Vietnam. Il Partito comunista perde il suo (potente) segretario
Il 19 luglio alle 13,38, ora locale, è morto ad Hanoi Nguyen Phu Trong, segretario generale del Partito comunista del Vietnam. Era ricoverato da tempo all’ospedale militare per una malattia non precisata, e il giorno prima, visto l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, i suoi poteri erano stati passati ai interim al presidente della Repubblica, To Lam.
Nguyen Phu Trong aveva compiuto 80 anni ad aprile ed era segretario generale dal 2011, rieletto nel 2016 e poi, di maniera inusuale, per un terzo mandato nel 2021. è anche stato presidente della Repubblica dal 2018 al 2021.
Era l’uomo forte del Paese, sia per la carica che occupava, sia perché è stato il segretario generale che è durato più a lungo (dopo Le Duan, 1960-1986) e ha più inciso su vari aspetti della vita del Vietnam. È stato anche descritto come l’uomo politico vietnamita più influente del XXI secolo, o addirittura il maggiore dopo Ho Chi Minh, il padre della patria.
Tra i suoi successi più significativi la lotta contro la corruzione, interna al partito e al governo, fino dal 2013, portando il paese dal 113° posto del 2016 all’83° nella classifica della percezione della corruzione dell’Ong Transparency international.
Ha anche influenzato molto le aperture economiche del Vietnam moderno, grazie alla firma di svariati accordi di libero scambio con paesi e aggregazioni di Stati della regione e del mondo.
A livello diplomatico ha sviluppato i rapporti con la Cina e, soprattutto, ha guidato un’apertura verso gli Stati Uniti. Nel 2015 è stato il primo capo di partito vietnamita a fare una visita ufficiale negli Usa, accolto da Barak Obama alla Casa Bianca.
Il partito non ha ancora dichiarato il periodo di lutto nazionale, mentre si apre la corsa alla sua successione. Uno dei favoriti è proprio il presidente To Lam.
Marco Bello, da Hanoi
Eritrea. Trent’anni di Afewerki
L’Italia e l’Eritrea tornano amiche? Quale senso ha il riavvicinamento del governo di Roma a quello di Asmara? La domanda è rimbalzata più volte tra giornalisti, analisti, studiosi a partire da gennaio quando il presidente eritreo Isaias Afewerki – al potere ininterrottamente dal 1993 – si è recato in Italia, su invito del governo italiano, per partecipare al Vertice Africa-Italia, tenutosi a Roma per promuovere partenariati in vari settori come l’economia, le infrastrutture, la sicurezza alimentare, l’energia, la formazione professionale e la cultura.
Sotto il profilo politico i nuovi rapporti tra Roma e Asmara sono complessi da leggere. Durante la sua visita, Afewerki ha incontrato il premier italiano Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e hanno discusso del rafforzamento dei legami bilaterali e hanno esplorato le opportunità di investimento in Eritrea. A giugno, poi, una delegazione italiana di alto livello ha visitato l’Eritrea, guidata dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, con la partecipazione di varie personalità, tra cui la presidente della Commissione esteri e difesa del Senato, Stefania Craxi.
Questa visita si colloca nel contesto del cosiddetto «Piano Mattei», la strategia italiana volta a stabilizzare e sviluppare l’area del Corno d’Africa. «È difficile valutare gli effetti di queste visite – spiega Uoldelul Chelati Dirar, eritreo, professore all’Università di Macerata -. Dal punto di vista economico, l’Eritrea è un mercato piccolo, solo cinque milioni di persone, le leve economiche sono tutte in mano pubblica, non essendoci un tessuto di piccole e medie imprese. Difficile quindi valutare quali vantaggi reciproci ci possano essere in questo senso. Anche se in Eritrea, come nel resto del Corno d’Africa, c’è un generale apprezzamento per i prodotti italiani e per la capacità italiana di costruire infrastrutture (ponti, strade, dighe, ecc.)».
La situazione attuale in Eritrea è caratterizzata da «sfide» significative in termini di diritti umani, relazioni internazionali e sviluppo economico. Il governo eritreo continua a essere accusato di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui detenzioni arbitrarie, rapimenti e repressione della libertà di religione.
La leva militare obbligatoria, che spesso si traduce in un servizio di durata indefinita, coinvolge anche minorenni, e le punizioni collettive per i familiari di disertori o evasori di leva sono ancora praticate. Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch denunciano queste pratiche, sottolineando come il sistema di coscrizione abbia un impatto devastante sull’istruzione e la vita dei giovani eritrei.
«Nei rapporti internazionali – continua il prof Ueoldelul Chelati Dirar – il governo eritreo da sempre gioca su più tavoli senza mai legarsi strutturalmente a nessuno. Stringe rapporti con i Paesi del Golfo, poi con gli Usa, poi, ancora, con l’Iran e ora con l’Italia. Questa politica spregiudicata ha assicurato longevità. La diplomazia dev’essere concreta. Quindi, l’Italia, avviando un dialogo, può creare un rapporto con un attore importante del Corno d’Africa. Detto questo non so quanto possa incidere sulle dinamiche dell’Eritrea e della regione. L’Italia non ha una continuità nella sua politica estera. Anche se la posizione di Roma sempre prudente è apprezzata dalle capitali dell’Africa dell’Est».
Enrico Casale
Rwanda. Sempre e solo lui, Paul Kagame
Il «presidente» uscente è stato confermato senza problemi e senza avversari. Al potere dal 2000, potrebbe rimanere fino al 2034.
Il 15 luglio 2024, i cittadini rwandesi si sono recati alle urne per eleggere il nuovo presidente (oltre che rinnovare il Parlamento). Ufficialmente, c’erano tre candidati. Ma, in realtà, si sapeva già quale sarebbe stato il risultato. E infatti, come ci si aspettava, il capo dello Stato uscente Paul Kagame si è confermato alla guida del Paese anche per i prossimi cinque anni con oltre il 99% dei voti (secondo i risultati provvisori annunciati la sera del 15 luglio).
Formalmente, Kagame è presidente del Rwanda dal 2000. In realtà, è il leader di fatto del Paese dal 1994. Prima di darsi alla politica era il comandante del Fronte patriottico rwandese (Fpr), il movimento armato di esuli tutsi che, nel 1994, aveva posto fine al genocidio. Dopo la vittoria dell’Fpr, Kagame è diventato vicepresidente e, soprattutto, ministro della Difesa: essendo il capo delle forze armate, era in grado di controllare l’intero Paese.
Nel 2000 poi, ha ufficialmente raggiunto la massima carica dello Stato e non l’ha più abbandonata. Nel 2003, 2010 e 2017, Kagame ha registrato sempre più del 90% dei consensi in tornate elettorali che, secondo osservatori indipendenti e attivisti per i diritti umani, erano ben lontane dall’essere libere e trasparenti.
Nel 2015, per ovviare al limite dei due mandati sancito dalla Costituzione, il leader dell’Fpr ha ottenuto l’approvazione di un emendamento che riduceva la lunghezza della presidenza da sette a cinque anni. In questo modo, veniva azzerato il conteggio dei mandati già svolti. Ma non solo. Kagame si era anche assicurato un’eccezione specifica per sé stesso: la possibilità di competere per un altro mandato di sette anni (quello che si è appena concluso) prima di due ulteriori da cinque. L’allora 59enne presidente si era garantito il potere fino al 2034. Cioè quasi a vita.
Nessuno stupore quindi per il 99,15% registrato al voto del 15 luglio. Dopotutto, come avvenuto anche in passato, Kagame aveva già da tempo messo fuori gioco qualsiasi sfidante pericoloso. Le candidature di Victoire Ingabire e Bernard Ntaganda, ad esempio, erano state entrambe rifiutate, sostenendo che – poiché i due stavano scontando delle vecchie condanne (politicamente motivate secondo molte organizzazioni per i diritti umani) – non potevano candidarsi.
La Commissione elettorale nazionale poi, nel vagliare le nove candidature giunte, aveva ristretto ulteriormente il cerchio. Oltre a Kagame, aveva accettato solo altri due nomi. Tra gli esclusi, figurava anche Diane Rwigara, leader del Partito per la salvezza del popolo, accusata di non aver raccolto un numero sufficiente di firme. Storica oppositrice di Kagame, già poco prima del voto del 2017 Rwigara era stata arrestata, impedendole di sfidare il presidente.
Gli unici due ammessi all’elezione sono stati Philippe Mpayimana, candidato indipendente, e Frank Habineza, leader del Partito dei verdi democratici. Entrambi avevano già sfidato Kagame nel 2017, ottenendo percentuali irrisorie (inferiori all’1%). Quest’anno non è cambiato nulla.
Una strada di Kigali, la capitale del Rwanda. Foto Andreas – Pixabay.
Il clima in cui si è tenuto il voto, apparentemente, era tranquillo. Ma in realtà, pochi giorni prima dell’elezione, Amnesty international (Ong internazionale per i diritti umani) aveva espresso la sua preoccupazione per «minacce, detenzioni arbitrarie, persecuzioni sulla base di accuse false, uccisioni e sparizioni forzate» ai danni di diversi membri dell’opposizione.
Anche i giornalisti sono attaccati. Infatti, il Rwanda è 144esimo su 180 Paesi nella classifica di Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa. Come scrive l’organizzazione, «il panorama dei media rwandesi è uno dei più poveri in Africa. I canali televisivi sono controllati dal governo o da azionisti del partito di maggioranza. La maggior parte delle stazioni radio si concentra su musica e sport per evitare problemi. Non c’è un giornale di respiro nazionale. Il giornalismo investigativo non è praticato e i giornalisti che hanno tentato di diffondere contenuti critici su YouTube o altre piattaforme online sono stati duramente condannati».
Dunque, di fronte a tali livelli di autoritarismo e repressione non ci si poteva aspettare un risultato elettorale differente. Kagame resta alla guida del Paese, ma lo aspettano mesi complessi, soprattutto in politica internazionale. Il fronte dei conflitti congolesi è sempre più caldo: un recente report delle Nazioni Unite ha denunciato la presenza illegale di circa 3mila-4mila soldati rwandesi nell’Est della Repubblica democratica del Congo. La sconfitta dei conservatori inglesi alle elezioni dello scorso 4 luglio, invece, ha sancito il blocco del controverso accordo tra Gran Bretagna e Rwanda sulla deportazione dei richiedenti asilo a Kigali.
Vedremo come affronterà tutto ciò Kagame, sempre più l’«uomo forte del Rwanda».
Aurora Guainazzi
Somalia. Un ritiro zeppo d’incognite
La Somalia è a un bivio. Imboccherà definitivamente la strada della pacificazione? Oppure è tristemente avviata a un destino simile a quello dell’Afghanistan quando si ritirarono le truppe internazionali e il Paese fu conquistato dai talebani? Le domande sono pressanti sia per la comunità internazionale sia per lo stesso governo di Mogadiscio. Il vero nodo è il ritiro di Atmis (The african union transition mission in Somalia), la missione militare dell’Unione africana che, dal 2022, sta affiancando le truppe somale assicurando il controllo di aree strategiche del Paese contro gli attacchi delle milizie fondamentaliste di al-Shabaab.
I militari della missione, prevalentemente ugandesi, burundesi, gibutini ed etiopi, hanno già iniziato una fase di smobilitazione che si concluderà a fine 2024. Alcune basi sono già state consegnate alle forze armate somale.
«Il dubbio è se le truppe somale reggeranno l’impatto di una possibile offensiva di al-Shabaab – osserva Corrado Cok, analista dell’European council on foreign relations -. A parte alcuni reparti speciali addestrati da Stati Uniti e Turchia (Danab e Gorgor) e altri addestrati da Emirati Arabi Uniti e Unione Europea, le forze armate somale hanno un livello assai basso di formazione. Mancano di organicità tra i reparti e non hanno armamenti, dotazioni logistiche e sistemi di trasmissioni all’altezza. Ciò li espone alla violenza dei jihadisti che, al contrario, sono bene armati e conoscono alla perfezione le tattiche della guerriglia».
Il ritiro di Atmis potrebbe essere rallentato nella sua ultima fase, in modo da assicurare il controllo di alcuni nodi strategici. «Con il ritiro di Atmis – prosegue Cok – rimane anche l’incognita delle truppe etiopi. Tra Addis Abeba e Mogadiscio i rapporti sono pessimi a causa dell’accordo firmato dall’Etiopia con il Somaliland il 1° gennaio. Personalmente credo che alcuni reparti etiopi rimarranno in Somalia. La Somalia è un anello importante per la sicurezza etiope e l’apporto etiope è fondamentale per contenere la minaccia fondamentalista».
Incontro di rappresentanti dell’Unione africana con il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud, a Dhusamareb, il 24 agosto 2023. Foto ATMIS.
Nella lotta contro i jihadisti un ruolo importante è rivestito dalle milizie claniche. «I clan hanno strutture militari bene organizzate e bene armate – continua Cok -. L’offensiva condotta contro al-Shabaab nel 2022 che ha costretto i miliziani fondamentalisti a ritirarsi da molte zone, è in gran parte attribuibile agli uomini del clan Hawiye, il principale della Somalia. Sono stati loro a contrastare i jihadisti e a cacciarli da parte della Somalia centrale. Quando si tratta della sicurezza i clan hanno una grande capacità di intervenire e riportare ordine».
Detto questo, al-Shabaab è ancora una forza temibile. Economicamente forte grazie alla gestione di attività commerciali (come il traffico di carbone fossile) e ai taglieggiamenti della popolazione e degli imprenditori, ha creato una struttura militare agguerrita che controlla ampie aree nel Jubaland e nel South West State, e continua a portare attacchi alle forze armate locali. Da alcuni anni poi è presente anche una piccola cellula dell’Isis nel Puntland, al Nord della Somalia.
«Al-Shabaab – osserva Cok – è un avversario temibile per le autorità somale e i loro alleati. Non sarà né facile né immediato averne ragione. Per quanto riguarda l’Isis, per il momento è un piccolo gruppo che ha tentato di rivitalizzare, insieme alla pirateria locale, la pirateria nello Stretto di Aden. Vedremo in futuro se riuscirà o meno a prendere piede. Va detto che le relazioni tra al-Shabaab e Isis sono pessime e spesso si combattono».
In mezzo a queste dinamiche c’è la popolazione somala. «Alcuni somali – conclude Cok – cercano di essere ottimisti guardando agli aspetti migliori della situazione attuale (l’esistenza di un governo, la diminuzione dei combattimenti, ecc.), la maggior parte della popolazione però è esasperata dall’insicurezza dalla corruzione, dalla mancanza di normalità. Una situazione che è esasperata nelle ampie frange di sfollati in balia degli eventi: violenze, inondazioni. Per loro c’è scoramento e rassegnazione».
Enrico Casale
Pakistan-Italia. Gli ahmadi perseguitati incontrano il papa
Nuovo incontro in Vaticano tra il Pontefice e la minoranza musulmana perseguitata in Pakistan.
«Amore per tutti, odio per nessuno»: è il motto degli Ahmadi, una minoranza musulmana molto attiva nel dialogo interreligioso ma tuttora perseguitata in alcuni Paesi, soprattutto in Pakistan che è tra le nazioni a maggiore presenza islamica nel mondo.
Loro, con pazienza, continuano a portare avanti il loro messaggio di dialogo e di pace. Per questo Papa Francesco li ha ricevuti in Vaticano in diverse occasioni. L’ultima è stata lo scorso 26 giugno.
Il Pontefice ha accolto calorosamente i membri della comunità con cui ha da tempo stabilito un filo diretto fatto di incontri e interessi comuni, e creato un momento di profondo scambio interreligioso.
«Tra i temi affrontati, particolare attenzione è stata dedicata ai conflitti in corso e agli sforzi a cui le religioni sono chiamate per promuovere pace e confronto dialogico», riferisce la stessa Ahmadiyya Muslim Jamaat Italia. L’incontro, il terzo nel giro di due anni, è servito a rafforzare il dialogo e la cooperazione interreligiosa e a rinsaldare il rapporto diretto tra il Pontefice e questa comunità musulmana che conta circa cento milioni di fedeli nel mondo.
Durante l’udienza, Papa Francesco ha espresso gratitudine e apprezzamento per il messaggio di amore e tolleranza promosso dalla comunità Ahmadiyya.
«Crediamo fortemente nella libertà religiosa e siamo grati a Papa Francesco per il suo sostegno e l’impegno verso questo principio fondamentale», sottolinea il presidente nazionale della Comunità Ahmadiyya in Italia, Abdul Fatir Malik. L’imam riferisce che con il Papa ha parlato dei tanti conflitti in corso: «Noi abbiamo ribadito la missione della nostra Comunità, quella di avvicinare le persone a Dio nel XXI secolo, nella convinzione che solo attraverso la vicinanza a Dio e la preghiera, potranno prevalere la giustizia e la pace. Su questi temi c’è piena sintonia con il Papa e l’incontro è stato l’occasione per riaffermare i nostri reciproci impegni per promuovere questi valori».
La via della pace passa dunque anche attraverso il dialogo tra le differenti fedi.
Papa Francesco ne è convinto tanto che gli incontri interreligiosi hanno sempre un momento speciale nei suoi viaggi internazionali. È stato così nell’ultimo, quello a Marsiglia del settembre 2023, e sarà così anche nel prossimo, quello annunciato in Asia e Oceania nella prima metà di settembre di quest’anno. Giovedì 5 settembre, a Giacarta (Indonesia), per fare un esempio, Papa Francesco avrà un incontro interreligioso presso la Moschea Istiqlal.
Gli Ahmadi, come l’altra minoranza musulmana perseguitata, i Rohingya, sono molto cari al Papa. È ancora l’Imam Ataul Wasih Tariq a riferire che «durante la nostra ultima visita, il Pontefice ha tenuto a sottolineare di avere ormai stabilito un ottimo rapporto con noi».
La Comunità Ahmadiyya Muslim Jama’at, fondata nel 1889 a Qadian nel Punjab, India, da Hazrat Mirza Ghulam Ahmad, un mistico musulmano autore di oltre 90 testi, è riconosciuta a livello globale per il suo impegno nei principi di pace e tolleranza. La comunità è attualmente presente in ogni continente e conta circa 100 milioni di fedeli. In Italia, gli Ahmadi sono presenti formalmente dal 1993, quando è stato registrato lo statuto dell’associazione, ma la loro presenza risale ai membri arrivati negli anni Venti. La comunità ha messo radici significative nelle città di Bologna, Milano e Roma, ed è composta da sedici comunità locali con nazionalità diverse. Gli Ahmadi sono membri attivi di Religions for Peace.
Manuela Tulli
Mozambico. Non è mediatica, ma è una guerra
C’era ottimismo a Maputo, la capitale mozambicana. La guerriglia a Cabo Delgado (Nord-est del Paese) sembrava essere stata sedata. La pressione dei soldati mozambicani e dei loro alleati ruandesi e della Sadc (Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale) pareva aver messo all’angolo i miliziani di Ahlu Sunna Wal Jammah, milizia fondamentalista legata allo Stato islamico. Invece, all’inizio di quest’anno, la lotta si è riaccesa. I jihadisti hanno ripreso ad attaccare comunità, villaggi, città. A uccidere, distruggere, terrorizzare. Una violenza continua che viene perpetrata nel silenzio della comunità e dei media internazionali.
Gennaio e febbraio, riportano i missionari locali, sono stati i mesi più feroci, con una sequenza di attacchi compiuti nel distretto di Chiure, dove sono state distrutte 18 chiese cattoliche in altrettanti villaggi attaccati. Ci sono stati alcuni morti e molte persone sono state costrette a spostarsi, aumentando il numero degli sfollati interni, che ha già raggiunto la cifra di un milione. Un altro grande attacco è stato effettuato il 10 maggio quando i jihadisti hanno invaso il capoluogo del distretto di Macomia, provocando alcuni morti, danni ad infrastrutture e diffusi saccheggi. Anche il numero di vittime continua a salire. Una stima provvisoria parla di quattromila morti. La situazione umanitaria è grave. Molti campi di reinsediamento per sfollati, spiegano i missionari, rimangono privi di condizioni adeguate. Quest’anno il raccolto non è stato sufficiente e, quindi, ci sarà fame nei campi di reinsediamento degli sfollati e anche tra le popolazioni che sono tornate ai villaggi attaccati. Mancano medicine e sostegno scolastico.
La milizia islamista
Nato in Tanzania con il nome di Shabab (da non confondere con al-Shabaab della Somalia) nel 2017, il movimento ha assunto la denominazione di Ahlu Sunna Wal Jammah e ha aderito all’Isis. I motivi della diffusione di questa milizia sono complessi, osservano i missionari, si mescolano terrorismo islamico (Isis) e povertà; appropriazione illecita di risorse naturali e minerali e corruzione di alcune figure di potere che cercano un rapido arricchimento attraverso il traffico di droga; tratta di esseri umani e altre attività illecite. Ahlu Sunna Wal Jammah, per raccogliere consensi, si presenta alla popolazione come una formazione legata al territorio. Fa leva sul malcontento dei contadini che si sentono abbandonati ed emarginati dal potere centrale. Grazie al sostegno di una fitta rete di movimenti simili in Tanzania e in Rd Congo, è poi riuscito a rafforzarsi anche militarmente, contrastando con efficacia le forze armate mozambicane, ma anche i mercenari del gruppo Wagner, i soldati sudafricani e i reparti ruandesi.
Gli aiuti della Chiesa
Di fronte a questa sfida, la Chiesa cattolica è scesa in campo sostenendo più di 250mila sfollati con assistenza sanitaria, trasporti, cibo, costruzione di rifugi, sostegno scolastico, sostegno psicosociale e assistenza spirituale. La Chiesa cattolica è impegnata in questo sostegno attraverso la Caritas diocesana di Pemba, il settore emergenza della diocesi di Pemba e attraverso il coinvolgimento diretto del personale missionario nelle parrocchie in cui si trovano. Molte persone bisognose bussano alle porte di preti e suore in cerca di aiuto. «Purtroppo, da quando in Europa e in Medio Oriente sono iniziate guerre più mediatiche – commentano amari i missionari -, il nostro problema è passato in secondo piano e gli aiuti non arrivano più come una volta. Senza aiuto, la Chiesa rischia di non poter aiutare le altre vittime bisognose degli attacchi jihadisti».
Enrico Casale
Mongolia. Il lievito della democrazia
In questo 2024 di elezioni, venerdì 28 giugno è andata al voto anche la Mongolia – estesa 1,6 milioni di km2, ma con solo 3,5 milioni di abitanti (2 per chilometro quadrato) -. Si è votato per eleggere i rappresentanti del «Grande Hural di Stato», il parlamento unicamerale del Paese asiatico.
Al potere si è confermato il Partito del popolo mongolo (Man), formazione socialdemocratica nata nel 1990 dalle ceneri del partito comunista. Il Man avrà ancora la maggioranza, avendo ottenuto 68 dei 126 seggi totali (numero innalzato con la riforma costituzionale del 2023). Al secondo posto il partito democratico e, a distanza, altre tre piccole formazioni.
Schiacciato tra la Russia e la Cina, all’inizio del 1992 la Mongolia ha approvato una nuova Costituzione che ha posto le basi di un sistema democratico: multipartitismo, separazione dei poteri, riconoscimento dei diritti dei cittadini (libertà di religione compresa). Nonostante la vicinanza con i due grandi regimi totalitari, i dati delle principali organizzazioni internazionali (Freedom House, ad esempio) confermano la sua svolta democratica.
Privo di sbocchi al mare e con pochissima terra coltivabile a causa del clima rigido, il Paese è soprattutto un paese di allevatori – di pecore, capre, yak, cammelli, cavalli – nomadi o seminomadi. Ricca di risorse minerarie (carbone, rame, uranio, tungsteno, molibdeno su tutte), la Mongolia risulta molto attrattiva per gli investitori stranieri, in primis quelli della confinante Cina.
I problemi sono principalmente tre: la precaria condizione economica della maggioranza dei cittadini, la corruzione degli organi statali e le (gravi) conseguenze del cambiamento climatico.
I primi due hanno portato alle proteste di piazza del dicembre 2022, mentre i mutamenti climatici hanno reso ancora più aspro il fenomeno meteorologico noto come «dzud», ovvero un inverno particolarmente rigido (anche meno 30 gradi) e nevoso che non consente al bestiame di sopravvivere. Si calcola che quest’anno lo dzud abbia ucciso 7,1 milioni di animali, più di un decimo dell’intero patrimonio zootecnico del Paese.
Stando ai dati 2022 dell’Asian development bank, il 27,1 per cento della popolazione mongola vive sotto la linea della povertà. La maggior parte dei poveri si trova nella capitale Ulaanbaatar, dove si concentra quasi la metà della popolazione complessiva e che è considerata una delle città più inquinate del mondo.
Paolo Moiola
Allamano Santo il 20 ottobre 2024
Durante il Concistoro Ordinario Pubblico questo lunedì 1° luglio, Papa Francesco ha annunciato che la canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano, fondatore degli Istituti Missionari della Consolata, si terrà domenica 20 ottobre 2024 a Roma, giornata missionaria Mondiale.
Il miracolo attribuito all’intercessione del Beato Giuseppe Allamano è avvenuto nella foresta amazzonica brasiliana, nello Stato di Roraima, dove Sorino, uomo dell’etnia Yanomami, fu attaccato da un giaguaro che lo ferì gravemente alla testa, aprendo la scatola cranica; era il 7 febbraio 1996, primo giorno della novena del Beato Giuseppe Allamano.
Trasportato all’Ospedale di Boa Vista, accudito dalle Missionarie della Consolata, che non cessavano di chiedere la sua guarigione per intercessione del Padre Fondatore, Sorino ha miracolosamente recuperato la salute in pochi mesi, e vive tutt’ora nella sua comunità indigena.
L’inchiesta diocesana per lo studio del presunto miracolo è avvenuta nel marzo 2021 a Boa Vista, mentre l’iter del Dicastero delle Cause dei Santi si è concluso il 23 maggio 2024, con l’approvazione del decreto di riconoscimento del miracolo.
È un momento molto significativo per la famiglia missionaria della Consolata, composta da Padri, Fratelli, Suore, Laici e Laiche.
Suor Renata Conti e Padre Giacomo Mazzotti, che attualmente accompagnano la postulazione, parlano sul significato della Canonizzazione del Beato Allamano.
In un messaggio i Superiori generali dei due Istituti, Padre James Lengarin, IMC, e Madre Lucia Bortolomasi, MC, scrivono:
“La sua Canonizzazione è per tutti noi un dono immenso che ci invita ad ascoltarlo, ad attingere sempre di più alla ricchezza della sua santità. Siano i nostri occhi e il nostro cuore fissi sul nostro Fondatore per ascoltarlo e guardare alla sua santità che ci stimola a continuare in modo serio e profondo la sua missione” (per il testo integrale della lettere delle due direzioni generali, rimandiamo al sito consolata.org).
Da dieci giorni, il Kenya è attraversato da incessanti proteste contro l’aumento delle tasse previsto dalla nuova legge finanziaria e, dopo il ritiro del provvedimento, contro il presidente William Ruto. A protestare sono soprattutto i giovani, tra i quali la disoccupazione è estremamente diffusa (67% nella fascia 15-34 anni).
Le proteste
L’intensità delle manifestazioni è cresciuta il 25 giugno. Dopo l’approvazione della legge in Parlamento, i manifestanti hanno forzato il cordone della polizia e attaccato la struttura. Mentre i parlamentari venivano evacuati, un’ala dell’edificio andava in fiamme. Così come sono stati incendiati gli uffici del governatore di Nairobi e la sede del partito di Ruto.
La reazione della polizia – affiancata poi dall’esercito – è stata violenta. Secondo la Kenya national commission on human rights (organizzazione autonoma per il monitoraggio dei diritti umani) almeno 23 persone sono state uccise. Amnensty international invece ha segnalato più di cinquanta arresti e decine di persone «rapite o scomparse per mano di agenti in uniforme e non». Soprattutto giovani attivisti e influencer che sui social media si erano schierati a favore dei manifestanti.
I social – soprattutto X e TikTok – sono stati il principale mezzo di mobilitazione. Tanto che, con l’intensificarsi delle manifestazioni, l’accesso alla rete è diventato sempre più difficile, nonostante pochi giorni prima le autorità avessero detto che non avrebbero limitato la libertà di navigazione sul web in caso di proteste.
Mentre il Paese era sempre più in subbuglio, Ruto ha annunciato l’intenzione di non firmare la legge e rinviarla al Parlamento. «Le persone hanno parlato», ha detto il presidente in conferenza stampa la sera del 26 giugno, dopo ventiquattr’ore di proteste incessanti. Un dietrofront inaspettato, soprattutto dopo che il capo dello Stato aveva definito i manifestanti dei «sovversivi che tentano di minare sicurezza e stabilità del Paese».
Ma a rischio era l’immagine del presidente come leader democratico in Africa orientale e alleato dell’Occidente (soprattutto degli Stati Uniti che recentemente hanno attribuito al Kenya il titolo di “major non-Nato ally”). Oltre al timore di attirare nuovamente l’attenzione internazionale sulle violenze della polizia keniana, proprio mentre i suoi primi contingenti sbarcavano ad Haiti nell’ambito di una missione internazionale per ristabilire l’ordine nel Paese.
Cosa prevedeva la legge
La controversa disposizione prevedeva l’incremento di diverse tasse già esistenti e l’introduzione di nuove. Alcune in particolare – particolarmente gravose – hanno acceso la rabbia della popolazione.
Come quelle sul settore digitale, sempre più cruciale per la vita quotidiana. Il governo infatti aveva previsto una nuova imposta sulla creazione di contenuti digitali monetizzati e aumentato del 5% la tassa sui pagamenti digitali. Soprattutto quest’ultima era stata particolarmente criticata dato che buona parte dell’economia del Paese si basa su trasferimenti digitali di denaro.
Ma ciò che più aveva scatenato il malcontento popolare era stata l’introduzione di tasse sul pane (pari al 16% del suo valore) e sull’olio vegetale da cucina (25%). Entrambe erano poi state eliminate dal testo definitivo della legge, ma ormai le proteste si erano accese, arrivando a chiedere il ritiro totale del provvedimento.
Le voci di dissenso
Nel chiedere il ritiro della legge, i manifestanti hanno denunciato il tentativo del governo di compensare la cancellazione di alcune tasse con l’aumento di altre (come il rialzo del 50% dell’imposta sul carburante). Disposizioni particolarmente gravose in un Paese con un’inflazione annua del 5,1%.
La piazza inoltre ha accusato Ruto di corruzione: a fronte delle crescenti tasse ha denunciato il mancato miglioramento dei servizi pubblici e l’aumento del benessere della cerchia presidenziale. Il presidente ha invece risposto che le imposte erano necessarie per pagare il debito pubblico del Paese (82 miliardi di dollari), dovuto soprattutto alla Cina per la costruzione di diverse infrastrutture (come la linea ferroviaria tra Nairobi e il porto di Mombasa).
A rifiutare la legge è stata anche la coalizione di opposizione One Kenya. Nel ritirare i 13 emendamenti proposti, il suo leader in Parlamento, Opiyo Wandayi, ha detto che «emendare una “cattiva” legge era futile» e ne ha chiesto la cancellazione. Mentre la Conferenza episcopale ha invocato il dialogo e criticato la disposizione in quanto insostenibile per molti cittadini keniani.
In effetti, la legge è tornata in Parlamento. Ma, nel frattempo, le proteste non si sono fermate. Anzi, ora l’obiettivo dei manifestanti sono le dimissioni del presidente. I giovani keniani – che alle scorse elezioni non hanno in buona parte votato – ora sono scesi in strada e sembrano volersi riappropriare del loro Paese. E del loro futuro.
Aurora Guainazzi
Haiti-Kenya. Al via la missione di «salvataggio»
Con l’arrivo a Port-au-Prince dei primi 400 poliziotti keniani, lo scorso 25 giugno, è partita ufficialmente la Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas) per Haiti con lo scopo di aiutare a ristabilire l’ordine.
La Mmasnon è una missione delle Nazioni Unite, è stata però autorizzata dal Consiglio di sicurezza con una risoluzione dell’ottobre 2023. (per approfondire leggi qui)
Dopo mesi di negoziazioni, e la firma di un accordo tra Haiti e il Kenya da parte dell’allora primo ministro a interim Ariel Henry lo scorso febbraio, il paese africano ha finalmente preso il comando della missione.
Oltre al Kenya, parteciperanno Benin, Ciad, Bangladesh, Bahamas e Barbados, per un totale di alcune migliaia di poliziotti.
Gli Stati Uniti, storicamente impegnati nel Paese, in questa occasione hanno preferito non intervenire direttamente (a causa della già complicata situazione internazionale e delle prossime elezioni di novembre), ma hanno fatto pressioni sull’alleato africano e finanziato la missione con circa 300 milioni di dollari.
Ad Haiti, dal 12 giugno scorso è insediato il nuovo governo di transizione con il primo ministro Garry Conille. Al posto del presidente della Repubblica c’è un inedito Comitato presidenziale di transizione, composto da sette membri e due osservatori, presieduto da Edgar Leblanc fils.
Ricordiamo che il Paese versa in uno stato di caos, con il controllo di gran parte del territorio da parte di gruppi criminali (le gang), e l’impossibilità da parte delle forze di polizia di garantire la sicurezza e il funzionamento delle istituzioni, ma anche la stessa normalità della vita della popolazione. Attualmente si contano circa 600mila sfollati nella capitale.
La Mmas ha come missione principale quella di appoggiare la polizia nazionale haitiana (Pnh), e in particolare mettere in sicurezza le infrastrutture strategiche (aeroporti, porti, strade principali, palazzi istituzionali, ecc.), attualmente alla mercé delle bande criminali organizzate.
I poliziotti keniani sono scesi dall’aereo della Kenya Airways in tenuta antisommossa, con tanto di giubbotti antiproiettile, casco indossato e mitragliatore imbracciato. Le immagini dell’arrivo hanno fatto il giro del web tra gli haitiani in patria e all’estero.
L’avvio della missione trova il Kenya in un momento particolarmente delicato. Mentre partiva il primo contingente, a Nairobi, la gente manifestava contro la nuova legge finanziaria voluta dal presidente William Ruto per lottare contro la crisi economica. Tale legge impone tasse più elevate anche su beni sensibili come il pane. La popolazione, già stremata dall’aumento dei prezzi ha preso d’assalto il Parlamento, e la polizia ha sparato sulla folla causando almeno tredici morti.
I sentimenti degli haitiani sulla Mmas sono discordanti. Molti ricordano i fallimenti di altre missioni internazionali, in particolare dell’Onu, ma i più sperano comunque chesia d’aiuto per tornare a una vita normale.