Per non ricadere nell’indifferenza

testo di Marco Bello |


L’attacco a un convoglio di due auto del Programma alimentare mondiale (Pam), da parte di sei uomini armati, ha causato la morte dell’ambasciatore d’Italia in Rdc, Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista congolese Mustapha Milambo. Un altro italiano, funzionario del Pam si è salvato. L’assalto è avvenuto la mattina del 22 febbraio nei pressi di Kanyamahoro, circa 30 chilometri Nord di Goma, Nord Kivu, Rdc, dove la strada corre lungo il confine con il Rwanda.

Alcune piccole riflessioni su questa tragedia.

  1. L’Italia scopre che esiste il Congo, solo grazie a tragedie che coinvolgono suoi connazionali, e in particolare, italiani di un certo livello istituzionale.
  2. Le analisi che ho sentito raramente vanno al di là dei gruppi ribelli presenti in quella zona del Congo e delle ricchezze del sottosuolo. Il perché ci siano i gruppi ribelli, perché paesi come il Rwanda, l’Uganda, lo stesso Congo, ma anche (soprattutto direi) potenze internazionali non africane, abbiano interesse a mantenere la situazione così instabile, e questa situazione perduri, e peggiori, da oltre un quarto di secolo, raramente viene spiegato.
  3. Le responsabilità del Programma alimentare mondiale (Pam, Wfp) nel mandare una delegazione di così alto livello, o comunque di elementi stranieri, in una zona così rischiosa, senza scorta armata (ricordiamo che nella zona sono presenti i caschi blu dell’Onu della Monusco, quindi non c’era difficoltà ad avere una scorta), sono a mio parere enormi. Voglio citare un episodio simile, capitato in Burundi nel 1999, quando un convoglio dell’Onu fu attaccato e persero la vita due giovani europei, membri staff Nazioni unite. Vivevo nel paese e ricordo come anche in quel caso c’era stata troppa leggerezza da parte di alcune agenzie Onu e, soprattutto, del loro servizio di sicurezza (super pagato), sul fatto di autorizzare il viaggio di una delegazione di quel tipo, in quel luogo e in quel momento.

Quindi attenzione:

  • Sì ci sono milizie e bande armate nell’Est Congo, ma perché queste imperversano in quella zona da decenni?
  • E perché mandare un ambasciatore con una piccola delegazione non scortata (due auto) proprio lì, in una strada che attraversa un parco naturale della Virunga, al confine con il Rwanda, infestato di bande e trafficanti di ogni tipo?

Vorrei che il sacrificio di questi tre uomini servisse almeno a creare un movimento di indignazione della società civile, che possa spingere chi governa a livello mondiale a cambiare qualcosa nell’Est Congo.

Marco Bello

Goma, teschi di vittime delle violenze di questi anni nel Kivu / foto Renata Andolfi




Nuova presenza dei Missionari della Consolata in Marocco


Dall’inizio di novembre i Missionari della Consolata hanno cominciato a rendere concreto un progetto da lungo sognato: un presenza in Marocco a servizio dei rifugiati sub sahariani.

Da alcuni anni i missionari della Consolata in Spagna stanno cercando un maggiore coinvolgimento nel lavoro degli immigrati. Soprattutto a Malaga, con la cura pastorale nella chiesa di Cristo Re e con il coinvolgimento sociale nella “Piattaforma di solidarietà con gli immigrati” e in altre forme, hanno iniziato ad aprirsi alla collaborazione con altre forze. Si è tenuto conto della situazione strategica delle città di confine, Ceuta, Melilla, Nador e Tangeri come indicato dalla Conferenza 2018 della Delegazione di Spagna e dal Consiglio Continentale dell’epoca.

La proposta del Vescovo: Oujda

Dopo tre visite da parte di gruppi di missionari della Consolata (missionari e laici insieme), a cui ho partecipato anche io, abbiamo ricevuto la proposta concreta del cardinale Crisbal Lopez, vescovo di Rabat, di assumerci la responsabilità di lavorare con gli immigrati a Oujda (Uchda, in spagnolo), una città marocchina nell’estremo orientale del paese, a circa 15 km dal confine con l’Algeria e a circa 60 km a sud del Mediterraneo. Oujda è la capitale della regione orientale vasta circa 1.000 km2, uno dei 12 grandi territori amministrativi marocchini. Si tratta di un punto di passaggio di tante persone provenienti da diversi paesi dell’Africa subsahariana, che qui arrivano con l’intenzione di raggiungere l’Europa dopo aver attraversato il deserto ed essere passati attraverso tante tribolazioni. Qui la lingua ufficiale è l’arabo, ma si parla anche il francese insieme al dariya, una variante dell’arabo.

Secondo il vescovo Christopher, da “Chiesa samaritana” che siamo, la parrocchia ha sentito il dovere di accogliere coloro che hanno bussato alla sua porta chiedendo aiuto. E per più di due anni, il parroco Antoine Exelmans, sacerdote francese “fidei donum” e attuale vicario generale della diocesi, ha organizzato questa attività che cerca, seguendo le linee guida di Papa Francesco, di “accogliere, proteggere, promuovere e integrare” gli immigrati.

In questa parrocchia di St. Louis, una chiesa del ventesimo secolo, viene offerto un servizio di accoglienza di emergenza tutto l’anno per i migranti in situazioni vulnerabili. Circa 1000 persone passano da qui ogni anno, ma nel 2020 sono già passate più di 2000 persone. Sono praticamente tutti subsahariani: più dell’80% proviene dalla Guinea Conakry, e altri provenienti da Camerun, Sudan, Madagascar, ecc. Molti di quelli accolti qui sono minorenni.

Il Consiglio della regione d’Europa dei Missionari della Consolata mi ha chiesto di coordinare il processo e la possibile presenza a Oujda. Dopo diversi mesi di corrispondenza con il Vescovo di Rabat, il 3 novembre sono arrivato a Rabat, e dopo alcuni giorni di introduzione alla realtà del Marocco e della chiesa qui con l’aiuto dello stesso vescovo, il 12 novembre ho iniziato questa esperienza a Oujda, a 530 km da Rabat, sede dell’arcidiocesi.

Principi di orientamento per la nostra presenza a Oujda

Fraternità

Anche se ero già stato qui in visita l’anno scorso, mi sono reso conto che l’arrivare fin qui è una bella esperienza impegnativa di vita di fede e di fraternità, che richiede di “conoscere la realtà dall’interno, anche con coraggiose opzioni di presenza…”

È una presenza di fraternità che si vive anche nella sua bellezza di realtà ecumenica ecumenico e fortemente interreligiosa con una convivenza pacifica in Marocco, un paese con più del 98% della popolazione che pratica l’Islam. Il re del Marocco Mohamed VI ha sottolineato a Papa Francesco nella sua visita apostolica in Marocco nel marzo dello scorso anno che “le religioni abramiche esistono per essere aperte e conoscersi, in una coraggiosa competizione per fare del bene l’una con l’altra”.

Legami con Malaga

Dopo la presentazione di cui sopra, è chiaro il rapporto che esiste tra la nostra presenza qui con l’Europa, e in particolare con la Spagna, o più in particolare ancora, con la nostra comunità a Malaga. A causa del nostro coinvolgimento in questo fenomeno a Malaga e del processo che culmina nella nostra installazione qui, considero questa presenza come un “allegato” alla comunità di Malaga, missionari e laici insieme.

Itineranza

È la caratteristica inarrestabile del fenomeno dell’immigrazione. Pertanto, nessuno sa quanto durerà la nostra presenza qui. Questa presenza comporta anche un certo “itineranza mentale”, cioè la flessibilità. Si tratta di una missione dinamica, corrispondente alla natura del fenomeno stesso, suscettibile di cambiamenti dovuti a fattori socio-politici, ecc. Inoltre, è essenziale tessere reti collaborative. Con la nostra comunità di Malaga, e con tutta la nostra regione Europa e BMI e l’intera congregazione. Naturalmente,  è importante anche l’appoggio e la collaborazione con altri organismi ecclesiali ed extra-ecclesiali.

Evangelizzazione e pastorale

Sappiamo che “la Buona Notizia è l’essenza e il contenuto di tutto ciò che siamo e facciamo come missionari” (PMC n. 86.1). Per parafrasare il vescovo emerito di Rabat, monsignor Vincent Landel, si può dire che “i cristiani sono l’unico Vangelo che leggono molti musulmani”. La Conferenza Episcopale della Regione del Nord Africa (CERNA) nella sua lettera pastorale del 2014 riconosce la presenza della Chiesa in queste terre come “servi della speranza” e quindi ci invita all'”apostolato dell’incontro”, come Maria, in questi “incontri dell’umanità”.

La presenza pastorale qui comprende anche l’accompagnamento alla comunità cristiana di circa 50 parrocchiani, la maggior parte dei quali studenti subsahariani, così come funzionari diplomatici, turisti, ecc. Allo stesso modo, per questo compito, aspetto con ansia l’arrivo di almeno altri due confratelli della Consolata.

Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale dei Poveri 2020, Papa Francesco ci invita a “tendere la mano ai poveri” ricordandoci che “tenere gli occhi sui poveri è difficile, ma molto necessario per dare alla nostra vita personale e sociale la giusta direzione”. Speriamo di avere la cooperazione di tutti, che la saggezza del Signore ci accompagni, e contiamo sempre sull’intercessione della Madonna del Marocco.

Padre Edwin Osaleh
da Oujda, Marocco

(nostra traduzione da Consolata en Marruecos, nueva presencia, su www.consolata.org)




Kenya: Chiamata a ricostruire insieme la nazione


Lettera dei Vescovi del  Kenya a tutta la popolazione
12 novembre 2020

“Quanto è bello e delizioso vivere insieme come fratelli e sorelle” (Ps. 133:1)

Preambolo

Noi della Conferenza episcopale del Kenya, riuniti per l’Assemblea plenaria del novembre 2020 presso il Villaggio di Subukia del Santuario di Maria, abbiamo avuto il tempo di riflettere e discutere dello stato della nostra nazione.

In primo luogo, riconosciamo le molte grazie e la protezione che Dio ci ha dato dopo l’annuncio della mortale pandemia di Covid-19. Notiamo con grande preoccupazione l’aumento del numero di persone infettate dal coronavirus, e le molte vite che stiamo perdendo ogni giorno. Inviamo le nostre condoglianze alle famiglie che hanno perso i loro cari per questa pandemia e vi assicuriamo le nostre continue preghiere. Per coloro che sono malati, vi assicuriamo le nostre preghiere per la guarigione.

Siamo molto preoccupati per gli oneri finanziari che ci troviamo di fronte a tutti noi, specialmente per i poveri che non possono permettersi le spese mediche per i malati, e le spese funebri per coloro che sono morti. Ci appelliamo alla generosità dei nostri cari kenioti per raggiungere i bisognosi e contribuire ad alleviare il peso finanziario e psicologico che stanno portando. Dovremmo essere guidati dalla nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo.

Ci appelliamo anche agli ospedali, in particolare a quelli privati, a non sovraccaricare coloro che vengono per cure mediche.

Incoraggiamo il governo a considerare modi più creativi per contenere la diffusione del virus oltre ai protocolli universali raccomandati, tra cui l’uso di maschere, la distanza sociale, il lavaggio delle mani e la sanificazione. Ognuno ha la responsabilità personale di garantire un ambiente sicuro per le persone con cui viviamo, lavoriamo e interagiamo nella nostra vita quotidiana.

Vogliamo ricordare ai leader religiosi e ai fedeli dei protocolli sviluppati dal Consiglio inter religioso (Interfaith Council) che dobbiamo continuare ad essere più vigili e conformi per garantire la sicurezza dei nostri fedeli.

Osservazioni sulla relazione BBI

Cari kenioti, il 26 ottobre 2020 ci è stato presentato il rapporto BBI (Buinding Bridges Initiative), che è stato il prodotto di un lungo processo di stretta di mano.

Come Conferenza episcopale del Kenya, abbiamo accolto con favore la BBI come un’opportunità per tutti i kenioti di impegnarsi in modo costruttivo nel discutere di quelle questioni che riguardano il nostro paese e hanno causato conflitti e divisioni perenni.

La nostra speranza era che la relazione BBI affrontava le quattro principali preoccupazioni che abbiamo sollevato nella plenaria del 20 novembre a Nakuru, vale a dire:

  1. Riconciliazione e guarigione nazionale;
  2. Ripristino dei valori, governance democratica e istituzioni di governo, c) Recupero e ricostruzione dell’economia e dei servizi.
  3. La mancanza di riforme strutturate e redentrici, come è stato sottolineato nei 4 punti dell’Agenda del Dialogo nazionale e processo di riconciliazione del Kenya guidato da Kofi Annan nel 2008.

Come Vescovi, abbiamo seguito con grande processo dal suo inizio fino a questo momento. Come risultato di questo processo, e leggendo la relazione che è stata lanciata al Bomas del Kenya il 26 ottobre 2020, vogliamo fare le nostre osservazioni.

l. Esecutivo ampliato

Guardando alla proposta sull’esecutivo è molto chiaro che il documento BBI dà il potere al presidente di nominare un primo ministro e due vice primo ministro. L’esecutivo ampliato avrebbe dovuto riflettere il volto del Kenya e domare la struttura “winner-takes -it -all” (il vincitore prende tutto). Ma dare al Presidente il potere di nominare il Primo Ministro e i due vice rischia di consolidare più potere intorno al presidente creando così un Presidenza imperiale. Questo emendamento potrebbe creare lo stesso problema che si è proposto di risolvere.

È molto importante attenersi al principio della separazione dei poteri, perché è la spina dorsale della democrazia.

2. Un Parlamento gonfio

L’espansione del Senato a 94 membri e dell’Assemblea nazionale a 363 sarà un enorme onere per i contribuenti di questo paese che già sono oberati da un enorme peso per pagare il salario al numero attuale di legislatori. Non vi è alcun motivo per cui dovremmo avere un numero così elevato di legislatori. Non vogliamo più governo, ma un governo migliore.

3. IEBC politicizzato

La proposta di far nominare membri di partiti politici alla IEBC (Independent Electoral and Boundaries Commission) è pericolosa, poiché politicizzerà l’IEBC compromettendo così la sua indipendenza. Questa proposta trasformerà l’IEBC in un abito politico con interessi di parte. Sorgerà il problema di quanto saranno eque le elezioni.

4. Formazione del Consiglio di Polizia del Kenya

La proposta di formazione di un Consiglio di polizia del Kenya guidato dal Segretario di Gabinetto degli Interni con altri quattro membri, per sostituire l’IPOA (Independent Policing Oversight Authority) è una mossa che probabilmente renderà il Kenya uno stato di polizia e comprometterà l’indipendenza della polizia dall’esecutivo.

Lettura e discernimento della relazione BBI

Noi, vostri Pastori, vogliamo incoraggiare la lettura e la discussione della relazione. È necessario che i keniani abbiano la possibilità di interagire con esso, discuterne in altri ambiti e dare le loro opinioni. La relazione offre ai keniani l’opportunità di riflettere su come possano costruire una solida nazione democratica, giusta, pacifica e inclusiva di tutti. Dà loro la possibilità di vedere come possono far funzionare le istituzioni ed essere al servizio di ogni cittadino, indipendentemente dalla tribù, dall’appartenenza politica o dallo status sociale. È un’occasione per riflettere apertamente e candidamente sulle misure concrete per combattere l’impunità, la corruzione e la politica dell’esclusione.

Dovremmo quindi prestare attenzione quando si discute e si sottolinea come il documento potrebbe essere migliorato,  evitando il rischio di assumere posizioni dure e fare richieste settarie, e porre ultimatum che distruggono il significato e lo spirito stesso della BBI.

Per sua stessa natura la relazione è il prodotto della stretta di mano nata dal dialogo e dalla consultazione. È quindi della massima importanza che questo processo si muova sulla strada del dialogo e della costruzione del consenso, piuttosto che su prese di posizione.

Da parte sua, il governo e tutti gli attori politici non devono dimenticare che lo scopo principale e l’intenzione del processo BBI era quello di mettere insieme tutti i keniani. Si tratta di unità (costruire ponti , buinding bridges initiative BBI, ndr). Tutti devono quindi abbracciare uno spirito di patriottismo, ascoltare le raccomandazioni formulate e adeguare la relazione affinché rifletta il consenso popolare.

Ascoltando ciò che molti cittadini del Kenya stanno dicendo in tutto il paese, è urgente dare loro l’opportunità di rivedere la relazione per quanto riguarda alcune delle questioni sollevate in tutto il paese, vale a dire, l’esecutivo ampliato, l’aumento della rappresentanza dell’assemblea nazionale, la ricostituzione di IEBC, la creazione del Consiglio di polizia del Kenya, la sostituzione dell’IPOA, la rappresentanza delle donne, l’indipendenza della magistratura, persone con disabilità, ecc.

Il nostro intento circa la relazione BBI è quello di incoraggiare tutti i kenioti a leggerla e comprenderne il contenuto in vista della costruzione del consenso. A questo punto, vogliamo ricordare con forza a tutti gli attori, compresi noi stessi come vescovi, che questo processo ha gravi implicazioni per il futuro di questo paese. Le raccomandazioni costituzionali, amministrative e politiche contenute nel documento dovrebbero essere viste alla luce del discernimento. Esortiamo tutti coloro che sono coinvolti in questo processo ad aiutare i kenioti a comprendere in modo semplice il contenuto della relazione, evidenziando chiaramente proposte specifiche e le loro implicazioni. I nostri esperti di diritto sono incoraggiati tradurre la relazione in termini semplici per permettere a tutti di capire.

Il governo dovrebbe facilitare un solido processo di educazione civica per aiutare tutti i kenioti ad apprezzare la relazione al fine di prendere decisioni informate al riguardo.

Cari kenioti, soprattutto i nostri leader politici, non si tratta di competizione politica, non si tratta di pro o contro, SI o NO, non si tratta del 2022. Dovrebbe trattarsi del KENYA, di quale strada vogliamo prendere come kenioti, non solo per noi stessi, ma per i posteri. Si tratta di consenso.

È nostra raccomandazione, in quanto Vescovi cattolici in Kenya, che qualsiasi emendamento per migliorare la relazione sia ancora ascoltato e incluso, ove necessario. Ciò significa che la relazione è ancora un progetto in corso, non ancora inciso nella pietra; e quindi, ogni voce dovrebbe essere ospitata.

Dibattito sul Referendum

Noi Vescovi cattolici, dopo aver esaminato la relazione BBI,  vediamo che affronta le questioni a tre livelli, vale a dire proposte legislative e politiche, amministrative e istituzionali, e  proposte costituzionali. Inoltre, ci sono quelle proposte costituzionali che richiedono un referendum e altre che non lo richiedono.

Mentre c’è una richiesta di referendum, che ha generato opinioni pro e contro, noi vogliamo porci le seguenti domande:

  • Sulla scia degli effetti persistenti della pandemia di Covid-19 che ha colpito le famiglie in tutto il paese, è questo il momento di sottomettere i kenioti ad un’accresciuta attività politica per intraprendere riforme costituzionali fondamentali?
  • Colpito dalla pandemia Covid-19, con l’economia colpita, il paese ha i fondi necessari per effettuare un referendum prima del 2022, 18 mesi prima delle elezioni generalli, un processo che richiede altro denaro? Può il paese permettersi di spendere le sue risorse molto limitate in un referendum quando c’è una lotta nei settori dell’istruzione e della sanità per fornire un sostegno urgentemente necessario a causa degli effetti della pandemia di Covid-19?

Di conseguenza, riteniamo che le proposte legislative o che richiedono modifiche politiche o istituzionali e amministrative debbano essere trattate attraverso gli appropriati organi e  istituzioni di governo già esistenti. Le proposte che richiedono modifiche costituzionali da approvare con un referendum dovrebbero essere separate e gestite come un unico gruppo da approvare dai kenioti con un voto. Questo per evitare il rifiuto di buone idee che sono già state generate nella relazione BBI. Questo è il motivo per cui continuiamo a sottolineare l’importanza di costruire consenso piuttosto che lo schieramento.

Ethos nazionale: formazione della Coscienza

Siamo soddisfatti dell’enfasi posta sull’etica nazionale. Due sono i principali problemi come paese che abbiamo più e più volte evidenziato, questi sono:

  • Agire senza ascoltare la nostra coscienza, e
  • La corruzione rampante che ha permeato ogni settore della società.

La relazione BBI sottolinea questioni che toccano il nostro ruolo di leader religiosi.

Siamo preoccupati che come nazione stiamo perdendo la nostra coscienza collettiva. In Kenya negli ultimi venticinque anni e soprattutto dopo la nuova Costituzione del 2010, l’enfasi è stato sui diritti del popolo. Purtroppo, questo ha talvolta oscurato la coscienza della nazione, oscurando ciò che è giusto in coscienza, a vantaggio del solo diritto di agire. Mentre questa libertà umana intrinseca deve essere difesa, deve essere compresa nel contesto di ciò che è vero e ciò che è giusto. Queste richieste di diritti hanno talvolta offuscato le corrispondenti responsabilità personali e comuni. Lo sfruttamento dei bambini, la tratta di esseri umani, la violazione delle donne e degli uomini, la soluzione delle controversie con al violenza anche tra le coppie in cui il dialogo è sempre più in diminuzione, i litigi tra i leader, dimostrano tutti che un diritto ingannevole ha rimpiazzato la responsabilità di prendere decicioni morali e spirituali, e ha messo a tacere la coscienza.

Per questo, nella nostra lettera pastorale pubblicata lo scorso anno, abbiamo sottolineato la centralità della coscienza individuale per il rinnovamento e la riconciliazione della nostra Nazione.

Tuttavia, quando la coscienza è deformata o disinformata, e quando malizia o vizi guidano la persona, si finisce per scegliere il male rispetto al bene. Quando non ascoltiamo la nostra coscienza, ci immergiamo facilmente nel peccato e nella condotta malvagia, senza preoccuparci delle conseguenze delle nostre azioni sulla nostra vita e del nostro rapporto con Dio. La coscienza può essere deformata da cattive abitudini e vizi. In particolare tutte le azioni di avidità in tutte le sue forme e in gli altri vizi  capitali, il fatalismo e le tendenze suicide indicano tutte una coscienza deformata, fuorviata o disinformata. Il conflitto, la corruzione e l’avidità che vediamo in tutto il paese, nelle famiglie, nelle scuole, nelle comunità e negli affari pubblici nascono dall’ignorare e dal rifiutare la guida della coscienza nel prendere decisioni.

La nostra cultura come africani, kenioti

La relazione BBI mette in risalto il valore della coscienza nel capitolo sull’ethos nazionale. È difficile realizzare le nostre aspirazioni nazionali se non sono ancorate a un’etica fondata. Non siamo un popolo senza cultura, una cultura che ha valori e sistemi per garantirne il successo. Siamo africani, e kenioti in particolare, che vogliono continuare a migliorare la propria vita attraverso sistemi di governo migliori. Ma, questo processo, non dovrebbe in alcun modo allontanarci dalla nostra ricca cultura dell’essere umani, di essere religiosi ed essere persone che apprezzano gli altri, compresi i rifugiati provenienti da vicino e da lontano. La nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo non deve essere inghiottita da una cultura materialistica. L’accumulo di ricchezza deve essere all’interno della nostra cultura di possedere solo ciò per cui hai veramente lavorato. I nostri bisnonni, le bisnonne erano conosciute per la loro generosità soprattutto agli sconosciuti. Ognuno in una famiglia aveva la sua giusta parte.

Riconosciamo quindi le proposte di questa sezione secondo cui gli anziani, i leader religiosi e le istituzioni di apprendimento hanno un ruolo fondamentale nel formare la coscienza, non solo dei bambini, ma anche degli adulti. Nessuna delle proposte avanzate nella relazione o nella Costituzione sarà realizzata se continueremo ad agire in modo da ignorare la nostra coscienza individuale e collettiva. Una coscienza formata si fonda sull’ethos in modo che siamo in grado di ascoltare Dio e noi stessi in ogni momento della nostra vita, sia giovani e che vecchi. Non dobbiamo quindi ingannare noi stessi credendo che bastino i documenti legali da soli a proteggerci dalla caduta in peccato. La migliore legge e la legge di Dio sono iscritte nella nostra coscienza. Come persone che credono Dio abbiamo l’obbligo di fare ciò che è giusto in ogni momento.

Siamo determianti aa intensificare i nostri sforzi per formare una società che abbia coscienza in linea con la relazione BBI. Accogliamo con favore e incoraggiamo la promozione dell’ethos sia nelle nostre istituzioni di apprendimento di base che in quello terziario. Ci impegniamo a sostenere tutte le parti interessate nella formazione dell’ethos nazionale, per il bene di tutti i kenioti.

Conclusione

Cari kenioti, come vostri Pastori, ci appelliamo a ciascuno e a ciascuno di voi a cercare il bene più grande della nostra nazione, a cercare l’unità e a lavorare per la vera riconciliazione. Chiediamo a tutti noi leader, e in particolare ai leader politici, di vedere un quadro più ampio di una nazione unita, resiliente e riconciliata, dove tutti noi siamo custodi dei nostri fratelli e sorelle. Questo è il momento di evitare la politica divisiva, di cercare le vie del dialogo e di condividere i nostri valori.

Rivolgendoci a voi, cari kenioti e a tutte le persone di buona volontà, da questo santuario mariano dove ci riuniamo ogni anno per pregare per la nostra nazione, invocando l’intercessione materna della Madre di Dio, chiediamo unità, amore e riconciliazione e la guarigione da tutti i mali e soprattutto dalla pandemia Covid-19.

Possa la Pace di Cristo rimanere con voi tutti. Dio vi benedica tutti! Dio benedica il Kenya!

Mons Philip Anyolo
presidente della  Conferenza episcopale del Kenya
Arcivescovo Kisumu e Amministratore Apostolico di Homa Bay

Data: giovedì 12 Novembre 2020

(seguono le firme di tutti gli altri vescovi)
[nostra traduzione dall’originale inglese]




Angola: Luacano vive

Padre Mark Simbeye ci manda due brevi flash di vita missionaria da Luacano, nel cuore dell’Angola.

La nostra parrocchia (di Luacano) è in festa.

Dopo due anni dalla nascita, tempo dedicato alla formazione e all’iniziazione ai sacramenti, nel giorno 11 di ottobre 2020 la parrocchia santa Maria Mãe de Deus in Luacano in Angola si è rallegrata con i suoi 13 nuovi figli e figlie, le primizie deliziose del Battesimo e Prima Comunione.

11 ottobre 2020, battesimi a Luacano

Lituta

Il 15 ottobre abbiamo fatto una visita pastorale alla cappella di san Paolo in Lituta alla distanza di 67km da Luacano.

In viaggio verso Lituta

La cappella ha cinque anni di vita.  La strada per arrivarci non è facile perché prima di tutto non esiste, bisogna crearsela. Poi, la cappella e ricca di bambini ma pochi adulti. Inoltre è molto triste constatare che in questo villaggio non esistono né scuola, né centro medico né asilo per i bambini.

Mark Simbeye,
missionario della Consolata a Luacano, Angola




Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo


Un documentatissimo libro-inchiesta sul perché Bill Gates, Warren Buffett, Bill Clinton e Mark Zuckerberg sono i protagonisti della nuova mega filantropia. Il ruolo ambiguo di Bill Gates sul vaccino anti-Covid19

Perché l’élite dell’1% del pianeta, la classe più predatoria della storia umana, è anche la più socialmente impegnata a sostenere cause nobili come salute, educazione, lotta alla fame, con la scusa di cambiare il mondo? Che cosa si nasconde dietro la rinascita della filantropia a vocazione globale? L’impegno sempre più pervasivo dei filantropi è davvero la soluzione alle sfide della contemporaneità o non è piuttosto un ambiguo e problematico effetto delle disuguaglianze strutturali che rendono la nostra epoca la più ingiusta di tutti i tempi? E che cosa è il «filantrocapitalismo», la versione più sofisticata della filantropia che da due decenni domina la scena internazionale e che si consolida oggi nel tempo di Covid19?

Sono queste, e molte altre, le domande che la giornalista Nicoletta Dentico, esperta di salute globale e cooperazione internazionale, affronta nel suo formidabile saggio-inchiesta Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo (Editrice missionaria italiana, pp. 288, euro 20, già in libreria). Si tratta del primo libro in Italia dedicato al tema del filantrocapitalismo, un’abile strategia inaugurata all’inizio del nuovo millennio da una ristretta classe di vincitori sulla scena della globalizzazione economica e finanziaria. Grazie alle donazioni erogate tramite le loro fondazioni in nome della lotta alla povertà questi imprenditori, nuovi salvatori bianchi, hanno cominciato a esercitare un’influenza sempre più incontrollata sui meccanismi di governo del mondo e sulle loro istituzioni, modificandole profondamente. Il tutto, in un intreccio di soldi, potere e alleanze con il settore del business che i governi non sanno più arginare né possono più controllare. Anzi, sono i leader del mondo politico ad accogliere i ricchi filantropi a braccia aperte, ormai, senza più fare domande.

Come è avvenuto in passato con John Rockefeller e Andrew Carnegie, la generosità di chi ha accumulato mastodontiche ricchezze rischia di non essere del tutto disinteressata. «Il Wealth-X and Arton Capital Philantrophy Report 2016 evidenzia come le donazioni dei super-ricchi siano incrementate del 3% nel 2015», scrive Dentico. «Numeri alla mano, il rapporto racconta gli effetti benefici di questa arte della generosità: gli imprenditori che hanno versato almeno un milione di dollari hanno finito per ammassare più profitti dei loro pari di classe».

Di questa realtà di costante accumulazione si nutre l’ottimismo win-win che alimenta il fenomeno filantropico, i cui valori, strumenti e metodi sono inequivocabilmente quelli della cultura di impresa, applicata al mondo dei bisogni umani disattesi. I filantropi, per loro stessa ammissione, puntano a creare nuovi mercati per i poveri. «Funziona così: se i poveri diventano consumatori non saranno più emarginati. E da clienti possono riguadagnarsi la loro dignità». Rispetto alla filantropia classica, il filantrocapitalismo ha assunto dimensioni così pervasive e sistemiche da condizionare la stessa azione degli stati: «Libere da ogni costrizione territoriale, le fondazioni filantrocapitaliste sono riuscite a occupare un campo d’azione sconfinato» si legge nel libro. «Esercitano un ruolo ingombrante nella produzione di conoscenza, nell’affermazione di modelli, nella definizione di nuove strutture della governance globale».

«Il liquido amniotico della filantropia è la disuguaglianza» sostiene Nicoletta Dentico, che nella sua poderosa inchiesta motiva accuratamente le ragioni per cui questa élite si è messa alla testa della battaglia per cambiare il mondo. Invece, «se nel mondo vigesse un’equa distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia», perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati che detengono più della metà delle risorse del pianeta. Dentico mette in luce uno degli aspetti più controversi e paradossali del fenomeno: le enormi agevolazioni fiscali di cui godono nel mondo filantropi e fondazioni, anche le più opulente: «Che cosa legittima politicamente l’idea di un incentivo sulle tasse a questi miliardari e alle loro fondazioni? Quali vantaggi ne avrebbe una società, se si utilizzasse invece la tesoreria pubblica, perduta a causa degli incentivi, per produrre il bene comune?».

Il filantrocapitalismo diventa così una strana forma di legittimazione morale, «una valvola di sfogo» tramite cui investire, detassati, i profitti spesso accumulati con flagranti operazioni di elusione o evasione fiscale. Un esempio per tutti: «Nel 2012, un rapporto del Senato americano calcolava in quasi 21 miliardi di dollari la quantità di denaro che Microsoft era riuscita a trafugare nei paradisi fiscali in un periodo di tre anni, grosso modo l’equivalente della metà dell’incasso netto delle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, con un guadagno fiscale di 4,5 miliardi dollari annui». Oggi il fondatore di Microsoft, Bill Gates, è la figura preminente e più iconica del filantrocapitalismo, con una fondazione intitolata a lui e alla moglie Melinda che al momento della nascita (2000) disponeva di 15,5 miliardi di dollari per esercitare la propria azione, focalizzata su salute e vaccinazioni, biotecnologie, incremento della produttività agricoltura in Africa (ciò che significa far largo agli Ogm), educazione, finanza. La Fondazione Gates mantiene un forte legame finanziario con aziende assai poco virtuose sul piano dei consumi e della salute, che però garantiscono sicure remunerazioni sull’investimento: ad esempio, investe 466 milioni di dollari negli stabilimenti della Coca-Cola e 837 milioni di dollari in Walmart, la più grande catena di cibo, farmaceutici e alcolici degli Usa.

La Fondazione Gates spicca oggi per l’incontenibile attivismo con cui dirige le attività internazionali nella ricerca di un vaccino anti-coronavirus, con implicazioni non banali data la rilevanza pubblica di un’emergenza mondiale come quella di Covid-19: «Nel 2015, Gates aveva capito che un virus molto contagioso sarebbe arrivato a sconquassare il mondo iperglobalizzato. Sars-CoV-2 è arrivato, alla fine, e il mondo si è fatto trovare del tutto impreparato. L’unico pronto a un simile scenario è stato il monopolista filantropo di Seattle», spiega Dentico: 300 milioni di dollari subito sul piatto da parte della Fondazione Gates (poi saliti addirittura a 530 milioni di dollari), ormai accreditatasi sulla scena della lotta alla pandemia alla pari di istituzioni internazionali come Oms, Banca Mondiale e Commissione europea, un pericoloso precedente nella governance di fenomeni globali – come in questo caso la lotta a una pandemia. Tanto più che «in tutti questi anni, Bill Gates ha molto contribuito al rafforzamento geopolitico di Big Pharma [il cartello composto dalle principali case farmaceutiche mondiali, ndr], erodendo e sottraendo terreno alla società civile in questo duro conflitto politico».

L’implacabile inchiesta di Nicoletta Dentico scruta anche l’azione filantropica di altre figure di imprenditori plutocrati o politici potentissimi diventati improvvisamente «benefattori» globali: Ted Turner, Bill e Hillary Clinton, e i nuovi arrivati sulla scena della filantropia come Mark Zuckerberg. Unico nella sua genesi è il caso della famiglia Clinton, che ha fatto della filantropia globale – tramite la Fondazione Clinton – la via maestra per continuare a esercitare il potere dopo due mandati presidenziali, anche a costo di contraddire l’agenda diplomatica statunitense, nel momento in cui Hillary Clinton è segretaria di stato dell’amministrazione Obama. Molto eloquente a questo riguardo il caso del potentissimo uomo d’affari Frank Giustra che entra nel giro delle estrazioni minerarie in Kazakhstan grazie ai buoni uffici della Fondazione Clinton nel paese centro-asiatico, che gli Stati Uniti hanno stigmatizzato per le sistematiche violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali della persona.

Come scrive Bandana Shiva nella prefazione, «il libro di Nicoletta Dentico arriva al momento giusto, ed è necessario. Sarà una bussola importante per difendere le nostre esistenze e libertà dalle forme della ricolonizzazione variamente avallate dal filantrocapitalismo».

 


I NUMERI E LE CIFRE DA RICCHI E BUONI?

Lotta alla povertà? Basta l’1% del Pil (e meno armi)

«Ho imparato a diffidare dalla narrazione legnosa sulla “lotta alla povertà”. Basterebbe una frazione di quanto si spende in armi, poco più dell’1% del prodotto interno lordo mondiale, per invertire la rotta. (p. 21)

 L’età dell’oro delle Fondazioni filantropiche: una rinascita sospetta nei tempi della disuguaglianza

«Si contano oltre 200.000 fondazioni nel mondo. Sono 87.142 le entità registrate negli Usa. Circa 85.000 in Europa occidentale, e circa 35.000 nell’Europa dell’Est. Si contano circa 10.000 fondazioni in Messico, almeno 1000 in Brasile e 2000 in Cina». (p. 57)

 Bill Gates conta più dell’Onu (in fatto di quattrini)

«Dall’inizio delle attività la Fondazione Bill & Melinda Gates ha mobilitato una massa totale di finanziamenti di 50,1 miliardi di dollari e una capacità di erogazione nel 2018 di 5 miliardi di dollari. Tra il 2013 e il 2015, la Fondazione Gates ha potuto destinare 11,6 miliardi di dollari allo sviluppo globale, più di quanto non riescano a fare le agenzie delle Nazioni Unite». (p. 59)

Gates finanzia l’Oms 24 volte quel che danno i Brics!

«Nel biennio 2010-11 la Fondazione Gates ha versato oltre 446 milioni di dollari all’Oms, più di ogni altro contribuente statale dopo gli Stati Uniti: una cifra 24 volte superiore ai contributo erogati da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica messi insieme». (p. 156)

Se i ricchi pagano meno tasse delle fasce sociali più emarginate

«La ricerca degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman evidenzia che le 400 famiglie più ricche d’America hanno pagato nel 2018 un’aliquota effettiva del 23%, cioè un punto percentuale in meno di quello versato dalle famiglie delle fasce sociali meno abbienti (24,2%)». (p. 98)

Pagare le tasse? Anche no (per i super-ricchi)

«In un anno è semplicemente raddoppiato il numero delle mega-imprese che non hanno pagato tasse grazie alle radicali politiche fiscali dell’amministrazione Trump a beneficio dei ricchi e delle aziende private. Sono 60, alla fine del 2019. Tra i titani esentasse si contano Amazon, Netflix, Ibm, Chevron, Ely Lilly, Delta Airlines, General Motors e Goodyear». (p. 99)

La «podium economy» di Bill Clinton

«La professione di conferenziere segna la fortuna dell’abilissimo oratore che, liberatosi dalla Casa Bianca, cominciò a battere il circuito dei più prestigiosi eventi internazionali con esiti finanziari sbalorditivi: 105,5 milioni di dollari raccolti per sé in dieci anni, dal 2002 al 2012». (p. 230)

Zuckerberg, il generosissimo che non paga le tasse

«Ispirata dalla nascita della prima figlia, la coppia Mark e Priscilla Zuckeberg ebbe a comunicare la costituzione della Chan Zuckerberg Initiative, una fondazione nuova di zecca con cui s’impegnavano a destinare nientemeno che il 99% della ricchezza accumulata nel corso della vita a finalità benefiche – circa 45 miliardi di dollari, al valore corrente di Facebook. […] Il gruppo di Zuckerberg ha avuto un’aliquota fiscale media dell’1% nei paesi extra Ue in cui ha operato». (p. 265)


L’AUTRICE

 Nicoletta Dentico, giornalista, è esperta di cooperazione internazionale e salute globale. Dopo una lunga esperienza con Mani Tese, ha coordinato in Italia la Campagna per la messa al bando delle mine vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 1997, e diretto in Italia Medici Senza Frontiere (MSF) – premio Nobel per la Pace nel 1999 – con un ruolo di primo piano nel lancio e promozione della Campagna internazionale per l’Accesso ai Farmaci Essenziali. Co-fondatrice dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (Oisg), ha lavorato a Ginevra per Drugs for Neglected Diseases Initiative (DNDi) e poi per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Più di recente è stata per alcuni anni responsabile della sezione internazionale della Fondazione Lelio Basso. Dal 2013 al 2019 è stata consigliera di amministrazione di Banca Popolare Etica e vicepresidente della Fondazione Finanza Etica. Dalla fine del 2019 dirige il programma di salute globale di Society for International Development (SID).

Lorenzo Fazzini – Ufficio stampa EMI
Verona, 16 ottobre 2020




Eccoci! Ora spetta a noi…

testo della Fesmi, Federazione della Stampa missionaria italiana |


«In questo anno, segnato dalle sofferenze e dalle sfide procurate dalla pandemia da Covid-19, il cammino missionario di tutta la Chiesa prosegue alla luce della parola che troviamo nel racconto della vocazione del profeta Isaia: “Eccomi, manda me” (Is 6,8). È la risposta sempre nuova alla domanda del Signore: “Chi manderò?”. Questa chiamata proviene dal cuore di Dio, dalla sua misericordia che interpella sia la Chiesa sia l’umanità nell’attuale crisi mondiale».

Noi riviste, siti e realtà editoriali impegnate nell’informazione e nell’animazione missionaria ci sentiamo interpellati dalle parole che Papa Francesco scrive nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2020. «Eccomi, manda me» è un invito che sentiamo rivolto in maniera particolare al nostro compito di comunicatori in questo momento in cui tanti fratelli e sorelle sono alla ricerca di una parola vera di speranza per alleviare tante paure e chiusure rese ancor più evidenti dalla pandemia.

«Eccoci, manda noi». A raccontare che davvero «siamo tutti sulla stessa barca». Il Papa lo ripete oggi a noi, riproponendo le parole da lui pronunciate la sera del 27 marzo in una piazza San Pietro deserta. Perché l’esperienza del Coronavirus ha reso evidente quanto una malattia possa renderci ugualmente fragili, da una parte all’altra del mondo. Ora spetta a noi il compito di far vedere che anche in questa grande tragedia che ha già portato via più di un milione di vite sono sempre i poveri a pagare il prezzo più alto. Come tocca a noi mostrare che anche per tanti altri mali che affliggono il mondo di oggi è così. Che anche le guerre alimentate dai profitti dell’industria delle armi, la povertà prodotta da uno sfruttamento iniquo delle risorse e del lavoro di fratelli e sorelle, il dramma della fame già da alcuni anni tornata a crescere in troppe aree del mondo, la distruzione del creato che, in nome del profitto di pochi, spoglia la vita di intere comunità, sono virus davanti ai quali nessuno può sentirsi davvero immune.

«Eccoci, manda noi». Ad accompagnare chi anche in questo tempo difficile sceglie di lasciare tutto e parte per annunciare il Vangelo di Gesù. Perché anche là dove tutto sembrerebbe suggerire un prudente ripiegamento, noi sappiamo che «nessuno è escluso dall’amore di Dio». E allora tocca a noi mantenere aperto lo sguardo sulle strade nuove che lo Spirito continua ad aprire nelle periferie. Narrare la fede testimoniata a prezzo della vita sulle frontiere più sofferte, la speranza seminata sui banchi delle scuole di ogni latitudine, la carità che trasfigura ciò che agli occhi del mondo sembrava piccolo e inutile. Tocca a noi far sì che la testimonianza che ci arriva dalle Chiese dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina scuota ancora le nostre comunità uscite quanto mai spaesate da un’esperienza che ci costringe ad uscire dalla comodità rassicurante del «si è sempre fatto così».

«Eccoci, manda noi». A scoprirci «tessitori di fraternità». Nel tempo dell’isolamento forzato, durante la pandemia, abbiamo sperimentato la nostalgia delle nostre relazioni di familiarità e di amicizia. Ora tocca a noi far sì che non resti solo un sentimento vago, ma questa consapevolezza diventi la primizia di un’umanità nuova. Tocca a noi far scoprire che in missione persone di culture e religioni diverse si incontrano per riconoscersi insieme figli e figlie dell’unico Dio. Che gli ostelli o gli ospedali realizzati grazie alla generosità di tanti hanno la loro porta aperta per accogliere tutti. E che guardare negli occhi ogni persona è sempre il primo passo per costruire percorsi di riconciliazione anche là dove le ferite lasciate dai conflitti sono più profonde.

«Eccoci, manda noi». In un mondo dell’informazione dove le notizie parrebbero avere orizzonti ogni giorno più ristretti, vogliamo essere coloro che aiutano a tenere aperta la mente e il cuore. Per partecipare anche noi alla missione della Chiesa, oltre la paura del mare in tempesta.

1° ottobre 2020
riviste e siti degli Istituti missionari italiani,
associati nella Federazione della stampa missionaria italiana (Fesmi)


Da guardare: Tessitori di Fraternità

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Il popolo di Cabo Delgado vuole la Pace

Testo di padre Edegard Silva Junior a nome della diocesi di Capo Delgado, Mozambico |


La provincia di Cabo Delgado, nell’estremo nord-est del Mozambico, ha come capitale Pemba, situata a circa 2.600 km a nord di Maputo. La Provincia ha una superficie di 82.626 km2 e una popolazione di 2,3 milioni di abitanti. È divisa in 17 distretti e cinque comuni. È in questa regione, una delle più povere del paese, che dall’ottobre 2017 è in corso una guerra che ha lasciato più di 1.500 morti e migliaia di sfollati.

 Contestualizzare la guerra

Il primo attacco da parte di gruppi armati, precedentemente sconosciuti nella provincia di Cabo Delgado, ha avuto luogo il 5 ottobre 2017, nella città di Mocàmboa da Praia. Nel novembre dello stesso anno, alcune moschee sono state chiuse perché, inizialmente, si sospettava che gli attacchi fossero stati pianificati in loro. Tuttavia, le motivazioni di questa guerra e i suoi rappresentanti non sono mai stati sufficientemente presentati. A causa della realtà in cui viviamo, presupponiamo le ragioni, ma si rende necessaria una spiegazione da parte dello Stato. Dopo quel primo attacco, la situazione sembra aver perso “controllo”.

La regione colpita da una violenta aggressione comprende nove comuni o distretti: Palma, Mocàmboa da Praia, Nangade, Mueda, Muidumbe, Macomia, Meluco, Quissanga e Ibo Island. Circa 600.000 persone vivono in questa zona. Sono piccoli semplici agricoltori, artigiani, per lo più senza alcun coinvolgimento ideologico o senza alcun conflitto religioso. Tutti questi luoghi hanno sofferto e continuano a soffrire di attacchi da parte di insorti o terroristi. È necessario chiarire che non si tratta di una guerra tribale o di gruppi etnici.

Il Vescovo della Diocesi di Pemba, Dom Luiz Fernando Lisboa, C.P., ha assicurato la presenza di missionari in tutte le comunità di questa regione. Attualmente, la Diocesi ha mantenuto sacerdoti e religiosi in tutti questi distretti. Questi missionari hanno seguito da vicino la situazione della guerra e il dramma vissuto dalle comunità.

Gli attacchi o le azioni terroristiche sono aumentati gradualmente. Le strategie sono cambiate nel tempo. Inizialmente, usavano armi più leggere e attaccavano in piccoli gruppi. Quando gli insorti arrivano nei villaggi, in realtà attaccano persone innocenti e indifese. Le vittime sono i poveri che vivono molto semplicemente, in case di fango, coperte di paglia. Abbiamo una strategia: quando arrivano, se c’è tempo, qualcuno della comunità fa suonare la campana per segnalare il pericolo alla popolazione (ma non sempre questa tattica è efficace e di successo). A quel punto, ogni famiglia sa già dove correre, sempre dirigendosi verso la boscaglia. Loro bruciano le case e tutto quello che c’è dentro. È anche successo che alcune persone sono state bruciate vive o addirittura decapitate. All’inizio degli attacchi, questo è stato fatto usando soprattutto il machete (strumento molto comune nelle attività rurali).

Da queste parti, tutti i villaggi sono interconnessi con membri della famiglia e conoscenti presenti nei vari distretti. Anche con poche risorse, la comunicazione avviene rapidamente. In questo modo, quando si verifica un attacco, la notizia si diffonde in ogni villaggio. Questo fa vivere l’intera popolazione nella paura, incidendo fortemente sulle loro abitudini quotidiane. Ad esempio, l’orario delle celebrazioni nelle chiese e quello delle scuole sono cambiati. Le persone si chiudono in casa presto, e spesso hanno anche paura di andare a lavorare da soli in giardino o nei campi. Lo scenario è spaventoso: tutti vivono nel terrore, sempre in attesa di dove e come sarà il prossimo attacco.

Come ogni guerra, le tattiche degli attacchi sono cambiate. Dall’attacco ai villaggi, sono passati ad attaccare auto, pullmini e autobus sulle strade. Se prima la nostra paura era limitata solo a rimanere nei villaggi, ora questa paura si estende al viaggiare, data la necessità di prendere trasporti per muoverci. Diversi attacchi sono stati segnalati con molti morti e con auto bruciate.

Abbiamo realizzato, valutando le tattiche e rapporti, che il gruppo degli insorti sta aumentando. Abbiamo sentito parlare di reclutamento giovani attraverso l’offerta di denaro. In una realtà di disoccupazione e abbandono, molti tendevano ad accettare questa proposta.

Sottolineiamo che finora non abbiamo informazioni chiare su chi è responsabile, né che ci sia un’azione chiara del governo per controllare le azioni terroristiche. Di conseguenza, ci rendiamo conto che, da un «piccolo esercito» armato di machete stiamo passando ad un terrorismo armato di armi pesanti e moderne. Basti dire che in uno degli attacchi al distretto di Mocàmboa da Praia, i terroristi sono entrati via terra e via mare armati con un forte arsenale di guerra, e lo stesso è accaduto nel distretto di Quinga.

Gli attacchi aumentarono e circolarono informazioni che l’interesse del gruppo sia quello di attaccare gli uffici distrettuali, in particolare gli edifici pubblici. Così, ogni giorno c’era una successiva ondata di attacchi contro “edifici ufficiali”. Molte cose sono state distrutte e bruciate: tribunali, scuole, ospedali, banche, case, uffici, sedi amministrative. Purtroppo, la gente è stata lasciata nella boscaglia senza acqua né cibo. In tutti i distretti, il commercio è stato compromesso in quanto la strategia degli insorti è quella di bruciare ogni piccolo negozio. Alla fine del 2019 e nella prima metà del 2020, alcuni chiese cattoliche sono state violate e bruciate.

Tuttavia vogliamo far notare che pastoralmente la diocesi di Pemba è presente nella regione settentrionale con un team di 35 missionari:missionariesacerdoti mozambicani e missionari e  provenienti da dieci paesi diversi. Queste presenze garantiscono l’assistenza religiosa e sociale in queste località. Nei nostri incontri con gli operatori pastorali o attraverso i social network ci chiediamo sempre: chi sono questi malfattori? Cosa vogliono? Perché uccidono gli innocenti? Pensiamo che questa guerra abbia un “volto nascosto” (un occulto esplicito). Abbiamo iniziato a parlare delle possibili “ipotesi” che configurano questo “volto”.

C’è una chiara identificazione dei responsabili di questi conflitti?

Abbiamo qualche ipotesi per spiegare questa guerra che va avanti da quasi tre anni. Alcuni parlano in diversi scenari per capire questa situazione. D’altra parte, la popolazione si sente inquieta di fronte a una certa “indifferenza” del governo mozambiano sulla realtà degli attacchi. C’è poca copertura mediatica giornalistica. Questo è in una regione in cui il governo ha una delle sue più grandi basi politiche. Oltre a questi attacchi, la regione di Cabo Delgado ha affrontato, allo stesso tempo, altre calamità. Tra questi, il ciclone Kenneth e le forti piogge iniziate nel dicembre 2019 che hanno lasciato la regione isolata per quasi cinque mesi.

Ma quale organizzazione terroristica ha dato sostegno economico e militare a questa guerra, il cui costo è sempre molto alto? Chi ha allenato gli insorti con tattiche militari? In realtà, non abbiamo parole ufficiali in grado di rispondere a queste domande. Assumiamo che sia la presenza di gruppi che sostengono la radicalizzazione islamica, compreso il gruppo Al-Shabab.

A un certo punto, l’orientamento era quello di non formalizzare gli attacchi come derivati da motivi religioso, anche perché questa guerra, come tutte le altre, sembra essere più motivata da interessi economici che religiosi.

Nell’attacco di Quissanga, sono stati trasmessi alcuni video e, in essi, i terroristi parlano chiaramente degli obiettivi religiosi e del loro desiderio di attuare lo Stato islamico nella regione. Questi filmati sono stati registrati da discorsi e dall’innalzamento della bandiera di questo movimento. In un mondo segnato da “fake news“, dobbiamo controllare e mettere in discussione alcune immagini che ci arrivano attraverso i social network, ma comunque quelle immagini ci hanno fatto molto preoccupare.

Un altro punto è che non ci sembra molto chiaro che c’è un legame tra questa guerra e le precedenti. Se guardiamo alle “tre guerre” affrontate dal Mozambico, questa ha un volto molto specifico, perché sembra puntare più alla concentrazione di ricchezza della regione e al suo possibile controllo.

C’è qualche motivazione di un ordine religioso o economico?

Da un punto di vista religioso, gli ultimi attacchi portano alcuni elementi. Ci saranno un sacco di informazioni che non sapremo fino a dopo la guerra. Ci sarà bisogno di fare un discorso più accurato e ascoltare le persone. In questo momento è impossibile saperlo, perché molti villaggi sono abbandonati e in molti ci è proibito entrare.

Alcune morti che si sono verificate sono legate al rifiuto di aderire alla proposta religiosa dello Stato islamico. Al più presto, dovremmo chiarire l’attacco alla Comunità di Xitaxi. In questa comunità, l’8 aprile, c’è stato il massacro di 52 giovani. Si sostiene che questi giovani si siano rifiutati di accettare le proposte dei terroristi di entrare nei loro ranghi. C’è stata anche la violazione e la profanazione di diverse chiese cattoliche. Tuttavia, è necessaria molta cautela prima di affermare che gli attacchi sono mirati alla creazione dello Stato islamico in questa regione.

Un altro aspetto molto chiaro per noi: la provincia di Cabo Delgado è una delle più ricche del paese. Questa regione è ricca di gas naturale. È la provincia dove la Total ha fatto il più grande investimento in Mozambico, per la costruzione della “Città del Gas”, sulla penisola di Afungi. Le risorse petrolifere di Cabo Delgado sono sfruttate dalle multinazionali, mentre la popolazione vive in povertà, senza accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e al lavoro. Così, possiamo dire che questa disuguaglianza economica può favorire i predicatori del fondamentalismo islamico, che hanno visto qui un terreno fertile per la sua espansione o anche gruppi locali che vogliono garantirsi una fetta. Si parla di un controllo della regione in considerazione della ricchezza del suo suolo e del suo oceano. Di conseguenza, attaccare i villaggi sarebbe un modo per spopolare la regione al fine di avere un migliore “controllo” di queste ricchezze. Ci può anche essere un interesse religioso, la cui missione sarebbe quella di impiantare lo Stato Islamico. Ma queste sono solo ipotesi.

Diritti umani più minacciati

La Chiesa cattolica ha sempre difeso i diritti umani. La Dottrina Sociale della Chiesa riprende e contribuisce alla formulazione di questi diritti basata sulla Parola di Dio. Pertanto, la nostra missione è anche quella di difendere i diritti umani. Non si tratta di prendere ogni articolo in dettaglio. Citiamo solo i primi: “ogni essere umano ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale”. Vedere che questo articolo è costituito proprio da ciò che è stato preso da noi. Per questo motivo, questa diocesi, con i suoi missionari e animatori, ha sofferto e pianto di vedere tante morti, ingiustizie con i poveri, soprattutto perché questa guerra ha causato più di 1.000 morti e più di 200.000 persone sono state sfollate. A questo quadro si aggiunge il numero di persone torturate, sottoposte a crudeli punizioni, detenute e prigioniere. Siamo anche preoccupati per il numero di persone rapite, violando così la sopracitata Dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Conseguenze immediate di questi eventi

Abbiamo sperimentato molte conseguenze, tra queste: a) villaggi abbandonati; b) la fame che è aumentata, perché la terra non viene coltivata; c) la perdita del poche risorse (case, vestiti, cibo, ecc.); d) la destrutturazione delle famiglie, costringendone i membri a disperdersi ovunque; e) la vita comunitaria è distrutta: nessuno sa dove siano i catechisti, gli animatori, i ministri di molte comunità; f) l’anno scolastico è stato compromesso; g) la paura attanaglia le persone e c’è sfiducia e diffidenza per l’arrivo di qualsiasi persona sconosciuta nel villaggio.

Gli agenti pastorali

Pensando alla sicurezza e garantendo la presenza dei missionari e dei missionari, Don Luiz Fernando ha riunito gli agenti pastorali nella diocesi. A giugno, i missionari della regione settentrionale hanno inviato un messaggio alle comunità: “Come molti di voi, la maggior parte dei missionari ha dovuto lasciare i propri luoghi di missione. Speriamo di essere di nuovo insieme presto. Questa semplice lettera è quella di dire a tutti che noi Missionari e Missionari preghiamo ogni giorno per tutte le persone e le comunità! Che cii manca tantissimo lo stare con voi! Che speriamo che tutto questo passi presto in modo da poter servire di nuovo tutti, come abbiamo sempre fatto!

La nostra preghiera in questo momento ha sempre due intenzioni: per la fine di questa sofferenza che si è diffusa ovunque e per PEACE in CABO DELGADO! Pregate anche voi per  queste intenzioni: che gli attacchi finiscano presto e tutti possano tornare al loro lavoro e alle loro celebrazioni“.

Necessità di misure nazionali e internazionali

A nostro avviso, è più che necessario far conoscere questa guerra sulla scena internazionale in modo che le persone e le organizzazioni internazionali abbiano accesso alle informazioni e alle situazioni del paese. Un altro passo è il coraggio di denunciare, in un linguaggio ecclesiale, come esercizio di profezia.

Da un punto di vista politico/militare, alcuni parlano di cooperazione tra paesi alleati che agiscono in questa regione. Tuttavia, abbiamo poche informazioni sulle azioni che vengono eseguite dalla forza di sicurezza. Ogni tanto sentiamo che l’esercito ha combattuto i terroristi, tuttavia, in un’altra parte della regione, siamo colti alla sprovvista dalla notizia di ulteriori attacchi.

Rapporti dei fatti indecisi e informazioni di parte

Questa guerra ha generato grande angoscia emotiva, sia nel nostro vescovo, come nei missionari e residenti situati nella regione settentrionale e in tutta la diocesi. Le nostre attività quotidiane si rivolgono alle azioni più urgenti: aiutare le persone in fuga dalla guerra, sostenere e confortare i familiari che hanno perso le loro famiglie, fornire cibo, organizzare luoghi di accoglienza. In questo senso, è importante riconoscere l’efficace lavoro della Caritas diocesana in collaborazione con le nostre attività. Inoltre, dobbiamo riconoscere le azioni di molte organizzazioni internazionali: le Nazioni Unite (ONU), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), tra gli altri.

Questo atteggiamento serve a dire che la nostra attenzione si rivolge puntualmente a questa situazione. Tuttavia, siamo stati costantemente bombardati da rapporti totalmente stravolti, bugiardi, con notizie di tendenziose che attaccano soprattutto la persona di Dom Luiz Fernando. Il Vescovo di Pemba è stato vittima di calunnie e di dure e menzogne. In un primo momento, diversi settori della diocesi hanno cercato di rispondere. Poi facciamo conoscere gli articoli e li lasciamo liberi per le dimostrazioni. Uno di questi articoli che ha calunniato Dom Luiz ha stimolato l’iniziativa di diverse organizzazioni, a Maputo, la capitale del paese, per creare una campagna di sostegno con firme digitali. In cinque giorni, questa petizione aveva migliaia di firme.

Solidarietà internazionale

Sappiamo che il continente africano non suscita l’interesse di molti paesi, né dei media tradizionali. Pertanto, uno degli ordini del giorno che dobbiamo assumere nelle nostre azioni pastorali e nei media che abbiamo è quello di diffondere tutto ciò che possiamo sull’Africa, in particolare la situazione di Cabo Delgado in Mozambico. Qualsiasi azione di solidarietà – che sia il gesto minimo, o un’azione politica – organizzata dal punto di vista politico – in questo momento è di fondamentale importanza. Auguriamo urgentemente pace a Cabo Delgado; speriamo che le persone tornino alle loro case, villaggi e comunità, che i nostri missionari possano tornare all’opera di evangelizzazione in un ambiente sicuro, rispettando e valorizzando le singolarità del nostro popolo africano. In questo momento di fragilità, quando i missionari sono lontani dalla missione come misura di sicurezza, qualche parola o azione che viene da qualsiasi organizzazione, ecclesiale o sociale, è un gesto evangelico. Ogni azione di solidarietà dimostra la nostra umanità, ogni gesto di condivisione mostra il Vangelo vissuto nella pratica, incarnato nell’esperienza del popolo.

Papa Francesco e la solidarietà ecclesiale

In questo clima di guerra e Covid-19, attività pastorali poi nelle dinamiche della “nuova normalità”. È un tempo di tristezza, di famiglie separate, di comunità tutte distrutte… in questo momento la solidarietà, le parole di conforto e di incoraggiamento sono importanti per noi per continuare il nostro cammino. Essi vengono attraverso diverse “porte” e provengono da vari luoghi.

Tra questi gesti di solidarietà, si evidenzia quella di Papa Francesco.  Questo riconoscimento del Papa è importante per noi perché indica che non siamo soli in questa ardua missione. Nella recita dell’Angelus della Domenica di Pasqua, il 12 aprile 2020, Francesco ha menzionato la guerra di Cabo Delgado. Cinque mesi dopo, in occasione della sua visita in Mozambico a Maputo, ripete ancora una volta la sua preoccupazione.

Più tardi, Don Luiz scrive personalmente a Papa Francesco riportando ciò che sta accadendo. Il 19 agosto 2020, alle 11:29, Dom Luiz riferisce:“Con mia grande sorpresa e gioia, ho ricevuto una chiamata da Sua Santità, Papa Francesco, che mi ha molto confortato. Ha detto che è molto vicino al Vescovo e a tutto il popolo di Cabo Delgado e segue con grande preoccupazione la situazione vissuta nella nostra Provincia e che ha pregato per noi”. Don Luiz continua e descrive il suo colloquio con il Papa: “finalmente, il Papa ha detto che è con noi e ci ha incoraggiato: adelante!”, che significa: in avanti! coraggio!…

Nella stampa spesso media e calunniosa, c’erano anche coloro che dubitavano della veridicità della telefonata. Per queste menti, la risposta è arrivata in soli quattro giorni quando, nella recita dell’Angelus del 23 agosto 2020, Papa Francesco ha detto: “Vorrei ribadire la mia vicinanza al popolo di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, che soffre a causa del terrorismo internazionale. Lo faccio nel ricordo vivente della mia visita in quell’amato paese circa un anno fa”.

Pertanto, in questo momento di sofferenza, in cui la fragilità umana aflora, ogni parola o gesto ha un grande significato. Vorremmo finire dicendo che questo racconto è riassunto in una parola così semplice e piccola, ma al momento è ancora lontano da una pratica: vogliamo PEACE! La gente di Cabo Delgado vuole PEACE! La gente vuole tornare alle proprie comunità e vivere in PEACE! I missionari vogliono tornare nelle parrocchie e vivere in PEACE!

Secondo ACLED, acronimo di Location of Armed Conflicts and Event Data, dal 2017 ci sono stati 823 conflitti armati in Mozambico, 534 dei quali si sono verificati a Cabo Delgado (396 direttamente contro i civili). Durante questo periodo, dei 1678 ucciso nei conflitti nel paese, 1496 erano nella provincia di Cabo Delgado.


Padre Edegard Silva Jànior, è un missionario brasiliano salettiano che lavora nella Missione di Muidumbe nella diocesi di Pemba. Il sacerdote ha inviato queste informazioni a nome della Diocesi in modo che il mondo conosca la situazione di Cabo Delgado e mostri solidarietà con quella gente.

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Su MC Leggi: Jihad in Africa: nuovo fronte a Cabo Delgado, Mozambico




Consacrazione episcopale di padre Giorgio Marengo, Imc

Consacrazione episcopale

di padre Giorgio Marengo, Imc

Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia

Carissimi Fratelli e Sorelle,
la comunità cattolica della Mongolia
e i Missionari e le Missionarie della Consolata
con gioia annunciano che
la consacrazione episcopale di
padre Giorgio Marengo,
per le mani del cardinal Luis Antonio Tagle,
avverrà il giorno 8 agosto, alle ore 10,
al Santuario della Consolata di Torino.

Nominato Prefetto Apostolico e vescovo da Papa Francesco lo scorso 2 aprile, padre Giorgio ha aspettato fino all’ultimo che ci fossero le condizioni per organizzare la consacrazione episcopale a Ulaanbaatar, in Mongolia, dove sarebbe stato naturale che avvenisse. Ma a causa delle severe restrizioni applicate per contenere la pandemia Covid-19, è diventato evidente che tali condizioni non si sarebbero date e sarebbe stato impossibile persino ai vescovi consacranti entrare nel paese.

Si è quindi pensato all’Italia e la scelta di Torino è stata spontanea, sia per il profondo legame dell’Istituto con la chiesa subalpina che per le origini stesse di padre Giorgio.

Padre Giorgio Marengo sarà consacrato il giorno 8 agosto, alle ore 10, nel Santuario della Consolata di Torino, per le mani del cardinal Luis Antonio Tagle, assistito dal cardinal Severino Poletto e dall’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia.

Padre Giorgio Marengo e Usukhjargal

Anche la scelta del Santuario della Consolata non è casuale. Con questo gesto si vuole esprimere anzitutto una profonda gratitudine alla Consolata per aver inviato i suoi missionari nelle lontane terre della Mongolia. È la Consolata che ha voluto i suoi missionari in Mongolia e, quindi, è al suo abbraccio che è affidata tutta la Prefettura Apostolica.

«Che la consacrazione episcopale avvenga a Torino è il risultato di un misterioso intreccio di eventi ed è un dono del tutto inaspettato – scrive padre Giorgio -. I legami di amicizia e di collaborazione che ci uniscono vi porterebbero certamente a voler essere tutti presenti quel giorno al Santuario della Consolata, ma questo non sarà purtroppo possibile: siamo infatti ancora in tempi difficili e non possiamo dimenticarcelo.

Queste restrizioni ci impongono un sacrificio, quello cioè di lasciare che alla celebrazione partecipi solo un gruppo su invito personale: membri della mia famiglia stretta e di quella allargata dei Missionari e Missionarie della Consolata, con un’esigua rappresentanza di sacerdoti e consacrati e consacrate e di altre Chiese particolari legate alla Mongolia. Sono sicuro che tutti capite la situazione e troverete il modo di farvi presenti con la preghiera e l’affetto anche a distanza».

  • Padre Giorgio sarà il secondo missionario della Consolata a diventare vescovo nel santuario dopo mons. Filippo Perlo consacrato il 23 ottobre 1909 dal cardinal Agostino Richelmy.
  • Inoltre, attraverso il cardinal Tagle, padre Giorgio riceve anche un insolito legame con la chiesa torinese, perché nello loro linea di successione apostolica c’è il cardinal Gaetano Alimonda, arcivescovo di Torino dal 1883.

Per favorire la comunione e rendere possibile a tanti di partecipare «a distanza», sarà predisposta una trasmissione in diretta internet sul canale YouTube della diocesi di Torino, su quello dei Missionari della Consolata e quello della prefettura in Mongolia. Dettagli per il collegamento verranno comunicati quanto prima.

Incontri col nuovo vescovo

Nei giorni successivi alla consacrazione sarà comunque possibile salutare il nuovo vescovo che incontrerà diverse comunità prima del suo ritorno in Mongolia. I primi appuntamenti sono domenica 9 agosto:

  • ore 10.30 nella Chiesa del Beato Giuseppe Allamano – Casa Madre dei Missionari della Consolata (C. Ferrucci, 18)
  • ore 18.00, nella parrocchia S. Alfonso Maria de’ Liguori (via Netro, 3)

Uno degli ultimi è domenica 30 agosto:

  • ore 11.00 nella parrocchia Maria Regina delle Missioni (via Cialdini, 20)

Uniamoci in spirito a questo evento e preghiamo soprattutto per la Chiesa in Mongolia.


Contatti per ulteriori informazioni

Padre Giorgio Marengo: giorgio.consolata@gmail.com | +39 379 110 1527

Rivista Missioni Consolata: mcredazioneweb@gmail.com | 011 4400 400 (portineria, Missioni Consolata, corso Ferrucci 14)

La cattedrale cattolica di Ulaanbaatar

La missione di Arvaiheer

Le comunità della Chiesa cattolica in Mongolia

L’antico monastero di Erdene Zuu a Kharkhorin.

Nuovo e antico a Ulaanbaatar

 




Monsignor Aldo Mongiano, una voce a difesa dei popoli indigeni amazzonici

Testo di Luis Miguel Modino del Repam – foto Gigi Anataloni / AfMC


La vita delle persone è spesso profondamente identificata con le cause che difendono. Nella storia della Chiesa del Brasile ci sono stati molti missionari che hanno dato la vita in difesa delle popolazioni indigene. Uno di loro è stato monsignor Aldo Mongiano, vescovo di Roraima dal 1975 al 1996, morto il 15 aprile 2020 a Pontestura, Monferrato, Italia, dove è nato il 1° novembre 1919 e dove risiedeva con la sorella.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Con 80 anni di professione religiosa, 76 anni di vita sacerdotale e 44 anni come vescovo, monsignor Aldo viene ricordato nella diocesi di Roraima come qualcuno che ha seminato molto. Secondo l’attuale vescovo della diocesi, monsignor Mario Antonio da Silva, che afferma: “Io e tutti gli altri missionari, fratelli e sorelle, e le nostre comunità , con i nostri cristiani laici, abbiamo raccolto (da lui) frutti abbondanti”. L’attuale vescovo definisce i 21 anni dell’episcopato di monsignor Aldo come un tempo “di testimonianza del Vangelo, della vita missionaria profetica a favore dei popoli dell’Amazzonia, in particolare dei popoli indigeni”.

Monsignor Aldo Mongiano si distingueva nel suo lavoro profetico con le popolazioni indigene, ma, secondo Dom Mario Antonio, “ha anche combattuto per i giovani, per il ruolo dei laici, monsignor Aldo era un vescovo che, a Roraima, accoglieva vocazioni locali, e allo stesso tempo missionari provenienti da tanti luoghi del Brasile e del mondo per aiutare nella missione in questa particolare Chiesa di Romarai”. Ecco perché l’attuale vescovo di Roraima dice che “siamo grati a Dio per il dono della vita e la vocazione di monsignor Aldo, e che i frutti continuano ad essere abbondanti nel suo pastore dedicato nella vita della nostra Chiesa”.

Uno di questi missionari è stato padre Alex José Klopenburg della diocesi di Bagé – RS, che ha lavorato a Roraima dal 1988 al 1992. Arrivò nella diocesi al “momento della costituente e dell’invasione dell’area indigena Yanomani da parte dei cercatori d’oro”. Di fronte a questa situazione, il missionario ricorda che “monsignor Aldo era un grande profeta, convinto difensore dei popoli originari, con la campagna Una mucca per gli Indios, nella zona di Raposa Terra do Sol, alla ricerca di un sostentamento per il popolo Macuxi e Wapichana”. Egli definisce questo momento come “tempi difficili, di persecuzione aperti alla Chiesa, ai missionari che hanno fatto l’opzione preferenziale per i più poveri. Tempi di testardaggine profetica e di coraggio evangelico”.

In questo frangente, “Monsignor Aldo era un pastore, profeta, vero padre e fratello dei più piccoli. Animatore comunitario, protettore e sostenitore dei missionari che erano lì. Senza paura, con la certezza che stava facendo ciò che il Signore crocifisso gli ha chiesto di fare”, ricorda il sacerdote della diocesi di Bagé. Nella sua preghiera, chiede “ora con Dio in cielo, di continuare a intervenire per l’Amazzonia, per i popoli indigeni, che ha amato, difeso e aiutato”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho, ha iniziato la sua missione episcopale a Roraima nel 2005. Arrivò lì il 13 luglio e ricorda che il 15, prima di essere ordinato vescovo il 17 luglio, fece la sua professione di fede nella casa delle suore della Consolata, all’altare, alla presenza di monsignor Servilio Conti e monsignor Aldo, i due vescovi emeriti di Roraima. Monsignor Roque aveva già sentito parlare di monsignor Aldo, ma i tre mesi che ha vissuto con lui dopo la sua ordinazione episcopale, quando due o tre volte alla settimana si sono incontrati per parlare, è stato un tempo in cui “ho imparato a rispettarlo e ad amarlo per la sua storia e per la sua dedizione come missionario”.

Il presidente del Consiglio Missionario Indigenista – CIMI -, parla di monsignor Aldo come de “l’uomo che ha affrontato le accuse e le persecuzioni più assurde, ha dovuto passare molto tempo con la protezione della polizia contro gli attacchi, ma non ha mai perso la sua serenità, mai ripagato il male con il male, al contrario”. Anche monsignor Roque ricorda che monsignor Aldo, in una piccola città, come lo era Boa Vista all’epoca, quando “incontrò i più feroci oppositori e aggressori (lo fece) con la serenità di un uomo di Dio, salutò e chiese alla famiglia, perché come buon pastore conosceva praticamente tutte le famiglie, ed era sempre libero di dire, la pensiamo in modo diverso, ma io ti amo, ti rispetto.”

l’arcivescovo di Porto Velho vede monsignor Aldo come qualcuno che “ha sempre avuto questa gioia e disponibilità a costruire ponti di speranza, di riconciliazione, ma anche di molta chiarezza nella missione”, essendo qualcuno che, insieme ai missionari della Consolata e alla diocesi di Roraima, ha dato un grande contributo al cammino della Chiesa dal punto di vista delle popolazioni indigene, soprattutto per quanto riguarda la difesa dei territori e dei leader. Monsignor Roque ricorda che “l’investimento che ha fatto assumendo avvocati per liberare le gli indigeni che erano stati arrestati senza accuse specifiche, semplicemente per piacere”.

Questo atteggiamento è sempre stato riconosciuto dalle popolazioni indigene di Roraima. Come ricorda monsignor Roque Paloschi, nel 2011, quando monsignor Aldo visitò Roraima, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, un’anziana donna del popolo Macuxi, gli diede un piccolo vaso di argilla, dicendo: “Monsignor Aldo, non possiamo ringraziarlo per tutto quello che hai fatto, non solo per noi, ma per la gente di Roraima. Se oggi abbiamo la terra, questo è dovuto alla mano di Dio, ma anche alla sua mano, la mano della missione. Non può portare molte cose sull’aereo, ma vogliamo darle questo come segno di gratitudine, perché questa terra ha molto sangue, molte persone sono morte, ma ha anche la passione dei missionari della Consolata e di altri, e la sua passione per difendere la causa indigena”.

Un altro ricordo che mostra il carattere di monsignor Aldo, secondo monsignor Roque Paloschi, si è verificato il 17 settembre 2005, quando hanno dato fuoco alla prima missione che i monaci benedettini hanno costruito tra le popolazioni indigene, che era un luogo di accoglienza e un centro di formazione per le popolazioni indigene. Monsignor Aldo accompagnò il vescovo lì, e di fronte a questa situazione devastante, disse alle popolazioni indigene che soffrivano, lì umiliate, ferite: “da queste ceneri Dio eleverà nuovi semi per la speranza delle comunità indigene”. Come ha scritto lo stesso monsignor Aldo nel libro “Roraima, tra martirio e speranza”, appassionato della sua esperienza di vescovo, “la missione si fa così, con passione, ma anche con grande sacrificio, con le ginocchia, ma anche con la certezza che è Dio a guidare”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Aldo ha celebrato i 100 anni di vita il 1° novembre 2019, pochi giorni dopo la chiusura dell’Assemblea sinodale del Sinodo per l’Amazzonia, che ha ricordato molti dei sogni che aveva nella sua missione in Amazzonia, tra i popoli indigeni. Egli disse nell’omelia: “Ho ricevuto solo favori e ringraziamenti da Dio. Ho un sacco di regali. Mi rattrista il fatto di non essere stato più generoso nel rispondere al Signore. Avrei potuto essere più devoto, più disposto a sacrificarmi, più amorevole. Chiedo perdono per i miei limiti, i miei peccati, e vi ringrazio per tanta gentilezza”. Chi è stato missionario in molti luoghi ha sempre compreso la sua missione come un tempo “in cui devo proclamare il Signore, parlare di un Buon Dio, di un Dio misericordioso, che ha inviato suo Figlio a salvarci, che è venuto a insegnarci come guidare i nostri passi sulla via della vita. Non avrei mai pensato di ricevere tanti onori, tanto grazie, tanta misericordia, tanta gentilezza”.

In quella celebrazione, insieme ai missionari di Consolata, c’erano monsignor Mario Antonio da Silva, presente vescovo di Roraima, e monsignor José Albuquerque, vescovo ausiliario di Manaus. Secondo lui, “parlare di monsignor Aldo Mongiano, significa parlare della Chiesa che è nell’Amazzonia, della Chiesa che affonda le sue radici nel territorio di Roraima. Ricordiamo con grande gratitudine tutto ciò che monsignor Aldo ha rappresentato per la nostra regione, una parola gentile e dolce, con parole sempre incoraggianti, uno sguardo tenero e un sorriso”.

Il vescovo ausiliario di Manaus, afferma che “è impressionante come monsignor Aldo, allo stesso tempo, fosse una persona ferma e convinta, che difendeva i diritti di tutti, ma soprattutto dei popoli indigeni, di diversi gruppi etnici, non solo da Roraima, ma dal Brasile. Era anche un sostenitore della causa dei poveri e un convinto sostenitore dei capi laici e laiche. Con tutta questa fermezza, monsignor Aldo è sempre stata una persona molto fraterna, molto accogliente, la sua presenza è stata impressionante”. Qualcuno che ricorda la celebrazione dei 100 anni di vita di monsignor Aldo come un momento che sarà per sempre inciso nella sua memoria, vive questo momento della sua partenza, come “ringraziamento per quello che è stato monsignor Aldo e rimarrà per noi, un riferimento di una voce profetica che è stata accanto alla più sofferta”.

Luis Miguel Modino

Nostra traduzione da Repam – 16 aprile 2020
https://redamazonica.org/2020/04/fallece-monsenor-aldo-mongiano-una-voz-profetica/

Leggi anche:

Il testamento spirituale di Mons Mongiano su consolata.org

Scarica il pdf della sua autobiografia:

Aldo Mongiano, Roraima tra profezia e martirio, Edizioni Missioni Consolata, Torino 2010




In punta di piedi

di Giorgio Marengo da Arvaiheer, Mongolia


Mi avvicino a voi in punta di piedi.
Quello che state vivendo è al di là dell’immaginabile. Il dolore di questi giorni rimbomba fino alla steppa mongola, per il momento graziata dal flagello che state vivendo lì. Vivere in un Paese grande 5 volte l’Italia con appena 3,5 milioni di abitanti, con immensi spazi vuoti e aridi che separano un villaggio dall’altro, in questo momento ha i suoi vantaggi. Qui la chiusura delle scuole è iniziata a fine gennaio, seguita a ruota dalla sospensione di qualsiasi attività pubblica. Da quasi due mesi celebriamo messa solo noi padri e suore, senza poter accogliere nessuno. Ma qui all’isolamento uno si è già dovuto abituare e per ora non ci sono emergenze sanitarie.

Amici e conoscenti mongoli mi chiamano per manifestare solidarietà al popolo italiano. Le notizie del telegiornale di Ulaanbaatar mostrano un’Italia colpita a morte, che fa di tutto per reagire. Le forze dell’ordine, qui in Mongolia sempre molto pronte a controllare gli stranieri come noi, sono venute a ispezionarci, dopo che è stato registrato il primo caso di contagio, un cittadino francese; prima di andarsene, mi hanno detto: “Lei che è italiano si ritenga fortunato ad essere qui e non nel suo Paese”. Hanno terribilmente ragione e io francamente mi sento in colpa. Ogni giorno il ministero della sanità mongolo manda in media 3 o 4 sms con istruzioni di comportamento: “Mangiate e riposate bene, evitate lo stress che abbassa le difese immunitarie”.

Poi apro la pagina web di un qualsiasi giornale italiano e mi vengono i brividi: potessero i tanti medici e infermieri italiani riposare un po’ e rinfrancarsi, ma gli ospedali sono ormai insufficienti e mi commuovo a vedere questi nuovi martiri spendersi con tutte le forze per dare sollievo e un po’ di speranza. Mi fanno sentire fiero di appartenere a questo popolo, mettono in luce un’Italia che amo ancor di più, malgrado le sue tante contraddizioni. Sono sicuro che il nostro Paese si ritroverà più bello e forte, il sacrificio di questi uomini e donne e non andrà perduto. Ma intanto si piange e si soffre.

In una situazione del genere non mi sento di fare nessuna riflessione speciale, vorrei solo dirvi che sono con voi e che adoro lo stesso Signore che continua a tenderci la mano da tutti i tabernacoli del mondo, incluso quello della nostra ger-cappella di Arvaiheer e quelli delle chiese italiane giustamente chiuse alle celebrazioni comuni per evitare il peggio.

Il Beato Allamano lo ricordava ai suoi missionari e missionarie: ai piedi dell’eucaristia avrebbero ritrovato coraggio. Invochiamo insieme il dono della guarigione e della liberazione da questo male che ci opprime, seguendo l’invito del salmista: “Sta in silenzio davanti al Signore e spera in Lui” (Salmo 36). Quando qualcuno sta male, gli si sta vicino, senza parlare, ma tenendogli la mano e asciugandogli la fronte, come diceva il beato Pierre Claverie, uno dei martiri dell’Algeria; è lo stesso Gesù che sta soffrendo lì con voi. A Lui guardiamo con la fiducia di chi non ha altri in cui sperare.

padre Giorgio Marengo
15 marzo 2020, da Arvaiheer

In unione con i Missionari e Missionarie della Consolata ad Arvaiheer