Noi e voi, spazio di dialogo lettori e missionari


Dov’è Dio quando gli uomini sono in guerra?

La guerra è quanto di più tragico, disumano e folle possa accadere nel mondo. Lo possiamo constatare in questi giorni in cui
l’Ucraina è oggetto di occupazione e bombardamenti con innumerevoli morti tra i civili, fughe all’estero, ecc. Viene spontaneo chiedersi dove sia e che cosa faccia Dio di fronte alle ingiustizie e alle violenze a danno degli innocenti. Gli autori dell’Antico Testamento, per trascrivere l’esperienza del popolo d’Israele, hanno fatto ricorso al lessico e ai modelli culturali dell’ambiente mediorientale, compreso il fenomeno umano e storico della guerra; si trovano di frequente quindi episodi di eccidi, stermini e vendette senza limiti. Nella ricerca del volto di Dio è presente anche il titolo «Signore degli eserciti» (Is 10,24) e tra tutte le forme di conflitto vi è la «guerra santa» (Gl 4,9); si fa breccia, in ogni caso, la convinzione che Dio non corrisponda ai criteri elaborati dall’uomo, come avviene, ad esempio, nel libro di Giobbe, in cui si mette in dubbio l’idea che l’insuccesso sia dovuto all’abbandono divino, e nella letteratura profetica in cui si elabora l’idea che la giustizia di Dio non sia quella dei canoni umani. Il Nuovo Testamento rivela infatti un volto di Dio del tutto inatteso e, soprattutto, annuncia che Gesù, il Figlio, non rispondendo con la violenza alle accuse rivoltegli e accettando la morte, ha vinto definitivamente il male, in particolare il peccato. Dio non è all’origine del male e ha a cuore la vita (Gn 9,16), dinanzi alle gravissime derive causate dalle possibilità dell’uomo conseguenti alla sua libertà, interviene con l’incarnazione, la vita, la morte e resurrezione del Figlio Gesù, e propone un ideale (Mt 5,44), l’amore verso il nemico, che tanti martiri e santi hanno testimoniato nel corso dei secoli, non sminuendo in ogni caso il valore della lotta per la giustizia. Dio, che è vivo, sicuramente agisce con il suo Spirito ma in modo imperscrutabile; non interviene in modo magico e sostiene l’uomo che potenzia le sue «armi» quali l’impegno quotidiano nel superare i piccoli contrasti inevitabili, la pratica costante di azioni diplomatiche e politiche volte a mediare, la preghiera perseverante ed insistente. Dio soffre atrocemente per le vite interrotte con la violenza, i danni arrecati all’ambiente naturale e alle opere costruite dall’uomo, per l’uso delle armi sempre più sofisticate e l’incapacità di trovare intese durature, necessarie in quanto gli equilibri geopolitici non sono mai definitivamente risolti, è presente laddove si soffre, e «agisce» attraverso tutte le iniziative che l’uomo assume per porre rimedio ai conflitti, costruendo degli accordi, e attraverso coloro che, nella fede e nella grazia sacramentale, sono uniti intimamente a Cristo (Mc 11,24) nell’implorare la pace.

Milva Capoia
14/03/2022


Troppa popolazione?

In questi giorni sembra che sulla Terra abbiamo superato gli otto miliardi di abitanti. Eravamo 2.480 milioni a fine 1950, quindi in 71 anni siamo più che triplicati. È vero che in questi 71 anni non ci sono state guerre mondiali e neanche epidemie generalizzate: ma di una pandemia ci stiamo occupando adesso e sembra che Putin abbia voglia di trascinarci in una guerra mondiale per difendere il suo posto di padrone della Russia e magari diventarlo di tutto il mondo. In ogni modo, anche senza il suo aiuto non credo che la vecchia palla su cui viviamo sia in grado di reggere a lungo una popolazione che si triplica ogni 70 anni. Io ho avuto la possibilità di girarla tutta (e a forza di prendere sole mi son preso anche un tumore, ma tanto ho superato benissimo gli 80) e vi assicuro che è bellissima e che ha una popolazione meravigliosa che però si fa governare da troppi cialtroni e non pochi veri assassini.

Claudio Bellavita
24/03/2022

Grazie per le considerazioni e per l’amore alla nostra Terra. La questione della popolazione è ovviamente molto complessa e controversa. Di sicuro la soluzione non sta né nella pandemia né nella guerra, ma probabilmente neanche nelle «scelte di morte» che avvengono di fatto nel nostro mondo (figlio unico, aborto, messa in crisi della famiglia, esaltazione del gender, ecc.). Di fatto, e l’Italia ne è capofila, stiamo assistendo a un declino demografico preoccupante, come se non credessimo nel futuro. Invece la crisi che stiamo vivendo richiede un serio ripensamento degli stili di vita, dei consumi, dell’uso delle risorse del nostro pianeta e delle relazioni tra i popoli.


Tra guerriglia e sogni di pace

Carissimi amici,
riesco finalmente a raccontarvi un pezzo di vita della mia parrocchia in questi mesi del nuovo anno. Dopo la paura iniziale per il Covid-19, in questo ultimo periodo, qui a Solano la vita è ritornata quasi alla normalità.

In Colombia la distribuzione dei vaccini è iniziata dalle zone periferiche e ai confini con altri paesi come Perù ed Ecuador; quindi, possiamo dire che siamo stati privilegiati essendo stati tra i primi a essere vaccinati.

La situazione sociopolitica in Colombia è sempre più complicata nonostante l’accordo di pace avvenuto nel novembre 2016 tra il governo del presidente Santos e la Farc (guerriglia). Molti hanno lasciato le armi e, attraverso i programmi integrativi dello stato, si sono inseriti nella vita civile, ma molti altri hanno deciso di continuare la lotta armata ed è sorta la disidencia (dissidenza), mentre altri, dopo essersi consegnati, delusi per il mancato compimento delle promesse statali, sono ritornati alle armi.

Funerale di tre fratelli uccisi dalla guerriglia

Il 28 gennaio e 8 febbraio ho accompagnato tre giovani di Solano al seminario diocesano per un discernimento vocazionale: uno a San Vicente del Caguán, altri due a Florencia, il capoluogo della regione. Appena arrivato in canonica al mio rientro da Florencia, ricevo una chiamata: «Padre è tutto pronto». Mi reco al «Club Juvenil», punto d’incontro per le varie attività dei giovani costruito da padre Giuseppe Svanera, senza sapere perché richiedono la mia presenza. Entro e trovo davanti a me tre bare con i corpi di tre giovani fratelli che sono stati assassinati.

Viviamo in un territorio dove per sopravvivere si coltiva la pianta di coca da cui poi viene estratta la pasta basica per produrre la cocaina e, quindi, la violenza è fortissima.

Le bare. ancora aperte, sono poste sopra tavole di legno sostenute da casse vuote di birra. Attorno si brucia caffè per cercare di coprire l’intenso odore dovuto alla decomposizione dei corpi. Un giovane che è stato testimone dell’eccidio racconta la brutalità che i tre fratelli hanno subito: legati e uccisi con vari colpi alla testa e al torace da un gruppo di trafficanti di droga che si fa chiamare Sinaloa. Tutto risale al 5 febbraio.

I primi a parlare con me sono i padrini di battesimo di due dei giovani assassinati: sono molto addolorati e mi dicono che il papà sta sbrigando le pratiche con la giustizia. Hanno preso seriamente il loro impegno di padrini e sono una chiara testimonianza di fede per la gente del paese. Per questo li ringrazio. Mi presentano i genitori. La mamma già la conoscevo perché l’avevo aiutata economicamente comprando direttamente da lei alcuni dei suoi prodotti. Vive separata dal marito, e fa parte della «Iglesia evangelica pentecostal». Il papà, Pedro, desidera la messa cantata per il funerale dei figli.

Celebriamo il funerale in un ambiente militarizzato, con molta paura e tristezza. Durante l’omelia denuncio gli autori di questo assassinio, dicendo che non esiste nessun motivo per togliere la vita a qualsiasi persona: Dio dona la vita, non la toglie. Invito gli assassini a pentirsi del loro gesto e a non continuare con queste stragi che stanno colpendo molto duramente il nostro territorio, soprattutto contro i giovani.

Le tre salme sono caricate su tre mezzi e portate al cimitero in processione. Accompagno il corteo con la recita del rosario, benedico la tomba e durante la sepoltura alcuni giovani mettono musica colombiana, il «Vallenato», che esprime la disperazione che stanno vivendo.

Nel pomeriggio viene il papà dei tre giovani. È un antioqueño che ha lasciato la sua terra 36 anni fa in cerca di fortuna. È stato nel Caguán, a Remolino, dove ha conosciuto il padre Giacinto Franzoi, e ora si trova nel Yurilla, dove è proprietario di un piccolo negozio di alimentari e vende benzina. I figli vivevano in un villaggio più all’interno, nella foresta. Quando gli hanno comunicato della loro morte, superando il dolore con molta forza, ha coordinato tutto per portarli a Solano. Ha chiesto appoggio alle forze dell’ordine che gli hanno dato protezione e gli hanno consigliato di non ritornare da dove era venuto perché è a rischio la sua vita.

Gli chiedo: «Perché li hanno uccisi?», e lui ripete all’infinito: «Erano bravi ragazzi, non hanno fatto del male a nessuno. Io non posso lavorare perché sono anziano. Spesso andavo da loro e si chiacchierava e rideva, o loro venivano da me. Abbiamo passato momenti molto belli di amicizia, di fraternità e di gioia grande. Non mi spiego il perché».

Funerale di tre fratelli uccisi dalla guerriglia

Prosegue: «Sono stato interrogato dall’esercito per più di due ore, e ho ripetuto che non abbiamo mai collaborato con nessun gruppo. Ho detto che quando venivano i guerriglieri mi chiedevano di trasportarli con la canoa. Non potevo dire di no e così davo loro le chiavi e la benzina. Mai ho guidato io l’imbarcazione. Loro andavano e me la riportavano. Chiedevano cibo e compravano la benzina, mai a loro abbiamo creato problemi. Ho anche dato all’esercito le coordinate dove poterli trovare, anche se i militari sono qui da più di un anno e non fanno assolutamente nulla, stanno a guardare. Padre, ho anche denunciato che l’anno scorso, quando è stato ucciso un dissidente della Farc, vi è stata una grande mobilitazione militare con barche ed elicotteri fino ad arrivare nel mio villaggio. Erano presenti circa 80 uomini del gruppo Sinaloa, ma l’esercito ha sparato verso le canoe dove c’erano i contadini, non a quelle dei guerriglieri. Sono arrivato alla conclusione che vi è una alleanza tra l’esercito e i Sinaloa, e che forse questo gruppo è stato creato dallo stesso esercito con ex combattenti della Farc per combattere la dissidenza».

Qualche giorno dopo il signor Pedro viene a chiedermi il certificato di sepoltura dei suoi tre figli perché vuole denunciare lo stato. È intenzionato ad andare a Bogotá per parlare con i mezzi di comunicazione a livello nazionale e internazionale. È arrabbiato e triste. Mi dice: «Non voglio che muoiano altri giovani, molti ne sono stati già uccisi. Dobbiamo fermare questa strage. Oggi la barca di linea portava più di cento persone che scappavano dal territorio dopo aver visto trucidare i miei tre figli senza alcun motivo».

Lo avviso che oggi passerà a Solano la Croce Rossa internazionale e che sarebbe importante mettersi in contatto con loro perché appoggiano questi casi di violazione dei diritti umani.

Vedo che si fa sempre più urgente un lavoro con gli adolescenti e i giovani. Già in parrocchia lo stiamo attuando, non solo con attività religiose di catechismo e con gruppi giovanili, ma con una presenza a tappeto nelle varie scuole e collegi del territorio dove operiamo, attraverso un accompagnamento di formazione sul progetto di vita e sui valori in cui credere per costruire il proprio futuro.

Approfitto per ringraziare le varie associazioni e persone che hanno collaborato in questi anni nell’appoggio economico delle varie attività realizzate nella parrocchia e a livello del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano (come il progetto di Amico, luglio 2019). Qualche frutto lo abbiamo visto in giovani che si sono inseriti nella società come lideres. A livello ecclesiastico abbiamo quattro giovani nel seminario.

Da quando sono arrivato il 3 dicembre del 2017 abbiamo diviso questo immenso territorio in tre parrocchie e come zona ci troviamo una volta al mese qui nella parrocchia madre. Siamo un bel gruppo: tre sacerdoti, sette suore, due seminaristi e una laica Missionaria della Consolata. Un gruppo di missionari/e molto giovani che, guidati dalla forza dello Spirito del Signore, vogliamo accompagnare i vari popoli che vivono in questo territorio amazzonico minacciato dalla violenza e dalla distruzione per interessi di potere e di soldi.

Grazie per la vostra vicinanza, sempre vi ricordo nell’Eucaristia che sta al centro della mia giornata e della mia vita.

Il beato Giuseppe Allamano (oggi è la sua festa) e la nostra madre Consolata siano di appoggio nel nostro cammino missionario per le strade del mondo.

Padre Angelo Casadei
da Solano, Colombia, 16/02/2022


Nuovo ausiliare a Caracas

È con gioia, e ringraziando Dio e la Vergine, che i Missionari della Consolata (Imc) in generale, e quelli del Venezuela in particolare, hanno ricevuto, il 23 dicembre 2021, la bella notizia della nomina di padre Rivas Durán Lisandro Alirio, fino ad allora rettore del Pontificio collegio missionario internazionale «San Paolo apostolo» di Roma, come vescovo ausiliare di Caracas.

L’ordinazione episcopale di mons. Lisandro e mons. Carlos Márquez è stata conferita dal cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi di Caracas, nella chiesa di san Giovanni Bosco nella capitale, con la partecipazione di molti vescovi del Venezuela, più alcuni vescovi di Rito greco e due vescovi Imc dalla Colombia.

Nella sua omelia, il cardinale, riferendosi al testo biblico del «Buon Pastore», ha ricordato ai vescovi eletti che sono «scelti, preferiti e sostenuti dal Signore» e che «il Signore li ha chiamati per nome perché sono di Dio» e li ha esortati a essere dei buoni pastori sull’esempio di Gesù.

Domenica 13 marzo 2022, monsignor Lisandro ha celebrato la sua prima messa come vescovo ausiliare nella parrocchia di San Joaquín e Santa Ana di Carapita, nell’area pastorale che è stato incaricato di accompagnare nella periferia della città.

Ha presentato il Vangelo come suo programma pastorale e ha sottolineato che sul suo emblema episcopale c’è la Bibbia aperta su cui sono incise A e Ω con il motto «Perché in Lui abbia vita». Ha espresso la volontà di dare il meglio di sé al servizio del popolo di Dio affidato alle sue cure.

adattato da «Vida nuestra», aprile 2022

Riportiamo in breve questa notizia, riservandoci di pubblicare quanto prima un’informazione più completa sull’avvenimento e sulla situazione pastorale di Caracas.

Foto di gruppo dopo la consacrazione episcopale di Rivas Durán Mons. Lisandro Alirio




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


La sofferenza dei bambini

Leggo sempre con interesse il vostro giornale, uno dei pochi che spaziano su tutto il mondo. Congratulandomi per il vostro lavoro vi invio queste poche riflessioni. Tutti noi abbiamo grande venerazione per il Santo Padre, un po’ di tristezza però domenica sera in Tv quando, alla domanda di Fazio sulla sofferenza dei bambini innocenti, il papa non ha puntato il dito contro la cattiveria degli adulti ma si è limitato a dire che non ne sapeva la causa, non aveva una spiegazione. Non è per fare i saccenti ma tantissime volte la sofferenza dei bimbi è causata dalla cattiveria di noi adulti. Bimbi che si ammalano per l’inquinamento causato dai grandi con la loro sete di guadagno eccessivo. Il denaro, i privilegi, il successo ai primi posti per cui cibo avariato venduto ugualmente con la conseguenza che mangiamo sovente alimenti dannosi per la salute specie dei piccoli indifesi. Aria inquinata, rifiuti tossici sversati ovunque, radioattività eccessiva. Tantissime altre volte i bimbi soffrono sempre per colpa dei grandi, per la loro cattiveria sotto forma di ingiustizie sociali o per violenze fisiche subite. Come si fa a dare la colpa a Dio se siamo noi adulti a causare più o meno indirettamente tali sofferenze? Un mafioso che, sparando a un altro mafioso, uccide per sbaglio un bimbo di passaggio è forse colpa del cielo o non piuttosto della cattiveria del mafioso che voleva uccidere? Come si fa a dare la colpa al cielo se un bimbo nasce malato quando siamo noi che inquiniamo e trattiamo male, con egoismo e cattiveria una mamma incinta? Si sente pure parlare di ragazze obbligate a prostituirsi anche durante la gravidanza senza rispetto né per la mamma né tantomeno per il nascituro. Poi ci si scandalizza della sofferenza degli innocenti, quando siamo noi adulti a causare tale dolore con sopraffazioni tra noi, cattiverie che si riversano sui bimbi, gelosie, invidie in famiglie. Bimbi che vivono con genitori che litigano in continuazione per i loro capricci e volontà di supremazia. Tantissime volte la cattiveria dei grandi ricade più o meno indirettamente sui bimbi innocenti. Siamo noi adulti che ci comportiamo male con orgoglio e presunzione di poter fare a meno degli insegnamenti del Vangelo e poi ci lamentiamo. Cordiali saluti

E. B.
email del 23/02/2022

Gentile E.,
pubblico volentieri la sua sul dolore dei bambini, senza però condividere la sua amarezza per la mancata risposta del papa. In realtà molte situazioni di sofferenza dei bambini non hanno una spiegazione e, probabilmente, come per la sofferenza degli adulti e degli anziani, dobbiamo accettare la finitezza, il limite insito nella nostra natura di uomini.

Non so lei, ma con questa realtà ho avuto a che fare fin dalla mia infanzia, andando con i miei genitori alla tomba della mia prima sorella, morta in 12 ore a sette mesi, mentre io ero ancora nella pancia di mia madre. Credo che il dolore provato da mia madre in quel momento abbia segnato la mia vita senza una spiegazione.

Ma tutto quello che dice circa la nostra responsabilità nel moltiplicare le sofferenze dei bambini – e non solo a loro -, è vero. Quanto sta succedendo in questi giorni in Ucraina ne è una prova evidente, così come l’incredibile numero di aborti fatti ogni anno nel mondo. Sono già oltre 7 milioni nei soli mesi di gennaio e febbraio 2022. Non sono pulci, ma bambini. Senza contare la sofferenza delle madri che non viene cancellata anche se – come qualcuno propone – l’aborto diventa un diritto.

Oggettivamente non ho risposte esaustive da dare sulle cause della sofferenza dei bambini «innocenti» – ce ne sono di colpevoli? -. Cerco anche di capire e approfondire le cause di tanto male, senza però farmi schiacciare dell’enormità dei problemi o diventare maestro nel blame game (il «gioco del biasimare», dare la colpa). È vero, sono urgenti anche prese di posizione a livello internazionale, ma, come fanno tanti miei confratelli nei paesi dove sono missionari, la prima cosa è che ciascuno faccia la sua parte facendosi carico di quei bambini che incontra con la vicinanza, la cura, l’attenzione, la tenerezza. In fondo solo l’amore può essere una risposta vera al dolore.

Sta a noi, con i nostri atteggiamenti, diventare alternativa d’amore alla cattiveria, senza aspettare grandi soluzioni, ma diventando prossimi per le persone, piccole e grandi, che incontriamo sulla nostra strada.

 


L’amico di Tura ci ha lasciato

Domenica 6 febbraio, puntuale come ogni settimana, da Tura, nella diocesi di Singida in Tanzania, padre Remo Villa ha mandato il suo solito cocktail di notizie e foto agli amici.

«Buona sera a tutti voi, Tura Friends. Oggi c’è questa barca che ci aspetta. Anche se quasi piena, il barcaiolo si è reso disponibile a fare la spola fino a che tutti i Tura Friends non siano arrivati a destinazione. Quindi mettiamoci in fila pazientemente.

Oggi, domenica, partenza alle otto e ritorno alle sei e mezzo, con il buio in arrivo, per la messa alla comunità di Loya, la più lontana ma senz’altro la più vivace.

Con la strada che comincia ad avere problemi, anche se siamo solo all’inizio delle piogge. Ma inserendo le 4 ruote motrici, diventa quasi una strada asfaltata.

Chiesa piena con tanti bambini, e la gente attenta dall’inizio alla fine della celebrazione.

Alex, il giovane catechista, è l’anima della comunità, con iniziative che spronano tutti a guardare sempre avanti. Ed in questo è affiancato da un vivace comitato di leader.

I preparativi per la costruzione della chiesa continuano: ogni domenica parte dei mattoni vengono avvicinati alla zona dove verrà edificata la nuova chiesa. Ci sono già cinque camionate di sabbia sul posto. L’ultima colletta ha fruttato più di una tonnellata di cemento. E oggi ho suggerito di far partecipare a questo sforzo anche i molti cristiani originari di Loya, ma che ora vivono – e molti di loro hanno fatto fortuna – in varie città del Tanzania. Proposta accettata e che verrà realizzata al più presto.

“Mattone su mattone”, cantavamo, quando una quarantina di anni fa mi trovavo a Santa Maria a Mare, in quel di Fermo (Ap).

Haba na haba hujaza kibaba, diciamo in swahili. Una goccia dopo l’altra riempiono il bicchiere.

Dopo un buon pranzo a casa di un maestro, una visita veloce al fiume il cui greto, in una delle ultime visite, avevo attraversato con la macchina.

Oggi almeno un metro e mezzo di acqua, dalla corrente veloce, solcata solo da qualche piccola barca per il trasporto di persone e di cose.

Tre settimane fa, come vi avevo accennato, hanno riaperto le scuole e, quindi, anche la nostra St. Raphael Primary school.

Ogni giorno vi è qualche nuovo arrivo, e anche oggi, domenica, due ragazzi si sono aggiunti. In totale, fino ad oggi, sono una settantina, una trentina dei quali vivono nel collegio provvisorio in attesa di poter iniziare la costruzione, ampia e funzionale come si deve, all’interno del terreno della scuola non appena saranno risolti i problemi di occupazione abusiva di gran parte dell’area».

Domenica 13 febbraio non arriva il solito messaggio. Allarme tra gli amici. Il 14, ne arriva uno breve breve:

«Ciao Tura Friends.
Alcuni amici mi chiedono se va tutto bene, dal momento che ieri il nostro appuntamento è saltato.
Causa di una forte malaria che mi ha preso ieri durante la seconda messa. Solo ora mi sento un po’ meglio.
Buon pomeriggio».

È stato l’ultimo messaggio. Domenica 20, alle 21.45, infatti, è arrivata una email dalla nostra segreteria generale di Roma: «Morte di padre Remo Villa».

Ho pianto. Se potete, tornate a vedere la foto in bianco e nero di pagina 68 del numero scorso. Remo è il primo a destra. Era il terzo giorno del nostro anno di noviziato. Compagno, amico, fratello di una vita. Liceo insieme, noviziato, divisi per teologia, lui a Roma e io a Torino, gli ho fatto da fotografo per la sua ordinazione al paese, Mori (Tn).
Uniti poi nel progetto di animazione missionaria e nel creare la rivista Amico, che nasceva dalla collaborazione tra noi (allora) giovani animatori. Quanta passione, quanti sogni. Per lui è stata fondamentale l’esperienza nel casale di Santa Maria a Mare e il contatto con la chiesa di Fermo.

Poi, nel 1981, parte, prima per Londra e poi per il Tanzania, dove arriva nel 1982 e rimane fino alla morte, 40 anni. Nel 2019 ha fatto la scelta che ha pagato con la vita. Una scelta difficile e dolorosa. Il Signore l’ha portato a Tura, dove non c’era niente ed è andato a vivere in una casetta in affitto. Tura è una missione nuova in uno dei territori più poveri di tutto il Tanzania. Qui ha cominciato con coraggio e creatività, senza risparmiarsi. Neppure il Covid lo ha fermato. L’ha fermato invece la malaria.
Ora è sepolto a Tosamaganga, nel cimitero di tanti Missionari della Consolata. Riposa in pace, Remo, e dal cielo continua a proteggere la tua gente di Tura.

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Acqua in bocca

Dopo un lungo lavoro, ha visto la luce Acqua in bocca. Storia di fratel Peppino Argese, libro di 320 pagine di testo e 48 di foto. Il testo è di Annalisa Vandelli che si è digerita una grande mole di appunti e documenti editi e inediti, ha ascoltato testimonianze, ha visitato i luoghi, ha avuto accesso ai diari del «protagonista».

Le foto sono state selezionate, tra migliaia, da padre Gigi Anataloni che ha avuto la grazia di conoscere (e fotografare, una volta in Kenya) il Silenzioso, «Mukiri», fin dai primi anni ’70.

«Acqua in bocca» è un libro intenso come una vita, eloquente come una storia d’amore, appassionante come la scalata di un monte che fa scoprire un nuovo mondo, appagante come un’opera d’arte, vero come può esserlo solo una vita vissuta nella gioia e nel dolore, tra sorrisi e lacrime, tra fatica e amicizia, nella povertà che diventa donare tutto. Il libro realizza il sogno di padre Adolfo De Col, un 94enne dal cuore giovane e innamorato del suo Meru, dove ha trascorso gli anni più belli della sua vita.

Se per caso qualcuno non sapesse chi è Mukiri, qui ha la possibilità di conoscerlo da vicino attraverso il suo impegno nel fare bene il bene e soprattutto nel dare acqua a migliaia di assetati andandola a cercare nelle viscere del monte Nyambene e nel cuore della foresta pluviale che lo ricopre, con il massimo rispetto dell’ambiente e l’utilizzo di tecniche non invasive.

L’opera di fratel Argese è stata possibile sia grazie all’impegno nella continua ricerca e studio di tecnologie e soluzioni innovative, sia grazie all’aiuto di tanti amici per i quali i fatti sono stati più importanti delle parole, ma soprattutto grazie a una fede incrollabile nel Figlio di Dio, al servizio del quale Mukiri ha dato la sua vita.

Potete richiedere il libro al nostro indirizzo spedizioni@missioniconsolataonlus.it Gradita un’offerta di € 20 tramite il nostro ccp o Pay Pal.


Padre Giovanni Dutto

La mattina del 10 febbraio 2022, nel pieno della notte, padre Giovanni ha ricevuto l’ultima chiamata. Il tempo di una richiesta d’aiuto ai confratelli e di un’ultima benedizione, ed era nella casa di Colui per cui ha vissuto la sua vita e la sua passione missionaria. Padre Giovanni, classe 1930, ha formato generazioni di missionari e gente comune all’amore per la preghiera, l’Eucarestia, la Parola di Dio e la missione. Due volte missionario in Kenya (1968-1970 e 2007-2011), dieci anni a Dublino (1976-1986), quindici come visitatore missionario dei seminari italiani (1986-2001), cinque come animatore a Torino e Rivoli. Dal 2011 era Fossano (Cn), da dove, in collaborazione con la diocesi di Alba, ha lavorato molto per far conoscere la figura di padre Paolo Tablino..


 




Noi e Voi

Ricordando Daniele dal Bon

Dal Bon Daniele

Daniele arrivava in redazione sempre senza preavviso. Bussava alla porta della mia stanza e si
affacciava con la testa chiamandomi per nome e cognome. «Posso salutarti?». Già sapevo che non sarebbero stati pochi minuti.

Scarmigliato, occhiali abbassati sul naso, borsa a tracolla, Daniele non badava minimamente al suo aspetto esteriore. Mai. «Cosa ne pensi di… ?», trovato l’argomento di discussione non si schiodava facilmente e spesso ripeteva più volte la domanda o la risposta ricevuta. Lui era così, anche nel blog, nelle email, su YouTube o nei suoi libri autoeditati.

Certamente, tra gli argomenti di gran lunga favoriti c’erano la fotografia e il volontariato (in Italia, Africa e America Latina), passioni a cui ha dedicato l’intera sua esistenza. E, naturalmente, c’era il Nicaragua: le sue diapositive del periodo sandinista (mitico per molti di noi) sono conservate nell’archivio di questa rivista.

All’inizio di gennaio, appena conosciuta la sua dipartita (avvenuta il 31 dicembre 2021), i social sono stati sommersi da ricordi commossi di una miriade di amici e conoscenti.

Quasi a confermare una delle citazioni con cui Daniele spesso terminava le sue email, quella del teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer: «Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo».

Paolo Moiola
06/01/2022

Daniele Dal Bon è stato un frequentatore assiduo del nostro Centro di Animazione di Via Cialdini 4 fin dai primi anni ‘80. Buon fotografo, ha offerto molte volte le sue foto alla rivista diventandone un collaboratore regolare dal 2001 al 2007. Nel nostro archivio ci sono migliaia di sue foto del Sud America, Africa e Asia e su argomenti specifici come migranti, comunità etniche a Torino, Rom, volontariato e tanti altri temi sociali. Era diventato il fotografo ufficiale dell’Ufficio migranti della diocesi di Torino e di tante altre organizzazioni.

Teneva un blog, sul quale aveva raccolto tutto il suo itinerario esistenziale. L’ultimo messaggio (pubblicato per lui da amici il 3 gennaio 2022) dice: «Carissimi, questo non è un addio, ma un arrivederci. Ora sono insieme a mia mamma, mio papà e mia sorella e sappiate che sto bene e continuo a fotografare ogni giorno. Non vi preoccupate se non riceverete più mail, messaggi, articoli o telefonate da parte mia, anche se non sarò più presente fisicamente agli eventi e agli incontri voi pensatemi e ricordatevi di me».

Manifestazione a Torino


Finalmente sepolto nel Resurrection Garden

Padre Ottavio Santoro, IMC, è stato fondatore e architetto del Resurrection Garden di Karen, Nairobi, Kenya, un sereno giardino per la meditazione spirituale. Proprio in quel giardino è stato traslato il 16 dicembre durante una solenne cerimonia presieduta dall’arcivescovo Philip Anyolo dell’arcidiocesi di Nairobi.

Padre Santoro è nato il 1° luglio 1933 a Martina Franca in provincia di Taranto. È arrivato in Kenya come missionario della Consolata nel 1959, lì ha lavorato nella parrocchia di Kiriani nella diocesi di Muranga. Tra il 1963 e il 1965 è stato vicerettore del Seminario minore San Paolo a Nyeri e insegnante a Kerugoya. Nel 1965 è partito per gli Stati Uniti e nel 1969 è tornato in Kenya (vedi MC 5/2016 p. 5-7).

È stato un «grande uomo» dalla mente visionaria e dalle capacità creative. Come amministratore regionale dell’istituto in Kenya e Uganda ha anzitutto realizzato la ristrutturazione e l’ampliamento della casa regionale a Westlands, Nairobi.

Padre Ottavio, abile amministratore, è ricordato come l’uomo che ha coordinato la costruzione dei primi edifici dell’Università Cattolica dell’Africa Orientale (Cuea) dal 1986 al 1994. È anche il cervello che ha gestito la costruzione del Tangaza university college, in particolare la sezione di teologia, dove studiano quasi tutti i religiosi del Kenya, e la vicina Allamano House di Karen, che è il seminario di formazione per teologi della Consolata.

Visita da Giovanni Paolo II in Kenya – al Resurrection Garden con padre Santoro e cardinal Otunga

Era legato da profonda amicizia con il compianto Servo di Dio Maurice cardinale Otunga. Con lui ha sviluppato e attuato l’idea di costruire per la Chiesa del Kenya un giardino (prendendo spunto dai sacri monti tipici di molte parti d’Italia) che potesse essere utilizzato per la preghiera e la mediazione. Padre Ottavio, con la benedizione del cardinale Otunga, ha dato la sua saggezza e la sua forza a questo progetto, dando vita al giardino che poi ha diretto e curato fino alla sua morte il 18 novembre 2015.

Fu allora sepolto nel cimitero dei Missionari della Consolata al Mathari, Nyeri. Tuttavia, il desiderio di far tornare i suoi resti a «casa sua», al Giardino della Resurrezione, era vivo fin da allora.

«Il compianto padre Santoro mancherà ai Missionari della Consolata, ai suoi familiari, agli amici, ai cristiani dell’Arcidiocesi di Nairobi e a tutta la Chiesa del Kenya. Sarà ricordato come un amministratore spirituale, innovativo, altruista, amichevole, generoso, ospitale, impegnato e un missionario caritatevole», ha detto Michael, un giovane che ha potuto compiere i suoi studi grazie alla generosità del missionario pugliese.

Tradotto e adattato da Catholic Information service Africa (Cisa)
Nairobi, 17/12/2021

Tumulazione di padre Santoro Ottavio nel Resurrection Garden da lui fondato e costruito.


Festival della Missione

Nel 2022, dal 29 settembre al 2 ottobre, l’Arcidiocesi di Milano accoglierà il 2° «Festival della Missione», promosso dalla Fondazione Missio e dalla Cimi (Conferenza degli istituti missionari presenti in Italia).

Cos’è

Il Festival è un tempo e uno spazio di festa, riflessioni, esperienze in cui narrare la fede così com’è vissuta nelle periferie. I fatti, ma anche e soprattutto ciò che di invisibile, misterioso e prezioso già sta nascendo: un modo nuovo per un nuovo mondo, fondato sulla fratellanza umana e l’amicizia sociale, in cui riconoscerci tutti fratelli e sorelle.

Come si sviluppa

Il FdM è stato lanciato il 25 ottobre 2021 e si sviluppa su due anni sociali (2021/2022 e 2022/2023) in tre fasi: un prima, un durante e un dopo Festival.

Abbiamo costruito un percorso che vorremmo armonioso e fecondo: cerchiamo di preparare il terreno perché possa ricevere e custodire i molti semi che saranno gettati in vista del e durante il Festival, da cui raccogliere in seguito i frutti.

Dove si svolge

Le giornate del Festival si svolgeranno principalmente a Milano, alle Colonne di San Lorenzo, ma gli eventi e le iniziative pre e post Festival interesseranno il territorio, le parrocchie, gli oratori, gli istituti missionari, i monasteri e anche le carceri, di tutte le diocesi italiane che desiderano partecipare a questo percorso, rimodulato secondo il proprio contesto.

Qual è il tema

Vivere per dono è il titolo scelto per il Festival: tre parole dense di significato, che fanno da filo conduttore per tutte le iniziative promosse e organizzate, e da nucleo di riflessione per quelle di confronto e formazione.

Concretamente…

Animazione missionaria: trovate sul sito tre schede, scaricabili, per organizzare incontri formativi del gruppo missionario parrocchiale o della commissione missionaria di zona. Per info:
missionaria@diocesi.milano.it

Catechesi: trovate fiabe e giochi dal mondo raccolte ne I Racconti del Beijaflor, pubblicato da Itl e disponibile nelle librerie cattoliche o su piattaforme online. Trovate il video di una fiaba turca, Kelolan e lo scoiattolo sul canale YouTube del Festival e il testo nella scheda della Giornata Missionaria Ragazzi scaricabile dal sito. Per informazioni: scuola@festivaldellamissione.it

Adolescenti e giovani: per ragazzi e giovani dai 16 ai 30 anni proponiamo un Song Contest. Sei un cantante, un gruppo, un cantautore? Hai una canzone che racconti la tua storia o una storia che parta dalle periferie della società? Inviaci la tua canzone. Tra i brani ricevuti, verranno scelti 10 finalisti che registreranno in uno studio professionale e parteciperanno al concerto finale a Milano il 2 ottobre 2022. Scarica il regolamento e i moduli per l’iscrizione, da effettuare entro il 15 marzo. Firma e invia la tua canzone (testo + mp3) a musica@festivaldellamissione.it

Laudato Si’: vi suggeriamo la visione di Anamei, un documentario su una terra devastata come l’Amazzonia ma anche sulla profezia di speranza che lo stesso papa ha voluto far conoscere al mondo con il Sinodo del 2018. Può essere usato per proiezioni in teatri e sale parrocchiali, e per incontri sull’ecologia integrale. Per vedere il documentario è necessario scrivere a: laudatosi@festivaldellamissione.it e chiedere la password.

Potete trovare informazioni su:
www.festivaldellamissione.it




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari _ Gennaio 2022

Lettori che vanno

Gentilissima redazione di MC, da anni ricevo la vostra preziosa rivista. Ora col passare degli anni essendo in età avanzata la vista non mi permette più di leggere. Vi chiederei di sospendere l’invio della stessa per evitare un inutile spreco.

Ringrazio per la compagnia che mi avete fatto in tutti questi anni tenendomi aggiornata su quanto accadeva nel mondo con i vostri articoli e dossier approfonditi e puntuali. Grazie al direttore, padre Gigi Anataloni, uomo di grande umanità per i suoi interessanti editoriali.

Vi auguro buon lavoro e vi ricordo nella preghiera.

 Rosina P.
19/11/2021

Buongiorno,
sono Mariateresa, figlia di L. Paola. Mia mamma era abbonata alla vostra rivista e periodicamente, grazie al bollettino all’interno faceva delle donazioni. Purtroppo mia mamma è venuta a mancare e io vorrei poter continuare a fare i bollettini come faceva lei, però vi chiedo se è possibile cambiare il nominativo e poter continuare quello che faceva lei. Vi ringrazio sin da ora per la Vostra disponibilità. Cordiali saluti

Mariateresa M.
25/10/2021

 

Grazie per queste due lettere e per le altre simili che riceviamo di tanto in tanto da lettori anziani, o dai loro figli e anche da vicini. Siamo riconoscenti e sempre in debito con voi lettori per il vostro affetto, fedeltà e sostegno, perché condividete con noi la passione per la Missione. Pubblichiamo queste due con gratitudine, perché compensano ampiamente altre dai toni ben diversi che riceviamo da parenti di nostri lettori deceduti, convinti che noi missionari abbiamo per anni ingannato i loro cari per spillare denaro.
Grazie allora a Rosina e a Mariateresa per le loro parole gentili e incoraggianti.


A proposito dell’Esodo

Spett.le Redazione,
sono un vostro affezionato lettore/abbonato da anni, ed anche modesto sostenitore. Apprezzo tutto della rivista che leggo da cima a fondo.

Focalizzo la mia attenzione su molti articoli, in particolare quelli sulla Bibbia, precedentemente tenuti da don Paolo Farinella (che ho tutti fascicolati) ed ora da Angelo Fracchia.

Confesso però che a volte sono un po’ sorpreso dal suo approccio e dalle sue interpretazioni (forse perché non collimano con le mia sicuramente più che scarsa cultura).

In modo particolare mi ha molto colpito, sul n. 10 della rivista, la messa in dubbio, non dico con sicumera ma dandolo per scontato, che non sia possibile l’uscita di 600mila persone dall’Egitto e che in luogo del Mar Rosso sia stato attraversato un qualche acquitrino poco profondo (mare delle canne).

Non avevo mai sentito queste affermazioni, sicuramente scientifiche, che però a mio modesto parere (portano) una profonda e necessaria revisione dei contenuti delle Sacre Scritture su questi punti (cosa che certamente avverrà).

Grato per un chiarimento al riguardo, porgo anticipatamente sentiti auguri.

Elio Gatti
Trinità, 18/11/2021

Caro sig. Elio,
grazie anzitutto di camminare con noi. Ho passato la sua email al nostro biblista, per una risposta più professionale.

Da parte mia, avendo vissuto alcuni anni insieme a popoli pastori e nomadi (nel Nord del Kenya, vedi foto qui sotto), le devo dire che non mi stupisco del dubbio circa il numero delle persone uscite dall’Egitto. Fossero state davvero 600mila, più il bestiame, sarebbero certamente morte tutte per mancanza di pascoli, di acqua e di cibo. Tenga conto che in condizioni simili per estensione e tipologia di territorio desertico, nel Nord del Kenya, nel XIX secolo, non vivevano più di 20mila persone, con tutto il loro bestiame. Anche i Maasai, che scorazzavano dal Tanzania alle falde del monte Kenya, tutti insieme, non superavano certo le 50mila unità. Anche perché non erano i soli a vivere in quelle aree, ma dovevano competere, per i pascoli e l’acqua, con gli animali selvatici.

Mi permetto anche di ricordare che è buona regola non prendere mai alla lettera i numeri riferiti nella Bibbia, che hanno più un valore simbolico che matematico.

Faccio due esempi: «(Giobbe) possedette 14mila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine» (Gb 42,12). Oggi, in un allevamento intensivo per quel numero di pecore, sarebbero necessari oltre mille ettari di prati fertili e irrigati e per i duemila buoi altrettanti, senza contare quelli per i cammelli e le asine. Se poi si considera che il Sinai è desertico, gli ettari andrebbero aumentati. È chiaro allora che quelle cifre sono più simboliche che reali e vogliono enfatizzare l’abbondanza delle benedizioni divine.

Un altro esempio di numero iperbolico è quello dei diecimila talenti di debito del servitore con il suo Signore (Mt 18,24). Presa alla lettera, è una quantità enorme che corrisponde a oltre 360 tonnellate d’oro. Per fare un esempio, la Banca d’Italia, che possiede uno dei più grandi depositi auriferi del mondo, ne possiede poco meno di 2.500 tonnellate.

Ma ora è meglio che lasci la parola al nostro biblista. Ecco la risposta di Angelo Fracchia.

Ringrazio intanto il sig. Elio Gatti per l’attenzione con cui legge non solo la rivista (e lo comprendo) ma anche i miei articoli, pur non ritrovandovisi appieno: è sempre segno di apertura e intelligenza confrontarsi con tesi diverse dalle proprie.

Provo poi brevemente ad abbozzare due risposte.

Calcolare il numero di abitanti delle civiltà antiche è sempre impresa difficile. Giuseppe Flavio, storico del I sec. d.C. che molti sospettano di ingigantire le cifre, parla di 7 milioni e mezzo di abitanti dell’intero Egitto al suo tempo. Di certo più di un millennio prima non potevano essere di più. Con questa cifra, la fuga di 600mila persone (non contando i bambini, Es 12,37), con tutto il loro bestiame, senza lasciare alcuna traccia nei documenti egizi, pare improbabile. Così come la loro peregrinazione per quaranta anni in un territorio desertico senza alcuna traccia archeologica in una zona quasi senza piogge. E diciamo «improbabile» solo perché gli storici non amano dire «impossibile». Alcuni storici e biblisti, addirittura, negano del tutto l’ipotesi di un’uscita dall’Egitto di tutto il popolo (le 12 tribù). I più preferiscono ritenere, come ho scritto anch’io, che almeno un piccolo gruppo (una sola tribù?) possa aver vissuto qualcosa di molto simile a quanto narrato dall’Esodo (un’opera recente, e di certo non estremista, è M. Priotto, «Esodo», Paoline 2014).

E avrebbero attraversato il mar Rosso dove? Dobbiamo essere onesti e ammettere che non sappiamo ricostruirlo. Un mare che però viene definito come «Mare delle canne», lascia intendere che, almeno in un suo tratto, debba essere davvero poco profondo e paludoso. L’attuale canale di Suez, d’altronde, sfrutta laghi e paludi che da millenni separano l’Egitto dal Sinai, e che potevano comunque essere mortali per una carovana di civili inseguita da una colonna militare.

Quanto ho provato a restituire, sia pure in dimensioni e con modalità proporzionate a un articolo di rivista, è ciò che la maggior parte di storici e biblisti oggi ritiene equilibrato e realistico. Ho abbreviato dubbi e precisazioni che sono normali nella ricerca storica antica, ma che ho pensato potessero annoiare un lettore non specialistico. Valutazione forse sbagliata, come le intelligenti domande del lettore indicano.

Angelo Fracchia
19/11/2021


MC a scuola

Gentile Direttore,
da alcuni anni sono abbonato alla bella rivista MC. Questa è la mia richiesta di «aiuto urgente», da professore, da educatore.

Nel mio liceo ad indirizzo linguistico sono programmate cinque mattinate full immersion su tematiche relativamente libere attorno alle quali [gli studenti] devono «crescere» proprio in capacità di vagliare criticamente fonti informative, saper poi schematizzare quanto appreso e saperlo comunicare ai compagni. La mia classe  ha deciso di mettere a confronto dichiarazioni ammirevoli di difesa dei diritti umani in Europa ed
il modo di attrezzarsi/reagire reale alle varie ondate di profughi/rifugiati/disperati che si affacciano alle diverse «porte       »: fra Marocco e Spagna; dal Maghreb; lungo il «corridoio balcanico»; sulle coste greche ed italiane; al confine della Bielorussia…. adesso di nuovo nel canale della Manica.

Un grande aiuto per noi sarebbe avere l’indicazione bibliografica precisa di eventuali articoli sul tema contenuti nella nostra rivista (servizi informativi di Paolo Moiola, per esempio, ma anche articoli ben focalizzati di Francesco Gesualdi che apprezzo particolarmente). Poter offrire le informazioni/riflessioni di una rivista caratterizzata da libertà di pensiero e grande umanità sarebbe per me fonte di gioia, di sorriso (27/11/2021).

Dopo una rapida risposta in merito, ecco un altro passaggio stimolante per noi di MC.

Ringrazio infinitamente del link di ricerca per MC sfogliabile. Lo ho appena scorso e ho visto l’agile ordinamento in annate e poi in numeri mensili e poi sfogliando la singola rivista e poi scaricare-stampare le singole pagine. Tutto molto ordinato, chiaro e veloce: sinceri complimenti da un professore. Ho visto anche che posso fare una ricerca per ogni singola rivista (digitando per esempio «Libia»). Ecco, però, mi azzardo a chiederle se non fosse possibile estendere una voce di ricerca ad un’intera annata (28/11/2021).

Alla conclusione della prima tappa della nostra maratona delle cinque mattinate, desidero esprimerle un ringraziamento per la presenza (spirituale e reale). La possibilità di accedere all’indice ragionato della rivista è stata cosa apprezzata da me e dagli studenti che hanno potuto «conoscere» una rivista sconosciuta andando anche oltre i loro pregiudizi adolescenziali (e secolari).

Grazie di cuore. Un caro saluto

Prof. Marco B.
Bolzano, 30/11/2021

 

Caro professor Marco,
mi permetto di condividere qui quanto lei ci ha scritto, perché è incoraggiante anche per noi della redazione. L’apprezzamento suo e dei suoi studenti ci invoglia a continuare nel nostro non facile servizio, senza cadere nella tentazione di piacere a tutti i costi.

Quanto alla possibilità di una ricerca ragionata e specifica estesa a tutta un’annata o a tutto lo sfogliabile, è un desiderio che portiamo nel cuore da tempo, anche perché sono diversi gli studenti universitari che hanno fatto ricerche sulle nostre riviste passate per le loro tesi di laurea.

Il sogno sarebbe di digitalizzare tutte le annate della rivista a cominciare del primo numero e mettere un adeguato motore di ricerca, ma i costi per questa operazione sono molto alti (almeno per le nostre possibilità) e così stiamo procedendo a piccoli passi.

Ovvio che se troviamo altri che sognano come noi, il sogno potrà avverarsi. Ogni bene a lei e ai suoi fantastici ragazzi.

 

Una vita fatta Missione

Il sindaco, dott. Luca Bertino, e il parroco, don Antonio Marino, a nome della comunità civile e parrocchiale di Nole (To), insieme agli amici del gruppo missionario esprimono il loro cordoglio per la scomparsa in Colombia del caro Baima padre Agostino, missionario della Consolata. Fu un religioso appassionato e gioioso, donò la sua vita per i più poveri, nelle missioni in Ecuador e Colombia. Molto legato alla sua terra di origine, quando tornava a Nole era sempre a disposizione di tutti con cuore generoso.

Federico Valle,
parrocchia di Nole, 26/11/2021

La mattina del 24 novembre 2021, padre Agostino Baima è morto nella città di Manizales (Colombia) poco più di un mese prima di compiere 82 anni di vita. Tutta la sua esistenza è stata marcata dall’avventura missionaria che lo ha accompagnato fino alla fine.

«La mia vita è praticamente questa, essere missionario. Vivo nella comunità dei Missionari della Consolata da 70 anni e la mia famiglia missionaria è come la mia vera famiglia», aveva detto solo pochi mesi fa.

Agostino era nato il 26 dicembre del 1939 nel seno di un’umile famiglia di Cirié, allora un piccolo paese della provincia di Torino, ultimo di una famiglia di quattro fratelli. Perse la madre quando aveva solo 5 mesi di vita. Forse senza saperlo, in quel momento la sua vita prese la via della missione perché la mamma, appena prima di morire, disse «questi miei figli non sono più miei, li ho offerti al Signore».

Ha dedicato i suoi ultimi anni al Santuario di Nostra Signora di Fatima a Manizales, da dove la comunità lo ha salutato con il cuore addolorato, ma anche pieno di gioia per vederlo arrivare alle sorgenti di quella missione per la quale aveva consacrato la vita.

Paula Martinez,
Manizales, 29/11/2021

Pubblichiamo solo queste poche righe, riservandoci di tornare a scrivere di questo missionario speciale nel prossimo numero.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Banche armate

Gentile redazione,
è da parecchi anni che leggiamo con interesse la vostra rivista, contenente articoli molto interessanti e scritti in modo chiaro e comprensibile a tutti. Nelle vostre pagine affrontate problemi attuali e scottanti. Ci aprite una finestra sul mondo che purtroppo gli altri organi di informazione non ci danno.

Una cosa sola ci lascia un po’ perplessi e ci induce a farvi questo appunto: la scelta delle banche a cui vi appoggiate per i versamenti e le donazioni. Si tratta della banca Intesa San Paolo e di Unicredit Banca. Leggendo anche altre riviste missionarie ed informandoci un po’ sulla questione siamo venuti a conoscenza che i due istituti sopracitati sono ai primi posti nella lista delle «banche armate», ossia delle banche che utilizzano parte dei loro soldi per finanziare la produzione e la commercializzazione di armamenti (vedi legge 185/1990 sulla trasparenza ed il controllo del commercio italiano di armamenti). Ci parrebbe una scelta migliore, per una rivista come la vostra, affidarsi ad altre banche, in particolare a Banca Etica.

Confidando nel fatto che questa nostra lettera vi faccia riflettere sulla questione, vi auguriamo buon lavoro e lunga vita alla vostra bella rivista.

Fabio Vigolo e Gaianigo  R. Patrizia
Cornedo Vicentino, 15/09/2021

Cari Fabio e Patrizia,
grazie di averci scritto. Il disagio che voi provate è anche il nostro. Non vi so dire quante volte in questi anni di servizio a MC abbiamo discusso la questione, bloccati però da problemi oggettivi di gestione e servizi. Ma oggi, finalmente, sono in condizione di dirvi che da questo mese siamo con Banca Etica, di cui, tra l’altro, siamo diventati soci. Trovate i dati cliccando qui..

È un passo che desideravamo da tempo, ed era dovuto anche a tanti nostri missionari che hanno lavorato o lavorano in «contesti armati», tra i quali ricordo padre Guerrino Prandelli, saltato su una mina in Mozambico nel 1972, e i nostri confratelli da pochi anni a Luacano, in Angola, una vastissima area ancora infestata dalle mine della lunga guerra civile. Senza dimenticare quelli che stanno ricostruendo il tessuto sociale e religioso dei 30mila km2 delle missioni di Fingoé e Uncanha in Mozambico, dove per anni guerriglia e controguerriglia hanno distrutto ogni cosa.

Troppi fucili circolano anche nel Nord del Kenya, come ci ricorda mons. Virgilio Pante di Maralal. Per non parlare di Colombia e Messico, dove i nostri missionari operano attivamente per la pace; delle bande armate del Congo Rd che rapinano le materie prime in zone dove i nostri missionari hanno dovuto abbandonare le missioni ai confini con il Sudan per la totale insicurezza. Senza dimenticare la guerra in atto in Etiopia. E questi non sono che effetti marginali di una corsa agli armamenti che sta esplodendo nonostante l’aumento della consapevolezza a livello di base e i continui appelli di papa Francesco.

Purtroppo, passare a Banca Etica non basta a risolvere il problema degli armamenti, che sono finanziati anche attraverso i più insospettabili canali di un mondo finanziario che è fuori dal controllo dei governi e anche dell’Onu. Ma siamo lieti di poter fare questo passo e desideriamo che Banca Etica possa crescere e offrire tutti quei servizi che sono necessari a organizzazioni umanitarie e non profit come la nostra.

 

Strade impensate

Caro padre Gigi,
ho letto l’editoriale «Come un seme» del mese di ottobre e prima di tutto mi congratulo per il traguardo del cinquantesimo di vita missionaria. Condivido in gran parte le riflessioni che esprimi e che suggeriscono come l’incontro tra il nostro spirito, spesso disorientato, e lo Spirito che ha doni infiniti ci incammini lungo strade impensate in cui ci si imbatte in imprevisti spesso sorprendenti che segnalano l’azione invisibile e creativa di tale Spirito, senza escludere anche la fantasia del nostro pensare ed agire. Credo che la fede abbia a che fare spesso con la paradossalità come avviene leggendo tanti episodi della Sacra Scrittura come, ad esempio, quelli di Anna, madre di Samuele, Elisabetta e Maria, tutte donne che diventano madri in modo inspiegabile rispetto ai canoni della natura. Un saluto riconoscente!

Milva Capoia
01/10/2021

Commemorazione di padre Lugi Graiff nel 40° dell’uccisione – la mostra in piazza

Ricordando padre Zizoti

Il 22 agosto 2021 la comunità di Romeno, in provincia di Trento, ha ricordato il compaesano padre Luigi Graiff, missionario della Consolata, assassinato nel 1981 in Kenya. Ricorre infatti quest’anno il 100° anniversario della nascita e il 40° della morte del nostro concittadino.

La ricorrenza, nonostante le difficoltà indotte dalla pandemia di Covid-19 e con le dovute precauzioni anticontagio, ha visto la partecipazione di numerose persone e autorità e la presenza dei molti nipoti e pronipoti del missionario martire della carità.

La cerimonia di ricordo è stata tenuta nella chiesa parrocchiale di Romeno, dove lui è stato battezzato e dove ha celebrato la prima Messa. L’arcivescovo di Trento, mons. Lauro Tisi, ha presieduto la concelebrazione con altri dieci sacerdoti, fra i quali il parroco don Carlo Crepaz e i confratelli missionari padre Claudio Fattor (compaesano), padre Mario Lacchin, che è stato missionario in Kenya con padre Luigi, e padre Gigi Anataloni (direttore di MC), e altri sacerdoti della zona. Presente in streaming anche il missionario di Romeno padre Aldo Giuliani in collegamento dalle Montagne del Sogno in Kenya, non lontano dal Lago Turkana.

Dopo la messa, il sindaco di Romeno Luca Fattor, nipote del compianto padre Ettore Fattor già missionario della Consolata in Brasile, ha illustrato la figura di padre Graiff e poi padre Gigi ha delineato le ragioni e il contesto storico e sociale che hanno portato l’Istituto della Consolata nel Nord del Kenya e ha sottolineanto il particolare stile missionario di amore per i poveri vissuto fino in fondo da padre Luigi su ispirazione del fondatore, il beato Giuseppe Allamano.

Nell’occasione, il gruppo missionario di Romeno, promotore dell’evento, ha allestito un percorso illustrativo composto da 12 poster, per raccontare con foto e testi la vita e l’opera di padre Luigi Graiff. I pannelli dei poster sono stati messi a disposizione dell’arcivescovo per essere esposti nelle varie comunità del Trentino. I poster sono stati riprodotti, insieme ad altri articoli relativi alla figura di Padre Luigi, in un opuscolo distribuito ai presenti, e che porta il titolo: Padre Zizoti raccontato dai suoi compaesani (padre Aldo Giuliani, sen. dr. Candido Rosati, maestra Rita Zucali).

Dott. Andrea Graiff, nipote

Ringrazio la comunità di Romeno, così ricca di missionari – Camillo Calliari (baba Camillo) in Tanzania, Claudio Fattor in Brasile e oggi in Italia, Aldo Giuliani a Sererit in Kenya, Ettore Fattor Luigi in Brasile +2013 – per il dono di questa commemorazione che mi ha fatto riscoprire un missionario dal cuore grande e generoso.
(vedi MC ottobre 2021)

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Uncanha, vita nuova

Carissimi,
a tutti voi un caro saluto e l’augurio di ogni bene in questo nuovo Natale, mentre un altro anno volge al termine, carico di momenti belli e meno belli, ma tutti sono parte della nostra vita, della nostra storia e sono pieni della speranza che ci è data da quel Gesù che ha cambiato il modo di vedere le cose e gli avvenimenti: il cristiano non può prescindere da questo, anche quando costa.

Mi trovo in una zona isolata del Mozambico, dove i Missionari della Consolata avevano cominciato l’evangelizzazione quasi 100 anni fa, nel 1926, poco prima della morte del Fondatore. Pochi anni dopo, per motivi di forza maggiore, avevano lasciato quei luoghi, pur rimanendo nel Niassa, al Nord del Mozambico. Attualmente sono nella missione parrocchia di Uncanha, nell’altipiano di Marávia (Diocesi di Tete). Una realtà bella e verde, anche se per 6-7 mesi all’anno non si vede una goccia di pioggia e il paesaggio cambia e i suoi colori passano dalle tonalità verdi a quelle gialle e nere dei tempi secchi e degli incendi. La gente è Bantu dell’etnia Massenga, anche se non mancano altre lingue e etnie soprattutto verso il fiume Zambezi.

Per diverse ragioni (politiche, belliche, ideologiche, vocazionali, economiche, di isolamento e salute) quella che era una delle prime zone evangelizzate, non ha mai avuto la fortuna di una pastorale continuativa. Nonostante decadi di isolamento e assistenza spirituale saltuaria (una visita all’anno), è rimasto un germoglio che, grazie al lavoro arduo e in condizioni difficili di alcuni missionari, ha dato vita a una Chiesa in crescita. I Missionari della Consolata sono ritornati in zona nel 2013 e a Uncanha nel 2018, con padre Franco Gioda (vedi a pag. 58) che più di tutti ha dato un impulso missionario. Noi cerchiamo di continuare nel piccolo il cammino intrapreso.

Qui tutto parla di missione, si vive la missione con tutte le difficoltà che porta con sé, perché iniziare, seminare il Vangelo, non è sempre facile. Cosa dici? In quale lingua? Con quali idee? Con quale zaino o valigia? Con che stile?

A fine settembre sono andato a visitare la zona di Chawalo; ero già stato nel 2019 a Nhansunga, ma le altre comunità avevano visto un prete solo nel 2016. Purtroppo quelli di Mpembe non erano stati avvisati e così dovranno aspettare un altro anno, ma, sorpresa, ho trovato una nuova comunità, Jemussi, che il catechista Francisco aveva iniziato facendo oltre 20 km a piedi in una zona di savana e sabbia. Le difficoltà alla frontiera con lo Zambia, il viaggio in 10 nella vecchia Corolla per 60 km oltrefrontiera, le due ore a piedi ormai alla luce del telefonino, il passaggio del fiume in canoa al buio per rientrare in Mozambico, non erano niente al confronto della gioia dei cristiani, catecumeni e simpatizzanti nel vedersi visitati e soprattutto con la bellezza di vedere nascere piccoli segni di speranza in queste nuove comunità che accolgono l’Emmanuele, il Dio con noi, che ci visita. È Natale. Francisco è stato formato per un anno con la sua famiglia nel centro catechistico; è giovane e con buono spirito missionario. Gli abbiamo lasciato i soldi per comprare una bicicletta. Se lo merita e se lo meritano i catecumeni che aspettano la sua visita.

Quest’anno al centro catechistico di Uncanha verrà una famiglia proprio da Chawalo, quella di Nixon. Senza di loro, il nostro sarebbe un correre a vuoto. Quell’antiquum ministerium, rispolverato ultimamente anche in un documento di papa Francesco, è fondamentale ed è per questo che ad Uncanha, con padre Gioda, avevamo iniziato per i catechisti un corso annuale, familiare e in lingua locale, che portiamo ancora avanti, finché ci sarà possibile. Grazie anche a voi. Ciao, Buon Natale e Buon 2022.

padre Carlo Biella
Uncanha, Mozambico

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Noi e Voi

Ai nostri missionari

Invio la foto della targa che è stata collocata nella Villa Pisani di Biadene (Tv), nel corridoio di entrata al teatro Binotto, in ricordo della loro scuola/seminario nell’immediato dopo guerra, su iniziativa di Fondazione Contea.

Gino Merlo
dell’associazioneAvi di Montebelluna (Tv) – 14/06/2021

Grazie per la segnalazione del bel gesto della Fondazione Contea. Anche se abbiamo lasciato Biadene, dove siamo stati dal 1949 al 1981, il cuore di molti missionari è sempre legato a quel luogo, così caro a tanti, soprattutto per l’affetto e la sintonia vissuti con la comunità locale.

Ringraziamo con due immagini: una visione del complesso della villa dove quella che era la chiesa è ora il teatro, e una foto di gruppo dei seminaristi del 1951-52.


Un dossier per agire

Problemi ambientali, soluzioni sociali

Si scrive sostenibilità, si pronuncia equità: così potrebbe essere sintetizzato il dossier infografico realizzato dal Centro nuovo modello di sviluppo in collaborazione con Riccardo Mastini, ricercatore in ecologia politica all’Università autonoma di Barcellona, e che ha per titolo Problemi ambientali, scelte sociali. Siamo abituati a pensare che la questione climatica, e più in generale la problematica ambientale, richieda solo interventi di carattere tecnologico, tutt’al più nuovi stili di vita; in realtà impone anche scelte di carattere fiscale e di spesa pubblica, perché questione ambientale e questione sociale sono intimamente intrecciate fra loro.

Degrado ambientale e tenore di vita

Per cominciare, la responsabilità del degrado ambientale è diversificata in base al tenore di vita. Basti dire che a livello mondiale il 10% della popolazione più ricca è responsabile del 49% di CO2 emessa. L’1% da solo è responsabile addirittura del 15%. Per contro, il 50% più povero contribuisce solo al 7% delle emissioni globali. Le stesse disparità le riscontriamo anche a livello di singole nazioni. Nell’Unione europea l’impronta pro capite di anidride carbonica dell’1% più ricco corrisponde a 55 tonnellate all’anno. Quella del 50% più povero è undici volte più bassa.

Nel valutare quali misure assumere per porre un freno alle emissioni di anidride carbonica, occorre considerare che nella nostra società c’è chi può decidere come vivere e chi invece lo deve subire. Chi si trova in povertà non può scegliere se vivere in centro o in periferia, se mangiare biologico o cibo spazzatura, se avere la casa coibentata o ad alta dispersione termica. Deve semplicemente adottare lo stile di vita meno dispendioso. Che non è automaticamente il meno impattante.

Povertà e ambiente

Molti poveri, ad esempio, sono costretti a vivere in periferia dove gli affitti sono generalmente più bassi, ma dove, contemporaneamente, mancano servizi essenziali (scuole, negozi, presidi medici) e trasporti pubblici. Di conseguenza l’auto si rende indispensabile con inevitabile aumento dell’impronta di carbonio. E arriviamo all’assurdo che al di sotto di certi livelli di reddito, l’impronta ambientale non è determinata dalla ricchezza, ma dal livello di povertà che non lascia possibilità di scelta come invece hanno i facoltosi.

Se sei così ricco da poterti permettere un’automobile di alta cilindrata, allora sei anche sufficientemente ricco da poterti permettere una vita senza automobile. I soldi ti permettono di scegliere il tuo stile di vita, e se finisci per condurne uno ad alto impatto ambientale, ne sei responsabile. Non altrettanto per i più poveri la cui mancanza di libertà annulla anche la responsabilità per le conseguenze che la loro vita arreca all’ambiente.

E a dimostrazione di come per i più poveri non esista una diretta correlazione fra impronta di carbonio e responsabilità, c’è il fatto che molti di loro hanno chiaro che investire in incrementi di efficienza per la propria casa, per i propri elettrodomestici e per la propria vettura può fare la differenza. Molti sanno che a parità di consumi, una famiglia che vive in una casa ben coibentata e utilizza elettrodomestici e veicoli ad alta efficienza energetica può arrivare a produrre fino a tre volte meno emissioni climalteranti rispetto a una famiglia costretta a utilizzare beni a bassa efficienza. Ma pur sapendolo non investono in innovazione perché non hanno i soldi per farlo.

Fisco che compensa

Le proteste dei gilet jaunes vanno lette in questa prospettiva. Vogliono dirci che le misure fiscali per ridurre il consumo di benzina e di elettricità si trasformano in misure contro i poveri se non sono accompagnate da maggiori servizi e da adeguati contributi alle ristrutturazioni.

Considerato il ruolo centrale giocato dalla collettività per il raggiungimento di una sostenibilità che non lasci indietro nessuno, è fondamentale garantirle tutto il denaro che serve per lo svolgimento delle proprie funzioni. Per questo il sistema fiscale assume importanza strategica, tanto più che non serve solo a raccogliere denaro per le casse pubbliche, ma anche a ristabilire equità fra cittadini e a orientare i comportamenti di famiglie e imprese affinché le loro scelte di consumo e di produzione non entrino in rotta di collisione con l’interesse generale.

Ecco perché è arrivato il tempo di porre con forza una seria riforma del fisco coerente con l’articolo 53 della Costituzione. Ossia che ogni forma di ricchezza (reddito, patrimoni, eredità) siano tassati secondo criteri di progressività e cumulo. Ricordandoci che i tre individui più ricchi d’Italia possiedono la stessa ricchezza del 10% più povero, ossia sei milioni di persone. Disuguaglianze che pesano come macigni e che paghiamo su tutti i piani: umano, sociale e ambientale.

Centro nuovo modello  di sviluppo

A proposito delle «briciole dei ricchi»

Gentile redazione,
mi è capitata tra le mani una copia del numero di giugno della vostra rivista (oserei dire nostra, perché ho appena fatto una donazione per riceverla a casa) e mi è piaciuta moltissimo.

Ho letto, ad esempio, gli articoli sul Sudafrica, e sono rimasto impressionato favorevolmente dalla lucidità e onestà intellettuale con le quali scrivete di quel paese che un pochino conosco tramite un amico sudafricano. Siete davvero in gamba! Ma tutta la rivista è davvero «ok».

In ultimo ho letto l’articolo di Francesco Gesualdi: «Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale», alla fine della lettura ho pensato di scrivervi qualcosa nel merito. Senza la pretesa che lo pubblichiate. Vedete voi!

A proposito del capitalismo compassionevole

Nel merito: sono d’accordo su tutta la linea rispetto al «capitalismo compassionevole», al fatto che in realtà il capitalismo internazionale non vuole «lacci e lacciuoli» come si diceva anni fa quando l’amministrazione Clinton negli Usa per prima (forse) ha tolto questi lacci permettendo, di fatto, qualsiasi cosa al capitalismo internazionale, senza parlare poi dell’aggressività dei fondi sovrani cinesi, ecc.

Sono molto d’accordo sulla redistribuzione equa degli utili per una democrazia economica (e non solo) vera e inclusiva in tutto il mondo. Ho qualche perplessità sulle modalità necessarie per raggiungere l’obiettivo. Mi riferisco alla classica idea di tassare i ricchi, anche con una patrimoniale, per, appunto, redistribuire. Idea che sarebbe assolutamente condivisibile (anche qui se vivessimo ancora nel ‘900 con gli stati che da soli o quasi potevano determinare in buona parte il proprio divenire economico e sociale).

Purtroppo, non è più possibile ragionare in questi termini: tassazioni importanti e patrimoniale finirebbero soltanto per favorire la «fuga» di imprese e capitali all’estero. Paradisi fiscali compresi, anche quelli di casa nostra, nella stessa Unione europea.

Il potere delle multinazionali e dei grandi gruppi di investimento internazionali è tale che nessuno stato (tolti forse gli Usa da un lato e la Cina dall’altro che non sono realmente interessati al problema) ha il potere di condizionarli in un modo o nell’altro. Gruppi di potere quasi occulti quali il Bildenberg (occulti nel senso che nessun giornalista può o osa dire che cosa si dicono quando si riuniscono per decidere i nostri destini in base al loro interesse) di fatto condizionano le scelte politiche degli stati in un senso o nell’altro.

La globalizzazione è solo, o quasi, per i «ricchi». Noi poveri da un lato e la cosiddetta classe media (che non può scappare all’estero) dall’altro, la subiamo. Ad esempio, una nuova patrimoniale colpirebbe, alla fin fine, questi ultimi già sufficientemente vessati.

Altre soluzioni? Magari chiudere il mercato e creare una forma di autarchia europea contro la Cina. Certo (tolto un periodo di assestamento magari doloroso) non avremmo bisogno di nessuno per avere e produrre quello che ci serve e nel contempo potremmo mantenere rapporti il più possibile equi e paritari con il Terzo Mondo. Ma non credo sia possibile. Anche i nostri capitalisti o grandi imprese, per il loro interesse, vogliono la globalizzazione e vogliono i mercati aperti nei confronti della Cina (ad esempio la variante Covid Delta sta bloccando i porti cinesi e ne sentiremo le conseguenze), infatti ormai, per il guadagno di pochi, siamo legati a loro a doppio filo.

C’è anche la tassazione dei giganti del web… ma non scherziamo! Condizionano anch’essi gli stati a loro piacimento con l’aiuto degli Usa (e non solo) che fanno finta di volerli tassare.

Una soluzione forse praticabile sarebbe di trattenere in Italia (parlando di casa nostra) le imprese, abbassando la tassazione in cambio di assunzioni che compenserebbero almeno in parte le perdite dell’erario ma favorirebbero l’occupazione. Niente di nuovo, mi direte. Ma paesi come l’Irlanda, la Svizzera e molti altri hanno tratto grande benefico da scelte del genere.

Mi spiego. Se ad un’impresa (che, vivaddio, magari paga le tasse) che deve versare, ad esempio, tre milioni l’anno allo stato, si dicesse: un milione tienitelo ma devi assumere in modo che due milioni lo stato li veda rientrare con le tasse sui nuovi dipendenti? È noto che in Italia (per motivi di mentalità e di costo del lavoro) si tende ad avere meno dipendenti che in altri paesi.

Mi rendo conto che detta così si tratta di una proposta un po’ naif. Ma ci si potrebbe ragionare magari insieme ad una vera riforma della Giustizia, della Pubblica amministrazione, ecc.

Non sono un esperto. Non sono sicuramente all’altezza di chi ha scritto l’articolo. In sintesi, volevo solo dire che, a parer mio, certe ricette non funzionano più e bisogna avere il coraggio di pensarne di nuove!

A voi, pensatori ed economisti non asserviti, sta di aiutarci. A noi la presa di coscienza e la lotta non violenta ma decisa per mondo più giusto e solidale.

Grazie anche solo se qualcuno leggerà questa lettera. Avanti così con la vostra bellissima rivista!

Marcello Poggi
Genova, 14/06/2021




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Proibire le armi nucleari

Un forte appello a Governo e Parlamento dai Presidenti e dai Responsabili nazionali di

Acli, Azione cattolica italiana, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Movimento dei Focolari Italia, Pax Christi, Fraternità di Comunione e Liberazione, Comunità di Sant’Egidio, Sermig, Gruppo Abele, Libera, Agesci, Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale), Argomenti 2000, Rondine-Cittadella della Pace, Mcl (Movimento Cristiano Lavoratori), Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli, Città dell’Uomo, Amici di Raoul Follerau, Associazione Teologica Italiana, Coordinamento delle Teologhe Italiane, Focsiv (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario), Centro Internazionale Hélder Câmara, Centro Italiano Femminile, Csi (Centro Sportivo Italiano), La Rosa Bianca, Masci (Movimento adulti scout cattolici italiani), Fondazione Giorgio La Pira, Fondazione Ernesto Balducci, Fondazione Don Primo Mazzolari, Fondazione Don Lorenzo Milani, Comitato per una Civiltà dell’Amore, Movimento Cattolico Mondiale per il Clima, Federazione Stampa Missionaria Italiana (a cui è associata MC), Rete Viandanti, Noi Siamo Chiesa, Beati i Costruttori di Pace, Fraternità francescana frate Jacopa, Comunità Cristiane di Base, Associazione delle Famiglie Italiane.

L’Italia ratifichi il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari

Il 22 gennaio 2021, al termine dei 90 giorni previsti dopo la 50esima ratifica, il «Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari» è diventato giuridicamente vincolante per tutti i Paesi che l’hanno firmato.

Questo Trattato, che era stato votato dall’Onu nel luglio 2017 da 122 Paesi, rende ora illegale, negli Stati che l’hanno sottoscritto, l’uso, lo sviluppo, i test, la produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, l’immagazzinamento, l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari.

Il nostro Paese non ha né firmato il Trattato in occasione della sua adozione da parte delle Nazioni Unite, né l’ha successivamente ratificato. Tra i primi firmatari di questo Trattato vi è invece la Santa Sede.

In Italia, nelle basi di Aviano (Pordenone) e di Ghedi (Brescia), sono presenti una quarantina di ordigni nucleari (B61). E nella base di Ghedi si stanno ampliando le strutture per poter ospitare i nuovi cacciabombardieri F35, ognuno dal costo di almeno 155 milioni di euro, in grado di trasportare nuovi ordigni atomici ancora più potenti (B61-12).

Il nostro Paese si è impegnato ad acquistare 90 cacciabombardieri F35 per una spesa complessiva di oltre 14 miliardi di euro, cui vanno aggiunti i costi di manutenzione e quelli relativi alla loro operatività.

Le armi nucleari sono armi di distruzione di massa, dunque, in quanto tali, eticamente inaccettabili, come ci ha ricordato anche papa Francesco in occasione della sua visita in Giappone domenica 24 novembre 2019, a Hiroshima. «Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati per questo. Le nuove generazioni si alzeranno come giudici della nostra disfatta se abbiamo parlato di pace ma non l’abbiamo realizzata con le nostre azioni tra i popoli della terra».

Il 22 gennaio 2021 autorevoli esponenti della Chiesa cattolica di tutto il mondo, tra i quali il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e mons. Giovanni Ricchiuti, arcivescovo della diocesi di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti e presidente di Pax Christi Italia, hanno sottoscritto a loro volta un appello in cui «esortano i Governi a firmare e ratificare il Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari», sostenendo in questo «la leadership che papa Francesco sta esercitando a favore del disarmo nucleare». Altri vescovi italiani si sono espressi pubblicamente in questa direzione e anche numerose sedi locali delle nostre associazioni e dei nostri movimenti hanno fatto altrettanto.

A tutti questi appelli, unendoci convintamente alla Campagna nazionale «Italia ripensaci», che ha registrato una vasta e forte mobilitazione su questo argomento, aggiungiamo ora il nostro e chiediamo a voce alta al Governo e al Parlamento che il nostro Paese ratifichi il Trattato Onu di Proibizione delle Armi Nucleari.

La pace non può essere raggiunta attraverso la minaccia dell’annientamento totale, bensì attraverso il dialogo e la cooperazione internazionale.

«La pandemia è ancora in pieno corso; la crisi sociale ed economica è molto pesante, specialmente per i più poveri; malgrado questo – ed è scandaloso – non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari. E questo è lo scandalo di oggi».

Questa iniziativa, avviata il 25 aprile 2021, viene chiusa idealmente il 2 giugno 2021 con lo slogan «Per una Repubblica libera dalle armi nucleari».

seguono le firme dei  40 presidenti o segretari delle associazioni firmatarie e quelle di molti altri gruppi o associazioni che aderiscono
Già pubblicata il 27 maggio scorso, quando anche la Federaziane della Stampa missionaria ha aderito

 


Ricordando Abba Paulos

Paolo p Angheben

L’8 maggio scorso padre Paolo Angheben è deceduto ad Addis Abeba (Etiopia) dopo una breve e improvvisa malattia di Covid-19. Per giorni le sue condizioni sono state seguite con affetto e preghiera sia dalla gente della sua missione, Gighessa, che dai tanti amici con cui ha condiviso il suo cammino missionario e sacerdotale. Nato nel 1946 a Riva di Vallarsa (Tn), ha fatto i voti come missionario della Consolata nel 1968 alla Certosa di Pesio (Cn), ordinato sacerdote al suo paese nel 1974, è subito stato mandato in Etiopia, dove è rimasto fino alla morte eccetto i sei anni passati in Certosa di Pesio dal 1994 al 2000. I superiori avevano già pianificato il suo rientro in Italia, ma una chiamata più impellente lo ha invitato a far festa con i santi, in compagnia del beato Allamano e di tanti altri missionari che lo hanno preceduto.

L’irripetibilità di un incontro

La notizia della morte di padre Paolo Angheben mi ha profondamente addolorata per la sua grandezza come uomo, come sacerdote e come missionario che ha donato la sua vita alla popolazione dell’Etiopia, curandone tutti gli aspetti, da quello esistenziale a quello religioso e vocazionale.

Ho incontrato padre Paolo Angheben una sola volta nell’estate del 1999 alla Certosa di Pesio, ma tale incontro ha lasciato una traccia indelebile nella mia vita. Stavo trascorrendo lì alcuni giorni di riposo, invitata da padre Francesco Peyron, per ridefinire il cammino della fede e recuperare energie in vista della ripresa del mio lavoro, dedicando del tempo alla preghiera e alla meditazione, in un contesto caratterizzato da semplice e calorosa accoglienza, in compagnia di molte persone con percorsi di fede diversificati, con le sante Messe celebrate in orario preserale frequentate da tutti gli ospiti in modo attivo, con un cielo azzurro terso di giorno e stellato di notte, un paesaggio con piante verdi rigogliose e i profili delle Alpi Marittime all’orizzonte.

Fin dal primo giorno avevo notato come padre Paolo avesse incontri frequenti e accogliesse con  un largo sorriso, regalando disponibilità e sapienza. Ho scambiato con lui qualche considerazione su come la fede debba incarnarsi nella quotidianità rispondendo al desiderio di Dio che ogni uomo si salvi e si santifichi, in quanto da Lui desiderato. Abbiamo anche riflettuto sulla non linearità di tale percorso, contrastato a volte dalla individuale fragilità e a volte dagli eventi esterni. È rimasto indelebile in me il confronto con un uomo di profonda fede, consapevole della complessità di tale scelta in ogni situazione, in particolare nell’ambito missionario in cui si intrecciano la promozione umana e l’annuncio della Parola di Dio; conservo in me il dono di aver vissuto un incontro irripetibile con una persona di grande umanità, singolare eleganza e particolare dignità.

Milva Capoia
18 maggio 2021

2019-07-14 salita al Marguareis, padre Paolo Angheben

Testimonianze dall’Etiopia

Traduciamo qui alcuni commenti ricevuti dall’Etiopia nei giorni successivi all’annuncio della morte di padre Paolo.

  1. 1. «Abba Paulos, hai ricevuto da Dio il dono di essere guida spirituale; ora il Signore ti ha ripreso a stare nella sua gloria. Ora che sei alla presenza di Dio, intercedi per noi».
  2. «Abba Paulos è stato un buon esempio di sacerdote missionario. Avendo visto la sua semplicità, mi piace ricordare il versetto “lasciate che i bambini vengano a me, perché di essi è il Regno dei cieli”».
  3. «Abba Paulos, manchi tanto a tutti noi qui in Etiopia. Tu sei stato il nostro padre spirituale, il nostro punto di riferimento quando ci sentivamo aridi spiritualmente e avevamo bisogno di essere ricaricati. Sei stato un’icona di vero missionario che ha assunto la vita, la cultura, la lingua di coloro ai quali sei stato mandato. Noi sacerdoti e l’intera comunità cattolica dell’Etiopia sentiamo fortemente la tua mancanza, ma è incoraggiante e di conforto aver avuto un prete santo come te in mezzo a noi. Noi crediamo davvero che tu abbia “combattuto la buona battaglia, terminato la corsa, conservato la fede” e che riceverai la “corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, ti darà quel giorno” (cfr 2 Tim 4,7-8)».
  4. «Abba, tu sei stato per noi molto di più di quanto tu abbia creduto. Noi di Gighessa siamo frutto del tuo lavoro e della tua fatica. Tu hai fatto la tua parte fino alla fine. Rimani nei nostri cuori sempre. Riposa in pace. Rimarrai nel cuore di molte persone. Tu hai segnato il cuore, la mente e anche il lavoro di molti. Che la tua partenza ci renda ancora più determinati a continuare il tuo lavoro».

dal gruppo «Abba Paulos»

 


Nadim e Afghanistan

Gentile redazione,
l’articolo di Simona Carnino è bellissimo (MC 04/2021). I protagonisti della storia dovrebbero essere i primi in corridoi umanitari. Che cosa pensare di Civil society human rights network? Che conclusione tirare? Che ogni persona onesta e coraggiosa deve arrendersi e scappare da lì?

Il giovane Nadim ha tentato e si è arreso. Auguriamo ogni fortuna in Germania a questa famigliola. E cosa pensare dell’Afghanistan? Probabilmente che resti il peggior posto del mondo (e che da lì non esca più nessuno?).

Carlo May

Abbiamo passato l’email all’autrice dell’articolo. Ecco la sua risposta.

Gentile Carlo,
grazie per il suo messaggio e anche per la simpatia dimostrata per Nadim, Fawkia e Tamkin. Leggo sgomento e sensibilità tra le sue righe e la necessità di avere una risposta non filtrata. Per questo motivo, ho tradotto il suo messaggio in inglese e l’ho mandato a Nadim. Provo a tradurle di seguito la sua risposta.

«Ciao Carlo, grazie per il messaggio, che mi ha reso il giorno migliore. Presto l’Afghanistan vivrà tempi ancora più bui. Gli Stati Uniti sono andati in Afghanistan per i propri interessi personali e molti conflitti si sono generati proprio a causa loro. Però ora la ritirata delle truppe Usa dall’Afghanistan non genererà un miglioramento, perché si creeranno nuovi conflitti interni e a nessuno interesserà nulla.

Il Civil society human rights network continua a lavorare, ma gli attivisti rischiano la vita. Se guardi i ranking internazionali, l’Afghanistan è sempre agli ultimi posti per diritti umani, denutrizione ecc., ma è ai primi posti per corruzione. Credimi se ti dico che appena l’Afghanistan sarà un po’ più sicuro e io potrò combattere per i diritti umani, tornerò subito là».

Simona Carnino
21/05/2021


Errori

Guardando all’ultimo numero, proprio in queste pagine, trovate diversi errori, sfuggiti (questa volta come altre) nonostante l’impegno nelle correzioni. Non è grande consolazione trovarne anche in altre pubblicazioni con più personale e mezzi di noi. Diventano un invito all’umiltà e a prendere coscienza dei nostri limiti.

Vi riporto qui il testo che abbiamo su un quadretto appeso in redazione, regalo di una tipografia tanti anni fa.

«L’errore tipografico è una cosa maligna, | lo si cerca e perseguita, ma esso se la svigna. | Finché la forma è in macchina si tiene ben celato, | si nasconde negli angoli, par che trattenga il fiato. | Neppure il microscopio al scorgerlo è bastante, | prima; ma dopo esso diventa un elefante. | Il povero tipografo inorridisce e freme | e il correttor colpevole il capo abbassa e geme, | perché se pur dell’opera tutto il resto è perfetto, | si guarda con rammarico soltanto a quel difetto».

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Iqbal Masih

Caro padre,
le allego il testo, rimaneggiato, che ho scritto su Iqbal Masih ed è stato pubblicato da Avvenire l’anno scorso in occasione dei 25 anni dal suo martirio (il 16 aprile 1995). Lo ripropongo a voi come stimolo al contributo della Chiesa nella mobilitazione contro lo sfruttamento del lavoro minorile in questo anno 2021 che l’Onu dedica all’eliminazione del lavoro minorile nel mondo. Grazie per l’attenzione e per la rivista: una lettura alternativa sulle criticità e speranze mondiali, apprezzata più di altre dal sottoscritto di cultura laica e di orientamento comunista. Cordiali saluti

Giovanni Seclì
Lecce, 30/04/2021

Volentieri riporto qui quanto scritto dal sig. Giovanni. La realtà del lavoro minorile – a cui abbiamo dedicato «Cooperando» del mese di aprile – è ancora una piaga aperta. Come Iqbal, altri ragazzi e ragazze di quel paese, e non solo, hanno pagato (e continuano a pagare) con la vita o la prigione, il diritto a un’infanzia senza lavoro schiavo e senza matrimoni precoci, liberi di andare a scuola per una buona educazione e di celebrare la loro fede senza paura di persecuzioni.
(Titoletti e note sono nostri).

Agnello pasquale

Nel giorno di Pasqua del 1995 veniva ucciso in Pakistan Iqbal Masih di soli 12 anni. Già era diventato testimone-simbolo mondiale (quando nel 1994 aveva ricevuto il Reebook Human rights award a Boston negli Usa, ndr) della lotta contro lo sfruttamento schiavistico di centinaia di milioni di bambini solo in Asia. La sua uccisione lo ha trasformato in martire: sia per il suo impegno sociale a favore dei bambini dall’«infanzia negata» e contro lo sfruttamento dei lavoratori, sia per il suo essere un cattolico della Chiesa caldea.

Sicuramente la sua appartenenza alal Chiesa, legata alla sua educazione familiare, professata in situazione di emarginazione socioreligiosa (la comunità cristiana è soprattutto composta da persone delle caste inferiori che fanno i lavori più umili), aveva alimentato e sorretto la sua indignazione contro le ingiustizie e la sua eroica lotta per l’emancipazione umana di bambini strumenti-schiavi della produzione. Probabilmente la sua testimonianza cristiana era stata una concausa delle dinamiche che avevano favorito l’assassinio.

In quel giorno di Pasqua di 26 anni fa (16 aprile 1995) mentre in bicicletta andava a messa – così si tramanda (putroppo non esiste una versione coerente di quanto è successo, ndr) – Iqbal è stato strappato dalla terra per risorgere nella memoria e nel cuore di miliardi di esseri umani, rigenerando in essi il messaggio universale di liberazione umana.

Schiavo a 5 anni

La sua condizione di vita sfruttata – a partire dai 5 anni in una fabbrica di mattoni, per proseguire in una di tappeti, venduto dalla famiglia indigente (per un debito di poco più di 7 dollari, ndr) – si era trasformata a 10 anni in denuncia e in testimonianza, smuovendo l’opinione pubblica internazionale e favorendo alcuni provvedimenti politici nel Pakistan (e non solo) di limitazione delle pesanti condizioni di lavoro minorile, a danno soprattutto di schiavi-bambini, secondo una prassi secolare perpetrata da proprietari di laboratori tessili di tappeti e di altri settori di lavoro ancor più duro.

Intolleranza religiosa

Il conseguente risentimento nei suoi confronti probabilmente era stato accentuato dal clima di intolleranza religiosa prevalente in Pakistan (soprattutto con l’introduzione della Sharja nel 1991) verso la minoranza cristiana, presente in particolare nella regione del Punjab; situazione purtroppo perdurante anche nel XXI sec., con il rigurgito di fondamentalismi, risposta perversa anche alla violenta ingerenza politica e militare perpetrata dall’Occidente in diverse regioni soprattutto del terzo mondo.

Testimone e martire?

Il suo martirio si inquadra all’interno di tale contesto; per questo Iqbal Masih va riproposto come testimone di giustizia, di solidarietà, di costruzione di una comunità fraterna, di attuazione del messaggio evangelico all’interno della sua nazione, dalle perduranti drammatiche criticità sociali: miseria e sfruttamento, mancanza dei diritti elementari all’istruzione e alla sanità, conflitti etnici, intolleranza religiosa a danno della minoranza cristiana – riesplosa nella persecuzione di Asia Bibi, per fortuna sottratta alla pena di morte grazie all’impegno internazionale e anche alla resipiscenza della giustizia del Pakistan.

Appello alla Chiesa

Per tali motivi, in occasione dei 25 anni (oggi 26, ndr) del martirio di Iqbal Masih, la Chiesa cattolica deve riproporne un forte e ricco ricordo, rivivificando il suo messaggio: un’onda lunga figlia di una vita breve ma senza tempo. Monito e modello insieme per un cammino di giustizia sociale, da Masih testimoniato in modo coraggioso, consapevole e insieme spontaneo e «ingenuo».

Iqbal Masih aveva compiuto ad appena dodici anni il «miracolo» di trasformare leggi e pratiche ataviche, cause del male sociale dello sfruttamento schiavistico minorile, liberando, almeno in parte, milioni di bambini da una condizione di miseria umana e materiale. Una missione di testimonianza del Vangelo, riproposto anche da lui quale strumento di conversione e di liberazione umana; un messaggio vissuto, importante e profetico non meno di quello di altri martiri, immolati per la confessione dei valori umani e cristiani.

Per la comunità cristiana del Pakistan, dalla tradizione plurisecolare e dalla presenza non esigua, seppur minoritaria, la riscoperta e la valorizzazione del messaggio di Iqbal Masih potrebbe essere uno strumento di promozione di forti valori sociali da essa testimoniati e rappresentare anche un percorso di dialogo tra fedi e culture in quella nazione e civiltà antica, nobile, ma anche lacerata.

Giovanni Seclì

Da vedere, il film: Iqbal – Bambini senza paura,
Regia: Michel Fuzellier, Babak Payami, 2015.


L’autibiografia di santa Teresa d’Avila

Carissimo Direttore,
siamo la comunità delle monache carmelitane scalze di Legnano (Mi) che riceve regolarmente la vostra rivista MC. Complimenti per i contenuti che toccano sempre realtà snobbate dagli altri organi di informazione. Ci permettiamo di segnalare la nuova traduzione della «Vita di Santa Teresa» fatta da noi e da un esperto, lavoro che ci ha viste impegnate per due anni. Siamo coscienti che il nostro non è un libro «prettamente missionario», ma Teresa «era missionaria» e questo può forse essere un requisito per pubblicizzare il libro sulla vostra rivista. Grazie e un caro saluto.

Le sorelle del Carmelo
di Legnano, 16/04/2021

Il libro è disponibile nelle librerie o si può richiedere alle Edizioni OCD, Via Vitellia, 14 – 00152 Roma

La mia vita

Una nuova traduzione dell’autobiografia di Teresa di Gesù

L’autobiografia di Teresa è probabilmente il suo libro più conosciuto, e più volte è stata tradotta, studiata, approfondita e pregata. È un libro dove l’autrice non racconta soltanto i fatti accaduti nella sua vita, ma soprattutto ci rende partecipi, in maniera sempre più coinvolgente, della sua storia di amicizia con Dio. Lo fa in modo non convenzionale, lasciando spazio senza censure ai due protagonisti: il Dio paradossalmente misericordioso che ella ha imparato a conoscere, e Teresa stessa, donna pienamente inserita nel suo contesto e spinta costantemente da un’irrefrenabile ansia di libertà e di felicità. Teresa è vivace, esuberante, appassionata; altre volte pacata, riflessiva; altre ancora preoccupata, incerta, dubbiosa. In tutto e per tutto una donna moderna che non si è sottratta al tentativo di dare un senso alla propria vita e che ha trovato questo senso nello sguardo per lei sorprendente con cui Dio, in Gesù, l’ha guardata.

L’autobiografia è il racconto complesso e avvincente di tutta questa avventura. Avventura che non è restata nel confine intimo della sua coscienza, ma che si è tradotta in azione, in un’esperienza contagiosa per molte delle persone che l’hanno incontrata… fino ai nostri giorni.

Per questo più di due anni fa abbiamo iniziato a dare concretezza ad un sogno che avevamo da molto tempo: poter tenere tra le mani una nuova traduzione della Vita di santa Teresa che fosse più fruibile dagli uomini e dalle donne di oggi, riscoprendo Teresa come era all’origine, ripulita dalle inevitabili incrostazioni che la storia aveva aggiunto.

Lettura con ascolto

Quando si legge il testo spagnolo, si ha proprio l’impressione di avere Teresa lì, presente, che sta parlando, perché la sua è una prosa fluente e discorsiva. Qualcuno a volte dice che Teresa scrive come parla. Forse è più corretto dire che parla attraverso i suoi scritti. E proprio questa prospettiva è stata la bussola che ci ha guidato nel lavoro di questi due anni. Ciò si è tradotto nel tentativo di consentire anche al lettore italiano di trasformare l’esperienza della lettura in esperienza di ascolto.

Una scelta di libertà

Sono molti gli aspetti dell’esperienza di Teresa che la rendono a noi vicina, malgrado i secoli che da lei ci separano. Teresa è stata una bambina affascinata dalle cose di Dio. È stata poi un’adolescente inquieta, che con fatica cercava il suo posto nel mondo. Giovane donna, ha deciso di entrare in monastero: una scelta fatta non solo per il desiderio di donarsi a Dio, ma anche per il desiderio di non essere schiava di un uomo, come accadeva a tutte le donne sposate della sua epoca. Ha trascorso i primi venti anni di vita in clausura logorata da un conflitto interiore che è diventato anche malattia del corpo, malattia tanto grave che a un certo punto è rimasta come morta per più giorni, tanto che le hanno preparato la tomba. Quando si è risvegliata ci ha messo anni a esercitare nuovamente il suo corpo anche ai movimenti più elementari: ella stessa ci racconta che all’inizio, per parecchi mesi, riusciva a camminare solo a gattoni.

L’incontro con Gesù

Poi, dopo anni passati in questa situazione di lento recupero, finalmente è avvenuto l’incontro nuovo con Gesù, da cui scaturisce la vita nuova di Teresa. E davvero è stata un’altra vita quella che Teresa ha vissuto da lì in poi. Non solo perché lentamente ha trovato un nuovo equilibrio interiore, un nuovo rapporto con sé stessa, con gli altri e con Dio. Quell’esperienza, infatti, si è trasformata in un modo nuovo di vivere nella storia, quella quotidiana del monastero e quella «grande» della Spagna del suo tempo.

Un progetto alternativo

Un po’ per volta ha preso forma il desiderio di fondare una comunità diversa da tutte quelle già esistenti: poche monache di clausura, che in spazi che fossero a misura d’uomo, coltivassero intensamente la amicizia con Dio e fra di loro. Potrebbe apparire poca cosa ai nostri occhi, ma letto nel contesto e nell’atmosfera di allora è stato invece un progetto altamente alternativo. Il piccolo numero è sinonimo di familiarità. La clausura è strumento di libertà, perché al di là delle grate nessun uomo comanda, e le monache possono essere le registe della loro vita.

Uno stile missionario

L’orizzonte spirituale che ha nutrito quell’esperienza era quello duplice dell’Europa di allora: da un lato c’era la lacerazione della Chiesa che stava vivendo lo scisma della Riforma luterana. Teresa ha risposto senza lanciare scomuniche, ma impegnandosi in un progetto di unità e amicizia all’interno delle mura del monastero. Dall’altro c’era lo slancio missionario della Chiesa del XVI secolo, orientato soprattutto all’America latina, con tutte le contraddizioni che ciò comportava. Teresa ne era ben consapevole e portava nel cuore le lacerazioni che quell’opera di evangelizzazione, spesso accompagnata dalla violenza della guerra, produceva nei popoli indigeni.

Dottore della Chiesa

Cinquantuno anni fa, nel 1970, papa Paolo VI conferì a Teresa il titolo di Dottore della Chiesa. Fu la prima donna a riceverlo, la prima donna, nella storia della Chiesa, alla quale fu riconosciuta ufficialmente una dottrina autorevole, meritevole di essere ascoltata da ogni cristiano e soprattutto interessante per la vita di ciascuno di noi. L’autobiografia è il primo tassello di quell’eredità che ella ci consegna. I tempi duri in cui viviamo mettono anche noi di fronte a sfide inedite che a volte ci sorprendono e forse rischiano di paralizzarci un po’. Crediamo che Teresa possa essere una buona compagna di cammino in questa incessante ricerca di senso che riguarda ogni uomo. Per questo siamo molto felici di poter contribuire con questa nuova traduzione dell’opera.

Il Carmelo di Legnano

 

Ospitiamo ben volentieri questa presentazione, anche perché santa Teresa d’Avila, con santa Teresa di Lisieux, era particolarmente cara al nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che l’ha proposta ai suoi missionari e missionarie come modello di vita apostolica e di santità.

Padre Francesco Pavese, nel suo libro «Scegliendo fior da fiore» (Edizioni Missioni Consolata, Torino 2014), ha raccolto le note dell’Allamano sui suoi santi preferiti. Di santaTeresa d’Avila l’Allamano sottolineava tre aspetti in particolare:
• l’amore verso Dio,
• la capacità di ricominciare («nunc coepi», ora comincio) senza scoraggiarsi mai,
• il prendere come modello di vita «san Paolo che non poteva fare a meno di aver sempre sulla bocca il nome di Gesù».




Noi e Voi: dialogo lettori e missionari

Un mondo alla rovescia

Carissimi,
grazie, con la testa e col cuore, per ogni numero della vostra rivista, e in particolare per l’articolo che nel numero di marzo illustra quanto a Trieste fa per i migranti, da anni e meritoriamente, l’Associazione «Linea d’Ombra».

Immagino siate al corrente, essendone rimbalzata l’eco a livello nazionale, della perquisizione che ha subito, insieme alla moglie, il fondatore dell’Associazione, scoprendosi così indagato in un’inchiesta per favoreggiamento, a scopo di lucro, dell’immigrazione clandestina. Verrebbe proprio da dire: il mondo alla rovescia. Un saluto fraterno.

Susanna Cassoni
Trieste, 03/03/2021

Per i Romani contro i Giudei?

Lo svolgimento del processo di Gesù come è raccontato nei vangeli non mi convince. Insomma, se oggi nella democratica Repubblica Italiana il pubblico di un processo si mette a schiamazzare e cerca di interloquire, il presidente del tribunale fa sgomberare l’aula. Figuriamoci se nello stato romano, dove le cariche giudiziarie erano associate al massimo ruolo politico, il governatore di una provincia si mette a discutere con sudditi schiamazzanti se il processato è o no colpevole e quale pena merita. Penso che il racconto risenta troppo del trasferimento a Roma della maggiore colonia cristiana, mentre Israele era stata desertificata dopo l’ultima ribellione: la morte di Gesù doveva essere imputata agli ebrei in via di sparizione e mai e poi mai ai romani troppo importanti per la diffusione del cristianesimo. Il guaio è che quel modo di raccontare è diventato la base di secoli e millenni di antisemitismo.

Claudio Bellavita
25/03/2021

Gradara castello, crocifisso

Dopo aver consultato il nostro biblista Angelo Fracchia, ecco qui alcune riflessioni su questo tema scottante.

La Giudea non era una provincia romana amministrata in modo «regolare», perché mancava un potere locale affidabile (i romani preferivano appoggiarsi a chi c’era già: ma tra i figli di Erode alcuni, come Erode Antipa in Galilea, si dimostrarono capaci, altri, come Archelao in Giudea, no, e dovette essere sostituito), non era ancora stata costituita in provincia (accadrà solo nel 135 d.C.) ed era una zona turbolenta. I procuratori, quindi, non facevano a gara per andarci, e finiva che vi venivano nominati soprattutto amministratori meno capaci, quasi mandati in castigo. A quanto si ricostruisce dagli storici antichi, Pilato non faceva eccezione, anche se era un protetto di Seiano che di fatto comandava a Roma mentre l’imperatore Traiano era ritirato a Capri.

In più la situazione era delicata: a Pasqua, racconta Giuseppe Flavio forse esagerando, gli abitanti di Gerusalemme decuplicavano, tanto che il procuratore si trasferiva lì, da Cesarea, insieme a una coorte (ca. 500 soldati).

In quella situazione non c’era il tempo per allestire un processo regolare e, tutto sommato, mandare a morte, perché la gente lo chiedeva, quello che gli sembrava un predicatore inoffensivo, poteva sembrare la scelta meno scrupolosa ma anche meno rischiosa da prendere.

Va anche notato che la ricostruzione fatta dai Vangeli si ritrova sostanzialmente anche in Giuseppe Flavio e in Tacito. Ma questo basta per dire che gli evangelisti hanno attenuato le responsabilità dei romani nella morte di Gesù e hanno dato tutta la colpa solo ai «Giudei»?

Che sulla base dei racconti evangelici si sia costruito anche l’antigiudaismo cristiano purtroppo è vero. Anche se questo, in realtà, è successo diversi secoli dopo la stesura dei Vangeli stessi. Purtroppo anche espressioni della Liturgia cattolica preconciliare rivelavano l’influsso di questa mentalità.

Ma dare la colpa agli evangelisti dell’antisemitismo non è giustificato. Non vanno dimenticati infatti due punti importanti.

      • Per i Vangeli i responsabili della morte di Gesù sono i «Giudei» sì, ma questi – ed è chiarissimo soprattutto in Giovanni – non indicano il popolo di Israele come tale, ma solo quel gruppo di élite e di potere che controllava la vita religiosa ed economica della Palestina in quel tempo. Un gruppo che, nonostante le apparenze esteriori, era fortemente immanicato con i procuratori romani. Basta ricordare la relazione quasi mafiosa tra la famiglia del sommo sacerdote Anna (che di fatto ha controllato per anni tutta la vita economica e religiosa del Tempio di Gerusalemme) e il discutibile procuratore Pilato. Non a caso i due sono caduti poi in disgrazia nello stesso anno.
      • Inoltre, l’insegnamento di Gesù ben sottolineato dai Vangeli non offre appigli per giustificare l’antisemitismo, sia perché «amare i propri nemici» è un comando ben chiaro che lui ha lasciato, sia perché lui stesso ha perdonato i suoi uccisori proprio dalla croce: «Perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

Nella Chiesa primitiva, nonostante le persecuzioni subite anche da parte dei Giudei, né Pietro, né Paolo né gli altri apostoli danno adito a giustificare atteggiamenti di odio contro il popolo di Israele.

Un premio da condividere

Il 14 dicembre 2020, padre Sandro Nava, missionario della Consolata, è stato invitato presso l’Ambasciata italiana di Dar es Salaam, dove l’ambasciatore gli ha consegnato un premio per essere stato nominato «Cavaliere della Stella» dal presidente della Repubblica Italiana e dal ministro degli Esteri il 9 gennaio 2020 (foto sopra).

Padre Nava è stato insignito di questo premio per l’opera svolta al Consolata Hospital di Ikonda dal 2002 al 2019: in questi 17 anni di intenso lavoro il nosocomio è stato ricostruito e ampliato, diventando uno dei migliori ospedali della Tanzania (vedi foto qui sotto).

Padre Sandro Nava sentì la chiamata missionaria dopo aver ascoltato la predicazione di un missionario della Consolata nella sua parrocchia di origine (Osnago – Lc). Così, in giovanissima età, entrò nel seminario di Bevera, continuando poi gli studi a Varallo Sesia e all’Istituto teologico di Torino. Nel 1977 fu ordinato sacerdote e l’anno successivo partì con grande entusiasmo per la Tanzania, dove, passando tra diverse missioni e incarichi, da oltre 40 anni si trova tuttora.

Dal 2002 al 2019 ha vissuto uno dei periodi più intensi e significativi della sua vita missionaria. Con l’aiuto del Signore, della Madonna Consolata, di bravi collaboratori e di numerosi benefattori, è stato possibile realizzare il «miracolo di Ikonda», una realtà che continua e che dona consolazione a molti malati che giungono all’ospedale alla ricerca di cure qualificate.

«Come dissi al ricevimento presso l’Ambasciata – ha osservato padre Sandro -, questo è un premio che non è per me, ma è per tutti coloro che hanno reso possibile il “miracolo di Ikonda”. Io sono stato solo un rappresentante. Quindi voglio cogliere l’occasione per dire che questo è il riconoscimento e un ringraziamento a tutti i benefattori e a coloro che, con le proprie competenze, hanno collaborato con generosità a realizzare l’ospedale di Ikonda».

Dall’ottobre 2020, padre Sandro Nava e la dr.ssa Manuela Buzzi, accogliendo il caloroso invito del vescovo della diocesi di Singida, mons. Edward Mapunda, hanno iniziato una nuova esperienza, sempre in Tanzania, presso il Makiungu Hospital.

Il Makiungu Hospital è nato nel lontano 1954. La zona dove sorge questa struttura è poverissima e la gente vive affidandosi ad una agricoltura di sussistenza. L’ospedale necessita di una ristrutturazione generale, sia per quanto riguarda le costruzioni, divenute ormai inadeguate e in gran parte fatiscenti, sia per quel che concerne le attrezzature e la diagnostica.

«L’augurio che mi è stato rivolto in occasione della consegna del premio e che rivolgo a tutti i benefattori – ha aggiunto padre Sandro – è che anche al Makiungu Hospital riusciamo a fare qualcosa di importante e indispensabile per questa povera gente. Non sarà facile per tante circostanze, però ai “miracoli” crediamo. Se tutti sogneremo la stessa cosa, in qualche modo riusciremo a tradurre i sogni in realtà».

Marta Magni Barzaghi
25/03/2021

 


«Nulla sostituisce il vedere di persona»

Nella comunicazione nulla può mai completamente sostituire il vedere di persona. Alcune cose si possono imparare solo facendone esperienza. Non si comunica, infatti, solo con le parole, ma con gli occhi, con il tono della voce, con i gesti. La forte attrattiva di Gesù su chi lo incontrava dipendeva dalla verità della sua predicazione, ma l’efficacia di ciò che diceva era inscindibile dal suo sguardo, dai suoi atteggiamenti e persino dai suoi silenzi. I discepoli non solamente ascoltavano le sue parole, lo guardavano parlare. Infatti, in Lui – il Logos incarnato – la Parola si è fatta Volto, il Dio invisibile si è lasciato vedere, sentire e toccare, come scrive lo stesso Giovanni (cfr 1 Gv 1,1-3). La parola è efficace solo se si «vede», solo se ti coinvolge in un’esperienza, in un dialogo. Per questo motivo il «vieni e vedi» era ed è essenziale.

Papa Francesco

Pensiamo a quanta eloquenza vuota abbonda anche nel nostro tempo, in ogni ambito della vita pubblica, nel commercio come nella politica. «Sa parlare all’infinito e non dir nulla. Le sue ragioni sono due chicchi di frumento in due staia di pula. Si deve cercare tutto il giorno per trovarli e, quando si son trovati, non valgono la pena della ricerca». [W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, Atto I, Scena I].

Le sferzanti parole del drammaturgo inglese valgono anche per noi comunicatori cristiani. La buona novella del Vangelo si è diffusa nel mondo grazie a incontri da persona a persona, da cuore a cuore. Uomini e donne che hanno accettato lo stesso invito: «Vieni e vedi», e sono rimaste colpite da un «di più» di umanità che traspariva nello sguardo, nella parola e nei gesti di persone che testimoniavano Gesù Cristo. Tutti gli strumenti sono importanti, e quel grande comunicatore che si chiamava Paolo di Tarso si sarebbe certamente servito della posta elettronica e dei messaggi social; ma furono la sua fede, la sua speranza e la sua carità a impressionare i contemporanei che lo sentirono predicare ed ebbero la fortuna di passare del tempo con lui, di vederlo durante un’assemblea o in un colloquio individuale. Verificavano, vedendolo in azione nei luoghi dove si trovava, quanto vero e fruttuoso per la vita fosse l’annuncio di salvezza di cui era per grazia di Dio portatore. E anche laddove questo collaboratore di Dio non poteva essere incontrato in persona, il suo modo di vivere in Cristo era testimoniato dai discepoli che inviava (cfr 1 Cor 4,17).

«Nelle nostre mani ci sono i libri, nei nostri occhi i fatti», affermava sant’Agostino, esortando a riscontrare nella realtà il verificarsi delle profezie presenti nelle Sacre Scritture. Così il Vangelo riaccade oggi, ogni qual volta riceviamo la testimonianza limpida di persone la cui vita è stata cambiata dall’incontro con Gesù. Da più di duemila anni è una catena di incontri a comunicare il fascino dell’avventura cristiana. La sfida che ci attende è dunque quella di comunicare incontrando le persone dove e come sono.

Dal messaggio di papa Francesco
per la 55ª Giornata mondiale per le comunicazioni sociali.

 




Noi e Voi: dialogo lettori e missionari

Amazzonia

Cari missionari,
ritengo che quanto denunciato dall’inchiesta del Tg2 (cfr. Amazzonia: una nuova emergenza – Tg2 Dossier di sabato 16 gennaio) dovrebbe ispirare le agende politiche di tutti i paesi veramente civili e intenzionati ad affrontare la pandemia come le circostanze richiedono.

In Brasile, distruzione della foresta tropicale e mortalità da coronavirus, sono legati da un rapporto strettissimo: più l’agrobusiness criminale si espande a spese della giungla e delle comunità che da essa dipendono, più il Covid-19 ha modo di diffondersi, di radicarsi di sviluppare nuove varianti, di aumentare il suo potenziale distruttivo.

Come ha ricordato l’impresario Sidney Pollettini, una delle persone intervistate dall’équipe del Tg2, la penetrazione nell’Amazzonia continua grazie anche ai rifornimenti italiani: è dal nostro paese infatti che arrivano le macchine per la lavorazione dei tronchi tagliati: «Sono le migliori al mondo» – assicura Pollettini.

Questo, in un mondo normale, dovrebbe costituire un motivo d’orgoglio. Ma possiamo considerare normali le modalità e la velocità con le quali le foreste amazzoniche vengono sfruttate? Possiamo considerare normale il modo con cui Bolsonaro, i latifondisti, la polizia brasiliana e le squadre paramilitari trattano le minoranze indigene?

Possiamo considerare normale il tributo che il Brasile sta pagando al Covid? ffettuosi saluti

Ivo Scorfanetti
23/01/2021


Padre Giuseppe Radici

A Grumello del Monte (Bg) abbiamo ricordato con una messa il 9° anniversario di padre Giuseppe Radici (1924-2012). Grazie al parroco, don Angelo.

Padre Giuseppe, missionario della Consolata, era un amico di famiglia, concelebrò al funerale di mio padre Ezio e dedicò molto tempo alla causa dell’emigrazione orobica costituendo il Circolo dei bergamaschi di San Paolo del Brasile dove visse per oltre 60 anni.

Ogni volta che rientrava organizzavo diversi incontri ed ovunque veniva accolto con successo. Cordiali saluti,

Dott. Massimo Fabretti
Grumello del Monte, 09/02/2021

Bergamasco (orobico) genuino, padre Radici è stato inviato in Brasile subito dopo la sua ordinazione avvenuta nel 1950. Là è rimasto, servendo con grande generosità e dedizione in São Manuel, Rio do Oeste, Três de Maio e São Paulo. Significativa la sua presenza in mezzo alla comunità italiana, soprattutto di origine bergamasca. La sua avventura missionaria si è conclusa l’8 febbraio 2012.


Piccola bimba

Egregio Piergiorgio Pescali,
mi permetto di inviarle questo pensiero che mi è sgorgato alla vista dell’immagine della bimba inserita nell’articolo a pag. 49 apparso su MC 1-2 gen-feb 2021. Complimenti e auguri a tutti voi.

Volti di etnia kirghiza. Foto Piergiorgio Pescali.

«Mia piccola bimba,
da giorni, guardando la foto che ti hanno scattato,
vedo il genere umano non solo il tuo visino.

Rappresenti la vita che si vive,
il tuo sguardo esprime tutto ciò che sarai e già sei.

Cara bimba, ci osservi tutti.
Ci guardi già. Conosci, incerta, sorpresa,
ci invadi inconsapevolmente, ma già sbigottita.

Siamo noi che dobbiamo amarti.
Tu ci rimproveri, ma aspetti.

Lo esprime la luminosità del tuo sguardo,
diretto e interrogativo,
che mandi a chi ti sta difronte,
e tu ancora non conosci.

Ti voglio bene.
Possa tu essere la bambina mia e di tutti».

B. Repetti
13/02/2021


RD Congo

Egregio Direttore
sul MC 12/2020 ho letto l’ampio servizio sulla RD Congo. Sono rimasto esterrefatto della situazione catastrofica di questa grande nazione: malavita, barbarie, atrocità a tutto campo e di ogni genere, soprattutto sul corpo delle donne, sotto lo sguardo impotente delle autorità e del contingente Onu.

Voi dite che il «mondo» sta a guardare, meglio, si gira dall’altra parte. Ma ci potete dire che cosa ci può fare il cosiddetto «mondo» e quei soldati Onu che rischiano ogni giorno la vita? Cordiali saluti.

Angelo Guzzon
Cernusco Lombardone (Lecco), 28/12/2020

 

L’uccisione di Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo, ha finalmente costretto anche i grandi media a mettere in prima pagina la tragedia del Congo che in questi anni è costata milioni di morti.

Cosa può fare la comunità internazionale? Forse, per prima cosa, dovrebbe mettersi d’accordo per regolamentare le imprese multinazionali che ormai gestiscono il pianeta, l’economia, la salute e le risorse come se fossero loro proprietà privata senza rendere conto ad alcuno.

Poi, invece di una costosissima Monusco, investire gli stessi soldi per rafforzare e riqualificare l’esercito regolare del Congo e le istituzioni civili di quel paese.

      1. Porre sanzioni ai paesi limitrofi che guadagnano dalla situazione fuori controllo.
      2. Esigere la tracciabilità delle materie prime che vengono usate per cellulari, computer, batterie e prodotti simili, con garanzia di salari e servizi adeguati (salute, sicurezza, educazione, infrastrutture, ecc.) a chi lavora nella raccolta e produzione delle stesse materie prime, oltre al pagamento delle dovute tasse al governo del paese.
      3. E da parte nostra non cambiare i nostri gadget elettronici ad ogni nuova versione.

Ovviamente questi sono solo degli accenni. Il problema è complesso e, come viene ben espresso anche da papa Francesco nella Laudato si’ e nella Fratelli tutti, si tratta di pensare a un cambiamento radicale del nostro sistema economico e realizzare quella che è chiamata la «transizione ecologica» che richiede un nuovo stile di vita e un nuovo approccio alla gestione del nostro pianeta.

 


Complimenti a Chiara e Marco

Per Chiara Giovetti, autrice di un ottimo articolo sulla cooperazione marca Usa.

Una volta c’era a Panama una Escuela des Americas, dove si addestravano gli ufficiali degli eserciti sudamericani. La parte principale dell’addestramento consisteva nel selezionare i più fedeli per insegnar loro a far comprare dai loro eserciti, a caro prezzo, gli armamenti radiati dagli Usa e tenersi la differenza, assicurandosi così una eterna fedeltà. Ma poi la cosa si è risaputa ed è nata una diffidenza generalizzata verso gli ufficiali che avevano frequentato quella scuola, e si è tornati al sistema tradizionale di ricorrere alla massoneria, che nelle Americhe è molto diffusa e istituzionalizzata.

Per Marco Bello, autore di un bellissimo articolo sul Madagascar, che ho girato in lungo e in largo nel 1977. Eravamo in 12, tra cui parecchi medici che però non si sono accorti che una di noi si era presa la malaria, diffusissima. La cosa che mi ha più colpito è il culto degli antenati e della continuità della famiglia: in molte regioni le ragazze prima di sposarsi devono dimostrare di essere capaci di far figli.

Claudio Bellavita
14/02/2021

 


Andare contro corrente

Marzo, aprile e maggio 2020 e poi anche autunno e inverno: italiani impossibilitati a muoversi liberamente causa lockdown. Tutta la grande scienza e la grande tecnologia umana messa in ginocchio da un piccolissimo, microscopico virus. Ora è un virus a mettere in crisi il mondo intero, in futuro potrebbero essere megacomputer o catastrofi atmosferiche causate dal troppo inquinamento e dal continuo uso di armi. Viviamo un’era nella quale la potenza distruttiva nelle mani dell’uomo potrebbe cancellare qualsiasi segno di vita su questo satellite del sole. Come se non bastasse, la potenza dei supercomputer è tale da mettere sotto controllo e assoggettare un numero di persone superiore a quello di tutti gli abitanti della terra.

È necessario che la ragione e l’amore abbiano il sopravvento sulla follia e l’odio che imperversano nel mondo. Occorre che l’umanità agisca con più coscienza. L’insegnamento di Cristo è la più vera difesa della vita e della dignità umana. […]

Sa andare anche controcorrente, contro le mode sbagliate. Occorre diffondere maggiormente il lieto annuncio del Vangelo e soprattutto viverlo. Scomparirebbero immediatamente le numerose guerre e guerriglie che ancora ci sono. Anziché produrre armi micidiali si produrrebbero aratri nel senso di macchinari per il benessere, non per la morte, la natura sarebbe rispettata, non distrutta dall’inquinamento eccessivo per la troppa sete di denaro.

C’è grande necessità di diffondere e vivere il Vangelo più autentico. Il mondo e l’uomo hanno sete della Verità vera annunciata e vissuta da Cristo non di verità soggettive o di false verità. Cordiali saluti

Enrica Barbiroglio
11/02/2021

Gentile lettrice,
perdoni i tagli alla sua lunga lettera. Ho cercato di mantenere il messaggio centrale.

In questi giorni mi è capitato di leggere un testo che parlava dei rischi connessi all’uso degli algoritmi al servizio solo del profitto e di una scienza centrata su se stessa senza una vera riflessione etica, senza valutare le motivazioni, i vantaggi o le conseguenze del loro uso sulla dignità e libertà dell’uomo, di ogni uomo, specialmente dei più poveri e fragili.

Quando il Vangelo sintetizza tutta la «legge» in un’unica parola: ama il tuo prossimo, offre la chiave che sconvolge davvero ogni logica economica e politica, ogni relazione sociale, ogni relazione tra gli uomini.

È putroppo triste che abbiamo bisogno di un piccolissimo indomabile virus per tornare a pensare e agire da «uomini» fatti a immagine di Dio, l’Amore.

 


Cosa c’entar l’amore con la scienza?

L’amore è un sentimento, un’emozione che nasce dall’inconscio. Recentemente alcuni studi hanno dimostrato che l’attrazione fisica e sessuale è legata a fattori chimici, ma l’amore non è necessariamente legato al corpo e alle sue pulsioni; può essere qualcosa di astratto.

Chi ama il proprio Dio, qualunque esso sia o chiunque egli sia, non lo ha mai visto o non ha mai avuto contatti con lui. Alcune religioni disdegnano qualsiasi principio emozionale, compreso l’amore, perché è equiparato al desiderio che, una volta ottenuto, genera altri desideri in un crescendo di cupidigia senza fine lasciandoci nell’arsura dell’inappagamento. Anche quando sembriamo completamente appagati dall’amore, dovremo comunque fare i conti con un futuro che non lascia scampo alla sua perdita.

Ed è stata proprio la perdita della persona con cui ho condiviso gli anni più coinvolgenti della mia vita che mi ha indotto a colmare il vuoto emotivo creatosi cercando di trovare un’interazione scientifica con l’incomprensione della Morte.

La ricerca nel trovare un canale di comunicazione tra l’arida freddezza della solitudine e la spiegazione logica delle leggi fisiche e chimiche dell’Universo hanno prodotto questa serie di poesie che altro non sono che congetture e speranze, se vogliamo anche velleitarie, in cui affondare il proprio dolore e il proprio vuoto.

Piergiorgio Pescali

Il Mio Dio

Non mi interessa
avere soldi.
Se avessi soldi
vorrei avere potere.

Non mi interessa
avere potere.
Se avessi potere
vorrei avere stelle.

Non mi interessa
avere tutte le stelle.
Se avessi tutte le stelle,
vorrei avere l’Universo.

Non mi interessa
avere l’Universo.
Se avessi l’Universo
vorrei essere Dio.

Non voglio nulla
di tutto questo
perché possiedo già
soldi, stelle, Universo.

Te.

Piergiorgio Pescali, Versi d’amore e di scienza, Bertoni editore,
Corciano (Pg) 2020, 86 pagine, 14 euro.