Tra i molti dati offerti, ci sono quelli che parlano dell’aumento di povertà e diseguaglianze.
Nel 2022, metà delle famiglie più povere possedeva meno dell’8% della ricchezza netta totale del Paese, il 5% delle famiglie italiane più ricche ne deteneva, invece, il 46%. Nel 2010 la quota era del 40%.
Nel 2023, 5,7 milioni di persone (il 9,8% della popolazione) si trovavano in condizioni di povertà assoluta (nel 2015 erano il 7,4%), e 13,4 milioni (il 22,8% della popolazione) erano a rischio di povertà o esclusione sociale.
Lo scenario descritto dalle 210 pagine del documento non è del tutto negativo, ma non è di certo positivo: «Dei 37 obiettivi […], solo 8 sono raggiungibili entro la scadenza del 2030, 22 non lo sono e per altri 7 il risultato è incerto», si legge nel comunicato stampa dell’Alleanza che mette in rete più di 300 organizzazioni senza scopo di lucro, provenienti dalla società civile, impegnate sui temi dello sviluppo sostenibile.
«I dati del Rapporto descrivono con chiarezza l’enorme ritardo dell’Italia nel percorso per raggiungere i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. […] Tra il 2010 e il 2023, il Paese ha registrato peggioramenti per cinque goal: povertà, disuguaglianze, qualità degli ecosistemi terrestri, governance e partnership. Limitati miglioramenti si rilevano per sei goal: cibo, energia pulita, lavoro e crescita economica, città sostenibili, lotta al cambiamento climatico e qualità degli ecosistemi marini. Miglioramenti più consistenti riguardano cinque goal: salute, educazione, uguaglianza di genere, acqua e igiene, innovazione. Unico miglioramento molto consistente interessa l’economia circolare».
Tra gli obiettivi non raggiungibili ci sono quello di ridurre del 20% l’utilizzo di fertilizzanti in agricoltura; quello di dimezzare la disparità occupazionale tra uomini e donne; di raggiungere il 42.5% di energia da fonti rinnovabili; ridurre del 20% i consumi finali di energia; raggiungere il 30% delle aree marine e terrestri protette.
Tra gli obiettivi con andamento altalenante ci sono quello di raddoppiare il traffico merci su ferrovia e quello di azzerare il sovraffollamento nelle carceri.
Tra gli obiettivi raggiungibili nel 2030 ci sono, invece, quello di arrivare al 60% del tasso di riciclaggio dei rifiuti urbani, di garantire a tutte le famiglie la copertura alla rete internet veloce; di ridurre al di sotto del 9% la quota di giovani che non studiano, né lavorano, i cosiddetti Neet.
Nel rapporto si fa anche il confronto del percorso italiano con quello dell’Unione europea: l’evoluzione dei 17 goal dal 2010 a oggi mostra un’Italia sotto alla media.
Dal 28 ottobre e fino al 19 novembre l’Asvis promuove una campagna di diffusione dei dati del rapporto e dei suggerimenti di azioni in esso contenuti: «Un goal al giorno». Ogni giorno viene approfondito, tramite diversi materiali online, semplici da consultare e utilizzare, il punto della situazione dell’Italia rispetto ciascun obiettivo.
di Luca Lorusso
Mondo. Uccisi perché difendevano il pianeta
Sono 196 le persone che sono state uccise nel 2023 per aver difeso l’ambiente e la terra su cui vivevano. Provavano a resistere a uno sfruttamento incondizionato delle risorse naturali del proprio paese e per questo hanno perso la vita. È questo il numero che emerge dal rapporto «Missing voices» pubblicato a settembre dall’Ong Global Witness che,da 30 anni, si occupa di investigare e riportare gli abusi nei confronti di chi difende ambiente e diritti umani.
Centonovantasei uccisioni in un anno significano più di una ogni due giorni, ma l’atto estremo di togliere la vita è sempre accompagnato da più larghe operazioni di intimidazione, minacce e oppressioni di vario tipo alle persone che contrastano gli interessi economici di aziende, gruppi criminali e governi spregiudicati.
Il rapporto sulle uccisioni dei difensori ambientali (dalla definizione in inglese «environmental defenders») viene realizzato dal 2012 e in questi anni ha registrato un totale di 2.106 morti, la grande maggioranza delle quali avvenuta in America Latina. La Colombia in particolare è il paese dove si registrano il maggior numero di casi, sia storicamente, visto che dal 2012 se ne stimano 461, che nel corso del 2023 dove le uccisioni sono state 79. Seguono Brasile, Honduras, Messico e Filippine.
Il rapporto mostra che, in ogni regione del mondo, chi si oppone alle industrie estrattive e richiama l’attenzione sui danni ambientali che provocano rischia di subire repressioni, ritorsioni e a volte perfino la morte. Nel mondo industriale il settore più coinvolto è sicuramente quello minerario, nel 2023 sono infatti 25 i difensori dell’ambiente assassinati mentre si opponevano ad operazioni minerarie, soprattutto in America Latina e in Asia.
Analizzando chi viene colpito da questi brutali attacchi si riconosce un altro elemento chiave, il 6% sono afrodiscendenti e ben il 43% delle vittime, ovvero 99 persone, appartengono a popolazioni indigene. Gli indigeni, infatti, vivono in aree ancora ricche di risorse naturali che industriali spregiudicati e gruppi criminali non vedono l’ora di sfruttare per le loro attività economiche. Anche quando i governi non la appoggiano direttamente, l’espropriazione e la devastazione di queste aree naturali accade comunque per vie nascoste e illegali. I minatori prendono il controllo delle zone interessate con la forza e con le armi, spesso poi corrompono o minacciano gli stessi indigeni per costringerli a lavori forzati o addirittura a imbracciare le armi contro le altre tribù.
Quest’ultimo è stato il caso che ha portato, il 3 luglio 2023, al ferimento di 5 membri della comunità Yanomami con la morte di una bambina di appena 7 anni. Da tempo infatti gli Yanomami di Roraima (stato a nord del Brasile) subiscono le violenze dei minatori d’oro illegali e situazioni simili sono diffuse in diverse aree dell’America Latina. Il record mantenuto dalla Colombia dove, nel 2023, ben 31 delle 79 uccisioni hanno riguardato persone indigene. Le comunità indigene ricoprono infatti un prezioso ruolo nella difesa degli ecosistemi naturali e della biodiversità, questo è uno dei punti principali con cui è stata aperta la Cop16 sulla biodiversità (diversa dalla Cop29, che si terrà in Azerbaijan dall’11 al 22 novembre) che si è tenuta proprio a Cali, in Colombia dal 21 ottobre al 1° novembre. La cooperazione con gli indigeni è anche uno dei pochi punti su cui sono stati fatti passi avanti concreti, portando alla formazione di gruppi di lavoro permanenti che coinvolgano popoli indigenti e comunità locali nei negoziati della Convenzione sulla diversità biologica. Questi potranno dunque contare su risorse permanenti e godere finalmente di una reale rappresentanza.
Bisognerà quindi continuare a monitorare la situazione, gravissima, in cui versano i difensori ambientali in tutto il mondo, per valutare se gli strumenti adottati e le promesse dei governi avranno un reale impatto nel fermare le vessazioni che subiscono.
Mattia Gisola
Mondo. È lontana la «pace con la natura»
Era bello il titolo assegnato alla sedicesima Conferenza sulla biodiversità tenutasi a Cali, in Colombia, dal 21 ottobre al 1 novembre: «Paz con la naturaleza». Il vertice, organizzato dalle Nazioni Unite e noto come Cop (Conference of the parties) 16, è arrivato a due anni dall’ultimo, tenutosi a Montréal nel dicembre 2022. In quell’occasione, quasi 200 paesi avevano sottoscritto un ambizioso piano in 23 obiettivi – denominato the Kunming-Montreal global biodiversity framework – per invertire la perdita di biodiversità entro la fine del decennio.
Con il termine biodiversità s’intende la varietà della vita presente sulla Terra: animali, piante, funghi e microrganismi come i batteri. Nel suo insieme, essa fornisce il necessario per la sopravvivenza, tra cui acqua dolce, aria pulita, cibo e medicine. Da tempo, questa biodiversità si sta rapidamente riducendo, principalmente a causa delle attività umane, come espansione della frontiera agricola e delle attività minerarie, inquinamento e mutamenti climatici. È stato calcolato che circa il 40% degli habitat naturali (foreste, fiumi, oceani) sia degradato e un milione di specie vegetali e animali sia a rischio estinzione.
Dopo due settimane di trattative, sabato 2 novembre (in ritardo rispetto al calendario ufficiale e con molti negoziatori già ripartiti) i delegati rimasti hanno concordato su due questioni centrali, da qualcuno già definite storiche: istituire un organismo sussidiario che includerà i popoli indigeni nelle future decisioni sulla conservazione della natura e obbligare le grandi aziende (per esempio, quelle farmaceutiche) a contribuire alla difesa della biodiversità quando, per la produzione dei loro prodotti, vengano utilizzate informazioni genetiche naturali (Digital sequence information, Dsi, ovvero i dettagli del Dna e dell’Rna di un organismo).
Una salamadra pezzata. (Foto Biodiversity Credit Alliance)
L’accordo sul «the Cali found» stabilisce anche quanto esse dovrebbero pagare: l’1 percento dei loro profitti o lo 0,1 percento delle loro entrate. I singoli governi sono invitati ad adottare misure legislative o di altro tipo che possano spingere le aziende a contribuire. Secondo una ricerca, un fondo del genere potrebbe raccogliere un miliardo di dollari all’anno per la conservazione della biodiversità. Tuttavia, non sono stati stabiliti né obblighi né tempistiche.
L’effettiva portata delle decisioni della Cop16 potrà essere valutata soltanto nei prossimi mesi. Però, gli impegni finanziari assunti sono stati irrisori e non promettono nulla di buono. Inoltre, molte organizzazioni ambientaliste hanno espresso forti perplessità sui contenuti del vertice. «Siamo profondamente delusi – ha affermato Amazon Watch – dal fatto che gli accordi finali e le posizioni della maggior parte dei governi alla Cop16 non abbiano preso gli impegni necessari per salvaguardare tutta la vita sulla Terra e il nostro futuro collettivo. Questioni chiave, come l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, sono state escluse dai documenti finali, mentre vengono promosse false soluzioni che mercificano la natura, come i “crediti per la biodiversità”, per mantenere il business come al solito».
Al di là delle critiche, di sicuro rimane il solito dubbio di fondo: pur importante (è sempre fondamentale che i Paesi s’incontrino e si confrontino sulle tematiche comuni), il vertice di Cali riuscirà a passare dalle dichiarazioni di principio alle azioni? Nel frattempo, chiusa la Cop16 sulla biodiversità, dall’11 al 22 novembre si terrà la Cop29 sui cambiamenti climatici. Sarà ospitata nell’Azerbaijan del petrolio e dell’autocrate Ilham Aliyev.
Paolo Moiola
Russia. Il multilateralismo non vale un Brics
Il XVI vertice dei Brics – acronimo dei cinque paesi fondatori (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) – si è tenuto a Kazan, in Russia, dal 22 al 24 ottobre. Al Summit hanno partecipato 41 delegazioni: 6 rappresentavano organizzazioni internazionali e 36 paesi, 24 dei quali erano capi di stato e di governo. Numeri importanti, ma risultati effettivi molto scarsi, come si può facilmente dedurre leggendo i 134 punti della «Dichiarazione di Kazan», spesso (ma non sempre) apprezzabili ma troppo vaghi per trovare una concreta e rapida applicazione.
È positiva la volontà (punto 8) di riformare l’Onu, incluso il Consiglio di sicurezza. Elementi positivi possiamo trovarli nei punti dal 15 al 19 in cui si ribadisce – almeno a parole – la necessità di affrontare il cambiamento climatico e la desertificazione, difendere la biodiversità e l’acqua. Anche la preoccupazione per la grave situazione in Medio Oriente (punti 30-31) è condivisibile, salvo che sui punti in cui si giustificano Siria (34) e Iran (35), paesi alleati della Russia. Per l’Ucraina (36), paese aggredito da Mosca, la vaghezza dei termini utilizzati per descrivere la situazione assume livelli sublimi: «Sottolineiamo che tutti gli stati dovrebbero agire in modo coerente con gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite nella loro interezza e interrelazione. Prendiamo atto con apprezzamento delle pertinenti proposte di mediazione e buoni uffici, volte a una risoluzione pacifica del conflitto attraverso il dialogo e la diplomazia».
Altrettanto acrobatica (punto 56) è la dichiarazione sul problema (sempre più grave) delle notizie false e sulla libertà d’espressione: «Esprimiamo – si legge – seria preoccupazione per la diffusione esponenziale e la proliferazione di disinformazione, cattiva informazione, inclusa la propagazione di false narrazioni e fake news, nonché di discorsi d’odio, in particolare sulle piattaforme digitali, che alimentano la radicalizzazione e i conflitti. Mentre riaffermiamo l’impegno per la sovranità degli Stati, sottolineiamo l’importanza dell’integrità delle informazioni e di garantire il libero flusso e l’accesso pubblico a informazioni accurate basate sui fatti, inclusa la libertà di opinione ed espressione». Vale la pena di ricordare che la più grande fabbrica mondiale di trolls (software di hackeraggio) ha sede a Mosca e che né in Russia né in Cina – paesi fondatori dei Brics – esiste libertà d’espressione.
Nel documento, si accenna anche alla questione – molto complicata (anche se non campata in aria) – della riforma dell’architettura finanziaria internazionale e della de-dollarizzazione del sistema.
Dal primo gennaio 2024 si sono uniti ai Brics altri cinque paesi – Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti -, nessuno di loro guidato da un governo democratico. A Kazan, altri tredici si sono uniti in qualità di «partner»: Algeria, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Indonesia, Kazakistan, Malaysia, Nigeria, Thailandia, Uganda, Uzbekistan, Vietnam e la Turchia (forse il paese più «pesante», vista la sua appartenenza alla Nato). La commistione di paesi dittatoriali (Russia e Cina, in primis) con altri a conduzione democratica (il Brasile, ad esempio) pare costituire un vulnus per l’organizzazione che si vorrebbe porre come alternativa al cosiddetto Nord del mondo.
A Kazan, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha incontrato Vladimir Putin, suscitando molte polemiche. (foto Faces of the World)
Da notare, infine, che l’evento più chiacchierato della XVI riunione dei Brics è avvenuto a latere del convegno: l’incontro tra il padrone di casa Vladimir Putin e il segretario generale dell’OnuAntonio Guterres, un evento molto discusso visto che l’autocrate russo è un criminale di guerra che ha scatenato il conflitto in Ucraina. Vedremo se questo incontro porterà dei frutti, ma pare altamente improbabile.
Paolo Moiola
Giappone. La rivoluzione delle urne
Ci si aspettava qualche cambiamento, ma è stata quasi una rivoluzione. Le elezioni legislative di domenica 27 ottobre in Giappone si sono concluse con un risultato clamoroso. Il Partito liberaldemocratico (Pld), forza conservatrice al potere per 65 degli ultimi 69 anni, ha perso la maggioranza assoluta. Non solo. Per arrivare ai 233 seggi della Camera bassa del parlamento necessari a governare, non basta nemmeno l’aiuto del Komeito, partito di ispirazione buddhista e storico partner di coalizione. Si tratta di una vera e propria batosta, andata al di là delle più nefaste aspettative di Shigeru Ishiba, premier da nemmeno un mese.
È stato lui a decidere di convocare elezioni anticipate, sconfessando la sua stessa parola, con l’obiettivo di consolidare la leadership conquistata a settembre al voto interno al Pld. La scommessa di Ishiba si basava su due convinzioni. Primo: il poco tempo concesso all’opposizione avrebbe evitato l’ascesa del Partito costituzionale democratico (Pcd), appena riunitosi sotto la guida dell’ex premier Yoshihiko Noda. Secondo: la sua lunga carriera di outsider e critico interno al partito gli avrebbe garantito di evitare le conseguenze dello scandalo sui finanziamenti che ha portato alle dimissioni il predecessore, Fumio Kishida. Entrambe le convinzioni si sono rivelate sbagliate.
Da una parte, Noda ha portato il Pcd da 98 a 148 seggi, grazie a un audace programma di riforme sociali mirate a contrastare l’ormai atavico problema dell’aumento del costo della vita. Dall’altra, le varie retromarce di Ishiba su una serie di promesse lo hanno reso agli occhi degli elettori meno in discontinuità rispetto alle precedenti gestioni del suo partito. Durante la campagna elettorale, Ishiba ha infatti sconfessato due promesse in materia di diritti civili, che lo avevano reso popolare tra i più giovani: la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso e la cancellazione della norma che impone ai coniugi di adottare lo stesso cognome. La mazzata finale è arrivata dalle notizie di stampa, secondo cui il Pld avrebbe continuato a pagare per la campagna elettorale di diversi parlamentari allontanati per il coinvolgimento nello scandalo dei finanziamenti.
Ishiba ora deve affrontare un futuro politico incerto. Il suo mandato potrebbe essere il più breve dalla Seconda Guerra Mondiale. I suoi (unici) vantaggi sono che il Pld non ha tempo di cercare immediatamente un nuovo leader, peraltro di non facile individuazione, e che per Noda sarà quasi impossibile unire tutte le forze di opposizione, che vanno dal Partito comunista alla destra radicale.
Entro 30 giorni, il parlamento si riunirà per conferire l’incarico di governo.
Ishiba sta cercando nuovi alleati, ma lo scenario più plausibile è quello di un esecutivo di minoranza, la cui azione potrebbe essere ampiamente limitata e rivolta soprattutto all’approvazione del bilancio suppletivo di fine 2024 e (forse) di quello dell’anno fiscale 2025 il prossimo aprile. L’orizzonte temporale del possibile gabinetto di Ishiba potrebbe non andare molto più in là, mentre l’ala ultranazionalista del Pld chiede già una riorganizzazione attorno alla figura di Sanae Takaichi.
L’impatto del voto potrebbe farsi sentire anche sulla politica estera e sulle relazioni internazionali del Giappone. La contemporaneità tra l’inedita instabilità di Tokyo e le elezioni presidenziali americane è parecchio sfortunata. Il fatto che il Giappone si trovi in uno stato di incertezza non aiuta a prepararsi a un possibile Trump due o anche a un’amministrazione Harris probabilmente più aggressiva sulla Cina. A risentirne anche la proiezione di Tokyo, che negli scorsi anni era diventato un punto di riferimento per il sistema di alleanze americane e per i vicini asiatici. Nella regione appare quindi un nuovo, imprevisto, punto di domanda. Le risposte del Giappone potrebbero non arrivare così presto.
Lorenzo Lamperti
Perù. Gustavo Gutiérrez, un piccolo gigante
È morto a Lima, sua città natale, lo scorso 22 ottobre. Padre Gustavo Gutiérrez Merino, sacerdote, filosofo e teologo peruviano, aveva 96 anni. In gioventù, parroco nel distretto del Rímac, nel 1971 divenne conosciuto a livello mondiale per la sua «Teología de la liberación: perspectivas», un lavoro di enorme portata, non soltanto per la teologia e la Chiesa cattolica. Nel 1974, fondò l’istituto Bartolomé de Las Casas, che in breve tempo si sarebbe affermata come una prestigiosa istituzione di ricerca su teologia e povertà. Nel 2001 entrò nell’ordine dei Domenicani.
23 ottobre 2024: un momento della cerimonia funebre per padre Gutiérrez nella Basilica di San Domenico, a Lima. (Foto Gianni Vaccaro)
Nel corso della sua vita, padre Gutiérrez si è dedicato all’analisi e alla denuncia della povertà e delle disuguaglianze nel continente latinoamericano. La sua proposta centrale è così riassumibile: di fronte all’ingiustizia strutturale creata dall’ordine sociale ed economico prevalente, i cristiani debbono non soltanto denunciare ma anche agire. E proprio da qui, da questo concetto rivoluzionario, sono scaturite tutte le polemiche e le accuse – da parte del potere e dei settori più conservatori della società – di aver trasformato la teologia in teoria politica e, per di più, di sinistra.
Abbiamo avuto modo di constatare di persona quanto le sue idee potessero suscitare reazioni di fastidio all’interno della stessa Chiesa cattolica. Una volta il cardinale Augusto Cipriani (all’epoca, primate del Perù), in risposta a una domanda su padre Gutiérrez, ci disse: «L’ho incontrato. Non è mio compito valutare la sua coscienza, il suo mondo interiore. Credo però che egli abbia un obbligo di giustizia importante: scrivere un libro per spiegare i concetti fraintesi nelle sue prime opere».
Per due volte, nel 1998 e nel 2004, nella capitale peruviana abbiamo incontrato padre Gutiérrez. C’impressionò subito per la forza che sprigionava dalla sua figura minuta. Nel 2004, quando lui era professore alla facoltà di teologia della statunitense University of Notre Dame, nell’Indiana, gli chiedemmo come – a suo parere – stesse la Teologia della liberazione. «Sta bene – rispose -. In questi anni stiamo lavorando su nuove dimensioni e approfondendo un’intuizione originale, che nei nostri primi scritti avevamo chiamato “la complessità della libertà”. Questo significa, in sintesi, prestare attenzione non solo agli aspetti economici della realtà ma anche a quelli etnici, culturali, di genere, ecc. Un’altra dimensione che stiamo sottolineando è la critica al pensiero unico neoliberista. Il nostro punto di partenza è l’opzione preferenziale per i poveri (opción preferencial por los pobres) che, ancora oggi, costituisce il centro della Teologia della liberazione».
Sempre durante quell’intervista, padre Gutiérrez spiegò: «Una volta un giornalista mi chiese se fossi pronto a scrivere di Teologia della liberazione come avevo fatto vent’anni prima. Io gli chiesi se fosse sposato. Lui mi rispose di sì, allora gli chiesi di nuovo: scriveresti a tua moglie una lettera d’amore come hai fatto vent’anni fa? Per me è lo stesso. Per me scrivere teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa a cui appartengo, al mio popolo, e questo è il mio progetto».
Padre Gutiérrez era consapevole delle difficoltà: «C’è – ci disse nel 1998 – una povertà che persiste, che dura, che continua nel tempo. Credo che la distanza tra i più poveri e i più ricchi si faccia più grande». Nel 2010, in un’intervista per l’Università cattolica di Lima (Pucp), osservò: «Il continente più diseguale del mondo è l’America Latina, eppure la stragrande maggioranza della popolazione latinoamericana è cristiana, cattolica ed evangelica. Il cristiano sa che deve amare il prossimo e preferibilmente il più povero. La realtà non sembra rispondere a questa richiesta».
Papa Francesco e padre Gutiérrez, un rapporto di stima e amicizia.
Cosa rimane oggi della Teologia della liberazione? Rimane l’«opzione preferenziale per i poveri» – la scelta di una società in cui i meno fortunati siano al centro – che ne è un principio fondante. L’espressione, che risale ai documenti ufficiali dei vescovi dell’America Latina (Conferenza di Medellìn del 1968, Conferenza di Puebla del 1979), è stata infatti fatta propria da papa Francesco già al momento del suo insediamento, nel marzo 2013.
Sei mesi dopo quella data, esattamente il 12 settembre, Francesco e padre Gutiérrez si ritrovarono in un incontro privato a Casa Santa Marta, in Vaticano. Un grande atto di stima e affetto del pontefice argentino nei confronti del teologo peruviano.
Paolo Moiola
Italia. Israeliani e palestinesi per la pace
Nonviolenti palestinesi e israeliani in Italia per testimoniare il loro lavoro comune per la pace e chiedere la fine della guerra.
Due attivisti israeliani e due palestinesi, accomunati dall’obiezione alla guerra, dal 16 ottobre stanno girando l’Italia per portare le loro testimonianze e il loro appello alla pace in diverse città dal Nord al Sud, incontrando cittadini, studenti, istituzioni.
Chiedono alle istituzioni, all’Unione europea, al nostro governo, di riconoscere lo status di rifugiati politici a tutti gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che fuggono dalle guerre e chiedono asilo e protezione.
«Vengono da Israele e Palestina, dove il diritto internazionale viene calpestato – recita un comunicato del Movimento nonviolento, organizzatore del tour nell’ambito della Campagna di obiezione alla guerra -, per rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza! Lavorano insieme e rifiutano la guerra, l’esercito, le armi, l’odio».
Sono gli israeliani Sofia Orr e Daniel Mizrahi e le palestinesi Tarteel Al-Junaidi e Aisha Omar.
Sofia Orr ha rifiutato di arruolarsi per il servizio militare obbligatorio nell’Idf, l’esercito israeliano, nel febbraio 2024, ed è stata condannata al carcere militare. Daniel Mizrahi, figlio di coloni ebrei nei territori occupati, ha fatto anche lui obiezione di coscienza, subendo la stessa sorte. La palestinese Tarteel Al-Junaidi è attivista nonviolenta per i diritti umani. Aisha Omar, cresciuta nella Territori palestinesi occupati, sostiene gli obiettori israeliani e ne fa conoscere ai palestinesi l’attività contro la guerra e l’occupazione.
I quattro rappresentano due importanti movimenti: Mesarvot, una rete di giovani israeliani obiettori di coscienza al servizio militare, e Community peacemaker teams (Cpt), sezione palestinese, che sostiene la resistenza nonviolenta contro l’occupazione israeliana.
Mesarvot è una rete che si oppone al regime di occupazione dei territori palestinesi con manifestazioni congiunte israelo-palestinesi in tutto il Paese, chiedendo un accordo sugli ostaggi, la fine del genocidio a Gaza, del conflitto in Medioriente e il raggiungimento di una soluzione diplomatica.
I suoi attivisti portano l’attenzione sui crimini commessi dall’esercito e incoraggiano i giovani israeliani ad assumersi la responsabilità personale di disobbedire al governo. In più forniscono sostegno, anche legale, a chi decide di rifiutare il servizio militare in un paese nel quale gli obiettori subiscono lunghe detenzioni e le voci dissidenti vengono represse brutalmente.
Il Cpt è uno tra i molti gruppi palestinesi di resistenza nonviolenta. Lavora contro la violenza dell’occupazione israeliana, in particolare in Cisgiordania, ad esempio con il monitoraggio dei posti di blocco israeliani attraversati dai bambini palestinesi per andare a scuola, documentando le continue violazioni dei diritti umani. Il docufilm «Light», proiettato durante il giro italiano dei quattro attivisti, racconta proprio l’impegno del Cpt.
Nelle varie tappe (di cui si può leggere il diario sul sito di «Azione nonviolenta»), i quattro testimoni hanno incontrato la cittadinanza durante incontri pubblici, studenti, giornalisti, sindaci, vescovi.
Ieri, 24 ottobre, hanno fatto un’audizione alla Commissione permanente per i diritti umani della Camera dei deputati seguita da un incontro pubblico, un incontro presso il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano e integrale e da una conferenza stampa a Montecitorio.
Come ha scritto Pasquale Pugliese, già presidente del Movimento nonviolento, su Comune.info, «Mentre nessuna organizzazione internazionale sembra essere in grado di fermare la violenza cieca dell’esercito israeliano, che dopo oltre 42.000 vittime palestinesi tra Gaza e Cisgiordania invade il Libano, attacca le basi Unifil, colpisce la Croce Rossa, cerca la guerra con l’Iran; mentre nessun governo occidentale, anche apparentemente dissentendo in pubblico con le sue scelte belliche, si decide in verità a interrompere l’invio di armi al governo di Netanyahu; mentre da oltre un anno grandi manifestazioni in ogni parte del mondo, e nella stessa Israele, non riescono a spezzare la spirale di violenza e di odio; mentre accade tutto questo c’è chi trova il coraggio di resistere dal basso, proprio dentro il cuore di tenebra della guerra, rifiutando la logica della violenza, del nemico e dell’odio: ha il volto di giovanissimi israeliani che rifiutano il servizio militare e di altrettanto giovani palestinesi impegnati nella resistenza nonviolenta».
Luca Lorusso
Il popolo di san Giuseppe Allamano in festa
Roma, 21 ottobre. «Questa mattina, alla sessione del sinodo, sono andato a ringraziare il Santo Padre, che era lì con noi, per il dono della canonizzazione», racconta il cardinale Giorgio Marengo, in chiusura alla sua omelia della messa di ringraziamento. Nella splendida cornice della basilica di san Paolo fuori le mura, si ritrovano i missionari, le missionarie e centinaia di pellegrini che domenica 20 ottobre hanno partecipato alla canonizzazione di Giuseppe Allamano. «Mi ha colpito – continua Marengo -, perché, sedutomi davanti a lui, mi ha preso le mani e mi ha detto “Coraggio, avanti”. Quello che ci diceva sempre san Giuseppe Allamano».
La celebrazione inizia con una danza africana realizzata da suore e novizie, che scalda subito l’atmosfera. Sfilano vestite con colori africani, a dominante azzurra. Dietro alle danzatrici, fanno il loro ingresso centodieci sacerdoti vestiti di bianco, due fratelli missionari, seguiti da ventidue vescovi e, in ultimo, dal cardinale Marengo. È lui che, con la sua solita semplicità, ma al tempo stesso profondità, prende la parola: «Oggi è un giorno di ringraziamento per san Giuseppe Allamano. È il primo giorno nel quale possiamo chiamarlo così». Le sue parole, quasi emozionate, scatenano l’euforia dei presenti.
Sono di tanti Paesi, svariate lingue e culture a ritrovarsi, oggi pomeriggio, nella basilica.
Spicca una folta delegazione di fedeli di Roraima, lo stato del Brasile dove è avvenuto il miracolo della guarigione dell’indigeno yanomami Sorino. Sono riconoscibili per la maglietta che indossano, con il motto dell’Istituto Missioni Consolata scritto in portoghese: «Annunziate la mia gloria alle nazioni» (Is 66,19), e con i loghi della diocesi di Roraima e quello ufficiale della canonizzazione. Poi tante fedeli africane, con vestiti dai tipici colori sgargianti, e moltissime religiose. Ci sono anche i laici missionari della Consolata, e i tanti amici del nuovo santo venuti da quattro continenti. Quasi tutti hanno al collo il foulard realizzato per la canonizzazione.
Iniziano le letture. Poi il salmo viene recitato da uno studente e una studentessa missionari, e il coro risponde cantando in maniera delicata «Popoli tutti, lodate il Signore».
Dopo la seconda lettura, parte di nuovo il coro, diretto dall’accalorato padre Douglas Lukunza del Kenya. I musicisti – tastiera, batteria, due djembé (tamburi africani) e pure un bravo violino – sono altri studenti missionari, tutti africani. Il coro variegato segue i movimenti del direttore, che non si limita a muovere le braccia, ma dirige il canto ballando con tutto il corpo. Una danza che, in pochi secondi, contagia tutti i presenti. È l’espressione dell’entusiasmo della grande festa.
Con la preghiera dei fedeli torna la calma. Alcuni lettori e lettrici si alternano nelle diverse lingue: italiano, inglese, portoghese, spagnolo, coreano, kiswahili e francese. A leggere quest’ultima è una ragazza migrante del Burkina Faso, attualmente a Oujda in Marocco (dove c’è una missione della Consolata). La sua è una supplica toccante, forse perché nasce dall’esperienza personale: chiede di pregare affinché i governi rendano più vivibili i Paesi del mondo, in modo tale che i giovani non siano più costretti a partire.
Anche durante questa celebrazione di ringraziamento, come nei giorni scorsi, il collegamento con l’Amazzonia è forte: all’offertorio, oltre al pane e al vino, viene portato anche un tipico copricapo indigeno, fatto di piume blu e gialle del grande pappagallo ara, mandato da coloro, spiega la voce di commento, «che sono assetati di fede e di giustizia».
Ma oltre alla festa, il ringraziamento è pure un momento di riflessione, stimolata dalle parole, talvolta provocatorie, del cardinale Marengo che nella sua omelia si sofferma sull’importanza della contemporaneità: l’impegno deve essere «una successione continua di oggi e qui», e occorre «attingere la forza per la missione dalla contemplazione».
«Dobbiamo dircelo: la sua santità (di Allamano, ndr) ci deve scuotere, altrimenti non ci gioverà. I nostri istituti attraversano un momento delicato della loro storia, con incertezze nei cammini del mondo. Oggi non è solo un punto di arrivo, deve essere anche un punto di ripartenza».
Considerando il percorso e gli sforzi fatti per arrivare a questa canonizzazione, «tutto sarà ripagato se prenderemo sul serio questo oggi, l’avere gli occhi fissi sul Signore, teneramente amato e servito da san Giuseppe Allamano, e realizzeremo davvero il suo desiderio di vederci famiglia della Consolata che si vuole bene e che arde di zelo apostolico».
La cerimonia si avvia alla conclusione con il canto del Magnificat in versione africana, danzato e cantato da tutti i presenti. Il cardinale incensa lo stendardo con il volto di Giuseppe Allamano, che pare sorridente come non mai. Anche lui, oramai coinvolto nella festa.
La messa di ringraziamento conclude la fase romana delle celebrazioni per la canonizzazione di san Giuseppe Allamano, iniziate con la veglia di preghiera di sabato 19 ottobre.
Nei prossimi giorni seguiranno eventi e celebrazioni a Castelnuovo don Bosco (At), paese natale di Allamano (il 23 ottobre) e a Torino, alla Consolata (il 24) e nella chiesa del santo in corso Ferrucci 18 (il 25).
Marco Bello
HIGHLIGHTS MESSA DI RINGRAZIAMENTO (Fr. Adolphe Mulenguzi)
Oggi, 20 ottobre 2024, Giuseppe Allamano è ufficialmente santo. La messa di proclamazione, in piazza San Pietro, è stata intensissima.
Città del Vaticano. Fin dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia, necessari per entrare nella piazza.
Il popolo di Giuseppe Allamano è arrivato dai quattro continenti il giorno prima. Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma anche l’Asia c’è, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.
Su alcune bacchette viene issata l’immagine del futuro santo, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.
Oggi saranno, infatti, «canonizzati», termine tecnico, anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni).
Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con l’effige di Allamano e della Consolata.
L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato ad hoc per questo giorno.
Entriamo tra i primi, dopo il controllo metal detector.
La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.
I pellegrini sono assonnati, ma si vede la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.
Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.
È ancora un momento di attesa, e si approfitta per farsi delle foto, dei video, scambiarsi un contatto o un sorriso.
Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio.
A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte anche alcune migranti subsahariane.
Vediamo anche il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità.
Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.
Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.
Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcune canzoni diffuse con i potenti altoparlanti in tutta la piazza.
L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone da tutto il pianeta, spaccato di umanità.
Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva Papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «Papa Francisco», per culminare con un grande applauso.
Nel frattempo è comparso un tenue sole.
Scorgiamo evidente, in prima fila del gruppo di sedie delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.
La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.
«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno.
«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere».
E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».
Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.
«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.
All’Angelus papa Francesco mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».
Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo Santo.
Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si affollano alle transenne per salutare il Santo Padre.
Una volta passato, inizia il lento deflusso di alcune migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della Basilica di San Pietro sulla quale spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.
Sul rapporto fra l’azione dei missionari/e in Africa e il Piano Mattei urge chiarezza. L’occasione per farla ce le dà la prossima, cosiddetta «Conferenza dei missionari italiani», che si svolgerà il prossimo 23 ottobre su impulso del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e nell’ambito della riunione ministeriale G7 sullo sviluppo.
L’incontro, si legge sul sito della Farnesina, «avrà come tema il contributo delle realtà missionarie allo sviluppo sostenibile delle popolazioni presso cui prestano la propria missione, sottolineando l’impatto delle loro opere attraverso la condivisione di storie di successo e buone prassi. L’evento incentrerà i propri lavori sul rafforzamento delle opportunità di istruzione e formazione in Africa sub-sahariana a favore dei giovani, anche in virtù dei collegamenti con il Piano Mattei e con il nesso migrazioni-sviluppo».
Iniziamo col dire che il nome di questa iniziativa è fuorviante: dapprima perché rischia di sovrapporsi alla «Conferenza degli istituti missionari italiani» (Cimi), che è altra cosa e che non prenderà parte alla conferenza abruzzese. Più generale, il titolo di questo incontro lascia pensare che tutto il mondo missionario voglia parteciparvi e condivida la sua prospettiva positiva rispetto al Piano Mattei, quando così non è.
La questione centrale però va oltre i titoli e le parole. Punta dritto al cuore del Piano Mattei e al suo approccio nei confronti dell’Africa, che noi non ci sentiamo di condividere, vista la sua mancanza di prospettive e di ascolto verso le vere necessità del continente.
Saremo sempre pronti a discutere di sviluppo sostenibile in Africa e a fornire il nostro punto di vista, condividendo la nostra lunga esperienza sul campo. Preferiamo farlo però in altre sedi, meno vincolate ai promotori del piano e per questo più inclini a produrre riflessioni libere e costruttive.