uno studio del 2007 citato nel rapporto Fao, alla fine del secolo scorso la sola città di Dar es Salaam, il centro urbano più grande del paese, era responsabile del consumo di metà del carbone a livello nazionale.

Quanto al volume economico dell’industria del carbone vegetale in Africa subsahariana, nel 2011 le proiezioni di Afrea – il programma della Banca mondiale finanziato dai Paesi Bassi che si occupa di studiare le energie rinnovabili in Africa – indicavano in 8 miliardi di dollari il valore del settore per il 2007 e ipotizzavano per il 2030 lo sfondamento della soglia dei 12 miliardi, con un totale di 12 milioni di persone impiegate nella produzione, vendita e distribuzione del carbone.

Unep, l’agenzia Onu per l’Ambiente, propone invece altri dati, partendo dal valore ufficiale della produzione di carbone (dati 2012) e usando prezzi variabili da 200 dollari per tonnellata sul mercato locale (cioè 5 dollari per un sacco da 25 chili) a 800 dollari per tonnellata sul mercato internazionale. Con queste premesse Unep arriva ad assegnare al settore un valore economico compreso fra i 9,2 e i 24,5 miliardi di dollari.

Per fornire il polso della situazione a livello dei singoli paesi, il rapporto Fao riporta ad esempio che in Tanzania il settore del carbone vegetale contribuisce all’economia nazionale per circa 650 milioni di dollari (pari a circa il 2,2% del Pil) mentre in Kenya il valore più che raddoppia toccando 1,6 miliardi (1,2% del Pil).

Si cucina col carbone nello slum di Korogocho a Nairobi (© The Seed / Purity Mwendwa)

Carbone e vita quotidiana

Guardando al quotidiano delle vite delle persone, la popolarità del carbone è facile da spiegare. Dal lato di chi lo compra, è la fonte di energia più conveniente: brucia più a lungo e produce più calore della legna, è più leggero e per questo più facile da trasportare e può essere conservato più a lungo, senza rischiare di marcire o di essere danneggiato dagli insetti.

Dal lato di chi lo produce e vende, data l’abbondante domanda, è una fonte di reddito piuttosto sicura. Standard Digital, uno dei principali quotidiani keniani, racconta la storia di Sipporah Kemunto, che vende carbone a Kisii, nel Kenya occidentale. Sipporah ha iniziato vent’anni fa con 200 scellini (circa 2 euro al cambio di oggi) prestati da un’amica, con i quali ha comprato il suo primo sacco di carbone. «Con quell’unico sacco sono riuscita a vendere dieci barattoli di carbone il primo giorno: molto al di sopra delle mie aspettative». Oggi la signora Kemunto vende un sacco a 1.100 scellini, per un guadagno fra i 500 e i 550 scellini, in un paese dove la paga giornaliera per un addetto alle pulizie, ad esempio, è di 622 scellini a Nairobi e 349 scellini in aree non urbane. Il suo lavoro l’ha costretta a molti sacrifici, come quello di svegliarsi prestissimo la mattina per fare il giro dei ristoranti suoi clienti e fornire loro il carbone, o quello di lavorare in condizioni non molto salubri. Ma grazie al carbone è riuscita a comprare due acri di terra fuori Kisii e a far studiare due figli all’università mentre il terzo sta finendo le superiori@.

Taglio della foresta nel Congo RD ( AfMC / Ennio Massignan)

Impatti del carbone

Il primo impatto connesso alla produzione di carbone vegetale riguarda il degrado delle risorse forestali – definito come riduzione della biomassa, declino della composizione e della struttura della vegetazione – se non addirittura la deforestazione. È difficile, avverte il rapporto Fao, indicare con chiarezza quanto la produzione di carbone vegetale da sola determini degrado o deforestazione. Un tentativo di fornire una stima del fenomeno è uno studio del 2013 che quantifica gli ettari di foresta persi in Africa a causa del carbone in quasi tre milioni, pari all’80% della deforestazione complessiva nelle aree tropicali. La Tanzania distrugge così ben un terzo delle sue risorse forestali, mentre lo Zimbabwe si ferma allo 0,33 per cento.

Vi è poi la questione delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, ma anche metano e carbonio) durante tutte le fasi della filiera. Anche in questo caso si tratta di un dato stimato e si collocherebbe fra 1 e 2,4 miliardi di tonnellate di gas serra, cioè fra il 2 e il 7 per cento delle emissioni globali imputabili all’attività umana.

Altro impatto è quello sulle casse dello Stato: la Fao stima che le perdite per tasse non pagate si collochino, a livello continentale, fra il miliardo e mezzo e i 3,9 miliardi di dollari. Anche in questo caso è la Tanzania il paese dove il danno è maggiore: 100 milioni di dollari di tasse non riscosse. Un ruolo non secondario in questo meccanismo di evasione è quello della consolidata prassi della tangente, che ha anche l’effetto di aumentare il prezzo del carbone per il consumatore finale. L’incidenza delle mazzette – di solito richieste da militari e polizia durante il trasporto – sarebbe pari al 12% in Malawi e fino al 30% in Kenya.

Infine, l’ampia informalità del settore genera un sommerso che apre ampie zone di manovra per gruppi criminali e terroristici. Il rapporto di Unep e Interpol, The Environmental Crime Crisis@, stima che milizie e gruppi terroristici nei paesi africani dove sono in corso conflitti – fra cui Mali, Repubblica Centrafricana, RD Congo, Sudan e Somalia – possono guadagnare fra i 111 e i 289 milioni di dollari all’anno fra mazzette e partecipazione attiva al commercio illegale. In un posto di blocco nel distretto di Badhadhe, Somalia, i terroristi di Al Shabaab sono riusciti a raccogliere fra gli 8 e i 18 milioni di dollari in un anno, più altri 38-56 fra commercio in proprio e tangenti nei porti.

Quanto al contrabbando internazionale le osservazioni sul campo degli estensori del rapporto hanno permesso di documentare, fra Uganda, RD Congo e Tanzania, movimenti di camion che di notte portavano sacchi di carbone in punti di raccolta nei pressi di aree protette o addirittura attraverso i confini. Nel complesso, il giro d’affari del carbone illegale crea profitti fra i 2,4 e i 9 miliardi di dollari nella sola Africa orientale, centrale e occidentale.

Fornello ad uso domestico di bassa resa e grande spreco di calore (© AfMC / Ennio Massignan)

Ultimo aspetto è poi quello della salute umana: alcuni studi indicano che nei contesti domestici in cui si usano fornelli a carbone la concentrazione di Pm10 (polveri sottili) è di un sesto rispetto alle case in cui si usa legna da ardere. La transizione da legna a carbone potrebbe ridurre del 65% le infezioni respiratorie. Tuttavia, i bracieri tradizionali attualmente in uso, e sono la stragrande maggioranza, rappresentano una minaccia alla salute perché sprigionano più monossido di carbonio.

Le possibili soluzioni

Secondo il rapporto Fao, una riduzione pari all’86% nelle emissioni generate da produzione e consumo di carbone vegetale potrebbe ottenersi attraverso una serie di interventi. Fra questi vi sono l’introduzione di pratiche sostenibili nella gestione delle foreste, l’uso di biomasse alternative provenienti ad esempio dagli scarti della lavorazione del legno, l’introduzione di prodotti agglomerati (briquettes) che riutilizzino la polvere di carbone combinata con scarti della produzione agricola o con terreno e l’introduzione di fornelli migliorati, in grado di consumare meno carbone.

La riduzione più significativa tuttavia verrebbe, secondo la Fao, dal miglioramento dei sistemi tradizionali di carbonizzazione, che di solito avviene dentro fornaci con un’efficienza di conversione molto bassa. Secondo uno studio del 2016, migliorare tale efficienza dal 15 al 25% permetterebbe di ridurre del 40% la legna necessaria per produrre la stessa quantità di carbone.

Lavoro comunitario per ripiantare alberi nelle colline attorno a Morogoro, le Mukunganya Hills, durante la stagione delle piogge.  (© AfMC)

Il lavoro dei missionari della Consolata

In Tanzania, dove il problema del degrado delle risorse forestali e, a volte, addirittura della deforestazione è particolarmente serio i missionari della Consolata hanno iniziato in due località altrettanti progetti per sensibilizzare la popolazione e coinvolgerla in un’opera di rimboschimento.

  • Il primo microprogetto si svolge nel villaggio di Makota, a Ihemi, circa 50 chilometri da Iringa. La popolazione locale vive di agricoltura di sussistenza, alla quale affianca altre attività occasionali per aumentare il proprio reddito. Fra queste vi è proprio il taglio degli alberi per ottenere legname e carbone. Le attività relative al legname vengono svolte in modo incontrollato, senza pianificazione né reintegro delle piante tagliate con nuovi alberi. Per questo l’erosione del suolo e la deforestazione stanno diventando fenomeni evidenti. Il progetto in corso prevede tre seminari di formazione per la popolazione locale tenuti dai leader locali e dai funzionari dell’agenzia tanzaniana per i servizi forestali. Le persone formate parteciperanno poi alla posa di alcune piante pr ogni famiglia e se ne prenderanno cura.
  • Alle Makunganya Hills, vicino a Morogoro, vi è poi in corso da fine 2016 un progetto simile. In questa zona, le colline sono ora spoglie, sia a causa dei frequenti incendi che del taglio degli alberi per ottenere legname per costruzioni e legna da ardere. A detta del responsabile sul campo, il microclima locale è cambiato e le risorse idriche della zona si sono notevolmente ridotte. Anche qui il progetto prevede la posa di migliaia di piante e tre seminari di approfondimento per la popolazione locale sui problemi e sui rischi connessi alla deforestazione. Parteciperanno circa 500 persone e, oltre al rimboschimento, si lavorerà con la comunità locale per avviare un progetto parallelo di apicoltura.

Chiara Giovetti




La Cina in Africa /2 – Miti e poca trasparenza

 


Testo di Chiara Giovetti |


Nel numero di ottobre abbiamo raccontato il rapporto fra Cina a Africa concentrandoci su investimenti e commercio. In questo numero parliamo invece dei tentativi di quantificare i cosiddetti flussi ufficiali e in particolare l’aiuto pubblico allo sviluppo cinese e di sfatare, o almeno ridimensionare, alcuni miti sul rapporto sino-africano.

Quanto dà la Cina all’Africa in aiuto allo sviluppo? Misurare questa grandezza è estremamente complicato.

Prima difficoltà: la Repubblica Popolare Cinese non presenta una relazione annuale all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) su questo tipo di flussi – come fanno invece trenta paesi membri dell’organizzazione e alcune economie emergenti, come la Russia, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti – e non pubblica i dati se non in modo irregolare.

Seconda difficoltà: non è chiaro quanto di ciò che la Cina etichetta come aiuto allo sviluppo corrisponda alla definizione dello stesso applicata dall’Ocse.

La ricordiamo: per l’Ocse, costituiscono aiuto pubblico allo sviluppo quei flussi provenienti dagli enti pubblici (dei paesi donatori) che hanno a) lo sviluppo economico e il benessere dei paesi in via di sviluppo come principale obiettivo, b) presentano carattere agevolato e c) comprendono una componente di dono di almeno il 25 per cento.

Date le due difficoltà dette sopra è impossibile fare un confronto diretto fra l’aiuto dei paesi Ocse e quello cinese. È per questo che alcuni centri di ricerca hanno messo a punto metodi molto complessi per raccogliere le informazioni sull’Aps cinese e renderle confrontabili con i dati Ocse.

Xinhua/Chen Yehua

La difficile raccolta dei dati

Uno di questi centri è Aiddata, laboratorio di ricerca del College di William e Mary, università pubblica statunitense con sede a Williamsburg, Virginia. Incrociando le informazioni disponibili nei documenti e nelle banche dati resi pubblici da Pechino, nei siti delle ambasciate cinesi, nei documenti ufficiali dei paesi riceventi e in articoli giornalistici, accademici e delle organizzazioni non governative, Aiddata@ ha quantificato in poco più di 30 miliardi di dollari l’aiuto pubblico allo sviluppo che la Cina ha fornito all’Africa fra il 2000 e il 2013. Nello stesso periodo, stando ai dati Ocse, l’Aps statunitense è stato quasi tre volte tanto. I paesi europei hanno speso in aiuto allo sviluppo due volte e mezzo quel che ha speso Washington e il dato mondiale assomma a 533 miliardi.

Questo significa che la Cina ha fornito circa il sei per cento dell’aiuto allo sviluppo complessivo, gli Usa intorno al quindici e un terzo la sola Unione Europea.

L’ordine di grandezza dei volumi individuati da Aiddata sull’aiuto cinese si discosta di molto da un precedente studio della Rand Corporation, secondo il quale nel solo anno 2011 l’aiuto cinese verso l’Africa sarebbe ammontato a 189,3 miliardi. Il motivo? Lo spiega Deborah Brautigam direttrice del China Africa Research Initiative – Cari – della Johns Hopkins University in un articolo del dicembre 2015 su Foreign Policy@: lo studio ha preso in considerazione gli impegni che la Cina ha preso, non i flussi reali. Di questi impegni – di solito sotto forma di accordi e memorandum di intesa – solo una minima parte si concretizza. Informazioni come queste, lamenta la studiosa statunitense, una volta diffuse continuano a circolare e ad essere riprese dai media, nonostante le smentite o le verifiche che ne mostrano l’inesattezza, alimentando così il mito per cui la presenza cinese nel continente è enorme e supera quella delle altre potenze mondiali, sia negli investimenti che nell’aiuto allo sviluppo.

Eppure per rendersi conto dell’errore della Rand basterebbe pensare che il totale globale dell’aiuto calcolato dall’Ocse per il 2016 è stato di circa 143 miliardi e chiedersi com’è possibile che la Cina abbia, cinque anni fa, superato da sola l’intero pianeta.

Miti e fatti

Brautigam individua altri quattro «miti sull’impegno cinese in Africa che la stampa ricicla con costanza».

Il primo mito

La Cina sta in Africa solo per estrarre risorse naturali. Che queste ultime attraggano molto la Cina non è in dubbio, precisa la ricercatrice, così come attraggono i giganti occidentali del petrolio e dell’attività mineraria come Shell, ExxonMobil e Glencore. Ma dire che la presenza della Cina ha questo come unico obiettivo è fuorviante. A confutazione di questa tesi Brautigam cita i 70 miliardi di dollari di contratti nel settore delle costruzioni che le compagnie cinesi hanno siglato con i paesi africani nel solo 2014 e la scuola di formazione aperta dal colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei ad Abuja, capitale della Nigeria, per formare ingegneri locali. Le elaborazioni Aiddata dei volumi fra il 2000 e il 2014 confermano questa lettura: sul totale di 354 miliardi di dollari di flussi cinesi diretti in Africa, a concentrarsi su attività minerarie, di costruzione e industriali sono stati 30 miliardi, l’8%. Al primo posto si trova la produzione e fornitura di energia, con 134 miliardi (38%) e, a seguire, le attività di trasporto e di stoccaggio, con 89 miliardi, un quarto del totale.

Il secondo mito

Forza lavoro: le compagnie cinesi impiegherebbero soprattutto cittadini cinesi. È vero, riconosce la direttrice del Cari, che in alcuni paesi – ad esempio l’Algeria, la Guinea Equatoriale e l’Angola – i governi permettono a Pechino di inviare i propri lavoratori. Ma nel resto del continente il dato è opposto: la ricerca effettuata da due studiosi di Hong Kong su 400 aziende cinesi attive in 40 paesi africani mostra che, se la dirigenza è prevalentemente cinese, l’80 per cento dei lavoratori è invece locale. Conclusioni simili a quelle raggiunte dallo studio di McKinsey pubblicato la scorsa estate: nelle oltre mille aziende cinesi prese in esame il personale locale era l’89%, pari a circa 300 mila persone. E, suggeriva McKinsey, proiettando il risultato sulle complessive 10 mila imprese cinesi in Africa, è lecito ipotizzare che gli africani impiegati dalle aziende di Pechino siano ormai quantificabili in milioni. I contenziosi sul posto di lavoro sono indubbiamente presenti, conclude Brautigam, ma riguardano le condizioni salariali e lavorative, non il fatto che il lavoro venga negato ai locali.

AFP PHOTO / HABIB KOUYATE

Aiuti in cambio di minerali e land grabbing?

Il terzo mito

Il governo cinese baratta l’aiuto allo sviluppo con concessioni minerarie e petrolifere. Uno studio del 2015 effettuato dal gruppo di ricercatori di Aiddata, sostiene la studiosa della Johns Hopkins, raggiunge le conclusioni molto diverse: a determinare i flussi di Aps di Pechino verso l’Africa sarebbero piuttosto le scelte di politica estera – ad esempio l’allineamento dei paesi africani alle posizioni cinesi quando si tratta di votare all’Assemblea Generale Onu e l’adesione dei paesi riceventi alla linea politica «una sola Cina», che nega a Taiwan il diritto di ritenersi uno stato separato dalla Repubblica Popolare Cinese. «Il nostro studio», dicono gli accademici del gruppo di Aiddata, «non conferma le critiche alla Cina per cui il suo Aps sarebbe prevalentemente motivato dall’interesse per l’acquisizione di risorse naturali.  I flussi di aiuti cinesi sono fortemente orientati ai paesi più poveri, e questo mostra che Pechino fa anche considerazioni di carattere umanitario quando decide le allocazioni di aiuto allo sviluppo. Nel complesso, i risultati dell’analisi suggeriscono che la prassi cinese nell’attribuzione dei fondi non è dissimile da quella dei donatori occidentali».

Un ultimo mito

L’insaziabile appetito cinese per le terre africane e un presunto piano per inviare contadini dalla Cina in Africa a coltivare prodotti agricoli da spedire poi a casa. Esisterebbero, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, interi villaggi di agricoltori cinesi.

«Il mio team e io abbiamo esaminato 60 casi di investimenti cinesi passando tre anni a fare ricerca sul campo e interviste in oltre dodici paesi africani: su circa 15 milioni di acri di terra riportati come acquisiti da compagnie cinesi abbiamo trovato prove di tali acquisizioni per meno di 700 mila acri». Le aziende agricole cinesi più grandi individuate dal team Cari erano piantagioni di gomma, zucchero e agave e nessuna esportava cibo verso la Cina. E, conclude Brautigam, se è vero che paesi come lo Zambia ospitano oggi svariate decine di imprenditori cinesi che coltivano e allevano polli, non abbiamo trovato nessun villaggio di contadini cinesi.

Kenya, strada da Isiolo a Moyale in costruzione.

Cina «donatore canaglia»?

Un’ulteriore critica frequentemente mossa alla Cina è quella che la vede come un rogue donor, un donatore canaglia, che usa l’aiuto pubblico per finanziare progetti scadenti e privi di reale impatto, il cui ulteriore effetto è quello di minare i benefici, per i paesi riceventi, dell’aiuto fornito da altri donatori come gli Usa. Il più recente (ottobre 2017) rapporto di Aiddata@ smentisce questa lettura: dall’analisi dei dati raccolti dai ricercatori emerge che per ogni progetto di sviluppo finanziato dalla Cina, il paese beneficiario sperimenta un aumento del Pil pari allo 0,7 per cento nei due anni successivi al finanziamento, in linea con i valori relativi all’aiuto dei paesi Ocse-Dac.

Tutto bene, quindi?

No, ovviamente. Questi pur ambiziosi tentativi di tracciare i flussi cinesi da parte di prestigiose istituzioni accademiche sono stati avviati solo molto di recente e stanno ancora perfezionandosi, per cui non c’è certezza che le conclusioni raggiunte siano del tutto corrette. L’analisi si ferma al 2014, e ancora poco o nulla è in grado di dire sugli ultimi tre anni.

Inoltre, il fatto che la Cina non renda pubblici i dati rende molto più complicato coordinare gli interventi di aiuto allo sviluppo. Resta poi vero il fatto che, a livello globale – non solo rispetto all’Africa – i flussi ufficiali americani fra il 2000 e il 2014 sono stati al 90 per cento Aps mentre l’aiuto pubblico cinese si è limitato a un quarto del complessivo impegno economico di Pechino nella cooperazione allo sviluppo planetaria, con il 60% delle risorse dedicate invece a scopi più prettamente commerciali e il rimanente 16% costituito da flussi dei quali non è chiaro se siano aiuto o meno. Infine, le testimonianze su comportamenti poco corretti da parte dei cinesi non sono rare: il rapporto McKinsey citava ad esempio il caso kenyano (studiato da Cari), dove il confronto fra imprese cinesi e statunitensi mostrava come non tutti i dipendenti africani delle prime avessero un contratto, mentre i dipendenti delle aziende Usa fossero tutti assunti regolarmente. O il caso dei lavoratori zambiani che lavorano nelle miniere di rame in condizioni inumane: scarsa ventilazione che può provocare patologie a carico dell’apparato respiratorio, orari di lavoro eccessivamente lunghi, attrezzatura antinfortunistica non rinnovata, minacce ai pompieri che si rifiutano di intervenire in condizioni di sicurezza non adeguate@. È dello scorso novembre un articolo su Allafrica@ che racconta delle gravi difficoltà di diverse giovani donne costrette a crescere da sole i figli avuti dalle relazioni con gli operai cinesi della Sinohydro Construction Company che sta costruendo la diga di Karuma, in Uganda. I lavoratori hanno abbandonato le compagne dopo aver promesso loro di sposarle e portarle in Cina. Ma il punto non è tracciare una linea sulla lavagna e segnare da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Certo, non è ancora da escludere che, un giorno, l’Africa si troverà invasa dai cinesi; ma quel giorno non è oggi. Il punto, nelle parole di Debora Brautigam, è che la diffusione dei miti e delle informazioni scorrette rende più difficile concentrarsi sui reali problemi che la presenza cinese in Africa comporta, come quelli descritti sopra. Ad essi vanno poi aggiunti la poca trasparenza sulle risorse, la mancata certificazione di sostenibilità di prodotti come il legname, il disinteresse per la protezione dell’ambiente. «Andare oltre la mitologia renderà forse meno elettrizzanti i contenuti dei media, ma aiuterà a creare una base più informata per il coinvolgimento occidentale nei rapporti con la Cina, in Africa come altrove».

Chiara Govetti

 




È nato un bambino. Aiutiamolo a crescere


Quest’anno a Natale vi proponiamo di iniziare a seguire insieme a noi un bambino durante i suoi primi anni di vita. E di aiutarci a farlo nascere e crescere garantendogli sanità e istruzione.

Mi chiamo Emmanuel, sono nato il 25 dicembre del 2009. Abito in una casa sotto un grande albero di mango. Ma se volete venire a trovarmi questo non vi sarà di grande aiuto per farvi arrivare a casa mia: ci sono almeno dieci case, nel mio villaggio, che stanno sotto un grande albero di mango. Dovete chiedere di Emmanuel il figlio di Marie, quella che fa la cuoca nell’asilo dei missionari.

Dice mamma che quando sono nato l’asilo era chiuso per le vacanze e lei era ad aiutare papà nel campo di manioca. Ha sentito che stavo arrivando, allora papà l’ha fatta sedere sul portapacchi della bici e ha pedalato fino al posto dove nascono i bambini. È una casetta di mattoni, più grande della nostra e si chiama dispensario. Dentro ci sono due persone vestite di bianco: una è un infermiere, poi c’è una signora che aiuta le mamme a far nascere i bambini.

Queste cose non le so perché me le ricordo, ero troppo piccolo. Le so perché adesso mamma aspetta la mia sorellina e ogni tanto io e mio fratello piccolo la accompagniamo al dispensario. Dice mamma che deve andarci per fare la visita: vuol dire che quelle persone vestite di bianco le guardano la pancia, ascoltano il suo cuore e il suo respiro. Una volta lei aveva la febbre: le hanno punto un dito con un ago e le hanno preso una goccia di sangue. Le hanno detto che aveva la malaria, poi le hanno dato delle medicine e una zanzariera nuova: la nostra aveva troppi buchi e la mamma si era ammalata per quello.

Per mia sorella che sta per nascere siamo stati al dispensario già tre volte, ma dice mamma che quando aspettava mia sorella maggiore non ci andava mai: il dispensario non c’era ancora e mamma ha fatto tutto da sola. Beh, non proprio da sola: c’era una signora del villaggio che aiutava le mamme. C’è ancora, abita nella casa vicino alla strada grande, adesso è un po’ vecchia ma aiuta ancora i bambini a nascere. Però non tutti, dice mamma, più o meno uno sì e uno no@.

Poi i missionari, quelli dell’asilo dove lavora mamma, hanno aperto il dispensario. Ora molte mamme vanno a fare la visita, ma non sempre. Ad esempio, fra le nostre vicine di casa quattro aspettano un bambino. Una viene sempre con noi alla visita, due sono andate una volta sola. La quarta, invece, non ci va mai@.

Mamma ha provato a convincerla, ma lei niente: dice che suo marito non vuole, che ha bisogno nei campi, e poi lui non si fida di quelle persone vestite di bianco. Secondo me fa male a non fidarsi di loro: sono gentili, spesso ascoltano anche il mio cuore e il mio respiro. Poi mettono mio fratello dentro una specie di scatola di legno e gli avvolgono un braccialetto intorno a un braccio, scrivono dei numeri su un quaderno e a volte danno a mamma un sacchetto con dentro delle cose per lui.

Un giorno ho visto un bambino piccolissimo, con i capelli strani, un po’ gialli. Era con sua sorella più grande, non so dove fosse la sua mamma. Hanno messo pure lui nella scatola di legno, gli hanno avvolto il braccialetto intorno al braccio e lo hanno anche infilato con le gambe penzoloni in una specie di sacco bucato: era per pesarlo, ha detto l’infermiere. A sua sorella hanno dato un sacchetto molto più grande di quello che hanno dato a noi e l’infermiere ha parlato con lei per tanto tempo. Dice mamma che adesso quel bambino devono curarlo bene e che deve mangiare delle cose per non essere più così piccolo e per non avere più i capelli gialli.

Di bambini così all’asilo dove lavora mamma non ce ne sono: secondo me è perché lei è la cuoca più brava di tutte. Le cose che prepara fanno diventare grandi i bambini e non fanno venire i capelli gialli. Lo so, perché all’asilo sono andato anche io e ora ci va mio fratello. Adesso ha lui la mia tazza rossa, quella che usavo per bere, e ha anche il mio piatto verde, dove le maestre mi mettevano la pappetta e le altre cose da mangiare. È giusto così, la pappetta è per i bimbi piccoli, io ormai sono grande e non posso più andare all’asilo. Anche se mi piacevano le cose che facevo lì, specialmente disegnare e cantare insieme agli altri.

All’asilo ho anche imparato a contare, ma non so ancora contare tutto: una volta ho provato a contare quanti passi ci sono per andare alla mia scuola, ma sono molti più di venti! Mia sorella grande andava nella mia stessa scuola che sta in un villaggio più grosso. Lei dice che doveva camminare mezz’ora, ma io non so quanti passi sono mezz’ora.

Alla mattina io cammino fino alla scuola con due bambine e altri due bambini del mio villaggio. È bello perché mentre camminiamo ci facciamo degli scherzi e un po’ ci fermiamo a giocare. Per un po’ di tempo Irene, una delle due bambine, non è più venuta a scuola con noi. Dicono gli altri che la sua mamma è stata male di nuovo e che lei ha dovuto stare a casa per aiutarla a guardare i fratelli più piccoli. Il loro papà non c’è mai, guida un camion ed è sempre in viaggio@  e la mamma deve fare tutto da sola. Anche l’anno scorso sua mamma si era ammalata e ci è mancato poco che la mia amica perdesse l’anno.

Ora è tornata e io sono contento, perché è quella che mi sta più simpatica e anche perché è la più brava della classe. Dice mamma che tutti i bambini devono andare a scuola ma che per le bambine è tutto molto più difficile. Però da quest’anno lei ha un amico nuovo, un bambino che abita in un paese lontano, il paese – dice papà – da cui arriva quel missionario che viene spesso a trovarci in classe e si ferma a parlare con le maestre. Questo bambino e i suoi genitori ora regaleranno a Irene, e a tutti i bambini come lei, i quaderni, i libri, le matite, il grembiule e tante altre cose che servono per la scuola. Così la sua mamma potrà riposarsi un po’ di più e non si ammalerà tutti gli anni e Irene non dovrà più smettere di venire a scuola per aiutarla.

Una volta Irene mi ha detto che lei da grande vuole essere come la signora del dispensario che fa nascere i bambini e che io potrei diventare come l’infermiere. Mi sembra una buona idea, così potremo continuare a farci gli scherzi e fermarci a giocare, la mattina, mentre camminiamo insieme per andare al dispensario.

Emmanuel

Emmanuel è un bambino come tanti, anzi, è tanti bambini in uno. La sua storia è ispirata alle migliaia di storie che abbiamo ascoltato nei dispensari, nelle maternità, nei centri nutrizionali, negli asili e nelle scuole primarie che i nostri missionari gestiscono nel mondo. Abbiamo collocato il nostro piccolo narratore in un villaggio rurale africano, ma molte delle situazioni che vive sono condivise dai suoi coetanei nelle immense periferie delle grandi città o nelle terre di popoli indigeni o nelle zone aride dell’America Latina, e simili anche a quelle di altri popoli che vivono di pastorizia, come in Mongolia.

Quello che Emmanuel non ci ha raccontato – perché nessun bambino dovrebbe poter raccontare una cosa del genere – è che nei paesi meno sviluppati su mille bambini nati vivi quattro donne muoiono ancora per cause legate alla gravidanza (nell’area euro ne muoiono sei ogni centomila)@, mentre sessantotto bambini su mille non arrivano a compiere cinque anni. Settantotto, considerando la sola Africa subsahariana. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, tredici su cento di queste morti sono causate dalla polmonite, nove dalla diarrea, sei da ferite varie e cinque dalla malaria.

Secondo i dati Unicef@ «tra il 1990 e il 2015, la malnutrizione cronica è calata da 255 milioni a 156 milioni di bambini, è però aumentata in Africa Occidentale e Centrale, passando da 19,9 milioni a 28,3 milioni.

Nel 2015, oltre 50 milioni di bambini sotto i 5 anni sono risultati affetti da malnutrizione acuta, di cui 17 milioni da malnutrizione acuta grave: la metà dei bambini vivevano in Asia meridionale ed un quarto in Africa subsahariana». Nello stesso anno «circa 92 milioni di bambini sotto i 5 anni risultavano sottopeso».

Nei paesi meno sviluppati solo un bambino su cinque va all’asilo. Eppure, sempre più studi confermano che i bambini che hanno ricevuto un’istruzione preprimaria ottengono migliori risultati negli studi successivi e sono più al riparo dal rischio di essere malnutriti grazie al sostegno nutrizionale che ricevono alla scuola materna. Dei bambini in età da scuola primaria, uno su cinque non è in classe@: si tratta di oltre sessanta milioni di bambini, di cui più della metà in Africa.

Chiara Giovetti




Come sta la sanità in Costa d’Avorio


Fra riforme che si concretizzano solo molto lentamente, cronica mancanza di risorse e diffusione di farmaci contraffatti, la Costa d’Avorio sta faticosamente cercando di darsi un sistema sanitario adeguato.

Dal 2014 in Costa d’Avorio la copertura sanitaria universale è legge. Il provvedimento, in francese Couverture maladie universelle (Cmu), è stato fortemente voluto dal presidente Alassane Dramane Ouattara, che ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia nella campagna presidenziale del 2015, in seguito alla quale si è visto confermare dagli elettori il mandato per altri cinque anni. La Cmu mira ad estendere a tutta la popolazione la copertura sanitaria sulla base di due regimi: il primo, quello contributivo, si finanzia attraverso un contributo a carico dei cittadini, che è pari a mille franchi Cfa (circa un euro e 52 centesimi) al mese. Il secondo, non contributivo, riguarda le persone in stato di indigenza, per le quali sarà lo stato a coprire i costi quantificati, secondo il sito ivoriano di notizie abidjan.net, in 49 miliardi di franchi, pari a circa 75 milioni di euro.

I servizi a cui questa sorta di assicurazione medica pubblica permette di avere accesso comprendono le consultazioni prestate dal personale sanitario – infermieri, ostetriche, medici generalisti e specialisti – le analisi di laboratorio, gli interventi chirurgici, le ospedalizzazioni, i farmaci e riguardano le 170 patologie che maggiormente toccano la popolazione ivoriana.

Un piano sanitario indubbiamente ambizioso in un paese dove ad oggi solo il 5% della popolazione dispone di un qualche tipo di previdenza sociale. La messa in opera è cominciata nel 2015, mentre l’effettiva erogazione dei primi servizi dovrebbe iniziare ad aprile 2018. Ma le difficoltà di attuazione sono già emerse nella fase preliminare, quella della registrazione dei beneficiari. A luglio scorso, le persone che avevano completato il processo di registrazione erano 785mila mentre un milione e quattrocentomila erano quelle preregistrate, a fronte di una popolazione totale di oltre ventidue milioni.

Considerando che alla registrazione dovrebbe seguire l’effettiva immatricolazione – con consegna di una carta personale biometrica a ciascun cittadino – e che solo dopo dovrebbe cominciare la raccolta dei contributi mensili e l’erogazione dei servizi, ci sono gli elementi per dire che il processo procede a rilento. Fra le cause di questo ritardo ci sono l’isolamento delle zone rurali, dove un’ampia parte della popolazione ha a malapena ricevuto notizia di questa iniziativa, e le difficoltà di registrazione di quell’ampia parte di ivoriani che vive nell’informalità, lavorativa e abitativa. Non è un caso, infatti, che la fase cosiddetta sperimentale della Cmu sia cominciata dai lavoratori del settore formale, pubblico e privato, dagli studenti e dai pensionati.

Ma mentre realizza questa riforma per garantire a tutti l’accesso ai servizi sanitari, la Costa d’Avorio deve anche concentrarsi sul miglioramento dei servizi stessi. Secondo i dati della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il rapporto medici pazienti è pari a uno ogni settemila abitanti, a fronte di una media regionale dell’Africa subsahariana di uno ogni 3.300. Non va meglio con infermieri e ostetriche: uno ogni duemila ivoriani, contro uno ogni mille per gli altri africani. Partendo da questi dati sul personale sanitario di base, il fatto che la forza lavoro con competenze di chirurgia sia il doppio rispetto alla media africana – tre chirurghi ogni mille abitanti contro 1,7 nel continente – non migliora di molto il quadro. Secondo l’Atlante 2016 delle statistiche sulla sanità in Africa dell’Oms, la Costa d’Avorio era al sesto posto nel continente per tasso di mortalità degli adulti – un dato vicino a 400 persone ogni mille sia per i maschi che per le femmine – e all’undicesimo per mortalità materna con 645 decessi di madri ogni centomila nati vivi. Dei dieci sotto obiettivi di sviluppo del millennio in materia di sanità, la Costa d’Avorio ne ha raggiunti solo due: riduzione dell’incidenza dell’Hiv e del tasso di mortalità per tubercolosi. Per gli altri otto – fra i quali vi sono la riduzione della mortalità materna e dei bambini sotto i cinque anni, la copertura vaccinale contro il morbillo e i parti avvenuti in presenza di personale sanitario qualificato – le caselle ivoriane sono una sequela di not achieved, «non raggiunto». L’investimento in sanità da parte del governo è passato dall’1,6% del Pil del 1990 all’1,9 del 2013: il Ruanda, ad esempio, partiva dallo stesso dato iniziale per passare poi a un investimento del 6,5%.

Il giorno per giorno negli ospedali

Come si manifesta tutto questo sul campo? Un articolo apparso su Jeune Afrique lo scorso luglio permette di farsi un’idea della situazione. Nel centro ospedaliero universitario di Cocody, quartiere fra i più agiati della capitale economica Abidjan, i parenti dei pazienti si trovano spesso ad attendere seduti per terra nella hall. Il direttore dell’ospedale li invita ad andare a sedersi almeno sulle panchine dell’accettazione, ma è consapevole della mancanza di spazi adeguati per accogliere i familiari delle persone ospedalizzate. Le quali non di rado rimangono più di ventiquattr’ore ricoverati al pronto soccorso per mancanza di stanze ben equipaggiate nei reparti.

La morte, nel 2014, di una famosa modella ivoriana al pronto soccorso di Cocody e la denuncia da parte dei familiari delle gravi negligenze che, a loro dire ne aveva provocato il decesso, aveva acceso i riflettori sull’ospedale. Sull’onda dello scandalo, il presidente della Repubblica in persona aveva ordinato la messa a nuovo dell’ospedale, che è considerato uno degli ospedali-vetrina del paese e che vede sfilare annualmente 40mila pazienti solo al pronto soccorso. Nuovi materiali e strumenti sono in effetti arrivati – ecografia, radiologia, laboratorio per le analisi, ristrutturazione dei locali – ma il tasso di decessi è ancora al 20%. «Queste morti si spiegano con la gravità dei casi, i ritardi nella diagnosi per malattie come il cancro, i tempi di trasporto molto lunghi e a volte anche per il ritardo nella presa in carico del paziente», ammette il direttore dell’ospedale.

Al centro ospedaliero universitario di Yopougon, popoloso quartiere periferico, la situazione è ancora più difficile: su 495 letti teoricamente disponibili, solo 350 sono davvero utilizzabili. «Sono quattro anni che sento parlare di progetti di riabilitazione delle strutture, non so più se crederci», dice il professore Dick Rufin, presidente della commissione medica dell’ospedale, che confessa: «Se io o qualcuno dei miei familiari avessimo un problema di salute, andrei in una clinica privata».

Le cause principali alla base di questa situazione sono la mancanza di mezzi finanziari e l’incuria derivata da dieci anni di conflitto e crisi politiche ricorrenti. Gli investimenti governativi, a onor del vero, non sono mancati. Fra questi, lo sblocco degli stipendi dei medici, l’assunzione di oltre diecimila operatori sanitari, la costruzione di un centinaio di centri di sanità di base e l’istituzione di esenzioni dal pagamento dei farmaci. Ma gli effetti di questi interventi non sono ancora chiaramente percepibili. Nonostante le esenzioni, ad esempio, molti si trovano a doversi comunque pagare le medicine perché gli stock riservati ai pazienti esenti esauriscono troppo rapidamente.

C’è poi da lavorare sulla conduzione degli ospedali: secondo numerose testimonianze raccolte da Jeune Afrique, la pratica di chiedere ai malati una tangente per accelerare la loro presa in carico è ancora diffusa.

Salute: Zone rurali e farmaci contraffatti

Nelle aree rurali come quelle di Marandallah e Dianra, dove sono attivi i missionari della Consolata, le condizioni sono ancora più dure. Una delle difficoltà più grandi è legata alla scarsa informazione delle comunità che causa una quasi totale assenza di prevenzione e un costante ritardo nel recarsi presso le strutture sanitarie. «È fondamentale che il nostro personale possa continuare, e possibilmente intensificare, l’attività mobile, quella della visita ai villaggi», spiegava lo scorso gennaio il responsabile del centro di salute di Marandallah padre Alexander Mukolwe. «Senza un monitoraggio costante nei villaggi e la formazione comunitaria che gli operatori affiancano, durante le loro visite, alle sessioni di vaccinazione, alla diagnosi delle malattie e alla distribuzione di farmaci, continueremo a vedere persone arrivare al centro di salute in condizioni disperate e morire per patologie che si potevano curare in un paio di giorni». Basta pensare che in Costa d’Avorio su cento bambini sotto i cinque anni sei muoiono a causa della diarrea; solo il 17% dei piccoli affetti da questa malattia riceve un trattamento adeguato di reidratazione orale.

La necessità di rendere capillare e diffusa l’assistenza sanitaria è ancora più importante alla luce del fenomeno dei farmaci contraffatti e dei centri sanitari fai-da-te.

«Ne abbiamo avuto notizia anche noi», conferma padre Matteo Pettinari, responsabile del centro di salute di Dianra, a ottanta chilometri da Marandallah. «Individui con una formazione sanitaria limitata, o nulla, che avviano centri clandestini dove si fanno pagare per consultazioni improvvisate e farmaci contraffatti o scaduti oppure medicinali veri ma rubati nei dispensari ufficiali nei quali questi impostori hanno prestato servizio. È una cosa gravissima, specialmente in un contesto dove c’è così poca consapevolezza in materia di salute e le persone non hanno gli strumenti per difendersi da una truffa che può costare loro anche la vita». E non esagera, padre Matteo, se lo scorso settembre Radio France International (Rfi) si faceva megafono dell’allarme lanciato dai farmacisti ivoriani sulle medicine contraffatte. «I farmaci di strada sono la morte in strada», recita lo slogan con cui i farmacisti cercano di mettere in guardia i cittadini dai pericoli di un traffico che interessa il 30% dei farmaci venduti nel paese, con perdite di introiti per le farmacie legali stimato in circa 50 miliardi di franchi (76 milioni di euro). Un mercato che si avvia a superare quello della droga, sottolinea Rfi, che rileva come al mercato di Roxy d’Adjame, ad Abidjan, si trovino sui teli stesi a terra falsi vaccini, antimalarici, antibiotici, antiretrovirali, sacche di sangue fasullo e cosmetici contraffatti.

A facilitare l’ignobile commercio sono il prezzo più basso rispetto ai farmaci legali e le pene meno severe rispetto a quelle previste per i trafficanti di droga. I medicinali illeciti disponibili in Costa d’Avorio provengono in prevalenza dall’Asia o dai vicini Ghana e Nigeria.

Chiara Giovetti


Salute in movimento

MOSTRA DI SOLIDARIETÀ AMC / Torino

Quest’anno gli Amici Missioni Consolata hanno deciso di aiutare il progetto La salute in movimento, che si concentra sul sostegno ai centri di salute di Marandallah e Dianra nel Nord della Costa d’Avorio e, in particolare, all’attività di assistenza sanitaria mobile dei due centri.

Le équipe sanitarie – composte da infermieri e ausiliari – effettuano infatti visite regolari ai villaggi che costituiscono il bacino d’utenza dei due centri di salute. Queste visite si rendono particolarmente necessarie in zone come quelle di Marandallah e Dianra, che hanno un’estensione territoriale notevole e mancano quasi totalmente di strade asfaltate, rendendo molto più difficile per gli abitanti dei villaggi più remoti raggiungere i centri di salute. Spesso, per mancanza sia di risorse finanziarie che di informazioni adeguate su igiene e prevenzione, i pazienti rimandano il ricorso all’assistenza sanitaria fino a quando le loro condizioni non si sono aggravate al punto da rendere molto difficile, a volte impossibile, intervenire efficacemente per guarirli.

Il lavoro di assistenza mobile consiste nel monitoraggio dei casi di malnutrizione fra i bambini, delle condizioni di salute delle donne incinte, delle neo mamme e dei neonati, nelle campagne di vaccinazione, nel trattamento delle ferite legate all’attività agricola e nella diffusione di informazioni su igiene e sanità. Quest’ultima attività ha un ruolo cruciale nel permettere alle persone di prevenire o individuare in tempo le malattie più comuni, come quelle gastroenteriche, legate ad esempio all’utilizzo di acqua non adatta al consumo umano, o quelle delle vie respiratorie, ma soprattutto la malaria, principale causa di morte in Costa d’Avorio. Per la prevenzione e cura della stessa sono fondamentali le zanzariere impregnate di insetticida e la tempestiva diagnosi e successiva assunzione di farmaci antimalarici. Eppure, secondo i dati più recenti, dei bambini sotto i cinque anni solo uno su tre dorme sotto una zanzariera e solo uno su cinque con la febbre riceve un trattamento antimalaria.

I nostri missionari responsabili dei due centri di salute ci hanno indicato l’attrezzatura e l’equipaggiamento che permette loro di continuare con la stessa efficacia e costanza questo importante servizio alle comunità.

L’iniziativa degli Amici intende contribuire a coprire questi costi:




La Cina in Africa: che cosa è cambiato /1


Colonizzatrice, sfruttatrice e insaziabile divoratrice di risorse del sottosuolo o amica degli africani, partner alla pari e addirittura benefattrice? La presenza della Cina in Africa è complessa e sfaccettata.

Negli ultimi quindici anni le relazioni fra la Cina e l’Africa hanno avuto una decisa impennata. A testimoniarlo sono i dati sia sul commercio sino-africano che sugli investimenti di Pechino in Africa. Secondo uno studio di McKinsey pubblicato nel giugno scorso, Dance of the lions and dragons@, il commercio fra il continente africano e il colosso asiatico è aumentato a ritmo del 21% annuo dai 13 miliardi del 2001 ai 188 del 2015, facendo della Cina il primo partner commerciale dell’Africa. Il commercio con l’India, che dell’Africa è il secondo partner, arriva a 59 miliardi, un terzo. Quanto all’investimento diretto all’estero (Ide) dalla Cina all’Africa, esso è passato dal miliardo del 2004 ai 35 del 2015, aumentando del 40% annuo.

Ma la presenza cinese in Africa ha molto più di quindici anni. Senza scomodare l’ammiraglio Zheng He e le imprese della flotta imperiale cinese che raggiunse le coste del Kenya, della Tanzania e della Somalia nel quindicesimo secolo, le relazioni sino-africane nell’epoca contemporanea sono vecchie di oltre mezzo secolo. Secondo Liu Youfa, ex vicepresidente del China Institute of International Studies, tre sono gli eventi che aiutano a sintetizzarne l’evoluzione@.

  • In primo luogo, la costruzione nel 1970 della ferrovia TanZam che collega il porto di Dar Es-Salaam in Tanzania alla cintura del rame in Zambia. Le negoziazioni per la costruzione della TanZam cominciarono nel 1966, dopo che i due paesi africani avevano chiesto il sostegno di Banca mondiale, Stati Uniti e altri paesi occidentali, rimanendo però inascoltati.
  • Il secondo evento – chiave, continua Liu Youfa, è l’approvazione, il 25 ottobre 1971, della risoluzione 2758 dell’Assemblea generale Onu, che riconosceva la Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong – e non i rappresentanti di Chiang Kai-shek e di Taiwan – come governo legittimo della Cina e membro del Consiglio di Sicurezza. In quell’occasione, dei 76 voti a favore della Cina popolare 26 erano africani e Mao ebbe modo di commentare: «Sono i nostri amici africani che ci hanno portato all’Onu».
  • Il terzo e ultimo passaggio fondamentale è la creazione del Forum sulla cooperazione sino-africana (Focac) nel 2000, nell’ambito del quale i rapporti politici ed economici fra il regno di mezzo e il continente nero hanno preso una forma via via più strutturata.

Quella dell’ultimo ventennio, dunque, è un’esplosione economica che affonda le sue radici in un lungo lavoro diplomatico e strategico e che oggi sembra alle soglie di un ulteriore cambiamento.

La base militare a Gibuti e le infrastrutture

Il più recente e macroscopico segno di questo cambiamento è probabilmente l’apertura, lo scorso luglio, della prima base militare della Cina al di fuori del proprio territorio. Per lo storico passo il gigante orientale ha scelto Gibuti, piccolo paese del Corno d’Africa affacciato sullo stretto che collega il Mar Rosso con il golfo di Aden e che già ospita le basi militari di Italia, Stati Uniti, Francia e Giappone. È una base navale il cui scopo, a detta di Pechino, è quello di fornire supporto alle missioni umanitarie e di peacekeeping e di contribuire agli sforzi internazionali di lotta alla pirateria nella zona. Ospiterà, certo, dei militari e sarà utile per attività di cooperazione militare, esercitazioni congiunte, evacuazione e protezione di Cinesi all’estero. Ma, hanno insistito i media cinesi, la Cina non persegue espansionismo militare né si impegnerà in corse agli armamenti. Lo sviluppo militare della Cina, taglia corto il Pla Daily, quotidiano delle forze armate cinesi, mira a proteggerne la sicurezza, non a controllare il mondo.

Le precisazioni sono una risposta agli altri attori internazionali come gli Stati Uniti – che hanno espresso preoccupazione per la mossa cinese – e l’India, altro gigante asiatico che rivaleggia con la Cina e che teme di esserne pian piano accerchiata. È, questa, la teoria del «filo di perle» che attribuisce alla Cina la volontà di creare una serie di presenze nei punti chiave del percorso marittimo immaginario che va dal territorio cinese alla città sudanese di Port Sudan, sul Mar Rosso, circondando, appunto, l’India.

Ma anche prima di questo passo, il quale, al netto delle preoccupazioni di Usa e India, resta comunque epocale, che la Cina avesse cambiato marcia era piuttosto chiaro. Lo scorso maggio c’è stato a Pechino il primo incontro di presentazione dell’iniziativa Una cintura, Una strada (One Belt, One Road, Obor), che prevede la ricostituzione della via della seta. Anzi, delle vie della seta: quella terrestre, che interessa principalmente Asia ed Europa, e quella marittima, che tocca anche l’Africa orientale. Le manifestazioni di interesse da parte dei paesi potenzialmente coinvolti sono state tante, e tanti sono anche i dubbi sulla praticabilità e sostenibilità di un’opera così mastodontica.

Nuovo treno merci sulla nuova ferrovia costruita dai cinesi in partenza da Mombasa

Intanto, però il lancio esplorativo del programma mette in una diversa prospettiva due infrastrutture che in Africa sono state già realizzate. Se n’è parlato molto nell’ultimo anno: sono la ferrovia che collega il porto kenyano di Mombasa con la capitale Nairobi e quella che connette Gibuti alla capitale etiope Addis Abeba.

La linea ferroviaria kenyana, riporta la Bbc, è stata inaugurata lo scorso maggio con diciotto mesi di anticipo, è lunga 470 chilometri ed è la prima fase di un più ampio progetto che prevede in Kenya un totale di 840 chilometri sino alla città frontaliera occidentale di Malaba. Costruita dall’azienda cinese China Road and Bridge Corporation (Crbc), ha avuto un costo di 3,8 miliardi di dollari finanziati all’85 per cento dalla Banca per l’import export cinese (China Exim Bank) con un prestito agevolato che concede al Kenya di cominciare a ripagare il debito fra dieci anni con i proventi generati dalla ferrovia. Il tratto kenyano dovrebbe essere il primo di un complessivo progetto regionale che collegherebbe l’oceano Indiano con il Sud Sudan.

Quanto alla linea Gibuti-Addis, è la prima ferrovia elettrica del continente e permetterà di impiegare dieci ore invece che tre giorni per trasportare merci sui 756 chilometri che separano le due città. Anche in questo caso, finanziatori e costruttori sono cinesi: l’Exim Bank ha concesso i prestiti e due costruttori – diversi da quelli della Mombasa-Nairobi – hanno realizzato la ferrovia, che dovrebbe cominciare le operazioni questo mese dopo un anno di test e verifiche.

Ma le due strade ferrate non sono certo le sole opere a cui la Cina è o è stata alacremente intenta negli ultimi anni. Sempre cinese è il ponte che collegherà la capitale mozambicana di Maputo al distretto di Catembe e che, con i suoi oltre tre chilometri, sarà il ponte sospeso più lungo del continente. Il costo sarà di circa 750 milioni di dollari e il progetto comprende anche la costruzione di due strade per migliorare i collegamenti del Mozambico con lo Swaziland e il Sudafrica, incentivando così turismo e commercio. I nomi del finanziatore e del costruttore? Sempre gli stessi: Exim Bank e Crbc.

Vale la pena di citare poi la cittadella di Kilamba, a trenta chilometri dalla capitale dell’Angola, Luanda, un complesso abitativo composto da 710 edifici di diverse altezze e con più di ventimila appartamenti, oltre ai servizi come asili, scuole, negozi. Costruita con fondi e da aziende cinesi e inaugurata nel 2011, è stata oggetto di alcuni reportage che la descrivevano come una città fantasma, almeno fino all’anno scorso. Oggi fonti ufficiali quantificano in ottantamila gli angolani residenti nella cittadella; la lentezza con cui le case vengono vendute pare dipendere più che altro dai prezzi – fino a qualche mese fa decisamente troppo alti anche per i luandesi di classe media -, dalle difficoltà nell’ottenere un mutuo e dalla inefficienza e disorganizzazione con cui l’assegnazione delle case viene gestita dagli enti angolani.

Ma andiamo oltre le singole opere. Nel 2016, si legge nel rapporto di Fdi Intelligence, la sezione del Financial Times che si occupa di investimenti diretti all’estero@, la Cina è stata il primo paese per capitali investiti in Africa: oltre 36 miliardi di dollari e quasi 40 mila posti di lavoro creati. Ha così soffiato il primato all’Italia che l’anno precedente, soprattutto grazie al progetto Eni per l’estrazione di gas dal giacimento di Zohr, al largo dell’Egitto, faceva da capofila con 7,4 miliardi di dollari.

Per numero di progetti, restano in testa gli Stati Uniti: 83 progetti (dieci in meno dell’anno precedente), contro i 71 della Francia e i 62 della Cina, che li ha però raddoppiati rispetto al 2015. Considerando i paesi come aggregati, è l’Europa occidentale a posizionarsi al primo posto, con 224 progetti, pur registrando un calo rispetto ai 282 del 2015.

Invasione cinese? Non proprio.

La base di Gibuti, le grandi opere e numerosi articoli e reportage hanno contribuito a creare la sensazione di un’invasione dell’Africa da parte della Cina. I volumi sono certo impressionanti, ma vanno contestualizzati. Anche perché l’analisi dei numeri sulla Cina si scontra con due difficoltà: la prima è che i dati forniti da Pechino non sono né chiari né trasparenti. Ad esempio, osserva David Dollar della Brookings Institution di Washington, metà del complessivo investimento cinese all’estero risulta diretto a Hong Kong e, a seguire, alle isole Cayman e Virgin. Nessuno dei tre luoghi è probabilmente la destinazione finale degli investimenti@. Inoltre, diverse ricerche prendono in considerazione gli impegni annunciati dalla Cina, che non sempre però si trasformano in effettivi flussi di denaro. La seconda difficoltà è che l’elaborazione di questi dati da parte dei media non sempre sfugge al sensazionalismo.

La Cina ha certamente fatto un balzo notevole nell’ultimo decennio. Come sottolinea a pagina 20 lo studio McKinsey sopra citato, Pechino è già il maggior partner economico dell’Africa: si trova nelle prime quattro posizioni in cinque ambiti fondamentali: commercio, investimenti, progressione degli investimenti, aiuto allo sviluppo e finanziamento di infrastrutture. Sempre David Dollar nel 2016 proponeva tuttavia una lettura cauta: l’investimento della Cina in Africa è sia grande che piccolo. È piccolo, scrive lo studioso, nel senso che la Cina è arrivata più tardi in Africa e rappresenta solo una piccola parte dello stock totale degli investimenti stranieri nel continente. Alla fine del 2011, questo totale era di 629 miliardi, del quale la quota cinese era pari al 3,2%. I paesi europei, guidati da Francia e Regno Unito, sono di gran lunga i maggiori investitori nel continente. L’investimento della Cina in Africa è tuttavia anche grande in senso relativo. A fine 2013, la Cina aveva un investimento diretto estero in Africa (32 miliardi di dollari) comparabile a quello che aveva negli Stati Uniti (38 miliardi). Pertanto, dal momento che l’investimento diretto tende di norma ad andare verso le economie più avanzate, l’attenzione relativa della Cina all’Africa è grande@.

Lo stock di investimenti diretti esteri in Africa l’anno scorso si aggirava intorno agli 836 di cui 49 miliardi dalla Cina secondo le stime di McKinsey. Se la stima fosse confermata, la quota cinese di investimenti in Africa salirebbe a poco meno del 6%. L’ultimo dato disponibile per gli Stati Uniti è quello del 2015, pari a 64 miliardi di investimenti in Africa: l’8,3% del totale.

La China Africa Research Initiative (Cari) della Jonhs Hopkins University è un’altra delle fonti che tende a ridimensionare i dati. Un esempio? Il fact checking della Cari su un articolo apparso lo scorso maggio sul New York Times dal titolo «La Cina è la nuova potenza coloniale mondiale?», nel quale il quotidiano statunitense sosteneva che nel 2016 la Cina avrebbe riservato un fondo di sessanta miliardi di dollari per finanziare infrastrutture in Africa principalmente attraverso prestiti cinesi. «Non esiste nulla del genere», puntualizza Cari. «L’articolo potrebbe riferirsi agli impegni presi dalla Cina nell’incontro del Forum Africa Cina del 2015» e – a leggere i documenti ufficiali del Forum – è chiaro come i sessanta miliardi non costituiscano un unico fondo ma comprendano prestiti, donazioni e investimenti e, soprattutto, non sono concentrati sulle infrastrutture.

Chiara Giovetti
(continua in gennaio 2018)

Archivio MC:

Di relazioni Cina Africa abbiamo parlato nel dossier MC dicembre 2007 e nel numero monografico MC ottobre 2010.




Turismo sostenibile:

4 chiacchiere con un esperto /2


Nel numero di luglio vi abbiamo proposto una panoramica sul turismo internazionale, sui suoi volumi in termini di movimenti di persone e giro d’affari e sul dibattito a proposito della sostenibilità e del contributo del turismo allo sviluppo. Questo mese torniamo sul rapporto fra turismo, cooperazione e migrazione facendoci guidare da Maurizio Davolio, il presidente dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr).

Anche per il 2017 le proiezioni degli arrivi internazionali di turisti segnano un trend in crescita: secondo il Gruppo di esperti del World Tourism Organization (Unwto), l’aumento su base planetaria dovrebbe attestarsi fra il 3 e il 4 per cento.

Quanto agli italiani, una ricerca dell’Ufficio Studi Coop@ della primavera scorsa su un campione di mille persone fra i 18 e i 65 anni ha rilevato che sono 84 su cento le persone che intendono andare in vacanza quest’anno, contro il 76 per cento del 2016. «Se è vero», si legge nel commento all’infografica di italiani.coop, «che quasi 4 italiani su 10 scelgono ancora la vacanza low cost and no frills, rispunta, almeno nei desideri, il piacere di una vacanza high value, in albergo o in un villaggio, magari anche in crociera (+24% le intenzioni di questa tipologia di viaggio rispetto al 2016)».

Quanto alla sensibilità rispetto al turismo sostenibile, la tendenza appare in aumento, almeno nell’indagine@ condotta dal portale web di viaggi Tripadvisor secondo la quale quasi 2 italiani su 5 (38%) prevedono di fare scelte di viaggio ecofriendly nel 2017.

Sulla stessa linea anche i dati emersi dallo studio realizzato dalla rete LifeGate@ creata da Marco Roveda, imprenditore e fondatore dell’azienda agricola biodinamica Fattorie Scaldasole, e l’Istituto di ricerca Eumetra Monterosa. La ricerca – che ha il patrocinio dalla Commissione europea e il sostegno di Best Western, Ricola, Unipol Gruppo, Vaillant e Lavazza – ha interessato anche in questo caso un campione di mille persone, rilevando che «3,5 milioni di italiani si dicono disposti a spendere di più per un viaggio all’insegna della tutela e del rispetto dei luoghi che visitano, mentre sono due milioni coloro che già oggi organizzano i loro momenti di svago in modo consapevole». Maurizio Davolio, presidente dell’Associazione italiana Turismo Responsabile (Aitr), ci fornisce alcune chiavi per leggere il fenomeno anche nelle sue relazioni con la cooperazione e le migrazioni.

Presidente, innanzitutto qualche precisazione per orientarci con i termini. Che differenza c’è fra turismo sostenibile e turismo responsabile?

«Non sono sinonimi, ma nemmeno così distanti l’uno dall’altro. Il turismo sostenibile riguarda più il lato dell’offerta. Si riferisce alle politiche poste in essere dagli enti pubblici e alle scelte delle imprese ricettive – ma anche della ristorazione e del trasporto – per assicurare che il turismo abbia un impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità. Risparmio energetico, uso delle energie rinnovabili, raccolta differenziata, risparmio dell’acqua, contrasto degli sprechi alimentari sono alcuni dei criteri alla luce dei quali valutare la sostenibilità dell’offerta turistica.

Il turismo responsabile, invece, riguarda il lato della domanda, cioè le organizzazioni che propongono viaggi e i viaggiatori stessi. Mentre nel turismo di massa ci si concentra sulle esigenze del viaggiatore, il turismo responsabile dà priorità alla giustizia sociale ed economica, al rispetto dell’ambiente e delle culture. Un aspetto su cui Aitr insiste molto è quello della sovranità delle popolazioni ospitanti, del loro diritto a essere al centro dello sviluppo turistico dei loro territori».

Può fare alcuni esempi di impatto negativo sulle comunità che il turismo sostenibile cerca di neutralizzare?

«Per prima cosa mi viene in mente quella che si chiama in gergo tecnico staged authenticity, l’autenticità fittizia, allestita: è il caso degli eventi culturali o religiosi che vengono spostati di data, accorciati, modificati a uso e consumo dei turisti, i quali magari vogliono vedere una cerimonia tradizionale ma sono disposti ad assistervi solo per un tempo limitato o nei giorni da loro preferiti.

Vi è poi il cosiddetto leakage, cioè la parte di spesa turistica che non rimane in loco ma va ad esempio a catene di alberghi o fornitori di beni (come il cibo) che hanno la sede in paesi diversi da quello ospitante».

Come si caratterizzano, in concreto, i viaggi sostenibili nel giorno per giorno della vacanza?

«Si viaggia in gruppi piccoli, dodici persone al massimo, e lentamente: la lentezza permette la profondità, l’incontro, lo scambio. Prima di partire è prevista una preparazione con incontri e letture consigliate; in loco, poi, si viene a contatto con le autorità locali che aiutano i viaggiatori a farsi un’idea più realistica delle bellezze ma anche dei problemi del posto. Si cerca di consumare cibo locale, di appoggiarsi a strutture il cui profitto porti reali benefici alla comunità ospitante, di assumere atteggiamenti che non possano essere male interpretati o creare disagio, dal fotografare le persone senza chiedere il permesso al portare gioielli, che noi suggeriamo di lasciare a casa: in viaggio non servono a nulla».

Come fate per raggiungere con le vostre proposte non tanto i «già convinti» che sono spontaneamente interessati a questo modo di viaggiare, bensì i «non convinti», che cercano il pacchetto senza pensieri e impegni?

«Intanto chiariamo che turismo sostenibile non significa fatica e mancanza di divertimento. Al contrario: la lentezza permette anche di prendersi una pausa dai ritmi frenetici. Inoltre, chi fa questi viaggi di solito riferisce di essersi divertito proprio perché ha fatto esperienze e acquisto informazioni che prima non aveva.

Per fare conoscere questo modo di viaggiare noi, come Aitr, non abbiamo le risorse per grandi campagne mediatiche, perciò lavoriamo sulle alleanze. Ad esempio con il network multimediale L’agenzia di Viaggi@ o con il programma televisivo Donnavventura@, che inserisce in ogni puntata un momento dedicato al turismo responsabile. Entrambi i partner diffondono il nostro vademecum di 17 punti@, che proponiamo anche alle agenzie di viaggio. Queste possono stamparlo per affiggerlo o inserirlo nei documenti che consegnano al cliente. Il momento storico non è facile per i tour operator, spesso impegnati a sopravvivere a causa del massiccio ruolo della rete che permette al turista di bypassarli. L’obiettivo attuale è quello di contaminare a poco a poco il mercato convenzionale attraverso degli strumenti di consapevolezza e sensibilizzazione».

Sebbene non ci siano ancora molti dati ufficiali circa i volumi del turismo sostenibile, le indagini statistiche dei singoli operatori – come quelle, citate sopra, di Tripadvisor e Lifegate – ne restituiscono un’immagine di fenomeno in netta crescita. A che cosa è dovuta questa espansione?

«Principalmente alla maggior attenzione per la sostenibilità da parte degli enti istituzionali come l’Organizzazione mondiale del Turismo e Unione europea, attenzione che si riverbera sull’industria turistica. Per accedere ai fondi europei o delle Nazioni Unite, infatti, chi li richiede – enti pubblici, governi, imprese – è tenuto a rispettare i criteri di sostenibilità. Resta il problema di verificare che gli adeguamenti alla sostenibilità siano poi fatti in concreto e, per il momento, i controlli sono molto episodici».

Quale legame vede fra la cooperazione allo sviluppo italiana e il turismo sostenibile, oltre a quello delle iniziative come il finanziamento di progetti sul campo che promuovano l’accesso delle comunità al business turistico? (vedi alcuni esempi sulla newsletter di giugno dell’Aics).

«La legge 125/2104 che ha riformato la cooperazione ha introdotto una serie di opportunità. Aitr infatti è nel Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo (composto, si legge nell’articolo 16 della legge, dai principali soggetti pubblici e privati, profit e non profit, della cooperazione internazionale allo sviluppo, ndr). Per il settore del turismo, nel Consiglio è presente solo Aitr, mentre non ci sono le associazioni di categoria. Aitr è un ente profit perché ha fra i suoi soci, oltre a Ong e associazioni, anche tour operator, case editrici e imprese. E questo rappresenta un vantaggio, perché la nostra presenza favorisce la mediazione, il dialogo e anche il partenariato fra profit e non profit».

Come si legano, invece, turismo sostenibile e migrazione? Aitr porta avanti iniziative di turismo «cittadino» alla scoperta delle comunità di migranti.

«Credo che lei si riferisca a Migrantour@, le passeggiate interculturali ideate dal giovane antropologo Francesco Vietti e lanciate prima su Torino dalla cooperativa Viaggi Solidali@ per poi estendersi a Milano, Firenze, Genova e Roma e anche all’estero, a Parigi, Marsiglia, Valencia e Lisbona. I partecipanti vengono guidati alla scoperta delle botteghe artigianali, dei negozi tipici, dei luoghi di culto nei quartieri multietnici delle città e hanno l’occasione di fermarsi a parlare con le persone che gestiscono questi esercizi o di conoscere le associazioni di promozione culturale delle varie comunità».

Che cosa giudica particolarmente positivo di questa esperienza?

«Dal lato del turista, chi partecipa riesce effettivamente a farsi un’idea più chiara ed equilibrata delle comunità e delle loro caratteristiche. Alcune volte i partecipanti si incuriosiscono al punto da scegliere come meta delle vacanze proprio il paese dei migranti con cui sono venuti a contatto.

Dal lato dei migranti, il vero salto di qualità è stato proprio quello di diventare loro stessi le guide: gli effetti immediati sono una maggior autostima oltre che una piccola entrata per il servizio reso come ciceroni. Ma l’aspetto forse più interessante è che le guide migranti devono conoscere le caratteristiche delle comunità diverse dalla loro per poterle raccontare ai turisti. Così un marocchino può trovarsi a dover illustrare la cultura bengalese, afghana, ecuadoriana, conoscendole e apprezzandole e superando quelle diffidenze o tensioni che a volte sorgono fra le comunità».

Quali sono stati i fallimenti che ha visto nella sua lunga esperienza? I tentativi andati male, le storture, i progetti non riusciti?

«Un esempio riguarda alcune esperienze del cosiddetto turismo di comunità, nato spontaneamente dal basso da comunità locali che hanno preso le redini della gestione del turismo sul loro territorio, applicando metodi di democrazia e partecipazione. Quando, in alcuni paesi soprattutto dell’America Latina, le politiche pubbliche hanno cominciato a dare maggior attenzione alle zone interne e rurali, a volte i governi hanno investito sul turismo in queste aree in modo troppo repentino e superficiale, finanziando soggetti dei quali non avevano verificato la solidità e la serietà. Così, in alcuni casi, proprio a causa di questa scarsa competenza delle organizzazioni finanziate, una volta terminata l’iniezione di fondi da parte del governo le esperienze di turismo di comunità si sono bruscamente interrotte, rivelandosi inadeguate e insostenibili.

Questo, purtroppo, ha recato un danno d’immagine al turismo di comunità nel suo complesso, perché ovviamente un fallimento finisce per fare notizia e gettare una cattiva luce anche su chi lavora in modo corretto».

E i progetti di turismo sostenibile promossi e realizzati dalle Ong come funzionano?

«Su questo le cose stanno migliorando. Le Ong storicamente si sono occupate di agricoltura, sanità, accesso all’acqua, non di turismo. Il fatto è che il turismo sembra un’attività alla portata di tutti, perché lo viviamo come viaggiatori, non come operatori. Anche alcune Ong, convinte che in questo campo non fossero necessarie particolari competenze, hanno avviato progetti facendosi tutto in casa, per così dire, con improvvisazione e approssimazione. E finendo magari col realizzare strutture che poi non superavano il vaglio delle autorità preposte ai controlli, o costruendo offerte turistiche tagliate fuori dai principali circuiti, lontane anche dalla comprensione e partecipazione della comunità. Ora invece è diventato chiaro che, come per un progetto agricolo si richiede la valutazione di un agronomo, allo stesso modo per creare un itinerario turistico serve un esperto del settore che sia in grado, ad esempio, di accompagnare le persone del luogo nel riconoscere come un elemento del territorio che per loro è semplicemente parte del quotidiano possa, invece, essere valorizzato e proposto ai viaggiatori. In gergo tecnico, questo elemento si definisce attrattore».

Può fare un esempio concreto?

«Nella zona dei villaggi trogloditi della Tunisia, un’attività che vale la pena di inserire in un itinerario turistico è l’osservazione del cielo. Ma per la popolazione locale, che da quel cielo è accompagnata da sempre, quello non è un aspetto degno di nota. In questo caso, il supporto di un astrofilo che possa guidarne l’osservazione e favorirne la valorizzazione è in grado di fare la differenza. Lo stesso può dirsi di certe abitazioni tipiche, come il nostranissimo trullo: per la comunità locale non era certo un attrattore, ma il luogo dove le persone avevano sempre e, magari nemmeno tanto comodamente, vissuto».

Chiara Giovetti




Turismo sostenibile:

viaggia, divertiti, rispetta / 1


Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2017 «Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo». Travel, enjoy, respect: viaggia, divertiti (o apprezza, come traducono i francesi), rispetta. Questo lo slogan che accompagna l’anno e le iniziative organizzate per mostrare come il turismo sia un fenomeno di dimensioni colossali, che può valorizzare oppure distruggere quello che tocca.

«Sarà stato lo scoiattolo morto nel mezzo del vialetto principale, o forse i pappagalli con le ali spuntate a darmi qualche indizio; oppure i due alberi sinistramente appesi all’entrata, come pirati alla forca, tragico monito per qualunque ribelle che osasse sfuggire alla persecuzione in questo cosiddetto rifugio verde». Così Asher Jay, ambientalista ed esploratrice del National Geographic iniziava sull’Huffington Post dello scorso ottobre, la descrizione del suo soggiorno al XCaret, un resort vicino a Cancun, in Messico, che si pubblicizza come il luogo dove «patrimonio culturale e amore per l’ambiente ti aspettano». E poi «bevande calde servite in bicchieri di schiuma di polistirene, dei quali persino il barista conosceva i potenziali danni per l’uomo e l’ambiente, spruzzate di insetticida prese accidentalmente in faccia mentre camminavo su un percorso natura»: tutti segnali di come il posto di naturale e incontaminato non avesse proprio nulla.

Resort come questo, prosegue Jay, sono stati costruiti a spese della natura e non sembrano avere alcuna fretta di ripagare il proprio debito con la terra. Al contrario, rincara l’autrice, ogni centimetro quadrato è attentamente progettato per far divertire turisti ignoranti sacrificando la cultura locale e risorse naturali insostituibili. Eppure, molti stabilimenti simili hanno l’etichetta «eco», e in tanti credono che lo siano.

Quella del turismo sostenibile è una sensibilità che si sta diffondendo, se è vero – come riporta un studio dello statunitense Centre for Responsible Travel che oltre la metà dei lettori della rivista Traveler di Condé Nast intervistati nel 2011 aveva dichiarato che la scelta dell’hotel è influenzata dal contributo che la struttura dà alla comunità e all’economia locale. Il 93% degli stessi lettori dichiarava inoltre che le aziende del settore turistico dovrebbero essere responsabili della protezione dell’ambiente. Un altro sondaggio realizzato nel 2012 fra gli utenti di Trip Advisor – il portale web di viaggi dove gli utenti condividono le loro recensioni su alberghi, ristoranti e attrazioni turistiche – rivelava che quasi tre quarti degli intervistati prevedeva di fare scelte più attente all’ambiente nei successivi dodici mesi.

Ma sebbene questa sensibilità stia avendo effetti concreti nell’orientare il mercato, situazioni come quella del resort di Cancun descritto da Asher Jay continuano a esistere e a creare danni all’ambiente e alle persone. E, guardando i volumi del turismo internazionale, il potenziale di quest’ultimo nel contribuire a devastare o, al contrario, a salvare il pianeta è decisamente non trascurabile.

Altro che crisi

A leggerli tutti insieme fanno impressione, i dati 2015 dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt): i viaggi di turisti internazionali sono passati dai venticinque milioni del 1950 al miliardo e duecento milioni di oggi, come se si fossero mossi gli abitanti di Europa, Stati Uniti, Giappone, Russia insieme, oppure tutta l’India. Le stime dell’Omt suggeriscono che la crescita continuerà fino a portare gli arrivi internazionali a 1 miliardo e ottocento milioni nel 2030.

Quanto al giro d’affari, fra il 1950 e oggi è passato da 2 a 1.260 miliardi di dollari all’anno, a cui si aggiungono i 211 miliardi in servizi di trasporto internazionale di viaggiatori non residenti, per un totale di circa 1.500 miliardi: una media di quattro al giorno. Combinando ulteriormente i dati sopra, vediamo che nel 1950 l’industria del turismo internazionale incassava in un anno la metà di quello che oggi riceve in un giorno e che ciascun arrivo genera nel paese ricevente circa 1.200 dollari di incassi. Nell’edizione 2016 del Panorama del turismo internazionale, l’Omt sottolinea che il settore turistico ha rappresentato circa il 10% del Pil globale e impiega un lavoratore ogni undici. Rappresenta inoltre il 7% delle esportazioni mondiali di beni e servizi, collocandosi al terzo posto dopo i carburanti e la chimica e prima delle industrie alimentare e automobilistica (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

L’Europa è il continente più visitato, con la metà degli arrivi. Prendendo i singoli paesi, al primo posto c’è la Francia, con 84,5 milioni di turisti, seguita da Stati Uniti, Spagna, Cina e Italia (50,7 milioni). Il paese che spende di più in viaggi all’estero è la Cina, con 261 miliardi di dollari, seguita da Stati Uniti, con 122 miliardi, Germania (81), Regno Unito (64) e Francia (41).

I dati sugli arrivi internazionali includono anche un 14% di persone che si spostano per motivi professionali e un 6% per le quali il motivo del viaggio non è noto. I viaggi per vacanza rappresentano circa la metà del totale, pari a 632 milioni di arrivi, mentre un quarto sono gli spostamenti per far visita ad amici e parenti, per un pellegrinaggio, per partecipare a un evento sportivo, per trattamenti sanitari e simili.

Quello che ciascuno di noi percepisce come tempo del riposo, della spensieratezza, della spiritualità o della cura degli affetti è, in aggregato, un fenomeno economico colossale che ha un impatto potente sulle persone, sui singoli luoghi e sul pianeta nel suo complesso

Turismo contro povertà

Il turismo, si legge sempre nel documento dell’Omt, rappresenta in molti paesi in via di sviluppo il primo settore di esportazione ed è in piena espansione: l’Africa è passata dai 15 milioni di arrivi internazionali del 1990 ai 53 milioni attuali, mentre l’Asia meridionale e sudorientale ha ricevuto 122 milioni di turisti contro i 50 milioni di arrivi di quasi tre decadi fa. Oggi il giro d’affari è pari a 30 miliardi di dollari per l’Africa e 140 per l’Asia e si prevede che da qui al 2030 nei paesi cosiddetti emergenti e in quelli in via di sviluppo aumenteranno gli arrivi internazionali al ritmo di 30 milioni all’anno, erodendo progressivamente la quota di Europa e Nord America.

Eppure, nonostante l’evidente potenziale del turismo come fattore di crescita, la quota di fondi dell’Aiuto pubblico allo sviluppo destinato al settore è solo dello 0,13% e l’aiuto per il commercio è limitato a mezzo punto percentuale.

Il dibattito era emerso già alla fine degli anni Novanta, con il cosiddetto pro-poor tourism, cioè un approccio che cerca di utilizzare il turismo come strumento per ridurre la povertà nelle comunità più emarginate dei paesi riceventi. Ma già dieci anni fa Caroline Ashley, dell’Overseas development institute, e Harold Goodwin, del Centro per il turismo responsabile dell’Università di Leeds sottolineavano come questo approccio non avesse dato i frutti sperati.

Innanzitutto, rimarcavano i due studiosi, le iniziative che coniugano turismo e riduzione della povertà sono rimaste piccole, episodiche e di nicchia, non sono state applicate al turismo di massa e non sono entrate nelle politiche nazionali dei paesi in via di sviluppo in modo stabile ed efficace. Inoltre, si sono spesso limitate a fornire formazione e a migliorare le infrastrutture ma non hanno mai davvero fatto i conti con il mercato creando un’offerta turistica che potesse incontrare una domanda.

Le due cose – espansione del settore turistico e aumento dei benefici per i poveri – sono rimaste separate. Da un lato, gli operatori dello sviluppo impegnati nelle comunità più marginalizzate con progetti che riguardano anche il turismo sanno poco o niente di mercati e di business e possono quindi dare un apporto solo molto limitato nel creare realtà di turismo sostenibile che siano anche efficaci dal punto di vista commerciale. Dall’altro, le compagnie turistiche che operano nei paesi in via di sviluppo si limitano a fare donazioni in loco come gesto di responsabilità sociale di impresa, ma in pochi si soffermano a chiedersi come potrebbero cambiare il modo di lavorare generando così vantaggi anche per le comunità locali.

Oggi, accanto alla definizione pro-poor tourism, ve ne sono molte altre per denotare un tipo di turismo rispettoso e consapevole della relazione con le persone e con l’ambiente che si instaura per il semplice fatto di recarsi in un luogo: turismo sostenibile, responsabile, etico, eco turismo, geo turismo, sono tutti termini che hanno al centro questa visione dello spostarsi e del viaggiare.

Turismo, è sostenibile?

I segnali incoraggianti non mancano: un caso molto citato di successo nel coniugare turismo sostenibile ed efficacia commerciale è quello della Costa Rica, il cui presidente è stato nominato dall’Omt Ambasciatore speciale dell’Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo. «Tradizionalmente considerato un esempio di impegno per l’ambiente», si legge nel comunicato stampa che annuncia la nomina, «la Costa Rica ospita il 5% della biodiversità del pianeta. Inoltre, il 25% del suo territorio è classificato come area protetta e il paese utilizza il 100% di energie rinnovabili per la produzione di elettricità». Una delle iniziative più degne di nota, continua il comunicato, è stata la creazione da parte dell’Istituto costaricano per il turismo della Certificazione di sostenibilità del turismo, che classifica e differenzia le compagnie turistiche con base nel paese a seconda del loro impegno per l’ambiente.

Altro esempio positivo, citato dalla stessa Jay nel suo articolo sull’Huffington Post, è quello della Riserva nazionale di Tambopata, in Perù. Kurt Holle, il fondatore della compagnia Rainforest Expeditions che gestisce tre lodge nella riserva, spiegava quattro anni fa al quotidiano The Guardian che le quasi duecento famiglie della locale comunità indigena Ese Ejja partecipano agli utili generati dalla compagnia ricevendo dividendi che hanno raddoppiato, triplicato e in alcuni casi quadruplicato il reddito delle famiglie. Il leader della comunità Elias Durand confermava al giornale britannico che i fondi vengono utilizzati anche per finanziare l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale per la comunità.

Ma, accanto a questi casi di successo, ce ne sono altri nel solco dell’esperienza massificata falso ambientalista di cui parlava Asher Jay. In particolare, vale la pena di citare il racconto di Costas Christ sul blog Intelligent Traveller di National Geographic: nel 1979, l’allora ventunenne viaggiatore zaino in spalla trovò una specie di paradiso nel Sud della Thailandia. Sull’isola di Ko Pha Ngan, racconta Costas, «mi imbattei nelle brillanti sabbie di Haad Rin, una perla tropicale la cui bellezza andava oltre ogni immaginazione. Rimasi lì un mese, vivendo di ciò che la natura mi dava. Disegnai una mappa della posizione della spiaggia e feci voto di non tradirne mai il segreto. Ma poi altri l’hanno scoperta e ora la mia spiaggia è il luogo del famigerato e assordante Full Moon Party», la festa della luna piena. Le immagini dello scempio generato da quella festa – orde di turisti danzanti sulla spiaggia, musica a tutto volume e, soprattutto, migliaia di bottiglie di plastica e altra spazzatura che ricoprono sabbia e bagnasciuga il giorno dopo – sono riprodotte nel documentario Gringo Trails, un lavoro del 2014 firmato dalla regista e antropologa della New York University Pegi Vail. Il documentario, che è stato proiettato in Italia a Firenze e a Bologna lo scorso maggio, riporta storie come questa di Haad Rin e altre, invece, capaci di valorizzare davvero i luoghi che si sono aperti al turismo, nel tentativo di rispondere alla domanda: il turismo sta devastando o salvando il pianeta?

Nell’attesa di trovare la risposta a questo interrogativo, vale la pena di citare la campagna di sensibilizzazione e informazione del World travel and toursim council, forum dell’industria del turismo e dei viaggi. Nella pagina Too much to ask? (toomuchtornask.org, è chiedere troppo?), il Wttc fa una lista di dieci suggerimenti – e chiede agli utenti di fare altrettante promesse – per rendere più sostenibile il nostro modo di viaggiare. Eccoli: richiedere la sostenibilità, rispettare le persone e le culture, risparmiare l’acqua, limitare l’uso della plastica, comprare locale, proteggere gli animali, rispettare la storia, compensare il proprio impatto, informarsi e far sentire la propria voce dopo il viaggio, anche per diffondere le informazioni su chi, davvero, fa del turismo una risorsa per lo sviluppo.

Chiara Giovetti
(prima puntata – continua)

 




RD Congo. Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile


Dagli anni Novanta i missionari della Consolata sono presenti fra i Pigmei Bambuti di Bayenga, nella Repubblica Democratica del Congo. Dal 2007 l’équipe missionaria può contare su padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata di origine spagnola. Nell’inverno scorso è stato in Camerun a osservare il lavoro che i Fratelli delle scuole cristiane portano avanti nel paese con i Pigmei Baka nel campo dell’istruzione.

Mezzo milione di persone distribuite fra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Rwanda, Burundi e Uganda: queste le dimensioni della comunità pigmea secondo le stime riportate da Survival International, organizzazione che si occupa della difesa dei diritti dei popoli indigeni in tutto il mondo. Si tratta di un popolo che vive a stretto contatto con la foresta, spesso al suo interno, vivendo di caccia e raccolta. Il rapporto con le vicine popolazioni bantu, maggioritarie, è difficile: un po’ per lo scontro antico fra chi, come i Pigmei, la foresta la vive come casa, rifugio e riserva di cibo e chi, invece, la taglia per ottenerne terreni da coltivare, come è il caso dei Bantu, agricoltori. E un po’ per i pregiudizi che quasi sempre accompagnano i conflitti per le risorse: i Bantu vedono nei Pigmei degli esseri inferiori, dei selvaggi da sfruttare o isolare, mentre per i Pigmei i loro vicini sono i padroni violenti che rubano loro la foresta e li costringono con la forza a fare da servi per sopravvivere.

Oggi, la speranza di vita di un Pigmeo è fra i 40 e i 45 anni contro una media dei Bantu di 59. La mortalità infantile nei bambini fino a cinque anni, che fra i Bantu è al 20%, raddoppia fra i Pigmei.

Cambiare questa situazione è un lavoro lungo, delicato e costantemente a rischio. Ma in Camerun il metodo applicato dai Fratelli delle scuole cristiane (detti anche Lasalliani dal nome del loro fondatore, Jean-Baptiste de La Salle) sta lentamente provando a creare le condizioni perché i Pigmei escano dal misto di vergogna e rassegnazione in cui anni di discriminazioni li hanno confinati. Abbaimo fatto alcune domande a padre Andrés che con padre Flavio Pante è nella missione di Bayenga e lavora con i Pigmei da 10 anni e recentemente è stato in Camerun.

Andrés, perché questo viaggio-studio in Camerun?

«Per studiare il metodo O.R.A., che i Fratelli applicano nell’istruzione prescolare dei Pigmei Baka. Anche qui in Congo lo conoscevamo, ma in Camerun lo usano da più tempo e in maniera più organizzata. Guidato da fratel Gilbert Ouilabegue, ho visitato le tredici scuole fondate da fratel Antornine Huysmans nella zona di Lomié, regione dell’Est. Le chiamano Centri di Educazione di Base per evitare che siano classificate come scuole ufficiali e, per questo, tenute a rispettare programmi, calendari e metodi ufficiali che sarebbero del tutto inadeguati per i Pigmei».

Che cosa significa O.R.A.?

«È l’acronimo di Osservare-Riflettere-Agire. Il metodo si applica negli anni precedenti la scuola primaria con bambini fra i cinque e gli otto anni. Fratel Antornine, ideatore di O.R.A., pensava che fosse inutile tentare di chiudere in un’aula scolastica dei bambini abituati a vivere liberi nella foresta, senza muri né orari, e formati fino ad allora alla «scuola della vita», dove i maestri erano i loro genitori e fratelli maggiori e le materie l’uso dell’arco o le tecniche per pescare.

Così, un po’ alla volta e con l’aiuto anche di alcuni Bantu della zona, Antornine cominciò a ideare una pedagogia dinamica, che si adattasse ai ritmi, alla lingua e alla cultura dei Baka invece che mirare alla completa omologazione di questi ai Bantu. Il metodo si basa su questi tre principi: osservare, riflettere, agire, perché sono il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti».

Come funziona in concreto?

«Innanzitutto, bisogna considerare che la funzione di questa pre-scuola è anche quella di liberare i bambini dalla paura della classe, del maestro, della lavagna e del parlare in pubblico. Si cerca sempre di coinvolgerli con canti, racconti, giochi di ruolo. Come punto di partenza si usa un disegno, che poi resta lì come per invogliare ad ascoltare la storia che segue. Ogni lezione, infatti, si apre con una piccola storia che introduce la parola, il numero, il concetto che si vuole insegnare».

E quanto ai contenuti?

«Nel primo anno, i bambini cominciano parlando nella lingua baka. Il punto di partenza, dicevo, sono i disegni che rappresentano scene quotidiane del campement (accampamento) pigmeo. Da qui si passa a nozioni di base come grande/piccolo, uguale/diverso, lungo/corto, poi ai primi segni grafici, alle cinque vocali e ai numeri da uno a sei, sempre partendo dalla lingua baka per poi tradurre in francese. Verso la metà del primo anno i bambini imparano qualche consonante, incominciano a formare delle sillabe, a fare qualche operazione aritmetica. Al termine del secondo anno, sono in grado di fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni con i numeri da zero a venti e di parlare francese con una fluidità che mi stupisce ancora oggi, se penso che non sono ancora alla scuola primaria».

Che cosa ti sembra che funzioni particolarmente bene nel metodo O.R.A.?

«Te lo dico con un esempio. Ricordo la dinamica di una classe con un’insegnante, Souzanne, che era davvero splendida: non ha mai sgridato nessuno, non è stata quasi mai alla lavagna. Quello era il posto dei bambini che, uno alla volta, ci andavano spontaneamente per partecipare, scrivere, cantare, mostrare un oggetto, un frutto. Lei è davvero una formidabile narratrice di storie che fa «sognare» chi la ascolta. Gli allievi vengono sempre incoraggiati, non sono giudicati o valutati per il risultato ma per lo sforzo. Ho visto in quei bambini la voglia di venire a scuola, di scoprire, d’imparare, di essere… protagonisti».

A questo punto i bambini sono pronti per la scuola elementare ufficiale?

«Sì, e nei primi anni si distinguono rispetto ai loro pari per il livello di scrittura e lettura. Poi, però, in Camerun come da noi, cominciano i problemi. I pregiudizi, che i bambini bantu «assorbono» dai loro genitori, cominciano a farsi strada e i Pigmei – che spesso non hanno l’uniforme, le scarpe o il sapone per lavarsi prima di andare a scuola – diventano l’oggetto di beffe e dispetti. Questa stigmatizzazione a poco a poco umilia e scoraggia i Pigmei, che finiscono per lasciare la scuola. Qui a Bayenga, su cento che iniziano la scuola primaria solo cinque o sei arrivano a concluderla (alle volte neanche uno)».

Per chi ce la fa, la vita cambia in meglio?

«Non direi. A scuola, i ragazzi pigmei hanno preso coscienza dell’immagine che i Bantu hanno di loro, hanno visto le differenze e capito perché gli altri hanno certi atteggiamenti al loro riguardo: per questo vivono il ritornare al campement come una sorta di arretramento. D’altra parte, inserirsi nel villaggio assieme ai Bantu è come piantare un albero senza radici, fra persone che non li accettano come propri pari e che tendono a imporre loro delle relazioni verticali, gerarchiche. Per molti si apre la strada di quella che noi chiamiamo la destrutturazione, dove alcol e cannabis diventano i mezzi con cui tenere a bada, nell’immediato, la frustrazione e la depressione e portano presto all’abbrutimento».

Arriviamo così a parlare del rapporto fra Pigmei e Bantu che piano piano, anche grazie a strumenti come il metodo O.R.A., state cercando di rendere meno conflittuale.

«Sì, ma non sarà un processo breve né semplice. La relazione fra i due gruppi nel territorio della nostra parrocchia qui a Bayenga è assai complessa: alcuni Pigmei erano già qui quando i Bantu arrivarono nella grande foresta che copriva la zona; altri sono arrivati con i loro padroni bantu da diverse zone del Congo per cercare lavoro nelle piantagioni belghe e greche, ai tempi della colonizzazione. In generale, si può dire che ci sono famiglie bantu che sono proprietarie di gruppi di Pigmei, e succede che un proprietario si riferisca ai Bambuti come ai «miei Pigmei, i Pigmei che mi ha lasciato mio padre quando è morto». Questi Pigmei sono in qualche modo parte della famiglia, ma come servi, non come membri alla pari degli altri (per maggiori dettagli sul rapporto fra Bantu e Pigmei vedi articolo Echi dalla foresta, di M. Bello, MC ottobre 2012).Invece ora, già per il fatto di sentirsi accompagnati e voluti bene da noi così come sono, incoraggia alcuni Pigmei a relazionarsi con dei Bantu su basi più paritarie. Ci sono anche dei Bantu che già s’avvicinano ai Pigmei con altro approccio, con una nuova maniera di relazionarsi che non è più quella del padrone con lo schiavo».

Di recente è apparso in Italia un articolo che parla del conflitto fra Pigmei e Bantu nella regione del Tanganika, nel Congo orientale. Lì, dall’estate 2016 ci sono stati quasi 500 morti, 2.500 feriti e 70 mila sfollati prevalentemente Bantu. I Pigmei si sono armati e combattono, bruciano villaggi, uccidono chi non scappa.

«Non conosco la situazione di quella regione, ma mi pare che quel che avviene qui a Bayenga sia piuttosto il contrario: i Pigmei, pacifici abitanti della foresta, hanno accolto senza condizioni i Bantu al loro arrivo. Poi si sono create relazioni di sfruttamento (soprattutto nei lavori dei campi) ma anche di «simbiosi»: i Pigmei sentono il bisogno di ritornare dai padroni bantu per vendere la selvaggina, il miele, i frutti presi nella foresta. Ci sono conflitti, sì, ad esempio quando i Bantu non pagano i Pigmei e questi rubano nel campo del padrone, o gli sottraggono una gallina. Ma lo fanno per sopravvivere, non per lucrare, e senza usare la violenza. Di solito queste scaramucce vengono regolate in «famiglia» o dal giudice di pace locale. Purtroppo, però, non posso escludere che la situazione si evolva nella direzione che l’articolo descrive per il Tanganika».

Che cosa potrebbe portare al conflitto?

«Nella nostra missione ci sono circa tremila Pigmei e quattordicimila Bantu. Le attività economiche che la maggioranza bantu svolge – agricoltura, taglio e commercio del legno, sfruttamento minerario – fanno precipitare in fretta la foresta e i suoi biomi verso una situazione non sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, e non solo per i Pigmei. Ci sono molti interessi in gioco e molto poca formazione per affrontarli: è grande l’ignoranza che si rallegra del profitto veloce delle miniere e dell’esportazione del legno. Nella quasi totale assenza dello stato, la foresta diviene piazza aperta per quanti hanno un po’ di forza fisica o economica per sfruttarla».

Okapi nella Okapi Wildlife Reserve (© Kim S. Gjerstad)

La vecchia storia del Congo supermercato a cielo aperto alla mercé di chiunque abbia abbastanza armi o soldi.In un rapporto del 2015 dal significativo titolo Exploiter (dans) le désordre, la Caritas e la Commissione giustizia e pace della diocesi di Wamba spiegano la situazione della Riserva Forestale degli okapi (Rfo), a una manciata di chilometri da Bayenga. Secondo il rapporto, nel parco ci sarebbero una settantina di cantieri artigianali – uno di questi sarebbe in grado di produrre oro per 300 mila dollari settimanali – dove lavorano decine di migliaia di minatori informali. Sempre secondo il documento, a questi cantieri si aggiungono poi quelli semi industriali e industriali nei dintorni della Rfo:  a competere per la corsa all’oro ci sono proprio tutti, dai minatori artigianali alle grandi compagnie minerarie come la Kilo Goldmines, passando per le Fardc (l’esercito congolese) e le milizie ribelli.

«Esattamente. Fra la Rfo e la foresta intorno a Bayenga non c’è praticamente soluzione di continuità e i Pigmei Bambuti da sempre hanno cacciato in quest’area. Non l’okapi, però, visto che si concentrano su prede più piccole. Eppure, ora è proibito a tutti l’accesso alla riserva, i cui limiti sono stati fissati senza interpellare né i Pigmei né i Bantu. L’ente responsabile della vigilanza al parco dice che l’interdizione riguarda qualche specie soltanto, ma visto che non ha mezzi e personale sufficienti per fare i controlli, il risultato è il divieto assoluto di caccia e, addirittura, di passaggio nella riserva. Questa interdizione è rafforzata dalle attività dei ribelli e dei cacciatori di frodo, che invece nella Rfo ci sono e non gradiscono la presenza di possibili testimoni delle loro attività. Sì, come vedi c’è molto di più in ballo che non la convivenza fra due gruppi umani che faticano ad accettare l’uno lo stile di vita dell’altro».

Quello che racconti ricorda molto le difficoltà che i nostri missionari hanno affrontato e affrontano in Amazzonia.

«Ci sono molte somiglianze, sì, ma anche molte differenze. Qui non c’è mai stata una demarcazione delle terre indigene né un riconoscimento giuridico dei diritti dei Pigmei. Quello che noi cerchiamo di fare è accompagnare tanto i Bambuti quanto i Bantu in un cammino di reciproca conoscenza e comprensione che, se da un lato probabilmente dovrà passare per un adattamento dei Pigmei al contesto circostante, cerca però anche di evitare l’omologazione e valorizzare e difendere le caratteristiche dei Bambuti e della foresta che esso abita. Foresta che, vale la pena di ricordarlo, è un patrimonio per tutto il pianeta».

Chiara Giovetti




Cooperazione:

speranze e contraddizioni


Da un’analisi della situazione della cooperazione allo sviluppo in Italia a un anno e mezzo dalla nascita dell’Aics (l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo), al punto sulla riforma del Terzo settore. Da uno sguardo sull’Europa e sulle sue strategie per lo sviluppo a uno sull’effetto Trump nell’aiuto allo sviluppo statunitense.

«La battaglia è stata vinta». Così la direttrice dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, Aics, Laura Frigenti, scriveva alla fine del 2016 nella relazione annuale, dodici mesi dopo la creazione dell’ente che dirige. L’Agenzia è una delle principali novità introdotte dalla legge 125/14, nota come «riforma della cooperazione allo sviluppo». Obiettivo di questo ente è quello di gestire in maniera più snella, efficace e trasparente interventi e fondi della cooperazione sul modello di paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e il Regno Unito che un’agenzia dedicata alla cooperazione l’hanno già da tempo.

La battaglia cui la direttrice Frigenti si riferisce è quella per il raggiungimento degli obiettivi che l’Agenzia si era data per il suo primo anno di vita. Fra questi: raccogliere l’eredità della struttura che l’aveva preceduta – la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, o Dgcs, del ministero degli Esteri – a cominciare dagli oltre mille progetti in corso, riscrivere le procedure, gestire il passaggio fra due sistemi di contabilità differenti, attivare le sedi estere, erogare almeno la metà dei fondi messi a disposizione della cooperazione che ammontavano a poco meno di mezzo miliardo di euro.

In effetti, molti obiettivi sono stati raggiunti e in alcuni casi superati – sempre secondo la relazione annuale, i fondi erogati, ad esempio, sono stati più della metà, e cioè oltre il 60 per cento – ma su altri resta molto da fare.

Segnali contraddittori

La sensazione complessiva è che, pur rappresentando l’Agenzia – così come tutta la riforma della cooperazione – un passo in avanti significativo ed epocale, il sistema Italia digerisca solo molto lentamente il nuovo e maggiore peso che, sulla carta, si è deciso di dedicare alla cooperazione allo sviluppo. Gli esempi di queste opposte spinte sarebbero numerosi ma alcuni, forse, rendono l’idea più concretamente di altri.

Il primo riguarda il personale dell’Agenzia, che ha un’importanza fondamentale per raggiungere la piena operatività. E questo personale a marzo 2017 non era ancora al completo. Dei duecento funzionari previsti per le sedi in Italia (Roma e Firenze), sessanta non erano ancora stati reclutati. Solo a novembre 2016 un emendamento alla legge di bilancio ha aumentato il Fondo per il pubblico impiego in modo da permettere all’Agenzia di bandire il concorso per l’assunzione dei sessanta tecnici. Di questi, spiegava il responsabile delle relazioni istituzionali, internazionali e della comunicazione dell’Agenzia Emilio Ciarlo su Vita.it la scorsa estate, «20 dovrebbero provenire dall’amministrazione pubblica e i 40 restanti dal di fuori, con una formazione universitaria nel settore della cooperazione allo sviluppo e con quattro o cinque anni di esperienza professionale in un’Ong o un organismo internazionale». Un’iniezione di giovani competenti e motivati, insomma, che dovrebbe dare una spinta decisiva all’Agenzia.

Ma, un anno dopo la sua nascita – il 4 gennaio 2016 – l’Agenzia mancava pure di buona parte dei suoi dirigenti. Lo ha ricordato su Onuitalia.com il consigliere politico della rete di Ong Link 2007, Nino Sergi: oltre ai sessanta funzionari di cui sopra, mancavano all’appello ancora buona parte dei livelli dirigenziali. I dirigenti, infatti, dovrebbero essere diciotto mentre a febbraio 2017 erano solo otto. «Si tratta, in fondo, di poche persone», sottolinea Sergi, «ma indispensabili al funzionamento dell’Agenzia che, così limitata, continua a vivere in un comatoso limbo che solo le buone volontà stanno tenendo in vita».

Il secondo elemento è lo «scomparso» illustre dell’organigramma della cooperazione, come sottolinea ancora Sergi: il Cics (Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo), organo di cui fanno parte il presidente del Consiglio e la stragrande maggioranza dei ministri. Si è riunito una volta sola, nel 2015 e, secondo un tweet di Mario Giro, viceministro degli esteri, anche una seconda volta il 23 marzo 2017: «Approvato il doc. triennale: +attori +azione comune». Due volte in venti mesi non sono molte per un organo cui la legge 125/2014 attribuisce un compito fondamentale, quello di coordinare tutte le attività di cooperazione allo sviluppo e assicurare che le politiche nazionali siano coerenti con i suoi fini.

Perché il Cics è importante? Per dirla in maniera estremamente semplificata: perché, se funzionasse come dovrebbe, impedirebbe alle politiche pubbliche di disfare quello che la cooperazione fa.

La cooperazione italiana viene da lunghi anni di subalternità e di risorse limitate; un coordinamento costante con gli altri centri decisionali del governo e un organico dell’Agenzia completo nei livelli dirigenziali, giovane e preparato nei comparti tecnici, sono elementi indispensabili perché gli interventi siano efficaci. Per questo ogni rallentamento su questi aspetti rischia di svuotare nei fatti la legge e il tipo di cooperazione che essa intende realizzare.

Il colpo di mano dell’8×1000

Sempre in tema di segnali contrastanti, è del marzo scorso la notizia dell’approvazione del cosiddetto emendamento Realacci in Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera. L’emendamento stabilisce che per i prossimi dieci anni la quota di otto per mille che i contribuenti assegneranno allo Stato andrà tutta per il recupero dei beni culturali danneggiati dal terremoto in centro Italia.

«Finisce con questo colpo di mano», commenta un post sul blog info-cooperazione, «la possibilità di impiegare una parte del fondo 8×1000 alla “fame nel mondo”, una quota che a singhiozzo negli anni aveva co-finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo delle Ong italiane soprattutto in Africa. L’ultima approvazione di progetti risale al 2014, anno in cui con circa 6 milioni di euro furono cofinanziati 40 progetti. Non è chiaro se il decreto appena approvato andrà a intaccare anche la quota dell’otto per mille assegnata all’Agenzia per la Cooperazione allo sviluppo. A decorrere dall’anno 2015 infatti, una quota pari al 20% del fondo 8×1000 a gestione statale è stata destinata a finanziare le attività dell’Aics».

La riforma del Terzo Settore

Un anno fa la riforma del Terzo Settore (o settore di chi si impegna nel sociale senza scopi di lucro – no profit) è diventata legge, la 106/2016, e il primo dei provvedimenti attuativi è stato approvato a febbraio scorso: si tratta del decreto legislativo che istituisce il servizio civile universale, ora aperto a cittadini italiani, europei e stranieri regolarmente soggiornanti in Italia di età compresa fra i 18 e i 28 anni. Nelle parole del direttore di Vita.it, Riccardo Bonacina, nel giugno 2016, la riforma poteva essere più coraggiosa nell’innovare, ma è «la miglior legge possibile» date le circostanze e permette quantomeno di realizzare tre sogni: in primis quello di un «pavimento civilistico» che oltre a definire che cosa sia il Terzo Settore «rende possibile una legislazione unitaria, un Codice unico del Terzo settore e un Registro unico, un Organismo di rappresentanza istituzionale. Basta con i 300 registri (nazionali, regionali, provinciali), il Terzo settore ha bisogno di semplificazione e i cittadini di trasparenza».

La riforma comunque ha ricevuto anche diverse critiche. A cominciare da quelle mosse alla Fondazione Italia Sociale, organismo che la legge 106 istituisce «con lo scopo di sostenere […] la realizzazione e lo sviluppo di interventi innovativi da parte di enti del Terzo settore, caratterizzati dalla produzione di beni e servizi con un elevato impatto sociale e occupazionale e rivolti, in particolare, ai territori e ai soggetti maggiormente svantaggiati».

Presidente della Fondazione è Vincenzo Manes, imprenditore, finanziere, filantropo e consigliere dell’ex premier Matteo Renzi. Manes stesso l’aveva definita «Iri del sociale», rievocando la spinta modernizzatrice che l’Istituto per la ricostruzione industriale ebbe negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento; ma c’è chi vede la Fondazione come un ente di cui si poteva fare a meno e chi lo liquida come un favore a un amico dell’ex primo ministro.

Ma Italia Sociale non è il solo aspetto a suscitare perplessità. Il Comitato piemontese Volontariato 4.0 in un documento del febbraio scorso attribuiva alla legge 106 lo stravolgimento dei Centri di Servizio per il Volontariato che, avendo a disposizione le stesse risorse del passato, dovranno ora assistere molti più fruitori, cioè «tutti i soggetti del no profit, associazioni di promozione sociale, cooperative, holding della solidarietà». Il Comitato punta il dito anche contro lo sdoganamento di un «volontariato liquido e ibrido, senza identità, senza appartenenza, senza forza rappresentativa, temporaneo ed occasionale» che arriva a «istituzionalizzare lo status di volontario singolo», non legato cioè a una realtà associativa.

Gli altri decreti attuativi, dopo quello sul servizio civile, dovrebbero essere inviati alle Camere entro il 15 di questo mese, almeno stando a quanto dichiarato a marzo da Luigi Bobba, sottosegretario al ministero del Lavoro. Seguiranno poi i commenti delle commissioni parlamentari e la possibilità di fare decreti correttivi entro un anno.

L’Europa fra cooperazione e migrazioni

Di altro tipo di volontariato parla invece Silvia Costa, eurodeputata del Pd, presidente della Commissione cultura e istruzione al Parlamento europeo e firmataria di una risoluzione sul Servizio volontario europeo (Sve), il programma di volontariato internazionale finanziato dalla Commissione europea e rivolto a giovani fra i 17 e i 30 anni. A questi ragazzi lo Sve offre l’occasione di prestare servizio in progetti in ambito umanitario, educativo, sociosanitario, culturale, sportivo per un periodo che va dalle tre settimane ai dodici mesi. In vent’anni ha visto la partecipazione di centomila giovani: dei cinquemila ragazzi che partono ogni anno, uno su cinque è italiano.

«Chiediamo alla Commissione europea», ha detto Costa dopo l’approvazione della risoluzione, «di definire finalmente un quadro giuridico europeo che definisca le attività e lo status di volontario per agevolare la mobilità europea e internazionale, nonché il riconoscimento delle competenze, sia nello Youth passaport che nell’Europass (strumenti per armonizzare la descrizione delle competenze dei cittadini all’interno dell’Unione, ndr)».

Quanto alle strategie per lo sviluppo, ne «Lo stato dell’Unione 2016» la commissione ha annunciato un nuovo il Piano europeo per gli investimenti esterni (Pie). «Lo strumento», si leggeva nel comunicato stampa del settembre scorso, «consentirà di stimolare gli investimenti in Africa e nei paesi del vicinato dell’Ue, in particolare per sostenere le infrastrutture economiche e sociali e le Pmi (Piccole e medie imprese, ndr), mediante la rimozione degli ostacoli agli investimenti privati». Il contributo previsto è di 3,35 miliardi di euro, che andranno a sostenere «le garanzie innovative e strumenti analoghi a copertura degli investimenti privati». Secondo la Commissione, questi 3,35 miliardi dovrebbero riuscire a mobilitare fino a 44 miliardi di euro d’investimenti e l’importo potrebbe raddoppiare se gli stati membri e gli altri partner contribuiranno con un finanziamento equivalente.

L’iniziativa è certamente in linea con la Comunicazione 263 del 2014, in cui la commissione ricordava che il settore privato fornisce il novanta per cento dei posti di lavoro nei paesi in via di sviluppo e che questo lo rende un partner essenziale nella lotta alla povertà. Altrimenti detto: se non si coinvolge il settore profit nello sviluppo non si va da nessuna parte.

Concord, la rete europea delle ong, ha tuttavia avanzato alcuni dubbi circa il Pie: «Il piano – si legge fra le raccomandazioni inviate alla Commissione – deve essere sganciato dalle politiche di controllo delle migrazioni e dagli obiettivi di breve termine della politica estera europea e non può dare per scontato che la crescita economica – in termini di punti di Pil – implichi automaticamente la creazione di posti di lavoro, e meno ancora di lavoro dignitoso e sostenibile».

L’effetto Trump sullo sviluppo

Con i loro 31 miliardi di dollari all’anno (nel 2016), gli Stati Uniti sono il secondo donatore al mondo dopo l’Unione europea per quanto riguarda l’aiuto allo sviluppo, il primo se si considerano gli Stati europei singolarmente. Ovvio che la proposta di budget dell’amministrazione guidata da Donald Trump fosse attesa con una certa apprensione nel mondo della cooperazione. E lo scorso 16 marzo le proposte presidenziali sono state rese pubbliche: Trump ha proposto per il Dipartimento di Stato e l’agenzia Usaid, gli enti governativi che gestiscono il grosso dell’aiuto, un budget di 25,6 miliardi di dollari, con un taglio pari al 28 per cento.

Altri tagli proposti sono al contributo alle Nazioni Unite – attualmente gli Usa ne sono il principale donatore, coprendo oltre un quinto dei 5,4 miliardi di dollari del budget Onu e quasi un terzo dei 7,9 miliardi per le operazioni di peacekeeping – e agli enti finanziari multilaterali di sviluppo come la Banca mondiale.

Il presidente statunitense ha inoltre intenzione di staccare la spina a tutto ciò che riguarda la lotta al cambiamento climatico – eliminando la U.S. Global Climate Change Initiative e bloccando i pagamenti ai programmi delle Nazioni Unite in questo ambito – e di riorganizzare Dipartimento di Stato e Usaid, forse accorpando la seconda al primo, ipotizza qualcuno. Sopravvive invece la dotazione di risorse per il Fondo presidenziale di emergenza per la lotta all’Aids (Pepfar) e per il Fondo globale per la lotta a HIV/Aids, tubercolosi e malaria.

Rimane da vedere quante di queste proposte il Congresso effettivamente accoglierà; ma l’opinione pubblica mondiale ha già potuto farsi un’idea di come si traduce lo slogan «America first» in termini di fondi per lo sviluppo.

Chiara Giovetti

 




La Costa d’Avorio in ostaggio /2


Da Dianra, nel Nord Ovest, dove i missionari lavorano per sanità e dialogo, a Grand Zattry e Sago, nel Sud Ovest, dove cercano di ampliare una scuola. Passando per Soubré, dove è in costruzione una grande diga, terminando con San Pedro e Abidjan, dove tonnellate di cacao rischiano di marcire sui camion all’entrata dei porti.

A Dianra, come a Marandallah, il dialogo interreligioso permea di sé tutta l’attività dei missionari. Questo implica un procedere lento, graduale, rispettoso delle differenze e capace di fare emergere ciò che accomuna. «È anche per questo», spiega padre Matteo Pettinari, «che prima di costruire una case de santé (piccolo centro sanitario) contattiamo le autorità di ciascun villaggio e organizziamo un incontro pubblico che coinvolga tutta la comunità. Durante l’incontro chiariamo che queste strutture fanno parte di un programma che le autorità locali della sanità pubblica hanno affidato al nostro centro di Dianra Village. Non si tratta, quindi, di costruire “la casa dei cristiani” ma di portare l’assistenza sanitaria al villaggio attraverso le regolari visite della nostra equipe mobile. Non solo: nell’incontro si cerca di ottenere dagli abitanti del villaggio l’impegno a collaborare con il nostro personale in modo che questo servizio rechi davvero beneficio».

In quel contesto rurale la gente tende a rimandare il momento in cui ricorrere alle cure mediche, finché non è chiaro che i rimedi tradizionali sono inefficaci e che le patologie si sono aggravate al punto da essere ormai invalidanti. Le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi e andare al centro di salute a farsi visitare, ad esempio durante la gravidanza, o a far visitare i bambini per scongiurare il rischio della malnutrizione. Creare sensibilità e consapevolezza è un lavoro lungo e delicato. Fare di corsa significa rischiare di offrire un servizio che poi nessuno usa.

«È interessante», prosegue Matteo, «come villaggi distanti pochi chilometri reagiscano in modi diversi: c’è una località nella quale non siamo riusciti a trovare un accordo, un’altra dove ci stiamo avvicinando a un’intesa e una terza in cui, al termine della riunione con la comunità, alcuni giovani avevano già scavato le fondamenta per la case de santé».

Quest’ultimo non è il solo esempio incoraggiante che il missionario cita. Mostra con evidente soddisfazione le foto di Sononzo Carrefour, altro villaggio che fa capo a Dianra, dove la chiesa e la moschea sono dello stesso colore, e ricorda: «L’anno scorso i musulmani di Sononzo hanno fatto una colletta per ridipingere la moschea e ci hanno proposto di dare il loro contributo per ridipingere anche la nostra chiesa. È stato un gesto davvero splendido, un atto di fratellanza che ci riempie di gioia e ci evangelizza».

Verso Sud, fra palma da olio e caucciù

Lasciando Dianra in direzione Sud gli alberi tornano lentamente ad essere verdi, segno che qualche sporadica pioggia – al Nord del tutto assente da mesi – ha lavato via dalle foglie la polvere rossa della stagione dell’harmattan1.

Grand Zattry si trova nel distretto di Bas-Sassandra, lungo la strada in parte asfaltata che collega il Nord a Soubré, cittadina a 130 chilometri dal mare. Ai lati della strada, mentre non vengono meno le piantagioni di cacao, spariscono quasi del tutto i fiocchi bianchi del cotone e i frutti arancioni dell’anacardio. Sono gli alberi di caucciù a dominare il paesaggio – ciascuno con il suo recipiente simile a un bicchiere legato sotto l’incisione nella corteccia dalla quale cola il lattice bianco – e le palme da olio, con i loro grappoli di frutti rossi adagiati dove la fronda si stacca dal tronco.

A Blesséoua, uno dei villaggi che la missione di Grand Zattry accompagna, la scuola primaria ha 458 allievi: troppi per le sei classi che fino a dicembre 2016 aveva a disposizione. Quasi ottanta bambini per aula sono davvero di difficile gestione, constata una maestra che si unisce alla riunione con il capo villaggio e altri responsabili della comunità che collaborano con padre James Gichane, missionario keniano a Grand Zattry. Per questo motivo il salone cucina che la generosità di una donatrice ha permesso di costruire nel 2016 è per il momento stato adibito ad aula. Nel frattempo, il Conseil Café-Cacao, l’ente pubblico che regolamenta la produzione e il commercio dei prodotti da cui prende il nome, sta finanziando la costruzione di altre tre classi. «Sono andato di persona alla sede del Conseil», spiega il capo villaggio, «per spiegare loro la situazione della scuola, e grazie a Dio mi hanno dato retta. Bisognava almeno aumentare il numero di aule, ma anche la mensa scolastica e i servizi igienici sono in pessime condizioni». Oltre al villaggio di Blesséoua, la scuola primaria serve diciassette campement (villaggi più piccoli e provvisori) dei dintorni, gli alunni vengono qui a piedi da cinque chilometri di distanza. La situazione di questa scuola, che è comune a molte altre nel paese, stride con le dichiarazioni d’intenti delle autorità pubbliche secondo le quali ogni classe dovrebbe avere non più di quaranta alunni.

Energia per un paese che vuol crescere

Per andare da Grand Zattry a Sago si passa da Soubré, città sulla quale gli occhi del Costa d’Avorio sono oggi puntati per via della costruzione di un’imponente diga che sfrutterà un dislivello naturale del Nawa, un affluente del fiume Sassandra, per produrre energia elettrica. Una volta ultimata, sarà la più grande diga del paese, con una potenza installata pari a 275 megawatt per una produzione annuale di 1.170 gigawatt ora.

L’opera, dal costo di 338 miliardi di franchi cfa (circa 515 milioni di euro), è finanziata all’85% dalla Cina (attraverso la banca Eximbank) e al 15% dalla Costa d’Avorio nel contesto della cooperazione sino-ivoriana; l’entrata in funzione è prevista per la fine del 2017, dopo cinque anni di lavori. Oggi la Costa d’Avorio ha una potenza installata di 1.975 megawatt forniti per tre quarti da centrali termiche (gas naturale e vapore) e per un quarto da centrali idroelettriche, e vende energia a Burkina Faso, Mali, Ghana, Togo e Benin. Il governo intende però raddoppiare la potenza prodotta entro il 2020 e ha pianificato una nuova centrale termica a gas a Songon, quartiere di Abidjan, e una a carbone a San Pedro, suscitando la perplessità per la contraddizione fra la scelta del carbone e la ratifica dell’Accordo di Parigi sul clima.

Sago: l’Africa occidentale in un villaggio

Lungo la strada verso Sago, villaggio a un’ottantina di chilometri dalla costa, è frequente vedere cartelli con il logo della Sipef – Società internazionale delle piantagioni e di finanza – un’agroindustria internazionale che opera nelle aree subtropicali fra cui la Costa d’Avorio. I cartelli recitano: Non au travail des enfants (no al lavoro dei bambini).

«È una campagna che va avanti da qualche anno», spiega padre Ramón, «nata come reazione al fenomeno dei bambini schiavi portati qui soprattutto dal Mali per lavorare nelle piantagioni di cacao».

Il tema ha cominciato ad essere noto all’opinione pubblica internazionale nei primi anni Duemila ma è probabilmente con documentari come il danese The Dark Side Of Chocolate2 che ha guadagnato maggiore visibilità. «Oggi», continua Ramón, «anche grazie a questa campagna, chi è a conoscenza di casi di sfruttamento li denuncia sapendo che, a differenza di un tempo, gli sfruttatori verranno puniti».

Quella del Bas-Sassandra è una zona con una notevole varietà etnica, dove ivoriani e stranieri vivono del lavoro nelle piantagioni o dei commerci che si svolgono nel grande mercato. «In dieci anni», spiega padre Silvio Gullino, missionario della Consolata attivo prima in Repubblica Democratica del Congo e, ora, uno dei decani della missione in Costa d’Avorio, «il villaggio è passato da quattromila a diecimila abitanti. Qui, assieme e agli autoctoni di etnia Godié, vivono Baoulé, Koulango, Abron, ma anche Mossi del Burkina Faso. Anzi, si può dire che siano rappresentati quasi tutti i paesi della Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale): Togo, Benin, Senegal, Mali, Mauritania…».

Una cartina di tornasole di questa varietà è la messa domenicale nella chiesa di Sago, durante la quale le letture vengono fatte in cinque lingue. I cattolici a Sago sono una minoranza, precisa ancora padre Silvio, circa il dieci per cento della popolazione. Sei persone su dieci sono musulmane, il quindici per cento è cristiano di altre denominazioni e un altro quindici per cento pratica le religioni tradizionali.

La scuola primaria Notre Dame de la Consolata accoglie 250 alunni dai sei ai dodici anni; padre Celestino Marandu, missionario tanzaniano anche lui con diversi anni d’esperienza in Congo, è a Sago dal 2009 ed è il responsabile della scuola che, nel gennaio 2017, è stata una delle pochissime a non rimanere chiusa tre settimane per lo sciopero dei funzionari pubblici.

«Certo», osserva Celestino, «è giusto che gli insegnanti rivendichino il loro diritto a stipendi più alti e migliori condizioni di lavoro; ma qui è la scuola a pagare gli stipendi, regolarmente e senza contributi dal governo. Garantiamo ai docenti anche case ad affitti ragionevoli e un ambiente di lavoro organizzato dove possono segnalare, discutere e risolvere i problemi insieme alla dirigenza. E tutto questo per assicurare la cosa più importante: che i bambini abbiano un’istruzione davvero di qualità». Padre Celestino ha appena completato l’arredamento della sala e mensa scolastica finanziato grazie al contributo di alcuni donatori italiani. «L’ispettore regionale dell’insegnamento primario è venuto a visitare la scuola», racconta padre Marandu. «Alla fine ci ha fatto i complimenti per la mensa più bella e grande della regione del Gboklê».

Nell’immediato futuro padre Celestino ha in programma di terminare la recinzione per avviare l’orto che produrrà frutta e verdura per la scuola: «Senza recinto non si può coltivare, arriverebbero gli animali a devastare tutto». Vuole poi ristrutturare alcune delle case degli insegnanti, completare la case de santé della scuola per seguire i bambini anche dal punto di vista della sanità di base, ultimare il campo sportivo. «Il governo ha introdotto l’obbligo scolastico fino a 16 anni», riferisce il missionario, «ma serve anche un sistema uniforme ed efficace di controlli e sanzioni per chi non manda i figli a scuola. Qualcuno stima che i bambini di fatto non scolarizzati siano ancora almeno la metà».

San Pedro e Abidjan, cacao invenduto e grattacieli

L’aria impregnata dell’odore acre delle fave di cacao è forse uno dei tratti distintivi di San Pedro, insieme alle file di camion che trasportano, oltre al cacao, anche gli altri prodotti delle piantagioni ivoriane. Ma nell’inverno del 2016 nell’aria si respirava anche apprensione: 400 mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani e cominciavano a marcire. Il Conseil Café-Cacao, riportava il quotidiano francese Le Monde3, aveva fissato per il 2016 il prezzo cosiddetto «a bordo campo» a non meno di 1.100 franchi al chilo, 1,67 euro. Gli esportatori devono vendere ad almeno 1.800 franchi (2,74 euro) per guadagnare qualcosa considerando anche i costi di manodopera e trasporto. Ma da agosto dell’anno scorso il prezzo del cacao sul mercato mondiale è diminuito del 25% e ora un chilo vale 1.300 franchi, poco meno di due euro. A febbraio, del fondo che il Conseil Café-Cacao ha a disposizione per rimborsare gli esportatori in questi casi nessuno aveva ancora visto un franco. E, spesso, i produttori ricevono il pagamento per il raccolto in parte alla consegna e in parte anche mesi dopo, perciò, se non arrivano prima i rimborsi agli esportatori per l’invenduto i coltivatori rischiano di non incassare nulla.

E se questo è il problema più immediato, non è però l’unico: la rivista Jeune Afrique4 riportava diverse testimonianze di addetti ai lavori secondo i quali la metà del cacao venduto come equo, solidale e sostenibile avrebbe avuto una certificazione fasulla. Questo tipo di cacao può essere venduto a un prezzo più alto di quello del cacao ordinario, perché, in teoria, ha costi di produzione maggiori dovuti a standard più elevati nel trattamento dei lavoratori e nei metodi di coltivazione. Dopo che i colossi del cioccolato, Mars e Lindt in testa, si sono impegnati ad arrivare entro il 2020 a comprare solo cacao certificato, questa fetta di mercato ha avuto un boom. Ma qualcosa non torna: la certificazione è un processo lungo e meticoloso, eppure nel 2015 un terzo del cacao ivoriano – cioè 600 mila tonnellate su un milione e 800 mila – risultava certificato. Troppo in troppo poco tempo, sostengono gli scettici. Alcuni operatori avrebbero fiutato l’affare e costituito delle cooperative intermediarie che comprano cacao ordinario al prezzo minimo, ottengono false certificazioni e rivendono il cacao come equo, facendo così una cresta che può arrivare a 170 Fcfa (18 centesimi di euro) al chilo. Il cacao, ricordava ancora Le Monde, genera due terzi dei posti di lavoro e dei redditi nel paese, la metà degli introiti delle esportazioni e il 15 per cento del Pil. È un settore con il potere di mettere in crisi l’intero paese.

 

A guardare le scenografiche luminarie delle feste scintillare sui vetri dei grattacieli del Plateau, il quartiere chic di Abidjan, a sentire i comunicati con cui le Nazioni Unite annunciano che la situazione è abbastanza stabile da ritirare la forza di pace5, o a leggere che il volume degli scambi di denaro via cellulare tocca i 25 milioni di euro al giorno6 non si direbbe che la Costa d’Avorio possa ripiombare nel caos. E il ricordo ancora vivo del conflitto, della paura costante, del paese spaccato a metà potrà aiutare a contenere le spallate di inizio anno. Ma certamente il 2017 sarà un banco di prova fondamentale per evitare sia un nuovo conflitto sia il cronicizzarsi di una latente, logorante instabilità.

Chiara Giovetti
(2 – fine)

Note

1- L’Harmattan è un vento secco e polveroso che soffia a Nordest e Ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea, tra novembre e marzo. È considerato un disastro naturale (Wikipedia).
2- The Dark Side of the Chocolate – Il Lato Oscuro del Cioccolato – Italiano, 02 agosto 2014, canale Youtube «doppiatorianonimi».
3- Charles Bouessel, Comment la Côte d’Ivoire se retrouve avec 400 000 tonnes de cacao invendues sur les bras,
lemonde.fr, 16 febbraio 2017.
4- Charles Bouessel, Agriculture : la filière cacao envahie par la fraude à la certification, jeuneafrique.com, 3 febbraio 2017.
5- Carlverth Kouakou, Côte d’Ivoire : Les casques bleus quittent le pays à partir du 15 février, laseve.info, 10 febbraio 2017.
6- Hamsatou Anabo, Côte d’Ivoire: Entre 15 et 18 milliards CFA de transactions quotidiennes via Mobile Money, connectionivoirienne.net, 3 febbraio 2017.