Anno 2019: oggi schiavi

Testi e foto di Anna Pozzi


Sommario


La tratta e l’attualità dello sfruttamento in Italia:

La schiavitù non è finita

La tratta di esseri umani è uno dei crimini più gravi. Oggi, nel mondo, circa 40 milioni di persone ne sono vittime. E l’Italia non ne è esente, anzi, cresce la tratta negli ambiti dello sfruttamento sessuale, agricolo e domestico. Questo fenomeno è diverso dal traffico dei migranti. Il decreto sicurezza del governo gialloverde complica ulteriormente la situazione, rendendo ancora più vulnerabili i soggetti deboli.

La tratta degli esseri umani e la riduzione in schiavitù delle persone non è un fenomeno relegabile a una pagina chiusa della storia. È una questione di grandissima e terrificante attualità che riguarda anche l’Italia come paese di origine, transito e destinazione dei nuovi schiavi.

La tratta degli esseri umani, infatti, è un fenomeno globale che – secondo le Nazioni unite – riguarda tutti i paesi del mondo. Un fenomeno tragico e complesso che coinvolge milioni di donne, uomini e bambini, usati principalmente come manodopera a bassissimo costo o sfruttati sessualmente. La tratta oggi è uno dei crimini più spaventosi e una delle più gravi violazioni dei diritti umani: un «crimine contro l’umanità», lo ha definito papa Francesco che non si stanca di denunciare le nuove orribili pratiche di schiavitù e di invitare tutti a liberare e proteggere le vittime.

Ma come si configura oggi il fenomeno della tratta di esseri umani? Per molti versi non diversamente da come si realizzava nei secoli passati il traffico degli schiavi africani verso le Americhe. Ovvero attraverso tre passaggi: quello del reclutamento, quello del trasferimento e quello del grave sfruttamento. Il «Protocollo delle Nazioni unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo donne e bambini», conosciuto come Protocollo di Palermo, messo a punto nel 2000 ed entrato in vigore nel dicembre del 2003 – definisce i termini e la complessità di questo fenomeno.

La definizione della tratta

«Tratta di persone indica il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o l’uso della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi […] Il consenso della vittima della tratta di persone allo sfruttamento di cui [sopra] è irrilevante nei casi in cui qualsivoglia dei mezzi di cui sopra sia stato utilizzato».

Protocollo di Palermo, 2000. Protocollo delle Nazioni Unite
sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani,
in particolar modo donne e bambini.

Nel mondo: chi sono

Secondo l’Ufficio Onu contro la droga e il crimine (Unodc), circa 40 milioni di persone nel mondo sono vittime di tratta, prevalentemente a scopo di sfruttamento sessuale (59%) e lavoro forzato (34%), ma anche per altre finalità: espianto di organi, accattonaggio forzato, servitù domestica, matrimoni forzati (12 milioni di bambine ogni anno), reclutamento di bambini soldato o per gruppi terroristici, adozioni illegali e gravidanze surrogate commerciali.

Nel presentare il rapporto globale di Unodc, lo scorso 7 gennaio, il direttore esecutivo, Yury Fedotov, ha sottolineato due trend inquietanti emersi dalle informazioni raccolte in 142 paesi e specialmente nelle zone di conflitto: «Bambini soldato, lavoro forzato e schiavitù sessuale – la tratta di esseri umani ha assunto dimensioni orribili da quando gruppi armati e terroristi la utilizzano per diffondere paura e ottenere vittime da offrire come incentivi per reclutare nuovi combattenti», ha affermato. «Questo rapporto mostra che dobbiamo intensificare l’assistenza tecnica, rafforzare la cooperazione, sostenere tutti i paesi per proteggere le vittime e assicurare i criminali alla giustizia e raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile».

Purtroppo, anche il paradigma delle cosiddette «quattro P» – prevenzione, protezione, persecuzione e partenariato -, condiviso a livello internazionale per la prevenzione del fenomeno, la protezione delle vittime, il perseguimento giudiziario dei criminali e la promozione di un lavoro più coordinato e in rete tra stati, ma anche tra pubblico e privato, viene disatteso a più livelli. La dimostrazione è che il fenomeno non solo continua a crescere, ma si aggrava, coinvolgendo, ad esempio, un numero sempre maggiore di minorenni. È questo l’altro elemento inquietante che emerge dall’ultimo rapporto di Unodc: un terzo delle vittime del traffico di esseri umani è costituito da bambini, il 5% in più rispetto al periodo compreso tra il 2007 e il 2010. Le bambine rappresentano più dei due terzi dei minori coinvolti (il 23% del totale) e il loro numero è in crescita: con le donne rappresentano il 72% delle vittime. Negli ultimi trent’anni, circa 30 milioni di bambini sono stati coinvolti nella tratta; molti di più, circa 152 milioni – secondo l’Organizzazione internazionale per il lavoro (Ilo) – sono schiavi nei loro stessi paesi di origine. Non sono, dunque, «tecnicamente» vittime di tratta, ma sono comunque costretti a lavorare in condizioni servili e di grave sfruttamento specialmente nei settori dell’agricoltura (70.9%), dei servizi (17.1%) e dell’industria (11.9%).

Lagos

Il traffico e la tratta di esseri umani

Anche l’Italia non può dirsi un paese libero dalle nuove schiavitù. E non da oggi.

Il fenomeno si è strutturato nell’arco di oltre trent’anni, ma ha assunto proporzioni più rilevanti negli ultimi tempi, in seguito all’arrivo di migliaia di migranti sulle coste meridionali del nostro paese. Tra di loro ci sono anche molte vittime di tratta, in particolare giovani donne nigeriane che vengono poi costrette a prostituirsi.

Bisogna però distinguere fra traffico e tratta. Secondo Europol, circa il 90% di coloro che hanno raggiunto l’Europa in questi ultimi anni lo ha fatto affidandosi a criminali (smuggler o passeur) che, in cambio di soldi, ha permesso loro di superare le frontiere degli stati dell’Est Europa o di attraversare il Sahara e il Mediterraneo. La fuga dei siriani dal loro paese in guerra – per fare un esempio – poteva arrivare a costare anche 10mila euro a testa.

Solo nel 2015, il traffico di migranti (smuggling) da Medio Oriente e Africa ha fruttato al crimine organizzato circa 6 miliardi di euro. Europol stima che questo business illegale sia il più lucrativo nel Vecchio Continente, ancor più del traffico di droga, e che vi sarebbero implicati circa 30mila trafficanti.

La tratta (trafficking) prevede non solo il traffico, ma il grave sfruttamento: ovvero la riduzione delle vittime in una condizione di vera e propria schiavitù. In Italia, il fenomeno riguarda soprattutto

due macro aree: quella dello sfruttamento sessuale e quella dello sfruttamento lavorativo. Anche se sono presenti situazioni gravi riguardanti l’accattonaggio forzato (in crescita), l’espianto di organi, le adozioni illegali e la servitù domestica.

Quello della tratta e dello sfruttamento sessuale in Italia è una piaga che riguarda dalle 30 alle 50mila donne straniere, tra le quali un numero significativo di nigeriane, ma anche di ragazze provenienti dall’Europa dell’Est, dall’America Latina e dalla Cina. Negli ultimi tempi, tuttavia, il fenomeno ha assunto caratteristiche inedite, soprattutto in seguito allo sbarco massiccio di migliaia di giovani nigeriane arrivate attraverso la rotta del Sahara, della Libia e del Mediterraneo centrale.

A partire dal 2014, e con punte record nel 2016 (11mila), il numero delle donne nigeriane è aumentato esponenzialmente. Sono, oltre 20mila, infatti, quelle arrivate con gli sbarchi, e tra di loro un numero significativo di minorenni e di donne incinte o con bambini molto piccoli.

La maggior parte – seguendo le istruzioni dei trafficanti – ha fatto richiesta di asilo ed è finita nei centri di accoglienza straordinari (Cas) o nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), in attesa del riconoscimento della protezione umanitaria (abolita dal decreto sicurezza, 5 ottobre 2018, poi trasformato in legge il 27 novembre) o dell’asilo. Mentre si trovavano in queste strutture – che per loro natura non sono ad alta protezione -, i trafficanti hanno trovato il modo di costringere molte di queste donne a prostituirsi per restituire un «debito» che attualmente si aggira in media attorno ai 25-30mila euro. Si tratta sostanzialmente della somma che queste donne riescono a racimolare nei tempi di permanenza nelle strutture (un anno e mezzo circa), mentre in passato, poteva anche andare dai 60 agli 80mila euro.

I trafficanti, in sostanza, hanno trovato il modo di «sfruttare» non solo le donne, ma anche il sistema di accoglienza italiano per realizzare i loro turpi guadagni.

Solo una piccola parte delle donne nigeriane sbarcate, infatti, sono state individuate come vittime di tratta o potenziali tali e indirizzate verso i percorsi specifici del «Piano nazionale anti tratta» che – messo a punto nel 2014 – è stato rifinanziato lo scorso marzo.

Agricoltura biologica? No, schiavista

In questi ultimi anni, si è molto aggravato in Italia anche il fenomeno dello sfruttamento lavorativo che, solo in campo agricolo, riguarda circa 132mila lavoratori. Si tratta in gran parte di giovani uomini immigrati, ma anche di italiani e italiane, che si trovano in condizioni di povertà, mancanza di opportunità e pesante vulnerabilità. Secondo il «Quarto rapporto agromafie e caporalato» pubblicato dell’Osservatorio Placido Rizzotto di Flai-Cgil del luglio 2018, sarebbero addirittura 400/430mila i lavoratori agricoli esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale. Non tutti possono essere definiti «vittime di tratta», perché tra essi si segnalano anche nostri connazionali, ma anche perché tra gli stessi migranti ci sono situazioni variegate e complesse. Tutti, però, possono essere considerati veri e propri «schiavi». Quando si parla di grave sfruttamento lavorativo, infatti, non si sta facendo riferimento semplicemente al lavoro nero. È lavoro in condizioni servili, in cui le persone sono private della loro libertà e dignità, subiscono abusi, minacce e ricatti, e ovviamente vengono retribuite in maniera del tutto inadeguata.

Oltre al settore agricolo, il lavoro in condizioni servili diffuso in tutto il paese riguarda diversi altri ambiti: edilizia, servizi domestici e di cura, settore turistico alberghiero, ristorazione, fabbriche e commercio ambulante.

La nuova legge sul caporalato dell’ottobre 2016 (n. 199), recante «Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo», riformula il reato di caporalato, introducendo una fattispecie base che prescinde da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori e prevede pene più severe (la reclusione da 1 a 6 anni) non solo per chi recluta la manodopera (il caporale vero e proprio), ma anche per chi utilizza, assume o impiega manodopera (ovvero il datore di lavoro), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno.

Un aspetto interessante di questa legge è il fatto che i proventi delle confische vengono assegnati al fondo anti tratta, le cui finalità sono state estese anche alle vittime del delitto di caporalato (oltre che alle vittime di sfruttamento sessuale): le due situazioni, infatti, sono ritenute simili, anche perché spesso le persone sfruttate nei lavori agricoli vengono reclutate usando mezzi illeciti come la tratta di esseri umani. Inoltre, in molti contesti, specialmente le donne subiscono una duplice forma di sfruttamento, lavorativo e sessuale. Nella provincia di Ragusa, solo per fare un esempio – migliaia di donne, in gran parte dell’Europa dell’Est, vivono segregate nelle campagne, spesso con figli piccoli, e lavorano per pochi euro nelle serre. E nel totale isolamento – anche se la cosa è stata denunciata più volte – subiscono ogni genere di violenza sessuale.

I danni del decreto sicurezza

L’entrata in vigore del decreto sicurezza ha ulteriormente complicato la situazione, creando un clima di grande confusione se non addirittura di criminalizzazione delle vittime. Un esempio è l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, che veniva riconosciuto alla maggioranza delle donne nigeriane vittime di tratta o potenziali tali, che oggi rischiano di ritrovarsi in una situazione di irregolarità e dunque di maggiore vulnerabilità rispetto alle reti criminali. Inoltre, l’impossibilità d’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo (e tra questi molte vittime di tratta), in attesa dell’audizione presso la commissione territoriale, fa sì che molti di loro si ritrovino in una situazione di ulteriore precarietà, non potendo accedere all’assistenza sanitaria, al sistema di welfare, a percorsi di formazione o ad altri servizi, finalizzati all’inserimento socio-lavorativo nel nostro paese. Infine, il processo di trasformazione degli Sprar (sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati), che hanno accolto anche molte vittime di tratta seppure non identificate necessariamente come tali, in Siproimi (sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e il relativo taglio dei fondi, sta contribuendo ad accentuare il clima di confusione e di incertezza. Da tutto ciò non traggono certamente beneficio le vittime di tratta, ma anche tutti coloro che stanno lavorando per realizzare significativi ed effettivi cammini di formazione e integrazione. Per non parlare del fatto che – specialmente nel caso delle donne nigeriane – molte di coloro che sono vittime di un crimine gravissimo, non solo non vengono identificate come tali, ma si ritrovano private di alcuni diritti fondamentali.

Ed è proprio questo uno dei temi centrali che deve essere messo a fuoco quando si parla di tratta e di grave sfruttamento: quello dei diritti umani. La tratta, secondo gli esperti dell’Unione europea, si realizza «attraverso la considerazione e il trattamento di esseri umani alla stregua di proprietà private o merci di scambio, deprivando l’individuo della possibilità di fruire dei diritti che invece gli sono garantiti costituzionalmente. In questo senso, la tratta viola la dignità e il diritto dell’autodeterminazione della persona. Uno stato che non agisce per prevenire e combattere la tratta di esseri umani viola indirettamente i diritti umani della persona trafficata».

Di conseguenza, anche tutte le azioni di prevenzione, contrasto e protezione delle vittime devono necessariamente tenere al centro la questione dei diritti umani e il rispetto della dignità della persona, specialmente quando si ha a che fare con minori, che richiedono una particolare tutela. Per tutte queste ragioni, il fenomeno della tratta non può essere semplicemente ricondotto a un problema di migrazione, di ordine pubblico o di criminalità organizzata. Ma è, innanzitutto, una questione di dignità e diritti fondamentali di tutti e di ciascuno.


Una piaga del mondo moderno

Cosa mette in campo la chiesa per combattere la tratta

«Un reato di lesa umanità», definisce così la tratta papa Francesco. Le religiose rispondono all’appello del pontefice a combattere questo flagello nutrendo una rete, nata 10 anni fa, attiva in 70 paesi dei 5 continenti. Si occupano di protezione delle vittime ma anche di fare pressione per avere leggi più idonee. E la Chiesa istituzione si dota di Orientamenti pastorali sulla tratta di persone.

«La tratta di esseri umani è una piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo». In moltissime occasioni papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato, si è espresso chiaramente per denunciare la tratta di esseri umani, un fenomeno che lui stesso ha definito «una delle ferite più dolorose, una moderna forma di schiavitù, che viola la dignità, dono di Dio, in tanti nostri fratelli e sorelle».

Per questo il pontefice ha spronato la Chiesa tutta a «intervenire in ogni fase della tratta degli

esseri umani», per «proteggerli dall’inganno e dall’adescamento; per trovarli e liberarli quando vengano trasportati e ridotti in schiavitù; per assisterli una volta liberati».

Su questo tema papa Francesco ha scritto anche diversi documenti, a cominciare dal testo della Giornata mondiale della Pace del 2015, significativamente intitolato «Non più schiavi, ma fratelli», in cui ha chiesto a tutti una «mobilitazione di dimensioni comparabili a quelle del fenomeno stesso». Nel messaggio, papa Francesco parla della schiavitù come di un «reato di lesa umanità», che continua a interessare, ancora oggi, «milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù».

Nel settembre dello stesso anno, partecipando all’Assemblea generale delle Nazioni unite, papa Francesco ha ammonito tutti i leader della terra affinché di fronte a mali quali «la tratta degli esseri umani, il commercio di organi e tessuti umani, lo sfruttamento sessuale di bambini e bambine, il lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione», non si risponda solo con vaghi «impegni assunti solennemente», ma si abbia «cura che le nostre istituzioni», come pure tutti i nostri sforzi, «siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli».

Le religiose scendono in campo

Ma se il monito del papa non è stato preso adeguatamente sul serio sul fronte delle grandi istituzioni internazionali, chi ha risposto prontamente al suo pressante appello è stato un altro network, quello delle religiose.

Impegnate in prima linea soprattutto nella prevenzione del fenomeno e nella protezione delle vittime, in Italia come in molti altri paesi del mondo, le religiose riunite nella rete di Talitha Kum – che fa riferimento all’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg) – ha dato vita, già l’8 febbraio del 2015, alla prima Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone fortemente voluta da papa Francesco.

La Tratta nel mondoL’obiettivo di questa giornata – che ormai si celebra in diverse parti del mondo – è innanzitutto quello di creare maggiore consapevolezza sul fenomeno e far riflettere sulla situazione globale di violenza e ingiustizia che colpisce milioni di persone in tutto il pianeta. Al contempo, si vogliono indicare piste concrete per dare risposte efficaci. Per questo, da un lato, viene ribadita la necessità di garantire diritti, libertà e dignità alle persone trafficate e ridotte in schiavitù e, dall’altro, di denunciare sia le organizzazioni criminali sia coloro che usano e abusano della povertà e della vulnerabilità di queste persone per farne oggetti di piacere o fonti di guadagno.

«La tratta di persone ferisce con efferata violenza l’umanità – dice suor Gabriella Bottani, missionaria comboniana e coordinatrice di Talitha Kum -. Per questo noi, come religiose, continuiamo a portare avanti cammini di libertà e speranza attraverso gesti quotidiani di ascolto e incontro che curano innanzitutto la dignità ferita. Sono gesti sovversivi e di denuncia che contrastano il male della tratta di persone con il bene».

Suor Gabriella ha alle spalle una lunga esperienza nella rete anti tratta del Brasile, prima a Fortaleza e poi in Amazzonia, dove si è resa conto, incontrando personalmente anche molte vittime, di come «tutto è sfruttato, al punto che non ci si rende più nemmeno conto che gli uomini stessi sono sfruttati». Rientrata in Italia, suor Gabriella coordina, dal 2015, il network internazionale delle religiose per continuare a combattere in ogni angolo del mondo la piaga della tratta. Lo scorso giugno è stata riconosciuta come «eroe» contro la tratta dal dipartimento di Stato Usa, in occasione della presentazione del «Trafficking in Persons Report» (Tip Report) che quest’anno ha declassato l’Italia tra i paesi di seconda fascia a causa del peggioramento nel contrasto alla tratta e nella protezione delle vittime.

La rete è nata nel 2009 in seno all’Uisg, in seguito a un «Programma di formazione per personale religioso alle azioni di contrasto alla tratta di persone», realizzato in cooperazione con l’Ambasciata americana presso la Santa Sede e gestito in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). «Il desiderio condiviso – spiega la religiosa – era quello di coordinare e rafforzare gli sforzi e le attività contro la tratta promossi dalle religiose nel rispetto dei diversi contesti e culture. Attualmente, ci sono 17 reti regionali in 70 paesi nei 5 continenti».

In occasione del decennale, Talitha Kum ha realizzato anche una mostra fotografica che è stata esposta in Vaticano e che sarà in settembre alle Nazioni unite, in occasione dell’Assemblea generale. «Nuns Healing Hearts» è il titolo di questo progetto dalle immagini molto evocative: «Suore che curano i cuori». «Ciò che desidero trasmettere attraverso queste immagini – afferma la fotografa Lisa Kristine, che ha visitato molte realtà di religiose impegnate contro la tratta in diversi paesi – è il potente lavoro che le suore di Talitha Kum stanno facendo in tutto il mondo in prima linea contro la schiavitù. Ma la cosa più significativa di questo progetto è stato lavorare intimamente con le suore e sperimentare come loro operano instancabilmente e umilmente, spesso con poche risorse, per aiutare i più bisognosi».

Come si combatte la tratta in Italia

La tratta In ItaliaAnche in Italia, le religiose sono state tra le prime a individuare il fenomeno della tratta e a farsi carico della protezione delle vittime, ma anche tra le più efficaci nel denunciarlo e nel promuovere azioni di advocacy nei confronti delle autorità. Questo impegno – portato avanti insieme ad altri – ha condotto all’approvazione dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione del 1998, una delle leggi più avanzate al mondo per quanto riguarda la protezione sociale delle vittime di tratta.

Purtroppo, in questi ultimi anni, le potenzialità dell’articolo 18 sono state gravemente disattese, per mancanza di risorse finanziarie e umane. «L’articolo 18 – ha denunciato in più occasioni Mirta Da Pra Pocchiesa del Gruppo Abele – è stato il frutto di un lavoro tra associazioni operanti sul campo e i ministeri degli Affari sociali, Pari opportunità e Interno, per aiutare le vittime a contrastare il traffico di esseri umani. Per un certo periodo l’Italia era diventata una terra difficile per i trafficanti: le ragazze denunciavano e le forze dell’ordine potevano colpire duramente le organizzazioni criminali. Da un certo punto in avanti, però, è iniziato lo sfacelo. C’è stato un disinvestimento generale: enti e associazioni che lavorano sul tema si sono trovati senza una regia, senza un coordinamento».

Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, è stata tra le pioniere, insieme a Mirta Da Pra, di queste battaglie. Dopo 24 anni in Kenya, rientrata in Italia all’inizio degli anni Novanta, suor Eugenia ha ritrovato nel suo paese giovani africane sfruttate barbaramente come non aveva mai visto. Lei che aveva sempre lavorato per la promozione delle donne in Africa, si è rimboccata le maniche anche qui per contrastare una delle peggiori violenze che potessero subire. Prima a Torino, poi per molti anni a Roma, come coordinatrice dell’Ufficio Tratta donne minori dell’Usmi (Unione superiori maggiori d’Italia) e dal 2014 come presidente dell’associazione «Slaves no More» (mai più schiave), suor Eugenia continua a portare avanti instancabilmente una battaglia per liberare queste donne non solo dalle catene della schiavitù, ma anche da quelle del pregiudizio e dell’indifferenza. Per questa ragione, papa Francesco le ha affidato quest’anno le riflessioni della via crucis che si è tenuta in Vaticano la sera del Venerdì Santo (cfr sotto: Incontro con suor Eugenia Bonetti, una suora contro la tratta).

Ma se fino a oggi, all’interno della Chiesa, il tema della tratta sembrava essenzialmente relegato alla dimensione religiosa femminile, un significativo passo avanti nel coinvolgimento di tutti i suoi membri e in una presa di coscienza sul fenomeno è stato fatto con la pubblicazione, lo scorso gennaio, degli «Orientamenti pastorali sulla tratta di persone», realizzati dalla «Sezione migranti e rifugiati» del Dicastero vaticano per il servizio dello sviluppo umano integrale.

«Gli Orientamenti pastorali sulla tratta di persone – spiegano i due sottosegretari della Sezione, padre Fabio Baggio, scalabriniano, e padre Michael Czerny, gesuita – si propongono di fornire una chiave di lettura della tratta e una comprensione che diano ragione e sostegno a una lotta necessaria e duratura».

Istituita il primo gennaio 2017 da papa Francesco, che ne ha assunto personalmente la guida ad tempus, la Sezione migranti e rifugiati è incaricata di affrontare il tema della tratta di persone assieme alle altre questioni relative alle migrazioni. La sua missione è quella di assistere in particolare i vescovi e quanti si sono messi a servizio di questi gruppi vulnerabili.

Come sono nati gli «Orientamenti»

«Per affrontare il problema della tratta e della schiavitù di esseri umani – precisano i due sottosegretari – durante il 2018, la Sezione ha organizzato due consultazioni con vescovi, coordinatori pastorali, ricercatori, operatori professionisti e rappresentanti di organizzazioni impegnate in questo settore. I partecipanti si sono scambiati esperienze e punti di vista, affrontando gli aspetti rilevanti del fenomeno. Si è pure analizzata la risposta globale della Chiesa, specificandone i punti di forza e le debolezze, le opportunità politiche e pastorali, come pure la necessità di un potenziamento del coordinamento a livello mondiale.

Questo processo, durato sei mesi, ha dato vita agli Orientamenti pastorali sulla tratta di persone, indirizzati alle diocesi, alle parrocchie e alle congregazioni religiose, alle scuole e alle università, alle organizzazioni cattoliche e altre organizzazioni della società civile e a qualsiasi altro gruppo disponibile a impegnarsi in questo campo».

Un esempio di questo impegno viene da Caritas italiana che a inizio luglio ha presentato i risultati di un monitoraggio svolto sul territorio nazionale di tutte le Caritas che si occupano del fenomeno della tratta. Ne è emerso un panorama complesso di una sessantina di realtà che, in modo diverso, si occupano del fenomeno, con servizi e attività più o meno ampi e organizzati: dalle unità di strada alle accoglienze, dalle azioni di sensibilizzazione ai processi di integrazione (cfr pag 40).

Questo lavoro viene svolto in diversi casi in collaborazione con le religiose che operano o direttamente nelle Caritas o in case di accoglienza. Questo servizio – tuttora coordinato dall’Usmi nazionale che ha svolto in parallelo un analogo monitoraggio – è diminuito in questi ultimi anni o si è diversificato. Molte case di accoglienza delle religiose, infatti, non sono più specifiche per vittime di tratta, ma si sono convertite in accoglienze per mamme e bambini con varie forme di disagio o vulnerabilità. La complessità del fenomeno e la fluidità – legata alla questione degli sbarchi come anche ai cambiamenti legislativi – chiedono a tutti coloro che operano in questo ambito difficile e delicato di mettersi continuamente in gioco, a cominciare dalla formazione, e di sperimentare nuove progettualità.

È l’invito che arriva anche da papa Francesco: «Mi ha sempre addolorato la situazione di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta di persone. Vorrei che si ascoltasse il grido di Dio che chiede a tutti noi: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). Dov’è il tuo fratello schiavo? […] Ci sono molte complicità. La domanda è per tutti!».


Il lavoro delle Caritas in Italia, una rete capillare sul territorio

Sono una sessantina le Caritas che in Italia si occupano di tratta, con servizi e attività più o meno ampi e organizzati. Molte di più sono quelle che in modo spontaneo e non strutturato intercettano – in particolare attraverso i centri di ascolto o i dormitori – le vittime di tratta o presunte tali e le orientano verso servizi o realtà più specifiche. È quanto emerge da un report di monitoraggio realizzato da Caritas italiana per avere una mappatura più aggiornata e articolata del lavoro delle Caritas in questo ambito. Ne emerge un quadro variegato di impegno e difficoltà su molti fronti.

Qualche dato: le Caritas in Italia gestiscono 18 unità di strada; 31 accoglienze e progetti di integrazione; 24 realtà con attività di sensibilizzazione/informazione rivolte al territorio e corsi di formazione; 17 sportelli/drop in con servizi legali, sanitari, psicologici e così via; una ventina di iniziative di sostegno ad altre realtà con aiuti economici o materiali, supporto burocratico o altro.

Un impegno consistente, che tuttavia in questi anni si è confrontato e talvolta scontrato con molti ostacoli: la complessità e la fluidità del fenomeno, nonché i recenti provvedimenti legislativi, hanno messo molte Caritas di fronte alla necessità di aggiornarsi costantemente per continuare a dare risposte efficaci nonostante il mutamento delle situazioni.

Come per tutti, infatti, anche le Caritas – che spesso operano in collaborazione con gli Istituti religiosi femminili – hanno dovuto far fronte, da un lato, alla grande urgenza legata alla presenza di numerose donne vittime di tratta o potenziali tali, dall’altro, a un cambiamento del fenomeno che ha richiesto uno sforzo ulteriore di riflessione, formazione e organizzazione.

Più in generale, si legge nel report, tra le difficoltà emerge «il problema di una burocrazia molto complessa, il non facile rapporto con le istituzioni e l’enorme complicazione del reperimento dei documenti. Per non parlare dei tempi lunghi del percorso legale e sociale, difficili da gestire all’interno di una struttura protetta».

Tra gli auspici condivisi, quello che maggiormente emerge è l’importanza di consolidare il lavoro in rete: tra le diverse Caritas, ma anche con altri enti pubblici e privati. Perché insieme si è più forti, anche nel contrasto alla tratta e nel difficile e complesso compito di proteggere e integrare le vittime nella nostra società.


Incontro con suor Eugenia Bonetti, una suora contro la tratta

È stata una delle pioniere in Italia della lotta contro la tratta di esseri umani. Con il suo piglio battagliero, ma anche con la sua capacità di compassione, suor Eugenia Bonetti si è messa senza indugio al fianco delle vittime, per riscattarle dalla schiavitù, ma anche per dare loro voce, denunciando così un fenomeno che molti non volevano neppure vedere. Purtroppo anche oggi.

Era il 1993, e suor Eugenia Bonetti – missionaria della Consolata, oggi ottantenne – era appena rientrata in Italia, dopo aver vissuto 24 anni di missione tra le donne del Kenya.

A Torino, dove era tornata a malincuore, è stata un’altra donna africana ad aprirle gli occhi con il suo grido di aiuto. Suor Eugenia si è ben presto accorta che il fenomeno che aveva di fronte non riguardava semplicemente la prostituzione, ma qualcosa di molto più grave e orribile: tratta e schiavitù.

Da allora ha condotto moltissime battaglie; ha contribuito a togliere dalla strada oltre 6mila giovani donne, soprattutto nigeriane; ha coordinato a lungo il network delle religiose italiane che operano nelle case di accoglienza – l’ex Ufficio tratta donne e minori dell’Usmi -; ha infine fondato l’associazione «Slaves no More», di cui è presidente, che ha realizzato un progetto pilota di rimpatri volontari assistiti di donne nigeriane, e che garantisce, grazie all’impegno di una quindicina di religiose, una presenza settimanale nel Cpr di Ponte Galeria a Roma (Il Cpr è il Centro di permanenza per il rimpatrio, ex Cie, Centro di identificazione ed espulsione, ndr).

Di tutto ciò ha parlato anche in diversi libri, ma la sua figura e il suo impegno sono diventati particolarmente noti soprattutto dopo che papa Francesco le ha chiesto di scrivere le meditazioni per la Via Crucis al Colosseo dello scorso 19 aprile.

Suor Eugenia Bonetti

Suor Eugenia, che cosa ha significato scrivere quei testi?

«Una grande responsabilità, ma anche un’opportunità unica. Quando ho ricevuto la telefonata del cardinale Gianfranco Ravasi che mi chiedeva di scrivere le meditazioni per la Via Crucis sono stata presa di sorpresa. Ho vissuto quel periodo nella preghiera, ripensando alle parole di papa Francesco che parla di tratta come di “un crimine contro l’umanità”. Ho pensato che la Via Crucis potesse scuotere le coscienze e per questo ho accennato a valori come l’uguaglianza, la fede, la fratellanza, la misericordia, l’amore in tutte le sue forme (di una madre, di un padre, di un fratello e di una sorella, di un amico, di un passante, di un soccorritore), l’accettazione del diverso e del malato, di chi è in difficoltà. Ho fatto tutto attingendo ai molti anni passati a camminare sulle strade con queste donne, anni in cui le ho ascoltate, ci ho parlato e le ho aiutate con il sostegno di molte altre religiose e laici».

Su cosa ha voluto insistere?

«Ho cercato di includere tutte le forme di schiavitù presenti nel fenomeno della tratta, ma soprattutto ho tentato di sottolineare la condizione delle giovani donne distrutte da questa enorme piaga. Mi è sembrato giusto anche fare un appello: ai poteri e alla Chiesa affinché si prendano le loro responsabilità e agiscano mettendo l’essere umano sopra ogni altro valore e principio; alla società civile che, pur facendo molto deve fare sempre di più; ai clienti che sono parte attiva del problema».

Non solo storie finite male, però…

«Ho cercato di far riaffiorare anche la speranza, l’Italia del riscatto, di tutti i volontari e operatori del terzo settore, capaci di stare accanto al prossimo e di aiutarlo. E di tutti coloro che rispondono alla richiesta del Signore di mettersi in ascolto dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Mi sembrava importante anche soffermarmi sulla forza di rinascita delle donne e sulla loro capacità di lenire il loro dolore e il dolore altrui».

Lei indica nel deserto e nel mare i nuovi cimiteri di oggi. Che cosa intende?

«Nel deserto e nel Mediterraneo, continuano a morire migliaia di uomini, donne, bambini: esseri umani bruciati dal caldo del deserto o annegati nel mare, senza un nome, senza un’identità, privati della dignità e dei diritti che tutti possediamo, nell’indifferenza quasi totale di paesi che preferiscono non decidere».

Lei continua a essere impegnata su più fronti, in quanto fondatrice e presidente dell’associazione «Slaves no More». Che cosa state facendo?

«L’associazione nasce principalmente per aiutare le donne a liberarsi da ogni forma di violenza; in particolare si concentra sulle vittime di tratta, costrette a prostituirsi sulle nostre strade. Le attività che porta avanti, grazie al sostegno di tanti che ci aiutano e ci supportano, vanno dai rimpatri volontari assistiti in Nigeria alle diverse forme di interventi legati alla formazione e all’informazione sui temi specifici della tratta. L’associazione intrattiene strette relazioni di collaborazione anche con le case di accoglienza delle religiose a Lagos e Benin City (Nigeria)».

E nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria?

Suor Eugenia Bonetti

«A Ponte Galeria, insieme a un gruppo di suore di molte nazionalità e lingue diverse, siamo presenti tutti i sabati pomeriggio. Cerchiamo di accompagnare, con preghiere, feste e canti, le molte donne che, trovate senza documenti, sono costrette a passare molto tempo lì dentro, spesso senza sapere che ne sarà di loro. Ponte Galeria è a tutti gli effetti un luogo di detenzione, con sbarre e cemento, lenzuola di carta, molto freddo e caldo estremo. E anche tanta solitudine. Qui le donne sono costrette a una condizione di inattività, costantemente sorvegliate, con una minima possibilità di contatti con l’esterno, sole con le loro paure e i loro traumi, in balìa degli eventi. Noi rappresentiamo l’unico momento, durante la settimana, di ascolto, comprensione e compassione».

Le sembra che in Italia sia cresciuta la consapevolezza circa la tratta degli esseri umani, e la presenza di schiavi e schiave anche nel nostro paese?

«La tratta e i fenomeni a essa connessa sono cambiati e si sono evoluti, così come gli interventi a livello legislativo e da parte dell’associazionismo. Anche la consapevolezza è sicuramente cresciuta ma, oggi, mi sembra che ci sia una battuta d’arresto. Viviamo in una società consumistica dove i valori sono il denaro, il prestigio, l’esteriorità e l’apparenza; dove tutto può essere venduto e acquistato; dove l’essenziale è pensare a se stessi; dove ci viene istillata la paura del diverso; dove l’odio viene urlato e propagandato. Anche le nuove leggi sono lo specchio di un pensiero e di un modo di fare che tende alla divisione, all’odio e alla prevaricazione. Tutto questo non va certamente nella direzione dell’unione, della fratellanza, dell’aiuto e della comprensione».

Vedi anche questa intervista su Vatican news


Le misure dello stato italiano: un piano anti tratta (e il numero verde)

In Italia esistono un numero verde anti tratta e anche un piano nazionale che dovrebbero contrastare le gravi forme di sfruttamento presenti sul territorio nazionale.

Il primo, attivato nel 2000, viene gestito dal 2006 dal comune di Venezia. Il secondo, è stato finanziato per la prima volta nel 2016 e viene coordinato dal Dipartimento per le pari opportunità (Dpo) della Presidenza del consiglio dei ministri. Sono gli strumenti messi in campo dal governo italiano per il contrasto alla tratta degli esseri umani e la protezione delle vittime.

Il numero verde (800 290 290), in particolare, dopo una prima fase, in cui ha funzionato con una postazione centrale e 14 periferiche, dal 2006 fa capo a un unico ente – il comune di Venezia, appunto – che fa riferimento ai vari attori che, a livello regionale, operano nei progetti anti tratta finanziati dal Dpo. Sono 21 e coprono tutte le regioni italiane. Il piano è stato rifinanziato lo scorso primo marzo con 24 milioni di euro per i prossimi 15 mesi. Nel 2018, sono state assistite 1.914 persone (al 90% donne, in gran parte nigeriane), e si sono registrate 820 nuove emersioni (l’11,23% minorenni). Nell’88% dei casi si tratta di vittime di sfruttamento sessuale.

«Il numero verde – spiega Cinzia Bragagnolo che ne è la responsabile – raccoglie le segnalazioni, ed effettua una prima valutazione del caso, offre informazioni e orienta sui territori, cercando di favorire l’emersione del fenomeno e di offrire indicazioni sulle possibilità di aiuto e assistenza. Innanzitutto, viene fatta una prima valutazione della pertinenza della chiamata e poi si orientano le persone ai servizi sul territorio. L’obiettivo è di supportare le vittime di tratta e sfruttamento, ma anche di ottimizzare le risorse presenti qualora, ad esempio, ci sia bisogno di spostare le persone da una regione all’altra per motivi di sicurezza o per mancanza di posti in accoglienza o per incompatibilità delle strutture».

Le telefonate arrivano da soggetti diversi. «Possono essere le stesse potenziali vittime di tratta a chiamare – continua Bragagnolo -, oppure forze dell’ordine, operatori di progetti, servizi sociali o sanitari. Ultimamente sono cambiati molto i soggetti segnalanti che afferiscono al numero verde. Molte chiamate, infatti, arrivano da commissioni territoriali e prefetture o da Cas e Sprar, in cui sono presenti potenziali vittime di tratta».

Questo perché, da un lato, non sono più state fatte campagne di promozione del numero verde anti tratta e dunque è poco conosciuto – l’ultima risale al 2016, seguita da una brevissima campagna nel 2017 -; dall’altro lato, perché il fenomeno degli sbarchi, in particolare di giovani donne nigeriane potenziali vittime di tratta, ha inciso significativamente anche su tutto il sistema di accoglienza.

«In questi ultimi anni – conferma Bragagnolo – nelle prese in carico c’è stato un grande aumento delle donne nigeriane. Il picco lo si è avuto un paio di anni fa; adesso, in strada, le donne nigeriane sono tornate a essere circa un terzo, ma nei progetti del Dpo sono quasi il 90% dei casi. Questo significa che sono stati probabilmente trascurati altri target, ad esempio, donne provenienti da altri paesi; soprattutto, però, significa che è stato trascurato un altro ambito altrettanto preoccupante, quello del grave sfruttamento lavorativo».

Solo tre progetti su 21, infatti, si occupano di questa piaga che ormai non riguarda più soltanto il lavoro agricolo o il Sud Italia, ma interessa un po’ tutte le regioni e tutti i settori dell’economia del nostro paese: dall’industria alla logistica, dall’assemblaggio alla ristorazione.

«Ci sono pochi interventi strutturati sul grave sfruttamento lavorativo – conferma Cinzia Bragagnolo – anche perché è molto difficile operare in questo ambito. Occorrerebbe un lavoro multi agenzia e in questo momento si è ancora troppo poco strutturati per essere incisivi su questo fenomeno».

Lo scorso 7 maggio, il sottosegretario con delega alle pari opportunità, Vincenzo Spadafora, ha presieduto la prima riunione della nuova cabina di regia per la prevenzione e il contrasto alla tratta degli esseri umani, affiancata da un nuovo comitato tecnico. La cabina è la sede di confronto e di raccordo politico, strategico e funzionale tra le amministrazioni statali, la direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, le forze dell’ordine, le regioni e gli enti locali per la definizione del nuovo piano nazionale anti tratta 2019-2021. Al comitato tecnico, invece, partecipano soggetti della società civile direttamente impegnati nel contrasto alla tratta e nella protezione delle vittime.

«Sarebbe importante – conclude Bragagnolo – che si possa mettere a punto il prossimo piano nazionale anche alla luce dei nuovi cambiamenti del fenomeno e delle recenti evoluzioni delle dinamiche della tratta. A mio avviso, occorrerebbe rivedere le connotazioni del programma di protezione sociale, dal momento che, in questi ultimi anni, la natura dell’art. 18 è andata in gran parte persa, poiché la maggior parte delle vittime ha seguito percorsi di richiesta d’asilo. Ma anche il contrasto alle reti criminali si è affievolito. Inoltre, bisognerebbe tenere aperto lo sguardo su altre forme di sfruttamento e non solo prevalentemente su quello sessuale».

Il nuovo piano nazionale anti tratta avrebbe dovuto essere presentato entro fine giugno, ma probabilmente slitterà di qualche mese.


Hanno firmato questo dossier:

  • Anna Pozzi – Giornalista professionista, collabora con diverse testate giornalistiche. Tiene incontri di formazione e seminari su politica, economia, società e cultura africana e sulle questioni di migrazioni e tratta. È tra i fondatori dell’associazione «Slaves no more» contro la tratta degli esseri umani. Ha collaborato alla realizzazione delle Giornate mondiali contro la tratta di persone (8 febbraio). Su questo tema ha scritto diversi saggi, tra cui Il coraggio della libertà (ed. Paoline, 2017) con Blessing Okoedion, Mercanti di schiavi (San Paolo, 2016), Spezzare le catene (Rizzoli, 2012). Ha inoltre realizzato due documentari: No place like home (2016) e Il coraggio della libertà (2017).
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • Archivio MC:




L’epopea dei migranti centro americani all’epoca di Trump

Sommario


Testo e foto di di Simona Carnino


Reportage da una carovana migrante

Umanità in movimento

Honduras, El Salvador, Guatemala, Nicaragua. Da questi paesi partono, senza sosta, donne, uomini, famiglie intere, con l’obiettivo di raggiungere gli Stati Uniti. Gente normale, in cerca di un futuro migliore, un sogno che sembra a portata di mano. Ma il viaggio è duro e pieno d’insidie. Così capita che si uniscano in decine, centinaia, diventando delle vere carovane migranti. Siamo andati in mezzo a loro.

Juan Rodríguez Clara, stato di Veracruz, Messico. Esmeralda si toglie le scarpe e le allinea vicino al materassino da campo, poi si siede sul suo sacco a pelo. Si prepara a trascorrere la notte in uno dei punti tappa che alcuni volontari messicani hanno organizzato lungo il cammino per chi, come lei, viaggia insieme a una delle carovane di migranti che dal Centro America si dirigono verso gli Stati Uniti.

Esmeralda ha trovato un angolo di pace tra una colonna e il muro di uno dei magazzini che a Juan Rodríguez Clara, un piccolo centro abitato nello stato di Veracruz in Messico, in genere sono adibiti alla fiera annuale dei bovini di allevamento. È una tappa di passaggio, ma è un luogo coperto in cui è possibile dormire e farsi una doccia. Divide il suo letto da campo con il marito Carlos, le sue due figlie gemelle Cecilia e Maria di 18 anni e il suo figlio maggiore Erin di 20 anni.

Le scarpe sono il bene più importante di Esmeralda. Nel suo piccolo zaino c’è spazio per due cambi di biancheria intima, due paia di pantaloni, due t-shirt e una felpa imbottita. Esmeralda sa che è meglio avere un indumento caldo, perché nelle zone desertiche del Messico, se di giorno il termometro può toccare i 35 gradi, la notte le temperature si irrigidiscono all’improvviso.

La mattina si sveglia prima che il sole sorga e prepara la sua borsa, arrotola il materassino e lo avvolge insieme al sacco a pelo in un unico fagotto che lega intorno alla testa. «In questo modo ho le mani libere per portarmi dietro una bottiglia d’acqua», dice ridendo.

Esmeralda è partita il 31 ottobre 2018 da San Salvador alla volta degli Stati Uniti, insieme a 2mila connazionali, uno dei molti gruppi di migranti che, in quel periodo, si sono organizzati in carovane per attraversare il Messico e raggiungere la frontiera Nord. Esmeralda non ha una destinazione chiara in mente. Sa solo che in Salvador non vuole tornare.

Carovane: organizzazione spontanea

«Un giorno, mentre navigavo su Facebook, ho visto che alcuni miei connazionali si davano appuntamento in piazza Salvador del Mundo, al centro di San Salvador, per partire insieme verso gli Stati Uniti – racconta Esmeralda -. Io e mio marito abbiamo spesso pensato di lasciare il nostro paese, ma non si era mai presentata un’occasione favorevole. Appena saputo della carovana, abbiamo fatto i bagagli e siamo partiti con i nostri figli».

La carovana che si è messa in marcia il 31 ottobre, è stata la quarta di un ciclo di migrazioni massive che si sono verificate tra ottobre e novembre del 2018 da Honduras, Salvador e Guatemala, i tre paesi dell’area denominata Triangulo norte centroamericano, la regione di origine della maggior parte del flusso migratorio latinoamericano diretto verso gli Stati Uniti.

La prima carovana è partita il 18 ottobre da San Pedro Sula in Honduras e a ruota sono seguiti tre gruppi partiti dal Guatemala e dal Salvador. Diecimila persone hanno deciso di autogestire il proprio viaggio, invece di affidarlo alle reti del traffico di persone dei coyotes (come vengono chiamati i trafficanti, ndr), che si occupano tradizionalmente del trasbordo di persone dal Sud verso il Nord America. «Sembra un numero enorme, ma se consideriamo che in Messico transitano più di 400mila persone all’anno, si tratta di un flusso equivalente a circa 10 giorni – spiega Marta Sanchez Soler, presidentessa del Movimento migrante mesoamericano -. La novità è che i migranti della carovana hanno deciso di essere visibili e viaggiare in forma più sicura ed economica, rifiutandosi di pagare un alto prezzo a un trafficante per poter arrivare negli Stati Uniti».

Migrare in gruppo è diventato uno nuovo modo di viaggiare per molte persone centroamericane, che si sentono più protette dalla minaccia di estorsioni e sequestri da parte dei narcotrafficanti e a volte degli stessi coyotes, che hanno trovato nella migrazione di migliaia di centroamericani una fonte di guadagno.

Le carovane sono un porto sicuro in particolare per famiglie, donne e bambini che sono più esposti a violazioni dei diritti umani sulla tratta migratoria messicana. Più del 50% delle persone che migrano in gruppo sono famiglie spesso con minori di età inferiore ai 5 anni. Dal 2018 la migrazione dal Centro America, storicamente rappresentata da uomini soli, ha il volto delle famiglie, come dimostrato dai dati delle detenzioni sulla frontiera con gli Stati Uniti. Nei primi sei mesi dell’anno fiscale 2019 (ottobre 2018 – marzo 2019) le pattuglie di frontiera statunitensi hanno detenuto 189.584 famiglie. Il più alto dato di sempre.

La frontiera

«Viaggiare in carovana è più sicuro che migrare con i coyotes – continua Esmeralda -. Ma è ugualmente molto duro e faticoso. A volte camminiamo dalle 10 alle 12 ore sotto il sole, altre volte facciamo l’autostop. Il momento più difficile è stato superare la frontiera tra Guatemala e Messico. Non potevamo passare sul ponte perché non avevamo il visto e allora abbiamo attraversato la frontiera nel fiume. La polizia ha cercato di fermarci, ma eravamo tantissimi e non c’è riuscita».

In America Latina, i migranti che non possono dimostrare i requisiti economici necessari per ottenere un regolare visto di entrata in Messico e Stati Uniti e che quindi devono muoversi di nascosto sulla rotta terrestre, usano l’espressione «irse de mojado» che letteralmente significa «viaggiare da bagnati», perché sanno che dovranno attraversare a nuoto dei fiumi per superare le frontiere. Il confine tra Stati Uniti e Messico è rappresentato, per una lunghezza di 3.034 km, dal Rio Bravo, mentre tra Guatemala e Messico è il fiume Suchiate a segnare una parte di frontiera per 161 km.

«A volte credo che una parte di me sia rimasta nel fiume Suchiate – racconta Cecilia, la figlia di Esmeralda -. Le gambe affondavano nel fango e non avevo energia né per andare avanti né per tornare indietro. Alcuni pescatori ci hanno aiutate, ma quell’esperienza mi ha segnata per sempre».

Sequestri e desaparicion

Camminare non è l’unico modo in cui si muove la carovana. Molti migranti hanno, infatti, provato a fare l’autostop e chi ha qualche soldo ha comprato un biglietto del bus. Numerosi camionisti si sono resi disponibili a dare un passaggio a gruppi di migranti, aiutandoli a compiere alcuni tratti di strada. A fine ottobre 2018, sebbene la migrazione in gruppo renda meno vulnerabili i migranti di fronte a violenze ed estorsioni, un camionista ha rapito 50 persone, e il furgone, con il suo carico di esseri umani, è scomparso nel nulla nella regione di Veracruz, a ovest del Messico. «Il sequestro di migranti è un affare multimilionario per i cartelli del narcotraffico che gestiscono il traffico di merci, di droga e, oggi, anche le rotte migratorie – spiega il difensore dei diritti umani padre Alejandro Solalinde (si veda MC ottobre 2017) incontrato in mezzo alla carovana -. Le persone che non hanno accesso a un visto sono invisibili e obbligate ad attraversare il Messico in punti isolati, purtroppo spesso controllati da narcos e briganti, per non essere catturate dalla polizia dell’Istituto nazionale di migrazione messicano che le può deportare nel paese di origine. Ogni 6 mesi si verificano 10mila sequestri di migranti, con un’entrata economica per il narcotraffico di 25 milioni di dollari al semestre».

Il sequestro dei migranti è una pratica realizzata negli ultimi anni in particolare dal gruppo di narcotraffico denominato Los Zetas e dal cartello del Golfo. Nonostante le condizioni economiche precarie dei migranti che viaggiano sulle rotte della clandestinità, in genere i narcotrafficanti richiedono un riscatto di 10mila dollari a persona che le famiglie nel paese di origine provano a pagare contraendo debiti con conoscenti, parenti e con le banche che spesso si appropriano delle loro case e terreni in caso di mancata restituzione del prestito. Chi non riesce a pagare il riscatto rischia di non vedere mai più il proprio caro che spesso viene ucciso.

Esmeralda e la sua famiglia sono consapevoli dei rischi del percorso migratorio, ma non vogliono tornare indietro. «San Salvador è una città pericolosa – ricorda Esmeralda -, ogni giorno c’è un omicidio. Tutti noi salvadoregni abbiamo un parente che è stato ucciso dalle bande criminali e non voglio che questo accada ai miei figli».

La vita in Salvador: las pandillas

Eriberto ha 22 anni e annuisce con la testa. Sta sistemando il suo piccolo bagaglio e intanto ascolta in silenzio le parole di Esmeralda. Il suo bene più importante è un inalatore. Eriberto ha l’asma e prima di partire si è comprato tre spray predosati, convinto che sarebbero stati una scorta sufficiente per il viaggio. È timido e rimane un po’ in disparte. Il suo sguardo è basso e il suo dolore è stretto tra le labbra che mordicchia nervosamente. «Avevo un autolavaggio a San Salvador – inizia a raccontare il ragazzo -. Poi le bande criminali mi hanno chiesto il pizzo. Non ho pagato. Ho chiuso il negozio per un po’ e quando l’ho riaperto due persone sono entrate e hanno ucciso un mio cliente. Poi non gli è bastato e hanno ammazzato anche mio fratello».

Secondo il Consiglio nazionale della piccola impresa del Salvador, il 92% del settore imprenditoriale è vittima di estorsione da parte di due bande criminali, las pandillas Mara Salvatrucha MS-13 e Barrio 18 (si veda dossier su MC aprile 2016). Le due fazioni sono antagoniste e alimentano una guerra intestina giocata sulla pelle dei cittadini che spesso si trovano coinvolti in sparatorie tra le vie della città. Il Salvador chiude il 2018 con un tasso di 51 omicidi ogni 100mila abitanti, un numero sicuramente inferiore alle quasi 83 morti violente ogni 100mila persone del 2016, ma si tratta comunque di una cifra superiore ai 10 omicidi ogni 100mila che, secondo i parametri dell’Organizzazione mondiale della Sanità, è il limite sopra il quale la violenza è considerata endemica. Il Salvador è uno dei paesi, dove non è presente un conflitto armato, più pericolosi del mondo insieme a Honduras e Guatemala. Molte ragazze e ragazzi tra i 12 e i 16 anni sono obbligati ad affiliarsi a una delle due bande criminali. Rifiutarsi equivale a dichiarare guerra al clan e la punizione è la morte.

Le due pandillas Mara Salvatrucha MS-13 e Barrio 18 sono nate negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. I loro membri storici erano migrati in America del Nord negli anni precedenti e durante la guerra civile degli anni Ottanta. Con l’inasprimento delle politiche migratorie statunitensi degli anni Novanta, molti criminali sono stati deportati in Centro America, con un aumento di violenza nei paesi di origine.

La carovana e i diritti Lgbti

Tra i gruppi più vulnerabili alle violenze delle pandillas rientrano le persone appartenenti alla comunità Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali, ndr). Eriberto non nasconde il suo orientamento sessuale e racconta le violenze subite per il fatto di essere stato un membro attivo della comunità lgbti nella capitale salvadoregna. Negli ultimi tre anni sono state assassinate 145 persone della comunità gay, secondo i dati dell’ufficio della Diversità sessuale del governo del Salvador. Numeri simili sono registrati anche in Honduras e Guatemala, dove la diversità sessuale deve fare i conti con la discriminazione e l’intolleranza che affonda le sue radici in schemi tradizionali e patriarcali. «Sono circa 700 le persone omosessuali partite con le carovane negli ultimi due mesi – continua Eriberto -. Tutti noi vorremmo chiedere asilo politico negli Stati Uniti o in Canada».

Da quando il presidente Donald Trump ha dichiarato di voler attuare una politica di tolleranza zero contro l’immigrazione illegale, alcuni migranti hanno deciso di provare ad attraversare clandestinamente gli Stati Uniti per raggiungere il Canada. Secondo i dati dell’Unhcr, nel 2017 il Canada ha registrato 47.800 richieste di asilo politico, il doppio rispetto all’anno precedente. Nel 2019, il governo degli Stati Uniti ha affermato che verranno accolti non più di 30mila rifugiati politici, a fronte di un tetto di 45mila per l’anno 2018. Coloro che non ricevono un permesso per rimanere negli Usa sono deportati nel paese di origine.

Nonostante la politica di tolleranza zero di Trump sembri bloccare le strade all’arrivo di nuovi migranti, il flusso centroamericano è in continuo aumento. Per molte persone ha più peso la volontà di fuggire dai propri paesi che il timore di essere rifiutati nello stato di destinazione. E quindi se anche molti sanno che forse non riusciranno a ottenere un permesso, sperano di superare il confine di notte, senza essere intercettati dalle pattuglie di frontiera statunitensi, per poi sparire da qualche parte negli Stati Uniti dove si augurano di non incrociare mai un agente che chieda loro i documenti.

La deportazione dei migranti, attività svolta anche dall’amministrazione Obama e dai presidenti precedenti, avviene non solo in frontiera, ma anche dall’interno del paese. Può succedere che una persona viva anni negli Stati Uniti senza una regolare documentazione e, in seguito a un illecito, anche minore, come per esempio un eccesso di velocità, sia identificato e deportato nel paese d’origine.

Secondo l’ultima statistica del Pew Research Center del 2016, 10,7 milioni di persone considerate irregolari vivono, lavorano e hanno costruito la propria vita negli Stati Uniti. Circa 4 milioni di bambini americani sono nati da genitori senza documenti, i quali non possono richiedere una regolarizzazione del proprio status migratorio per motivi di famiglia. Lo sa bene Teresa. Una donna salvadoregna di 29 anni che viaggia nella carovana da sola. Il suo bene più importante è una foto delle sue tre figlie che vivono negli Usa.

 

I figli statunitensi

Teresa è partita per gli Stati Uniti nel 2006. È riuscita a superare la frontiera senza essere intercettata dalla polizia ed è arrivata in Virginia. Ha lavorato come cameriera in un fast food fino al 2017. Teresa non è mai riuscita a ottenere un visto lavorativo, né la green card (permesso di lavoro, ndr). Durante gli 11 anni di vita negli Stati Uniti ha avuto tre figlie che sono americane, perché negli Stati Uniti vige lo Ius soli, il diritto alla cittadinanza di un paese per nascita sul suo territorio. Il 14esimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, approvato nel 1868, infatti recita che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla sua giurisdizione, sono cittadine degli Stati Uniti e dello stato in cui risiedono». Il presidente Donald Trump ha pubblicamente dichiarato l’intenzione di battersi per l’abolizione dello Ius soli che interpreta come un incentivo alla immigrazione illegale, ma secondo un sondaggio condotto dal Wall Street Journal, il 65% degli statunitensi si è detto in disaccordo con lui.

«Sono felice che le mie bambine siano americane – racconta Teresa con la tenerezza che emerge dal sorriso -. Possono viaggiare in tutto il mondo e non devono vivere una vita come la mia». Nel 2017 Teresa è dovuta ritornare in Salvador per un’emergenza famigliare. Ha messo le sue figlie su un aereo e lei è tornata via terra, perché i controlli aeroportuali avrebbero svelato la sua mancanza di documenti. «Mi mancavano molto il Salvador e i miei affetti – racconta Teresa -. Ho colto l’occasione per capire se fosse possibile ritornare a vivere lì con le mie figlie. Siamo rimaste tre mesi, poi un giorno ho assistito a un omicidio per la strada e ho testimoniato in tribunale. Da lì ho capito che non sarei stata più sicura e ho rimandato le mie figlie negli Stati Uniti. Ora viaggio nella carovana perché voglio assolutamente tornare da loro che sono in Virginia con il loro padre».

Esmeralda, Eriberto e Teresa e tutti i migranti che non solo viaggiano in carovana, ma che ogni giorno migrano sulle rotte messicane con un coyote, sono uniti dallo stesso obiettivo. La volontà di cambiare, di migliorarsi, di vivere la vita che non hanno potuto costruire in un paese piegato dalla violenza, dalla precarietà e dall’abbandono da parte delle istituzioni. E non c’è un muro reale o virtuale che li può fermare. La violenza della polizia, il rischio di essere sequestrati dai narcos o la retorica anti migrante del governo degli Stati Uniti non sono motivi sufficienti a far cambiare i piani a chi ha deciso di lasciare la sua terra di origine.

E allora si torna a camminare. Teresa mette le foto delle sue tre bambine in un piccolo marsupio che appende al collo. La strada è ancora lunga. L’obiettivo è Tijuana e poi da lì si separeranno. Nei pressi della frontiera statunitense, le carovane si disgregano perché, quando è ora di attraversare la frontiera, tutti sanno che dovranno farlo in maniera nascosta e allora per sé. Eriberto ed Esmeralda sono convinti di voler chiedere asilo, ma Teresa sa già che è molto difficile ottenerlo. Lei pagherà qualcuno che la aiuti a fare l’ultimo pezzo di viaggio e la porti in Virginia. Perché deve arrivare a tutti i costi. «O sì o sì», come si dice in America Latina quando si è determinati a ottenere qualcosa. Non c’è spazio per l’opzione inversa. Teresa crede così.

Tijuana e oblio

Da novembre 2018 a oggi, Tijuana, città di frontiera, è diventata il punto nel quale i migranti della carovana aspettano prima di chiedere asilo negli Stati Uniti. Tijuana è un’area geografica controllata dal narcotraffico per la sua posizione strategica per il traffico di droga verso gli Stati Uniti.

Da gennaio 2019, l’amministrazione Trump ha proposto una nuova misura di contenimento della migrazione, denominata «Protocolli di protezione ai migranti». Stabilisce che i richiedenti asilo devono aspettare la conclusione del procedimento legale in territorio messicano. Nell’attesa, alcuni migranti hanno richiesto un visto umanitario in Messico e molti lo hanno ottenuto. Dal 1 dicembre 2018 il presidente messicano è Andrés Manuel López Obrador, che ha favorito la consegna di circa 10mila visti umanitari a migranti centroamericani che desiderano rimanere in Messico. Il governo di Obrador apparentemente dimostra una discontinuità rispetto all’amministrazione di Enrique Peña Nieto, tuttavia al momento non è stato smantellato l’Istituto nazionale di migrazione messicano che continua a esistere con 50 stazioni migratorie disposte sull’intero territorio nazionale, dove i migranti rischiano di essere incarcerati, prima di essere deportati. Fino a oggi, infatti, il Messico ha seguito le stesse direttive migratorie degli Stati Uniti e rappresenta il primo posto di blocco per i migranti senza documenti diretti in America del Nord. Viene chiamata frontiera verticale, perché tutto il territorio messicano è disseminato di centri di controllo migratorio.

A Tijuana si sono perse le tracce di molti migranti delle carovane. Qualcuno sarà arrivato a destinazione, riuscendo a evitare i controlli frontalieri. Qualcuno forse avrà deciso di rimanere in Messico e di provare a chiedere asilo in quel paese. Qualcuno sarà stato deportato nel suo stato d’origine dalle autorità statunitensi. Altri ancora vivono a Tijuana, in attesa di una risposta alla loro richiesta d’asilo.


La storia di Wilson, Francisco, Sabina

Nell’aprile del 2018, il governo degli Stati Uniti dichiarò di voler applicare una politica di tolleranza zero e perseguire penalmente tutti i migranti entrati senza documenti in territorio statunitense.

Le separazioni delle famiglie, catturate mentre provavano a superare la frontiera, sono state una delle conseguenze più dure dell’applicazione della politica di contenimento della migrazione considerata illegale. La pratica prevedeva che i genitori, in quanto maggiorenni, fossero trasferiti in carcere in attesa del processo. I bambini, invece, erano inviati in centri appositi per minori.

«Quando mi hanno strappato dalle braccia mio figlio Wilson di 7 anni, gli agenti della polizia di frontiera non mi hanno neppure detto dove lo avrebbero portato – ricorda Francisco Raymundo Bernal, giovane papà guatemalteco -. Wilson piangeva e anche io, ma in pochi minuti è scomparso dalla mia vista e io non sapevo cosa fare. La polizia mi diceva di stare zitto, perché mio figlio sarebbe stato bene, mentre io sarei andato in prigione». La storia di Francisco e Wilson è simile a quelle di altre famiglie centroamericane, che a partire da aprile 2018 hanno vissuto sulla propria pelle una delle conseguenze più dolorose della politica di tolleranza zero.

«Da aprile a settembre 2018, 6mila unità famigliari sono state separate in frontiera – spiega Carolina Jimenez di Amnesty International Las Americas -. Si tratta di tortura vera e propria che ha generato dei traumi insostenibili per i genitori e per i minori. E se per separare le famiglie è bastata una manciata di minuti, per poterle riunificare, invece, sono serviti mesi».

Il 20 giugno 2018, il presidente Donald Trump, sotto la pressione della comunità internazionale e di alcuni democratici del Congresso Usa, ha revocato la pratica di separazione delle famiglie con un ordine esecutivo, tuttavia, la procedura ha continuato a esistere fino a marzo 2019. La riunificazione delle famiglie è stata un procedimento complicato, perché il numero delle persone coinvolte era molto alto e la separazione è avvenuta in maniera frettolosa, aspetto che ha reso molto difficile dimostrare, successivamente, le parentele.

«Ho potuto parlare con mio figlio dopo tre settimane che ci avevano separato – spiega Francisco, il padre di Wilson -. Ero in carcere e mi stavano processando per poi deportarmi. Io volevo che mi rimandassero in Guatemala con mio figlio, ma non è stato così. Lui è ritornato a casa molto dopo di me».

Per poter riunificare le famiglie, le autorità migratorie statunitensi richiedono ai famigliari tutti i documenti anagrafici necessari per dimostrare la paternità. La madre di Wilson, che si trovava in Guatemala, ha dovuto cercare documenti non facili da reperire nel villaggio di cui sono originari. Le pratiche anagrafiche hanno un alto costo, aspetto che ha reso ancora più complicata e lunga la riunificazione.

«Ho fatto di tutto per riavere mio figlio tra le mie braccia – spiega Sabina Brito, la mamma di Wilson -. Ho mandato negli Stati Uniti diversi documenti, ma ci sono voluti 5 mesi prima di poter rivedere Wilson che è rimasto da solo per tutto quel tempo».

Wilson ha vissuto da settembre 2017 a fine gennaio 2018 in un centro per minori in Michigan. I genitori di Wilson, che avevano pensato di migrare in due gruppi, prima il papà con il bambino e, in una seconda fase, la mamma con la secondogenita, hanno saputo del luogo in cui è stato tenuto in custodia Wilson quasi un mese dopo la separazione.

Oggi Wilson vive in Guatemala con i suoi genitori, che stanno provando a ricrearsi una vita nel loro villaggio. «La ferita di questa vicenda non si può rimarginare – spiega Francisco -. Ora stiamo provando a sopravvivere qui, ma il lavoro è poco e malpagato. Non torneremo negli Stati Uniti, ma spesso pensiamo di migrare in Europa o, chissà, in Canada, perché qui non riusciamo a guadagnare sufficientemente per far studiare i nostri figli».


Il potere del passaporto

Molti centroamericani fanno domanda di visto per gli Usa. Ma per i poveri, gli indigeni, i senza reddito, è praticamente impossibile ottenerlo. E i loro passaporti non sono sufficienti per transitare in Messico, Stati Uniti e Canada. Viaggio in Guatemala, tra i Maya Ixil, per raccontare storie di chi ha tentato di rincorrere il sogno.

Nebaj, provincia di Quiché, Guatemala. Era un giorno di primavera in Guatemala. L’aria era calda e il cielo terso, come quasi sempre nei giorni della Semana Santa che precedono Pasqua.

Erano settimane che Petrona stava aspettando una risposta. Era emozionata e fiduciosa.

Qualche tempo prima, aveva fatto richiesta di un visto per viaggiare regolarmente verso gli Stati Uniti. In quell’occasione, era stata intervistata sulle sue motivazioni da un impiegato dell’ambasciata statunitense. Alla fine dell’incontro, il funzionario le aveva fissato un nuovo appuntamento per ricevere l’esito della sua domanda.

Nei progetti di Petrona c’era una vita statunitense, di duro lavoro, ma anche di tante soddisfazioni. Immaginava una terra nuova, dove poter guadagnare sufficientemente da riuscire, un giorno, a ritornare in Guatemala, costruire una casa per la sua famiglia e aprire una piccola attività commerciale. In più, il suo fidanzato, originario come lei della regione maya ixil nel Guatemala occidentale, era negli Stati Uniti da due anni e lei non vedeva l’ora di raggiungerlo.

Il giorno della risposta, Petrona si era svegliata alle 2 del mattino per essere sicura di salire sulla prima corriera e arrivare in tempo al suo appuntamento all’ambasciata degli Stati Uniti. «Ero piena di speranza – racconta Petrona -. Ma quando l’impiegato mi ha chiamato, mi ha semplicemente consegnato dei fogli e mi ha detto che mi era stato negato il visto. Non mi ha spiegato nient’altro. Io non capivo perché e dalla disperazione ho rotto i fogli e mi sono messa a piangere. A quel punto ho capito che avrei dovuto trovare un altro modo per andare negli Stati Uniti».

Secondo i dati del 2017 dell’Organizzazione mondiale per le Migrazioni (Oim), solo un 21,3% dei guatemaltechi che vive negli Stati Uniti ha viaggiato verso il paese in aereo, con un regolare visto. Tutti gli altri hanno attraversato le frontiere terrestri per entrare in Messico e, in seguito, negli Stati Uniti.

Passaporti e visti: asimmetrie

Senza visto, a poco vale possedere un passaporto del Guatemala, Honduras, Salvador o Nicaragua, se l’intenzione è viaggiare verso gli Stati Uniti. Le persone centroamericane che intendono muoversi legalmente verso il Nord devono richiedere un visto direttamente alle ambasciate dei paesi di destinazione, che decidono chi ha accesso ai propri paesi sulla base di alcuni requisiti. Per transitare in Messico si può richiedere un permesso direttamente all’ambasciata del paese oppure mostrare alla frontiera un visto statunitense, che è accettato anche in territorio messicano.

«Per ottenere un visto regolare per transitare in Messico e Stati Uniti bisogna dimostrare alcuni requisiti economici, tra cui avere un lavoro formale con uno stipendio regolare e possedere alcune proprietà come casa, terreni e automobile – ci spiega Ursula Roldàn Andrade, coordinatrice dell’area migrazioni dell’Istituto di ricerca sociale dell’Università Rafael Landívar di Città del Guatemala -. Per un migrante economico è praticamente impossibile avere o provare tali requisiti e, di conseguenza, ottenere un visto. Se non lo ottiene, è facile che ricerchi modi alternativi per raggiungere gli Stati Uniti, come affidarsi alle reti di trafficanti, ma in questo caso il viaggio è molto caro e rischioso».

Nel mondo contemporaneo, non tutti i passaporti danno ai loro possessori lo stesso potere di circolazione. Nel 2019, ad esempio, con un passaporto degli Stati Uniti è possibile viaggiare liberamente, senza bisogno di visto in 165 paesi, inclusi il Messico e tutti gli stati dell’America Centrale. Al contrario, il movimento dal Sud al Nord è controllato dall’obbligo di visto.

Anche i passaporti europei hanno un elevato potere di circolazione visa free. Secondo i dati del Passport Index 2019, la classifica annuale dei passaporti secondo il loro potere di circolazione senza richiesta di visto, con un passaporto italiano è possibile viaggiare in 166 paesi, così come con quello portoghese, irlandese, olandese o svedese. Con un passaporto siriano, invece, ci si muove liberamente in 37 paesi e con uno afghano in 30. Molti passaporti dei paesi dell’Africa del Nord e centrale forniscono ai loro possessori una possibilità di viaggio molto limitata. Avere un passaporto dal basso potere di circolazione senza  visto non ha un effetto deterrente su chi si sente forzato a migrare, lo obbliga, anzi, ad affidarsi a reti illegali di trafficanti, esponendosi a conseguenze violente per la propria integrità fisica, psicologica e identitaria.

Con un passaporto europeo è possibile viaggiare facilmente anche negli Stati Uniti, usufruendo del Visa Waiver Program con una possibilità di permanenza di 90 giorni. In poche ore si può ottenere l’autorizzazione elettronica Esta a un costo di 14 dollari. Chi usufruisce del visto turistico non può lavorare nel paese, tuttavia ha una possibilità maggiore, seppur le procedure siano alquanto complicate, di modificare il proprio status migratorio in loco, magari ottenendo un visto lavorativo o di studio, rispetto a chi entra nel paese in forma irregolare.

Quanto costa il viaggio

In media il costo del viaggio dall’America Centrale agli Stati Uniti per chi possiede un visto oscilla tra i 500 e i 1.000 dollari, includendo il prezzo del biglietto aereo e delle pratiche burocratiche per la richiesta del documento. Chi si deve affidare alla rete del traffico di persone gestito dai coyotes paga tra i 12mila e i 15mila dollari per un trasbordo in parte realizzato in camion in parte a piedi. In genere, un viaggio dal Centro America dura tra i 15 giorni e un mese. Negli ultimi anni, i coyotes propongono un pacchetto chiamato «viaggio di tre tentativi sicuri» per un prezzo che si aggira intorno ai 15mila dollari. In questo caso, se il migrante viene catturato dalla polizia di frontiera messicana o statunitense, una volta deportato nel paese d’origine, ha ancora a disposizione due tentativi.

Anche Isabel vive a Nebaj e ha 25 anni. Non conosce Petrona, ma hanno una vita simile. Entrambe hanno tentato di andare negli Stati Uniti. Entrambe sono state forzate a scegliere di viaggiare affidandosi alle reti del traffico gestito dai coyotes. «Non c’era scelta – racconta Isabel -. Io non ho neppure il passaporto perché so che tanto poi non mi danno il visto, per cui non ha senso farselo. Ho speso circa 10mila dollari per il mio viaggio negli Stati Uniti con il coyote e ho dovuto chiedere un prestito a una banca». La maggior parte delle persone che migrano dall’America Centrale non ha la possibilità di pagare il viaggio, per cui richiede prestiti a banche e cooperative, fornendo come motivazione la necessità di ingrandire casa o comprare un terreno. Se viene ottenuto il prestito, la famiglia del migrante deposita sul conto bancario del coyote parte del costo del viaggio alla partenza e il resto all’arrivo.

In alcuni casi i coyotes si trasformano in usurai e permettono ai migranti di rateizzare il costo del viaggio e pagarlo mentre lavorano negli Stati Uniti, a fronte di interessi molto alti. Chi non paga rischia di rimanere indebitato tutta la vita e di perdere, in caso ne abbia, appezzamenti di terreni famigliari e piccole proprietà, aggravando le proprie condizioni economiche.

Perché migrare

«Qui in Guatemala, io ricamo, rammendo vestiti e cucio – racconta Isabel -. Guadagno circa 450 quetzales al mese (58 Usd). Con questi soldi riesco a comprare il cibo per me e mio figlio, ma niente più di questo».

Il Guatemala si situa al nono posto al mondo, e al terzo in America Latina, per disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Questo è evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando come tessitrici informali, in genere guadagnano 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350.

«Tre persone su dieci dell’area maya ixil provano a migrare negli Stati Uniti – spiega Francisco Marroquin dell’organizzazione di diritti umani Asaunixil di Nebaj -. Lo stato guatemalteco non si è impegnato a generare nuovi posti di lavoro. Qui non ci sono attività commerciali e le infrastrutture, come le scuole e gli ospedali, sono mal gestite».

Il Guatemala ha vissuto un conflitto armato interno tra il 1960 e il 1996 (vedi MC giugno 2019). L’esercito, appoggiato dagli Stati Uniti, si è scontrato per più di 30 anni contro la guerriglia e la resistenza dei civili. Tra il 1982 e il 1983, l’esercito ha programmato una fase genocida contro il popolo indigeno maya ixil e la quasi completa distruzione del territorio. «Con la firma degli accordi di Pace nel 1996, in teoria lo stato guatemalteco avrebbe dovuto ricostruire le nostre comunità – continua Francisco Marroquin -. Ma purtroppo non ha fatto nulla e la gente ha cominciato a disperarsi e a cercare una via di fuga da qualche altra parte, come lavorare nelle piantagioni o, soprattutto negli ultimi 10 anni, migrare verso gli Stati Uniti».

L’Oim ha confermato un aumento della migrazione femminile guatemalteca in fuga da una situazione economica precaria, e dichiara che il 55,2% della popolazione è spinta a migrare verso gli Stati Uniti per ricerca di lavoro e mancanza di opportunità nelle proprie comunità di origine.

Il cammino in Messico

«Il viaggio attraverso il Messico è stato triste e faticoso – continua Isabel -. I coyotes si approfittano delle donne che viaggiano da sole. A volte obbligano qualche ragazza ad appartarsi e cercano di mettere loro le mani addosso. Una donna in questa situazione cosa può fare? Quando si viaggia con i coyotes non puoi neppure gridare o chiedere aiuto, perché loro comandano e se vogliono ti abbandonano in mezzo al deserto o ti ammazzano».

Nel 2017 la Commissione economica per l’America Latina (organismo Onu, ndr) ha riportato che il 50,1% dei migranti provenienti dalla regione centroamericana sono donne e Amnesty International ha confermato che 6 donne su 10, obbligate ad affidarsi alle reti del traffico umano per raggiungere gli Stati Uniti, sono vittime di violenza sessuale da parte del crimine organizzato e, a volte, anche delle forze di polizia messicana. «L’Istituto nazionale di migrazione messicano ha commesso numerosi crimini contro la popolazione migrante – dichiara Carolina Jimenez, vicedirettrice ricerche di Amnesty International Las Americas -. In particolare, la polizia ha spesso estorto denaro ai migranti e ha collaborato con il crimine organizzato nella gestione del traffico e della tratta».

Il viaggio attraverso il Messico per i migranti senza documento è una sorta di corsa a ostacoli guidata da uno o più coyotes che, in certi punti del viaggio, dividono il gruppo di migranti in sottogruppi, per essere meno visibili alle forze di polizia messicana. Molto spesso le reti di coyotes fanno accordi con i cartelli del narcotraffico che gestiscono le rotte migratorie e pagano una sorta di tangente per transitare nei loro territori, come spesso accade nei dipartimenti di Veracruz e di Tamaulipas.

In alcuni casi vengono consegnati interi carichi di persone ai narcotrafficanti che li usano per richiedere il riscatto ai famigliari. Nel 2010 a San Fernando di Tamaulipas i narcos Los Zetas uccisero 72 persone i cui corpi furono poi impilati uno sull’altro ed esposti alle intemperie perché i famigliari non avevano la possibilità di pagare il riscatto.

«In Messico abbiamo camminato spesso di notte – racconta Petrona -. Dovevamo vestirci di nero in modo che non ci vedesse la polizia. Abbiamo attraversato fiumi, camminato tra le sterpi, ci hanno buttato uno sull’altro in camion bestiami. Poi un giorno, attraversando un fiume, una ragazza che viaggiava con me è caduta e la corrente l’ha trascinata a valle. Avevamo paura, ma andavamo avanti. Dovevamo arrivare negli Stati Uniti».

Ultimamente pochi migranti usano il treno per muoversi dal Sud del Messico fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Fino a qualche anno fa, il treno denominato La Bestia era il mezzo di trasporto più frequentato. I migranti si sedevano sul tetto del treno fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Oggi non è più utilizzato perché è diventato un mezzo troppo pericoloso. Per scoraggiare l’immigrazione sulle rotte messicane, il governo di Enrique Peña Nieto aveva deciso di aumentare la velocità del treno, rendendo più difficile reggersi. Inoltre, La Bestia era spesso assaltato da narcos e dagli agenti dell’Istituto nazionale di migrazione messicano.

«I narcos organizzavano i sequestri in maniera rapida ed efficiente – commenta il professore e scrittore Rodolfo Casillas della facoltà latinoamericana di scienze sociali (Flacso) -. Con la complicità dei coyotes, tutte le persone che avevano una famiglia in grado di pagare il riscatto e le ragazze giovani che viaggiavano da sole erano fatte sedere nello stesso vagone. Quando i narcos fermavano il treno, sequestravano solo le persone di quel vagone. L’operazione durava pochi minuti e poi il treno riprendeva il suo viaggio».

L’arrivo (non-arrivo) negli Stati Uniti

Superare indenni il Messico non è garanzia di successo del viaggio. «Pensavo di essere arrivata – racconta Petrona -. Dopo aver attraversato la frontiera, ero piena di gioia, ma improvvisamente ci sono venute incontro delle moto e dei quad e abbiamo capito che era la polizia degli Stati Uniti».

Entrare in territorio statunitense senza un regolare visto, è considerato un reato, punito con la detenzione e, in molti casi, la deportazione nel paese d’origine. Da quando il presidente Donald Trump ha iniziato il suo mandato, le misure di contenimento della migrazione considerata illegale si sono indurite. Secondo i dati dell’agenzia statunitense per le dogane e la sicurezza delle frontiere Customs and Border Protection (Cbp), tra ottobre 2018 e marzo 2019 si sono verificate 361.087 catture di migranti in frontiera, che corrispondono al dato più alto dal 2007.

Oltre ad aver predisposto la costruzione di un muro di cemento lungo la frontiera con il Messico, il presidente degli Stati Uniti ha eliminato la pratica del catch and release, «cattura e rilascio», spesso attuata dai governi precedenti. In quel caso, la persona entrata nel paese senza documenti era rilasciata, durante il procedimento legale per discutere il suo caso.

Con la politica di tolleranza zero dell’amministrazione Trump, tutti i migranti catturati sul confine sono detenuti fino al momento della deportazione o della liberazione, nel caso di ottenimento di permesso negli Stati Uniti. «È una forma di detenzione arbitraria – spiega Carolina Jimenez di Amnesty International -. Non c’è nessun motivo per tenere in carcere i migranti durante il processo, ma è la forma che usa il governo di Donald Trump per scoraggiare le persone a migrare. L’obiettivo è che queste persone, una volta deportate, raccontino quanto hanno sofferto e i loro parenti o conoscenti intenzionati a partire, rinuncino a farlo».

Una volta catturate sulla frontiera, le persone sono trasferite in celle di detenzione, dove inizia il processo di identificazione gestito dalla Cpb. «Mi hanno chiuso in una cella freddissima – racconta Isabel -. L’aria condizionata era al massimo e io avevo solo una maglietta a maniche corte. Sono stata lì con la luce accesa di notte e di giorno, senza sapere che ora era, per 5 giorni. Ero disperata». Le celle in frontiera sono chiamate dai migranti hieleras, ghiacciaie, perché le temperature sono tenute basse con l’utilizzo di condizionatori. In genere, le celle in frontiera non sono attrezzate con letti, perché considerate luoghi di passaggio in cui le persone dovrebbero essere detenute per poche ore. «Numerosi migranti hanno dichiarato di essere stati detenuti per molti giorni nelle hieleras – spiega la professoressa Ursula Andrade -. Le temperature basse servono, ufficialmente, per evitare il rischio di contagio, ma si tratta di una pratica inumana e degradante molto simile alla tortura».

Durante il procedimento legale in cui le autorità verificano se i migranti possono essere considerati titolari di protezione internazionale, le persone vengono trasferite in strutture detentive all’interno del paese. «In carcere, ho indossato l’uniforme arancione – racconta Petrona -. Come se fossi una criminale, come se avessi ucciso qualcuno, come se avessi rubato qualcosa. A un certo punto l’avvocato che seguiva il mio caso mi ha detto che non avevo diritto a uscire dietro cauzione, ma potevo fare appello e chiedere che rivalutassero il mio caso. Erano già 5 mesi che ero in carcere e non me la sono sentita. Ho quindi firmato la mia stessa deportazione».

Durante l’amministrazione Obama era possibile essere rilasciati dietro cauzione durante il processo, ma molti migranti non potevano pagarne il costo, per cui firmavano deportazioni volontarie per evitare di rimanere ulteriormente in carcere. «In prigione stavo sempre a letto, non mangiavo, vivevo con detenute violente che avevano commesso dei crimini gravi e io mi sentivo morire – racconta Isabel -. Ho chiesto di rimandarmi in Guatemala. Non ce la facevo più a vivere così».

Per chi riesce a superare la frontiera senza essere catturato, inizia la vita negli Stati Uniti che, in parte, verrà vissuta nel timore della deportazione. Nell’anno fiscale 2018, l’Ice, Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia statunitense che si occupa del controllo di dogana e dell’immigrazione anche all’interno del paese, ha ordinato 287.741 deportazioni di persone senza documenti che vivevano nel paese. Si tratta del più alto numero di deportazioni dal 1992. Tra di loro c’erano persone che vivevano e lavoravano negli Stati Uniti da anni.

Secondo i dati Oim del 2017, il 37% dei migranti guatemaltechi non riesce ad arrivare negli Stati Uniti e viene deportato nel paese di origine. Oltre al peggioramento delle proprie condizioni economiche a causa del pagamento dei debiti di viaggio, la detenzione e la deportazione lasciano traumi individuali difficili da sanare e che spesso coinvolgono la dimensione collettiva, perché per molti la migrazione è un progetto di famiglia, più che personale.

Dopo la deportazione, Petrona e Isabel non hanno pensato di provare nuovamente a migrare negli Stati Uniti a differenza di molte altre persone che continuano a cercare una via di fuga dal loro paese di origine. Nonostante le violenze subite lungo il cammino e sulle frontiere, c’è chi vive più esperienze migratorie nel corso della propria vita, perché l’obiettivo rimane «arrivare dall’altra parte», come si dice in America Latina, anche se il prezzo è alto.

«Gli stati di origine, destinazione e transito della migrazione devono provare a collaborare per creare delle politiche a favore delle persone più vulnerabili economicamente in modo che non siano obbligate a migrare – conclude Carolina Jimenez di Amnesty International -. E in caso una persona volesse migrare, dovrebbero garantire che possa viaggiare in forma sicura, fornendole dei documenti regolari, invece di anteporre, come avviene ora, la protezione delle frontiere e della nazione ai diritti umani delle persone».


I nuovi desaparecidos

Maria Ceto Sanchez ha solo una fotografia di sua figlia. L’ha fatta plastificare in modo che non si rovini nel tempo. Ogni tanto la prende in mano e la lucida, quasi ad accarezzarla. Altre volte la ripone nell’unico mobile che ha in casa e la copre con un pezzo di stoffa. In quei momenti, Maria non ha la forza di guardare negli occhi sua figlia Angelina.

«Quando è partita per gli Stati Uniti, Angelina aveva 16 anni e 2 mesi. Nel nostro villaggio girava la voce che i minorenni riuscissero ad avere un permesso per vivere negli Stati Uniti – racconta Maria Ceto -. E allora mi ha detto che voleva partire. Io non ero d’accordo, perché è la più piccola delle mie figlie e sapevo che mi sarebbe mancata tantissimo, ma alla fine ho ceduto e le ho dato il permesso».

Angelina aveva il sogno di costruire una casa per sé e sua madre, perché l’abitazione dove era nata era di lamiera, ma a lei sarebbero piaciute le pareti di cemento. Aveva pensato a tutto. Sarebbe arrivata in Virginia, dove viveva una sua cugina, e avrebbe lavorato una decina di anni come cameriera in qualche ristorante.

«Dopo quel periodo voleva tornare – continua Maria -. Mi aveva detto che avrebbe avuto i soldi sufficienti per pagarsi la retta di una buona scuola a Città del Guatemala e saremmo state sempre insieme».

Angelina è partita per il suo viaggio, insieme a un coyote, il 24 maggio del 2014. Pochi giorni dopo ha telefonato a sua madre Maria per dirle che stava bene ed era in procinto di entrare nel deserto di Altar Sonora da dove avrebbe attraversato la frontiera.

«Quella è stata l’ultima volta che le ho parlato – continua Maria -. Mi diceva di pregare per lei, di credere che ce l’avrebbe fatta e io pregavo e pregavo, ma poi è sparita. Deve essere successo qualcosa nel deserto, ma non so cosa. Dopo qualche giorno che non ricevevo sue notizie, ho chiamato il coyote, ma aveva staccato il telefono. Nessuno mi ha mai detto come sono andate le cose. Ho cominciato a disperarmi».

Il limbo dei migranti desaparecidos è il luogo dove si trovano tutte le persone che hanno intrapreso un percorso migratorio sulle rotte messicane e improvvisamente sono sparite. Si suppone che alcune di loro siano morte durante il cammino a causa della fatica del viaggio e degli agenti atmosferici, altre siano state rapite a fini di tratta, altre siano state investite mentre camminavano di notte sul ciglio della strada, o uccise dai narcos per mancato pagamento del riscatto. Di loro non si sa nulla. «In Messico si stimano tra i 70mila e 120mila migranti desaparecidos – spiega Marta Sanchez Soler, presidentessa del Movimento migrante mesoamericano -. Ma sono invisibili. Anche se dovessero essere ritrovati i loro corpi, non è possibile l’identificazione, perché quasi nessuno di loro viaggia con un documento di identità per paura di essere riconosciuti durante un controllo migratorio in Messico o alla frontiera degli Stati Uniti».

Sebbene sia raro incontrare viva una persona desaparecida, Maria non perde le speranze e vive il suo tempo nell’attesa. «Quando guardo la sua foto, io sento che Angelina è viva – sussurra Maria -. Altre volte piango perché mi demoralizzo, ma io sono qui. Io l’aspetto e so che lei tornerà da me».


Hanno firmato questo dossier:

• Simona Carnino

Giornalista e documentarista, è specializzata in diritti umani, migrazioni e cooperazione internazionale. Ha scritto per anni di temi ambientali e politici. Nel 2015 ha realizzato il documentario «Aguas de Oro» (www.aguasdeoro.org) sulla lotta di Maxima Acuña Chaupe, vincitrice del premio Goldman, in Perù. Ha lavorato 5 anni per Amnesty International e ha maturato esperienza nella gestione di progetti di cooperazione in America Latina. In Italia ha lavorato nel sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati politici. È coautrice della serie «Passaggi», su cui MC ha pubblicato un dossier nel maggio 2017.

• A cura di:

Marco Bello, giornalista redazione MC.

• Frame Voice Report

La realizzazione di questo dossier rientra nell’ambito del progetto «The Power of Passport», eseguito da MAIS Ong, ed è stata possibile grazie al finanziamento dell’Unione Europea attraverso al bando «Frame, Voice, Report!» del Consorzio Ong Piemontesi (Cop). Il sito del progetto e un video sulla carovana:
www.thepowerofpassport.org
video.sky.it/news/mondo/sky-tg24-mondo-terra-promessa/v505199.vid

 

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Viaggio in Norvegia: le scelte di Oslo

La ricetta norvegese


Testo e foto di Piergiorgio Pescali


Da molti anni la Norvegia si situa ai primi posti nella classifica dell’Indice di sviluppo umano. I suoi abitanti – poco più di 5 milioni – hanno un’elevata qualità della vita. Il Fondo sovrano norvegese – che gestisce i corposi proventi del petrolio – è ricchissimo, ma anche attento all’etica dei propri investimenti. Nonostante tutto questo, ci sono questioni aperte. Per esempio, anche a queste latitudini i problemi ambientali sono in rapido aumento. Inoltre, i norvegesi stanno cercando di porre un freno all’immigrazione, anche premiando partiti populisti anti immigrati. La ricetta complessiva rimane buona, ma oggi il paese deve trovare risposte adeguate alle nuove sfide.

«Guarda la mappa della Norvegia: un pugno con un dito indice che si allunga verso nord, quasi come a voler toccare l’inviolabile, le terre ostili che si frammentano nel Finnmark». Morten Andreassen mi mostra la cartina della Norvegia mentre è seduto su un masso addentando con gusto un panino. Sta studiando per ottenere un Master in Scienze della globalizzazione e sviluppo sostenibile all’Ntnu, l’Università norvegese di Scienze e tecnologia di Trondheim, l’istituto scientifico più prestigioso del paese dalle cui aule sono usciti cinque premi Nobel. Ogni anno l’Ntnu organizza il Big Challenge Science Festival, uno dei simposi scientifici più seguiti al mondo in cui, per quattro giorni, scienza e spettacolo si mischiano in una serie di eventi memorabili coinvolgendo moltissimi dei duecentomila abitanti di Trondheim e trasformando questa cittadina in una capitale della cultura scientifica, umanistica e artistica.

L’atmosfera tranquilla, ma al tempo stesso pregna di stimoli intellettuali di Trondheim, associata all’eccellente livello di insegnamento impartito nell’Ntnu ha fatto sì che i suoi ricercatori e studenti siano contesi da compagnie e centri di ricerca di tutto il mondo: «Potenzialmente abbiamo un tasso di disoccupazione inferiore allo zero», scherza Magnhild, la ragazza che viaggia con Morten.

Lei, dopo la laurea, è tornata a Tromso, la cittadina dove è nata, per lavorare in una compagnia che si occupa di energie rinnovabili. Magnhild è andata a Oslo a trovare la famiglia di Morten e quest’anno hanno deciso di tornare a Trondheim percorrendo a piedi i 643 chilometri del «Sentiero di Sant’Olav» (foto alle pagine 41-42), il cammino di pellegrinaggio che, partendo dalla Vecchia Chiesa di Aker ad Oslo termina alla cattedrale di Nidaros, dove nell’XI secolo fu sepolto Olav Haraldsson (995-1030), il Rex Perpetuus Norvegiae e patrono della nazione (nonché santo e martire per la Chiesa cattolica).

«Non siamo credenti, anzi siamo atei convinti, ma abbiamo approfittato di trascorrere quattro settimane a stretto contatto con la natura per raccogliere dati sui cambiamenti climatici per le nostre ricerche».

Il Sentiero di Olav, l’università di Trondheim, la passione di Morten e Magnhild per la natura – espressione del friluftsliv[1] che accomuna i norvegesi – e il rispetto verso l’ambiente sono le basi da cui parto per cercare di comprendere quale possa essere stata la chiave che ha portato, in pochi decenni, un popolo povero e circondato da una natura ostile ad occupare oramai da diversi anni, le prime posizioni nelle statistiche dell’Indice di sviluppo umano[2].

Una tigre in Norvegia: la città contro la natura

La statua della tigre che ruggisce – realizzata da Elena Engelsen e dal 2000 posta fuori dalla stazione ferroviaria di Oslo – è forse l’emblema di una città e una nazione che sta cambiando più velocemente di quanto vorrebbe. L’artista voleva rappresentare la vivacità e lo sviluppo della Tigerstaden, la città della tigre, il soprannome con cui oggi è conosciuta Oslo, ma a molti norvegesi il felino ricorda i versi scritti nel 1870 dal poeta Bjornstjerne Bjornson, premio Nobel nel 1903 e autore delle parole dell’inno norvegese, il quale contrapponeva l’immagine pericolosa, violenta e aggressiva della città a quella bucolica, pacifica e genuina della campagna[3].

Sicuramente ai turisti orientali che sempre più numerosi affollano la capitale norvegese, quella statua ricorderà le «tigri asiatiche», le quattro economie dell’Asia (Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud) che negli anni Novanta bruciavano le tappe dello sviluppo crescendo a dismisura sino a diventare il simbolo di quella riscossa asiatica che, più tardi, avrebbe trovato nella Cina la sua locomotiva.

L’economia norvegese non viaggia quanto le tigri asiatiche (ormai anch’esse sedate) ma la crescita del Pil continua ad aggirarsi attorno ad un onorevole 2% ed Oslo – con circa 700mila abitanti – è considerata la città che si espande più velocemente tra le capitali dell’Europa[4].

Definire la capitale della Norvegia una bella città è una forzatura e il paragone con le «colleghe» scandinave è impietoso: la sua storia è sempre stata offuscata dalle più regali Copenaghen e Stoccolma, i cui regni si sono succeduti pressoché ininterrottamente alla guida della Norvegia dal IX secolo al 1905, quando la nazione trovò la sua indipendenza. Città prettamente operaia e industriale, Oslo non ha certo la grazia di Bergen o il fascino dell’art nouveau di Alesund. Al contrario, la città, che riacquistò il nome originario solo nel 1925 abbandonando il toponimo di Christiania affibbiatole dal re di Danimarca Cristiano IV, è sempre stata quella descritta, con un misto di sagacia e melanconia, da Luigi Di Ruscio, il poeta-operaio emigrato dall’Italia nel 1957 e morto ad Oslo nel 2011: «Poi ci sono i lunghi inverni gelati con le giornate cortissime e le lunghissime notti, le nevi che persistono per mesi e alla fine da bianche che erano diventano nere ed Oslo diventa la città dalla neve nera»[5].

Eppure, l’amministrazione locale è riuscita a realizzare quello che, sino a pochi anni fa, sembrava impossibile: conferire una fisionomia e una personalità unica alla metropoli. Sapendo di non poter competere sul piano monumentale e storico con altri centri scandinavi ed europei, si sono scelti altri campi per rendere Oslo città appetibile al turismo e alla finanza: l’architettura moderna, la cultura e la natura. Gli amministratori norvegesi, con la collaborazione di architetti provenienti da tutto il mondo, hanno trasformato una città anonima e grigia in un interessante esperimento di design urbanistico quasi senza stravolgerne l’assetto storico e valorizzando gli edifici esistenti. Le gru che si innalzano da numerosi quartieri stanno rivoluzionando lo skyline di Oslo che, dal 2020 si doterà di nuovi spazi abitativi, finanziari e culturali offrendo a turisti e abitanti un nuovo volto, più moderno e accattivante.

Accanto all’Opera House stanno sorgendo centri residenziali e lavorativi hi-tech: il Barcode, il Sorenga, il Museo Munch, la Biblioteca nazionale, mentre nell’Aker Brygge tra pochi mesi verrà inaugurata l’immensa Galleria nazionale che si affiancherà al Nobel Peace Centre. Al tempo stesso i polmoni verdi, vero vanto del rispetto ambientale di cui si fregia la città, sono stati mantenuti. Un efficiente e relativamente poco costoso sistema di mezzi pubblici collega 24 ore su 24, sette giorni su sette, anche i quartieri più periferici. In meno di un’ora è possibile raggiungere piste da sci, rifugi immersi nella natura, sentieri montani lasciando la propria auto nel garage. Oslo non è bella, ma è sicuramente la città ideale in cui vivere.

Le sfide ambientali: cambiamento climatico, petrolio, disboscamento, turismo

Quello norvegese è tradizionalmente un popolo culturalmente coeso, che ha fatto del rispetto per la natura uno dei suoi cavalli di battaglia.

«Se chiedi ad un turista medio cosa vorrebbe vedere andando in Norvegia ti risponderebbe “i fiordi”; un turista un po’ più accorto aggiungerebbe Capo Nord o Lofoten. Pochi si aspettano di vedere città come Oslo o Stavanger» mi spiega Gunn Wadzynski, attivista ambientalista di Greenpeace, che poi continua: «Lo stereotipo della Norvegia è che sia un territorio selvaggio, inesplorato, incontaminato e, soprattutto, non inquinato. Purtroppo, la realtà sta cambiando molto velocemente: l’ambiente soffre sempre di più e non solo per i cambiamenti climatici, ma anche per lo sfruttamento che noi norvegesi operiamo sul nostro territorio».

Ogni anno dieci milioni di turisti arrivano in Norvegia, di cui tre milioni su navi da crociera ed oramai il 4,2% del Pil dipende dal loro[6].

L’aumento del turismo è sicuramente una delle cause del degrado ambientale, ma il danno più evidente è dovuto ad un fattore esterno – i cambiamenti climatici mondiali – e uno interno, il continuo dissanguamento delle risorse naturali, causato in particolare dall’estrazione petrolifera e dal disboscamento.

Nel 2016 la temperatura media nelle Svalbard, il piccolo arcipelago situato più a settentrione del paese, è stata di 6,6°C superiore a quella normale[7]. Anche se i dati relativi a questa statistica sono stati contestati da molti ricercatori in quanto basati su una rilevazione effettuata presso l’aeroporto di Longyearbyen e quindi falsati dal microclima esistente in quella specifica parte dell’isola, è un dato di fatto che la coltre di ghiaccio in tutto il Circolo polare artico si sta assottigliando[8].

Per contrastare l’aumento di temperatura, la Norvegia si è data come obiettivo di ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 40% rispetto al 2005.

Uno studio preliminare ha individuato che il 74% delle emissioni di gas serra proviene da due settori: trasporti e agricoltura[9]. È quindi in queste due attività che il governo ha cercato di intervenire con più incisività.

Tra il 1990 e il 2013 sono stati disboscati 140mila ettari di foresta, cosa che ha contribuito per il 4-5% dell’emissione della CO2. Il 33% della deforestazione è stato effettuato per costruire nuove strade, ferrovie e abitazioni, l’11% per linee elettriche e impianti sciistici e il 31% per usi agricoli[10].

«Il 21% dell’abbattimento avviene prima che l’albero raggiunga lo stadio V, la fase oltre la quale il fusto ha ormai sorpassato il tasso di massimo assorbimento di anidride carbonica ed è pronto per la sostituzione», specifica Sigurd Sivertsen, del dipartimento di ingegneria ambientale all’Ntnu[11].

Durante il XX secolo la Norvegia ha implementato una politica di rimboschimento e nei prossimi anni le foreste piantate negli anni Cinquanta e Sessanta raggiungeranno la loro completa maturazione con una diminuzione del tasso di assorbimento di CO2. Per ripristinare la fotosintesi clorofilliana necessaria per mantenere l’equilibrio naturale, nel 2013 la Norwegian environment agency ha proposto la riforestazione di 100mila ettari di terreno per i successivi venti anni che, una volta completata, potrebbe rimuovere 1,8 milioni di tonnellate annue di CO2 nel 2050[12].

Per accelerare l’accrescimento del tronco fino ad un 10-15%, i laboratori di ricerca norvegesi hanno sviluppato un programma di modificazione genetica che, sommato alle tecniche di inseminazione, potrebbe permettere di stare al passo con il programma di assorbimento dei gas serra senza aumentare la superficie boschiva del paese.

Naturalmente questa tecnica invasiva ha riscontrato l’ostilità di numerose organizzazioni ambientaliste: Turid, dell’associazione radicale (e per molti versi cospirazionista) Green Warriors di Bergen afferma che «Il 75% dei nuovi semi utilizzati per la sostituzione degli alberi abbattuti in Norvegia sono geneticamente modificati. In questo modo le politiche ambientaliste del nostro paese sono un palliativo per permettere comunque alle compagnie che contribuiscono all’aumento delle temperature mondiali di continuare a operare le loro politiche distruttive». La critica di Turid ha un fondo di verità, ma la realtà norvegese ci offre una visione molto più variegata che è osservata con interesse da molti attori internazionali: nel 2015 le energie rinnovabili rappresentavano il 46% dell’energia totale fornita al mercato norvegese. Certamente la bassa densità di popolazione e la ricchezza del territorio (il 40% dell’energia utilizzata è idroelettrica[13]) gioca un ruolo determinante nel successo del modello Norvegia, che comunque è ancora lontana dall’escludere le fonti fossili dalla sua dipendenza energetica (il petrolio fornisce il 36,8% dell’energia e il gas naturale il 18,2%[14]).

Al tempo stesso l’utilizzo di fonti naturali permette alla nazione di avere un prezzo al consumatore tra i più bassi in Europa nonostante una tassazione del 38%: 38 euro/MWh (megawattora) contro i 54 euro/MWh che paga un italiano[15].

Così, nonostante un norvegese consumi 5,20 «Tonnellate di petrolio equivalente» (Tep) ogni anno contro una media europea di 4,11, l’impatto ambientale diretto è inferiore rispetto ai cittadini del Vecchio continente[16].

Elettrico sì, ma senza incentivi

Una delle principali azioni espresse dal governo di Oslo per contenere e ridurre l’impatto ecologico nella nazione è stata quella di sostenere l’uso dell’auto elettrica (Ev) mediante un programma di incentivi statali, introdotti sin dalla fine degli anni Novanta per aiutare lo sviluppo della Kewet, una macchina elettrica prodotta da una fabbrica danese che nel 1998 era stata venduta alla norvegese Elbil Norge As[17]. Nel 1997 le macchine Ev[18] hanno ottenuto l’esenzione completa dai pedaggi stradali, nel 1999 dal pagamento dei parcheggi (dal 2017 la gratuità è a discrezione di ogni municipalità), dal 2001 l’esenzione dell’Iva e dal 2009 vengono trasportate gratuitamente sui traghetti.

Qualcosa però sta cambiando anche nel paese: nel 2018 il 31,2% delle nuove auto vendute in Norvegia era Ev e Phev (auto ibride)[19], con queste ultime in costante ascesa[20]. Lungi dal rappresentare una coscienza ecologica popolare, le auto Ev vengono comprate per una questione economica più che ambientale: il 63% dei norvegesi che hanno un’auto completamente elettrica ha anche una seconda auto ibrida o a combustibile fossile.

I motivi sono diversi: in primo luogo lo sviluppo del sistema delle colonnine di ricarica che, pur essendo il più capillare d’Europa, è ancora insufficiente per rendere indipendente la circolazione sull’intero territorio. Al 2 aprile 2019 in Norvegia vi erano 12.612 ricariche (di cui 2.361 a carica veloce, 616 dedicate alla Tesla supercharges[21]); un incremento importante rispetto al 2011 (allora c’erano 3mila colonnine), ma che non segue quello delle vendite e questo ha disincentivato l’acquisto di auto esclusivamente Ev[22].

In secondo luogo, gli incentivi funzionano da motore per chi deve usare l’auto su strade a pedaggi e su traghetti: la più alta concentrazione di auto elettriche al mondo la si trova a Finnoy, un’isola di fronte a Stavanger. Qui il pedaggio del tunnel che connette l’isola alla terraferma costa 150 nok sola andata: un sondaggio della Neva (Norwegian Electric Vehicle Association) ha constatato che gli acquirenti hanno comprato le Ev per non pagare il pedaggio (300 nok al giorno).

Tutto questo, però ha un costo che comincia a diventare troppo ingente per l’economia norvegese: l’Istituto per l’Economia dei trasporti nel 2015 ha stimato che i mancati introiti per lo stato erano pari a 4 miliardi di nok, ancora sostenibili per l’economia norvegese, ma dovranno essere ben presto rivisti. Per ora il governo ha stabilito che le agevolazioni per l’acquisto di auto elettriche verranno mantenute fino al 2020 anche per permettere, entro quella data, alla città di Oslo di rispettare il programma di eliminare completamente i trasporti pubblici a carburante fossile utilizzando solo quelli elettrici.

Le prime voci di dissenso verso questa politica si fanno già sentire dagli scranni dell’opposizione parlamentare: «Non possiamo continuare a finanziare le macchine elettriche», dice Andreas Halse, portavoce per l’ambiente del Partito labourista. Anche le compagnie navali hanno cominciato ad alzare i toni della protesta, così come le società che gestiscono le infrastrutture stradali.

Paradossalmente gli stimoli economici hanno avuto un effetto deleterio sulla circolazione: oltre a non eliminare le macchine a combustibile fossile, disincentivano l’uso dei mezzi pubblici.

Oggi, dunque, il governo si trova di fronte al dilemma su come rendere il mercato delle auto elettriche appetibile al consumatore senza dover offrire promozioni.

Socialità e risparmio energetico

La Norvegia sta cercando di far fronte all’emissione di gas serra anche affrontando la questione del costo della vita che rende problematico per le giovani generazioni l’affrancamento dalle famiglie.

L’affitto medio mensile di un monolocale in centro a Oslo costa circa 1.000 euro, mentre l’acquisto varia da 4.000 euro al metro quadro per un appartamento fuori dal centro a 6.000 euro al metro quadro in centro[23]. Un salasso anche per uno stipendio medio norvegese che si aggira sui tremila euro netti al mese[24].

Dal 2020 le nuove costruzioni dovranno essere energeticamente completamente autonome così da risparmiare, entro il 2030, dieci TWh (terawattora) di consumo, mentre verrà vietato l’uso di riscaldamento fossile per tutti i restanti edifici (attualmente solo il 20% del parco immobiliare è dotato di riscaldamento con energia rinnovabile). Queste direttive (costose e impegnative) hanno indotto gli architetti norvegesi a cercare soluzioni alternative trovandole nelle abitazioni collettive, edifici in cui si cerca di coniugare l’indipendenza del nucleo famigliare con il taglio dei costi e la diminuzione dello spreco energetico. Il co-housing o collective-housing non è una novità nei paesi nordici essendo già praticato negli anni Settanta-Ottanta, ma con l’arrivo del benessere e della ricchezza era andato via via scomparendo. L’esigenza di una propria vita privata è stata preservata garantendo ad ogni famiglia un proprio spazio indipendente e riservato, mentre ci si affida alla gestione collettiva per quelle attività prettamente socializzanti, come una stanza comune per la mensa, le attività ricreative, il giardino.

Una trappola per l’anidride carbonica

Il governo, però, non si affida solo ai singoli cittadini per combattere l’effetto serra: dagli anni Ottanta la nazione ha intrapreso un percorso di ricerca e sviluppo nel campo del Ccs (Carbon capture and storage, Cattura e stoccaggio del carbonio), un processo che, dopo aver liquefatto l’anidride carbonica la inietta in una trappola geologica dove viene stoccata per centinaia di anni. È un metodo utilizzato per ridurre la quantità di CO2 liberata nell’aria, tanto che Oslo ha individuato nel Ccs una delle cinque priorità per contenere l’aumento di CO2 entro il 2030, ma il processo ha anche diverse problematiche evidenziate dagli ecologisti: il gas, che viene iniettato in sacche di terreno cavo (spesso dopo avere estratto petrolio o gas naturale), potrebbe liberarsi improvvisamente a seguito di terremoti avvelenando e asfissiando gli esseri viventi che stanno nelle immediate vicinanze.

Gli scienziati e tecnici norvegesi stanno sfruttando due siti offshore adatti al Ccs: Sleipner and Snøhvit, in cui la CO2 è insufflata a migliaia di metri di profondità (800-1.000 metri a Sleipner e 2.000 metri a Snøhvit), mentre un terzo giacimento esaurito (Troll, nel Mare del Nord) ha avuto il benestare del governo per il suo sfruttamento lo scorso gennaio[25]. «Sino ad oggi sono stati immagazzinati 21 milioni di tonnellate di CO2», spiegano alla Gassnova, l’azienda leader nella ricerca e sviluppo del Ccs, la cui esperienza ha permesso di esportare le tecniche Ccs maturate in Norvegia in diversi paesi (Cina, Indonesia, Sud Africa, paesi del Golfo Persico) e iniziare una collaborazione con molte istituzioni internazionali.

I centri di ricerca Ccs sono tre: il Tcm (Technology Centre Mongstad), Climit e il Norwegian Ccs Research Centre (Nccs). Tra questi il Tcm, operativo dal 2012, è il più grande al mondo ed è di proprietà di un consorzio di aziende guidate dalla Gassnova (77,5%), Equinor (7,5%), Shell (7,5%) e Total (7,5%)[26].

Il peso del petrolio sul Pil norvegese

In tutto questo bel programma ambientale il petrolio continua ad occupare una posizione rilevante nell’economia e nelle società norvegesi. Lungi dall’esserne indipendente, la Norvegia è ancora fortemente vincolata alle fonti fossili che contribuiscono per il 12% al Pil, per il 13% agli introiti erariali del governo centrale, per il 37% alle esportazioni e per il 21% agli investimenti nonostante la produzione sia diminuita del 40% rispetto al 2001 (due milioni di barili al giorno nel 2017 rispetto i 3,4 del 2001, ma nel frattempo la produzione di gas naturale è salita a 120 miliardi di metri cubi all’anno)[27]. E con riserve stimate in 90 miliardi di barili l’economia norvegese e i 200mila lavoratori impiegati nel campo petrolifero possono guardare con relativa tranquillità il proprio[28].

L’industria petrolifera norvegese è tra le più efficienti del mondo e viene vista come modello per altre economie.

Ogni anno si concedono licenze per esplorazioni già in atto e ogni due anni vengono messe all’asta licenze per esplorazioni in nuovi giacimenti. Nel maggio 2016 sono state vendute dieci licenze a tredici compagnie. Alla fine del 2015 la Equinor possedeva 259 licenze, mentre altri cinquantatré operatori ne avevano 182[29].

L’obiettivo a medio-lungo termine del governo non è solo quello di evitare il più possibile l’utilizzo delle fonti fossili nell’ambito nazionale, ma anche di rendersi paese trainante verso un programma etico e ambientale che coinvolga tutto il globo che escluda, nel limite del possibile, lo sfruttamento di energie provenienti da combustibili a base di carbonio.

L’industria petrolifera norvegese ha iniziato a decollare nel 1971, quando la Phillips Petroleum Company cominciò a sfruttare il giacimento di Ekofisk, nel Mare del Nord. Da allora l’oro nero ha rappresentato il carburante che ha alimentato lo sviluppo economico e sociale della nazione la quale, sebbene già relativamente più ricca rispetto al resto dell’Europa, ha cominciato letteralmente a essere inondata di denaro.

L’esportazione dell’oro nero frutta ogni anno alle casse di Oslo 210 miliardi di nok, ma la ricchezza derivata dall’estrazione off-shore non è mai stata ostentata dai protagonisti norvegesi che, in questo senso, si distinguono nettamente dai concorrenti arabi e asiatici.

A differenza della pacchianeria e della ridondante esibizione di questi ultimi, le compagnie petrolifere norvegesi si sono sempre distinte per il loro basso profilo comunicativo e la loro propensione sociale. L’esempio più evidente è visibile nell’eleganza e la linearità dell’enorme sede della Equinor, l’ex Statoil[30], la più grande e facoltosa azienda petrolifera del paese con un fatturato di 61 miliardi di dollari. L’edificio, a basso impatto ambientale, sorge a Fornebu, alla periferia di Oslo ed è stato costruito ad un costo di 1,5 miliardi di nok tra il 2009 e il 2012 dallo studio di architettura A-lab, lo stesso che ha realizzato l’avveniristico Barcode che si affaccia sul fiordo di Oslo[31].

Il Fondo pensioni norvegese, potenza finanziaria alla ricerca dell’etica

L’edificio della Statoil è l’esempio con cui la Norvegia ha amministrato i ricavi derivati dall’esportazione del petrolio. Sin dagli anni iniziali dello sfruttamento dei pozzi, il ministero delle Finanze pubblicava il documento «Il ruolo dell’attività petrolifera nella società norvegese» in cui si avanzava la domanda su come dovessero essere utilizzati i proventi dell’estrazione petrolifera[32].

Nel 1990 è stato fondato il Fondo petrolifero e il 1° gennaio 1998 lo stesso ministero ha affidato alla Banca di Norvegia la gestione delle azioni con la clausola che non si dovesse utilizzare una quantità di denaro superiore ai proventi degli investimenti, stimato nel 3% del capitale di 900 miliardi di euro distribuito in 73 paesi e in 9.158 compagnie[33].

Vi sono delle guide etiche che escludono dagli investimenti da parte del Fondo le ditte responsabili di violazioni di diritti umani, produzione di alcuni tipi di armamenti, produzione di tabacco, di carbone, inquinamento[34].

Così sono bocciate ditte come la Philip Morris, la Posco, Rio Tinto, la Loockheed Martin Corp. (ma la Norvegia è partner nella produzione dell’F-35[35]). Nel solo 2018 sono state escluse dal fondo ditte come l’Aecom, la Bae System, la Fluor Corp., l’Huntington Ingalls Industries Inc. (impegnate nella produzione di armi nucleari), la polacca Atal SA, la cinese Luthai Textile (violazione diritti umani), la Evergreen Marine Corp. Taiwan, Korea Line Corp., Precious Shipping Pcl, Thoresen Thai Agencies (violazione diritti umani e inquinamento ambientale), l’Evergy Inc. la PacifiCorp, Tri-State Generation and Transmission Association, Washington H. Soul Pattinson & Co Ltd (produzione di carbone), l’Halcyon Agri Corp. (inquinamento ambientale), la JBS South Africa (corruzione)[36].

Nel 2017 la Banca di Norvegia ha invitato il ministero delle Finanze a rivedere gli investimenti del Fondo pensioni consigliando di escludere azioni derivate da collocamenti petroliferi. Il consiglio del gestore è stato recepito dallo Storting[37] il quale ha deciso di eliminare 134 compagnie che hanno interessi nell’industria di esplorazione e estrazione petrolifera per un totale di settanta miliardi di nok.

Le critiche, però non mancano, a partire dalle organizzazioni anti Nato, che contestano il coinvolgimento norvegese nel progetto F-35, a compagnie private che si occupano di fondi d’investimento, come la Storebrand Asa, la principale agenzia norvegese che amministra 70 miliardi di dollari affidati da 1,2 milioni di norvegesi.

Jan Erik Saugestad, vice presidente della Storebrand Asa, è critico verso il pacchetto di investimenti effettuati dal Fondo nazionale. Secondo lui il Fondo dovrebbe impegnarsi con più incisività a convincere le compagnie petrolifere a promuovere maggiormente le tecnologie per energie rinnovabili escludendo completamente quelle che hanno ancora attività nel settore dei combustibili fossili. Nel suo ultimo rapporto, la Storebrand Asa ha individuato una lista di società su cui ha deciso di non investire[38].

Per la verità la lista è molto simile a quella del Fondo governativo, dato che la stessa Storebrand non esclude a priori queste società, ma solo quelle che, nel loro portafoglio, hanno guadagni provenienti da attività considerate critiche per l’ambiente superiori a una certa percentuale (ad esempio esclude compagnie che hanno entrate superiori al 5% in tabacco, al 25% in attività collegate al carbone, 20% in attività collegate a sabbie bituminose)[39].

La Storebrand, inoltre, ha recentemente accusato alcune compagnie petrolifere di boicottare le politiche di energie rinnovabili investendo milioni di dollari per impedire o rallentare la successione delle energie alternative da quelle petrolifere. Tra le società accusate vi sono la Bp (53 milioni di Usd – dollari Usa – annui per boicottare queste politiche), la Shell (49 milioni Usd), Exxon Mobil (41 milioni Usd), Chevron (29 milioni Usd), Total (29 milioni Usd). I metodi utilizzati dalle imprese includerebbero pressioni su politici, amministrazioni locali e sull’opinione pubblica[40].

Il rapporto della Storebrand, però, contrasta nettamente con quello di altre agenzie. La Reuter ha recentemente pubblicato una ricerca da cui si evince che le compagnie petrolifere, con in testa la Shell, hanno investito circa tre miliardi di dollari in acquisizioni di energie rinnovabili negli ultimi cinque anni, mentre uno studio della WoodMackenzie, una società di ricerca e consulenza energetica, ha evidenziato che Total, Shell e Equinor sono tra le compagnie petrolifere che investono maggiormente in energie rinnovabili. La sola Equinor investirà in questo settore entro il 2020, il 25% del suo budget di ricerca[41]41.

È stata ancora la Equinor ad aver sviluppato l’Hywind Scotland Pilot Park, il primo centro di produzione eolica mobile off-shore che si trova a venticinque chilometri dalle coste scozzesi di Peterhead, nell’Aberndeenshire. L’Hywind è un complesso di sei turbine eoliche con una capacità energetica di 30 MW (megawatt). Secondo la Windeurope, la Equinor fornisce con i suoi impianti eolici il 7% dell’intera capacità energetica eolica prodotta in Europa nel 2018[42].

La Norvegia e l’ondata migratoria: l’affermazione dei partiti populisti

Con la scoperta del petrolio in Norvegia sono iniziati ad arrivare immigrati estranei alla cultura scandinava: erano pachistani, iugoslavi, maghrebini che non hanno fatto fatica a essere assorbiti nella nascente industria petrolifera. Al tempo stesso, però, la caduta del Muro di Berlino, le crisi politiche ed economiche dell’Europa dell’Est, accompagnate dagli sconvolgimenti militari ed etnici del Centro Asia, Vicino Oriente e Africa hanno messo la Norvegia di fronte a un’ondata migratoria che ha contribuito a sviluppare scetticismo nei confronti all’Unione europea e sospetto verso i nuovi arrivati.

All’inizio del 2018 su 5.400.000 abitanti 746.700 erano immigrati stranieri a cui vanno aggiunti 170mila nati da genitori stranieri[43]43. In totale gli immigrati sono il 17,3% della popolazione e contribuiscono per il 58% all’incremento demografico della nazione[44].

«Il petrolio è stata la fortuna e, al tempo stesso, la sfortuna della Norvegia», sentenzia Bente, una ragazza di Tromso la quale ritiene, come molti suoi connazionali, che il paese dovrebbe porre un freno all’immigrazione.

Questa percezione è stata cavalcata con successo dai partiti populisti di destra e antieuropeisti, in particolare dal Partito del progresso (FrP, Fremskrittspartiet)[45] che, nato nel 1973 come movimento liberista per l’alleggerimento della tassazione con il nome di Anders Lange’s Party for a Drastic Reduction in Taxes, Fees and Public Intervention («Partito di Anders Lange per una drastica riduzione delle tasse e dell’intervento pubblico»), nel 1989, sotto la guida di Carl Hagen si è trasformato in partito anti-immigrati. Dal 2013 l’FrP, oggi capeggiato da Siv Jensen[46], è entrato a far parte della coalizione di governo guidata da Erna Solberg, del Partito conservatore (chiamato «Høyre», destra).

Da allora l’FrP, che nelle ultime elezioni parlamentari del 2017 ha ottenuto un consenso del 15,2%, ha sempre guidato il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) gestendo la politica migratoria della Norvegia. Tutti i sondaggi effettuati dagli anni Novanta che chiedevano quale partito avesse la migliore politica migratoria, hanno visto la netta prevalenza del Partito del progresso. Uno dei politici più popolari nel paese è Sylvi Listhaug, ministro dell’Immigrazione fino al 2018, la quale ha dato una svolta alla politica norvegese definendo «tirannia del buonismo» l’approccio europeo verso l’immigrazione e dichiarando che sarebbe stato più cristiano e ragionevole aiutare più gente possibile nei loro paesi attraverso programmi di aiuto.

Per la verità la stretta sulla migrazione non è prerogativa solo della destra: il primo passo in questo senso è stato fatto dal governo laburista di Gro Harlem Brundtland che con l’Immigration Act del 1988 ha gettato le basi per un maggiore controllo frontaliero, facili respingimenti e rimpatri forzati.

Dove nasce la strage di Utoya

L’attentato di Anders Breivik del 22 luglio 2011, che colpì gli uffici del governo e poi portò alla strage di Utoya, non attenuò l’ondata di risentimento anti immigrati che, anzi, si andò rafforzando anche con l’aiuto di una classe intellettuale aggressiva e critica nei confronti della politica nazionale ed europea. Le idee di Peder Are «Fjordman» Nostvold Jensen che avevano nutrito la mente di Breivik sono oggi rappresentate da scrittori come Kent Andersen, che nel 2011 tacciò il Partito laburista di kulturquislinger («traditore della cultura norvegese») affermando che il governo aveva trasformato la Norvegia in una «Disneyland multiculturale»[47].

Tra i politici di destra si è fatto largo anche il concetto di Eurabia, mutuato dai libri di Bat Ye’Or (soprannome di Gisèle Littman) e di Bruce Bawer[48]. Secondo questa teoria l’Europa sarebbe al centro di una manovra islamico-progressista-comunista il cui fine ultimo sarebbe quello di trasformare il continente in una colonia islamica con l’aiuto della stessa Unione europea. Nel 2009 Per-Willy Amundsen, ministro della Giustizia tra il dicembre 2016 e il gennaio 2018, dichiarò che i musulmani sarebbero diventati la maggioranza in Norvegia entro un ventennio.

Nonostante la Norvegia non abbia aderito all’Unione europea, il paese ha comunque condiviso la Convenzione di Dublino generando critiche da parte di quella fetta di popolazione che vorrebbe un isolamento maggiore della propria nazione.

L’immigrazione: numeri e problemi

La Norvegia di oggi è dunque molto distante da quella che nel 1921 ha visto l’esploratore Fridtjof Nansen diventare il primo Alto Commissario per i rifugiati nella Lega delle Nazioni. Dall’inizio del nuovo secolo i governi che si sono succeduti alla guida del paese (qualunque fosse il loro orientamento) hanno adottato la politica della qualità piuttosto che della quantità accettando solo un determinato numero di migranti economici in base alle proprie esigenze e disponibilità di mercato del lavoro, scolastico e abitativo. Il parlamento ogni anno stabilisce un numero massimo di rifugiati che possono essere accolti nel paese, mentre il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) identifica i paesi di provenienza e la tipologia di rifugiati escludendo a priori coloro che hanno comportamenti e attitudini indesiderate o problemi di tossicodipendenza.

Così nel 2018 il 28% delle domande d’asilo politico è stato respinto (in totale gli immigrati nello stesso periodo sono stati 49.800[49]) mentre 6mila persone senza permesso legale sono state espulse, di cui 5.400 costretti a rientrare a forza nei loro paesi d’origine (4mila per aver commesso un crimine[50]).

Una politica che rigetta l’idea che molti hanno di una Norvegia come paese aperto e accogliente verso chi cerca asilo. L’atteggiamento oggi prevalente è quello utilitaristico mischiato alla retorica dell’«aiutiamoli a casa loro». I migranti economici sono accuratamente scelti tra coloro che dimostrano di essere professionalmente preparati a svolgere determinati lavori perché, come ha detto nel giugno 2018 l’allora ministro dell’Immigrazione Tor Mikkel Wara: «L’immigrazione va a beneficio della comunità solo sino a certi livelli e certe composizioni. Lavoratori con competenze professionali, provenienti da società con valori moderni e liberali, con competenze che sono richieste dal nostro mercato del lavoro sono utili. Ma i benefici si tramutano in danni per i loro stessi paesi, se questi lavoratori professionalmente validi lasciano la loro terra, privando la loro stessa società di elementi validi»[51].

«La vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda sul principio dell’io ti do e tu mi dai», scriveva il norvegese Henrik Ibsen[52].

Così la politica migratoria norvegese è dettata da due fattori: la consapevolezza che il welfare ha risorse limitate, ma al tempo stesso il diritto degli immigrati di godere degli stessi diritti e opportunità dei cittadini norvegesi. «Questo è il punto che ci distanzia da altri paesi dell’Europa», spiega Roger Jensen, teologo e direttore del Centro di pellegrinaggio del sentiero di Sant’Olav, a Oslo. «A differenza della Svezia e della Danimarca, che hanno ghettizzato gli immigrati, noi li abbiamo accolti e li abbiamo aiutati a inserirsi nella società diminuendo i fattori di rischio criminalità».

Un’affermazione, quella di Jensen, che non incontra l’appoggio di parte degli abitanti delle periferie cittadine.

In effetti, visitando alcuni quartieri di Oslo, sembra di sentire il già citato Luigi di Ruscio quando scriveva «Ovunque l’ultimo / per questa razza orribile di primi / ultimo nella sua terra a mille lire a giornata / ultimo in questa nuova terra / per la sua voce italiana / ultimo ad odiare / e l’odio di quest’uomo vi marca tutti / schiodato e crocifisso in ogni ora / dannato per un mondo di dannati»[53].

Nel sito document.no, uno dei tanti critici nei confronti dell’immigrazione e che raccoglie le idee degli intellettuali vicini al FrP, sono apparsi diversi articoli sulle baby gang. Un’area particolarmente critica è Drammen, un quartiere dormitorio alla periferia di Oslo dove opererebbero sette bande giovanili in cui «la maggior parte dei componenti è immigrata»[54].

È stato anche criticato il logo stilizzato di Oslo, dove, secondo il sito document.no, «non rimane molto né di St. Hallvard né del simbolismo cristiano (…) così i nostri nuovi connazionali (immigrati e musulmani, ndr) possono identificarsi con il nuovo simbolo. Nessuno si potrà offendere per un logo così anonimo»[55].

Per chi rimane: integrazione e diritti

Dalla fine degli anni Novanta si è introdotto l’obbligatorietà di partecipare a programmi di insegnamento della lingua e della conoscenza culturale, storica e sociale della Norvegia e nel dicembre 2018 il governo ha lanciato il programma Integration through education and competence il cui principale obiettivo è inserire gli immigrati nel mondo del lavoro e nella società attraverso l’istruzione pubblica, il lavoro, l’integrazione sociale e l’educazione civica.

Le nuove regole implementate dal governo impongono agli immigrati dei doveri tra cui la frequenza gratuita a 175 ore di scuola di lingua norvegese e a 50 ore di studi sociali, mentre ai rifugiati politici in possesso di un diploma scientifico e tecnologico dei corsi professionali che li indirizzino verso il mercato del lavoro. A tutti gli immigrati, dopo la schedatura e il test obbligatorio Tbc viene offerto un alloggio temporaneo (nel settembre 2018 c’erano circa 4mila residenti, nel 2016, 13.400). Una persona che aiuta uno straniero a entrare illegalmente in Norvegia rischia fino a tre anni di prigione, mentre chi sfrutta l’immigrazione per profitto rischia fino a sei anni. In cambio agli stranieri vengono garantiti gli stessi diritti dei norvegesi.

Ognuna delle 422 municipalità della Norvegia ha diritto di decidere il numero di rifugiati che ritiene di poter accogliere ogni anno. Nel 2018 meno di 250 municipalità hanno offerto la loro disponibilità (136 in meno rispetto al 2017). Il governo concede ai comuni una somma di denaro per ogni rifugiato accolto per 5 anni (nel 2018 era di circa 80.000 euro per ogni adulto e 75.000 per altri adulti famigliari[56]).

Dopo tre anni di soggiorno nel paese senza aver commesso crimini, dopo aver passato un test di lingua A1 (che richiede tra le 300 e le 600 ore di lezione a carico dell’utente) e uno di storia e legislazione norvegese, il candidato può ottenere la residenza permanente, mentre per la cittadinanza occorre risiedere ininterrottamente nel paese per sette anni senza aver commesso reati gravi e passare il test di lingua A2.

Le politiche di integrazione, da qualunque parte le si guardi, sembra comunque stiano funzionando: nonostante quello che molti esponenti della destra xenofoba vanno dicendo e scrivendo, il rispetto tributato dalla società norvegese verso culture provenienti dall’esterno è contraccambiato dall’amore per la nuova patria da parte degli immigrati. Lo dimostra anche un recente rapporto compilato da Statistics Norway in cui si evidenzia che il 76% dei figli di immigrati che sono nati in Norvegia parlano il norvegese oltre alla lingua dei genitori, ma la quasi totalità degli immigrati di seconda generazione sente come propria nazione e cultura più la Norvegia che il paese dei loro padri.

La lezione che la Norvegia può darci è quella di un paese che, in cambio del rispetto reciproco, è possibile che culture tanto diverse in ambito storico, politico, geografico, religioso possano convivere e progredire per lo sviluppo di una sola comunità dalle mille sfaccettature.

Piergiorgio Pescali


Note

[1] Il friluftsliv è l’abitudine dei norvegesi a spendere il proprio tempo libero all’aria aperta.

[2] Undp, Human Development Indices and Indicator, 2018 Statistical Update: Table 1, pag. 22 e Table 2, 1990-2017 pag. 26.

I versi di Bjornstjerne Bjornson sono tratti da Sidste Sang (L’ultima canzone): «Una volta ho sentito di una festa in Spagna: / Un cavallo brado venne lasciato libero nell’arena, / poi una tigre fuori dalla sua gabbia / si aggirò un po’ intorno di soppiatto, / poi si pose sulla pancia».

[4] Statistics Norway, Economic Survey 2019/1 – Economic Development in Norway, Main economic indicators 2007-2022, pag. 31.

[5] Luigi Di Ruscio (Fermo 1930 – Oslo 2011), La neve nera.

[6] Innovation Norway, Key Figures for Norwegian Tourism 2017, The importance of tourism for Norway, pag 6; pag 10; pag. 30.

[7] Nordli et al. (2014). Long-term temperature trends and variability on Spitsbergen: The extended Svalbard Airport temperature series, 1898-2012, Polar Research (http:// dx.doi.org/10.3402/polar.v33.21349).

[8] Norwegian Polar Institute, SvalGlac: Sensitivity of Svalbard glaciers to climate change, 2010-2016.

[9] Statistics Norway, citato. Vedi anche:
https://www.pre-sustainability.com/news/updated-carbon-footprint-calculation-factors.

[10] Norwegian Ministry of Climate and Environment, Norway’s Climate Strategy for 2030: a transformational approach within a European cooperation framework (2016-2017), 16 giugno 2017, pag. 104.

[11] In Norvegia gli alberi sono suddivisi in cinque categorie dalla I alla V. Solo quando le piante raggiungono la V categoria l’assorbimento di gas serra diminuisce repentinamente e sarebbe quindi necessaria la sostituzione.

[12] Miljødirektoratet, Statens landbruksforvaltning og Nibio (2013) Planting av skog på nye arealer som klimatiltak [Afforestation of new areas as a climate mitigation measure], M26-2013.

[13] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, Capitolo 8. Renewable Energy, §Supply and Demand – Renewable energy in the TPES, pag. 126.

[14] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, 1. General Energy Policy, §Key data (2015 estimates) pag. 15.

[15] European Commission, Directorate General for Energy, Quarterly Report on European Electricity Markets, DG Energy, Vol 11, issue 1, first quarter of 2018, Capitolo 2, pag.7.

[16] International Energy Agency, Key world energy statistics 2018, Selected indicators for 2016, pp. 29-33.

[17] Oggi la Kewet e la sua successiva evoluzione, la Buddy, sono scomparse dal mercato. Avevano un’autonomia massima di 150 km, erano piccole, ospitavano al massimo tre adulti, non avevano bagagliaio e somigliavano ad un Sulky, una minicar squadrata degli anni Ottanta.

[18] Ev, «Electric vehicle», veicolo completamente elettrico che si differenza dal Phev, «Plug-in Hybrid Electric Vehicle», veicoli elettrici ibridi.

[19] https://ofv.no/bilsalget/bilsalget-i-2018

[20] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, citata, pp. 52-53.
L’ibrido (Phev) rappresenta il 40% delle auto elettriche vendute nel 2018, nel 2016 era il 35%.

[21] https://info.nobil.no/eng

[22] La direttiva europea consiglia una colonnina di ricarica ogni 10 Ev; in Norvegia la proporzione è di 0,65 colonnine/Ev.

[23] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[24] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[25] https://www.gassnova.no/en/the-government-has-granted-permission-for-co2-storage-in-the-north-sea

[26] http://www.tcmda.com/en/About-TCM/Owners/

[27] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 9

[28] Il Mar del Nord ha il 51% delle riserve petrolifere, il Mar di Norvegia il 23% e il Mar di Barents il 26%. Dal 2009 l’estrazione di petrolio del Mare del Nord è diminuita del 7%, mentre nel Mare di Barents è aumentata del 7%. La Norvegia aveva nel 2016 80 campi di produzione petrolifera off-shore: 62 nel Mare del Nord, 16 nel Mare di Norvegia e 2 nel Mare di Barents.

[29] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 66.

[30] Statoil è diventata Equinor il 15 maggio 2018 con la fusione della Statoil con la Norsk Hydro. Il principale azionista è il governo norvegese (67,0%).

[31] A-lab, Statoil Regional and International Offices, §Fakta.

[32] Hillmar Rommetvedt, The Rise of the Norwegian Parliament, Ed. Frank Cass and Company Limited, Londra, 2003, pp. 189-190.

[33] https://www.nbim.no/en/

[34] Guidelines for observation and exclusion of companies from the Government Pension Fund Global.

[35] https://www.f35.com/global/participation/norway

[36] Norge Bank Investment Management, Responsible Investment Government Pension Fund Global, 2018 – Divestments, §Ethical exclusions, p. 113.

[37] Il parlamento norvegese.

[38] Storebrand, Sustainable investments in Storebrand Q4 2018, Companies that Storebrand does not invest in.

[39] https://www.storebrand.no/en/sustainability/exclusions

[40] Niall McCarthy, Oil And Gas Giants Spend Millions Lobbying To Block Climate Change Policies [Infographic], Forbes, 25/03/2019

[41] https://www.reuters.com/article/us-shell-m-a/shell-buying-spree-cranks-up-race-for-clean-energy-idUSKBN1FF1A8; vedi anche:
https://www.theguardian.com/business/2017/nov/28/   shell-doubles-green-spending-vo ws-halve-carbon-footprint
https://energypost.eu/how-attractive-are-renewables-for-oil-companies/

[42] Windeurope, Offshore Wind in Europe-Key and trend statistics 2018, Capitolo 3 – Industry Activity and Supply Chain, §3.2 Wind Farm Owner, febbraio 2019.

[43] worldpopulationreview.com/countries/norway-population/

[44] Espen Thorud, membro OECD, Expert Group on Migration on Norway, Immigration and Integration 2017-2018, 2018, pag. 38 e pag. 6. – Al 31 dicembre 2017, in Italia la popolazione straniera residente era di 5.144.440 su un totale di 60.483.973 abitanti pari all’8,50% (fonte Istat).

[45] Il FrP rifiuta l’etichetta di partito populista.

[46] Siv Jensen è anche ministro delle Finanze nell’attuale governo Solberg

[47] http://www.aftenposten.no/meninger/kronikker/Drom-fra-Disneyland-6270375.html

[48] Ye’or Bat, Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007. Vedi anche: Bruce Bawer, While Europe Slept: How Radical Islam is Destroying the West from Within, Random House, 2006.

[49] Espen Thorud, citato, pag. 10.

[50] Espen Thorud, citato, pag. 7.

[51] EMN Norway Conference, Challenges – introduction by Tor Mikkel Wara, Oslo, 21 giugno 2018.

[52] Henrik Ibsen, Casa di bambola.

[53] Luigi di Ruscio, Ovunque l’ultimo.

[54] https://www.document.no/2019/03/30/gjenger-gjor-drammen-til-et-helvete-pa-jord/

[55] https://www.document.no/2019/03/31/ny-logo-for-oslo-kommune/

[56] Espen Thorud, citato, pag. 32.




Tigri, uomini e riserve in India:

La vita non vale un parco

Testi e foto di Eleonora Fanari


Sommario

Reportage dall’area protetta del Bengala occidentale: Attenti alla tigre

Popolazioni Indigene in India
I parchi in India

Rischi e contraddizioni delle politiche ambientali:  Più ambiente per tutti, meno diritti per alcuni

Conservazionisti versus Ambientalisti
Campa

Resort lussuosi per l’«eco turismo» sulle terre degli sfollati: Largo al turismo

Questo dossier è stato firmato da:

Reportage dall’area protetta del Bengala occidentale: Attenti alla tigre

Essere pescatori residenti nei dintorni della riserva delle tigri di Sundarbans e vedere rispettati i propri diritti è sempre più difficile. Le politiche ambientaliste del governo producono norme e divieti che portano molti alla fame, diversi a rischiare l’illegalità e, a volte, la morte per sbranamento, e molti altri all’emigrazione.

La riserva delle tigri del Sundarbans – il cui nome in bengalese significa «la bella foresta» -, patrimonio dell’Unesco dal 1987, è il parco naturale nel quale si consuma uno dei più discussi e complessi conflitti tra conservazione ambientale e diritti umani nel territorio indiano. La riserva, che si trova nell’India Nord orientale, è situata nel golfo del Bengala, sul delta del Gange, estremo Sud dello stato del Bengala occidentale, nella più grande foresta di mangrovie del mondo.

Il grosso arcipelago sul quale si estende è formato da 102 isole, 54 delle quali ospitano una popolazione di 4,5 milioni di persone, per la gran parte dalit e indigeni che lottano per la propria sopravvivenza spartendosi il territorio con la famosa tigre del Bengala, una specie in via d’estinzione e protetta dal 1973.

Remi in barca, ma senza smettere di lottare

Sohankharo Arhi, abile pescatore del villaggio di Mathurakhanda, raccoglie i remi della sua piccola barca per sistemarla sulla sponda del fiume.

Ci troviamo qui, sull’isola di Bali (non quella famosa), una delle isole dell’arcipelago, per svolgere delle ricerche sul conflitto che da anni produce vittime tra i più poveri, e lo osserviamo. In questo villaggio, secondo il censimento del 2011, vivono 3.826 persone, delle quali l’80,4 per cento sono dalit, la casta più bassa degli intoccabili, e il 2,2 per cento indigeni1.

Oggi Sohankharo torna a casa a mani vuote. La sua famiglia e le famiglie dei suoi colleghi pescatori in questa giornata mangeranno, forse, solo riso bianco. Le guardie forestali li hanno avvistati mentre navigavano all’interno della riserva, in zona proibita, e li hanno sanzionati con una multa di 2mila rupie (25 euro) a testa e la confisca delle reti e dell’intero pescato. Da quando le normative sulla conservazione ambientale hanno iniziato a inasprirsi, influenzando le sorti di questi piccoli pescatori, un nuovo conflitto socio ambientale emerge in questa «bella foresta» di mangrovie.

Mentre la tigre del Bengala diventa sempre più visibile, soprattutto agli occhi stranieri, attraendo milioni di turisti ogni anno da tutto il mondo, le comunità che abitano questo territorio sono, al contrario, sempre più invisibili. Le loro necessità, i loro bisogni e i loro diritti sembrano affondare in quel terreno fangoso sul quale abitano che non lascia tregua nemmeno nei momenti di secca.

Nuove regole contro la pesca

Il rischio continuo di maree e alluvioni tipico del territorio e la salinità della terra, che impedisce una florida attività agricola, creano una costante incertezza. Gli uomini come Sohankharo non hanno facoltà di scelta, e l’attività di pesca rimane una delle più importanti fonti di reddito per la maggior parte delle famiglie, sfamando circa l’ottanta per cento della popolazione.

Il «Progetto tigri», nato nel 1973, è stato rinforzato dal governo tra il 2005 e il 2006 con nuove norme che hanno creato, tra le altre cose, zone protette inviolabili nelle quali l’accesso è proibito. La popolazione si è ritrovata, così, senza un’alternativa valida, se non quella di infrangere la legge.

«La zona accessibile non è abbastanza pescosa per poter sfamare tutti e, spesso, non siamo al corrente dei confini imposti dalle guardie. Nessuno ci avvisa, se non a bastonate e con multe salate quando ci sorprendono pescare nelle acque del fiume», si sfoga Sohankharo, mentre ci racconta delle difficoltà poste da un territorio già di per sé difficile, e si lamenta del fatto di aver dovuto pagare ingenti somme di denaro semplicemente per svolgere il proprio lavoro.

L’isola si affaccia direttamente sulla zona inviolabile del parco al di là del fiume, e navigare quelle acque rappresenta un rischio.

923 licenze di pesca per 52mila pescatori

Le ultime norme emanate sulla protezione ambientale si assommano ad altre e macchinose regolamentazioni del passato. Una di queste è quella riguardante il certificato di licenza di navigazione, un documento rilasciato nel 1973 dal dipartimento forestale per regolare l’attività di pesca in un’area di 892 km2. Da allora queste licenze, pari a un numero di 923, non sono mai state incrementate e, a oggi, quelle attive per i 52.917 pescatori dell’intero arcipelago, sono di circa 713, un numero irrisorio che lascia quasi tutti i pescatori in una situazione di illegalità permanente.

Alcuni titolari di queste licenze le adoperano dandole in affitto a prezzi inaccessibili ai piccoli pescatori che spesso si indebitano pur di proseguire la loro attività.

Sohankharo commenta: «Non essendo in possesso della licenza, per pescare ho bisogno di prenderne una in concessione a un costo di 30/32mila rupie l’anno (circa 400 euro). Ma negli ultimi anni questo certificato non mi ha permesso ugualmente di pescare, e molti di noi si sono ritrovati a pagare il certificato e anche le sanzioni e le confische da parte delle guardie, lasciandoci in un perenne stato di debito».

Pescatori sbranati e tigri in aumento

Mentre, da un lato, i pescatori lottano con le norme proibizioniste imposte dal dipartimento forestale e con il sistema burocratico e corrotto che ne consegue, dall’altro si ritrovano a dover fare i conti con le «norme naturali» imposte da un territorio ostile nel quale anche l’aggressività delle stesse tigri protette ha la sua parte.

Il timore di essere intercettati dalle guardie forestali spinge la maggior parte dei pescatori a recarsi in luoghi meno visibili, esponendosi di fatto ai possibili attacchi dei felini.

Per il dipartimento forestale del Bengala gli attacchi mortali delle tigri sono dieci all’anno, ma per le comunità locali e le organizzazioni che operano nel territorio, i morti sono almeno dieci al mese2.

Mentre visitiamo il villaggio di Muthurakhanda, abbiamo l’onore di conoscere il capo del villaggio, Ankul Das, che ci racconta: «Nel corso degli anni la popolazione di granchi, gamberetti e pesci è diminuita nelle zone cuscinetto (zone attigue alla riserva, accessibili alla popolazione, ndr). Gli abitanti dei villaggi entrano illegalmente nella zona centrale alla ricerca di una buona pesca, e alcuni vengono uccisi. Poiché queste morti non vengono denunciate, il governo ne rimane all’oscuro».

Le numerose vedove del Sundarbans spesso non ricevono alcun compenso per la loro perdita: un eventuale rimborso è stabilito solo se il pescatore viene aggredito dalle tigri in acque legali.

Da quando il «progetto tigri» è stato inaugurato, il numero dei felini è in crescita. Nilanjan Mallick, il direttore della riserva del Sundarbans, lo conferma al quotidiano «The Tribune»3: le videocamere installate nella riserva hanno registrato nell’anno 2016/17 un numero di circa 83 tigri.

Questo risultato rispecchia gli sforzi del progetto del governo indiano. Il paese è oggi sede della maggior parte delle tigri nel mondo: 2.226 secondo la stima ufficiale del 2014. Un aumento del 30 per cento rispetto alle 1.706 del 2010.

Il mondo conservazionista esulta a questi numeri, mentre le vedove come Aparna Singh, 30 anni e tre figli, dell’isola di Koltali, gemono in silenzio e a stento mandano avanti le loro famiglie.

Incontriamo Aparna nella nostra seconda visita alle Sundarbans nel marzo 2017. Timida, ci invita a entrare nella sua piccola casa. Appesa alla parete di bambù vi è la foto del marito, Pradhan Singh. Con gli occhi rivolti verso il basso Aparna ricorda il giorno in cui il marito fu catturato dalla tigre: «Erano in tre nella barca. Come ogni giorno, erano andati per la raccolta dei granchi. Da quel giorno Pradhan non è mai ritornato».

Il padre di Pradhan, che vive insieme alla nuora, ci spiega che gli attacchi sono aumentati, sia per l’aumento delle tigri che per la necessità dei pescatori di spingersi in acque pericolose: «I pescatori, per paura dei guardiaparco, si avventurano nelle zone forestali più interne, ed è lì che si trovano le tigri». Poiché la tigre attacca sempre una persona alla volta, i pescatori vanno in gruppetti di almeno tre persone. Se uno di loro dovesse morire per un attacco, gli altri si assumerebbero l’onere di prendersi cura della sua famiglia.

L’alternativa di emigrare

Mentre le guardie forestali ingrassano con le confische di pesce fresco, i piccoli pescatori si indebitano per rischiare la vita ogni giorno.

Per capire meglio le condizioni di vita dei pescatori, ci rechiamo nell’isola Satjelia, una delle più povere e popolose. «Non abbiamo altra scelta, se non quella di morire di fame», commenta Utpal Mishra, un pescatore che ci spiega come le norme vigenti non propongono alcuna alternativa alle comunità locali, se non quella di emigrare. Utpal Mishra ci racconta che alterna il lavoro di pescatore a quello di migrante: «Per sei mesi all’anno vivo a Delhi, per fare il bracciante nell’edilizia. Altre volte vado a Mumbai, Bangalore, Calcutta, o Tamil Nadu. Siamo in molti a spostarci, ma la famiglia e il legame con la nostra terra non ci permettono di abbandonare le acque del fiume».

Un altro pescatore sui 50 anni, anche lui da mesi senza licenza in quanto confiscata dalle guardie, ci dice che suo figlio vive lontano, in Italia. Ce lo dice con fierezza. Anche alcuni suoi amici che vivono nella Sundarbans del Bangladesh, al di là del confine nazionale, hanno famiglia in Italia.

Senza possibilità di sopravvivenza in India, si recano in terre lontane: potremmo forse chiamarli rifugiati della conservazione ambientale?

Quelli che invece rimangono qui, rischiano ogni giorno sanzioni, estorsioni o abusi da parte del corpo forestale, e a volte la vita, com’è successo il 16 marzo 2017, quando un peschereccio con 28 persone a bordo è stato avvistato dalla forestale e capovolto. Gli uomini, le donne e i bambini, subito soccorsi e trasportati in ospedale, hanno poi dovuto sostenere i costi per le cure mediche, negate dal dipartimento forestale4.

Pescatori no, turisti sì

Il Sundarbans, ecosistema ricchissimo di biodiversità, è oggi un territorio a rischio. Le problematiche legate al suo degrado non sono certo da attribuirsi solo ai suoi abitanti, ma a decadi di sfruttamento delle risorse. Nonostante questo, i pescatori continuano a essere incriminati per danni contro l’ambiente, mentre il turismo continua a proliferare in maniera incontrollata. Vengono proibite le imbarcazioni a remi dei residenti, ma le numerose barche turistiche a motore attraversano ogni giorno la zona protetta del parco senza problemi.

Gli abitanti della zona si domandano se queste misure di protezione ambientale, che ledono i loro diritti fondamentali, stiano effettivamente contribuendo alla protezione dell’ecosistema. Alcuni denunciano, ad esempio, la presenza di uomini, probabilmente legati alla mafia del legname, che tagliano alberi nella foresta senza curarsi di farlo anche quando sono in fiore, ostacolandone la riproduzione. È una pratica teoricamente illegale che però pare non essere ostacolata dalla forestale. Molti altri denunciano poi i grossi pescherecci che attraversano le acque protette rilasciando materiale inquinante.

Tutto ciò senza menzionare i diversi disastri ambientali che non vengono risolti dalle autorità, come quello causato nel 2014 da una petroliera che, collidendo con un’altra imbarcazione nelle acque al confine tra Bangladesh e India, ha rilasciato nel mare migliaia di litri di petrolio5.

Le popolazioni locali esistono

Secondo l’ambientalista Santanu Chacraverti, autore del report The Sundarbans fishers pubblicato nel 2014 dal Collettivo internazionale a sostegno dei pescatori (International collective in support of fishworkers), la problematica in Sundarbans è legata all’incapacità dell’amministrazione locale di analizzare il problema in termini olistici e di cercare soluzioni che prendano in considerazione tutte le questioni: dal degrado ambientale al sovraffollamento, dalla protezione forestale ai diritti delle popolazioni, dal turismo alla gestione comunitaria delle risorse. Quest’ultimo elemento è tra i più importanti, perché riguarda l’inclusione delle comunità locali nella gestione del territorio.

Nonostante l’assoluta importanza della protezione della biodiversità, le norme legate alla conservazione ambientale non possono dimenticarsi dell’esistenza dell’uomo che vive dentro o ai margini di questi territori.

Alcuni studiosi, come Paul J. Ferraro (del dipartimento di economia alla Georgia state university di  Atlanta, Usa), osservano che la creazione di zone protette con misure restrittive, come nel caso del Sundarbans, non sempre crea vantaggio all’ambiente, in quanto i conflitti che sorgono in risposta al malessere della popolazione impediscono la giusta gestione del territorio.

Gli abitanti delle Sundarban, come Utpal Mishra o Sohankharo, sono i primi a voler proteggere la natura. La loro vita dipende da essa, ma per loro non è solo fonte di reddito, rappresenta la loro casa e la loro identità.

È proprio Utpal Mishra che, un giorno, esplorando le Sundarbans in barca, ci dice: «Scendiamo, camminiamo nella foresta. Come potete studiare il nostro territorio se non capite cosa significa camminare su questo terreno?».

Mentre una guerra globale sulle risorse naturali è alla ricerca di ipocrite soluzioni omogenee per tutti, i pescatori delle Sundarbans ci dicono che non si possono trovare soluzioni se non si sa cosa vuol dire sporcarsi i piedi nel terreno fangoso e buio della foresta.

Eleonora Fanari

Note:

1   www.census2011.co.i
2  Shreya Das, The tiger widows of Sunderbans: caught between the tiger and apathy, «The Indian Express», 27/12/2017.
3  Pritha Lahiri, Sujoy Dhar, Tigers burn bright in the Sundarbans, «The Tribune», 07/10/2017.
4  Informazione condivisa con l’autrice dall’organizzazione Dakshinbanga Matsyajibi Forum (Dmf).
5  Un sends team to clean up Sunderbans oil spill in Bangladesh, «The Guardian», 18/12/2014.

 

Popolazioni Indigene in India

I popoli originari dell’India, o adivasi, rappresentano l’8,6 per cento del totale della popolazione indiana, circa 104 milioni di persone (secondo il censimento del 2011). L’uso del termine adivasi risale al periodo coloniale e si parla di comunità tribali già nel primo censimento del 1901.

A livello istituzionale le comunità tribali in India vengono riconosciute con la locuzione scheduled tribes (St) che appare per la prima volta nella costituzione indiana del 1950, nell’articolo 366 (25). In essa si attribuiscono agli adivasi diritti legati al loro stato di marginalità storica e alla loro diversità culturale, considerata una ricchezza per il paese.

Secondo l’Iwga (International work group for indigenous affairs) «in India, ci sono 705 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti come scheduled tribes. Ci sono poi diversi gruppi indigeni non riconosciuti. La maggiore concentrazione di queste popolazioni si trova nei sette stati Nord orientali dell’India e nella cosiddetta “cintura tribale centrale” che si estende dal Rajasthan al Bengala occidentale». Gli adivasi vivono in tutta l’India, ma principalmente nelle zone montuose e collinari, lontano dalle pianure fertili. Tra le comunità più conosciute vi sono i Santhal e i Gond nello stato di Orissa, i Baiga in Chattisgarh, i Gujjar e i Tharu in Uttar Pradesh e Uttarakhand.

La lotta indigena per il bene comune

Gli adivasi considerano la terra come una risorsa comune, e tradizionalmente hanno sempre controllato e gestito le risorse naturali disponibili attraverso istituzioni comunitarie consolidate.

La maggior parte di queste comunità vive in aree fortemente boscose, la loro economia si basa principalmente su un’agricoltura di sussistenza, sulla caccia o la raccolta.

Le politiche Indiane da decenni sfruttano le risorse naturali delle terre ancestrali indigene danneggiando l’ambiente e minando lo stile di vita delle popolazioni native. I numerosi conflitti, a volte armati (come in Bhastar, Chattisgarh), tra lo stato e le comunità indigene, continuano a perpetuarsi in tutto il territorio indiano, incidendo sul loro stato di povertà e di salute. Per questo motivo, un gran numero di membri di queste comunità si ritrova a dover migrare nelle grandi città come New Delhi, Mumbai e Calcutta, nelle quali vengono spesso sottopagati e posti alla mercé di grandi impresari e latifondisti (Karnika Bahuguna, Madhu Ramnath et al., Indigenous people in India and the web of indifference, DownToEarth, 10/08/2016).

E.F.

I parchi in India

L’idea di istituire delle aree protette nasce negli Stati Uniti nel 1872 con la creazione dello Yellowstone nel territorio di Montana e Wyoming. In India, i parchi naturali nascono nel 1935, quando viene fondato il primo, l’Haley national park, oggi conosciuto come il Corbett national park, nello stato di Uttarakhand.

Fino al 1970 i parchi istituiti sono cinque. Ma a inizio anni ‘70 esplode l’interesse per la protezione ambientale, ed entra in vigore la Wildlife protection act (Wlpa) 1972, una legge molto restrittiva per la gestione e la protezione di flora e fauna. La Wlpa 1972 proibisce la caccia all’interno delle zone protette e stabilisce una serie di reati classificati sotto la fattispecie di crimini ambientali.

Da questo momento in poi le restrizioni aumentano e iniziano i conflitti tra le comunità indigene e il corpo forestale.

 

Mezza Italia di aree protette

Fino al 2002 le aree protette erano divise in due categorie: National park (Np), dove non sono permesse numerose attività umane, e Wildlife sanctuary (Wls) dove le attività umane sono maggiormente tollerate. Con la modifica della Wlpa nel 2002 vengono introdotte due nuove categorie di aree protette: Conservation reserves e Community reserves, aree protette che fungono da zone cuscinetto o connettori e corridoi di migrazione tra parchi nazionali, riserve naturali e foreste protette. Le aree di conservazione sono quelle disabitate e di proprietà del governo indiano, ma utilizzate per sussistenza da comunità umane, le aree comunitarie sono quelle nelle quali parte delle terre è di proprietà privata.

Secondo i dati ufficiali del Gennaio 2019, in India oggi vi sono un totale di 868 aree protette (104 parchi nazionali, 550 santuari della fauna selvatica, 87 riserve di conservazione, 127 riserve comunitarie), che coprono circa il 5 per cento del territorio indiano, 165.088 km2, equivalente a mezza Italia.

Alcuni parchi nazionali e santuari della fauna selvatica che ospitano una considerevole popolazione di tigri, sono stati definiti Tiger reserves, riserve delle tigri, e godono di uno status speciale e di politiche di maggiori restrizioni. A oggi nel paese le riserve delle tigri sono 51.

E.F.


Rischi e contraddizioni delle politiche ambientali:

Più ambiente per tutti, meno diritti per alcuni

Nella corsa mondiale alla conservazione ambientale, l’India si difende bene. Le sue foreste coprono una superficie maggiore di due volte l’Italia, le aree protette aumentano a vista d’occhio, e tra queste, fiore all’occhiello, le riserve delle tigri sono quasi raddoppiate in 15 anni. Peccato che le sue politiche sempre più restrittive per conservare l’ambiente producano migliaia di sfollati, soprattutto tra le popolazioni più povere di indigeni e dalit, territori militarizzati, violenze impunite e appetiti economici che tutto sono fuorché rispettosi della natura.

Negli ultimi decenni siamo stati testimoni dello sviluppo internazionale di nuove politiche ambientali per espandere zone verdi, creare aree protette, ridurre il bracconaggio, preservare specie animali a rischio, conservare la biodiversità.

Il tema è all’ordine del giorno di numerosi paesi che vedono nella biodiversità anche un contributo alla sicurezza alimentare e alla salute dell’intera società, e un fattore di diminuzione della vulnerabilità del territorio di fronte ai disastri ambientali e ai cambiamenti climatici.

La Convenzione sulla diversità biologica

Il principale strumento che la comunità internazionale si è data per la tutela della biodiversità a livello planetario è la Convenzione delle Nazioni unite sulla diversità biologica (Cbd), oggi sottoscritta da 193 paesi. Adottata a Rio de Janeiro nel 1992 al primo Summit della terra, la Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni unite (Unced), la Cbd è un trattato giuridicamente vincolante che si pone come obiettivi principali «la conservazione della diversità biologica, l’uso durevole dei suoi componenti e la ripartizione giusta ed equa dei benefici derivanti dall’utilizzazione delle risorse genetiche».

L’organo di governo della Cbd è la Conferenza delle parti (Cop) che si riunisce ogni due anni per analizzare i progressi compiuti, verificare le priorità e pianificare nuovi ambiti di lavoro. Tra i venti obiettivi stabiliti nella Cop10 tenutasi nell’ottobre 2010 in Giappone, nella prefettura di Aichi, l’undicesimo prevede che, entro il 2020, le aree di conservazione coprano almeno il 17 per cento delle zone terrestri del pianeta e il 10 per cento delle aree marine e costiere.

Questo obiettivo, secondo il rapporto Protected planet 2019 del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep), si sta raggiungendo efficacemente: «Vi sono buoni progressi nell’ampliamento delle aree protette. La copertura terrestre è in aumento dal 14,7 per cento nel 2016 al 14,9 nel 2019, e la copertura marina è passata dal 10,2 per cento al 17,3 delle acque nazionali. Se gli sforzi da parte dei governi per attuare gli impegni proseguiranno, è probabile che gli obiettivi di copertura terrestre e marina saranno raggiunti entro il 2020. […] Attualmente le aree protette nel mondo sono 245.449. La maggior parte di esse sono terrestri e coprono oltre 20 milioni di km2. Le aree marine protette coprono 26 milioni di km2, rappresentando il 7,47 per cento degli oceani»1.

L’India, le aree protette e gli sfollati

In linea con gli obiettivi della Cbd, anche l’India sta compiendo il suo percorso di espansione forestale e di creazione di aree protette: le foreste, a inizio 2019, sono arrivate a coprire il 21,34 per cento del territorio, cioè 701.673 km2, più di due volte l’Italia, e le aree protette sono passate da 604 nel 2006 a 868 nel 20192, un’area pari a 165.088 km2, il 5 per cento della superficie complessiva del paese.

Si direbbe un successo per tutti, se non fosse che queste politiche, che vogliono rispondere alla crisi ambientale planetaria, sono talvolta strumento di violazione dei diritti dei popoli che abitano da sempre le terre che si vogliono preservare.

In India, si stima che vivano nelle zone forestali protette circa 4,3 milioni3 di persone, e la loro presenza, per la maggior parte dei casi, è indesiderata e bersaglio di violenze e sfratti.

Il governo, nel salvaguardare le foreste, ha «dimenticato» di tutelare i diritti delle popolazioni che vi abitano: spesso le zone protette sono state create senza tener conto delle esigenze delle comunità locali, le quali, in maniera inaspettata, si sono ritrovate a vivere dentro nuovi confini.

Se prendiamo il caso particolare delle riserve delle tigri, dal 2005 a oggi il loro numero è raddoppiato, da 28 a 51, provocando lo sfollamento di migliaia di famiglie. Secondo uno studio di Lasgorceix e Kothari4, già nel 2009 il numero delle famiglie sfrattate dalle proprie terre era di circa 20mila, cioè più o meno 100mila persone.

Secondo la nostra ricerca sul campo, condotta per conto dell’organizzazione Kalpavriksh e finanziata da Rights and resources inititiaves (Rri)5, sarebbero da aggiungere negli ultimi dieci anni altri 60mila6 sfollati ai 100mila rilevati nel 2009.

In nome delle tigri

«Le tigri sono sempre state venerate da noi come animali sacri, noi le rispettiamo e loro rispettano noi […]. Non abbiamo paura delle tigri, il nostro peggiore nemico sono ora le guardie forestali», ci dice Sukharo Arhi, pescatore del Sundarbans.

In questo territorio le vittime delle tigri del Bengala sono molte, ma per i locali la vera minaccia sono le guardie forestali. Le restrizioni legate alla pesca, le minacce e, a volte, le torture inflitte ai pescatori per vietarne l’attività, hanno lasciato l’intera comunità senza un’alternativa, facendola sprofondare in una situazione di miseria.

Stiamo parlando di violazioni di diritti umani tollerati dalle istituzioni. Esse di solito non vengono denunciate e, quando lo sono, non vengono perseguite dalle autorità perché a denunciare sono persone di casta bassa, indigeni o dalit, che non vengono prese in considerazione.

Secondo le popolazioni locali e numerose organizzazioni, tra le quali Kalpavriksh, negli ultimi dieci anni i casi di torture e minacce da parte dello stato sono aumentati7. Questo dato è confermato anche dal recente rapporto delle Nazioni unite (Report of the special rapporteur on indigenous people 2018), nel quale si afferma che il numero di crimini, violenze, conflitti e sfratti dalle zone protette è in continua crescita.

L’aumento di restrizioni all’interno di queste aree coincide con l’aumento di attenzione internazionale per la difesa della tigre, considerata specie a rischio e inserita dal 2008 nella lista rossa dell’Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura). L’allarme sull’estinzione delle tigri, ha condotto le numerose organizzazioni conservazioniste e lo stesso ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste a prendere dei provvedimenti.

Senza scienza né consenso

In India il primo documento che parla esplicitamente della necessità di aumentare le restrizioni per preservare le tigri, è un rapporto del 2005 redatto dalla «Task force della tigre» istituita nel 2003 dal ministero indiano dell’Ambiente e delle foreste, intitolato Joining the dots, nel quale si evidenzia come l’estinzione della tigre sia un effetto della crisi ambientale8.

Nello stesso 2005 l’India ha creato un nuovo corpo per la protezione della tigre, la National tiger conservation authority (Ntca), con lo scopo di assicurare la riproduzione della specie e la protezione del suo habitat. L’anno dopo, nel 2006, è stata modificata la Wildlife protection act del 1972 per stabilire nuove regole e delimitazioni all’interno delle riserve delle tigri istituendo un’area inviolabile chiamata Critical tiger habitat (Cth) nella quale è vietata qualsiasi attività umana e, attorno a essa, una cintura di territorio protetto, la buffer area (zona cuscinetto), che prevede la coesistenza tra fauna e attività umana. La buffer area dovrebbe garantire i diritti forestali delle popolazioni locali, come l’uso sostenibile delle risorse naturali, e i diritti sociali e culturali.

Il 16 Novembre 2007 il ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste e la Ntca hanno dato ordine ai singoli stati del paese di creare le Critical tiger habitat entro il 2008. Sono state così create 31 zone inviolabili in tempi brevi, violando le misure che si sarebbero dovute adottare, cioè fare degli studi scientifici preventivi e approfonditi, informare le comunità locali e raccoglierne il consenso.

Queste nuove disposizioni, oltre a negare alle comunità l’uso delle risorse naturali, hanno istituito un meccanismo che legalizza gli sfratti prevedendo una semplice ricompensa economica. Ne è conseguito che dal 2008 gli sfratti dalle aree protette sono aumentati senza peraltro che siano state elargite le ricompense alle comunità colpite.

Sradicati, su terre sterili e senza diritti

Uno dei tanti casi è quello della riserva di Achanakmar, nello stato del Chattisgarh: nel 2009 sono stati sfollati dal Critical tiger habitat sei villaggi che corrispondevano a circa 600 famiglie, tutto ciò senza alcun consenso da parte delle comunità.

Abbiamo visitato la zona di recente, e constatato che oggi quelle famiglie, ricollocate all’esterno dell’area inviolabile, si trovano a vivere in case di cemento decadente, su un lembo di terra sterile, e prive del diritto di accedere alle risorse naturali.

Secondo il nostro studio sul campo, lo stesso è accaduto nella riserva delle tigri di Melghat, in Maharastra, dove sono state sfrattate 1.360 persone. Altre 20mila sfrattate dal parco delle tigri del Kanha nel Madhya Pradesh; 597 famiglie dal parco di Sariska in Rajasthan e più di 3.814 famiglie dal parco di Nagarhole in Karnataka9. La lista continua, e si allunga sempre di più.

Le riserve delle tigri sono le zone più colpite, ma gli sfratti riguardano tutte le zone di conservazione, perfino i corridoi ecologici, cioè quelle «corsie» create per far muovere liberamente gli animali da una zona protetta all’altra, e altre zone attigue ai parchi. Com’è successo, ad esempio, al villaggio di Tummadhia Katha che si trova ai margini del parco naturale del Corbett, nello stato dell’Uttarakhand, dove le dimore abitate dalla comunità indigena dei Van Gujjar, una comunità pastorizia di origini musulmane, sono state demolite per due volte negli ultimi tre anni.

Proteggere la natura con le forze armate

Com’è chiaro dai casi riportati, le politiche di conservazione non si limitano a salvaguardare la biodiversità, ma a controllare i territori utilizzando spesso modalità militari, come l’uso di forze armate e di network informativi.

Le armi da fuoco vengono utilizzate contro le comunità locali accusate di bracconaggio o di altri crimini contro l’ambiente. Di fatto queste comunità sono considerate dai conservazionisti, come ad esempio il Wwf, nemiche dell’ambiente e usurpatrici dell’ecosistema. Un giudizio che si riflette nelle politiche ambientaliste del governo indiano.

Un recente rapporto del Wwf Italia, pubblicato nel maggio 2018, intitolato Bracconaggio connection, descrive il bracconaggio come una delle cause principali dell’estinzione animale, considerando queste azioni «pervasive e devastanti». Questo nonostante alcuni studi dell’Iucn, pubblicati nella rivista online «Natura» e nel Iucn red-list report10, mostrino come tra gli undici maggiori rischi per l’estinzione delle specie animali non vi sia il bracconaggio, ma altre attività umane come lo sfruttamento delle terre per le attività agricole e lo sviluppo urbano. È interessante notare come il report del Wwf colleghi la rete di criminali che fa bracconaggio alla povertà e al bisogno di «facili guadagni»: sono collegamenti pericolosi che si ritorcono sulla pelle dei piccoli contadini locali, doppiamente vittime delle politiche conservazioniste e delle grosse organizzazioni illegali di bracconaggio.

Con la licenza di sparare a vista

Uno dei casi più discussi ed emblematici dell’India è quello del parco nazionale di Kaziranga, in Assam, dove una squadra armata di 430 uomini, tra guardie forestali, paramilitari11 e forze speciali per la protezione della tigre e del rinoceronte, pattugliano la zona con fucili calibro 200 e 303.

Il parco, famoso per i rinoceronti a un corno in via d’estinzione, è altrettanto famoso per il numero delle vittime uccise in nome della lotta al bracconaggio. I guardaparco, per assicurare la massima protezione agli animali, godono di immunità legale e, in accordo con quanto dichiarato nel Piano di conservazione dei rinoceronti nel parco nazionale di Kaziranga, hanno il dovere di «sparare a vista»12 a chiunque sia sospettato di bracconaggio, senza prove, senza arresto né processo.

Come denunciano diversi attivisti locali, questa condizione d’immunità conferita alle guardie, le ha deresponsabilizzate spingendole a sparare anche senza una ragione. Ne è un esempio il caso di Akash Orang, un bambino di 7 anni che nel settembre 2016 è stato ferito alla gamba da un guardaparco con dei colpi di pistola che gli hanno procurato un’invalidità a vita. Secondo gli attivisti, molte vittime della lotta al bracconaggio sono innocenti cittadini che vengono utilizzati dalle guardie per esibire dei risultati visibili. Secondo i dati della Bbc13, dal 2009 a oggi sono state circa 65 le persone uccise ai margini del parco. Numerose quelle accusate di crimini contro l’ambiente, arrestate o torturate impunemente.

Diritti forestali: sanciti e poi violati

La legge indiana sui diritti forestali delle popolazioni indigene e degli altri abitanti tradizionali della foresta (il Fra, Forest rights act), emanata nel 2006, riconosce la diversità dell’uso, dell’accesso e delle pratiche di conservazione della foresta e della biodiversità da parte delle popolazioni native, e garantisce alle comunità il diritto alla terra ancestrale. Il Fra riconosce l’ingiustizia sociale ed economica inflitta alle popolazioni forestali sin dal periodo coloniale, conferendo ampio potere di gestione del territorio al gram sabha (il consiglio degli anziani), e aprendo nuovi spazi democratici e meccanismi d’inclusione a favore di un nuovo modello di conservazione.

Queste disposizioni legislative che concepiscono la conservazione come basata sulla coesistenza piuttosto che sul conflitto, sono in linea con gli impegni internazionali sottoscritti dall’India firmando la Convenzione sulla diversità biologica (Cbd). Nella Cbd, infatti, si afferma la necessità di «promuovere la piena ed effettiva partecipazione delle comunità indigene e locali, e anche il loro previo e informato consenso e coinvolgimento nella creazione, espansione e gestione delle aree protette».

Le atrocità raccontate sopra allora non violano solo i diritti umani e costituzionali fondamentali, ma anche le stesse disposizioni nazionali e gli impegni internazionali in materia di conservazione ambientale presi dal paese. Lo afferma anche il già citato rapporto delle Nazioni unite sui diritti degli indigeni14 che denuncia: «In India i popoli tribali sono stati sfrattati dalle riserve delle tigri per decenni, spesso senza alcuna forma di riparazione. Ciò continua a verificarsi nonostante il Forest rights act del 2006».

Interessi ambientali o economici?

Nonostante quello che dicono l’Onu e altri osservatori internazionali, il governo indiano continua a essere appoggiato da una rete di organizzazioni protezioniste come il Wwf, la Wcs (Wildlife conservation society), l’Ifaw (International fund for animal welfare), e altre (anche chiamate Business international organizations, Bingo), che difendono un modello di conservazione basato su esclusione e controllo. Sembra non interessare loro che dietro la pretesa governativa della difesa ambientale ci siano anche corposi interessi economici.

Secondo un rapporto del 2015 dell’Istituto indiano per la gestione delle foreste di Bhopal15 che ha stimato i dati economici relativi a 25 servizi ecosistemici offerti al paese da sei riserve delle tigri (quelle di Corbett, Kanha, Kaziranga, Periyar, Ranthambore e Sundarbans), il loro valore economico ammonta a circa 1 miliardo di euro l’anno. Di questo, solo il 9 per cento (90 milioni) va a favore dalla popolazione locale. Il 47 per cento (470 milioni) a favore del paese, mentre ben il 43 per cento (430 milioni) è il valore in qualche modo utilizzato a livello mondiale.

Tra i valori economici stimati, quello che riguarda l’industria del turismo è facilmente quantificabile. Ogni anno i parchi delle tigri, infatti, mentre tengono fuori le popolazioni locali, attirano migliaia di persone dall’India e dal resto del mondo. L’introito derivato dai biglietti per l’ingresso al parco di Corbett ammonta a 1 milione di euro annui.

Un altro elemento di contraddizione delle politiche restrittive per la salvaguardia dell’ambiente è il giro d’affari legale e illegale legato al taglio degli alberi16. Capita che il corpo forestale favorisca gruppi criminali organizzati nel taglio e commercio illegale della legna. Nella riserva delle tigri di Buxa, nello stato del Bengala occidentale, alcuni agenti forestali e alti ufficiali di polizia sono stati colti in flagrante17.

Nel parco di Buxa e di Jaldapara le comunità locali avevano già più volte denunciato il taglio illegale degli alberi ma non avevano ottenuto alcuna risposta dalle autorità, in quanto queste erano direttamente coinvolte. Altri introiti provengono da attività come la pesca, il foraggio, la vendita di miele, frutti e altri prodotti che tradizionalmente vengono utilizzati dalle comunità per la loro sussistenza, ma che sempre di più vengono controllate dai governi locali degli stati indiani.

Per esempio, dal 2017 lo stato del Chattisgarh ha proibito la vendita diretta del mahua, un frutto da cui si ricava un liquore che rappresenta un’importante fonte di sussistenza per la comunità indigena dei Baiga. Questa proibizione ha influenzato negativamente l’economia locale18.

Inoltre è molto importante lo sfruttamento da parte dello stato dei bacini idrici utilizzati anche per la produzione di energia elettrica. Molte sono le dighe presenti all’interno di zone protette, come ad esempio la diga di Kalagarh nella riserva di Corbett, nello stato dell’Uttarakhand, costruita nel 1974 per contribuire alla distribuzione idrica in tutto lo stato e nella città di New Delhi.

La diga ha lasciato gli abitanti di queste zone quasi a secco.

Inoltre, bisogna menzionare il mercato legato allo scambio di emissioni di gas serra – ossia le quote di emissioni fissate dai rispettivi governi locali alle imprese – che gioca un ruolo fondamentale nell’interesse sulla protezione delle foreste. In India, uno dei meccanismi per ridurre le emissioni inquinanti e riforestare le zone degradate è il Campa, o Compensatory Afforestation Act, un meccanismo di compensazione in base al quale il valore delle imposte versate dai privati è calcolato in rapporto alla perdita forestale in termini di biodiversità e servizi ecosistemici. Questi fondi poi dovrebbero essere utilizzati per riforestare aree degradate, peccato che spesso anche questo meccanismo si basi su giochi di corruzione e interesse. Infatti in molte zone, le aree prese in considerazione per riforestare non sono aree degradate ma aree utilizzate a livello comunitario dalle popolazioni indigene che vengono quindi sgomberate. Come è avvenuto nel caso del parco delle tigri del Tadoba, nel Maharastra, dove a Sitarampeth, in quella che era una zona usata dalla popolazione locale per il pascolo, è stata eretta una staccionata per creare un sito di «riforestazione» con circa 100 alberi in un terreno che ha una superficie di 608 ettari, 6 milioni di metri quadrati.

Un paese in lotta

«Se la comunità internazionale continua a nascondersi dietro false promesse di conservazione, non ci resta altro che lottare, e mostrare che un nuovo modello di conservazione non è solo possibile ma necessario», commenta Neema Pathak dell’organizzazione indiana Kalpavriksh. Numerose sono le realtà, sia in India che in altre parti del mondo, che hanno tramutato la loro lotta in atti fruttuosi, riuscendo a sviluppare dei progetti di conservazione e di gestione comunitaria del territorio.

È necessario riesaminare e rivedere criticamente le pratiche di conservazione e di sviluppo, e utilizzare le disposizioni della legge sui diritti forestali e sulla protezione della biodiversità per costruire dei progetti di convivenza non solo nelle aree protette, ma anche nelle aree limitrofe. Bisogna inoltre fare in modo che le istituzioni internazionali prendano coscienza delle situazioni locali e che si preoccupino di usare maggiori provvedimenti per far rispettare gli accordi internazionali sul rispetto dei diritti umani. Solo allora lo stato indiano, e gli stati tutti, riusciranno a prendere dei provvedimenti per garantire la conservazione della biodiversità in maniera adeguata, garantendo anche diritti e opportunità uguali per tutti.

Eleonora Fanari

Note:

Conservazionisti versus Ambientalisti

Organizzazioni come la World wide fund for nature (Wwf), la Wildlife conservation society (Wcs) e l’International conservations (Ic), sono considerate estremiste da molti attivisti e ambientalisti, a causa delle loro politiche di conservazione, identificate sotto il nome di Fortress conservation. Infatti nonostante il Wwf riconosca apertamente la necessità di integrare le comunità locali nella conservazione dell’ambiente, spesso finanzia operazioni militari come nel citato parco di Kaziranga in Assam.

Questo comportamento è da un lato frutto della cecità di molti conservazionisti nel considerare la protezione ambientale una priorità a qualsiasi costo, anche quello della vita delle persone. Dall’altro queste organizzazioni internazionali risentono di idee coloniali ed eurocentriche e non considerano le popolazioni tribali capaci di governare in maniera appropriata le zone forestali.

L’importanza di includere le comunità indigene nella conservazione ambientale è stata riconosciuta solo recentemente, nel 2007, dalle Nazioni unite.

Questa mentalità coloniale, in un paese come l’India è rappresentata dalle classi dominanti che spesso siedono ai vertici di queste organizzazioni e che ostacolano il riconoscimento di leggi come la Forest Rights Act.

Dall’altro lato, come dimostrato dalle ricerche di Rosaleen Duffy (Rosaleen Duffy, We need to Talk about the militarisation of conservation, 20/07/2012)., sono numerose le organizzazioni transnazionali che finanziano training militari e altre misure anti bracconaggio, attività che risultano lucrative per il settore privato. Inoltre numerosi sono gli articoli che accusano il Wwf di scandali e di partnership con grosse multinazionali. In un articolo di Jonatham Latham (Jonathan Latham, Way Beyond Greenwashing: Have Corporations Captured Big Conservation?, 07/02/2012). si legge che l’organizzazione del panda ha stipulato delle partnership con aziende come la Monsanto, legata agli Ogm, e la Wilmer, una delle più grandi compagnie mondiali di olio di palma, primo responsabile della distruzione forestale del Borneo indonesiano.

Survival International ha inoltre più volte condannato le attività del Wwf, considerato direttamente coinvolto in Africa in attività lucrative come concessioni per la caccia e per il taglio di legname.

Il dibattito tra nuovi e vecchi conservazionisti è oggi grosso oggetto di discussione, e un campo di ricerca ancora in esplorazione.

E.F.

Campa

Il Campa (Compensatory and afforestation fund management and planning authority bill), approvato nel luglio 2016, rappresenta una delle strategie del governo Indiano per ridurre le emissioni inquinanti senza rinunciare all’obiettivo della crescita economica, considerata prioritaria.

Attraverso il meccanismo del Campa il governo ha dichiarato l’investimento di 6,2 miliardi di dollari per le politiche di riforestazione, fondi che provengono dai tributi pagati dai privati negli ultimi 12 anni per impiantare le proprie aziende in zone forestali.

Il Campa, come affermato dal ministro dell’Ambiente, Prakash Javadekar «potrà assicurare la crescita economica senza rinunciare alla salvaguardia degli ecosistemi».

La legge è stata fortemente criticata e considerata come «anti tribale», «anti forestale» e, infine, contraria ai princìpi etici. Le politiche di riforestazione, infatti, consentono l’approvazione dei progetti ancor prima che vengano individuate le stesse aree forestali interessate dai piani di riforestazione. Un sistema che rischia di compromettere abitabilità, diritti ed economie rurali.

Uno studio condotto dal Community forest rights – learning and advocacy ha analizzato un campione di 2.548 piantagioni, approfondendo 63 casi attuali di riforestazione coperti con i fondi del Campa. Esso rivela che nel 60 per cento dei casi i progetti sono consistiti nella installazione di monocolture, per lo più di alberi teak piantati in zone precedentemente utilizzate dalle comunità locali. Inoltre molti piani di riforestazione hanno trasformato zone precedentemente considerate come aree di massima biodiversità in monocolture. Ciò significa che questi fondi non solo vengono utilizzati nella violazione più totale del diritto alla terra delle comunità locali, ma che stanno anche contribuendo alla distruzione degli ecosistemi, là dove erano nati per uno scopo esattamente opposto, ovvero quello di preservare e proteggere l’ambiente.

E.F.

Resort lussuosi per l’«eco turismo» sulle terre degli sfollati:

Largo al turismo

Mentre le comunità locali sono cacciate dalle loro terre perché considerate nemiche dell’ambiente, numerosi resort turistici sorgono dentro e attorno le riserve.

Il 14 febbraio 2017 il villaggio di Tumadhia Katta è assalito dalle guardie forestali che hanno distruggono le case degli abitanti, accusati di invasione illegale in territorio protetto. Il villaggio si trova all’esterno dei limiti del parco naturale di Jim Corbett, ed è abitato da 46 famiglie della comunità indigena dei Van Guajjar, una comunità nomade che da sempre si dedica alla pastorizia.

La riserva delle tigri di Jim Corbett, situata nella prospera foresta occidentale del Tarai, nello stato dell’Uttarakhand, è il più vecchio parco naturale del continente asiatico istituito nell’anno 1936. È la riserva con la maggiore densità di tigri, circa 215, e rappresenta un importante polmone verde e uno dei parchi più preziosi del paese. È distante 200 km dalla caotica capitale New Delhi, e offre un facile accesso per i 200mila turisti che lo visitano ogni anno.

Nel report The value of wildlife tourism for conservation and communities pubblicato nell’ottobre 2017 da TofTigers, si legge che il turismo è un’importante fonte di reddito per le comunità locali, le quali possono giovarsi di tale risorsa come beneficio positivo per il loro sviluppo economico. Purtroppo però, al contrario di quanto sostenuto dallo studio, i Van Gujjar non sembrano godere di una situazione particolarmente favorevole. Spesso, anzi, il loro stile di vita nomade e pastorizio, è considerato ostile per la conservazione e la protezione del territorio e quindi osteggiato.

I Van Gujjar, pastori discriminati

Gli abitanti del villaggio di Tumadhia lottano dal 2013 contro l’ordine di sfratto emanato dal tribunale dell’Uttarakhand, ordine fortemente contestato sia per la sua infondatezza che per il suo carattere discriminatorio.

I Van Gujjar sono una comunità proveniente tradizionalmente dagli altopiani del Jammu e del Kashmir. Secondo la loro mitologia discesero dalle alte cime dell’Himalaya su richiesta del Re, perché gli portassero in dono il loro pregiato latte di bufala, principale prodotto dei pastori Van Gujjar. Nel corso del tempo si insediarono nelle ricche praterie dell’Uttarakhand, preziose per il pascolo del bestiame.

Intorno alla foresta protetta di Corbett vi sono oggi circa 37 insediamenti abitati da una popolazione di 340 famiglie. La maggior parte di esse si trova nel distretto di Nainital, dove sorge il villaggio di Tumadhia Katta.

In balia degli umori delle guardie

Nel nostro viaggio verso il parco naturale di Corbett incontriamo Safi Bhai, 42 anni, membro dell’Aiufwp (All indian union of forest working people), un sindacato nazionale che supporta i diritti delle comunità forestali. Ci accompagna nel villaggio di Tumadhia Katta, dove risiede.

Saphi è il pastore della casa, si sveglia ogni mattina alle 5 per mungere i bufali e inizia la sua giornata con un denso chai (té) lattiginoso. Nella sua dimora, che si trova al centro di un’immensa prateria, ognuno ha un ruolo ben definito. Il figlio di 15 anni raccoglie il fieno per il bestiame, la figlia prepara la colazione e la madre ripulisce l’esterno della casa dalle erbacce.

I Van Gujjar del villaggio di Tumadhia, come molti altri nella zona, sono sempre stati discriminati dalle istituzioni dell’Uttarakhand, stato che non ha mai riconosciuto la comunità nomade come gruppo indigeno.

Considerati estranei nella loro terra, sono maltrattati dal dipartimento forestale che ha sempre esercitato un potere di tipo feudale sulla comunità. Sempre in balia degli umori delle guardie, i Van Gujjar trascorrono la vita pagando imposte e sanzioni ingiustificate al dipartimento che, in cambio di permessi, come quello per il pascolo, richiede tangenti sotto forma di latte, burro, yogurt e altri prodotti.

Proteggere zone eco fragili con espulsioni

Le problematiche nel villaggio sono aumentate dopo la revisione del 2011 delle linee guida per l’istituzione di una zona eco fragile (Esz, eco sensitive zone) intorno all’area protetta: una fascia di 10 km lungo il suo perimetro. Nonostante l’Esz abbia la potenzialità di regolare le attività commerciali e di sviluppo, alcune organizzazioni ambientaliste e sociali la considerano problematica perché non dice niente sulle necessità degli abitanti.

Nel 2015 il ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste ha iniziato a fare pressione sul processo di istituzione dell’Esz perché venisse accelerato, tanto che il 19 dicembre 2016, la corte suprema dell’Uttarakhand ne ha disposto la creazione. Nella stessa ordinanza, il tribunale ha ordinato anche l’immediata espulsione della comunità dei Van Gujjar dalla zona, poiché considerati «responsabili di incendi e altre attività illecite all’interno e ai margini dell’area protetta».

Ashok Chaudhary, il presidente dell’Aiufwp, ha dichiarato al Times of India che «oltre ad essere un’affermazione infondata, non dobbiamo dimenticare che i diritti dei Van Gujjar sono protetti dal Forest rights act del 2006, che deve essere ancora riconosciuto sia nei fatti che nello spirito».

In seguito al pronunciamento della corte, Saphi Bhai, già nel mirino delle autorità locali per il suo attivismo, nel febbraio 2017 è stato sfrattato con la sua famiglia dalle forze di polizia e dalle guardie forestali. Il loro villaggio è stato assalito con violenza, gli abitanti umiliati e le case distrutte.

La moglie di Saphi Bhai è stata vittima di abusi sessuali, i suoi figli sono stati brutalmente molestati e lui pestato e poi arrestato.

Resort turistici vs nativi

Mentre da un lato le comunità locali soffrono lo stigma di stranieri nella propria terra e sono vittime di violenze, dall’altro investitori e turisti sembrano essere accolti nelle aree protette a braccia aperte. Il parco, infatti, ospita 77 resort sorti per la maggior parte lungo i corsi dei due fiumi principali che attraversano la zona cuscinetto della riserva, il Ramganga e il Kosi. Questi resort, che possono accogliere fino a 3.200 persone, sono tutti privati e, secondo un reportage prodotto nel 2012 dalla testata locale Tehelka, intitolato Corbett: now on sale, gli appezzamenti di terra che si trovano lungo i 17 km che vanno dal fiume Dumunda fino a Marcha sono tutti in vendita. Inoltre quasi tutte le località turistiche sono recintate e il 70 per cento di esse sono state costruite in terre che originariamente erano coltivate dalle comunità locali. Ma chi vende queste terre che dovrebbero essere protette dal dipartimento forestale?

 

Crimine organizzato e forestali corrotti

Nel corso delle nostre ricerche sulle violazioni del Forest rights act intorno all’area protetta di Corbett, incontriamo Nainital P. C. Joshi, un attivista che abita nella città di Ramnagar, ai margini del parco. Secondo Joshi queste terre erano precedentemente di proprietà delle numerose comunità che abitavano in questi territori. «Col tempo la maggior parte dei villaggi sono stati evacuati per la creazione della riserva delle tigri; altri sono stati minacciati dalla mafia edilizia, e la maggior parte dei villaggi oggi presenti nella zona cuscinetto sono quasi disabitati».

Joshi mi racconta che un’organizzazione criminale sta inducendo i contadini, tramite minacce, a vendere le loro terre per un prezzo irrisorio di 125 euro per ettaro. Lo scopo è quello di rivendere in seguito quelle stesse terre a prezzi commerciali per lo sviluppo di attività turistiche.

Le stesse notizie vengono riportate da Tehelka che documenta il coinvolgimento del dipartimento forestale nella vendita privata di terreni teoricamente protetti e nel rilascio di permessi per lo svolgimento di attività lucrative all’interno del parco. Rajiv Bhartari, direttore del parco dal 2005 al 2008, racconta a Tehelka che durante il suo mandato aveva sollevato diverse obiezioni sugli accordi presi dal suo predecessore con alcuni privati, in particolare con il Leisure Hotel che utilizzava parte della riserva delle tigri come sua proprietà privata con libero accesso al fiume e alle strade forestali anche durante la notte. Bhartari, in seguito alle sue denunce, è stato trasferito.

L’ipocrisia del turismo sostenibile

Mentre si vietano attività commerciali alle comunità locali, il turismo, sotto la forma di «eco turismo», viene giustificato come attività sostenibile in grado di migliorare le condizioni di vita delle comunità locali.

Di fatto, però, i grossi interessi legati al turismo così come ad altre attività lucrative all’interno della foresta, non fanno altro che ledere sia i diritti delle comunità indigene dei Van Gujjar, sia quelli della natura stessa.

Molti resort stanno estraendo pietre e sabbia dal letto dei fiumi, incidendo sull’intero equilibrio idrico. Mentre, la pesca nel fiume Ramnagar, autorizzata dal 2004 con il pretesto di generare profitto per le comunità locali, è diventata un’attività eco sostenibile promossa dai vari resort per i loro ospiti appassionati di quello sport.

Tutto questo va a discapito degli animali da proteggere che non sono liberi di accedere a quei luoghi recintati da alti muri. Motociclette, musica ad alto volume e matrimoni sontuosi si svolgono nelle località alla periferia della riserva, in violazione delle disposizioni conservazioniste che sono invece perentorie per quanto riguarda lo sfratto della comunità dei Van Gujjar dalla loro terra.

In definitiva, i Van Gujjar, che vengono considerati invasori delle aree protette e nemici della conservazione ambientale, vivono in case fatte di mattoni di terra cruda, consumano solo cibo vegetariano e conducono una vita semplice senza fuoristrada, macchine, strade asfaltate o altre fonti di inquinamento. Al contrario, i promotori del turismo sostenibile sono stanziati all’interno della zona protetta del parco con numerosi resort di lusso, strade asfaltate e attività che minacciano la zona eco fragile della riserva delle tigri.

Il richiamo sordo della notte

I Van Gujjar, il cui nome significa «Gujjars che vivono all’interno della foresta», non vengono riconosciuti come abitanti nativi di queste zone e, ancor meno, come loro protettori, nonostante la foresta rappresenti il loro rifugio, il loro tempio e il loro dio. «Noi ci prendiamo cura degli alberi e dei nostri bufali, e loro si prendono cura di noi», commenta ad alta voce Safi Bhai. Durante la nostra visita al villaggio di Tumadhia, i suoi abitanti si riuniscono nel patio della casa di Saphi per discutere sulle strategie e i nuovi sviluppi politici da intraprendere. «Siamo stanchi di queste accuse di intrusione nella zona protetta. Vorremmo solo vivere una vita sicura e il governo dovrebbe darci l’opportunità di farlo». Mentre ci appisoliamo su una piccola branda postaci sulla terrazza della casa, respiriamo il silenzio scandito dai dolci mormorii della notte: la brezza smuove le erbacce da togliere al mattino; sentiamo il muggito del bufalo in attesa di esser munto; l’acqua del fiume si rinfresca nella notte per essere riposta nelle ampolle dalle donne. C’è anche il leggero ronfo di Saphi Bhai che riposa i suoi sensi per potersi prendere cura della foresta al sorgere del sole. «Siamo come animali», dicono i Van Gujjars, «noi eseguiamo il richiamo della natura e la natura ci restituisce i suoi frutti». Se il governo indiano rispondesse al grido di queste popolazioni, se ascoltasse i rumori della notte e il richiamo della foresta, forse potrebbe creare delle alternative valide e nuovi modelli di protezione ambientale nel rispetto della natura e della vita dei suoi abitanti.

Ma questo non cambierà, finché verranno salvaguardate le sole tigri per farne un’attrazione turistica.

Eleonora Fanari

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  14. Jay Mazoomdaar, Corbett. Now on Sale, Tehelka, 12/05/2012.
  15. Tapti Meenal, Pathak Neema, No country for pastoralist, The Wire, 14/02/2018.
  16. N. Pathak, E. Fanari, To Protect Human Rights, the government should strategies to coexist first, No to Evict, The Wire, 12/03/2018.
  17. Soumitra Ghosh, Legal and illegal logging behind deforestation in India, World Rainforest Movement, Bulletin 98, 13/09/2005.
  18. Soumitra Ghosh, Compensatory Afforestation: Compensating loss of forest or disguising Forest Offsets?, Economic and Political Weekly, 23/09/2017 vol liI no 38.

 


Questo dossier è stato firmato da:

  • Eleonora Fanari – ricercatrice indipendente, attivista ambientale. Laureata in Lingua e letteratura hindi all’Università orientale di Napoli. Dopo un master in Sociologia alla Jawaharlal Nehru University, New Delhi, ha iniziato a collaborare con varie organizzazioni indiane no profit, in particolare Kalpavriksh, interessandosi principalmente dei problemi legati all’esclusione sociale e al diritto alla terra.
    Negli ultimi anni si è interessata dei conflitti socio ambientali derivanti dalla contraddittorietà di molti processi di sviluppo nel sub continente indiano, con particolare riferimento alla complessità dei cosiddetti forest rights. Ora lavora come ricercatrice presso l’Universita autonoma di Barcellona, Spagna, nel progetto di ricerca dell’EjAtlas/EnvJustice, una piattaforma interattiva che cataloga migliaia di storie di resistenza locale. Per l’EjAtlas continua ad affrontare le tematiche relative alla conservazione ambientale e ai conflitti derivanti da essa.
  • A cura di – Luca Lorusso, giornalista redazione MC.
  • Archivio MC: Survival International, La loro terra, il nostro futuro, dossier MC agosto-settembre 2017.

 




Libia 2011: l’anno del non ritorno

Dossier scritto da Angela Lano e curato da Marco Bello


Indice

Introduzione: Intrico libico.
•  La voce del ricercatore.
•  L’insurrezione del 2011 e l’intervento della Nato: Primavera o inverno?.
•  Preparazione all’estero.
•  La rivolta della Cirenaica.
•  La risoluzione Onu e la Libia «liberata».

Cosa pensano i libici all’estero.
•  Chi ha iniziato la rivolta?
•  Italia – Libia, amici o nemici?
•  Come vediamo l’Italia.

Danni economici
Breve cronologia.

Il complotto dell’Occidente: Attacco alla Libia A chi ha giovato?
•  Francia principale mandante?
•  Le riserve auree di Gheddafi nel mirino.
•  Sostegno dei ribelli e protezione dei civili?

Dopo la guerra il caos: Il paese non paese.
•  Islamismo politico nella rivolta.
•  Jihadismo «infiltrato».

Nota redazionale.


Introduzione: Intrico libico

Tentare di ricostruire cause ed effetti, storici e attuali, del caos libico non è affatto facile né scontato: tanti sono gli attori e gli interessi in gioco, quante le linee di analisi e le prospettive di lettura. Dal 2015 a oggi, nell’ambito di una ricerca accademica che stiamo svolgendo sulla rivolta in Libia del 2011, abbiamo incontrato decine di libici sia in Tunisia sia in Europa (per ragioni di sicurezza non ci siamo recati in Libia). Ognuno di essi ci ha fornito versioni e spiegazioni diverse del dramma libico: dalla questione delle qabile (tribù o gruppi etnici tradizionali – ndr) e lotte interne, alle politiche del vecchio regime di Muammar Gheddafi, alle interferenze di agende esterne (occidentali e arabe), all’islamismo radicale.

Ci sono quelli che vedono in Gheddafi e nel suo quarantennale regime la responsabilità del disastro, e altri che puntano il dito contro i piani neocoloniali occidentali, quelli volti a cambiare regime per accaparrarsi le risorse e smontare i piani panafricani del Colonnello. C’è chi lo odia a morte e chi lo esalta. Chi ringrazia la Nato per l’aiuto alla rivolta (tramite i bombardamenti) e l’appoggio ai ribelli, e chi invece chiede l’apertura di un’inchiesta per crimini contro l’umanità nei confronti della stessa Nato, Usa, Francia, Gran Bretagna. C’è chi vede nelle (contraddittorie) politiche panafricane del Fratello Leader (sempre Gheddafi) e nei suoi progetti di dinaro d’oro africano le vere ragioni del rovesciamento del regime.

Dopo anni di letture, incontri, interviste e analisi di dati, siamo portati a credere a un insieme di cause, interne ed esterne, sulle quali hanno prevalso, tuttavia, le agende occidentali per il cambio di regime.

L’effetto evidente di tante e molteplici azioni è che il paese, da sviluppato e relativamente prospero nell’era gheddafiana, ora affonda sempre di più nella tirannide di milizie, gruppi criminali, qabile, partiti, formazioni islamiste dalle più violente alle «moderate», ciascuno con propri progetti e obiettivi che poco hanno a che fare con il bene comune
dell’ex jamahiriyya (Al-Jamāhīriyyah al-ʿArabiyyah al-Lībiyyah, una sorta di «repubblica delle masse»).

Alla fine, come molti degli intervistati hanno tristemente ammesso, pare di poter dire che «si stava meglio, quando si stava peggio», cioè quando c’era Gheddafi.

18/02/2011, Tripoli, sostenitori di Gheddafi. © MAHMUD TURKIA / AFP

La voce del ricercatore

Londra, febbraio 2019. Incontriamo Tarek Megerisi, ricercatore anglo-libico, presso il suo ufficio all’European council on foreign relations di Londra. È figlio di un libico e di una palestinese, e l’unica volta in cui ha potuto recarsi in Libia è stato nel 2011: «Non sono né pro governo di Tripoli né pro governo di Tobruk (i due governi che si contendono il paese, nda) – ci tiene a premettere -, ma entrambi mi considerano persona non gradita, quindi non posso più andarci. Gheddafi era un dittatore, ma vista la situazione attuale, la qualità della vita dei libici era migliore sotto il suo regime che oggi. Abbiamo sostituito un Gheddafi con altri dieci».

Questa amara constatazione non nasconde l’avversione per il regime di Gheddafi, nelle cui politiche Megerisi, come altri, vede la responsabilità della tragedia libica attuale, non salvando nulla: neanche lo sviluppo degli anni ’70, dovuto alle ingenti rimesse petrolifere.

Per il ricercatore, il Colonnello era una figura egocentrica che per 40 anni ha concentrato su di sé ogni potere, agendo come un padre padrone, usando la vecchia e collaudata tattica del divide et impera per tenere a bada le qabile e le varie tendenze eterogenee e centrifughe del paese. «Ha fatto solo danni – afferma Megerisi -, portando via proprietà e capitali alle classi medie e alte e distribuendole a quelle popolari ha imposto una sorta di socialismo dei beni di produzione e ha spazzato via l’iniziativa privata; ha creato problemi all’estero, in vari stati africani, imponendo le sue visioni e interferendo nella vita politica di vari governi. La gente non ne poteva più e ha colto l’occasione per ribellarsi, chiedendo l’aiuto militare alla Nato. Aiuto che è stato fondamentale per la liberazione dal regime».

Questa lettura senza sconti dei 40 anni di jamahiriyya è condivisa da diversi libici intervistati, scrittori e giornalisti, economisti, impresari, ex funzionari di ambasciata, islamisti, giuristi e così via. Ma è avversata da altri, che vedono le reali cause del caos attuale nelle decennali sanzioni Usa, che hanno portato le gravi crisi economiche, e quindi anche politico-sociali, del paese, nei piani economici e strategici franco-britannico-statunitensi, ma anche di Qatar e Emirati Arabi Uniti.

 Angela Lano

Bengasi, manifestazione contro Gheddafi in marzo 2011. © ROBERTO SCHMIDT / AFP


L’insurrezione del 2011 e l’intervento della Nato: Primavera o inverno?

La sollevazione popolare libica del 2011 fu diversa dalle altre Primavere arabe. Preparata all’estero da esuli. Le prime rivolte scoppiano a Bengasi, da sempre città ribelle al regime di Gheddafi. Per impedire il «bagno di sangue» l’Onu autorizza un intervento militare occidentale. Gheddafi viene catturato e ucciso dai rivoltosi. La motivazione della Nato è «proteggere i civili libici», vittime di massacri e stupri di massa.

In concomitanza con le «primavere arabe» in Tunisia, Egitto e altri paesi, anche la Libia del colonnello Muammar al-Gheddafi a febbraio del 2011 viene travolta dalla rivolta «popolare»: le proteste scoppiano a Bengasi e si diffondono in altre città, scatenando scontri tra le forze di sicurezza governative e gli insorti. A marzo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite autorizza una no-fly zone sulla Libia e attacchi aerei per «proteggere i civili» di cui la Nato assume il comando, sotto lo slogan «responsibility to protect» (responsabilità per proteggere). A luglio, l’International contact group on Libya riconosce ufficialmente come governo legittimo il principale gruppo di opposizione, il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), formatosi a febbraio 2011. Ad agosto, formazioni militari di rivoltosi addestrate da Francia, Gran Bretagna, Qatar e Usa, delle quali fanno parte membri di al Qaida, appoggiati dai bombardamenti della Nato, entrano a Tripoli dichiarandone la «liberazione».

Delle gesta di queste truppe, parla Sam Najjar, un combattente libico-irlandese, nel suo libro «Soldier for a summer». Con Najjar abbiamo dialogato sui social media, mentre abbiamo incontrato il fratello Yusuf, a Manchester, nell’agosto 2015, anche lui reduce dai combattimenti in Libia. La città britannica è uno stato dentro lo stato, rifugio e sede di varie attività dell’islamismo politico, dal più moderato al più pericoloso e aggressivo (cfr. MC ottobre 2017).

Le rivolte arabe non sono state tutte uguali, ognuna si è svolta con dinamiche ed esiti differenti: per quelle in Tunisia ed Egitto si è trattato di autentiche sollevazioni popolari di massa, per quelle libica e siriana è diverso, e gli effetti di quegli eventi saranno duraturi.

La tendenza, scrive la professoressa Michela Mercuri nel suo libro «Incognita Libia» è d’inserire «la rivolta libica nell’ambito delle cosiddette primavere arabe, i movimenti di protesta che, tra il 2010 e il 2011, hanno interessato molti stati del Nord Africa e del Vicino Oriente. Tuttavia, non è possibile assimilare tout court i rivolgimenti del 2011 a un unico grande movimento. […] Ogni rivolta ha avuto le sue cause, i suoi sconvolgimenti e i suoi esiti e per questo, oggi, i paesi che all’inizio avevamo indistintamente chiamato “Primavera araba” appaiono come un prisma mutevole in costante evoluzione. […] Da questo punto di vista sarebbe un errore interpretare gli eventi libici del 2011 come mere contingenze di quanto stava accadendo negli stati confinanti. Nell’ex jamahiriya le proteste hanno assunto una connotazione peculiare rispetto a quelle degli altri paesi interessati dal fenomeno e per questo la Libia rappresenta una sorta di “eccezione regionale” sia per il modo in cui le rivolte hanno avuto inizio sia per come si sono evolute sia, infine, per le loro conseguenze».

© MAHMUD TURKIA / AFP

Preparazione all’estero

In particolare, la rivolta libica è una sollevazione che, seppur partita da un diffuso malcontento generato da repressione, crisi economica, corruzione e da richieste di maggiori libertà, è stata preparata per anni all’estero – da esuli libici in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti -, e poi prontamente infiltrata da forze dell’islamismo radicale sia presenti sul campo sia arrivate da fuori, appoggiate militarmente e finanziariamente da Parigi, Londra, Washington, Abu Dhabi e Doha, così come molti mercenari. Una sorta di complotto organizzato con pazienza da varie forze e attori, libici e internazionali, che hanno aspettato il momento opportuno per agire.

Questo momento che si presenta il 15 febbraio 2011, con l’arresto da parte del regime dell’avvocato Fathi Tarbel, legale delle famiglie dei prigionieri massacrati nella prigione di Abu Salim il 26 giugno 19961. È il casus belli che scatena le rivolte a Bengasi caratterizzate da scontri tra i manifestanti e le forze di sicurezza che causano diversi morti. Le proteste coinvolgono anche El Bayda, nella Libia orientale, dove vengono uccisi due manifestanti, e Zintan, a Sud Ovest di Tripoli.

Le manifestazioni vengono organizzate via social network come in altri paesi arabi. Il loro obiettivo è chiedere riforme in campo economico, sociale, abitativo, lavorativo, e lottare contro la corruzione. La popolazione scesa nelle piazze non chiede un cambio di regime. Il 17 febbraio, il quinto anniversario delle manifestazioni a Bengasi contro le vignette anti islamiche pubblicate su un giornale danese2, viene dichiarato «Giorno della collera». Nel frattempo, però, lo slogan è diventato il regime change, progetto caro a vari gruppi di oppositori, e a Usa, Gran Bretagna e Francia.

Sulla scia delle rivolte nei paesi vicini, nel gennaio del 2011 Gheddafi ha avviato alcune riforme economiche: riduzione dei dazi, delle tasse sul cibo importato e su altri prodotti, con l’intento di evitare lo scatenarsi del malcontento, ma la mossa risulta infruttuosa.

I giornali occidentali e Al Jazeera parlano di «primavera libica», ma a sollevarsi contro il regime, più che i giovani o i lavoratori (che in Libia sono prevalentemente stranieri), come invece sta accadendo in Egitto e in Tunisia, sono le qabile, in particolare quelle della Libia orientale da sempre avverse al governo, gruppi progressisti e liberali, e islamisti. Ovvero i vecchi nemici di Gheddafi. Quando infatti la popolazione vede il degenerare degli eventi e le manovre occidentali, scende in piazza a sostenere il governo contro quella che pare a molti un’interferenza esterna.

Ajdabiya, ribelli sotto attacco delle forze di Gheddafi. © ARIS MESSINIS / AFP

La rivolta della Cirenaica

Bengasi, la «vecchia strega» anti jamahiriyya: le prime manifestazioni contro il regime partono da lì, dalla capitale della Cirenaica (Nord Est) e sono violente. Gheddafi chiamava Bengasi la «vecchia strega» in quanto ribelle e spina nel suo fianco: è infatti abitata da qabile che gli sono ostili e filo monarchiche3.

Alcuni tra i libici intervistati e che provengono da quell’area raccontano che il rais puniva questa regione tenendola in condizioni peggiori di altre e investendo meno nella ridistribuzione dei proventi del petrolio. Un alto tasso di disoccupazione e carenza di appartamenti aveva contribuito a creare una situazione pesante.

Nonostante la Rivoluzione del settembre 1969 nella quale giovani ufficiali guidati da Gheddafi presero il potere senza spargimento di sangue, deponendo Re Idris, e la successiva lotta contro il qabilismo, considerato una delle cause di arretratezza del paese, la Libia ha continuato a essere dominata da diverse e potenti famiglie in antagonismo e in conflitto tra di loro. Famiglie che il Fratello Leader riusciva a gestire con il metodo «del bastone e della carota» e con la politica del divite et impera.

Alcuni studiosi leggono, infatti, la Rivoluzione del 1969 come la rivolta di alcune qabile contro quelle della Cirenaica e dei Senussi, altri come un colpo di stato contro il potere del qabilismo in generale. La rivolta del 2011 sarebbe una «controrivoluzione» o ripresa del potere delle vecchie forze.

Di fatto il Colonnello, abbattuto il regime del Regno senussita alleato dell’Occidente, e il sistema di clientele, ne aveva creato uno nuovo che la Cirenaica, con le sue potenti e storiche famiglie, non aveva mai pienamente accettato. Anche il nuovo assetto, come affermano molti libici incontrati, si basava sul clientelismo e l’appartenenza a questo o a quel clan, e la distribuzione dei proventi del petrolio era vincolata all’aderenza e alla fedeltà alla Rivoluzione e a Gheddafi.

Dunque, la Cirenaica, penalizzata dal regime e piena di risentimento, dà vita alla rivolta, che poi si estende al resto del paese. Scrive Mercuri: «Nel sistema redistributivo troppo era stato preso dai fedeli del Colonnello; la sua tribù, assieme ad altre come quella dei Meqarha del compagno di rivoluzione Abdelsalam Jalloud, poi “allontanato” dal rais, avevano monopolizzato pressoché tutti i settori dell’economia al prezzo di sanguinose repressioni. Per tutti questi anni i poteri della Cirenaica marginalizzati e repressi nel risiko tribale, hanno covato la voglia di prendersi una storica rivincita sul colpo di stato, considerato dai fieri senussi un golpe dei libici occidentali».

La risoluzione Onu e la Libia «liberata»

La comunità internazionale risponde a quello che i media definiscono «bagno di sangue», repressione violenta da parte del regime contro i manifestanti, con la risoluzione 1970 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, il 26 febbraio 2011, che impone sanzioni a Gheddafi e chiede alla Corte di giustizia internazionale di indagare sulla repressione contro i cittadini. Poco dopo giustifica gli attacchi aerei e richiede l’immediato cessate il fuoco, imponendo anche il divieto dei voli sullo spazio aereo libico e ulteriori sanzioni.

La lega araba appoggia la risoluzione Onu e il Qatar e gli Emirati Arabi forniscono aeroplani di supporto alla Nato.

Il 20 ottobre successivo, Gheddafi viene catturato e ucciso brutalmente, nel frattempo, altri combattenti prendono Sirte, sua città natale. Il 23 ottobre, il Cnt dichiara la Libia ufficialmente «liberata» e annuncia i piani per indire democratiche elezioni entro otto mesi. Nel novembre 2011, con l’accusa, mai provata, di «crimini contro l’umanità», viene catturato e imprigionato Saif al-Islam, il figlio di Muammar, nonché intellettuale e riformista, che negli ultimi anni ha lavorato per un’apertura libica verso i diritti politici e civili e ha scarcerato numerosi oppositori dell’islamismo radicale imprigionati dal regime.

Ufficialmente, la fine della guerra contro il regime di Gheddafi avviene nell’ottobre del 2011, propagandata come una «vittoria» dal presidente francese Nicolas Sarkozy, dal primo ministro britannico David Cameron e dal segretario di stato Usa Hillary Clinton, di cui si ricorda il commento, accompagnato da risata: «Siamo venuti, abbiamo visto, è morto», in riferimento all’uccisione del Colonnello.

Secondo le loro dichiarazioni, l’intervento militare sotto l’egida della Nato era l’unica strada per «proteggere» la popolazione civile dai «massacri» del regime e dagli «stupri di massa» che le truppe di Gheddafi, alle quali sarebbe stato preventivamente fornito il viagra, avrebbero compiuto contro le donne libiche in città e villaggi. Questi orrori, mai effettivamente provati, sono stati la giustificazione ufficiale per la guerra.

 Angela Lano

Vicino a Bengasi il 21/03/2011 dopo un attacco aereo francese contro le forze di Gheddafi. © PATRICK BAZ / AFP


Cosa pensano i libici all’estero

La voce di tre libici che vivono all’estero. Il loro sentire sul perché della guerra civile e dell’appoggio esterno. La loro preoccupazione sulla situazione attuale.

Iran Sarah (il nome è di fantasia) è una libico italiana di 60 anni. Viaggia sovente in Libia dal 2002, per motivi familiari e di lavoro. Durante la guerra civile, nel 2014 ha perso un fratello.

«In Libia ora c’è guerra tra gruppi, milizie: mio fratello e mio nipote sono stati uccisi da bande, perché non volevano unirsi a loro. Il problema sono i due governi e la lotta tra di loro (la Libia ha oggi due uomini forti: Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar, ndr). Sono contraria a un governo a Tobruk o a Sirte o a Bengasi. Deve essere a Tripoli. Il governo di Tobruk è riconosciuto dall’Europa perché ci sono i loro amici, ma è Tripoli la capitale.

In Libia dove trivelli c’è petrolio. Sono circa sei milioni i libici e se Gheddafi avesse ridistribuito i proventi del petrolio, non gli avrebbero fatto guerra, ma lui privilegiava alcuni contro gli altri. Comunque, rispetto ad ora, sotto il regime si stava meglio, non c’era tutta questa violenza».

Esharef A. Mhagog, 45 anni, musicista libico di Tripoli, in Italia da 31 anni. «Nella guerra civile ho perso un fratello. In Libia c’è una brutta situazione. Siamo stati ingannati dall’Occidente. Prima ci credevo alla rivoluzione, sapevo cosa volesse dire il regime – avevo studiato la storia della Libia -, ma non pensavo che con questa scusa ci potessero ingannare. Sono tornato nel mio paese nell’ottobre 2012 e ho trovato una situazione familiare molto divisa: chi era pro chi era contro la rivoluzione.

Per me è stato un trauma. Io e papà eravamo a favore, tutto il resto pro Gheddafi. Nessuno di noi era mai stato perseguito dal regime, anzi, tutta la famiglia lavorava per il governo. I miei fratelli mi telefonavano in Italia per tranquillizzarmi: “In Libia va tutto bene”. Ma io cercavo notizie. Ho scoperto tutto andando là. Ho saputo dopo anche della morte di mio fratello: era un poliziotto ed era morto mentre faceva il suo turno in pattuglia. Faceva la guardia, a Tajura, il 20 agosto 2011, quando dei cecchini hanno aperto il fuoco contro la sua auto. Era sposato e aveva un figlio di sei mesi.

In Libia c’è una confusione, ci siamo liberati di un dittatore, è vero, ma si è creato un vuoto. Chi lo può riempire? Ci sono milioni di armi che circolano su una popolazione di sei milioni di persone. Passeggiavo con i miei cugini che giravano con il kalashnikov. Loro se la ridevano, ma io pensavo: “Guarda a che punto siamo arrivati”. Prima non era così, ora una rissa per banali motivi si trasformava in guerra di quartiere. Un caos. I mercenari, foreign fighters, sono arrivati da ovunque».

N.S.M., nato a Tripoli nel 1977, avvocato con un dottorato a Londra in diritto. Era in Libia durante la rivolta del 2011.

«Non fu una rivoluzione ma un conflitto interno. Il risultato è stato negativo se guardiamo la situazione attuale. Quando scoppiarono i disordini sapevo che sarebbe successa la stessa cosa che in Iraq. Dissi ai miei amici: “Ricordatevi dell’Iraq”. Non si tratta di diritti umani – che potrei capire – ma di coinvolgimento della Francia di Sarkozy, che aveva i suoi obiettivi e voleva il petrolio libico. Le potenze occidentali parlavano di “proteggere la popolazione”, ma ciò che è successo e quante persone sono morte dimostrano il contrario. Fu ed è solo un gioco politico».

Chi ha iniziato la rivolta?

Il cantante libico Esharef. © Angela Lano

Sarah: «Le prime a ribellarsi contro Gheddafi furono le qabile di Bengasi; seguirono quelle di Sirte, Sabha, poi Tripoli. Zu’ara, Jbal e varie altre aree e qabile odiavano Gheddafi perché al potere non erano loro.

Prima tutti avevano paura di Gheddafi, ora si spaventano tra di loro, se non sono d’accordo gli uni con gli altri. In ogni città c’è uno che vuole comandare. C’è diffusione di armi tra tutti, anche tra i giovani. Nei mercati, tra frutta e verdura, trovi banchi con armi.

Gheddafi non era amato in Occidente, perché non lasciava spazio a Usa e Israele. Non aveva amici nei paesi del Golfo. A molti libici, invece, piaceva».

Esharef: «La Nato e i francesi hanno armato la parte orientale della Libia, che ha poi ringraziato Sarkozy. Se non avessero iniziato a bombardare, il 19 marzo 2011, Gheddafi avrebbe raso al suolo Bengasi: ha sempre detestato l’Est del paese. Lui fu vittima di un attentato, negli anni ‘90, in quell’area e promise vendetta: tagliò la corrente, i viveri. Era un dittatore e giocava sulle divisioni. Tutti sapevano che lui odiava la parte orientale e che dunque la rivolta doveva iniziare da lì. Nella parte occidentale non potevano fare niente perché era controllata dall’esercito. I libici orientali sono stati armati dagli egiziani, dai francesi e dai Fratelli Musulmani (gruppo islamista), altre vittime della persecuzione di Gheddafi per tanti anni.

Adesso non si capisce più niente. Ci sono due eserciti. Nel 2014 Haftar ha creato un esercito ed eseguito l’Operazione Dignity. Tutti aderirono, tranne quelli di Misurata, che decisero di prendere il potere, bombardando l’aeroporto. Ci siamo così trovati ad avere due governi diversi: uno illegale a Tripoli e l’altro legale a Tobruk. Nel giugno 2014 si sono fatte le elezioni, e hanno vinto i moderati. I Fratelli Musulmani di Misurata-Tripoli non hanno riconosciuto l’esito elettorale e hanno cacciato via gli eletti, che si sono rifugiati a Tobruk. I Fratelli hanno preso il potere a Tripoli, non accettando la sconfitta».

N.S.M.: «Nel periodo di Gheddafi non si stava male: molte persone volevano solo più diritti ed educazione. Ma qualcuno dentro e fuori della Libia ha manipolato e usato tali richieste, e da una protesta popolare per il raggiungimento di qualche diritto civile si è arrivati a distruggere il paese con la partecipazione di forze interne – soprattutto islamisti legati ai Fratelli Musulmani – e mercenari, criminali comuni, tutti finanziati dal Qatar e aiutati e organizzati da Usa, Francia e Gran Bretagna, che volevano un cambio di regime».

Angela Lano

Italia – Libia, amici o nemici?

Riportiamo la testimonianza di A.Q., giovane avvocato di Tripoli che ci ha richiesto l’anonimato. Il suo testo si concentra sui rapporti tra Italia e Libia.

«Gheddafi per l’Italia era un grande sostegno economico: i primi investimenti libici in Italia furono nel 1972. Poi dal ‘75 aiutò la Fiat, l’Eni, l’Unicredit e altre banche, anche per il finanziamento alle imprese. Invece l’Italia tradì tutto questo, lasciandosi coinvolgere nella distruzione della Libia. E perché? Perché la politica estera italiana non è autonoma al 100%. È un paese sconfitto nella
II guerra mondiale, fa parte della Nato, è sottomessa direttamente e indirettamente agli Usa, ha 113 basi Usa e Nato sul suo suolo. Non può sottrarsi alle guerre volute dalla “comunità internazionale”.

Il 30 agosto 2008 fu firmato il trattato di amicizia tra Italia e Libia nel quale venne sancita la non ingerenza interna tra i due paesi e il divieto di usare la forza, o gli spazi territoriali, contro l’altro. Tuttavia, tutto ciò è stato totalmente violato dall’Italia.

La propaganda affermava che la Nato è intervenuta per “proteggere” il popolo libico, ma secondo me è falso. Perché eliminare le istituzioni statali, le forze militari… A chi interessava?

La vera motivazione dell’intervento della Nato è stata quella di creare il disastro, l’instabilità. Un paese sottomesso, nel caos, per permettere meglio la spartizione.

Sirte, Gheddafi e Silvio Berlusconi, allora primo ministro, il 10/02/2004. © POOL / AFP

Come vediamo l’Italia

Da una parte noi libici continuiamo a vedere l’Italia come simbolo di fratellanza, amicizia, il più vicino al mondo arabo; dall’altra la vediamo come parte di un passato molto doloroso, che non è facile dimenticare. I fascisti costruirono i primi campi di concentramento in Libia. Massacrarono 300.000 persone tra il 1929 e il 1931, nell’Est della Libia, intorno a Bengasi.

Con l’accordo sopra citato molti dei libici pensarono a un punto di svolta con l’Italia: le scuse dell’allora presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi, che baciava la mano anche al figlio di Omar al-Mukhtar (guerrigliero libico che guidò la resistenza al colonialismo, ndr), simbolo dell’anti-italianismo. Il gesto italiano fu considerato una grande vittoria morale libica.

Tuttavia, dopo il 2011 si sentirono traditi, a pochi anni dall’accordo.

Ora è forte il sentimento anti italiano. Il governo di el-Serraj è considerato filo italiano, grazie allo sforzo dell’Italia è riuscito a insediarsi a Tripoli. Ma non è riconosciuto dal popolo libico. Non ha una vera efficacia sul territorio. Non riesce neanche a controllare un quartiere di Tripoli.

Ci sono i gruppi militari e le milizie che hanno il vero potere e controllano tutto. La Libia, che ha perso la propria sovranità, senza esercito, senza un servizio di intelligence, senza unità nazionale, non si può certo governare. Tantomeno dall’esterno.

Perché da 100 anni riceviamo solo danni dall’Italia? Tutte le azioni militari sono partite per colpire Tripoli dall’Italia.

Danni economici

Gli imprenditori italiani hanno perso un sacco di soldi. L’interscambio tra Libia e Italia, nel 2008, è arrivato a 20 miliardi di euro: il nostro paese è sempre stato importante per l’Italia.

Inoltre, 11.000 italiani lavorano in Libia. Tra le esportazioni italiane nel mondo arabo, la Libia era al primo posto.

Il 2 marzo 2009 Gheddafi aveva dichiarato di voler privilegiare l’Italia negli affari commerciali e negli appalti interni. Invece l’Italia ha partecipato alla sua distruzione. Più che fare gli interessi economici libici, Gheddafi aveva offerto benefici all’Italia.

Inoltre, fino al 2010, la Libia riusciva a controllare tutta la costa e l’emigrazione clandestina. Nel 2014 sono arrivati in Italia 140mila migranti, prevalentemente dalla Libia.

Se dal punto di vista economico la relazione Italia-Libia è stata positiva, il rapporto politico, sociale e mediatico è stato ben diverso. I media italiani hanno sempre denigrato Gheddafi, hanno accusato la Libia di inviare jihadisti, immigrati, ecc.

C’è troppa disinformazione, rifiuto di sapere, ignoranza voluta, eppure i prodotti italiani sono presenti in Libia, così come ristoranti e altri locali».

a cura di Angela Lano


Breve cronologia

© ROBERTO SCHMIDT / AFP)

1951, 24 dicembre – Proclamazione dell’indipendenza della Libia.

1969, 1 settembre – Un colpo di stato rovescia il re Idris. Muammar al-Gheddafi prende il potere.

1970, gennaio – Sono nazionalizzate le banche, le compagnie petrolifere e le proprietà dei coloni.

1973, gennaio – Lanciata la rivoluzione culturale islamica. Occupata la banda di Aozou, nel Nord del Ciad.

1977, 2 marzo – Instaurazione dello stato delle masse, al Jamahiriyya araba, popolare e socialista.

1982, marzo – Inizia l’embargo commerciale degli Stati Uniti.

1984, aprile – Rottura delle relazioni diplomatiche con la Gran Bretagna.

1988, 21 dicembre – Attentato contro aereo della Pan Am nei cieli di Lockerbie, in Scozia (270 morti).

2002, marzo – Inizio della costruzione del gasdotto Libia-Europa.

2009, 2 febbraio – Elezione di Gheddafi alla testa dell’Unione africana per un anno.

2011, 15-16 febbraio – Manifestazioni nella città di Bengasi. Il 17 febbraio i manifestanti reclamano le dimissioni di Gheddafi e sono repressi nel sangue.

2011, 21 febbraio – Bombardamento di Tripoli da parte dell’aviazione libica.

2011, 17 marzo – Risoluzione 1973 dell’Onu che autorizza il ricorso della forza per proteggere i civili libici, crea la no fly zone e aumenta l’embargo sulle armi. Il 19 marzo iniziano i bombardamenti degli occidentali contro Gheddafi. Il comando sarà della Nato.

2011, 21-22 agosto – Caduta di Tripoli, i ribelli del Cnt prendono la città.

2011, 15 settembre – 20 ottobre – Battaglia di Sirte. Il 20 ottobre Gheddafi è catturato e giustiziato sommariamente.

2011, 31 ottobre – Fine dell’operazione militare Nato.

2012, 6 marzo – La Cirenaica (Bengasi) dichiara la sua autonomia. Inizia il «caos libico».

2019, 27 febbraio – Sotto l’egida dell’Onu, al-Serraj e Haftar firmano un accordo di principo per organizzare nuove elezioni.

Hillary Clinton, segretaria di stato degli Usa con combattenti del concilio Nazionale di Transizione a Tripoli, 18/10/2011. © KEVIN LAMARQUE / POOL / AFP


Il complotto dell’Occidente: Attacco alla Libia. A chi ha giovato?

La diffusione delle mail di Hillary Clinton rivelano al mondo i retroscena della geopolitica Usa e Francese. L’intervento militare «a protezione dei civili libici» nascondeva l’avversione dei due paesi occidentali alle idee di politica monetaria di Gheddafi. Dal loro punto di vista, un progetto del rais di una moneta unica africana, sebbene assai improbabile, avrebbe messo a rischio la finanza mondiale.

Subito dopo la diffusione delle 3.000 mail sottratte dal server personale dell’allora segretario di stato Usa Hillary Clinton, nel dicembre del 2015, fu resa di pubblico dominio la ragione per la quale la Francia e gli Stati Uniti mossero guerra alla Libia: le riserve auree del paese e la salvaguardia del Franco Cfa.

Ma vediamo una di queste mail che data 2 aprile 2011, inviata a Clinton dal suo consigliere Sidney Blumenthal: «Il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento. Questo oro è stato accumulato prima dell’attuale ribellione e doveva essere utilizzato per stabilire una moneta panafricana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano è stato progettato per fornire ai paesi africani francofoni un’alternativa al franco francese (Cfa)».

Si tratta di una mail «declassified», cioè desecretata, che continua riportando il colloquio che Blumenthal aveva avuto con ufficiali dell’intelligence francese: «Secondo esperti questa quantità di oro e argento è valutata a oltre 7 miliardi di dollari. I servizi segreti francesi hanno scoperto questo piano poco dopo l’inizio dell’attuale ribellione, e questo è stato uno dei fattori che ha influenzato la decisione del presidente Nicolas Sarkozy di impegnare la Francia nell’attacco alla Libia. Secondo questi individui i piani di Sarkozy sono guidati dalle seguenti questioni: 1. il desiderio di ottenere una maggiore quota della produzione petrolifera della Libia; 2. aumentare l’influenza francese in Nord Africa; 3. migliorare la sua situazione politica interna in Francia; 4. fornire all’esercito francese l’opportunità di riaffermare la sua posizione nel mondo; 5. affrontare la preoccupazione dei suoi consiglieri sui piani a lungo termine di Gheddafi di soppiantare la Francia come potenza dominante nell’Africa francofona4».

Inoltre, in una precedente mail del 27 marzo 2011, Blumenthal parlava degli interessi francesi nel conflitto e citava «esperti» che avrebbero affermato che Sarkozy «sta facendo pressioni affinché la Francia emerga dalla crisi come principale alleato di qualsiasi nuovo governo che prenda il potere».

Francia principale mandante?

Di queste mail parla anche un’inchiesta della House of Commons britannica5 ripubblicando tali motivazioni, segnalando violazioni e chiedendo al governo spiegazioni. «La Francia guidò la comunità internazionale a portare avanti il caso dell’intervento militare contro la Libia nel febbraio e marzo 2011. La politica britannica seguì la decisione presa dalla Francia. […] Gli Usa erano piuttosto reticenti sul coinvolgimento militare […]. Gran Bretagna e Francia influenzarono gli Usa a sostenere la risoluzione 1973». E qualche riga più in là, il rapporto aggiunge che mancavano «dati e informazioni reali sulla situazione in Libia, sulla sua storia, struttura tribale e complessità regionale, e sui motivi per cui la rivolta era scoppiata a Bengasi e non a Tripoli», sottolineando che «su sei milioni di libici, i ribelli erano soltanto 30.000, e non tutta la popolazione», come millantato dai media internazionali e dai signori della guerra.

L’inchiesta evidenzia, inoltre, come Bengasi fosse la roccaforte dell’Islam radicale, rappresentato da forze qaediste coinvolte nella ribellione e dal Lifg (Libyan fighting group, una formazione jihadista, nella black list statunitense, britannica e libica da anni).

Il rapporto britannico mette in dubbio anche che Gheddafi abbia veramente minacciato il proprio popolo.

Dunque, le tanto propagandate «ragioni umanitarie» e di aiuto alla popolazione libica «massacrata», o in procinto di esserlo, erano solo menzogne per giustificare un intervento che aveva ragioni economiche, petrolifere e geopolitiche. E il regime change. Emergono altre conferme in altre mail raccolte in un articolo da Robert Parry, giornalista investigativo6, nel quale si parla dei crimini di guerra commessi dai ribelli e di attività di addestramento in Libia dall’inizio delle proteste (di queste operazioni parla anche uno dei combattenti, Sam Najjar, nel già citato «Soldier for a summer»), e di jihadisti di al Qaida embedded con le truppe ribelli appoggiate dagli Usa e dalla Nato. A tal riguardo vi è, inoltre, un’abbondanza di video che i jihadisti stessi registravano e diffondevano per celebrare le loro gesta.

Parry sostiene, non diversamente da altri7, che le informazioni su «massacri», «stupri», e viagra usato da parte delle truppe regolari libiche contro questa o quella città o popolazione erano soltanto «voci» o mera propaganda che secondo il giornalista sarebbero potute provenire dallo stesso Blumenthal.

Quando Najjar parla di queste cose nel suo libro, non fornisce mai una testimonianza, seppur indiretta, ma cita dei «sentito dire». Le accuse di genocidio sono propaganda usata dagli addestratori militari di quei giovani giunti in Libia da mezzo mondo arabo e occidentale.

Citando tale propaganda o rumors, Parry chiede retoricamente ai lettori: «Quindi pensate che sarebbe stato più facile per l’amministrazione Obama mobilitare il sostegno americano dietro questo “cambio di regime” spiegando come i francesi volevano rubare la ricchezza della Libia e mantenere l’influenza francese neocoloniale sull’Africa, oppure che gli americani avrebbero risposto meglio ai temi della propaganda su Gheddafi che distribuiva il viagra alle sue truppe in modo da poter stuprare più donne mentre i suoi cecchini bersagliavano bambini innocenti?». Purtroppo, un mese dopo, le voci, fatte circolare dagli ambienti del dipartimento di stato Usa, e mai veramente confermate, degli stupri e dei cecchini diventarono materiale accreditato per una presentazione all’Onu dell’allora ambasciatrice Usa Susan Rice, e da lì, probabilmente, ritornarono come «sentito dire» tra i ribelli in Libia.

In realtà, l’offensiva militare di Gheddafi era rivolta verso i gruppi dell’islamismo radicale, ma i propagandisti dell’amministrazione Obama trasformarono la questione in «Gheddafi che massacra il popolo della Libia orientale», giustificando così l’operazione «Responsibility to protect» guidata dagli Stati Uniti.

Insomma, come in tutti gli altri precedenti conflitti di rapina contro Africa e Medio Oriente, bisognava creare il mostro per poterlo poi distruggere, non differentemente da ciò che è avvenuto con l’Afghanistan, l’Iraq e da ciò che ancora accade con la Siria. Come spiega bene Enrica Perrucchietti nel suo interessante libro «False Flag», le notizie per il casus belli di turno sono spesso inventate, o da giornalisti, o da politici o dalle varie intelligence.

Tripoli, 19/03/2011, proteste contro le decisioni contro Gheddafi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. © MAHMUD TURKIA / AFP

Le riserve auree di Gheddafi nel mirino

Qual era la vera minaccia rappresentata da Gheddafi? Tale minaccia non aveva a che fare con le politiche anticoloniali libiche? E con il tentativo di estromettere il nostro paese dal business petrolifero, e non solo, in Libia? D’altronde, Italia, Francia e Gran Bretagna sono in antagonismo sullo sfruttamento della Libia da ben oltre un secolo.

Da anni Gheddafi tentava di stabilire una moneta africana indipendente e alternativa al franco Cfa – adottato da 14 stati africani (di cui due non francofoni: Guinea Equatoriale e Guinea Bissau) su proposta della Francia (Cfr. MC marzo 2019) – e al dollaro, svincolata dall’ingerenza e dagli interessi della finanza globale. Dalle mail citate, trapela che la Francia di Sarkozy riteneva il Colonnello e il suo regime una minaccia per la sicurezza finanziaria del mondo8.

Scrive Ellen Brown sul sito «Counterpunch»9, il 14 marzo 2016: «Dopo il 1944, il dollaro Usa veniva scambiato in modo intercambiabile con l’oro come valuta di riserva globale. Quando gli Stati Uniti non furono più in grado di assicurare riserve d’oro per il dollaro, negli anni ‘70 stipularono un accordo con l’Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) per “sostenere” il dollaro con il petrolio, creando il “petro-dollaro”. Il petrolio sarebbe stato venduto solo in dollari Usa, che sarebbero stati depositati a Wall Street e in altre banche internazionali. Nel 2001, insoddisfatto della contrazione del valore dei dollari che l’Opec stava ottenendo per il suo petrolio, l’iracheno Saddam Hussein ruppe il patto e vendette il petrolio in euro. Il cambio di regime seguì rapidamente, accompagnato da una distruzione diffusa del paese. Anche in Libia, Gheddafi ruppe il patto; ma fece molto di più che vendere il suo petrolio in un’altra valuta».

Sostegno dei ribelli e protezione dei civili?

Molti studiosi e analisti di geopolitica e storia della Libia si chiedono se l’intervento Nato fu fatto per proteggere i civili. Megerisi, Najjar e altri libici intervistati sostengono di sì e ringraziano l’Alleanza atlantica per la «liberazione» del paese.

Tuttavia, come evidenza, tra gli altri, il professor Maximilian Forte nel suo libro Slouching towards Sirte: Nato’s war on Libya and Africa, «l’obiettivo dell’intervento militare statunitense era quello di interrompere un modello emergente di indipendenza e una rete di collaborazione in Africa che facilitasse l’aumento dell’autosufficienza africana. Ciò contrastava con le ambizioni economiche, geostrategiche e politiche delle potenze europee extra continentali, in particolare negli Stati Uniti».

A suscitare ulteriori interrogativi sull’operazione militare occidentale contro la Libia, vi è la creazione, da parte dei «ribelli», di una «banca centrale» in sostituzione di quelle statali del regime. La decisione venne presa a marzo, un mese dopo l’avvio della rivolta e della guerra civile: in un incontro avvenuto il 19 di quel mese, il Consiglio di Transizione ne diede l’annuncio, insieme a quello della creazione di una nuova compagnia petrolifera. Inoltre, designò la Banca centrale di Bengasi come «autorità monetaria competente nelle politiche monetarie in Libia», nominandone anche il governatore.

Dunque, da quanto riportato qui sopra l’aggressione alla Libia non aveva come principale obiettivo la sicurezza della popolazione, ma quella delle banche e della finanza globale, del denaro e del petrolio.

Angela Lano

Ribelle anti Gheddafi. © MARCO LONGARI / AFP


Dopo la guerra il caos: Il paese non paese

Al contrario di un paese pacificato, la Libia vive oggi profonde divisioni. Il territorio è controllato da milizie e bande criminali che vivono di traffici vari. I fronti dei nemici di Gheddafi, dagli islamisti politici neoliberali ai comunisti ai jihadisti infiltrati, finita la guerra hanno iniziato a combattersi tra loro perché mancava un progetto politico comune. E nonostante le intelligence occidentali temessero l’ascesa dell’islamismo radicale, non esitarono a finanziare i jihadisti.

La Libia è tutt’altro che un paese unito e «democratizzato», come s’affannavano a descriverla tra la fine del 2011 e il 2014 i governi e i media occidentali: con la fine della jamahiriyya e l’assenza di un governo centrale riconosciuto da tutti, il paese si è trasformato in un rompicapo di regioni, qabile, città, gruppi, fazioni, tanti stati nello stato, mini sistemi feudali di potere e alleanze, tutti armati e con proprie milizie. Il paese è ostaggio di uomini armati, famiglie, partiti, islamisti, bande criminali. L’antica e mai sopita rivalità tra Tripolitania e Cirenaica, e tra le decine di qabile o gruppi etnici di cui si compone in gran parte la Libia fin dai tempi antichi, è riesplosa in modo devastante, aggravata dalla continua ingerenza politica ed economica delle potenze occidentali. Un paese frammentato e sofferente di cui non si può prevedere un futuro né prossimo né lontano.

Nelle città e nelle regioni di confine gli scontri hanno sovente come obiettivo il controllo di traffici illeciti: droga, petrolio, migranti. Intere aree della Libia, al Nord come al Sud, vivono della tratta degli immigrati provenienti dalle regioni subsahariane (Cfr. MC marzo e aprile 2018). Si tratta di una economia criminale emersa durante gli anni di guerra civile e che si radica sempre di più.

Islamismo politico nella rivolta

Le agende occidentali anti Gheddafi e i suoi progetti contro il neocolonialismo in Africa hanno trovato pronti e validi alleati in tutti quei, nemici che il Colonnello si era creato nei 40 anni di potere, tutti appartenenti, sostanzialmente, alle classi medio alte che le politiche di nazionalizzazione portate avanti avevano profondamente danneggiato: progressisti, conservatori neoliberisti, islamisti aderenti a movimenti dell’islam politico conservatore e neoliberista. Per gli islamisti e i comunisti c’era l’aggravante delle persecuzioni politiche a cui erano stati sottoposti per decenni. Tutti questi fronti si sono inizialmente coalizzati nella sollevazione contro il regime, per poi dividersi e trasformarsi in rivali a guerra Nato terminata. A questo si sono aggiunte le già citate antiche conflittualità tra le qabile.

L’islamismo politico, conservatore e vicino alle dottrine economiche neoliberiste, dal punto di vista religioso ha sempre considerato Gheddafi una sorta di innovatore miscredente. I partiti islamisti che hanno preso parte alle «primavere arabe» in Nord Africa e nel Medio Oriente, non sono «rivoluzionari», a livello economico, ma sostenitori della dottrina capitalista neoliberista (Cfr. MC gennaio 2013). Lo stesso capo del Lifg (Libyan Fighting Group), Abdelhakim Belhaj, che ad agosto del 2011 guidò la presa di Tripoli, di cui poi si nominò governatore, nel giro di poco tempo, da jihadista è diventato un businessman milionario con aereo privato.

Patrick Haimzadeh, ex diplomatico francese a Tripoli, scrive su «Le Monde Diplomatique» (ottobre 2012): «I principali partiti non islamisti sono descritti come “liberali”, ma tutte le parti sono accanite sostenitrici del sistema economico neoliberale. La più nota tra queste è la National forces alliance (Tahalouf al-quwwa al-wataniyya) guidata da Mahmoud Jibril. Questo ricco uomo d’affari ha lavorato a stretto contatto con il figlio minore del dittatore, Saif al-Islam Gheddafi, e ha aiutato a liberalizzare l’economia libica nei primi anni 2000, è stato un membro fondatore del Ntc insieme a Mustafa Abdel Jalil, ed è stato in contatto regolare durante la guerra civile con Sarkozy e Bernard-Henri Lévy (lo scrittore francese che ha richiesto l’intervento occidentale). Altro partito, nella regione orientale, è il National front party (Hizb al-jabha al-wataniyya), un tempo noto come Fronte nazionale per la salvezza della Libia, fondato da Muhammad Yousef Megharief nel 1981, quando era in esilio nel Regno Unito».

Jihadismo «infiltrato»

L’islamismo jihadista ha infiltrato la rivolta fin dai primi giorni, trasformandola in «cambio di regime». Nello scambio di mail tra Hillary Clinton e Blumenthal viene spiegata qual è la realtà, svuotata dalla propaganda: i ribelli, presunti innocenti, nella Libia orientale comprendono elementi jihadisti, come il Lifg e al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi), infiltrate nel consiglio nazionale di transizione. Dalle mail emerge che Sarkozy era molto preoccupato per questi aspetti e voleva anche capire «il ruolo dei Fratelli Musulmani nella leadership ribelle». Blumenthal spiega poi che le intelligence europee temevano che il nuovo governo potesse autorizzare l’Aqmi o altri gruppi islamisti a «creare piccole entità locali semi autonome o “Califfati” nelle regioni produttrici di petrolio e gas della Libia sudorientale»: nel marzo del 2011, erano tutti, politici e intelligence, coscienti del grave rischio rappresentato dalla presenza dell’islamismo radicale e dal terrorismo, pronti a sfruttare il vuoto di potere che la guerra occidentale stava creando in Libia. Tuttavia questa consapevolezza non li ha fatti arretrare, anzi. Milizie jihadiste sono state rifornite di ogni mezzo militare possibile.

Angela Lano

Note

(1) Ne scrive Hisham Matar nel romanzo «Il Ritorno».
(2) Pubblicate il 15 febbraio 2006 su un quotidiano danese.
(3) Regno di Libia, post indipendenza, 1951.
(4) US Department of State, H: France’s client and Q’s gold. Sid, 2 April 2011, C05779612.
(5) House of Commons, Foreign Affairs Committee, Libya: examination of intervention and collapse and UK’s future policy options, third report of Session 2016-17.
(6) Sito Common dreams (www.commondreams.org) «What Hillary new about Lybia», 13 gennaio 2016.
(7) Sito Counterpunch (www.couterpunch.org), Ellen Brown, Exposing the libyan agenda: a closer look at Hillary’s emails, 14 marzo 2016. Inoltre: Foreign Policy Journal (www.foreignpolicyjournal.com), Brad Hoff, Hillary emails reveal true motive for Lybia intervention, 6 gennaio 2016.
(8) Sito The new american, www.thenewamerican.com.
(9) Ellen Brown, ibidem.


Nota redazionale

Come scrive l’autrice nell’introduzione a questo dossier, tentare di ricostruire le cause e gli effetti del caso libico è tutt’altro che scontato. Per questo motivo il dossier approfondisce solo alcuni aspetti del processo che ha portato prima alla ribellione e poi all’intervento della Nato. Le questioni delle riserve petrolifere (tra le più grandi in Africa), del gas naturale (terzo stock sul continente), e dell’importanza geostrategica del paese come centro di snodo del traffico di migranti verso l’Europa, sono qui appena accennate. Come non sono trattati in queste pagine i fatti di attualità e le ripercussioni internazionali della situazione presente.

Ci riserviamo dunque di ritornare su questi temi in futuri approfondimenti.

Hanno firmato questo dossier:

  • Angela Lano – Giornalista professionista e ricercatrice presso l’Università Federale di Bahia-Salvador e la Soas (School of Oriental and African Studies), University of London. Collabora da molti anni con MC.
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.

Archivio MC: Arturo Varvelli, Libia: caos post Gheddafi, novembre 2012.




La Cina e la religione dell’occidente


Indice

Pechino e il dipartimento «Affari religiosi».
Da Mao a Xi Jinping: dalle campagne alle città.
La potenza cinese nel 2019.
Partire dai proverbi
Anno 2018: sulle orme del viaggio del 1605 da Kaifeng a Pechino.
L’imperatore Wanli e l’incarico ad Ai Tian.

I protagonisti

Religione, un termine senza ideogramma.
Incomprensioni e conflitti
Una questione non solo «romana».
Dal colonialismo occidentale all’invasione nipponica.
L’ospite non gradito.
L’incontro e il dialogo.

Note culturali

Cina e religione.
Dalla controversia sui riti alla Chiesa patriottica.
Vescovi «illegittimi e controrivoluzionari»?.

La Cina in Italia.

Appendice.

 


Testi di Vittoria Pollini, dossier a cura di Paolo Moiola


Il cielo sopra Pechino

Cristianesimo e fede nel Paese di mezzo

Chinese President Xi Jinping (C) – (Xinhua/Wang Ye)

La religione, dall’Impero al Partito

Cina e Santa Sede sono a un crocevia dove si decide il futuro del cattolicesimo nell’«ex Impero celeste» e dell’umanità cinese con i suoi legami sociali, politici, pedagogici. Il 22 settembre 2018 è stato firmato un «Accordo provvisorio» (e non pubblico) per introdurre elementi stabili di collaborazione e per il riconoscimento dei vescovi. Un cammino iniziato più di 400 anni fa su vie di conciliazione tentate da alcuni uomini di pace come il missionario gesuita Matteo Ricci (Li Madou) e il mandarino ebreo Ai Tian. Il loro messaggio parla all’oggi partendo da un passato che non va dimenticato. Anche dagli stessi cinesi emigrati in Italia.

Il tema al centro di questo dossier è il dialogo tra Occidente (in particolare, la Santa Sede) e Cina. Dialogo che, nei secoli XVI e XVII, sarebbe potuto essere fruttuoso se non fosse scivolato su fraintendimenti e interruzioni a causa di reciproche diffidenze.

Matteo Ricci, missionario gesuita del 1600, durante il suo viaggio in Cina incontrò a Pechino il funzionario mandarino Ai Tian, di religione ebraica, che aveva l’incarico di verificare l’identità monoteista di Li Madou (nome cinese del Ricci), soprattutto la sua non appartenenza a religioni allora bandite dall’Impero. Con intelligenza e umiltà entrambi compresero che la via per il riconoscimento della reciproca identità religiosa avrebbe facilitato l’amicizia fra Oriente e Occidente.

Nota per i lettori: per completezza, per desiderio dell’autrice, ma anche per motivi di mera curiosità intellettuale, in questo dossier abbiamo utilizzato gli ideogrammi cinesi; accanto a essi il lettore trova la traslitterazione in pinyin e, infine, la traduzione in lingua italiana. Facciamo notare che, al contrario delle nostre parole, tra gli ideogrammi cinesi non si utilizzano spazi.

Pechino e il dipartimento «Affari religiosi»

Va poi ricordato che i rapporti tra Santa Sede e Cina, dall’Ottocento a oggi, hanno attraversato alterne vicende: dalle guerre dell’oppio al protettorato francese delle missioni, dall’invasione giapponese della Manciuria al massacro di Nanchino, dalla Rivoluzione culturale di Mao alla rivoluzione della soft power dell’attuale presidente Xi Jinping.

In alcuni proverbi di saggezza orientale (chengyu, in cinese) si legge che la pace è possibile solo se si tiene conto delle difficoltà, delle possibilità di scambio e di intesa culturale e linguistica fra le istituzioni religiose e governative e anche fra le persone comuni. È in questa prospettiva di apertura alla lingua dell’altro che la gente, le comunità, le persone tengono vivo il valore della diversità nel dialogo.

In Cina, oggi più che mai, è vivo il dibattito fra autorità cinesi – responsabili dell’«Associazione patriottica cattolica cinese», fondata nel 1958, che non riconosceva l’autorità del papa e controllata dall’ufficio degli «Affari religiosi» gestiti dal «Dipartimento di lavoro del Fronte unito», a sua volta dipendente dal «Comitato centrale del Partito comunista» – e chiesa cattolica «sotterranea» fedele al papa, non riconosciuta dallo stato e quindi clandestina.

Il 22 settembre 2018 è stato firmato un «Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi». «Con questo atto […] le parti hanno concordato il metodo di una soluzione condivisa: la Santa Sede accetta che il processo di designazione dei candidati all’episcopato avvenga dal basso, dai rappresentanti della diocesi anche con il coinvolgimento dell’Associazione patriottica, mentre il governo cinese da parte sua accetta che la decisione finale, con l’ultima parola sulla nomina, spetti al Pontefice e che la lettera di nomina dei vescovi sia rilasciata dal Successore di Pietro»1. L’accordo pone le basi per risolvere l’annosa questione delle nomine episcopali delle circa 150 diocesi cinesi e sana la situazione di sette vescovi non ancora riconosciuti da Roma, anche se la garanzia di una vera libertà religiosa in Cina è ancora molto lontana.

Ma c’è anche un altro soggetto da considerare in questa storia. Si tratta della società cinese e anche della stessa umanità ( = rén, termine polisemantico: umanità, persone, gente, popolo, società) cinese oggi descritta dagli antropologi come amante del cambiamento, obbediente al Partito, ma anche profondamente e radicalmente operativa sul piano religioso: al proverbiale senso pratico della rén, oggi, si unisce un nuovo ed inaspettato desiderio di sognare e di ricerca di libertà spirituale.

Quella cinese è una società, una politica, un’economia non senza contraddizioni. È una società complessa, fortemente centralizzata, organizzata in uno stato che si estende su una superficie di oltre nove milioni di chilometri quadrati: il terzo più grande al mondo. Uno stato grande come un continente. E compatto. Anche quando si tratta di pensare, ascoltare, parlare. E di scrivere.

Da Mao a Xi Jinping: dalle campagne alle città

L’attuale presidente Xi Jinping ha intrapreso una riforma di apertura e sviluppo economico fondato sulle kāifāqū zone di sviluppo2.

Si tratta di città come Tianjin e Shanghai dove sono state introdotte imprese di proprietà straniera, istituzioni scientifiche, zone di base per sviluppare la collaborazione con i paesi esteri. Un elemento della riforma è infatti la strategia del soft power e del trasferimento tecnologico nelle aree di sviluppo: più che l’investimento nella sicurezza e nella forza militare, la diplomazia pubblica, la cultura popolare ed economica. Un secondo elemento è la percezione della povertà: chi è povero, oggi, in Cina è considerato sostanzialmente «un tale che non ha saputo riscattarsi, colui che non ce l’ha fatta ad ottenere l’assistenza sanitaria (che è a pagamento), colui che non ha accesso alla tecnologia»3 e che non può permettersi di entrare nei «grandi quartieri supermercato», che improvvisamente sono aperti nelle metropoli. Quando un uomo chiede l’elemosina per pagare l’operazione al cuore della moglie attaccata ai tubi della flebo, riceve indifferenza. Gli abitanti di questo ventunesimo secolo, infatti, non sono solo i nativi digitali che marciano verso il domani scintillante della robotica con lo smartphone in mano. Sono anche questi poveri, i quandilong, che provengono della campagna che oggi chiedono rifugio alla città4, rovesciando il mito dell’era maoista che incoraggiava invece esodo verso le campagne. Durante la «Rivoluzione culturale», il trasferimento forzato degli intellettuali verso le campagne fu imposto da Mao con un duplice scopo: da un lato modernizzare l’attività agricola – la Cina era un paese rurale – all’interno di un progetto per il quale la classe contadina doveva diventare indiscusso motore della rivoluzione, e dall’altro conformare sempre di più l’intellighenzia borghese all’ideologia del Pcc – Partito comunista cinese -, un’intellighenzia dotata fino ad allora solo di un’istruzione libresca che si doveva attrezzare con l’esperienza del lavoro fisico nei campi. Gli intellettuali erano concepiti esclusivamente in questo modo e solo così potevano diventare lo strumento di diffusione della filosofia dell’educazione secondo Mao5. Le campagne erano al cuore della propaganda maoista. Oggi i poveri che necessitano di «una rivoluzione», non sono più in campagna. Oggi sono gli anziani esiliati dal sentimento della pietà filiale di cui la società post-moderna si vergogna; sono coloro che sono scappati dai villaggi e che vivono ai bordi delle metropoli.

Per strada, oggi, è difficile resistere alla smemoratezza. L’individuo cinese, uomo o donna che sia, considerato innanzitutto un’unità lavorativa nella Cina comunista, catapultato poi nella frenesia dell’apertura economica inaugurata da Deng Xiaoping negli anni Ottanta, si dimentica della storia e «come il bambino è destinato a prendere la forma spirituale e intellettuale che gli darà l’ambiente e l’educazione. Tutto lo sforzo del Partito comunista cinese è stato quello di creare una totale smemoratezza nei cinesi»6.

Religioni in Cina

La potenza cinese nel 2019

La Cina di oggi è un paese con cui l’Italia (grande come la sola provincia di Zhejiang, luogo da cui – come vedremo – provengono molti migranti cinesi), deve imparare ad interfacciarsi.

È una nazione sempre più simile – per abitudini sociali – all’Europa e all’America: è il paese in cui non si ha più fretta di sposarsi e di avere figli; in cui, dal 2016, si decide di investire nelle riserve auree e in altri metalli preziosi più che nei titoli di stato e nelle valute estere (troppo soggette a fluttuazioni commerciali repentine). Addio, quindi, al trattato di Bretton Woods7, ed anche addio allo strapotere del dollaro e di altre monete estere. Sono la Bank of China e l’Hsbc Bank che decidono giorno per giorno il tasso di interesse nel cambio. Ed è consigliabile, per chi volesse fare il turista in Cina, imparare a utilizzare «We-chatPay», un’applicazione dello smartphone, con cui si effettuano i pagamenti mediante ricarica,  anche solo per affondare i kuaizi (le bacchette cinesi) nella fumante ciotola di jiaozi (ravioli) da acquistare in rosticceria.

La Cina è oggi economia, impresa, turismo (si prevede che, entro il 2030, diventerà il primo paese al mondo per frequentazioni turistiche). È il paese in cui il partito unico resta il Pcc, ma in cui tra la gente si respira una vena spontanea di democrazia: persone sempre disposte all’autocritica, che non giudicano in base a categorie professionali e individualistiche il valore del lavoro, ma in base alla qualità della tecnologia e al livello di cooperazione; il paese dell’educazione secondo i principi confuciani, non della religione trascendentale. In Cina le università si inseriscono nella normalità delle strade, davanti ai parchi, nei pressi degli enormi parcheggi dei supermercati, come parte dell’habitat urbano: 34 sono i campus cinesi che si posizionano tra le prime 500 università al mondo per qualità di certificazioni e rapporto laurea-occupazione.

È il paese dove la società matriarcale delle etnie Moso e Na non solo sopravvive tra lo Yunnan e il Sichuan8, ma vive serenamente come depositaria di tradizioni. Qui la donna è legittima ereditaria di tutti i beni di famiglia. È una società, in queste due regioni della Cina, nella quale la Natura è intesa al femminile e dove non esiste una parola per la violenza di genere. Le donne godono di particolari diritti nella sfera sentimentale, sono svincolate dagli obblighi del matrimonio, vengono valorizzate come madri e sono guida della società; anche durante la politica del figlio unico che imponeva per legge l’aborto soprattutto nel caso di figlie femmine.

Ad oggi la Cina è la più grande produttrice di giochi online, ma anche il primo paese che sta studiando un sistema per limitare ad 1-2 ore l’uso-abuso di videogiochi per minori. È il paese che sta tentando una coesistenza imprenditoriale con l’acerrimo nemico, il Giappone. A ottobre 2018 la visita ufficiale di Shinzo Abe nella Repubblica Popolare, dopo quasi tredici anni, ha evidenziato che l’interdipendenza commerciale e di impresa fra i due paesi è di altissimo livello, anche se manca la fiducia politica reciproca.

È giunta l’ora, ormai, in cui anche l’Europa, l’Italia, l’Occidente distratto imparino a farsi delle domande sui protagonisti di questo scenario Cina-Giappone, in una prospettiva tutt’altro che lineare, attenti all’attualità dei processi, e non semplicemente alla cronologia di fatti. Perché l’Occidente possa pensare il futuro delle relazioni con la Cina, però, occorre che ripensi a quelle passate.

Partire dai proverbi

Il chengyu è un’espressione proverbiale idiomatica composta di quattro ideogrammi. Nel chengyu, che usa la metafora e che può apparire linguaggio criptico, c’è sempre un significato pratico.

Il chengyu cinese 安不忘危 (Ān bù wàng wéi) «Vi può essere pace solo se non ci si dimentica dei pericoli»,può essere una utile chiave di lettura degli scenari che si aprono nel 2019 per le relazioni tra Cina ed Occidente. La pace va conquistata. Non è scontata, non è un regalo dell’Impero Celeste o una concessione dell’Occidente: per custodirla è necessario mettersi in gioco da entrambe le parti, tenendo conto dei rischi.

La costruzione di un legame fra Cina e Occidente, la 关系, la guānxì, richiede un interlocutore dell’ex Impero Celeste che non sia solo la Santa Sede. Per cogliere i segni dell’epoca che stiamo vivendo, può essere utile un viaggio indietro nel tempo per ritrovare così quell’incontro fra il gesuita Matteo Ricci e il mandarino Ai Tian, vissuti oltre quattrocento anni fa. Un incontro gravido d’insegnamenti utili per noi oggi.

Anno 2018: sulle orme del viaggio del 1605 da Kaifeng a Pechino

Allo scalo nella capitale Pechino devi scendere con i bagagli, fare il controllo, compilare il cartoncino giallo senape dove dichiari – come straniero – i tuoi dati, la tua nazionalità, il motivo della tua permanenza, il luogo in cui alloggerai.

Non è diretto l’imbarco dei bagagli da Pechino per qualsiasi altra città cinese. Figuriamoci se questa si trova nello Henan, estremo Nord Est del Paese di mezzo. E fin qui nulla di nuovo.

Sul retro del cartoncino, si trovano invece le «important notices», gli avvisi importanti. Come straniero (= 外国人 = Wàiguó rén) nella traduzione in inglese si diventa un «alien». A Pechino gli «aliens» devono registrarsi entro 24 ore (al massimo 72 ore, se si è in zone rurali). Se gli aliens non alloggiano in hotels, bed and breakfast o altro devono al più presto registrarsi alla stazione di polizia. Non possono viaggiare o muoversi (si intende anche a piedi) sprovvisti di passaporto e permesso.

Zhengzhou è la città più importante dello Henan. È qui che, all’ingresso della chiesa, si può leggere: «È vietato garantire l’educazione religiosa cattolica ai minori di 18 anni». Il giorno di Pasqua del 2018 la polizia ha fatto irruzione durante la celebrazione e ha ordinato ai bambini di uscire dalla chiesa. Il vescovo di Zhengzhou era allora riconosciuto ufficialmente solo dalla Santa Sede ma non dal governo. E tantomeno dal Pcc.

Da Zhengzhou, poi, si prende il treno per Kaifeng: sessanta chilometri di ferrovia ad alta velocità. Kaifeng, situata nello Henan, la provincia attraversata dal Fiume Giallo, è una cittadina postmoderna di oltre quattro milioni di abitanti. Fu capitale durante la dinastia Song. All’epoca, Kaifeng era una splendida città fortificata con una forte presenza ebraica.

A Kaifeng, nel 1605, iniziò la storia di incontro e dialogo fra il cinese ebreo Ai Tian, funzionario mandarino dell’impero e il cattolico italiano Matteo Ricci, teologo, cartografo che difese i riti degli antenati seguendo l’insegnamento di Confucio.

Per recuperare una riflessione sul dialogo Cina-Occidente, iniziamo dalla loro storia.

L’imperatore Wanli e l’incarico ad Ai Tian

La ragione per la quale, nel 1605, Ai Tian, ebreo cinese di Kaifeng e funzionario amministrativo, intraprese il viaggio fu l’incarico istituzionale di verificare l’identità religiosa di Matteo Ricci. Un incarico che nessuno prima – all’interno della comunità di Kaifeng – si sarebbe mai sognato di ricevere dall’Impero Centrale.

A quell’epoca, 中国 (pronuncia secondo pinyin: zhōngguó = Paese di mezzo)9, lo «stare in mezzo»  (termine composto di = zhōng = centro, mezzo e di = guó = paese, nazione) della Cina imperiale era anche «uno stare amministrativo», non ancora repubblicano-popolare.

L’autorizzazione a risiedere in Cina era concessa solo ai membri di religioni dell’Occidente riconosciute dall’Impero, quali erano cristianesimo, ebraismo, islam. Ai Tian doveva incontrare Matteo Ricci per conto dell’imperatore Wanli (1563-1620) e verificare l’effettiva appartenenza ad una delle religioni ufficialmente riconosciute come forestiere e autorizzate a convivere con il confucianesimo. Il viaggio fu da «ordalia»10 poiché non esistevano indizi sull’identità di Ricci. Occorreva «affidarsi» alle sorti, occorreva rischiare. L’unico modo per verificare che Ricci non fosse legato a religioni malviste dall’impero era quello di incontrarlo e vagliare la sua fede monoteista. Matteo Ricci (Li Madou) era, prima di tutto, per Ai Tian, un uomo europeo: girovago, forse monoteista, non confuciano.


I protagonisti

Le dinastie imperiali

  • L’imperatore Kangxi, al potere dal 1661 al 1722

    221-207 a.C. QIN SHI HUANGDI – L’imperatore che pose fine al periodo degli Stati combattenti e che realizzò il sogno di fondare il primo Impero Celeste.

  • 618-907 d.C. Dinastia TANG – È la dinastia per la quale assunse maggior rilievo il ruolo dei mandarini (questo termine ha un’origine portoghese). I mandarini sono ufficiali, consiglieri, capi amministrativi addetti al controllo del potere centrale su una vastità territoriale che è continentale. Per diventare mandarino, occorreva superare degli esami.
  • 960-1279 Dinastia SONG – I Song istituzionalizzarono il sistema degli esami e il meccanismo di selezione di tutti i funzionari amministrativi. Istituirono anche la fasciatura dei piedi. Furono anni di grande prosperità in cui fiorì l’arte, la cultura, la tecnologia. L’epoca della dinastia Song fu caratterizzata anche dalla guerra. Per brevi periodi, Kaifeng fu capitale in modo intermittente a causa di questi conflitti. Nel 1126 Kaifeng cadde nelle mani dei Jurchen (Mongoli), prima identificati come nemici invasori non cinesi che spinsero i Song a stanziarsi a Sud, con capitale Linan, attuale Hangzhou.
  • 1264-1368 Dinastia YUAN – Nel 1258 Gengis Khan invase il territorio dei Song Meridionali, occupò Hangzhou e distrusse definitivamente i Song.
  • 1368-1644 Dinastia MING – Nel 1555 un esploratore portoghese, Duarte Barbosa, iniziò a pubblicare in Occidente alcuni documenti in cui appariva per la prima volta il termine Cina. Ufficialmente nel Trattato di Nerchinsk (1689) viene utilizzato questo termine dalla sua derivazione persiana o sanscrita. Fu alla corte dell’imperatore Wanli della dinastia Ming che Matteo Ricci rimase ammirato dalla sapienza dei mandarini ed anche dal sistema degli esami che era meritocratico. Ricci proveniva infatti da un’Europa dove i titoli dei principi venivano ereditati di padre in figlio, e non certamente seguendo il criterio di sensibilità per la scienza e di rispetto dell’intelligenza. Dell’incontro avvenuto nel 1605 a Pechino fra Ai Tian e Matteo Ricci non rimasero molte tracce anche a causa dell’alluvione del Fiume Giallo nell’anno 1642.
  • 1636-1912 Dinastia QING – Fu l’ultima dinastia della Cina imperiale. Il più noto tra i suoi imperatori fu Kangxi che governò dal 1661 al 1722.

Ai Tian, l’ebreo

Ai Tian (艾田), mandarino di Kaifeng. Poco si conosce di questo funzionario amministrativo dell’Impero Celeste. Era ebreo e il suo compito era di verificare l’identità monoteista di Matteo Ricci, la sua non appartenenza agli «adoratori della Croce» (*), una setta che aveva sostenuto l’invasione mongola nei secoli precedenti. L’incontro istituzionale fu un dialogo fra persone e la fiducia che ne sortì permise a Ricci di ottenere la stanzialità come missionario straniero nell’Impero. Fu Ai Tian, fu lui che avvisò il padre missionario gesuita della presenza degli ebrei a Kaifeng, nello Henan. Nei suoi appunti Matteo Ricci lo descrisse così: «Un giudeo di Natione e professione» che avrebbe dovuto verificare qual era la legge di provenienza di Li Madou. Ai Tian non si dovette augurare l’appartenenza di Ricci alla legge del popolo invasore. Piuttosto, dal suo primo incontro, si convinse che questo missionario scienziato venuto da lontano doveva proprio essere della stessa legge mosaica.

Quando – era il 1605 – Ai Tian fece visita a Matteo Ricci, nella capitale che era stata trasferita a Pechino almeno trecento anni prima anche a causa dell’invasione dei Jurchen, gli disse che a Kaifeng c’erano degli «adoratori della Croce». Il segno della Croce proteggeva i bambini, benediceva le bevande e il cibo. Un rito di protezione diffuso soprattutto nel Sichuan e nel Sud della Cina. Furono i Jurchen, i Mongoli che invasero Kaifeng e che avevano conosciuto il cristianesimo di Nestorio, a portare il culto degli adoratori della Croce.

La storia di Ai Tian – funzionario sconosciuto, mai citato nei libri di storia occidentale – è raccontata nel Prologo di «Mandarins, Jews and Missionaries – The Jewish experience in the Chinese empire» di Michael Pollak, con i contributi di Timoteus Pokora (Repubblica Ceca) e di René Goldman (Canada).

(*) Il loro culto è il cristianesimo nestoriano. I Nestoriani credono che Gesù Cristo sia due persone; credono che Maria sia solo Madre della Persona Cristo (Christotókos), negano che sia Madre del Figlio di Dio (Theotókos). Tale religione era pertanto «straniera» per i cinesi altrettanto quanto l’ebraismo e l’islam. Tuttavia gli adoratori della Croce furono avvertiti con timore perché furono i Mongoli a trasportare dalla Persia il culto nestoriano. Il pericolo di un ritorno degli invasori mongoli non era sparito durante i Ming. Da non dimenticare che, quando in Cina c’erano i Mongoli della dinastia Yuan (1264- 1368), il papa tentò più volte di usarli per un’alleanza con i crociati e vincere sui musulmani. Senza risultato.

Matteo Ricci, il gesuita

Matteo Ricci (玛窦 = Li Madou) nacque nel 1552 a Macerata. Iniziò la scuola dei gesuiti all’età di nove anni. I primi cristiani ad arrivare in Cina furono i nestoriani che, tra il 365-980 d.C., avevano fondato alcune comunità. Poi arrivarono i francescani dal 1245 -1368, periodo in cui la Cina subì l’invasione dei Tartari. Non restano però tracce significative di questi passaggi. La Compagnia di Gesù fece il suo primo ingresso in Cina nel 1552, con il suo fondatore, Francesco Saverio.

Ricci iniziò il suo viaggio nel 1598 verso Pechino ma non vi arrivò subito. Rimase a Nanchino fino al 1601. Fu in quell’anno che venne invitato a Pechino, alla corte dell’imperatore Wanli, dinastia Ming.

Matteo Ricci non entrò in Cina con un visto a scopo missionario. Sin dall’inizio comprese che, per introdurre il cristianesimo nel grande «Paese di mezzo», non bastava evangelizzare secondo i metodi tradizionali di missione.

Ben presto avrebbe dovuto imparare a «stare» dentro l’impero celeste, conoscere le tradizioni, i riti. Solo risiedendo stabilmente in Cina, sarebbe stato possibile il dialogo con una tradizione di simboli e di ideogrammi che non si possono semplicemente scomporre, ma che si devono comprendere per aprire il pensiero di volta in volta a sintesi più alte, nella traduzione. Matteo Ricci morì a Pechino nel 1610.

 

Martino Martini, un altro missionario gesuita in Cina

Gesuita, storico, scienziato, cartografo, Martino Martini (匡国 = Wèi Kuāng Guó), nato a Trento nel 1614, fu un volto di pace, consapevole del rischio che una mancata

conciliazione tra Cina e Occidente avrebbe potuto avere. Dopo gli studi nella sua città natale, entrò nella Compagnia di Gesù. Fu lui stesso che chiese ai suoi superiori di essere inviato come missionario in Cina. Nel 1640 avvenne il suo primo ingresso in Cina, a Macao. Successivamente fu a Nanchino e ad Hangzhou. Fu il primo che compilò una grammatica cinese secondo canoni occidentali. Il suo ingresso nell’Impero Celeste coincise con il passaggio fra le due dinastie, Ming e Qing. Al suo arrivo in Cina, trovò una situazione complessa. La capitale della dinastia Ming, Pechino, era caduta nelle mani dei ribelli di Li Zecheng. Il malcontento era causato dalle malattie (tra cui il vaiolo) e altre piaghe economiche (aumento delle tasse) di cui soffriva il mondo delle campagne.

Ci furono poi i Manciù che invasero il paese fino alla provincia di Zhejiang. Martini venne riconosciuto come «dottore della Legge divina, proveniente dal Grande Occidente» anche durante l’assedio della futura dinastia Qing.

L’opera di Martini che difese la pratica dei riti e il culto degli antenati fu la Brevis Relatio de Numero et Qualítate Christianorum apud Sinas (Bruxelles 1654), indirizzata alla Sacra Congregazione De Propaganda Fide.

Il missionario fu richiamato a Roma nel 1651 nella veste di delegato delle missioni superiori cinesi. Il suo viaggio fu lungo: attraversò le Filippine, presentò le sue informazioni all’imperatore del Sacro Romano Impero Ferdinando III d’Asburgo prima di giungere a Roma, nel 1655.

Nella storia della Chiesa, il 1645 fu l’anno che segnò l’inizio della «controversia dei riti», il cui esito fu l’immediata condanna del papa Innocenzo X, dopo la denuncia di Juan Bautista Morales, domenicano. L’ordine di Sant’Ignazio, cui Martini apparteneva, cercò di porre riparo a questa controversia sortita con una denuncia proprio con il lavoro missionario di Martini che convinse il successore di Innocenzo X, Alessandro VII, della giustezza delle tesi e dei percorsi di missione in Cina da parte dell’ordine dei gesuiti. Purtroppo la testimonianza di Martini che ritornò poi in Cina, ad Hangzhou (dove nel 1661 morì) non bastò a spegnere la controversia che divenne una diatriba per interessi di fede, tecnico-scientifici, economici. Ancora cinquant’anni dopo la questione divise l’imperatore cinese Kangxi (1654-1722) e il papa Clemente XI (1649-1721) che continuò a sostenere la linea dura dei domenicani e dei suoi predecessori. A questa situazione, si aggiunse come aggravante l’interesse del re francese Luigi XIV alla questione dei riti. Il re inviò missionari gesuiti francesi fra cui il vicario apostolico Maigrot del Fujian. La Francia aveva colto la decadenza del Portogallo nelle rotte commerciali e la controversia teologica potè facilmente diventare espediente per la disputa pubblica che si allargò anche alle missioni straniere.

All’interno dello stesso ordine, i gesuiti dovettero difendersi dall’accusa di eresia e di idolatria poiché sostenevano il dialogo con il confucianesimo cinese.


Religione, un termine senza ideogramma

Almeno fino alle guerre dell’oppio (1839-1842 e 1856-1860), la Cina resterà l’Impero Celeste. All’interno di esso, la parola «religione» non trovava ancora una traduzione ideografica: non aveva cittadinanza culturale nella lingua scritta.

Occorrerà attendere il passaggio tra Ottocento e Novecento per arrivare all’introduzione di un termine: 宗教 (zōng jiào composto di = zōng = antenato e di = jiào = insegnamento). Dove l’ideogramma jiào è polisemico: insegnamento, trasmissione di conoscenze e abilità, addestramento, culto.

L’esito fallimentare dell’incontro fra Cina e Occidente fra il Seicento e il Settecento produsse una frattura gravida di conseguenze. Una frattura che si sarebbe potuta evitare se si fosse tenuto conto delle tradizioni e delle fatiche, dei tentativi di comunicazione fra Ricci e Ai Tian. Il loro dialogare di fronte all’icona di Maria e Gesù con gli apostoli e gli evangelisti portò infatti a prospettive di conciliazione e al completamento della stesura del trattato Dell’Amicitia (iniziato a Nanchino nel 1595) di Matteo Ricci. Tuttavia, questo non bastò ai successivi imperatori e rappresentanti della Santa Sede che si abbandonarono alla disputa e alle ragioni della guerra, piuttosto che alle motivazioni della pace.

Un secolo dopo l’incontro tra Ricci e Ai Tian, fu l’illusione epocale dell’imperatore Kangxi che portò al fallimento del dialogo. Nel 1700, all’inizio della sua ascesa politica, Kangxi aveva celebrato e promosso l’apertura delle frontiere dell’Impero Celeste: una sfida al futuro che trovava la sua condizione di base nello scambio culturale fra istituzioni e gesuiti che abitavano la capitale. Questo obiettivo non aveva trovato, tuttavia, risonanza e sintonia nel mondo cattolico e a Roma. La crisi europea post Riforma e Controriforma aveva assopito l’interesse per la cultura e la conoscenza del Paese di mezzo, nonostante la positiva riflessione del Concilio di Trento e lo sforzo da parte di alcune istituzioni ecclesiastiche di uscire dal contrasto tra diritto canonico e diritto positivo della società secolarizzata11.

Incomprensioni e conflitti

Nel 1692, l’imperatore Kangxi aveva invitato alla sua corte studiosi e missionari; aveva concesso loro la libertà di culto e il permesso di praticare i riti cristiani. Questa concessione di «pax augustea» fra culti e riti in una versione orientale non fu accettata da tutti nel mondo cattolico.

In Cina e a Roma iniziarono una serie di dispute fra le congregazioni e, in particolare, fra i gesuiti presenti in Cina e gli altri ordini. I riti che venivano contestati erano soprattutto i riti funebri che, in Cina, venivano officiati seguendo pratiche come l’offerta di cibo, di beni materiali (ad esempio, il denaro che veniva fuso o comunque incenerito). L’invocazione dei defunti attraverso le tavolette su cui era incisa la genealogia familiare non era considerata degna di valore spirituale. Ciò che veniva contestato era l’ambiguità del termine 天主 = tiānzhŭ = Signore del Cielǒ, che compariva nelle iscrizioni proprio come segno di compatibilità fra la religione cristiana e rito confuciano: il Signore del Cielo venne malamente interpretato come il capo supremo di cielo e terra dall’interlocutore occidentale che lo identificò come un pericoloso Imperatore avido e invadente nei confronti della religione cattolica, minoritaria in Cina. Furono soprattutto gli ordini di domenicani e francescani e alcuni missionari sotto il protettorato francese che evidenziarono la seduzione spirituale dei riti12.

Il vicario apostolico del Fujian nel 1693 scrisse il primo decreto che proibiva l’uso dei nomi Tiān (Cielo) e Shàngdi (Signore supremo). Nel 1704 la Commissione del Sant’Uffizio di Roma inviò la costituzione apostolica Cum Deus Optimus in cui si decise che le tavolette in pietra dove venivano ritratti gli avi defunti adottate dai cattolici dovevano omettere gli ideogrammi finali di «luogo dell’anima». Gli ideogrammi erano stati interpretati dagli avversari dei riti come 迷信 (= míxìn = credenza superstiziosa), quasi che l’anima fosse presente sulla tavoletta. Di qui la reazione di Kangxi che nel 1706, sostenuto dai gesuiti a corte, emise a sua volta un decreto che regolava rigidamente la presenza dei missionari cattolici.

Ci furono poi diversi tentativi di dialogo, ma papa Clemente XI nel 1715 emise la bolla Ex Illa Die che ribadiva e confermava tutte le proibizioni ed esigeva un giuramento dai missionari, abolendo di fatto una prima apertura tollerante di papa Clemente IX nel 1669. L’ultima parola da Roma fu nel 1742 quando con la bolla Ex quo singulari papa Benedetto XIV impose l’obbedienza e proibì ulteriori discussioni. La soppressione della Compagnia di Gesù voluta dai re europei nel 1747 tolse poi di mezzo i paladini del dialogo.

Una questione non solo «romana»

Questa concezione fraintesa di («cielo») non solo vedeva contrari i gesuiti (che a corte avevano a che fare con la parte più colta e istruita della società cinese), ma anche la comunità ebraica di Kaifeng che fino ad allora aveva convissuto in modo pacifico con la comunità dei cattolici, pur rispettando i tre insegnamenti (buddhismo, taoismo, confucianesimo). Questa rifiutò l’interpretazione che equiparava il termine 天主 (= tiānzhŭ = Signore del Cielo) al significato di «signore-capo». Per loro il Signore del Cielo non era da identificare con un Imperatore supremo, capo del Cielo su una terra ridotta ad uno squallido materialismo. E si poteva essere fedeli al Cielo, pur rispettando le autorizzazioni imposte dall’imperatore e dal potere centrale di Pechino.

L’attribuzione del Signore-Capo del Cielo era una lettura occidentale che non teneva conto della storia di Kaifeng. Ed era proprio la religione straniera che presumeva di interpretare i riti senza conoscere le persone.

Tale visione del mondo negava la storia della comunità che, fino a quel momento, aveva trovato sintesi coerenti di vita e di prassi fra l’ebraismo e l’insegnamento di Confucio. Si confinava, così, il confucianesimo sul precipizio di un’illusione, di un paganesimo che non riconosceva possibilità di dialogo e di rapporto fra società cinese e religioni monoteiste. Venivano così frantumati i valori della pietà filiale.

I protagonisti di questa controversia non furono solo l’Impero Celeste di Kangxi e la Santa Sede con i suoi vescovi. C’erano comunità, persone, valori, tradizioni, economie, legami (关系, guānxì) che si erano instaurati nella diversità̀ dei tre Sanjiào (= i tre insegnamenti cioè confucianesimo, taoismo, buddhismo) e delle tre religioni monoteiste che avevano imparato a stare insieme. Purtroppo, furono esse che si trovarono travolte dall’effetto valanga di questa disputa.

Lo scontro di civiltà che ne derivò, ancora una volta, non venne previsto. Ma arrivò nel 1938. A Kaifeng. Fu infatti nel Novecento, durante il conflitto sino-giapponese, che il Giappone, alleato dei nazifascisti europei, invase l’ex capitale della dinastia Song, defraudando la storia della sua cultura e approfittando della debolezza interna dell’imperatore cinese Po Yi. Attraverso un censimento, e quindi attraverso un controllo militare delle persone residenti a Kaifeng, i giapponesi presero il controllo degli abitanti e della loro religione. Kaifeng morì spiritualmente, poiché molti ebrei si trasferirono e furono costretti dalle circostanze a vendere la loro Torah e le suppellettili della sinagoga.

(Photo by GREG BAKER / AFP)

Dal colonialismo occidentale all’invasione nipponica

Kaifeng, 8 dicembre 1938. Siamo alla fine dell’anno in cui l’armata giapponese ha fatto la sua marcia verso la città. In quello stesso anno Sogabe e Mikami, membri dell’intelligence giapponese, stanno violentando l’intera Cina. Iniziano il loro dominio a livello giuridico e amministrativo con l’imposizione di un controllo sugli abitanti di Kaifeng per verificare quanti ebrei ci fossero nella comunità con un censimento giustificato da «ragioni di sicurezza» nei confronti di un popolo che, in Occidente, era stato designato come «pericoloso nemico» dal nazismo. Quale occasione migliore di seduttiva complicità con la Germania per la politica giapponese: la sicurezza diviene il pretesto per legittimare l’invasione del «Paese di mezzo».

Fino ad allora, gli ebrei non erano mai stati perseguitati in Cina. L’antisemitismo era sconosciuto anche al Giappone. Furono i nazisti a disprezzare gli asiatici perché inferiori alla razza ariana. Il progetto nipponico aveva il principale obiettivo di impadronirsi delle risorse naturali cinesi, necessarie per lo sviluppo della propria industria. Il panasiatismo nipponico fu un progetto alternativo al colonialismo occidentale in Cina.

Dal versante occidentale si aggiunse la real politik nazista che imponeva agli stati amici l’applicazione delle leggi razziali e le pratiche di sterminio. La scommessa con l’hate speech panasiatico del Giappone, complice della Germania di Hitler, divenne la base più sicura, il tavolo su cui negoziare la posta in gioco: dare legittimità al potere del Mănzhōuguó, lo stato fantoccio della Manciuria, per deporre definitivamente la dinastia Qing e distruggere la Repubblica popolare nascente. Proprio non si poteva immaginare nulla di più facile per i nipponici.

Nel 1938 era passato un solo anno dal massacro di Nanchino. Nel ’37, oltre 300mila civili erano stati trucidati, oltre 20mila donne violentate. Non bastò la «zona di sicurezza» di John Rabe, imprenditore filonazista della Siemens, a favorire il salvataggio di migliaia di civili. Rabe decise di aprire la fabbrica per accogliere donne e bambini, abitanti della città in quella notte del 13 dicembre 1937. I morti di Nanchino sono rimasti nel silenzio e nell’anonimato per troppi anni nei cicli di una storia senza pace, come quegli ideogrammi finali di «luoghi dell’anima» cancellati dalle tavolette degli antenati.

Solo recentemente, a ottant’anni di distanza, nelle librerie di Nanchino si trovano testi, lettere e scritti che documentano lo stupro. Ad oggi le autorità giapponesi non hanno dato segnale ufficiale di riprendersi dalla «dimenticanza». L’olocausto asiatico continua a rimanere nell’oblio.

A Kaifeng, nel 1938, le autorità giapponesi, oltre ad assicurarsi il riconoscimento dell’alleanza con la Germania, intendevano anche «dare ragioni oggettive» di sicurezza alla guerra e di legittimazione alla politica di invasione della Manciuria. Già dal 1895, i militari giapponesi avevano iniziato a costruire una propria identità nazionale, fondata su un’idea di straniero, opposto all’autoctono del Sol Levante. Ciò che caratterizzava lo straniero non poteva definire ciò che era giapponese: in questo contesto, la Cina fu vista come «società di banditi», barbara che avrebbe infestato «la civiltà mondiale». Obiettivo del progetto panasiatico nipponico era seguire il colonialismo occidentale e sabotare l’immagine della civiltà cinese, anche dall’interno (approfittando del clima di guerra interna fra esercito del Guomindang ed esercito comunista).

Allargandoci a uno sguardo antropologico, comprenderemo ben presto che la posizione di quell’invasore fu molto distante da quella dell’ospite «non ancora autorizzato» quale fu Matteo Ricci: qualitativamente lontano dalle mire espansionistiche dell’invasore giapponese, qualitativamente diverso il suo volto, orientato alla via dell’inculturazione e non al colonialismo. Quando ancora a Kaifeng si poteva respirare un clima che metteva in circolo la cultura, i linguaggi, le religioni, per custodire il futuro. Senza usurparlo.

L’ospite non gradito

Nel 1600 Ai Tian fu animato, prima di tutto, da una ragione13: quella di controllare ciò che l’arrivo di Matteo Ricci avrebbe potuto provocare come impatto nell’ordinata capitale. Ma fu mosso anche da un sogno. Un sogno che aveva iniziato a realizzarsi già prima della partenza: un desiderio di successo e visibilità verso il servizio civile dell’Impero Centrale e l’ambizione di controllo su un fenomeno inaspettato. Li Madou: un cristiano, non un ebreo, un monoteista ma non un confuciano, un missionario e non un funzionario; per Ai Tian, rappresentava un uomo che probabilmente era stato costretto ad allontanarsi dall’Europa e a errare per la Cina fino a giungere alla capitale.

Un passaporto identitario, quello di Matteo Ricci tracciato da Ai Tian, molto diverso da quello proposto nei libri della storia italiana, europea ed occidentale.

Matteo Ricci: teologo e cartografo, fu il pioniere che entrò in conflitto col «Vaticano» per difendere le pratiche degli antenati, tipiche del confucianesimo. Ricci fu il primo anello di congiunzione tra la cultura europea rinascimentale e quella cinese: resta comunque tra i pochi stranieri a figurare nell’«Enciclopedia nazionale» della Cina.

Fu il primo missionario che ottenne dall’Imperatore l’autorizzazione a fondare una chiesa a spese dell’erario: resta il primo europeo che si vestì da mandarino perché aveva colto che la trasmissione del suo messaggio cristiano sarebbe stato poi diffuso dalla classe dirigente agli ultimi della storia non solo con le lettere e le parole.

Per Ai Tian il viaggio fu un passaggio da una periferia come Kaifeng alla capitale dell’impero dove sopravviveva una colonia monoteista (la piccola chiesa di San Giovanni Battista nella quale viveva Ricci): una comunità ecclesiale avvertita «come una bizzarra intrusa», all’interno della capitale dell’Impero Celeste e che, dal punto di vista dell’ordine amministrativo, doveva essere autorizzata alla stanzialità.

Prima dell’incontro, lo stesso Ricci non avrebbe mai immaginato la presenza di ebrei in Cina. Viceversa, Ai Tian avrebbe potuso solo ipotizzare che quel cristiano europeo fosse un esponente di una setta: Ricci era un monoteista, non un cinese, non confuciano e neppure ebreo. Per Ai Tian, l’aver ottenuto il permesso di sostare nella capitale dell’Impero Celeste era l’unico punto di privilegio riconoscibile nel volto del suo interlocutore extracontinentale.

Un funzionario ambizioso incrocia, dunque, la sua noiosa vita di burocrate con quella di un reietto, uno dei tanti ospiti indesiderati, un letterato giunto a Pechino dopo un lungo percorso da Occidente ad Oriente. Non un esiliato, non un rifugiato, non un naufrago. L’espressione riferita a Ricci è di ospite non gradito, «uno degli ospiti indesiderati»14.

Il lettore non può, a questo punto, dimenticare un altro chengyu cinese: jiē fēng xĭ chén15

che significa «far entrare il vento per lavare la polvere». Esso chiarisce bene il gioco delle parti: l’espressione di benvenuto rivolta all’ospite, ricorda anche al padrone della dimora che occorre «fare entrare il vento» affinchè la casa si possa lavare dalla sua stessa polvere. L’ospite, seppure indesiderato, porta qualcosa di nuovo. Fu forse questa ispirazione che aprì il dialogo fra i due.

L’incontro e il dialogo

L’incontro fra Matteo Ricci e Ai Tian avviene così: davanti al dipinti della Madonna con Bambino e di san Giovanni Battista, disposti ai lati dell’altare della piccola chiesa di San Giovanni Battista, a Pechino.

L’interpretazione di quei dipinti è la prima occasione di traduzione. Mancata, sospesa, fraintesa e infine aggiustata. Non è costume del popolo di Kaifeng venerare le immagini. Quando Ai Tian vede Matteo Ricci-Li Madou che si genuflette davanti alla maternità, lo imita «assumendo che i due individui rappresentati fossero Rebecca e i suoi figli Jacob ed Esaù, con cortesia seguiì il costume»16.

È il culto degli antenati della tradizione confuciana che induce Ai Tian, ebreo, a vedere i suoi patriarchi e a compiere il gesto di genuflettersi. Si trattava della maternità cristiana, ma ma lui vi scorse Rebecca con Giacobbe e, nell’altro dipinto, Esau. Rebecca resta comunque un’antenata di Maria. Matteo Ricci non vede un’incongruenza nell’interpretazione dei simboli e delle immagini. Poi Ai Tian osserva i quattro evangelisti e si domanda se quelle figure possano essere quattro dei dodici figli del bambino ritratto sull’altare. Li Madou non lo corregge, pensa solo che c’è stata una confusione fra evangelisti ed apostoli: in fondo i dodici apostoli possono essere interpretati simbolicamente come i figli spirituali di Cristo.

Fu questo il primo incontro, la prima mediazione culturale che seppe realizzarsi tramite il fascino suscitato dall’arte in ciascuno dei due interlocutori. Uomini esploratori, liberi di entrare nei significati della traduzione e capaci di disvelare strade nuove attraverso la curiosità, capaci di mantenere il respiro davanti a ciò che «non è ancora» compiuto e di conservare il timore, quel timore che ciò che si attende dalla storia, in un attimo può scomparire e diventare «un non più».

Cosa rimane, nella nostra normale quotidianità, dopo aver rispolverato questa vicenda attraverso il libro di Michael Pollak Mandarins, Jews, and Missionaries, dedicato alla testimonianza del passaggio e della stanzialità della comunità ebraica nell’impero cinese? Una testimonianza che ha conservato il sapore della dimensione esperienziale, di vita. Posso tentare di rispondere che cosa ha significato per me, nel mio lavoro di mediatrice culturale e lo faccio partendo da un altro chengyu. Dal linguaggio metaforico dei proverbi, da parole che parlano all’anima popolare, si può infatti imparare a tradurre l’inesauribile ricchezza di umanità, presente nella nostra esistenza, in azione concreta.


Note culturali

La Cina e il culto degli antenati

Dal suo inizio, la dinastia Shang (XVI-XII secolo a.C.) praticava la divinazione con le iscrizioni incise sulle ossa dei buoi o sui carapaci che venivano fatte screpolare nel fuoco. I segni dell’ignipuntura venivano poi interpretati a seconda della preghiera che veniva realizzata durante la loro invocazione. Li si pregava, ad esempio, di far scendere la pioggia, di far cessare un’epidemia, di allontanare i nemici. L’equilibrio fra i vivi discendenti e i defunti avi è di natura omeostatica: il debito dei posteri nei confronti dei predecessori viene sciolto nel momento in cui si mantiene la promessa di comportarsi bene sulla terra, senza farli arrabbiare e il mantenimento in vita sulla terra avviene attraverso la generazione della prole. Il debito con gli antenati si contrae e si riscatta periodicamente con offerte e sacrifici, soprattutto durante la festa. Le tavolette funerarie sono racchiuse in urne di pietra. In passato, in occasione di tutti i grandi eventi del regno e di tutte le solennità della vita di palazzo, un lettore veniva a renderne conto, con voce possente. Delle gocce di sangue, venivano versate nei punti delle tavolette dove si presupponeva ci fossero le orecchie e la bocca del defunto. Ancora oggi, secondo la tradizione, le famiglie preparano per la notte di Capodanno (cade sempre tra la seconda metà di gennaio e la prima metà di febbraio) un altare con l’incenso e le offerte sul quale mettono i ritratti degli antenati, e le «tavolette degli antenati» con i nomi della genealogia della propria famiglia. Dopo aver bruciato tre fasci di incenso ci si inchina davanti agli antenati, vengono recitate le preghiere e si fanno le offerte per un raccolto proficuo nel prossimo anno. Infine, le immagini di carta e il denaro offerto vengono bruciati: il fumo trasporta le preghiere della famiglia al Cielo.

Nella stele di Kaifeng, anno 1489 – oggi conservata nel Kaifeng Museum of Jewish History – si trova l’iscrizione in ideogrammi da cui si deduce che l’insegnamento delle Sacre Scritture è compatibile con l’insegnamento confuciano. Evidentemente già da allora la traduzione dell’iscrizione espose gli israeliti ad una sinizzazione. Un’iscrizione su pietra, un segno ideografico, una scrittura che non doveva morire. Il culto degli antenati dialoga con la religione delle Sacre Scritture partendo dal mito. Il patriarca Abramo viene da Pangu, creatore, all’inizio di Tutto. È da un uovo che contiene il Caos che Pangu viene creato. Ma è necessaria una rottura del guscio, da parte del gigante Pangu dall’interno: una volta divenuto adulto dalla rottura dell’involucro, il tuorlo diviene la Terra e l’albume il Cielo. Il corpo del gigante ha continuato ad allungarsi generando montagne e fiumi finchè è sparito interamente come corpo ed è divenuto creato. Si comprende bene da questo mito che, all’origine, l’universo e il modo di percepirlo da parte dell’umanità ha come punto di contatto il riconoscimento di un’osmosi di rapporto fra Cielo e Terra. Anche il ruolo del sacrificio e degli antenati risente di questa concezione immanente della realtà.

«Servire i morti come si servono i vivi, non usare la scusa della scomparsa dei capostipi antenati sulla terra che vedi per smettere di pregare… continuare a servire i dimenticati come se fossero gli ultimi sopravvissuti… offrire buoi, offrire capre a seconda della stagione, in legame con te». Così si legge nella stele.

La scelta dell’immanenza del pensiero fra mito e cosmogonia cinese trova qui la sua radice culturale e nella pratica rituale comunitaria dello sciamanesimo. Ma non entra in collisione con le religioni della Bibbia.

Il Signore del cielo

Il carattere Tiān significa «cielo», ma è polisemico e quindi suscettibile di possibili interpretazioni. Nella controversia sui riti che si accese nel settecento, venne frainteso come «paradiso terrestre»: una terra del cielo potenzialmente seduttiva e spiritualizzata, in cui i riti sono interpretati secondo un principio di realtà che gioca al ribasso nella traduzione poiché non considera la possibilità di una conciliazione fra le tradizioni e le identità culturali. L’ideogramma 主 zhǔ si traduce con «signore, padrone, capo». La combinazione polisemantica dei due ideogrammi può dare luogo ad una traduzione deviante: il «signore del cielo» era diventato il «capo del cielo» secondo la Congregazione dei riti e l’espressione era scomoda sia per l’orecchio di alcuni ordini religiosi e per Clemente XI sia per lo stesso imperatore Kangxi. Si liquidò, per una scelta semplicistica ed anche per interessi economici, la traduzione facendo coincidere il signore del cielo con il capo-sovrano del cielo, l’Imperatore. C’era infatti il re Luigi XIV di Francia che in quegl’anni, a seguito del declino del Portogallo, aveva intuito la possibilità di allargare il proprio dominio commerciale in Estremo Oriente. Il re comprese bene che inviare missionari della Società delle missioni estere di Parigi avrebbe facilitato questo percorso. Il vicario apostolico che fece guerra ai gesuiti e alla tolleranza nei confronti del culto degli antenati, adottata dai successori di Matteo Ricci, fu il francese Charles Maigrot. Nella sua interpretazione imprecisa di 天主 Tiānzhǔ, l’imperatore celeste, il titolo non poteva essere applicato a Dio e, allo stesso tempo, all’imperatore, «capo» di un «cielo-paradiso» un po’ troppo edonistico e terrestre per poter essere annoverato fra le categorie dello Spirito delle religione cristiana monoteista.

Poco importò ai custodi della purità del linguaggio religioso il significato epocale che quei due ideogrammi avrebbero potuto aprire alla comunicazione fra Occidente ed Oriente. Poco importò loro il percorso storico delle comunità cristiane, ebraiche, confuciane, taoiste, buddhiste che fino ad allora avevano convissuto insieme secondo pratiche, liturgie e socialità. Chi condannò i riti, rifiutando a priori lo scontro-incontro culturale con la traduzione, fece un‘operazione molto simile a quella illusoria di liquidare una tradizione culturale un po’ troppo lontana per essere presa sul serio. E non tenne conto di aver derubato due civiltà.


Cina e religione

Dalla controversia sui riti alla Chiesa patriottica

Papa Clemente XI

Kangxi (1654-1722) è l’imperatore della «controversia sui riti» con la Santa Sede. Nel 1692 promulga l’«Editto di Tolleranza religiosa» che autorizza la conversione al cristianesimo e concede il diritto di costruire chiese e predicare pubblicamente. Un missionario gesuita, Martino Martini (riquadro a pagina 38, ndr), fa discendere il nome Cina dalla dinastia 秦 (= Qin) la stessa dinastia che nel 220 a.C aveva realizzato il sogno di unificare il regno degli Stati Combattenti. A differenza dei missionari francescani e domenicani che volevano vietare il culto degli antenati, i gesuiti hanno un approccio di comprensione. È proprio Martino Martini ad essere inviato a Roma per chiarire la controversia dei riti e della traduzione di «Signore del Cielo». Questa azione viene pesantemente contestata da altri missionari presenti in Cina e il vicario apostolico della provincia di Fujian (Sud Est del paese), Charles Maigrot della Società per le Missioni estere di Parigi, proibisce di iscrivere ed incidere sulle tavolette dei defunti l’espressione «sede dell’Anima». Questo divieto viene poi ufficializzato da papa Clemente XI con la costituzione apostolica Cum Deus Optimus del 1704. Nel 1742 papa Benedetto XIV conferma questa proibizione.

La grande paura di Kangxi è quella di venire sopraffatto dalla superiorità tecnica europea: in breve tempo, l’imperatore cambia la sua politica di tolleranza nei confronti dei missionari cristiani presenti in Cina, demarcando in modo molto netto il rifiuto del cristianesimo. L’identità cristiana viene fatta coincidere con quella dell’intruso occidentale, imperialista, assetato di colonialismo.

  • 1839-1842 e 1856-1860 – Con i Trattati Ineguali delle Guerre dell’Oppio, le missioni cattoliche finiscono sotto il protettorato della Francia, con i loro cristiani stranieri e da autoctoni. Il papa Leone XIII non osa inviare il suo nunzio apostolico in Cina.
  • 1900 – Odio xenofobo verso i cattolici. La rivolta dei Boxer uccide missionari e semplici cristiani. Cristo è identificato come un uomo con la pancia piena nei manifesti dei rivoluzionari, simbolo del capitalismo e dell’occidente che avanza.
  • 1912 – Repubblica cinese di Sun Yat Sen: abolizione della legge che impone alle donne la fasciatura dei piedi.
  • 4 maggio 1919 – Rivoluzione degli studenti che si ribellano alla politica imperialista e all’imposizione del Trattato di Versailles: gli studenti sono contro la risposta del governo cinese che cedeva lo Shandong alle potenze coloniali, in primis al Giappone.
  • 1937 – Nanchino, la capitale del nazionalismo cinese, cade davanti ai giapponesi. È un massacro. Solo il 13 dicembre di quell’anno, nella sola Nanchino si stima che siano stuprate tra le 20.000 – 80.000 donne. Era già cominciato il progetto di panasianesimo imperiale del Giappone che trovava nella Germania nazista il suo principale alleato.
  • 1938 – Dopo il massacro di Nanchino, i giapponesi arrivano a Kaifeng già da giugno. L’esercito nazionalista cinese del Guomingdang, guidato da Chiang-Kai-Shek, deve allearsi con l’acerrimo nemico interno, il Partito comunista cinese, per fermare i giapponesi.
  • 1939 – Papa Pio XII dichiara compatibili fede cristiana e riti confuciani e autorizza la traduzione in cinese della liturgia.
  • 1949 – Fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc). Negli anni Sessanta la direzione del partito era assolutamente contraria alla Chiesa cattolica. Il partito sfrutta la lotta contro la «superstizione religiosa» per potersi rafforzare.
  • 1957 – Fondazione dell’«Associazione patriottica dei Cattolici cinesi» con l’appoggio dell’«Ufficio governativo degli Affari religiosi» della Rpc. Circa tre milioni di cattolici cinesi aderiscono. Desiderano l’indipendenza della Cina. Lottano contro l’imperialismo, contro la miseria, contro il capitalismo. Sono per la fine di tutte le superstizioni, per l’uguaglianza fra gli uomini, per il presidente Mao. Sono sotto la guida del Pcc.
  • 1976 – Fino al 1976, anno della morte di Mao e della fine della «Banda dei quattro», per il Pcc i vescovi «controrivoluzionari» e «illegittimi» sono quelli che hanno relazioni con gli imperialisti americani e che tentano di restaurare «la dominazione reazionaria del Vaticano».
  • 1978 – È l’anno di Deng Xiaoping e della politica di 开发展 apertura allo sviluppo economico. Le cose cambiano con la liberalizzazione delle attività commerciali. Anche da parte del popolo cinese nei confronti delle comunità cattoliche. Innanzitutto sono tollerate le chiese.
  • 1981 – Giovanni Paolo II rivolge a Manila un saluto a tutti i cattolici della Cina. In quello stesso anno, il Vaticano viene accusato di interferire sul riconoscimento dell’arcivescovo di Canton. A seguito ci sono consacrazioni di vescovi della Chiesa patriottica senza la consultazione della Santa Sede. Questa situazione porta il cardinal Rossi, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, ad autorizzare i vescovi cinesi «legittimi e fedeli alla Santa Sede» a ordinare altri vescovi, se necessario, senza previa intesa con Roma. Questo privilegio (già concesso in passato per i paesi europei sotto il regime comunista) porta però all’inasprimento dei rapporti fra vescovi «clandestini», «ufficiali» e «patriottici».
  • 22 settembre 2018 – Tra Vaticano e Pechino viene firmato un accordo provvisorio.

Vescovi «illegittimi e controrivoluzionari»?

«I cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di credo religioso. Nessun organo dello Stato, organizzazione pubblica o individuo può costringere i cittadini a credere o non credere in qualsiasi religione, né possono discriminare i cittadini che credono, o non credono, in qualsiasi religione. Lo Stato protegge le normali attività religiose. Nessuno può fare uso della religione per impegnarsi in attività che disturbano l’ordine pubblico, mettere in pericolo la salute dei cittadini e interferire con il sistema educativo dello Stato. Enti religiosi e dei culti non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera».

Così recita l’articolo 36 della Costituzione cinese. Le religioni ufficialmente riconosciute sono: buddhismo, taoismo, islamismo, protestantesimo, cattolicesimo.

Nel 2008, anno delle Olimpiadi cinesi, molti vescovi e sacerdoti della Chiesa clandestina sono posti agli arresti domiciliari o costretti «all’ozio forzato» prendendosi delle vacanze ed è loro proibito di incontrarsi anche con membri provenienti dall’estero in occasione dei giochi olimpici. Trattamento diverso per chi ha visitato il villaggio olimpico di Pechino dove sono stati costruiti appositi spazi di «spiritualità e preghiera» con rigorosa attenzione al cibo offerto secondo le fedi: cristiana, buddhista, musulmana, ebraica, indù. Trattamento di privilegio per gli ospiti stranieri. Evidente che, una volta, terminati i giochi olimpici, questa «liberalità di facciata» è finita.

Si arriva così al 22 settembre 2018 con la firma dell’Accordo provvisorio fra Cina e Santa Sede sulla nomina dei vescovi. Nella Nota informativa si legge: «Al fine di sostenere l’annuncio del Vangelo in Cina, il Santo Padre Francesco ha deciso di riammettere nella piena comunione ecclesiale i rimanenti Vescovi «ufficiali» ordinati senza mandato pontificio: (segue il nome di sette vescovi)» (vedi nota 1).

I vescovi definiti «ufficiali» fino a quel momento sono quelli scelti dalle autorità cinesi senza o in opposizione al consenso della Sede apostolica. In realtà molto pochi – sette -, perché di fatto molti dei vescovi «ufficiali» avevano già chiesto in segreto l’approvazione papale. Tale accordo va ora tradotto nella realtà storica che è ricca di sfaccettature.

Per ora, stando all’accordo, i candidati dell’episcopato verranno scelti dal basso, cioè dai rappresentanti delle diocesi e con il coinvolgimento dell’Associazione patriottica. Alcune linee guida cominciano a dischiudersi, ma occorre poi la pazienza di stare dentro le contraddizioni della quotidianità e della storia.

Infatti, l’identità dei vescovi non è sempre categorizzabile secondo questo binomio: legittimo-illegittimo. E l’altro interlocutore è il Pcc che, secondo ragioni di convenienza, ha – in un passato recentissimo – chiamato i vescovi legittimi (approvati da Roma) come «controrivoluzionari» (in epoca maoista) o «clandestini» ed alcune comunità cristiane come «eretiche».

Ancora lungo e difficile è il cammino verso la libertà di professione dell’insegnamento cristiano e della fede nel Paese di mezzo. Non può sfuggire che ad oggi nelle diocesi di Luoyang e Xinxiang le chiese cattoliche sono state demolite, che a Puyang i presidenti dei Consigli Pastorali sono stati forzati dal governo ad indicare identità e professione, unità lavorativa e certificato di famiglia dei membri della comunità. Ed ancora che nella diocesi di Kaifeng, come a Zhengzhou, si legge all’entrata lo slogan: «Avvertimento contro il culto – Campagna di educazione nella Chiesa cattolica: nei luoghi di attività religiose non si deve predicare ai minori».

La questione della croce. In un paese grande e variegato come la Cina non c’è uniformità sul tema. Di norma (ma non sempre), è possibile l’esistenza di croci – anche esterne – in edifici autorizzati. Rispetto al segno della croce è proibito sia privatamente che pubblicamente, perché in Cina non è concesso a nessuno di vivere la propria fede (forestiera, cioè estranea ai tre insegnamenti originali che restano confucianesimo, taoismo e buddhismo, in particolare il primo) se non in chiese ufficialmente riconosciute dal Partito.

Confucius (551BC – 479BC) Bronze Statue – Locke, CA


La Cina in Italia

I ragazzi della provincia di Zhejiang

安不忘危 Ān bù wàng wéi:
non dimenticare il pericolo; non c’è pace se c’è
dimenticanza. La pace è nelle dinamiche
della storia, non è statica.

A Rimini, quando chiedo ai ragazzi della provincia di Zhejiang17 se hanno mai letto di Li Madou e Ai Tian sui loro banchi di scuola mi rispondono che la storia si studia dalla seconda media. E si parte da Mao: 1949. E poi si ritorna frettolosamente alle dinastie imperiali. Ma il percorso che va dalla caduta degli Han orientali alla dinastia Tang e poi anche oltre fino ai Qing, è sospeso dai banchi di scuola. Non perché proibita, quella storia, ma perché ormai è l’idolo della tecnologia liquida che impone i programmi di studio. Facili, veloci, efficienti. Semplificativi. Non c’è il tempo di attraversare le cause, i processi, le dinamiche e non c’è spazio per entrare nei significati, per interpretare i simboli in unità di senso. La storia diventa una materia sconosciuta. Aliena.

Chen Jūn Yŏng arriva in una scuola del riminese all’età di dodici anni nell’anno 2009. Il suo nome Jūn Yŏng corrisponde ai due ideogrammi di 君勇 cioè valoroso e coraggioso. Secondo la legge italiana (Dpr 394/99), Yŏng viene inserito in una classe seconda media: spiego alla famiglia che in Italia non è possibile che i ragazzi frequentino una classe troppo bassa. È questo, invece, che la famiglia chiede.

Secondo loro Yŏng deve prima apprendere tutti i segni alfabetici della lingua italiana e le loro combinazioni. Solo più tardi potrà frequentare la scuola dove si studiano le discipline: storia, geografia, scienze. Spiego che, in Italia, la normativa tutela lo sviluppo psicofisico degli alunni che devono studiare con i pari, i propri coetanei. Inoltre, considerata l’affluenza di numerosi alunni non madrelingua italiana, sono previsti nella scuola, piani di studio personalizzati e corsi di lingua base di italiano.

«Io non ho religione»

Al momento dell’iscrizione, mi accorgo che non basta alla mamma di Yŏng leggere la traduzione del modulo alla domanda sulla scelta della religione cattolica. «Religione cattolica» è tradotto con 天主教 tiānzhŭ jiào in cui 天主 tiānzhŭ è il «signore del Cielo». In alcuni moduli viene tradotto semplicemente 宗教 Zōngjiào, religione (= Zōng = antenato + jiào = insegnamento), mentre in realtà dovrebbe essere 基督教 jīdūjiào l’insegnamento di Cristo, la religione cristiana.

La madre di Yŏng è mia coetanea, ha frequentato le medie in Cina. Quando le chiedo se è religiosa, lei mi risponde: 我没有教 Wŏméiyŏu jiào («Io non ho religione»).

La generazione dei genitori di Yŏng migra anche perché porta con sé il desiderio di migliorare la propria condizione con i guadagni all’estero e poi reinvestire in patria: passaggio questo, che svela anche le contraddizioni «fra un nuovo coraggioso mondo generato dalle riforme di mercato operate da Deng Xiaoping con l’apertura al capitale, alle idee, alle immagini»18 ma che – come tutti i progressi troppo rapidi – celano fallimenti sul piano sociale ed educativo. Hanno vissuto quegli anni Ottanta lì, gli anni Ottanta della loro infanzia. Ne vedono la fallimentare illusione quando si accorgono che il loro lavoro sottopagato e sancito dalla guānxì da fratello maggiore a fratello, da cinese a cinese, si riconsegna alla logica del profitto passando per classi dirigenti italocinesi di commercialisti e avvocati, medici e magistrati, disposti a coprire facilmente «il paradiso fiscale» di denaro liquido proveniente dal lavoro del capitale umano sfruttato.

Un sabato pomeriggio dai carabinieri

Il sabato pomeriggio di un novembre malinconico del 2013, poche settimane dopo la fiera di San Martino di Santarcangelo di Romagna, la madre di Yŏng mi chiama per chiedere di accompagnare lei e suo figlio a fare una denuncia di aggressione avvenuta davanti alla scuola.

Non è per il lavoro di mediazione nella scuola che mi chiama. Avrebbe potuto mantenere la riservatezza di fronte a me, ai professori, ai banchi dei bianchi «che olezzano di formaggio» e che sono sempre pronti ad etichettare «sì… ma voi cinesi, il commercio, l’illegalità, la contraffazione». Avrebbe potuto trovare facilmente aiuti dai suoi connazionali, «i giovani generazione-banana». Figli di migranti, gialli fuori e bianchi dentro, che parlano bene italiano… bene nel senso che sono molto veloci nell’esposizione, che non parlano per monosillabi, che centrano tutte le erre…  perfetti nella traduzione. La donna però, non fa questa scelta.

Le dico che non posso fare quel genere di mediazione, perché è al di fuori di quelli che sono «i miei mandati istituzionali» (le autorizzazioni di Ai Tian non sono poi del tutto passate, anche sul versante occidentale). Ma poi lei mi dice: «安不忘危 Ān bù wàng wéi. Non c’è pace senza previsione di guerra, non c’è pace se manca il coraggio per la verità. E non c’è coraggio se non si osa sognarla, la pace. Ogni giorno. Non c’è pace nella misura in cui ti dimentichi di quali siano i rischi».

Per lei, come madre che deve accompagnare suo figlio aggredito da compagni di scuola davanti ai carabinieri. Rischi forse molto diversi dai dubbi di ieri, quelli che avranno attraversato il pensiero e la decisione di Li Madou davanti ad Ai Tian: restare senza scappare; ascoltare; i dubbi e i timori, ma restare; avere il coraggio di stare in mezzo.

La madre di Yŏng teme che, se non c’è una persona italiana, non verrà creduta e nemmeno ascoltata. Non teme solo questo. Alcuni suoi connazionali residenti nella comunità della nostra civilissima Italia sono stati insultati e maltrattati. A Roma, Prato, Reggio Emilia.

Il sistema di 关系 guānxì (ovvero – come già abbiamo spiegato – i legami che si stabiliscono nelle comunità cinesi) accorcia le distanze in un territorio. Si sa, fra i migranti cinesi per i quali le guānxì, le relazioni, i legami sono il principale e più attendibile modo di comunicare. Si sa che in Italia è così: quando si denuncia qualcuno che non è un tuo connazionale rischi di non essere creduto. E magari anche pestato. Alcuni membri della comunità sono stati picchiati da «certe forze dell’ordine» che avrebbero dovuto solo raccogliere la testimonianza e verificare «le autorizzazioni a stare»: oggi quell’autorizzazione è il documento di permesso soggiorno.

«Certi carabinieri funzionari dell’ordine pubblico – ribadisce la madre di Yŏng – 没有教 Méiyŏu jiào, non hanno insegnamento».

Anche se hanno più possibilità di trasporto e comunicazione, certi detentori che abusano del loro potere non si metterebbero mai in viaggio come fece invece Ai Tian davanti a «un ospite indesiderato», stanziatosi nella capitale, quale era stato Matteo Ricci. E nemmeno quei carabinieri sarebbero stati capaci di rimanere fermi davanti al dubbio, per giungere ad una verità più profonda. Non abbastanza fermi davanti al dubbio, come rimase fermo Matteo Ricci, accettando il rischio di essere espulso dall’impero per un mancato permesso.

Il viaggio e il valore della diversità

Entrambi, Ai Tian e Li Madou, l’ebreo cinese di Kaifeng e il gesuita italiano di Macerata, seppero restare custodi di un’insufficienza di fronte alla traduzione e resero possibile l’incontro di due mondi proprio perché mantennero viva la curiosità per «l’assolutamente diverso», l’uno dell’altro, che veniva incontro. Nel dialogo, non cedettero alle lusinghe di preconcetti e di linguaggi tecnicisti che avrebbero facilmente creato distanze interpretative, con inimicizia e diffidenza. Seppero, pur nei loro silenzi, guardare alle analogie, alle immagini; seppero cercare la traduzione, pur non conoscendo bene l’uno la lingua dell’altro. Seppero rimanere aperti al futuro, anche se mancavano le parole del passato poiché quell’incontro fu il primo inedito, storico. Fra un funzionario mandarino confuciano ebreo e un missionario, gesuita, cattolico, italiano. Oggi si è più vicini grazie alle connessioni internet, si viaggia con più rapidità, si può disporre in pochi secondi di tutte le traduzioni negli spazi virtuali del web, tuttavia con più facilità si edificano prigioni di comunicazione davanti allo schermo di un computer. Manca il coraggio di intraprendere un viaggio, il coraggio di vivere il valore della diversità nel dialogo, di incontrare l’identità «assolutamente altra» assumendosi tutti i rischi che una mancata tensione verso una cultura di pace può causare.

La guerra è già oggi scontro di civiltà. E la pace richiede responsabilità e risposte da parte di tutti.

Tempi inediti ci attendono per vivere il coraggio «in quel punto zero in cui si apre a sorpresa il Cielo»19. Non serve, come mi ha insegnato Jun Yŏng, essere degli eroi per «stare dentro» a una cultura di pace, viverla in una dimensione esperienziale, in un gesto, in una parola, in un rapporto umano nella normalità che ciascuno di noi è, con tutti i limiti del nostro «essere persone».

A volte, forse, basta solo avere il coraggio di sorprenderci davanti alle nostre mancanze, e cambiare sguardo: sorprenderci al punto da uscire da noi stessi per diventare partecipi della bellezza del Cielo e anche su questa nostra amata Terra – direbbe l’ebreo di Kaifeng – mettersi in viaggio per amare l’«emèt», cioè la verità (in lingua ebraica).

Vittoria Pollini


Appendice

Storia degli ideogrammi cinesi

Le tre più antiche forme di scrittura del mondo sono: i caratteri cuneiformi dei Sumeri, i geroglifici degli egiziani e gli ideogrammi dei cinesi. Fra le tre, solo gli ideogrammi sono ancora in vita ed in uso. Gli ideogrammi sono anche caratterizzati da uno stretto legame con i pittogrammi. Ogni forma di scrittura ha avuto origine da forme pittografiche. La scrittura cinese conserva la sua peculiare originalità perché non si è mai diretta verso una trascrizione fonetica come invece è accaduto con le lingue occidentali.

Il 1949 è l’anno di fondazione della Repubblica popolare cinese. Solo nel 1956 fu ufficialmente stabilito che il 普通话 (pǔtōnghuà = lingua comune) sarebbe stato l’idioma nazionale. Nell’epoca delle dinastie, la «lingua comune» era patrimonio esclusivo di chi possedeva gradi di istruzione elevata ed apparteneva alle classi privilegiate. Nel 1911, anno di fondazione della Repubblica Nazionalista di Sun Yat-Sen, la lingua nazionale era ancora solo il 国语 (guóyǔ= lingua nazionale, cinese mandarino meno classicheggiante rispetto alla lingua 官话 guānhuà = la lingua dei funzionari amministrativi dell’epoca imperiale), una lingua più vicina al 白话 báihuà = il vernacolare, la lingua colloquiale dialogica dell’epoca imperiale che veniva trascritta nelle opere minori, non nella stesura dei 经 jìng, i libri dei classici.

Questa lingua 白话(= báihuà), la lingua chiara (白 = bái = chiaro, bianco), era la lingua del dialogo «caratterizzato dalla bianca chiarezza», non rappresentava ancora la lingua parlata dalla popolazione, che – per la maggior parte – si esprimeva in forme dialettali.

Occorre dunque attendere il 1956 per assistere alla riforma della lingua che prevede l’adozione di un sistema di traslitterazione fondato sull’alfabeto latino detto 拼音 (= pinyin, letteralmente significa «annotazione piana di suoni»). Il pinyin è attuale sistema di traslitterazione degli ideogrammi, si compone di 26 lettere che vanno combinate e danno vita a circa 400 sillabe.

Le 400 sillabe del pinyin sono la base per la lettura fonetica degli oltre 40.000 ideogrammi cinesi attualmente presenti nel Dizionario Kangxi. Oggi, la soglia di alfabetizzazione minima della popolazione cinese si posiziona sulla conoscenza di almeno 2000 caratteri/ideogrammi. Si può chiaramente comprendere che le 400 sillabe tonali del pinyin non trovano corrispondenza univoca negli oltre 40.000 ideogrammi e nelle loro combinazioni: si tratta appunto, di un sistema convenzionale di note fonetiche che «si appoggiano» sugli ideogrammi per supportare l’occhio occidentale nella lettura. Ma la conoscenza degli ideogrammi e la loro memorizzazione, il loro inscindibile legame con la scrittura, ha un’altra storia.

Note

(1) Il comunicato ufficiale: Nota informativa sulla chiesa cattolica in Cina del 22/09/2018, reperibile su press.vatican.va.  Il commento su avvenire.it: Stefania Falasca, Santa Sede e Cina, firmata la storica intesa, 22 settembre 2018.

(2) Si veda il glossario sul sito della rivista.

(3) Così la professoressa Zhang di Scienze Giuridiche, che insegna cinese agli studenti stranieri a Nanchino.

(4) È l’espressione che – negli anni Sessanta – indicava coloro che abitavano nei rifugi di paglia. Si veda Dentro la Cina rossa di Virgilio Lilli, Mondadori editore 1961, cap. 3 pp. 76-103.

(5) A partire dagli anni Cinquanta, ci fu nella Rpc una massiccia espansione dell’istruzione di base. Il governo si interessò attivamente alla condizione educativa in un contesto in cui i contadini, quasi del tutto incapaci di leggere e scrivere, cominciavano a formare le prime cooperative rurali. Gli intellettuali divennero il principale strumento di diffusione della filosofia dell’educazione e prassi maoista: non dovevano solo alfabetizzare, ma dovevano imparare dalla popolazione rurale il valore del lavoro fisico. Furono nel contempo strumenti e vittime della Rivoluzione Culturale. Molti intellettuali vennero anche uccisi dalle Guardie Rosse.

(6) Ibidem, Virgilio Lilli, pag. 16.

(7) Il trattato di Bretton Woods del 1944.

(8) Sono due province cinesi, rispettivamente a Sud Ovest e centro del paese.

(9) Il pinyin (拼音) è l’attuale sistema di traslitterazione degli ideogrammi, si compone di 26 lettere dell’alfabeto latino che vanno combinate e danno vita a circa 400 sillabe. Fu Mao Tse Dong a ufficializzare questo sistema nel 1956. C’era stato già nel 1859 un tentativo di «romanizzare» la lingua cinese attraverso il sistema Wade-Giles che fallì poiché risultava troppo pressapochista. Più dettagli nel riquadro di pag. 46 e sul sito.

(10) «Ordalia»: Giudizio di Dio, verifica – attraverso dure prove – dell’innocenza o colpevolezza altrimenti non regolabili con mezzi umani. È chiamato anche duello di Dio.

(11) Si veda in proposito Paolo Prodi, Una storia della giustizia, Bologna, Il Mulino, 2000, pp.279-288. «La scienza canonista perse la sua funzione fondamentale di generatrice di diritto». Le istituzioni ecclesiastiche subirono un’accelerazione verso due direzioni: imitazione della società statale da un lato e, all’opposto, sforzo di creare una dimensione normativa che si potesse sottrarre alla dimensione positiva dello stato.

(12) Sul significato di seduzione spirituale si legga Pavel Florenskij, Le porte regali, nell’edizione italiana Adelphi, gennaio 2012. Si veda anche il glossario.

(13) Si veda il prologo in Mandarins, Jews and Missionaries- The Jewish experience in the Chinese empire, di Michael Pollak, ed. Society of America, 1980.

(14) Ibidem, pag.4: «Eppure Ai Tian stava pianificando una visita alla piccola colonia (di Kaifeng) da parte di un contingente di ospiti (venuti dalla lontana Europa), un contingente di ospiti che si era stabilito recentemente a Pechino». Da queste poche righe si intende che – almeno nella fase preliminare all’incontro con Matteo Ricci – Ai Tian considerava l’arrivo degli stranieri d’Occidente in Cina come un rifiuto degli stessi nel loro paese d’origine. Ai Tian sapeva che Matteo Ricci non era stato invitato dall’imperatore ed aveva inizialmente immaginato che i viaggiatori forestieri fossero stati allontanati dalla madrepatria per una qualche ragione «non autorizzati» più a stare. Da questo punto di vista, il compito di Ai Tian non sarebbe stato solo quello di verificare l’identità dell’ospite sgradito ma anche quello di cercare di capire perché fosse indesiderato in patria. Fu quindi il dialogo fra i due che chiarì la sorte di Matteo Ricci. Una volta riconosciutane l’identità religiosa (era comunque un fedele della religione dei patriarchi), Ai Tian pensò di pianificare una visita alla colonia ebraica di Kaifeng.

(15) La traduzione del chengyu è «accompagnare il vento» (si sottintende: «facendolo entrare nella propria casa») per lavare la polvere (della propria dimora). È un chengyu, un’espressione a quattro ideogrammi con significato particolare. Proverbiali gocce di saggezza che sciolgono importanti nodi conflittuali nella comunicazione. Chi padroneggia bene i chengyu, oltre ad essere un grande saggio, è capace di elevare il pensiero alla metafora e di concretizzare il pensiero in situazioni di vita.

(16) Ibidem, Mandarins, Jews and Missionaries.

(17) Provincia a Sud Est della Cina, una provincia grande come l’Italia. Sono del distretto di 青田 Qīngtián, i genitori di Yŏng. Mi spiegano che, oggi, Qīngtián è diventata una colonia commerciale, una metropoli grazie anche agli investimenti degli attuali postmoderni 华侨 = huáqiáo, i cinesi d’oltremare che ritornano a casa a fare le ferie ad agosto. Quando le fabbriche a Forlí, Cesena e Rimini chiudono, sono finalmente liberi di andare «a rinfrescare lo spirito
(神经 = shénjīng). Si dirigono velocemente a Bologna con i loro Suv o Wuling per acquistare l’ultimo biglietto last minute AirChina. Lo 神经 (shénjīng) è da ritrovare nella loro Zhejiang. Lo shénjīng non è solo il sistema nervoso: è prima di tutto il respiro che alita sulla parola affinché il pensiero scorra meglio. In un’intervista-dialogo fra generazioni a suo figlio Zhenyu, scrive Ai Cui, signora che esce dalla strada «quando vai in Cina, le parole scorrono meglio, ti porti indietro quello spirito, di nuovo, poi finalmente ti rialzi. Quello spirito combattivo che ti porti, di nuovo ti fa rialzare».

(18) Secondo Jonathan Noble, la politica di Deng Xiaoping di liberalizzazione economica e commerciale, la politica del 开放 kāifàng, non bastò però al progresso di civile economia perché non fu supportata dalla trasmissione e traduzione dei valori estetici, etici, culturali che fanno la storia di un paese.

(19) Scrive il teologo Herbert Lauenroth: «È nel punto zero che si apre a sorpresa il Cielo [ …] Solo l’esperienza umana della paura, come perdita di un tipo d’immagine di Dio, dell’essere umano e del mondo, un tempo in voga, sprigiona ciò che Tillich ha chiamato, appunto il coraggio di esistere». Pag. 164-165 del suo articolo Nell’era della paura, in Gen’s, rivista di vita ecclesiale n°4 ed. 2016.


Hanno firmato questo dossier:

  • Vittoria Pollini, 朵朵波林老 (Duǒduǒ Bōlín lǎoshī) Laureata in filosofia presso l’Università di Bologna e in lingua e letteratura cinese presso l’Università di Kunming, Yunnan (Cina), è mediatrice culturale. Frequenta la Cina dal 2008. Il suo ultimo viaggio risale a gennaio 2019. Lavora nella progettazione di piani di comunicazione interculturale e facilitazione linguistica; collabora nelle scuole per servizi di traduzione e interpretariato cinese-italiano. Vive e lavora tra Cesena e Rimini.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC,
    墨流拉期刊, MC 编辑(Bǎoluó Mòliúlā – qíkān jìzhě, MC biānjí bù).



Un secolo di Consolazione con l’Allamano:

100 anni di Tanzania

Indice

Introduzione

21 aprile 1919, ore 21

Affascina di più il
sole o la luna? Meglio il sole che illumina il giorno o la luna che rischiara
la notte? L’Africa di ieri gradisce soprattutto l’astro del giorno e assai meno
il pianeta della notte. All’alba si esce per zappare il campo, condurre pecore
e capre al pascolo, raggiungere il mercato. Al tramonto ci si rifugia in casa
attorno al fuoco, compresi i mariti un po’ brilli di ritorno dall’osteria.

Non fa eccezione il Tanzania, anche
perché la tenebra è il tempo dei ladri, del leopardo e della iena, nonché degli
stregoni con i loro traffici loschi.

E, tuttavia, i primi missionari
della Consolata misero piede in Tanganyika/Tanzania proprio di notte, alle ore
21 del 21 aprile 1919. Però, il giorno successivo, eccoli nel sole glorioso,
pronti a «rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte e
dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Luca 1, 78-79).

Da Dar Es Salaam, «porto della
pace», iniziò l’avventura missionaria dei nuovi arrivati: i padri Giovanni Ciravegna, Giacomo Cavallo, Gaudenzio Panelatti
e Domenico Vignoli. Missionari
italiani, ma provenienti dal Kenya.

Perché dal Kenya? Perché dal Kenya ci «fu un atto di
carità che noi missionari della Consolata abbiamo compiuto», scrisse monsignor
Filippo Perlo, vicario apostolico in quel paese, sul numero di agosto del 1922
di «La Consolata».

Perlo aveva ricevuto un appello da
parte di Thomas Spreiter, vicario apostolico in Tanganyika, di rimpiazzare con
i missionari della Consolata i Missionari Benedettini tedeschi, costretti ad
abbandonare la colonia del Tanganyika dopo la sconfitta della Germania nella
Prima guerra mondiale.

Perlo spiegò quell’«atto di carità»
precisando: «Pare una contraddizione che siano dei poveri a fare la carità,
mentre questo sarebbe un naturale affare dei ricchi. Dobbiamo arrabattarci per
far fronte alle esigenze presenti senza riuscirci. Ciò nonostante troviamo del
personale per “imprestare” ad altri»1.

Imprestare? Il termine non centrava
in pieno il valore del gesto dei missionari, perché la loro «carità» non sarà ad tempus, bensì totale. E dura tuttora a 100 anni di distanza.

F. B.

Inizia l’Avventura:
I quattro, dell’Ave Maria

I protagonisti di questa storia sono i missionari della Consolata: padri,
fratelli e suore, con i fedeli, i catechisti, i religiosi, i sacerdoti e i
vescovi del Tanzania. Una storia che inizia 100 anni fa, quasi per caso. Come
tutte le belle storie. E poi prende corpo e si consolida. Fino ad arrivare a
oggi, tempo nel quale i missionari tanzaniani partono per i cinque continenti.

Arrivati da
pochi giorni a Dar Es Salaam, la capitale, il 4 maggio 1919 i quattro
missionari partirono alla volta della cittadina di Iringa: il primo tratto in
treno fino a Kilosa e poi in carovana con 60 portatori, soprattutto pedibus calcantibus fra sassi e
acquitrini. «Partiamo a cuor contento – scrisse padre Ciravegna -, risoluti con
l’aiuto di Dio di assecondare con tutte le nostre forze la divina grazia
nell’opera di resurrezione morale delle missioni, prive da tempo dei loro
pastori»2.

Giunsero a Iringa il 19 maggio, dove si fermarono alcuni
giorni. Ogni sera, all’ora dell’Ave Maria, lodavano la Consolata. Poi si
stabilirono nelle missioni di Tosamaganga e Madibira, «ereditate» dai
missionari Benedettini. Missioni distanti da Iringa, rispettivamente, 20 e 150
chilometri.

Tosamaganga sorge su un territorio collinoso e roccioso,
popolato dai Wahehe, gruppo etnico che vanta l’eroe nazionale del Tanzania, il
sultano Mkwawa.

Costui per due anni aveva eluso la caccia dei tedeschi
decisi di conquistare il Tanganyika. Nel 1898, probabilmente tradito da uno dei
suoi, il sultano si era suicidato per non essere preda dei nemici invasori. I
tedeschi gli avevano mozzato la testa e l’avevano portata come trofeo in
Germania. Decenni dopo, il nipote Adam Sapi Mkwawa, presidente del parlamento
del Tanzania, sarebbe andato a riprendere il teschio del nonno.

Adam, musulmano e padre di 10 figli avuti da una sola
moglie, è ricordato oggi come amico dei missionari della Consolata, come anche
il padre Sapi Mkwawa.

Madibira è terra dei Wasangu, Wabena e Wahehe, tre gruppi
etnici che vivono in armonia e si esprimono in un buon swahili. Intelligenti,
estroversi, coltivatori di mais, riso e arachidi, i madibiresi non disdegnano
di cacciare il bufalo e l’elefante. I loro nemici sono la zanzara e la mosca
tzetze, che stermina pecore e vacche.

I quattro missionari (due a Tosamaganga e due a Madibira)
si misero subito all’opera, ossia «al grande bucato per ripulire le missioni»,
per dirla con l’arguto padre Ciravegna3.

In termini più prosaici e concreti: i missionari
ripararono dispensari medici, aule scolastiche, abitazioni e chiese; chiamarono
a raccolta catechisti, cristiani e catecumeni; riaprirono i registri dei
battesimi e dei matrimoni. Il tutto fra dubbi e difficoltà.

«Però, a poco a poco, numerosi cristiani sperduti
ritornarono al Pastore. La campanella della missione riprese a suonare nel
giorno del Signore, e, di nuovo, la preghiera saliva al Padre che è nei cieli»4.

Onore a monsignor Cagliero

Il risultato di tanta evangelizzazione fu la creazione,
nel 1922, della Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsignor Francesco
Cagliero, pure lui proveniente dal Kenya, ma non più «imprestato».

Nel 1923 il personale missionario si arricchì di nuovi padri,
alcuni fratelli coadiutori e diverse suore. Uomini e donne, zelanti e
gagliardi, che consentirono la riapertura delle missioni di Bihawana e
Padangani fra i Wagogo, e non solo.

Però attenti alla salute! Al riguardo, le raccomandazioni
di monsignor Cagliero sono pertinenti e fraterne. Per esempio: obbligo di usare
la zanzariera, perché «siamo tutti più o meno malarici»; coltivare l’orto per
procurarsi frutta e verdura; «il cibo sia conveniente, abbondante e pulito». E
poi: «Mi dicono che all’Iringa vi sono i migliori scrittori dell’Istituto.
Perciò mano alla penna. Scriviamo articoli, relazioni, lettere per farci
conoscere e avere sussidi»5.

Nel 1939, dopo 20 anni di missione, la situazione era la
seguente: cattolici 14.211, catecumeni 1.519, studenti della scuola elementare
5.151, studenti della Central
School 107, scuole magistrali per ragazze
28, allievi delle scuole professionali 21.

Degna di nota è la Secondary School di Tosamaganga (tutt’oggi in esercizio). Padre Francesco Sciolla vi dediò 40 anni, portandola alle soglie di università.

Ma «l’evento più avvenimento» risale al 1932: la
fondazione dell’Istituto delle suore missionarie di Santa Teresa di Gesù
Bambino, religiose tanzaniane, dette «Teresine». Secondo la cultura africana,
una donna non è tale se non diventa madre di figli. Ebbene era ipotizzabile,
nel 1932, che alcune donne rinunciassero volontariamente alla maternità per
essere «suore»? Non lo era, a meno che non ci fosse «lo zampino dello Spirito
Santo».

Onore al coraggio evangelico di monsignor Cagliero,
fondatore delle Teresine, oggi circa 400, operanti anche in Italia.

Però che peccato che questo missionario pioniere se ne sia andato così fretta. Aveva 60 anni quando trovò la morte, il 22 ottobre 1935, in un incidente d’auto. Prima di partire per il safari (viaggio, ndr), monsignor Cagliero disse: «Quando sarò di ritorno, vivo o morto, suonate le campane»6.
E le suonarono. A morto.

In residenza coatta

Le campane suonarono ancora il 1 aprile 1936, ma questa
volta a festa: la Prefettura apostolica di Iringa, quel giorno, ebbe un nuovo
pastore. Si chiama Attilio Beltramino, di 35 anni. E, manco a farlo apposta,
anch’egli veniva dal Kenya, come i «quattro dell’Ave Maria» e il compianto
monsignor Cagliero.

Ora, però, non si parli più di «prestito», bensì di
«investimento». Investire nell’annunciare «la consolazione del Signore»
attraverso nuovi missionari e missionarie. Lo si fece aprendo le parrocchie di
Kaning’ombe nel 1937, di Ilula, Pawaga e Mtandika nel 1939. Nomi ostici per il
lettore italiano, che dicono e non dicono. Ma per il missionario significano
lacrime e sangue.

E, come se questo non bastasse, ecco la stramaledetta
Seconda guerra mondiale. L’Italia si ritrova contro la Gran Bretagna.

Il 16 giugno 1940 in Tanganyika scattò il rastrellamento. «Tutti i nemici stranieri italiani» della Prefettura apostolica di Iringa (missionari e missionarie) dovettero subito ritrovarsi a Tosamaganga.
La deportazione era quasi certa.

Sennonché intervenne monsignor Edgar Maranta, missionario
cappuccino, vicario apostolico di Dar Es Salaam e amico della Consolata.
Parlava la lingua di Dante, ma non era italiano, bensì svizzero.

Circa «i nemici italiani» dichiarò: «Sui missionari della
Consolata garantisco io. Signori di sua maestà la Regina, vi do la mia parola
d’onore: i missionari staranno ai vostri patti, ma voi non allontanateli dalle
loro sedi»7. E così fu.

L’intesa raggiunta venne formalizzata sulla «parola
d’onore» del vicario svizzero. Ma era da sottoscrivere da ciascun missionario
italiano ogni sei mesi. Altre clausole dell’accordo erano: proibito
allontanarsi dalla missione oltre un miglio; vietati gli spostamenti di
personale; censura di ogni lettera spedita e ricevuta; nessun discorso politico
con la gente locale.

Le limitazioni non erano una bazzecola. Meglio, comunque,
«la residenza coatta» che la deportazione in qualche landa di sua maestà la
Regina, come avvenne per i missionari della Consolata del Kenya, confinati in
Sudafrica.

Coraggio e strategia

A peste, fame et bello: tutti i missionari conoscevano queste parole latine. Le avevano pure
cantate in chiesa. Soprattutto avevano sperimentato sulla loro pelle le
conseguenze della peste, della fame e della guerra. E non potevano che
concludere: libera nos Domine.

Tuttavia non si scoraggiarono, nonostante i momentanei
fallimenti.

La missione esige costante coraggio e sempre nuove
strategie di crescita umana e religiosa. Non fa eccezione il Tanganyika dei
missionari della Consolata, i quali nella conferenza di Tosamaganga del 22-26
aprile 1937 stabilirono:

1. Azione pastorale. Far crescere le comunità con iniziative appropriate, quali: formazione
dei catechisti, spina dorsale della evangelizzazione; durante la Settimana
Santa esercizi spirituali anche per i fedeli; avviare l’Azione cattolica.

2. Scuola. È un
obiettivo da cui non si può deflettere. Fare sì che le scuole di missione siano
riconosciute dall’Amministrazione britannica, anche per ottenere un sussidio
per lo stipendio dei maestri.

3. Attenzione alla cultura, incominciando dallo studio degli idiomi locali, oltre
che dello swahili. Raccogliere informazioni sugli usi e costumi del paese, sul
fenomeno della poligamia e della circoncisione8. Dare vita ad una «biblioteca di famiglia», archiviando
documenti e schedando riviste e libri.

4. Africanizzazione. Termine sconosciuto nel 1937. Il progetto è far crescere la chiesa
locale con preti e suore autoctoni. Si prospetta la fondazione di «fratelli
religiosi» tanzaniani. Ma pare un’utopia.

5. Promozione umana. Oltre a Tosamaganga «cittadella di Dio», anche altrove operano
strutture di promozione umana, ma con scarsa incidenza. Occorre qualificare i
dispensari medici, aprire scuole di economia domestica e centri di formazione
umana e religiosa.

6. Ecumenismo. Il Concilio
ecumenico Vaticano II è ancora nell’iperuranio. I cattolici e i protestanti si
contendono il campo con corse sfrenate. Chi primo arriva, comanda. Urge un
rapporto di amicizia e buon vicinato.

7. Amministrazione. Un
missionario aprì un conto personale in banca senza permesso. «Dovetti
rimproverare questi sotterfugi di amministrazione», intervenne monsignor
Beltramino9. Quindi: trasparenza economica.

Grazie ai campi di… tabacco

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e
tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» (Matteo 6, 33). Ma è pure sacrosanto
il detto: aiutati che il ciel ti aiuta.

I missionari vivevano nella povertà, la quale non sempre
è «perfetta letizia». Però non si piangevano addosso. Per disporre di qualche
soldo in più, qualcuno prospettò la coltivazione di tabacco.

La prima prova del 1941 fu una delusione. La seconda
dell’anno successivo destò speranze. Però il terreno disponibile era scarso e
da disboscare. E poi: guai a cercare un terreno migliore altrove, «sconfinando
oltre il miglio», imposto dagli inglesi durante la guerra maledetta!

Sbocciò la pace, e la musica cambiò. L’evangelico «tutto
il resto in aggiunta» prese consistenza proprio grazie al tabacco.

Fuori metafora: il 13 gennaio 1948 Lord Chesham,
anglicano, ma amico dei missionari della Consolata, abbracciò la fede
cattolica. Chesham era un anziano e ricco inglese che donò ai missionari due
vasti appezzamenti di terra a Makalala e a Ulete.

Si riprese a coltivare tabacco con successo. I campi di
tabacco non sono «sani», perché il fumo uccide: questo col senno di poi.
Tuttavia, grazie ai proventi del tabacco (come pure a quelli del mais, riso,
arachidi, piretro, ecc.), i missionari poterono finalmente costruire scuole a
norma, ambulatori efficienti e chiese capaci, senza più stendere il cappello
per elemosinare quattrini. Il modello era, ed è, il missionario Paolo di Tarso,
il quale affermava: «Alle necessità mie e di quanti erano con me hanno
provveduto queste mie mani. In tutti i modi ho dimostrato che, lavorando, si
devono soccorrere i poveri» (Atti degli Apostoli 20, 34-35). L’apostolo Paolo
era un tessitore di tende e stuoie.

«Suo padre è musulmano»

Nel frattempo la Prefettura apostolica di Iringa divenne
«Vicariato apostolico». In termini più accessibili: ora Attilio Beltramino non
è solo «monsignore», ma anche «vescovo».

L’insediamento del nuovo presule avvenne il 27 maggio 1948. Il suo motto era: In Deo meo transgrediar murum (Salmi 17, 30), cioè: «Con il mio Dio scavalcherò il muro».

Un motto che sa di battaglia in ogni angolo del mondo,
Italia compresa. Un motto contro le schedature dei rom, le chiusure dei porti
ai migranti, i reticolati tra paese e paese. Abbasso «i muri della vergogna»,
come quello tra Messico e Stati Uniti voluto da Donald Trump.

Con «sua eccellenza» monsignor Beltramino, la chiesa
locale di Iringa crebbe, specie in qualità.

Un «salto di qualità» lo si ebbe, nel 1945, con
l’ordinazione al sacerdozio del primo tanzaniano, padre Titus Fumbe.

Un altro salto di qualità (o «traguardo vittorioso», come
scrisse padre Alessandro Di Martino) fu la nascita nel 1949 dell’Istituto
religioso dei Fratelli africani. Come per la fondazione delle «Suore Teresine»,
valeva l’espressione evangelica «farsi eunuco a motivo del regno dei cieli»,
con l’aggiunta (non di poco conto): «Chi può capire capisca» (Matteo 19, 12).
Perché si trattava di un pugno nella pancia della cultura africana.

Ma il salto forse «più qualitativo» non era ancora
avvenuto. Nel seminario di Tosamaganga studia un certo Mario Abdallah Mgulunde.
Sì, Abdallah, figlio di un musulmano. E come non guardarlo con sospetto.

Però Mario Abdallah superò tutti gli esami. Nel 1963 è sacerdos in aeternum. Poi partì
per Roma per laurearsi in Diritto canonico.

«Cari superiori, scusate! Questo non è troppo? Che farà
poi questo nero di genitore islamico?». Chi vivrà vedrà.

Missionari della Consolata al Capitolo generale del 1999 in Kenya con Julius Nyerere

Tre passi indietro

A questo punto, la storia dei 100 anni dei missionari
della Consolata in Tanganyika-Tanzania ha compiuto un balzo in avanti
eccessivo. Quindi si torni indietro, per ricordare tre eventi significativi.

• Indipendenza del paese

La magica ora dell’indipendenza del Tanganyika scoccò a
mezzanotte tra l’8 e il 9 dicembre 1961. Si ammainò la bandiera dell’Impero
Britannico, mentre le stelle si compiacevano di quella inedita del Tanganyika
indipendente. Il nuovo stendardo armonizzava il nero del volto dei cittadini
con l’azzurro dell’Oceano Indiano, il verde della foresta con il giallo
dell’oro delle miniere.

Fu una indipendenza pacifica. Il che non è poco, se si
pensa alla indipendenza «insanguinata» di tanti altri paesi africani.

I missionari della Consolata, in tutte le loro sedi,
salutarono l’evento anche con il fragore beneaugurante dei mortaretti.

• Concilio Ecumenico Vaticano II

Per
la Chiesa cattolica fu l’evento più innovativo del XX secolo. Si svolse a Roma
dal 1962 al 1965 con tutti i vescovi del mondo. 
Papa Giovanni XXIII (oggi santo), nel discorso di apertura del Concilio,
11 ottobre 1962, dettò le nuove regole del «gioco» dichiarando: «La Chiesa si è
sempre opposta agli errori. Ora tuttavia preferisce usare la medicina della
misericordia piuttosto che quella della severità. Essa ritiene di venire
incontro ai bisogni di oggi, mostrando la validità della sua dottrina,
piuttosto che rinnovando condanne». Da quel momento i pastori luterani e i
parroci cattolici non si sarebbero contesi più la piazza con corse sfrenate,
onde arrivare primi. Questo fu un grande traguardo del Concilio.

Consultado vecchi documenti d’archivio risalenti ai tempi dei Benedettini.

• Da un vescovo all’altro

Al Concilio Vaticano II partecipò anche il vescovo
Attilio Beltramino. Aveva già le valigie pronte per l’ultima assise, il cui
inizio era previsto per il 28 ottobre 1965. Ma il 3 ottobre morì. Aveva 64
anni. Lo sconcerto fu inimmaginabile.

Fedele al suo motto «con il mio Dio scavalcherò il muro»,
il vescovo Attilio si era donato alla Chiesa di Iringa anima e corpo per 30
anni. Missionario instancabile, religioso fedele, vescovo paterno quanto
risoluto.

Dopo una pausa di assestamento, ecco un mhehe (etnia Hehe, ndr) di
Tosamaganga a indossare la mitria. Ed è proprio lui, Mario Abdallah Mgulunde,
il primo vescovo africano di Iringa, consacrato il 15 febbraio 1970. Una
«eccellenza» giovane per una Chiesa ormai adulta.

Alla consacrazione episcopale di Mgulunde partecipò pure
il giornalista Beppe Del Colle, il quale mi confidò: «Quando il vescovo si
prostrò per terra per le Litanie dei Santi, notai che le sue scarpe erano
bucate…». Data l’emozione, il neo vescovo aveva sbagliato scarpe. Ma le calze
erano rigorosamente rosse.

Il cerchio si allarga

Già nel 1968 la diocesi di Iringa era troppo estesa, e
venne smembrata. Nacque la diocesi di Njombe. Sette missionari passarono armi e
bagagli alla nuova diocesi. Erano tutti sereni, eccetto quando dovevano
affrontare un viaggio.

«La notte precedente un safari non chiudo occhio, perché vivo in
anticipo l’incubo di quelle strade a strapiombo, che nella stagione delle piogge
sembrano lastricate di sapone. Tu non guidi l’auto, ma è l’auto che guida te
dove assolutamente non vuoi», mi confidò una volta padre Luis Arrieta Zubia,
spagnolo.

Ecco un’altra bella novità. A partire dagli anni ‘70, ai
missionari italiani si aggiunsero gli spagnoli e i portoghesi, i colombiani e i
brasiliani. Idem per le missionarie delle Consolata.

Inoltre trovarono spazio i missionari Fidei donum provenienti
da Agrigento, Bologna e Spalato in Croazia10. E, fra le
suore, anche le Religiose Camaldolesi.

Il cerchio missionario si allargò pure geograficamente.
Così nel 1973 sorsero le missioni di Ubungo e Kigamboni nella diocesi di Dar Es
Salaam. Kigamboni era a maggioranza islamica.

Nel 1986 e negli anni successivi i missionari si
insediarono a Heka e Sanza (diocesi di Singida), poi a Manda (diocesi di
Dodoma). Siamo nella Rift Valley dei Wagogo, una regione flagellata da una
siccità endemica. Gente più povera e meno istruita dei Wahehe di Iringa o dei
Wabena di Njombe.

«Manda è una missione di frontiera, di prima
evangelizzazione, come erano quelle di 60 anni fa – mi raccontò nel 2017 suor
Maria Loreta -. I cristiani sono pochi e per di più divisi in sètte. Molti,
inoltre, sono i seguaci delle religioni tradizionali, in balia della
stregoneria. Non poche ragazze a 14 anni sono già incinte. I divorzi sono
all’ordine del giorno. Ma non ci perdiamo d’animo»11.

Padre Antonio Zanette

Da Manda a Sanza

Tempo fa a Manda fui ospite di padre Toni Zanette, da 51
anni in Tanzania. Con lui visitai alcuni villaggi e, tra un luogo e l’altro,
raccolsi le sue riflessioni. «Ho girato questa zona in lungo e in largo,
dicendo a tutti: la religione di Gesù Cristo non è un imbroglio, ma rivela la
politica di Dio per costruire una società giusta e approdare allo sviluppo
vero».

«E la gente ti ha creduto?», domandai. «Non lo so –
rispose -. Fra i Wagogo il cristianesimo è ancora un fattore nuovo, ma
l’interesse sta crescendo».

A pranzo padre Toni mi offrì i funghi. E citò il detto
africano: «Oggi piove, ma i funghi non li trovi domani». Per dire che a Manda
bisogna saper attendere.

Nel pomeriggio andai con lui nella cappella di un
villaggio per alcuni battesimi. Ad un tratto avvertii un mormorio: stava
entrando una capra al guinzaglio di un musulmano. Silenzio assoluto. Il nuovo
arrivato ne approfittò per dire: «Padre Toni, sono qui per ringraziarti. Tu ci
hai portato l’acqua scavando 10 pozzi in questa terra desertica. Accetta il
dono di questa capra».

Applauso di tutti, mentre la capra acconsentiva al
passaggio di proprietà con un garrulo belato.

Il primo keniano

«Oggi lavoro a Sanza, a 50 chilometri da Manda –
esordisce padre Isaac Mbuba -. Mi si permetta di notare: i primi missionari
della Consolata in Tanzania erano bianchi e venivano dal Kenya, mentre io sono
il primo missionario della Consolata nero, proveniente pure dal Kenya».

Seguì la risata mia e sua. Eravamo in cucina,
sorseggiando il tè.

Padre Isaac oggi ha 65 anni ed è in Tanzania da 34. Agli
inizi avvertì un’aria di sospetto nei suoi confronti, perché proveniva dal
Kenya capitalista di Jomo Kenyatta, mentre in Tanzania vigeva il socialismo di
Julius Nyerere. Ma non ci badò.

Lavorò in varie parrocchie. A Kigamboni incontrò un vento
di perplessità, «perché ero il primo parroco nero, mentre tutti i precedenti
erano bianchi». Inoltre c’era tensione fra i musulmani in maggioranza e i
cristiani in minoranza. «Però la Consolata mi ha dato saggezza per non
schierarmi contro nessuno».

La conversazione toccò l’argomento scottante dei soldi.
«Noi africani dobbiamo impegnarci maggiormente con iniziative concrete, per
essere economicamente autosufficienti», rileva il missionario.

Faccio notare: «Oggi l’evangelizzazione non è più in mano
ai missionari europei, bensì a quelli africani. Padre Isaac, dopo 34 anni di
Tanzania, quali sono le tue raccomandazioni ai confratelli africani?».

«Le raccomandazioni sono tre:

• la prima, maggiore attenzione ai catechisti, che sono i
primi evangelizzatori del paese; senza catechisti la chiesa è morta;

• la seconda, maggiore collaborazione con i laici; i
laici fanno crescere la chiesa, non solo i padri; spesso noi preti siamo
separati dalla gente, i laici no;

• la terza, che non è una raccomandazione, bensì una
dichiarazione: ringrazio il Signore per essere missionario e missionario della
Consolata».

Padre Giovanni Giorda

Epilogo

A Iringa ho completato il dossier sul Centenario dei
missionari della Consolata in Tanzania. Poco fa ho sostato davanti al monumento
dell’Indipendenza della nazione, con la sua fiaccola.

Anche i missionari della Consolata, in preparazione al loro Centenario, hanno accesa una fiaccola, che è passata in pellegrinaggio in tutti i loro centri di evangelizzazione.
Ennesima luce per illuminare e consolare.

Francesco Bernardi

La date più importanti

  • 21 aprile 1919 – I primi missionari della Consolata approdano in Tanganyika. Si stabiliscono a Tosamaganga e Madibira.
  • 1922 – Nasce la Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsgnor Francesco Cagliero.
  • 1932 – Fondazione dell’Istituto delle Suore Missionarie di S. Teresa di Gesù Bambino, dette «Teresine».
  • 22 ottobre 1935 – Monsignor Cagliero muore in un incidente stradale. Ha 60 anni. Gli succede monsignor Attilio Beltramino.
  • 22-26 aprile 1937 – Conferenza programmatica di Tosamaganga su: pastorale, scuola, attenzione alla cultura e altro.
  • 16 giugno 1940 – I missionari sono costretti alla «residenza coatta» durante la Seconda guerra mondiale.
  • 1948 – Si coltiva tabacco. Con i proventi si costruiscono scuole, dispensari e chiese.
  • 27 maggio 1948 – Monsignor Attilio Beltramino è nominato vescovo di Iringa, il primo.
  • 1949 – Fondazione dell’Istituto religioso dei Fratelli Africani da parte di mons. Beltramino.
  • 9 dicembre 1961 – Indipendenza del Tanganyika.
  • 26 aprile 1964 – Il Tanganyika diventa Tanzania con l’unione di Zanzibar.
  • 28 ottobre 1965 – Il vescovo Beltramino muore di infarto. Ha 64 anni.
  • A partire dal 1968 – Ai missionari italiani si aggiungono quegli spagnoli, portoghesi, kenyani, congolesi, colombiani, ecc.
  • 15 febbraio 1970 – Padre Mario Abdallah Mgulunde è consacrato vescovo di Iringa. È il primo tanzaniano.
  • A partire dal 1973 – I missionari operano anche a Dar Es Salaam, Singida, Morogoro, Dodoma, oltre che a Njombe (1968).
  • 1997 – Centenario della diocesi di Iringa. Il cuore delle celebrazioni sono Tosamaganga e Madibira, missioni della Consolata.
  • 2011 – Padre Salutaris Massawe è eletto superiore dei missionari della Consolata in Tanzania. È il primo tanzaniano.

I missionari della
Consolata in Tanzania sono 54, di cui 17 tanzaniani, 15 italiani e gli altri di
varie nazionalità. Complessivamente i missionari della Consolata tanzaniani nel
mondo sono 66.

F.B.

Il primo missionario del Tanzania

Per decenni i missionari della Consolata in Tanzania sono stati tutti
italiani. Ma, a partire dal 1970, si sono aggiunti missionari di altre
nazionalità. E chi è stato il primo tanzaniano?

Mi chiamo Evaristo Chengula. Sono
nato a Mdabulo, diocesi di Iringa. Non ho specificato la data di nascita,
perché non la so. Comunque, secondo il registro dei battesimi, sono nato l’1
gennaio 1941.

In
famiglia eravamo in sette, fra fratelli e sorelle, oggi rimasti in quattro. Una
sorella è suor Albertina, delle suore Teresine fondate da monsignor Francesco
Cagliero, al quale è dedicata anche una scuola secondaria a Tosamaganga.

Con
i genitori vissi poco tempo, perché già all’età di quattro anni entrai nell’utawani
della missione di Mdabulo.

L’utawani
era un sistema di educazione dei ragazzi e delle ragazze, ideato e promosso dai
missionari della Consolata. Scopo primario: frequentare la scuola elementare. I
ragazzi non potevano farlo abitando in famiglia, lontani dai centri scolastici.
Io ero il più piccolo dell’utawani di Mdabulo.

Oltre
che nell’istruzione scolastica, venivamo formati nella fede cattolica vivendo
insieme nella missione, che ci garantiva gratis vitto, alloggio e divisa
scolastica. Dopo la scuola, lavoravamo nei campi, essendo il lavoro parte
integrante del sistema educativo dell’utawani. Ogni nove mesi ritornavamo in
famiglia per le vacanze.

Nell’utawani di Mdabulo si contavano circa 200 ragazzi e 300 ragazze. Tutti felici12. Noi
ex ragazzi dell’utawani degli anni 1950-1960, se ci capita di incontrarci,
ricordiamo con gioia e riconoscenza quel tempo, e ognuno dice all’altro
scherzando: «Amico, non ti sei ancora stancato di pregare?».

Veramente
la preghiera era tanta, sotto la direzione di padre Paolo Gianinetto,
responsabile dell’utawani e parroco di Mdabulo.

Poiché
rimasi orfano in tenera età, la missione fu la mia casa.

Sei solo un ragazzo!

Avevo
11 anni quando dissi a padre Gianinetto: «Baba (babbo), io voglio diventare
sacerdote».

«Figlio
mio, tu sei solo un bambino!». «Anche tu lo eri quando hai rivelato il
proposito di farti prete», risposi senza paura.

Da
quel giorno padre Gianinetto è stato per me un vero papà.

Dopo
la quarta elementare, il missionario mi accompagnò a Tosamaganga. Qui incontrai
il rettore del seminario, padre Vincenzo Ramello, il quale mi squadrò da capo a
piedi e, indicando qualcosa con la mano, esclamò: «Vedi quei libri di filosofia
e teologia? Piccolo come sei, sarai capace di imparare tutte le cose scritte in
quei volumi?».

«Come
le hai imparate tu, le imparerò anch’io», risposi senza scompormi.

Poi,
notando sopra la scrivania del padre un calice per la Messa, dissi a me stesso:
«Anch’io un giorno alzerò un calice come questo».

Però
non volevo diventare «solo prete», bensì «prete e missionario della Consolata»,
perché ero attratto dalla loro vita, padri, fratelli e suore. Programmavano e
lavoravano insieme, mangiavano, giocavano e ridevano insieme. Le «discussioni»
non mancavano, ed erano pure aspre. Ma si ritrovava l’accordo e la pace.

Ero
già avanti negli studi del seminario, allorché rivelai al vescovo Attilio
Beltramino la mia vocazione missionaria. «Prima diventa prete diocesano, poi si
vedrà!», rispose secco.

Missionario in Congo

Nel
1970 venni ordinato sacerdote e quasi subito diventai missionario della
Consolata, il primo del Tanzania.

Per
sei anni mi occupai dei giovani di Iringa in parrocchia e nella Secondary
School. Poi fui mandato a Roma a studiare Spiritualità. Ritornato in Tanzania,
fui professore e «padre spirituale» nel seminario teologico maggiore di
Peramiho. Dovevo starci un anno, ma la permanenza si protrasse a cinque anni.

Partii
per il Congo (Rdc) negli anni ‘80, nella diocesi si Wamba, dove si parla
swahili. Un swahili assai diverso da quello del Tanzania. Conclusione: non ci capivamo.

Si
parla pure francese. Ma il mio francese rassomigliava a un vecchio camion in
salita, che arranca, sbuffa e sembra implorare: «Vieni a darmi una spinta! O,
meglio, spegni il motore».

Quando
padre Giuseppe Inverardi13,
superiore generale, venne in visita al Congo, manifestai il mio disagio. Al che
lui rispose: «Come missionario, non sei in Congo per parlare le lingue, ma per
testimoniare il Vangelo con la tua vita». Un messaggio che mi porto nel cuore
tutt’oggi.

In
Congo dovevo restare tre anni, ma ne trascorsi dieci. Le difficoltà erano
ingenti, politicamente e socialmente. Tuttavia la vita comunitaria era la stessa
che mi attirò, tempo addietro, a entrare nell’Istituto della Consolata.

Ora vescovo

Ritornato
in Tanzania, nel 1997 fui consacrato vescovo di Mbeya. Ma non ho mai scordato
di «essere della Consolata». Raggiunti i 75 anni di età, nel 2016 presentai le
canoniche dimissioni. Ma sono ancora in attività.

Ho
scritto questa testimonianza per il Centenario dei missionari della Consolata
in Tanzania.

In
conclusione, sottolineo l’«eredità» lasciataci dal fondatore, il beato Giuseppe
Allamano, che diceva: «Ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un
seminario, ma una famiglia. Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme,
prepararvi assieme per poi lavorare assieme per tutta la vita»14.

I
giovani, se avvertiranno questo spirito di famiglia, busseranno sempre alla
nostra porta per stare con noi missionari.

Se
entri in una congregazione che non è famiglia, ne uscirai prestissimo. I voti
di povertà, castità e obbedienza si tramuteranno in un giogo opprimente, in un
carico insopportabile.

Al
contrario, in un Istituto-famiglia, il giogo è veramente dolce e il carico
leggero (cfr. Matteo 11, 30). E la gioia regnerà sovrana in quella casa.

Mons. Evaristo Chengula,
missionario della Consolata, vescovo di Mbeya (Tanzania)

Nota: mons. Evaristo Chengula è andato alla Casa
del Padre lo scorso 21 novembre 2018. Lo apprendiamo, non senza emozione,
mentre stiamo lavorando a questo dossier.

I fratelli missionari:
Più in alto dei preti

I «fratelli coadiutori» sono stati fondamentali in questi primi 100 anni di
vita dei missionari della Consolata in Tanzania. Grazie alla loro fraternità e
al loro essere missionari al servizio degli altri, hanno dato un contributo che
ha reso possibile questa fantastica e solida avventura. Vediamo alcune storie.

I missionari della Consolata, al
maschile, sono «sacerdoti» e «fratelli coadiutori». Nell’immaginario collettivo
il coadiutore è spesso considerato una figura di serie B. Però il fondatore,
beato Giuseppe Allamano, si indignava quando sentiva dire: «Oh, sei solo un
coadiutore!»15.

I
fratelli sono protagonisti della missione come i padri, e anche di più. Certo,
non dicono Messa, non confessano. Ma sono fratelli! Attraverso la loro
fraternità, servono Dio e il prossimo con generosità, umiltà e competenza.

L’Allamano
ebbe il coraggio di dire: «Anche se solo coadiutore missionario, in Paradiso
sarà sopra gli altri sacerdoti»16.

Michele e Felice

I
primi fratelli missionari della Consolata giunsero in Tanganyika nel dicembre del
1922. Si chiamavano Michele Mauro e Felice Crespi.

Ero
a Madibira, il 22 Agosto 1973, allorché padre Rambaldo Olivo, parroco della
missione, mi comunicò la morte di fratel Michele Mauro.

Padre
Rambaldo era baldo di nome e di fatto. Sbrigativo come un faccendiere, roccioso
come le montagne del suo Friuli, insofferente come un rivoluzionario… ma quel
pomeriggio Rambaldo, allorché mi disse «fratel Michele è mancato», scoppiò in
un pianto dirotto.

Fratel
Michele Mauro trascorse in missione 51 anni, segando e piallando assi,
inchiodando, incollando e intarsiando scaffali, vetrine, armadi e comò di ogni
foggia. Nonché migliaia e migliaia di sgabelli, sedie, tavole e tavolini.

Fu
il falegname di tutte le parrocchie della diocesi di Iringa. Falegname come
Giuseppe, quello di Nazaret.

A
Madibira scorre un fiumiciattolo. La popolazione vi si tuffa anche per lavarsi.
Lo stesso fanno i missionari, ma pompando l’acqua in casa attraverso un motore
a diesel.

Una
notte una forte pioggia fece tracimare il torrente, che sommerse e arrestò la
pompa. E noi, missionari, ci trovammo in mutande a fare il bagno nel
fiumiciattolo, mentre i bambini nascosti fra gli arbusti ridevano divertiti nel
vedere quei bianchi in costume semiadamitico.

Dopo
15 giorni di attesa, arrivò fratel Felice Crespi. Smontò la pompa, pulì il
motore, e noi ritornammo a fare la doccia in casa.

Fratel
Felice è della provincia di Milano. Da ragazzo venne a Torino, conobbe i
missionari della Consolata e si unì a loro come fratello coadiutore. A Torino
imparò il piemontese e dimenticò il lombardo.

Ascoltarlo
di sera, alla luce tremolante della lampada a petrolio, era affascinante, a
dispetto dell’incessante ronda delle pestifere zanzare.

«Dalle
carovane con i portatori siamo alle carovane con carri tirati da diverse paia
di buoi – raccontava -. C’era di tutto su quei carri: vino da messa, chiodi,
pentole, attrezzi di falegnameria, meccanica, sartoria ecc. La carovana
procedeva di notte, perché il calore del giorno fiaccava i buoi. In testa e in
coda ardeva una lanterna, per tener lontano il leopardo. Io recitavo il
rosario, dato che non avevo avuto tempo durante il giorno…».

Negli
anni 1965-1970 arrivarono i gruppi elettrogeni: si accendevano solo per saldare
e per mangiare un boccone alla sera in compagnia, prima di andare a letto.
Fratel Felice ne curava la manutenzione, avvalendosi di manuali in inglese,
lingua che non sapeva. Ma, leggi e rileggi, l’inglese gli divenne meno ostico.

Conciava
pure pelli per confezionare scarpe e scarponi. Un giorno uno spruzzo d’acido
finì nei suoi occhi, e quasi lo accecò. Ma continuò a montare e smontare
motori, aiutato dai suoi operai. Con le sue mani esperte, divenute dure come
l’acciaio, riusciva a controllare ingranaggi e bulloni.

Al
termine di quei racconti serali, mentre la luce della lampada si affievoliva,
fratel Felice era solito chiedere: «Domani mattina la Messa è sempre alle
6,30?».

E tanti altri…

Ricordo
anche Angelo Invitti, il mago del tornio. Poiché i pezzi meccanici di ricambio
erano spesso irreperibili in Tanzania, Angelo li fabbricava lui stesso
lavorando con precisione al tornio.

Lavorava
e insegnava meccanica. Al termine del lavoro e della scuola, c’era ancora
un’ora di religione per ricordare che Dio è misericordia.

Fratelli
missionari come Modesto Zeni, con un nasone da proboscide. Ma che «fiuto
finissimo» nella sua vita! Costruì la cattedrale di Kihesa (Iringa), un po’
chiesa, un po’ pagoda e un po’ moschea, per dire che la casa di Dio è di tutti.

Eresse,
nella rotonda principale di Iringa, il monumento all’indipendenza della nazione
con la fiaccola che arde. Ed era pure il designatore degli arbitri nelle
partite di calcio della città. Tanto era accetto a tutti.

Fratelli
missionari come Gianfranco Bonaudo, imponente, extra large dalla testa ai
piedi. Soprattutto costruttore. Ristrutturò e ampliò il Consolata Hospital di
Ikonda (Njombe), sperduto fra le montagne dell’Ukinga. Un’eccellenza sanitaria
in Tanzania con 400 posti letto. Gli ammalati vi accorrono da ogni angolo del
paese, persino da Zanzibar.

Terminati
i lavori, fratel Gianfranco commentò: «Sono felice di aver messo in piedi un
ospedale dove i bambini e i poveri non pagano».

Fratelli
missionari della Consolata a decine e decine. Di loro il Beato Giuseppe
Allamano soleva dire: «Voi siete i miei beniamini».

Francesco Bernardi

Quattro esperienze di missione:
Oggi e domani strada facendo

Nel paradiso terrestre, le suore aprono la «Stella del mattino». Un
ospedale per i dimenticati, che è diventato un’eccellenza nella Sanità.
Professori e studenti, preti e catechisti, utilizzano il centro missionario di
Bunju, il «volto nuovo della missione». Una rivista per dire la verità: Andate.
Aiuta a capire chi è il tuo prossimo. Oggi e domani, strada facendo «annunciate
che il regno dei cieli è vicino» (Matteo 10, 7). Annunciarlo a chi? Ai giovani
a rischio, per esempio.

Una scuola per bocciati

Così le missionarie della Consolata nel 1999 aprirono il
Centro di formazione Stella del mattino.

Sorge in una vallata da eden. Questo paradiso terrestre
si estende fino al villaggio di Ilamba, diocesi di Iringa. Paradiso solo
terrestre, perché i ragazzi non hanno futuro. Frequentano la scuola, ma sono
stati bocciati.

Parecchi hanno cercato lavoro a Dar Es Salaam. Ma sono
finiti tra coetanei dediti al furto, allo spaccio di droga, e le ragazze alla
prostituzione. Sono tornati al villaggio per morire di Aids.

«Apriamo una Secondary
School per i bocciati», si dissero allora
suor Cecilia, keniana, suor Artura, brasiliana, d’accordo con tutte le altre
consorelle. Ieri era un sogno fumoso, oggi una realtà palpabile. E i bocciati
di ieri, oggi emergano fra i migliori.

Studiano e lavorano per una vita diversa, iniziando dalla
«polenta quotidiana»: coltivano campi e orti, allevano capre e maiali, spaccano
legna. Oltre 200 ragazzi e ragazze insieme: cattolici, luterani e musulmani.

È in atto un cambiamento culturale. Si sta scardinando
«la mentalità che l’uomo è sempre quello che comanda e deve essere servito,
mentre la donna deve solo obbedire e servire»17.

È spuntata davvero una nuova stella sul firmamento di
Ilamba e dintorni.

L’ospedale di Ikonda

Una stella polare

Oggi e domani, strada facendo «guarite gli infermi»
(Matteo 10, 8).

L’attenzione agli ammalati è una «stella polare»
nell’evangelizzazione missionaria. Lo conferma anche il Consolata Hospital Ikonda, diocesi di Njombe.

Però quanta fatica, pure psicologica! I luterani,
numerosi in quella regione, ostacolarono l’ospedale in tutti i modi. Eravamo
nel 1964-65, quando l’ecumenismo era una chimera.

L’ospedale nacque nel 1968, con l’applauso di Julius
Nyerere, presidente della nazione, che inaugurò la struttura con 60 posti
letto.

Oggi i posti letto rasentano i 400, senza contare i bimbi
nati prematuri e le donne in attesa di partorire. Le corsie sono dieci, tre le
sale operatorie, due le sale parto, un laboratorio ortopedico, il
«delicatissimo» reparto per sieropositivi (Aids), la ricca farmacia, la tac, la
risonanza magnetica.

Realtà che in Italia sono normali, come il caffè al bar.
Ma a Ikonda, dove i denari li maneggi con il contagocce, dove le strade sono
più insidiose dei serpenti, dove l’elettricità costante è solo una speranza
remota (e quindi, per rendere efficienti le sale operatorie, necessiti di
costose turbine che i fulmini mettono a ko
a ogni piè sospinto), non sono realtà scontate. Allora l’ospedale di Ikonda
cade e si rialza ogni mattina. Il suo sviluppo ricorda il detto africano: il
maestoso baobab è stato una foglia seminata dal vento.

«Perché avete costruito l’ospedale fuori dal mondo –
chiesi a padre Sandro Nava, direttore della struttura -. Altrove, gli ammalati
lo raggiungerebbero con maggiore facilità e minore spesa, non ti pare?».

Il missionario mi guardò stupito, come se avessi scoperto
l’acqua calda. Poi rispose: «Certo, un ospedale a Makambako o Njombe sarebbe
più comodo e, per noi, più redditizio. Però sarebbe un ospedale per gente di
città, non per poveri sperduti su queste vallate come pecore senza pastore. Un
ospedale così sarebbe ancora un ospedale missionario?».

Lasciai padre Sandro e sostai nell’ingresso, dove
campeggia la scritta: «Il bene va fatto bene». È l’impegno dell’ospedale di
Ikonda, alla scuola del Beato Giuseppe Allamano. 

Un centro per… centrare

Incontro di missionari della Consolata con padre Stefano Camerlengo, superiore generale, a Bunju (maggio 2013)

Oggi e domani, strada facendo «insegnate tutto ciò che vi ho comandato» (Matteo 28, 20). Qui entra in azione il Consolata Mission Centre di Bunju, a 35 chilometri da Dar Es Salaam.

Sul pavimento della sua chiesa spicca la data «2008»,
l’anno in cui il Centro aprì i battenti: la porta istoriata a fisarmonica della
stessa chiesa; le porte del salone-conferenze a onde marine; quelle ariose
della sala da pranzo; l’ingresso delle camere degli ospiti.

Al Consolata Mission Centre dormono 80 persone, 250
siedono davanti alla tradizionale polenta e 300 partecipano a dibattiti con il
cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam, o con altri relatori.
Costoro intrattengono l’uditorio con dibattiti, scritti e immagini in power point.

Il Centro è «un faro che illumina presente e futuro».
Tutti ne usufruiscono: uomini e donne a livello personale o raccolti in
movimenti, professori e studenti, catechisti e seminaristi, vescovi e preti.
Tantissimi i giovani, a prezzi scontatissimi.

Il Centro è «il volto nuovo della missione», che ha
aperto i suoi cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, musulmani.
Non mancano ecologisti, operatori di giustizia e pace, politici.

Il Centro è «esigente», anche economicamente, con i
prezzi in costante ascesa e 14 lavoratori da retribuire ogni mese. Qui
risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese,
chiedono un anticipo di stipendio, perché sono alla fame. Ma nell’Africa che
canta e danza, non bastono i tamburi e le nacchere. Bisogna studiare, pensare e
«formarsi». Guerre, carestie e Aids sono emergenze crudeli. Ma passano.

La «formazione» è prevenzione contro ogni miseria. I
missionari della Consolata ne sono convinti, e hanno inventato il Consolata
Mission Centre, un Centro per «centrare» la vita.

Chi è stato «prossimo»?

Padre Francesco Bernardi, autore di questo dossier, direttore in Tanzania della rivista Enendeni. ex direttore di Missioni Consolata

Oggi e domani, strada facendo domandatevi: chi è stato
«prossimo» del bisognoso? (cfr. Luca 10, 36 ).

È la domanda che Enendeni (Andate), rivista in lingua swahili, pone a tutti. Vi scrivono anche i missionari della Consolata del Tanzania presenti in Venezuela, Colombia, Brasile, Mozambico, ecc. Affrontando i temi dell’emarginazione e dello sfruttamento.

Chi è «prossimo» degli abbandonati nei suddetti (e altri)
paesi, compreso il Tanzania?

Un giorno a Dar Es Salaam incontrai un giovane.
Trascinava un sacco pieno di bottiglie di plastica, nella speranza di ricavare
qualche soldo. Ebbi l’ardire di chiedergli: «Guadagni abbastanza con questo
lavoro?». Dopo un istante, l’interessato rispose: «Tanti soldi dei tanzaniani
vengono spesi dal governo per parate militari, balli e canti nelle feste
nazionali, o per acquistare aerei per passeggeri benestanti, mentre io raccolgo
bottiglie di plastica».

Quando si voltò per proseguire per la sua strada, sulla
t-shirt lacera che indossava lessi: «Dio aiuta»18. Ma Dio esige soprattutto giustizia e dignità per tutti, specialmente
per i poveri. Per Enendeni è un dovere morale ribadirlo.

La rivista rilancia pure la voce coraggiosa dei
«Cristiani Professionisti del Tanzania», che hanno dichiarato: «In Tanzania c’è
il sospetto fondato sul cattivo uso del denaro da parte dello stato, il
sospetto di furto di voti nelle elezioni e di corruzione nelle commissioni
elettorali. I giovani vengono plagiati con false promesse. Il prodotto interno
lordo annuo cresce del 7 per cento, però esiste un abisso tra ricchi e
poveri…»19.

Qui il lettore italiano replica subito: «Nel nostro paese
le cose non vanno meglio».

Già, ma con una differenza: in Italia puoi parlare, in
Tanzania meno, molto meno.

Mentre «il prossimo», incappato nei briganti della
politica che l’hanno spogliato di tutto, non trova nemmeno il conforto di «un
buon samaritano».

Francesco Bernardi

Note

  • (1) Cfr. rivista La Consolata, agosto 1922.
  • (2) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Carteggio di un prestito per il Regno, Tanganyika 1919-1935, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1987, p. 45.
  • (3) Alessandro Di Martino, ivi, p. 51.
  • (4) I missionari della Consolata nella Diocesi di Iringa, 1919-1969 (a cura di padre Riccardo Ossola), Tosamaganga 1969, p. 2 (ciclostilato).
  • (5) Alessandro Di Martino, op. cit., pp. 73-74.
  • (6) Ivi, p. 262.
  • (7) Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno (I Missionari della Consolata nel Tanganyika-Tanzania: 1936, 1964, 1969), Edizioni Missioni Consolata, Roma 1995, pp. 50-51.
  • (8) Circa l’iniziazione femminile dei Wahehe, pregevole è la documentazione fotografica raccolta da padre Alessandro Di Martino. Inoltre c’è il catechismo in kihehe di padre Egidio Crema, che scrisse anche la monografia Wahehe, un popolo bantu, Emi, Bologna 1987 (con traduzione in inglese di padre Marco Bagnarol).
  • (9) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno, op.cit., p. 26.
  • (10) I Missionari «Fidei donum» sono nati in seguito all’omonima enciclica di Pio XII, del 1957, che esortava le diocesi ad essere missionarie inviando alcuni loro sacerdoti.
  • (11) Enendeni, Machi/Aprili 2017. «Enendeni» (Andate) è la rivista missionaria prodotta dai Missionari della Consolata in Tanzania.
  • (12) L’utawani era presente in numerosi centri dei Missionari della Consolata: da Tosamaganga a Madibira, da Wasa a Kipengere ecc. Il termine utawani deriva da mtawa, persona consacrata a Dio e che vive in comunità.
  • (13) Padre Giuseppe Inverardi, Superiore generale dei Missionari  della Consolata per 12 anni, oggi opera in Tanzania nel Consolata Mission Centre di Bunju, Dar Es Salaam.
  • (14) Giuseppe Allamano, Così vi voglio, Emi, Bologna 2007, p. 187.
  • (15) Il Fondatore e i Fratelli, Edizioni Missioni Consolata, Roma 2014, p. 18.
  • (16) Ivi.
  • (17) «I care» Tanzania (Storie di vita donata), p. 87.
  • (18) Cfr. Enendeni, Mei/Juni 2017, p. 4.
  • (19) Cfr. Enendeni, Novemba/Desemba 2016, p. 18.



Iran, viaggio tra le minoranze religiose


Sommario

Si chiamava Persia.
Armeni e assiri, una storia millenaria (i Cristiani).
Il candelabro rimane acceso (gli Ebrei).
I seguaci di Zarathustra.
Appendici

Si chiamava Persia

Erede dell’antica Persia, l’Iran affonda le sue radici in una storia millenaria che precede di molti secoli la nascita dell’Islam per mezzo della predicazione del profeta Maometto nel VII secolo. Il binomio «indissolubile» (per i nostri media) che lega l’Iran con l’Islam, diffusosi dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, è, perciò, in larga parte fuorviante, se non affatto da scartare.

Come ci insegnano gli storici, un influsso da rintracciare non è tanto quello dell’Islam nei confronti dell’Iran, ma, al contrario, quello delle religioni e dei culti della Persia antica nei confronti della religione musulmana e, in particolare, della sua componente sciita, maggioritaria nel paese.

L’Iran attuale, ben lungi da un’omologazione religiosa alla maggioranza egemone, è un territorio ricco di presenze cristiane ed ebraiche e di culti ancora più antichi, come quello legato alla religione di Zarathustra, con la quale gli stessi giudei sono entrati in contatto nel VI secolo a.C., durante e dopo il lungo esilio babilonese.

Chi, come il sottoscritto, abbia vissuto in Iran, sa quale pluralità di chiese, sinagoghe e templi del fuoco vi sia, ma sa anche che oggi la vita per le minoranze è spesso difficile, anche se meno che nei paesi limitrofi. Così, ad esempio, a settembre 2018 Amnesty International ha denunciato la condanna di quattro cristiani a un totale di 45 anni di carcere con l’accusa di «minacciare la sicurezza nazionale». In più, il governo iraniano, relativamente aperto verso le comunità religiose storiche come i cristiani, gli ebrei e gli zoroastriani, si dimostra spietato nei confronti dei convertiti. Questo dossier intende fornire al lettore un’idea dell’eredità storica delle minoranze religiose dell’Iran e della loro situazione attuale.

S.Z.


  • Ha firmato questo dossier: Simone Zoppellaro. Nato a Ferrara, è giornalista freelance e scrittore. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». È autore di due libri: «Armenia oggi» (2016) e «Il genocidio degli yazidi» (2017), entrambi editi da Guerini e Associati. I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato vari dossier.
  • Il dossier è stato curato da Paolo Moiola e Luca Lorusso, giornalisti redazione MC.


(C.C. Dynamosquito)


Armeni e assiri, una storia millenaria

Prima dell’arrivo dell’Islam, la Persia – nome usato fino al 1935 – vide l’affermazione di due gruppi etnici di religione cristiana, gli armeni e gli assiri. Dopo la conquista islamica (633-651), i due gruppi divennero minoranze, ma ancora oggi il loro ruolo nella società del paese rimane rilevante. In Iran la professione della fede cristiana è consentita, ma la conversione dei cittadini musulmani è vietata per legge.

(Photo by ATTA KENARE / AFP)

Dal Golfo Persico al Mar Caspio, dai suoi confini occidentali con la Turchia fino a quelli orientali con l’Afghanistan, non vi è città di questo paese vasto e bello che non abbia una sua chiesa, per quanto piccola, e almeno un pugno di fedeli che la animano, spesso con grande coraggio e amore. La storia e la cultura che il loro essere minoranza veicolano e rappresentano, è una ricchezza straordinaria anche dal punto di vista architettonico. I monasteri armeni del Nord sono stati dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco e le tredici chiese seicentesche di Isfahan (anche Esfahan o Ispahan) sono un vero capolavoro di sintesi fra diversi stili e culture.

Ma non parliamo qui solo del passato remoto: l’apporto dei cristiani e, in particolare, della loro componente maggioritaria, quella armena, è stato determinante anche nei secoli più recenti, nella modernità e nello sviluppo culturale, politico e tecnologico dell’Iran. Fu fondata da un cristiano la prima tipografia del paese, e il primo volume dato alle stampe nel 1638 fu quello dei «Salmi di Davide» in lingua armena. Determinante fu l’apporto armeno anche nella nascita del cinema. E non mancarono rivoluzionari, personalità dello sport, della musica e della cultura di origini cristiane: una ricchezza di interscambi e innesti con la maggioranza musulmana che neppure le pagine più cupe della storia iraniana sono riuscite a cancellare del tutto.

La chiesa nera

La storia del cristianesimo in terra di Persia affonda le sue radici alle origini stesse di questa fede.  La sua antica presenza è testimoniata, ad esempio, da quello che è forse il monumento più amato dai cristiani d’Iran ancora oggi: il monastero di San Taddeo (foto), situato nel Nord Ovest del paese, nei pressi del confine con la Turchia. È uno dei luoghi cristiani più suggestivi e belli per la sua raffinata architettura e per la perfetta sintesi fra arte e paesaggio che si possano ammirare in Iran.

Chiamato dagli iraniani Qara Kelisa, la «chiesa nera», a causa del colore scuro delle sue pietre, è meta, ancora oggi, e soprattutto d’estate, di pellegrinaggi da tutto l’Iran e dai paesi limitrofi, in primo luogo dall’Armenia. I cristiani che arrivano in pellegrinaggio, si accampano nel paesaggio lunare che circonda il complesso monastico, e la miriade di tende finisce per creare un’atmosfera magica, soprattutto di notte.

Secondo la tradizione, il monastero sarebbe nato sul sepolcro di san Giuda Taddeo, uno dei dodici discepoli di Cristo, molto caro agli armeni perché fu lui, insieme a san Bartolomeo, l’evangelizzatore di questo popolo, prima nazione ad abbracciare il cristianesimo. Il complesso risalirebbe al VII secolo, per quanto molti storici ne rintraccino l’origine addirittura al I secolo, ovvero all’epoca stessa del martirio dell’apostolo.

Divieto di conversione

Il cristianesimo iraniano è oggi molto vario, come testimonia la presenza di chiese e monasteri di riti e osservanze assai diversi. Fra le moltissime, stimate in circa 600 da alcuni studiosi, citiamo la Chiesa assira, quella cattolica, quelle riconducibili alla galassia protestante, quelle ortodosse greche o russe, la Chiesa autocefala armena, divenuta religione di stato grazie alla predicazione di San Gregorio l’Illuminatore all’alba del VI secolo.

Non mancano istituzioni cristiane come scuole, cimiteri, ospizi, teatri e centri culturali e ricreativi, ma anche locali e ristoranti gestiti dalla comunità cristiana, a testimonianza di una vitalità che, per quanto spesso spinta ai margini della vita cittadina, soprattutto nei centri minori, è tuttora lungi dall’essersi estinta.

Si è soliti dividere in tre gruppi fondamentali la presenza cristiana in Iran: armeni, assiri e i cosiddetti «cristiani non etnici», ovvero musulmani convertiti al cristianesimo. Questi ultimi sono soprattutto evangelici o pentecostali, essendo queste chiese più propense al proselitismo che ha interessato molte migliaia di persone a partire dagli anni Sessanta.

Se, da un lato, i cristiani sono liberi di professare il loro credo e hanno rappresentanti in parlamento, con un protagonismo di rilievo nella vita sociale del paese, va però ricordato che la legge iraniana vieta le conversioni dei cittadini musulmani di nascita. Così, se è legale e, anzi, incoraggiata la conversione di cristiani, ebrei e zoroastriani all’Islam, il contrario può costare il carcere. Una discriminazione che ha creato un conflitto molto duro con una parte del mondo missionario protestante, assai meno timido rispetto a quello cattolico nel ricercare nuovi fedeli.

(C.C. Alan Cordova)

I cristiani armeni: dal Nord a Isfahan

La componente armena del cristianesimo in Iran, oltre a essere la principale di oggi, è anche la più antica. Dal punto di vista etnico, la prima menzione dell’Armenia in Iran si trova nelle splendide iscrizioni di Bisotun (ritrovate sul Monte Behistun, nella provincia iraniana di Kermanshah; foto), databili intorno al 520 a.C. Il territorio stesso degli armeni, diverso da quello della Repubblica d’Armenia di oggi, era in parte iscrivibile all’interno dei confini dell’Iran contemporaneo. Ci riferiamo al Nord Ovest del paese dove, per secoli, e in buona parte ancora oggi, popolazioni di lingua e cultura persiana, armena, ebraica, curda, assira e turca hanno vissuto fianco a fianco, fecondandosi a vicenda e intrecciando i loro destini.

Ma è con l’epoca safavide (XVI-XVII sec.) che la presenza armena si fa rilevante fin nel cuore dell’Iran. La deportazione di armeni dal Nord fino alla capitale Isfahan, voluta da Shah Abbas il Grande (1557-1629) all’inizio del XVII secolo, apre una nuova fase nella loro storia in quei territori: mercanti e artigiani abilissimi, riuscirono a distinguersi e a eccellere, guadagnando uno status privilegiato fra le minoranze religiose del paese, ancora oggi immutato.

Proprio a quell’epoca risale l’introduzione della stampa in Persia per opera di un vescovo della chiesa armena. Una storia straordinaria che vale la pena raccontare.

Armeni nell’Iran del XVII secolo, deportati ma liberi

A Isfahan, sontuosa capitale dell’impero safavide, proprio di fronte all’entrata della cattedrale armena di San Salvatore (foto pag. 40), che gli iraniani chiamano Vank – con una parola armena che significa «monastero» -, si trova la statua di un uomo incappucciato che tiene in mano qualcosa.
Il visitatore distratto potrebbe non prestare attenzione al monumento e, tanto meno, a quel piccolo oggetto fra le dita della figura, indecifrabile in un primo momento. È un carattere mobile, di quelli che si usavano nel XVII secolo per la stampa. Il nome dell’uomo effigiato nel monumento è Khachatur Kesaratsi (1590-1646), vescovo della Chiesa apostolica armena di Nuova Giulfa, al tempo sobborgo di Isfahan, oggi riassorbito dall’espansione della città.

Negli anni Trenta del Seicento, Nuova Giulfa era sorta solo da pochi decenni, in seguito alla deportazione degli armeni ordinata dal già menzionato sovrano Abbas I: un evento doloroso che aveva costretto molti a lasciare per sempre la loro terra, distrutta a causa del perdurante conflitto fra ottomani e safavidi. Molti di loro erano morti durante l’estenuante marcia che dalla valle dell’Arasse e dalla piana del monte Ararat, alle pendici del Caucaso, li aveva condotti fino a Isfahan. Altri erano morti dopo l’arrivo a causa delle malattie sorte per il viaggio.

Quello di Abbas il Grande, a differenza di quelli dei suoi emuli novecenteschi, non era stato un intento di morte. In pochi anni, infatti, grazie al sostegno della corona safavide, gli armeni poterono costruire le loro chiese e le loro scuole, e creare, a partire da Nuova Giulfa, una rete di commerci assai florida, che dall’Atlantico sarebbe giunta fino all’Oceano Indiano, lasciando testimonianze che oggi si rintracciano abbondanti, ad esempio, a Venezia e in altre città italiane. Seta e spezie, pietre preziose e stoffe venivano vendute dagli armeni di Nuova Giulfa in ogni parte del mondo, a vantaggio loro, ma anche della dinastia safavide che in loro riponeva grande fiducia. La libertà vissuta dagli armeni in Persia, e la tolleranza nei loro confronti, erano impensabili in quello stesso periodo, ad esempio, in Europa, continente insanguinato da feroci conflitti religiosi.

Gli armeni: dalla stampa al cinema

In quel contesto, denso di luci e d’ombre, ebbe luogo la parabola umana e spirituale di Khachatur. Il suo tentativo di diffondere la stampa a caratteri mobili, la prodigiosa invenzione di Gutenberg, in Iran, non fu il primo. Prima di lui, nel 1628, i carmelitani Domenico di Cristo e Matteo della Croce avevano portato – da Aleppo a Baghdad, e poi ancora più a Est, fino a Isfahan, sul dorso di un cammello – una macchina da stampa a caratteri mobili, con l’intento di stampare libri in lingua persiana a fini di proselitismo. Ma il loro intento non prese corpo: nessuna traccia storica, infatti, rimane di un loro eventuale lavoro portato a termine.

L’esperienza di Khachatur, pochi anni dopo, ebbe invece una sorte differente: il volume dei «Salmi di Davide» in lingua armena, stampato nel 1638, è riconosciuto come il primo libro a stampa nella storia dell’Iran. Al 1641 risale la stampa di un testo agiografico di 705 pagine sulle vite dei Padri della Chiesa armena. Infine, altri tre volumi stampati con mezzi autarchici dal vescovo Khachatur contribuirono a rendere imperitura la sua fama.

Come già detto, l’apporto degli armeni alla cultura iraniana non è da ascrivere solo a una storia remota. In epoca più recente, essi hanno avuto, ad esempio, un ruolo di primo piano nella nascita del cinema nel paese. Ricordiamo almeno Hovannes Ohanian, un armeno poliglotta che aveva studiato a Mosca e che fondò la prima scuola di cinema in Iran. Suo il primo lungometraggio: un film muto del 1930 intitolato «Abi e Rabi». A un armeno, Alex Sahinian, spetta anche il merito di aver aperto nel 1916 a Tabriz la prima sala cinematografica nella storia del paese, il Cinéma Soleil, sfruttando la sala di una missione francese.

In seguito, furono tanti i registi, gli attori e i produttori di origine armena che segnarono lo sviluppo del cinema iraniano. Un ruolo di primo piano celebrato anche dal «Museo del cinema» di Teheran, che nel 2004 ha dedicato una mostra, un libro e una serie di proiezioni a testimonianza del contributo artistico fondamentale degli armeni. Si può accennare anche la creazione, da parte di armeni, di alcuni degli studi cinematografici di maggior successo del secondo dopoguerra iraniano: il «Diana Film Studio», guidato da Sanasar Khachaturian, che produsse anche alcuni film di Khachikian, l’«Alborz Film Studio», o, ancora, lo «Shahin Studio» dei fratelli Ovedisian. Da ricordare, infine, il «Dariush Film Studio», aperto a Roma nel 1953 dall’armeno iraniano Alex Aqababian, specializzato nel doppiaggio persiano di film italiani, che diede un impulso fondamentale alla diffusione del nostro cinema in terra iraniana.

(© Andrea Moroni)

I cristiani assiri: la lingua aramaica e il cristianesimo nestoriano

La seconda anima del cristianesimo iraniano che vogliamo approfondire qui è quella assira. Un nome, quello assiro, che i cristiani di questo gruppo utilizzano per designare se stessi e rivendicare così un’origine antica.

Come gli assiri dell’antichità, anche quelli di oggi parlano una lingua semitica, cioè parte della stessa famiglia linguistica dell’arabo e dell’ebraico. Più precisamente, parlano (e scrivono con un proprio alfabeto) la lingua neoaramaica assira, evoluzione dell’aramaico usato da Gesù e dagli apostoli. Una lingua diffusa fra le popolazioni dell’impero assiro prima della sua caduta nel 612 a.C. Tale legame linguistico sta alla base dell’autornidentificazione, controversa, fra questa minoranza etnico religiosa e il grande impero mesopotamico del passato.

Più in concreto – e senza rischiare di cadere in errore – possiamo dire che gli assiri di oggi sono gli ultimi eredi, da un punto di vista culturale e religioso, della tradizione orientale del cristianesimo nestoriano. Dottrina cristologica predicata da Nestorio, Patriarca di Costantinopoli del V secolo, il nestorianesimo divenne un’eresia in seguito alla condanna del Concilio di Calcedonia nel 451. I suoi seguaci trovarono rifugio nell’Iran sasanide dove, unendosi alle comunità cristiane locali, diedero vita a una tradizione presente tutt’oggi, quella appunto dei cristiani assiri.

Quella nestoriana è una Chiesa che ha conosciuto nella sua storia momenti di notevole splendore. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che, all’alba dell’invasione araba, l’espansione del cristianesimo in Iran fosse tale da minacciare l’egemonia della religione ufficiale dell’impero: lo zoroastrismo. Secondo tale teoria, si fu molto vicini ad avere un altro grande impero cristiano, oltre a quello Romano: la Persia.

Dopo l’avvento dell’Islam, il cristianesimo rimase, per molti secoli, una presenza importante nel territorio. In concomitanza con i grandi stravolgimenti dell’epoca mongola, fra XIII e XIV secolo, i cristiani tentarono un ultimo colpo di coda, mettendo addirittura in discussione – seppur per un breve periodo – la supremazia religiosa dell’Islam.

Il cristianesimo in Iran è, in ogni caso, ancora assai vitale: è una cultura antichissima che si perpetua in liturgie, riti e lingue diverse dal persiano della maggioranza del paese. Non mancano negozi e aziende i cui proprietari siano cristiani, soprattutto nelle maggiori città, e celebri ristoranti, come il Club Arménien di Teheran, l’unico in Iran dove le signore non siano tenute a rispettare l’uso del velo e si respira ancora l’aria decadente dell’epoca Pahlavi, l’ultimo scià di Persia (1941-1979), tenendo magari in mano un bicchiere di vino, proibito per legge ai cittadini musulmani.

Cristiani in crescita?

Il cristianesimo sembra avere una vitalità sorprendente: nel 2015 l’organizzazione missionaria Operation World ha indicato, numeri alla mano, come l’Iran sia il paese al mondo in cui la popolazione protestante cresce più velocemente, con un +19,6% annuo. Secondo i dati forniti da Christian Solidarity Worldwide – organizzazione che si occupa della promozione della libertà religiosa – sarebbero addirittura oltre un milione gli iraniani convertiti al cristianesimo. Un dato che ci pare esagerato, ma indicativo di un fenomeno conosciuto molto bene in Europa da quanti si occupano di immigrazione: molti richiedenti asilo iraniani, infatti, adducono una loro conversione al cristianesimo come motivazione primaria della loro fuga dalla patria.

Al di là dei numeri è importante ricordare che è, per molti versi, ottimo il rapporto fra cristiani e musulmani in Iran, con un rispetto e una stima che neppure il khomeinismo e l’intolleranza di una parte del regime attuale sembrano aver scalfito nell’ambito della società civile del paese. Un segno di speranza da non trascurare, in un’epoca in cui il Medio Oriente è segnato da una lunga scia di sangue che si vorrebbe riconducibile a una matrice religiosa.

Simone Zoppellaro


Il candelabro rimane acceso

Presenti nel paese da 2.700 anni, gli ebrei iraniani hanno conosciuto periodi di splendore e altri di decadenza. Ancora oggi la comunità ebraica dell’Iran costituisce la più numerosa del Medio Oriente al di fuori di Israele. I suoi rapporti con il regime islamico sono altalenanti a seconda del momento storico, mentre sono buoni con larga parte della società civile iraniana.

(Photo by BEHROUZ MEHRI / AFP)

Iran ed ebraismo: due mondi che paiono inconciliabili per chi non abbia confidenza con la storia e il presente di questo complesso paese. Sembrano inconciliabili soprattutto se si pensa alle tristi uscite negazioniste dell’ex presidente Ahmadinejad che, alcuni anni fa, hanno avuto tanto risalto mediatico, o all’antisionismo della retorica del regime che spesso sfocia nell’antisemitismo. Quando il sottoscritto viveva in Iran e andava alla mensa dei docenti dell’università di Isfahan, sul pavimento dell’ingresso c’era una bandiera israeliana con la scritta «Morte a Israele». I professori dovevano entrare calpestandola. Un «piccolo» segno di un problema che non va sottovalutato, come fanno molti apologeti della Repubblica islamica, spesso poco informati. Eppure, è vero che, esclusa la comunità ebraica che vive nello stato di Israele, quella iraniana rappresenta oggi la più numerosa dell’intero Medio Oriente. Un dato importantissimo per un ebraismo che è ormai scomparso (o quasi) in larghissima parte della regione.

Le origini storiche

Questa minoranza ha origini antichissime, risalenti alla prima diaspora ebraica dell’VIII secolo a.C., quando il sovrano assiro Sargon II, in seguito alla conquista del Regno di Israele, deportò nel 722 a.C. parte delle tribù israelitiche nei territori dell’attuale Iran, contribuendo a una contaminazione religiosa che in seguito avrebbe avuto qualche influsso nello sviluppo e nella definizione delle religioni abramitiche.

Nei suoi 2.700 anni di storia, la comunità ebraica iraniana ha conosciuto alti e bassi, periodi molto bui e difficili, ma anche fasi di grande splendore, come durante l’epoca sasanide (224-641 d.C.), quella dell’ultimo impero persiano preislamico, quando essa rappresentava numericamente la prima comunità ebraica al mondo, sopravanzando persino la Palestina. A quell’epoca, si attesta la presenza in Iran di città a maggioranza ebraica.

Dopo la conquista islamica, gli ebrei continuarono per molti secoli a essere una comunità importante in Iran, a testimonianza del fatto che l’Islam delle origini – miti e pregiudizi a parte – fu tutto fuorché una religione incapace di convivere in modo pacifico con altre fedi.

In questo periodo, e fino al XIX secolo, si segnala lo sviluppo di una letteratura giudaico-persiana, scritta in caratteri ebraici e modellata, nelle sue forme, sugli stilemi della poesia persiana medievale.

Da un punto di vista politico, non mancarono figure capaci di distinguersi ai massimi livelli del potere, come Saad al-Dawla, gran vizir fra il 1289 e il 1291, all’epoca del sovrano ilkhanide Arghun. E, ancora, ebrei medici, intellettuali, commercianti e artigiani che contribuirono in modo determinante allo sviluppo culturale ed economico del paese.

Gli storici concordano nell’identificare nell’epoca safavide (1501-1722) l’inizio della decadenza della comunità ebraica in Iran. Le difficoltà aumentarono poi fra XVIII e XIX secolo, quando si registrarono diversi episodi di violenza e anche veri e propri pogrom nei confronti degli ebrei.

Fra questi episodi, è famoso quello bello ma doloroso raccontato da Daniel Fishman nel libro Il grande nascondimento. La straordinaria storia degli ebrei di Mashad, edito da Giuntina nel 2015. Era il 1839 quando, a partire da un oscuro fatto di cronaca, come spesso avvenuto anche in Europa, nacque un assalto al quartiere ebraico della città di Mashad dove una folla inferocita uccise sul posto una trentina di persone, saccheggiando le loro proprietà. Per sottrarsi a morte certa, i membri della comunità decisero di convertirsi all’Islam, ma solo in via formale. Nacque così una doppia identità e una doppia vita che segnò l’esistenza di questa comunità per oltre un secolo: musulmani osservanti in pubblico ed ebrei devoti fra le mura di casa e del quartiere.

Un’ultimo periodo positivo per la comunità ebraica in Iran è rappresentato dal regno di Mohammad Reza Pahlavi (1941-1979), l’ultimo scià del paese, durante il quale gli ebrei videro migliorare da molti punti vista il loro status. Per la prima volta, circa la metà dei membri delle nuove generazioni poté studiare in scuole di comunità nelle quali era previsto, fra l’altro, l’insegnamento dell’ebraico.

Da un punto di vista socioeconomico, diversi ebrei conobbero una rapida ascesa in campo imprenditoriale, accademico e medico, professione quest’ultima nella quale storicamente si erano sempre distinti qui come altrove. Si stima che, negli anni ’60 e ’70, la comunità ebraica iraniana fosse la più facoltosa dell’intero continente asiatico, al di fuori di Israele. Molti di loro lasciarono il paese dopo la rivoluzione del 1979 per trasferirsi in Europa, negli Usa e in Israele.

Dopo la rivoluzione islamica

Più complessa e, certo meno positiva, è la valutazione dell’epoca tuttora in corso, sorta in seguito alla rivoluzione islamica guidata da Khomeini.

Sebbene la nuova Costituzione della Repubblica
islamica, approvata nello stesso anno, riconosca e tuteli ufficialmente la religione ebraica, insieme a cristianesimo e zoroastrismo, non sono purtroppo mancati, soprattutto nei primi anni del nuovo corso, esecuzioni e gravi episodi di violenza nei confronti di diversi membri della comunità.

Spetta proprio a un ebreo, l’imprenditore milionario Habib Elqanian, il triste primato di primo uomo d’affari vittima del nuovo regime, nel maggio 1979. Seguirono, nel dicembre 1980, altre sette esecuzioni di ebrei iraniani, e altre due nel 1982. Su di essi gravavano accuse che andavano dallo spionaggio a favore di Israele e degli Usa, fino alla corruzione e all’alto tradimento. Un ulteriore duro colpo per la comunità si ebbe nell’agosto 1980, con la fuga del rabbino capo Yedidia Shofet dal paese, e con l’invito da lui rivolto ai suoi correligionari a fare altrettanto.

Eppure, anche in questa prima fase durissima, e a dispetto degli eventi traumatici di cui sopra, non è semplice parlare di un piano persecutorio preciso, né di una volontà, da parte del nuovo regime, di estirpare la comunità ebraica locale. Del novembre 1979, ad esempio, è la seguente affermazione dell’ayatollah Khomeini: «Gli ebrei sono differenti dai sionisti; se i musulmani vinceranno i sionisti, lasceranno in pace gli ebrei. Essi sono una nazione come le altre». È importante notare come tale distinzione fra ebraismo e sionismo sia alla base, negli ultimi anni, di molte dichiarazioni da parte dei rappresentanti della comunità ebraica iraniana. Affermazioni, certo, non libere da timori e da un’inevitabile necessità di tutelarsi in un ambiente in parte ostile, eppure, come detto, il semplice fatto che questa comunità nonostante tutto resista rappresenta un segno di pace e di speranza, da non trascurare in alcun modo.

Nonostante una grave flessione demografica fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, in Iran vivono ancora oggi diverse migliaia di ebrei, e sono in funzione diverse sinagoghe e scuole per i membri di questa comunità millenaria. Questi vivono soprattutto nella capitale, Teheran, e in città grandi come Isfahan e Shiraz, ma anche in alcune più piccole come Hamedan, Yazd e Sanandaj, dove sono presenti sinagoghe che servono le comunità locali.

Ad Hamedan si trova la tomba dei biblici Ester e Mordecai (Mardocheo), il luogo di pellegrinaggio più importante per gli ebrei iraniani, aperto anche ai turisti.

Tomba di Ester e Mordecai, (C.C. Alan Cordova)

Gli aspetti positivi di oggi

Oggi, un futuro per questa comunità in Iran sembra possibile innanzitutto grazie alla tolleranza di larga parte della società civile iraniana che è assai più avanzata del regime che la governa.

Negli ultimi anni, la presidenza Hassan Rowhani ha rappresentato una boccata d’ossigeno, dopo quella di Ahmadinejad, celebre per le sue tesi negazioniste sull’olocausto nazista. Rowhani si è dimostrato assai più aperto rivolgendo i suoi auguri agli ebrei in occasione delle loro festività e permettendo alla comunità, con una serie di disposizioni, di rispettare il sabato. È giusto poi ricordare i risultati della ricerca sull’antisemitismo Global 100, condotta fra il 2013 e il 2014 dall’Anti-Defamation League. I dati dimostrano come in Iran il pregiudizio contro gli ebrei sia meno diffuso che in qualsiasi altro paese del Medio Oriente o dell’Africa settentrionale.

I profughi ebrei durante il nazismo

Gli iraniani diedero prova di sé, della loro connaturata solidarietà e apertura, e anche del loro coraggio, in occasione dell’Olocausto. Si tratta di storie, purtroppo, assai poche conosciute, e che meriterebbero invece una grande risonanza e diffusione, dato il messaggio che veicolano.

Giunsero durante la seconda guerra mondiale, approdando nella città portuale di Bandar Anzali, migliaia di profughi e prigionieri polacchi appena liberati, provenienti dalla Russia. Fra questi, c’erano anche fra i cinque e i seimila ebrei, come riportato dall’enciclopedia dell’Holocaust Memorial Museum di Washington. Tra essi c’erano, come racconta il quotidiano «Haazetz», anche 800 bambini, molti dei quali finiti in seguito in Israele e protagonisti di un documentario del 2007. In un paese, l’Iran, ridotto alla fame più nera, occupato a Nord dai russi e a Sud dagli inglesi, non mancò una grande solidarietà nei confronti di quei cristiani e quegli ebrei giunti da lontano, e ridotti in condizioni ancor più misere della popolazione locale.

Un altro esempio di quella tolleranza che caratterizza, ieri come oggi, buona parte della società iraniana lo troviamo di nuovo nello stesso periodo. Ci riferiamo al caso del console iraniano Abdol-Hossein Sardari, onorato dal Simon Wiesenthal Centre di Los Angeles nel 2004. Diplomatico in Francia ai tempi dell’occupazione nazista, Sardari contribuì a salvare dalla Shoah 2.400 ebrei, iraniani e non, mettendo a repentaglio la sua carriera, il patrimonio e la sua stessa vita. Sfidò apertamente la Gestapo e diede fondo al deposito di passaporti della sua missione diplomatica, fornendo una nuova identità (e a volte una nuova patria) a moltissimi ebrei. Documenti che permisero a molti di fuggire dall’Europa e da una morte probabile. Il tutto in nome di un’umanità che aveva sentito risuonare in lui in quei momenti terribili, spingendolo ad agire e a mettere in discussione tutto.

Simone Zoppellaro


I seguaci di Zarathustra

L’Iran odierno deve moltissimo all’Iran preislamico. A iniziare dalla lingua: il persiano, idioma indoeuropeo. Pur ridotta nei numeri, resiste anche una fede antichissima: lo zoroastrismo, fondato dal profeta Zoroastro (Zarathustra) circa sei secoli prima di Cristo. Una religione monoteistica con tendenze dualistiche che ha alcune similitudini con l’ebraismo e il cristianesimo.

(C.C. Alan Cordova)

La Persia rappresenta una delle grandi culle dell’umanità, terra antichissima, crogiuolo di idee e culture che, attraverso i millenni, hanno trovato dimora anche nella nostra Europa grazie a viaggiatori, missionari e mercanti. Posta sulla via della seta che ha collegato per secoli il nostro continente alla Cina e all’Estremo Oriente, la Persia è stata fin dalla sua origine, ponte fra le civiltà, luogo di incontro e di rielaborazione di culti e credenze, terra di idee e innovazioni, anche da un punto di vista della religione.

 

Ben lungi dall’omologazione e dall’appiattimento, l’Iran di oggi reca ampie tracce di questo passato sul suo vasto territorio.

La Persia preislamica è ancora viva, per molti aspetti, nella vita quotidiana delle persone, e nella sua specifica cultura che rende l’Iran un luogo unico e affascinante.

Così, il capodanno persiano, il Nowruz, la principale delle festività dell’Iran di oggi, che cade in corrispondenza dell’equinozio di primavera, risale a prima dell’Islam, e il calendario tutto (solare) si differenzia da quello musulmano (lunare) usato da molti paesi limitrofi.

La stessa lingua, il persiano moderno, è un’evoluzione di quella antica dell’epoca preislamica, e si differenzia in tutto – fuorché nell’alfabeto e nella presenza di alcuni vocaboli – da lingue come l’arabo e l’ebraico, classificate come idiomi semiti. Il persiano è una lingua indoeuropea, come larga parte delle lingue del nostro continente.

Queste sopravvivenze culturali preislamiche permeano tutta la vita degli iraniani di oggi.

Buoni pensieri, buone parole, buone azioni

Nel caso della religione, l’esempio più eloquente di queste antiche sopravvivenze è senza dubbio rappresentato dagli zoroastriani, piccola comunità tuttora presente e attiva nella Repubblica islamica. Seguaci della religione fondata dal profeta Zarathustra (o Zoroastro) vissuto verosimilmente tra la fine del VII e la metà del VI secolo a.C., gli zoroastriani (chiamati in alternativa anche mazdeisti, dal nome del loro dio supremo, Ahura Mazda) sono gli ultimi eredi della grande tradizione religiosa autoctona dell’Iran preislamico.

La fede predicata da Zarathustra, nome che spesso conosciamo solo per l’uso che ne fece il filosofo Nietzsche in una sua celebre opera, è stata, per lungo tempo, religione di stato prima dell’invasione araba, ed è rimasta una presenza significativa nel panorama iraniano ancora fino al IX secolo della nostra era.

È un universo religioso, quello zoroastriano, che presenta alcune curiose e interessanti similitudini con l’ebraismo passate anche al cristianesimo. Si può supporre che ci sia stato un qualche contatto tra lo zoroastrismo e l’ebraismo sia durante il lungo esilio babilonese che dopo il 538 a.C. quando, in seguito alla conquista persiana e al decreto dello scià Ciro il Grande (il quale nel libro del profeta Isaia 45,1, viene definito «l’eletto del Signore»), molti ebrei, ma non tutti, ritornarono a Gerusalemme.

Fra gli aspetti che in qualche modo assomigliano ad alcuni elementi del cristianesimo: l’idea di un salvatore (detto Saoshyant) che, come il Cristo, giungerà alla fine dei tempi, sconfiggendo definitivamente il male prima della resurrezione dei morti; l’idea di un aldilà diviso in paradiso, inferno, e in una zona intermedia riservata a quelle anime le cui colpe e meriti si equivalgono, un po’ come il purgatorio; un angelologia assai ricca; l’idea del tempo come «storia della salvezza», che porterà a compimento il destino dell’uomo e del cosmo.

Tra le linee essenziali di questa antica fede c’è un dualismo metafisico al centro del quale vi è un dio supremo, detto Ahura Mazda (il Signore Saggio), creatore e benefico, che si oppone alle forze del male personificate da Ahriman (lo Spirito Maligno), destinate a soccombere dopo 12.000 anni di storia universale. Altro elemento è il forte senso morale che si riassume nell’osservanza della formula «buoni pensieri, buone parole, buone azioni». Gli zoroastriani credono inoltre in un giudizio individuale delle anime, per cui ognuno sarà giudicato in base ai suoi meriti e colpe.

Centrale nella riforma religiosa operata da Zarathustra è il fatto di aver retrocesso gli dei del pantheon iranico preesistente a semplici demoni. Ancora oggi, in persiano moderno, «demone» si dice «div», con una parola che in origine significava «dio» e che tradisce chiaramente la sua radice indoeuropea nella somiglianza, ad esempio, con il latino «deus».

La lotta fra il bene e il male riguarda anche gli aspetti della morale e della politica: lo scontro con i romani, ad esempio, viene spesso associato nell’iconografia persiana a quello fra Ahura Mazda e Ahriman, fra il bene e il male assoluto, appunto. Questa lettura politica della lotta tra bene e male avrà un influsso, attraverso il medioevo, anche nella politica moderna e nell’idea stessa di «scontro di civiltà». Da questo punto di vista è ironico pensare a George W. Bush che include l’Iran nel cosiddetto «asse del male», insieme agli altri paesi «canaglia».

(C:C: Jurriaan Persyn)

I morti e le «torri del silenzio»

Altro aspetto interessante dello zoroastrismo riguarda il corpo dopo il decesso: dato che la morte e la decomposizione devono essere tenute lontane dagli elementi della creazione divina, le salme non possono essere sepolte o bruciate. Vengono perciò esposte a diversi metri di altezza su apposite costruzioni (dakhma), note anche come «torri del silenzio», sulle quali gli avvoltorni e i cani ne divorano le carni. Le ossa invece vengono conservate in ossari.

Benché un editto dello scià Pahlavi, a metà Novecento, abbia vietato questo tipo di non-sepolture, ancora oggi, nei dintorni della città di Yazd, si possono visitare le torri del silenzio. Si tratta di luoghi assai suggestivi, anche per il paesaggio e i colori nei quali sono inserite: il deserto, sotto, e l’azzurro del cielo della Persia sopra.

Lo scrittore Alberto Moravia, che visitò Yazd e l’Iran, ne rimase molto affascinato, al punto da indicarlo come il paese più bello dove avesse viaggiato. Facendo un resoconto della sua esperienza sulle pagine del Corriere della Sera, raccontò del forte odore di cadaveri che ancora proveniva dalle torri del silenzio, nonostante gli zoroastriani avessero già iniziato a quei tempi la costruzione di un cimitero alla base di una di queste.

Un’ultima caratteristica che vale la pena di accennare di questa religione è il valore del «fuoco», il più importante tra i simboli zoroastriani, venerato dai fedeli come manifestazione tangibile della potenza divina. Ancora una volta a Yazd, ma anche in altri luoghi dell’Iran, si possono visitare i templi nei quali ardono fuochi ininterrottamente da millenni. Da ricordare è anche l’Avesta, il loro libro sacro, una raccolta di testi composti in diversi periodi, tradotto anche in italiano.

(C.C. David Holt)

Zoroastriani nel mondo

I seguaci di Zarathustra ancora presenti in Iran sarebbero, secondo i dati dei censimenti, l’unico gruppo minoritario in crescita. Come i cristiani, sia assiri che armeni, e gli ebrei, anche gli zoroastriani hanno un loro rappresentante fisso nel Parlamento iraniano, il Majles, e sono riconosciuti e tutelati dalla Costituzione del 1979.

La comunità zoroastriana numericamente più rilevante si trova oggi fuori dall’Iran, in India, dove nel VII secolo molti iraniani emigrarono in seguito all’invasione araba.

Tra i membri più celebri della comunità zoroastriana nel mondo si ricordano il direttore d’orchestra Zubin Metha e il vocalist dei Queen Freddy Mercury (al secolo Farrokh Bulsara).

Molti seguaci di Zoroastro si trovano oggi negli Stati Uniti, in Europa, in Australia e nei diversi altri centri della diaspora iraniana, portando avanti e reinventando quotidianamente il loro antichissimo credo.

Per fare un ultimo, breve, salto nel passato, un’evocazione di questa religione si trova nel racconto  dei Magi arrivati in Palestina per vedere Gesù appena nato. Per usare le parole di papa Benedetto XVI, riprese dal libro L’infanzia di Gesù (Rizzoli, 2012): «Si intende con il termine “magi” degli appartenenti alla casta sacerdotale persiana. Nella cultura ellenistica erano considerati come “rappresentanti di una religione” autentica […]. Possiamo dire con ragione che essi rappresentano il cammino delle religioni verso Cristo, come anche l’autosuperamento della scienza in vista di Lui».

Fu un cammino lungo e difficile quello dei Magi al seguito della stella, un cammino che non pare troppo dissimile da quello che aspetta l’Europa – persa nelle sue contraddizioni interne – dopo l’ascesa al potere di Donald Trump in Usa, che ha posto fine al riavvicinamento dell’Occidente a questa antica nazione che, nonostante tutto, le innegabili contraddizioni e la violenza del suo regime, è portatrice di pace, capace di una tolleranza che, nel contesto del Medio Oriente attuale, sembra dimenticata.

Le minoranze religiose dell’Iran di oggi, ma anche e soprattutto la società civile del paese, in larga parte aperta e inclusiva, sono lì a dimostrarlo.

Simone Zoppellaro

(C.C. Shiraz Ninara)


Appendici

L’uno per cento

Da un punto di vista demografico, la larga maggioranza della popolazione (89%) è musulmana sciita, il 10% sunnita e solo il restante 1% (o meno, a seconda delle stime) va diviso fra cristiani, ebrei, zoroastriani e baha’i.

Secondo il censimento ufficiale iraniano del 2011 (sicuramente al ribasso, stando alle comunità stesse), gli zoroastriani erano in quell’anno 25.271, gli ebrei 8.756 e i cristiani, invece, il gruppo più numeroso, 117.704. Manca il dato sui baha’i, in quanto non riconosciuti dalla legge.

In generale, si registra un calo numerico di tutte le minoranze religiose rispetto all’epoca prerivoluzionaria, con la sola eccezione degli zoroastriani: nel censimento del 1976, infatti (l’ultimo effettuato prima della rivoluzione islamica), ammontavano alla cifra tonda di 21.400.

La Costituzione

L’articolo 13 della Costituzione iraniana del 1979, nata con la rivoluzione islamica guidata da Khomeini, tutela zoroastriani, ebrei e cristiani, minoranze riconosciute dalla legge e ancora oggi ben radicate nel paese. Queste – rifacendosi anche a un’antica consuetudine musulmana di rispetto e tutela per le altre fedi – «sono le uniche minoranze che, nei limiti stabiliti dalla legge, sono libere di svolgere i propri riti e di regolamentare lo stato civile e l’istruzione religiosa secondo la loro religione» (art. 13).

Ciascuna di queste minoranze elegge un suo rappresentante nel parlamento iraniano. Più difficile, invece, da un punto di vista della legge, è la situazione delle minoranze non riconosciute, e, in primo luogo, dei baha’i, seguaci di un credo religioso nato nell’Iran del XIX secolo, ma oggi banditi in patria in quanto considerati musulmani apostati.

(Oleksandr Rupeta/NurPhoto)

La Cronologia

? Fine del VII-metà del VI secolo a.C. – Il profeta Zarathustra dà all’Iran una nuova religione, lo Zoroastrismo, un monoteismo con forte tensione al dualismo.

? 550-330 a.C. – La dinastia Achemenide porta la Persia a essere uno dei più grandi imperi della storia, con un’estensione che, partendo dalla Libia e dal Mar Egeo, arriva fino al fiume Indo.

? 633-651 – L’invasione araba pone fine alla dinastia Sasanide e dà inizio alla lenta ma progressiva islamizzazione della Persia.

? 1220 – I mongoli invadono la Persia.

? 1501-1722 – Apogeo della dinastia Safavide, che – cuius regio, eius religio – indirizza l’Islam del paese in direzione dello sciismo, fino a quel momento minoritario. Sotto il sovrano Abbas il Grande (1571-1629) la Persia torna a essere un grande impero, in cui le minoranze – e in primo luogo quella armena – godono di un ruolo privilegiato. Dopo la sua morte, tuttavia, questa stagione di grande apertura e di crescita entrerà in crisi.

(PhoTongueless / Mohammad Rezaa Ch.)

? 1921 – Il comandante Reza Khan prende il potere con un colpo di stato e si fa incoronare scià nel 1926, inaugurando la dinastia Pahlavi che durerà fino al 1979.

? 1953 – Il primo ministro (liberale e nazionalista) Mohammad Mossadeq viene rovesciato, in seguito alla nazionalizzazione del petrolio, da un colpo di stato orchestrato dalla Cia (Usa) e dai servizi britannici. Il generale Fazlollah Zahedi è proclamato premier, permettendo allo scià Mohammad Reza Pahlavi, secondo e ultimo sovrano della dinastia, di ritornare dal temporaneo esilio.

? 1979 – In Iran ha luogo la rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini, che pone fine al potere della dinastia Pahlavi e determina la nascita della Repubblica islamica. Nello stesso anno viene emanata una nuova Costituzione.

? 1980-1988 – Guerra Iran-Iraq. Saddam Hussein invade l’Iran, con il supporto degli Stati Uniti, ma non riesce a sfondare. La guerra, un inutile macello, durerà per otto anni. Alla fine i confini dei due paesi resteranno inalterati.

? 1997-2005 – La presidenza di Mohammad Khatami produce un’apertura di cui risentono, positivamente, anche le minoranze religiose, che ricominciano a crescere, anche numericamente, dopo la rivoluzione e la guerra. Ottimi anche i rapporti del presidente iraniano con il Vaticano: Khatami incontra Giovanni Paolo II a Roma nel 1999.

? 2005-2013 – La presidenza di Mahmud Ahmadinejad rappresenta una svolta in senso conservatore di cui risentono anche le minoranze. Tristemente celebri le sue affermazioni negazioniste, che contribuiscono a produrre un’escalation con Israele e a isolare l’Iran.

? 2013- oggi – Hassan Rohani è eletto presidente. Una nuova svolta riformista si impone sulla scena politica iraniana.

? 2015 – A Vienna viene raggiunto l’accordo sull’energia nucleare in Iran. Protagonisti, oltre all’Iran, anche i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti) più la Germania e l’Unione europea. Mai Teheran era stata così vicina a un riavvicinamento con Washington, dopo il 1979.

? 2017 – L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti fa entrare in crisi l’accordo firmato da Barack Obama sul nucleare iraniano.

 




Ricordando padre Giovanni Calleri, vulcano d’amore


Testi in memoria di don/padre Giovanni Calleri di: Ernesto Billò, Margherita Allena, Ugo Pozzoli, Corrado Dalmonego e scritti vari dagli archivi Imc
A cura di: Gigi Anataloni
Foto: da Archivio fotografico MC e famiglia Calleri

Sommario

«Se dovessi morire, è per una grande causa» (G. Calleri)

Missione straordinaria, difficile e dura.
Da Carrù al rio Alalaú: quando l’amore non ha confini «Non si accontentava delle mezze misure».
Padre Calleri nel ricordo degli Yanomami Da napë a xori
I ricordi della sorella, monaca di clausura Il coraggio di fare il bene bene.
Padre Giovanni Calleri, la forza dell’esempio.
Bibliografia essenziale.

 

 


Missione straordinaria, difficile e dura

Un giovane prete, missionario esemplare per generosità e coraggio. Un turbine di attivismo e di apostolato che sa coinvolgere, sorprendere, trascinare i giovani e i meno giovani. Padre Giovanni Calleri, carrucese (di Carrù Cn), perde la vita a soli 34 anni, tutti fervidamente vissuti. La perde in Brasile, nella foresta amazzonica, il 1° novembre 1968, durante una spedizione da lui guidata fra gli indios Waimiri-Atroarí del rio Alalaú (o rio sant’Antonio). Partita da Manaus il 13 ottobre con intenti umanitari e pacificatori, padre Calleri sa che l’impresa è molto rischiosa, anche per lui che in precedenza ha già saputo vincere la diffidenza degli Yanomami.

Proprio per i suoi precedenti contatti con gli indios, padre Calleri era parso l’uomo giusto per tentare la mediazione nel conflitto tra indigeni e governo: sia ai suoi superiori della prelazia di Roraima, che alle istituzioni brasiliane, preoccupate di superare le tenaci ostilità di indios ancora non contattati alla realizzazione di una strada nella foresta lunga 800 chilometri, da Manaus (Brasile) a Caracas (Venezuela): la Br-174, un’arteria che poteva cambiare aspetto all’Amazzonia «aprendola alla civiltà», ma anche a colossali interessi economici e minerari, all’invasione delle terre da parte di coloni e alla diffusione di malattie e «vizi» dei «bianchi» sconosciuti agli indigeni.

Sentendosi invasi nei loro territori millenari, gli indios, con attacchi a sorpresa, avevano costretto l’impresa a interrompere i lavori a duecento chilometri da Manaus; e proprio lì doveva intervenire la spedizione guidata da padre Calleri (in tutto, compreso lui, otto uomini e due donne) per convincere i diversi gruppi di indigeni a spostarsi dall’area interessata dalla costruzione della strada. Certo erano in gioco interessi estranei allo spirito evangelico di un missionario; ma egli sapeva che il governo era determinato a fare la strada a ogni costo e che sui duemila indios Waimiri-Atroarí pesava la minaccia di sterminio sia con bombardamenti dal cielo che con rappresaglie da parte dell’esercito. Padre Giovanni era ben consapevole dei pericoli che avrebbero corso lui e i suoi compagni, sia per l’istintiva diffidenza degli indios, sia per le ambiguità del governo e gli enormi interessi in gioco; ma non gli mancavano coraggio e fiducia in Dio. «Se dovessi morire, si sappia che è stato per una grande causa», scrisse, partendo, alla famiglia a Carrù.

La spedizione partì a metà ottobre da Manaus, il 22 cominciò a entrare nel territorio conteso. Aveva tempo un paio di mesi per pacificare gli indios, poi l’esercito avrebbe avuto mano libera. Durante la spedizione sette messaggi radio raggiunsero Manaus in un’alternanza di speranze e di allarmi. Poi, dal 31 ottobre, la radio tacque: un silenzio carico di brutti presagi. Le ricerche partirono con grande ritardo il 7 novembre con ricognizioni aeree, e solo dal 24 novembre con pattuglie nella foresta, fino all’atroce scoperta del 30 novembre: nove cadaveri ridotti a scheletri spolpati dagli animali e dagli avvoltorni. Un massacro per il quale furono incolpati e puniti gli indios. Più avanti presero forza ipotesi inquietanti, come quella di un doppio gioco messo in atto da un membro della spedizione, unico sopravvissuto, in combutta con alcuni indigeni traditori e il governo, per favorire la soluzione drastica voluta da quest’ultimo contro gli indigeni.

Grande sconcerto si diffuse tra confratelli e amici in Brasile, commozione in Italia, nella sua famiglia e dovunque padre Giovanni era passato lasciando segni e semi di una presenza umana ed ecclesiale di singolare incisività. Fu vasta l’eco alla tivù, sui giornali nazionali e locali.

Ernesto Billò

I componenti della spedizione di pacificazione


Da Carrù al rio Alalaú:

quando l’amore non ha confini
«Non si accontentava delle mezze misure»

Cinquant’anni fa, padre Giovanni Calleri e otto dei suoi nove compagni di spedizione (sei uomini e due donne) furono massacrati dagli indios Waimiri-Atroarí nei pressi del rio Alalaú, nello stato di Roraima in Brasile. Volevano pacificare le comunità indigene e convincerle a spostarsi dal percorso della strada Manaus – Caracas, la Br-174, che il governo era deciso a costruire ad ogni costo invadendo i loro territori ancestrali e facendo piazza pulita di ogni resistenza. La spedizione aveva poche settimane di tempo per raggiungere lo scopo, ma troppi interessi erano in gioco. Un’impresa che si capisce solo nella logica dell’amore.

Nato nel 1934, ultimo di quattro figli (Maria, Margherita, Lucia le sorelle), a otto anni – nel 1942 – rimane orfano del padre Giuseppe, che, dopo alcuni anni vissuti da migrante in California, era tornato e aveva acquistato la cascina Pralungo a Morozzo (Cn). La mamma Lucia Massimino, rimasta vedova, deve far ricorso al proprio carattere forte, pratico, risoluto. Trasferisce i suoi in via Monasteroli a Carrù, e lì Giovanni – legato alle sorelle, specie a Margherita (poi suor Teresina), alla madrina e ai cugini – frequenta le prime classi elementari e la parrocchia retta allora da don Giorgio Oderda che consiglia per lui nell’ottobre ‘44 il passaggio alla quinta elementare nel piccolo seminario della diocesi di Mondovì a Vicoforte. E lo presenta così: «È un bravo giovinetto inclinato a pietà, assiduo nel servizio in chiesa e tra gli aspiranti di Azione Cattolica Può diventare domani un buon sacerdote». Giovanni ha solo dieci anni, e condivide quel distacco da casa con l’amico Antonio Servetti e con un ragazzo di qualche anno maggiore, Matteo Rino Filippi.

Da Carrù al seminario

Per Carrù e la Langa è un periodo drammatico sotto l’occupazione nazifascista. Il seminario tiene quei ragazzi al riparo dai rigori della lotta, ma non dai rigori di un’alimentazione di pura sussistenza. Giovani stomaci vuoti, bilanciati dalla spensieratezza dell’età e dall’impegno nello studio e nella preghiera. Nonostante quelle ristrettezze Giovanni comincia a manifestare vitalità, intraprendenza e ingegnosità non comuni. «Non si accontentava delle mezze misure», ricorda la sorella Margherita che di lì a poco sarebbe entrata, ventenne, nella clausura del Carmelo a Torino col nome di suor Teresina. La mamma fa fatica ad accettare come una benedizione quella duplice vocazione nata in famiglia, ma come non capirla? Sì, perché alla conclusione della quinta ginnasio, Giovanni – a differenza dei suoi due amici – sceglie di vestire la talare e di proseguire gli studi (filosofia dal 1950 al 1953 e teologia dal 1953 al 1957) nell’antico seminario maggiore di Mondovì Piazza. Lo fa con convinzione, anche se la mamma lo vorrebbe ingegnere.

A ogni fine d’anno ottiene risultati e giudizi più che buoni, e più che buone sono le relazioni stese da don Oderda sulla sua condotta nelle settimane estive in cui torna a casa per le vacanze: «Pietà profonda, volontà tenace, studioso con vocazione sicura». Col rettore del seminario don Giorgio Gasco, invece, qualche attrito e incomprensione non mancano per la vivacità e impulsività del giovane, tipica di una personalità in formazione desiderosa di agire sulle cose e sugli altri, con slancio e una certa autonomia, come dimostrano le sgroppate estive in bicicletta anche assai lontano e le avventurose uscite con i seminaristi più piccoli affidati alla sua assistenza negli anni ‘54-‘56. Nel dicembre del ‘56, quando è suddiacono, esprime al direttore del seminario il suo desiderio di diventare missionario. Un proposito al quale ha contribuito, dalla clausura, anche suor Teresina. I diretti superiori però rinviano a tempo imprecisato ogni decisione. Intanto le inattese difficoltà, gli inspiegabili ostacoli incontrati via via lo radicano ancor più nel suo sogno.

Vicecurato «dirompente»

Il 29 giugno 1957 Giovanni è ordinato prete (con Angelo Maritano, Efisio Caredda, Giovanni Crosetti, Armando Peano) da monsignor Sebastiano Briacca, vescovo di Mondovì. E subito va vicecurato festivo a Niella Tanaro, dove – giovane coi giovani – anima un ventaglio di proposte e di attività: dalle gite in bici in gruppo, al lancio – fallito – di una mongolfiera alta come il campanile, e tanto altro. Non tardano a venire espresse su di lui alcune riserve, specie dal parroco. Così nel maggio ‘58 il vicecurato scavezzacollo è trasferito nella remota Val Bormida. C’è sconcerto e dispiacere in paese, specie tra i giovani. Ma a Calizzano con don Suffia il rapporto è più fiducioso e costruttivo. «Ci impressionava per la grande devozione», ricorda un ragazzo d’allora, «anteponeva Dio a tutto e cercava di portare noi scalpitanti a fare lo stesso». Quindi, la partita di calcio si fa solo dopo vespri e benedizione. Le partite più memorabili da lui ideate sono quelle tra i «rossi» dello stato e i «neri» della chiesa (3-2; 3-3) seguite da accese tifoserie.

Intanto cresce in lui l’aspirazione a una vita diversa, in terra di missione. E cresce pure l’impazienza per l’assenso del vescovo che ancora non arriva. Tramite la sorella, don Giovanni contatta il Pime, Pontificio istituto missioni estere di Milano, e si reca da loro per un corso di esercizi spirituali. Ma da Mondovì arrivano ancora freni, sicché Giovanni sollecita suor Teresina: «Mettiti un po’ a pregare per me». Difficile però smuovere quei dubbi. La scusa è: scarsezza del clero. Scarsezza? Col seminario pieno? La sorella gli suggerisce di pregare e riflettere molto per conoscere bene la volontà di Dio. Pazienza ancora per un anno almeno. A fine 1959 è mandato come vicecurato a Farigliano, a due passi dalla sua Carrù e alle porte della Langa. Quel parroco lo accoglie bene e dà spazio alla sua estrosa intraprendenza. Don Giovanni si butta dunque più che mai ad animare il paese e i dintorni. Suscita adesioni e simpatie nei giovani che lo seguono in iniziative di vario richiamo. Così nasce nel gennaio ‘61 «A.gi.r.e.» (Associazione giovanile ricreare educando) che organizza spettacoli teatrali con la filodrammatica «Cit Farian Show», partite di calcio, concorsi ippici (con l’olimpionico Piero D’Inzeo), gare di moto, incontri di pugilato. Successi esaltanti e qualche inatteso e costoso flop. Mentre don Giovanni si appresta a inaugurare il nuovo stadio «Indemini» da lui tenacemente voluto e sostenuto, un incidente con la sua auto – nel quale muore un uomo – gli crea turbamenti. Dalla clausura intanto la sorella si preoccupa per lui, sollecita più volte in alto loco quell’assenso che tarda troppo. «Se ha veramente la vocazione missionaria, perché non lasciargliela assecondare presto?».

Il sogno della Missione

Finalmente nell’autunno 1962 giunge il via libera per un anno di preparazione presso il Pime. A Farigliano è amarezza generale quando lui stesso ne dà l’annuncio. «Ma quando Dio chiama…», dice. E il parroco, in appoggio: «Il suo ardente cuore non conosce limiti nel darsi agli altri. Troverà la forza di una totale offerta di sé per la salvezza di tanti». Parole profetiche. Il 28 settembre una folla lo accompagna fino a Villa Grugana, a Calco presso Lecco. Ma il postulandato (periodo di prova prima del noviziato) al Pime dura pochi mesi. Il direttore sospetta infatti che don Giovanni abbia ancora pendenze a Farigliano con la gestione di A.gi.r.e di cui è presidente, nonostante la regola precisi di tagliare con ogni impegno precedente. Con dispiacere gli consiglia di ritirarsi e il 14 dicembre lo dimette.

Che fa don Giovanni? Su consiglio della sorella va a bussare alle Missioni della Consolata, da lui ben conosciute anche perché radicate da tempo nella Certosa di Pesio, nella stessa diocesi di Mondovì. Mons. Briacca, il suo vescovo, al quale vengono richieste informazioni canoniche sul suo conto, lascia, in una lettera del 12 gennaio 1963, la seguente autorevole testimonianza: «Attestiamo che don Calleri, di questa diocesi, ha sempre tenuto una condotta sacerdotale buona sotto ogni riguardo, dimostrando doti particolari di zelo, di volontà generosa, e carattere sereno e disinteressato. Lo crediamo bene intenzionato verso la vita missionaria, sulla quale ha insistito con frequenza. Crediamo possibile con la guida di provetti missionari, ottenere da lui una maggior fermezza di volontà nelle singole iniziative, ed un più equilibrato giudizio della giusta misura nelle attività esteriori, la qual cosa dovrà prefiggersi nel periodo di postulandato e di noviziato. Saremo lieti della sua buona riuscita».

A padre Delio Lucca, superiore regionale dei missionari della Consolata che chiede informazioni confidenziali, il direttore del Pime di Milano risponde illustrando le difficoltà avute con lui concernenti l’associazione A.gi.r.e, e così conclude: «Voglio sperare che quanto è successo possa servire a don Calleri per il futuro. Mi è sembrato un buon giovane, molto dinamico, ma bisognoso di incanalare le sue energie nell’obbedienza. Se sotto la loro guida diventerà un buon missionario, gioirò e ringrazierò il Signore».

Don Giovanni giunge così all’Istituto Missioni Consolata con la sua grande carica di vitalità e si sottomette volenterosamente alle sue regole. I superiori, apprezzando le eccezionali qualità organizzative del postulante, il suo grande spirito di dedizione e la non comune capacità comunicativa, lo aiutano a moderare gli ardori del suo carattere tanto fattivo ed esuberante.

Missionario della Consolata

Non risulta facile neppure il nuovo inserimento come postulante tra Rovereto e Rosignano; il percorso è ancora accidentato (e ci si mette di mezzo pure un’assurda lettera diffamatoria e l’eccessivo «scandalo» per la riproposizione a Merano – come già a Calizzano – di un incontro di calcio «Chiesa-Stato», col clero in campo coi calzoncini corti). Comunque, Giovanni trovò maggior comprensione e incoraggiamento: da Farigliano, da Mondovì e dalla maggior parte dei maestri della Consolata.

Giovanni comincia col mettere in ordine l’archivio a Rovereto, poi prende a organizzare mostre e giornate missionarie a Cortina, Merano, coinvolgendo anche villeggianti. Proprio non riesce a star fermo; le regole gli vanno strette, e fa corrugare qualche fronte. Qualche padre si lamenta, anche se – senza ammetterlo – ammira e invidia tanta vitalità, e quelle spiccate doti di persuasione.

L’ammissione al noviziato non è però «pacifica». Una relazione di padre Andrea Salvini riassume bene le qualità e i limiti di don Giovanni e determina la sua accettazione: «Lati negativi: don Calleri è portato all’indipendenza nell’assolvere gli incarichi ricevuti: non per ambizione ma per una certa frenesia nell’azione che lo spinge facilmente a strafare. Ha una salute di ferro e perciò non bada al riposo; passa i limiti soliti della resistenza propria e altrui. Chi lavora con lui presto si sfianca. Lati positivi: ha una pietà solida e costante, ha un vero entusiasmo per le missioni e lo comunica agli altri suscitando collaboratori e offerte nelle giornate missionarie. Ha un dono quasi eccezionale di persuasione con poche parole dette nelle prediche. Si accaparra l’aiuto disinteressato di volenterosi. Concepisce l’obbedienza in modo un po’ … spartano. Non rifiuta nessun comando e ubbidisce senza discussioni; però per agire fa notare che vorrebbe una certa libertà. Se lo si tiene imbrigliato con le redini tese in giusta misura si potrà avere da lui un rendimento ottimo; se non lo si controlla potrà avere sbandamenti per troppo zelo. Io spero che avremo in lui un bravo padre della Consolata».

Don Calleri passa alla casa del noviziato a Bedizzole, dove trascorre ancora due mesi di postulandato prima di iniziare il noviziato. Padre Giovanni Morando, maestro dei novizi, lo accompagna nell’anno del noviziato e al termine dell’anno scrive: «È di pietà sincera, di costumi irreprensibili, socievole nella convivenza, di obbedienza a volte un po’ ragionata. Ha dato segni decisamente buoni della sua vocazione ecclesiastico-missionaria e di grandi possibilità nel lavoro apostolico. La sua estrosa genialità organizzativa e la sua salute forte lo spingono a gettarsi senza limite. Ma occorre che chi lo dirigerà comprenda le sue capacità e doti, e sia deciso nell’esigere da lui il rispetto dei limiti stabiliti. Per altro, sotto quest’ultimo aspetto, l’impegno non gli è mancato». Padre Giovanni Calleri viene ammesso alla professione religiosa, pronuncia i voti il 12 gennaio 1965 e viene destinato alla prelazia di Roraima, Brasile.

La partenza

Il 4 febbraio 1965 tutta Carrù gli è attorno per la consegna del crocifisso; poi padre Giovanni si reca al Carmelo di Torino per congedarsi dalla sorella. Che di là dalla grata gli dice: «Ti auguro di poter lavorare tanti anni per il Signore; poi, come premio, il martirio». E lui: «Sarebbe la grazia più grande». La sera del 15 febbraio, accompagnato fino a Linate da un nugolo di parenti e amici, parte per il Brasile, destinazione Roraima, Amazzonia. Mamma Lucia lo segue, soffocando le lacrime, fino alla scaletta dell’aereo, fino a che quella veste bianca e quella barba nera scompaiono dentro. Non lo vedrà più. Solo qualche lettera affettuosa, qualche foto, una voce di lontano.

All’arrivo a Boa Vista il 22 marzo 1965, scrive al superiore generale: «Oggi termina il nostro viaggio. Tutto felicemente bene. Le devo esprimere viva e filiale riconoscenza per avermi data la possibilità di lavorare per le missioni, tanto più in un campo come questo. Molti miei amici sacerdoti mi invidierebbero sapendomi a lavorare in queste situazioni così bisognose. Cercherò senz’altro di fare del mio meglio per essere un po’ meno indegno di questa chiamata di predilezione. Per questo la ringrazio della sua paterna benedizione che già benevolmente mi diede alla partenza e ancora mi vorrà dare».

In Roraima si prepara al lavoro missionario applicandosi innanzitutto allo studio della lingua portoghese, e poi partecipa ai viaggi per contattare gli indios Yanomami che vivono lungo il fiume Catrimani, accompagnando padre Bindo Meldolesi che della zona della foresta è un buon conoscitore. Quando padre Bindo si ritira, padre Calleri continua da solo e, pur in mezzo a qualche dubbio e perplessità da parte dei superiori, cerca di stabilire in maniera permanente la missione al Catrimani. La missione viene piantata lungo il fiume, perché considerato dagli indigeni luogo neutro di scambi e di incontro con altri gruppi.

Dopo quei primi contatti con il mondo indigeno, padre Giovanni così scrive nel luglio del 1965 ai suoi familiari: «Qui ho avuto impressione improvvisa di trovarmi in un paradiso terrestre. Tutto diverso, quasi completamente, dalla nostra Europa. Uomini e cose. Tutto a base di natura: come uscita dalle mani di Dio. C’è da imparare molto prima di insegnare. Pensavo che solo noi, civilizzati, fossimo capaci a vivere. Credo ora che sia diverso, soprattutto moralmente».

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Catrimani

In quel periodo padre Giovanni ha la fortuna d’incontrare padre Silvano Sabatini, amministratore di tutto il gruppo dei missionari in Brasile e appassionato del mondo indigeno, che lo comprende e lo accompagna nel suo intento di iniziare una forma nuova di evangelizzazione tra le popolazioni delle foreste che non sia la tradizionale «desobriga» (visite periodiche alle comunità per adempiere agli obblighi fondamentali di messa, confessione e comunione), utilizzata dai missionari in passato. Sono gli anni in cui gli effetti del Concilio Vaticano II si fanno sentire impellenti ed esigono una rivisitazione della prassi tradizionale della missione. Padre Giovanni è pronto alle nuove sfide e a continuare con impegno il suo lavoro nella missione del Catrimani.

La missione del Catrimani diventa il suo mondo per due anni. Vi si stabilisce evitando, per quanto possibile, il viaggio di 600 km lungo il fiume per ritornare a Boa Vista, la sede della Prelazia. Le sue giornate sono scandite da due ore di preghiera il mattino con la celebrazione dell’eucaristia in privato, e dieci ore di lavoro con gli indigeni. Nel suo bagaglio missionario c’era la concezione di una missione tradizionale ben strutturata, che ben presto accantona per ridurre all’indispensabile le costruzioni. Mette in piedi una capanna che gli possa servire da casa e alcuni magazzini. Avvicina la gente e da loro cerca di imparare la lingua: per lui è una priorità. Cura le persone con le poche medicine che ha a disposizione. Non regala niente, anche perché la gente già conosce il baratto. Offre oggetti indispensabili in cambio di ore di lavoro («mamo» sono dei cartoncini che usa come «moneta di scambio» in base alle ore di lavoro fatte). Disbosca, costruisce una pista per piccoli aerei per facilitare i contatti con la sede centrale senza dover sobbarcarsi i viaggi in fiume, dissoda terreno per piccole coltivazioni.

La gente impara a conoscerlo e collabora volentieri con questo straniero gentile, rispettoso e tanto laborioso. L’inizio di questa missione è incoraggiante. Padre Calleri non è ancora del tutto consapevole di quanti interessi esistano dietro a questa foresta lussureggiante e impenetrabile. Sa che il governo centrale del Brasile vorrebbe costruire una strada che va verso il Nord del paese e che dovrebbe passare proprio in mezzo ai luoghi dove abitano gli indigeni. Ma non sa che tutto questo è però solo la punta di un iceberg.

Il missionario si converte

Padre Sabatini intanto gli consiglia di seguire un corso di antropologia a Belém, dove insegna un missionario, buon conoscitore della realtà indigena. Padre Giovanni abbandona così il Catrimani e gli indios fra i quali, come confessa lui stesso, aveva cominciato a costruire il suo «nido» e si reca a Porto Alegre, nel Sud del Brasile, per seguire un corso di studi antropologici e allo stesso tempo offrire il suo aiuto di ministero in una parrocchia della città. È proprio questa interruzione del lavoro a Catrimani che gli permette di rivedere quanto finora realizzato e tracciare un piano per il futuro.

Ecco alcune linee-guida da lui maturate:

  • Le popolazioni indigene non devono essere «colonizzate o civilizzate» per poterle evangelizzare. Il missionario deve innanzitutto avvicinarsi a loro con grande stima e attenzione. Deve andare a scuola da loro per apprenderne la lingua, la cultura e le credenze.
  • L’approccio missionario ha bisogno di una radicale conversione. Gli indios non devono abbandonare la lingua e cultura per diventare «cristiani». Il missionario deve rispettarli, solidarizzare con loro, e non «imporre» i valori cristiani per farli giungere presto al battesimo. Questa fase di pre-evangelizzazione può avere una durata molto estesa. Il missionario non deve accelerare questo cammino di conoscenza, ma sottomettersi al loro ritmo di apprendimento e di crescita.
  • È possibile una promozione umana dell’indio? La risposta è affermativa ma sempre nel rispetto del suo cammino. Il criterio deve essere quello del «completamento» e non quello della «sostituzione», come è stato fatto troppo spesso in passato.
  • Bisogna fare sì che gli indios vengano a contatto con altre culture e realtà di vita perché anche per essi ci possa essere crescita e sviluppo. Il totale isolamento a cui la foresta li ha finora relegati ha impedito loro un naturale sviluppo (idea non più condivisa dai missionari oggi, ndr).
  • Una promozione umana e cristiana potrà avvenire attraverso l’utilizzo di quattro mezzi: la salute, il lavoro, la giustizia, l’elevazione intellettuale.
  • Il missionario, pertanto, deve innanzitutto credere che l’indio è un uomo libero, ha personalità, ha cultura, ha dignità, ha diritti, ha una patria che è la foresta.

Oltre a studiare, padre Calleri offre il suo aiuto pastorale in una parrocchia di Porto Alegre. Anche qui, la sua creatività, il suo slancio giovanile e impegno vulcanico, fanno sì che al termine degli studi, la gente e i sacerdoti desiderino che la sua presenza continui. Lo ricorda lui stesso in una lettera ai familiari del luglio ‘68: «Sono stato nel Sud del Brasile per fare un due tre corsi… E laggiù dove ero ospite feci una mezza rivoluzione, tanto che manco più riuscivo a venirne via: da Roraima mandavano una serie di telegrammi, della necessità del mio ritorno per un lavoro urgente tra gli indios; e di là, da Porto Alegre, rispondevano con sottoscrizioni a valanga per chiedere la mia permanenza là. Alla fine, ne venni fuori, ma con un sacco di nostalgia».

Salvare i Waimiri-Atroarí

Intanto nuove difficoltà si affacciano. Il governo brasiliano, costretto a sospendere i lavori per la costruzione della strada Manaus-Venezuela a causa di tribù ostili, richiede ufficialmente l’intervento della Prelazia di Roraima per un’opera di pacificazione. La strada che deve attraversare l’area indigena rischia di compromettere l’esistenza stessa di vari gruppi di indios a causa della distruzione del territorio, del contagio di malattie sconosciute agli indigeni e delle violenze perpetrate da lavoratori e minatori abusivi che inquinano il territorio alla ricerca di oro. La prelazia costituisce una commissione per studiare il problema in maniera da permettere da un lato di salvare gli indios e dall’altra di offrire al governo statale la possibilità di continuare la costruzione della strada Br-174. Di tale commissione padre Calleri è il segretario. La soluzione diocesana contempla un processo lento di avvicinamento, di conoscenza della popolazione e poi uno spostamento dei vari gruppi di indios in aree più sicure.

Padre Giovanni viene inviato dalla Diocesi di Roraima a Manaus per convincere le autorità governative della bontà del progetto dei missionari. E qui avviene invece un cambio di programma. Lo stesso padre Calleri, che tanto successo ha ottenuto con gli Yanomami, pare l’uomo giusto per l’impresa di capitanare una spedizione pacificatrice governativa. La missione è difficile e rischiosa. Egli aderisce alla proposta e accetta, pur sapendo che nessuna delle decine di persone partite negli ultimi anni per avvicinare quelle tribù aveva fatto ritorno.

Mentre da Manaus già si accinge alla partenza, ne dà notizia alla famiglia esponendo i motivi della sua decisione:

«Cara mamma e care sorelle,

[…] Vi dò una notizia: mi trovo in questo momento a Manaus, capitale dell’Amazzonia, per preparare una missione straordinaria: stavolta è molto difficile e dura. Il governo nazionale, che sta costruendo una grande strada intercontinentale tra il Brasile e il Venezuela, e detta strada è costretta a passare in una zona occupata completamente da Indios ferocissimi, di dove nessuno è mai riuscito a venir fuori vivo, ha chiesto ufficialmente l’intervento del nostro Istituto, il quale scelse me per eseguire l’impresa. Centoventi persone, in questi ultimi anni, hanno perso la vita sotto le frecce degli Indios, nel tentativo di pacificarli. La cosa è parecchio grossa: ne parlano giornali e radio.

L’Istituto, attraverso il Superiore Generale, che venne appositamente in Roraima, non mi obbligò, è logico. Ma io accettai. Il coraggio non mi è mai mancato. Se il nostro Istituto non accettava di intervenire erano duemila indios che venivano massacrati con bombardieri. Inoltre, trattandosi di un’impresa altamente umanitaria, sono certo che Iddio penserà a dare una mano anche Lui. Non è nemmeno il caso di dirvi di pregare. Già lo farete e lo farete fare.

Sinceramente, non sono sicuro di farcela. Ci metterò, però, tutta la prudenza e lo studio per evitare momenti brutti. Ma una cosa è certa: che questi gruppi di Indios sono espertissimi nel cogliere l’individuo quando meno se lo aspetta. Che lo Spirito Santo mi mandi la sua luce quando sarà tempo! In Catrimani, ora, le nove tribù con cui sono venuto in contatto, sono miei amici, molto … È costato parecchio duro lavoro, ma tutto andò bene: questa volta, invece, non lo so…

Sono con Dio e la sua buona collaborazione.
[…] Arrivederci presto!

Giovanni».

 

Con queste ultime parole padre Calleri presagisce la fine che toccherà a lui e ai suoi compagni di spedizione, poche settimane dopo.

Ernesto Billò e Margherita Allena
(con inserzioni da pubblicazioni  dei missionari della Consolata)

2 dicembre 1968. Padre Silvano Sabatini (a destra) trasportando le spoglie di padre Calleri all’uscita della cattedrale – da O Jornal do Coméercio del 3.12.1968

Le urne funerarie all’arrivo all’aereoporto di Punat Pelada a Manaus il 1° dicembre 1968. Quella di padre Calleri è la quinta.


Padre Calleri nel ricordo degli Yanomami

Da napë a xori

Da «straniero / nemico» a «parente / amico». Tradotte e trascritte quasi letteralmente, tre interviste a Yanomami che raccontano i primissimi incontri tra gli indios e padre Calleri, testimonianze del passaggio dalla diffidenza all’accettazione. L’originale è registrato in video.

Lavorare insieme

Intervista a Pedro Yanomami (di circa 80 anni) realizzata presso la comunità dei Maamapi theri, il 20 gennaio 2015.

«Inizialmente, [padre] Bindo [Meldolesi] abitò qui da solo e fece la pista di atterraggio. All’inizio abitò da solo e ci chiese di aiutarlo nel lavoro. Lui fece in questo modo: ci nutrì e si fece nostro amico. Lui disse così: “Io sono padre Bindo, sono veramente un padre”.

In seguito, aumentò il numero delle persone, [alla missione Catrimani]. È arrivato padre Calleri, scendendo con l’aereo. Con lui noi lavorammo. Padre Calleri ci chiese di lavorare».

[Interviene Teresa, moglie di Pedro] «Io, per prima, cinsi il mio collo con collane di perline. Quando altre donne videro che io avevo molte perline, rimasero felici e lavorarono con intensità alla pista di atterraggio. Noi donne lavoravamo e ricevevamo [in compenso] perline di vetro».

[Pedro continua] «Solamente i padri [i missionari e i loro aiutanti] arrivavano [a poco a poco] e aumentavano. Loro dicevano così: «Noi siamo padri; noi ci prenderemo cura di voi», e ancora: “Non ci sono altri napëpë [pl. non Yanomami o stranieri] che siano vostri amici”. I padri non mi alloggiarono in una casa di paglia, ma in una casa di assi. I padri costruirono la mia casa di assi, ben protetta. Loro mi chiamarono per abitare vicino. In quella direzione, dall’altro lato del fiume, avevamo una casa, ma loro mi chiamarono per abitare su questa sponda, vicino. Loro [i padri] iniziarono la scuola. Padre Giovanni, per primo iniziò ad insegnare. Lui consegnava [per il lavoro] biglietti [una forma di moneta che si chiamava mamo (occhio)], [in cambio] di questi biglietti distribuiva utensili. Così faceva padre Calleri. Disegnava molti biglietti [con simboli diversi corrispondenti alle ore di lavoro]. Con questi ricevevamo oggetti e utensili. Così faceva padre Calleri.

Con molto impegno, padre Giovanni scriveva nel quaderno la mia lingua. Io gli insegnai la mia lingua. Padre Giovanni diceva: “Insegnami la lingua yanomae”, perciò io gli insegnai. Gli insegnai il nome degli animali: “Questo è un tapiro, questo è un pécari, questa è una scimmia ragno, questa è una scimmia urlatrice, questo è una scimmia cebo, questa è una tartaruga di terra”, così gli dicevo. Così lui imparò a parlare molto bene».

 I primi contatti

Interviste a Alexandre (nascita: 1961) e Xirixana (nascita: 1956) realizzate presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 18 gennaio 2015.

«L’indio [di etnia Ticuna, chiamato] Peruano, accompagnava padre Calleri che distribuì alcuni oggetti [ami, forbici, ecc.] agli Yanomami che con lui visitarono le loro comunità [si riferisce ai primi viaggi esplorativi per contattare i vari gruppi risalendo il fiume Catrimani; era normale lasciare allora dei piccoli regali come riconoscenza per l’accoglienza ricevuta e per dimostrare la volontà di un incontro pacifico, ndr].

Due Yanomami, lo zio di Juruna – questo [giovane] seduto lì – e il marito dell’anziana madre [Andina], trasportarono alcuni utensili e gli alimenti dei due: di padre Calleri e di Peruano.

Inizialmente solo padre Calleri arrivò fino alla comunità di Hawarihi [quella di Alexandre, localizzata lungo il fiume Lobo d’Almada, affluente di destra del fiume Catrimani] e raggiunse le altre comunità degli anziani [lett. «antenati», perché molti di loro sono già morti, ndr]. In seguito, giunsero altri [insieme al padre].

In seguito, chiamò altri [abitanti] di questa regione. In questo modo, vide le necessità degli anziani e conobbe la loro cultura: l’amaca di cotone [coltivato nella piantagione], la mandibola di pecari per lisciare l’arco.

Padre Calleri osservò e provò [gli utensili degli Yanomami]: “Si fa così con questo?”. Vedendo l’utensile di denti di aguti [un roditore, ndr] legato al braccio, domandò: “Come lo fate?”. Gli anziani Yanomami insegnarono a padre Calleri: “In questo modo fabbrichiamo la punta [di freccia chiamata] atarihi; invece così, dopo avere ritorto [le fibre vegetali], prepariamo la corda per l’arco”.

In questo modo, Calleri vide con i suoi occhi le difficoltà degli anziani [che confezionavano i loro utensili]: le donne cuocevano la focaccia di manioca sulle pietre, grattugiavano i tuberi di manioca [sfregandoli] sulla corteccia dell’albero operema. Vide le donne che facevano fatica: spremevano la polpa di manioca nei piccoli cesti ikatoma. Vedendo tali necessità, padre Calleri li aiutò, li aiutò veramente. Dopo averli aiutati, li chiamò: “Venite qui”. Gli anziani Yanomami andarono ad aprire la pista di atterraggio.

Padre Calleri orientò gli anziani Yanomami: il gruppo degli Opikitheri [di língua yaröame], quelli della comunità di Tooropi, quelli del fiume Hwayau, quelli della comunità Kaxipii, altri Yanomami del fiume Catrimani, quelli [provenienti dalla] comunità di Korihana. Tutti questi anziani Yanomami, insieme aprirono la pista di atterraggio.

In seguito, per il servizio prestato, padre Calleri distribuì i machete che aveva portato da Manaus.

Calleri aiutò gli anziani che, per questo, rimasero molto contenti. I nostri antenati fecero grande amicizia con padre Calleri. Tutti gli abitanti delle comunità di Tooropi, di Hwaia u, di Kaxipi u, gli Yawari. Tutti strinsero amicizia con lui, ma lui fu ucciso».

La paura delle donne

Dall’intervista a Fátima (nascita: 1956) realizzata presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 17 gennaio 2015.

«Anticamente, padre Calleri arrivò fra di noi, nella regione chiamata Kaxipi [sulla riva del fiume Jundiá, affluente del medio fiume Catrimani]. Solo gli adulti [non ebbero paura e] continuarono a cantare mentre lui [Calleri] ascoltava. Lui [Calleri] chiese loro di continuare a cantare e, dopo aver deposto al suolo le sue cose [forse un registratore], li fece danzare. Mentre gli anziani cantavano, noi ragazze ci chiedevamo: “Perché stanno cantando?”.

Dentro [alla casa comunitaria], al fondo, io rimanevo nascosta [fra le foglie] perché avevo paura. [Io pensavo che] I padri potessero rubare le donne, per questo ebbi paura e, in silenzio, rimasi nascosta. All’inizio avevamo molta paura. Ebbi paura perché era arrivata la notizia che alcuni napëpë [plurale di napë] che avevano risalito il fiume, durante una visita al popolo Yawari, avevano portato [via] con sé alcune donne».

[Anni dopo, Fatima divenne l’aiutante della suora infermiera nel dispensario della missione del Catrimani].


I ricordi della sorella, monaca di clausura

Il coraggio di fare il bene bene

Il Carmelo dello Spirito Santo è una piccola oasi di tranquillità e silenzio nella già tranquilla prima collina torinese. Da anni i missionari della Consolata che vivono in Casa madre a Torino offrono il servizio come cappellani di questa piccola comunità di suore di clausura che, con fede e tanta simpatia, accompagnano al ritmo della preghiera anche la nostra missione nel mondo. Da tanti anni, però, c’è un altro motivo di contatto e comunione fra le nostre due comunità.

Nel 1946, con un viaggio reso complicato dai postumi della guerra, una giovane ragazza di Carrù, entrò in monastero per donare interamente la sua vita al Signore, lo sposo amato. Oggi, è un’arzilla vecchietta che sta per compiere 92 anni alla quale chiedo di ripercorrere per l’ennesima volta la storia di suo fratello, di raccontarmi com’era questo padre Giovanni Calleri, missionario della Consolata ucciso in Amazzonia cinquant’anni fa, il 1° novembre 1968.

«Padre Giovanni lo conoscevo bene, eccome, l’ho tirato su io da bambino – inizia a ricordare suor Teresina. Era un bambino vivace, molto vivace… un po’ furbetto. È stato con la cresima che, secondo me, Giovanni ha ricevuto una grazia speciale. È diventato più aperto, ma anche più disposto alla preghiera».

Le chiedo che cosa avevano pensato in famiglia a proposito della sua decisione di entrare in seminario e poi, in seguito di diventare missionario.

Suor Teresina risponde di getto. Sorvola sulla famiglia – del resto in quei tempi, soprattutto nelle nostre campagne – era cosa comune mandare i figli a «studiare dai preti». Ricorda invece che il parroco, guardando forse il carattere vivace del ragazzo, era contrario al suo ingresso in seminario. Pensava che non fosse la sua strada, che avrebbe avuto delle delusioni. Giovanni venne aiutato nel suo proposito da una catechista che lo conosceva bene e, soprattutto, ne vedeva alcuni aspetti di bontà. Si capiva che dietro a tanta vivacità si nascondevano una creatività e una attitudine verso la pietà davvero speciali. Così quando sua sorella entrò nel Carmelo, lui entrò nel seminario di Mondovì.

«Quando invece decise di andare in missione ci preoccupammo tutti un po’ – continua suor Teresina -, in diocesi aveva mille impegni, tantissime attività iniziate e ci chiedevamo tutti come avrebbe potuto lasciare tutte queste cose per iniziare un nuovo cammino. Del resto, la sua prima esperienza di formazione missionaria con il Pime di Milano finì anche per questo motivo. I suoi nuovi superiori si accorsero che continuava ad essere attaccato alla sua precedente realtà pastorale e gli consigliarono di tornare ad essa e di dedicarsi anima e corpo alla parrocchia e alle attività ad essa legate».

Fu una delusione, il dover tornare indietro?

«Certamente lo fu. Quell’anno, si era all’inizio della novena di Natale, venne a trovarmi e a confidarsi con me. Giovanni aveva nel cuore la missione, voleva andarci. Mi disse che aveva chiesto ai Salesiani che, però, pur avendo istituti scolastici e missioni all’estero, non gli avevano assicurato di poterlo mandare. Lui aveva bisogno di trovare un Istituto missionario. Solo gli bastò guardare ancora più vicino».

«In quegli anni, qui al Carmelo, avevamo già un cappellano missionario della Consolata, padre Creola. Misi Giovanni in contatto con lui e così iniziò il percorso di formazione con il vostro Istituto. Ne fu contento, si trovò immediatamente bene, in mezzo a tanti piemontesi come lui, si è subito sentito il benvenuto».

Suor Teresina conosceva però bene suo fratello e dovette intervenire con la preghiera e un paio di lettere ai superiori di padre Giovanni per far sì che riuscisse a coronare il suo sogno.

«È vero, lo hanno fatto tribolare non poco prima di dargli il via. Giovanni era un tipo vulcanico, difficile da inquadrare in uno schema. Io ogni tanto scrivevo ai suoi superiori dicendo che avessero comprensione, che Giovanni era buono, di tenerlo perché sicuramente avrebbe fatto del bene. Chi ne ha visto la stoffa e lo ha capito è padre Giovanni Morando, che fu suo maestro di noviziato. Lo prese davvero a cuore».

Chissà che gioia quando padre Morando scoprì che il suo novizio aveva una sorella monaca di clausura di nome «Suor Teresina». Aveva un’autentica devozione per Suor Teresina di Lisieux.

«Quando lo seppe mi scrisse subito. Del resto Santa Teresina è patrona delle missioni, il mese missionario inizia con la sua festa, e io stessa mi sento missionaria in prima linea, qui dal Carmelo, accompagnando con la preghiera tutti i missionari. Santa Teresina mi ha ispirato. Devo a lei anche la mia vocazione visto che è maturata dopo aver letto il suo “Storia di un’anima”».

Chiedo a suor Teresina qual è l’ultimo ricordo che ha di suo fratello.

«Prima di partire per il Brasile venne a salutarmi e a celebrare qui l’Eucaristia. Ricordo le ultime parole che gli dissi: “Ti auguro di lavorare, di fare tanto bene e alla fine, se Dio vorrà… il martirio”. Mi rispose: “Sarebbe la grazia più bella”. È un martirio per il quale si è preparato, nonostante il poco tempo in cui è rimasto in Brasile. Si era reso conto che qualcosa non andava con quella spedizione in cui poi perse la vita, che qualcuno gli remava contro. È andato avanti lo stesso, con tenacia, ispirato dall’ideale della salvezza dell’uomo, di questi indios a cui si era donato. Ha resistito anche di fronte a chi gli consigliava di lasciar perdere, che era troppo pericoloso. Questa sua fortezza basterebbe a considerarlo un martire della carità».

Vedo che suor Teresina è stanca. Continuerebbe a parlare di suo fratello, lo si legge negli occhi, ma forse è meglio fermarci. Le faccio un’ultima domanda e le chiedo quale caratteristica di suo fratello potrebbe essere di ispirazione per un giovane di oggi.

Mi guarda come se fosse in procinto di darmi una risposta scontata… e forse lo è. «Il coraggio – mi dice – il coraggio nel fare il bene a qualsiasi costo».

Ugo Pozzoli

 


Giovanni Billò – Margherita Allena

Padre Giovanni Calleri, la forza dell’esempio

Nella prima parte io ho cercato di seguire Giovanni nel suo cammino di educazione umana e spirituale: dagli inizi in famiglia e in parrocchia agli anni di scuola e di seminario, cogliendo – attraverso lettere, testimonianze, documenti – il maturare delle sue doti di sensibilità, intelligenza, creatività, autonomia, e il precoce affiorare di una vocazione ecclesiale e missionaria determinata e generosa messa però presto alla prova da certe incomprensioni e diffidenze dovute soprattutto alla sua vivacità e intraprendenza e a certi atteggiamenti che apparivano troppo anticonformistici in ambienti educativi ancora rigidi e chiusi. […]

Qui si innesta la seconda parte del libro, in cui Margherita Allena riferisce di un viaggio compiuto nel 2009 in Brasile con la cugina Zelda Guglielmotto, pronipoti di padre Giovanni,
visitando i luoghi dove aveva operato e cercando contatti con chi l’aveva conosciuto e con vecchi indios che egli aveva contribuito a beneficare e tra i quali aveva perso la vita. (Gio. Bil.)

Edito da: Associazione «Amici di Padre Calleri»
Piazza Dante 12, 12061 Carrù (Cn)
info@amicipadrecalleri.it


Bibliografia essenziale

  1. Damioli e G. Saffirio, Yanomami, Indios dell’Amazzonia, Ed. Capitello 1996.

Silvano Sabatini, Sangue nella foresta amazzonica, Emi, Bologna 2001.

Silvano Sabatini e Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo, Ediesse 2012.

Gabriele Soldati, Testimonianza di sangue, MC 1/1969 p. 14-35.

Sabatini Silvano, Sono morti così, MC 1/1970 p. 28-35.

Gigi Anataloni, La causa degli Indios è la nostra causa, dossier MC 2/1985 p. 27-38.

Margherita Allena e Zelda Guglielmotto, Sulle orme dello zio, MC 9/2010 p. 10-17.

AA.VV., L’incontro (Nohimayou), dossier MC 10/2016 p. 27-58.

 

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Viaggio nel mondo del nucleare: Atomi di pace, atomi di guerra


Sommario

 

Sì, no, forse, I tanti dilemmi dell’energia nucleare

Scrivere un articolo sul nucleare è una vera e propria sfida di comunicazione (e non esclusivamente dal punto di vista scientifico). Il dibattito sull’opportunità o meno di utilizzare l’energia imprigionata nel nucleo di un atomo anche per scopi pacifici e civili si è incuneato, a partire dagli anni Settanta, in inestricabili gangli ideologici. A seconda delle tesi che si vogliono sostenere, l’immensa mole di dati e tesi scientifiche viene troppo spesso seviziata e manipolata a piacere con il solo scopo di suffragare idee preconcette, anche a costo di stravolgere la fisica dell’atomo. È quindi praticamente impossibile, nell’affrontare un argomento così delicato, non incappare negli strali delle tifoserie dell’una o dell’altra squadra. Si aggiunga, poi, la complessità fisica, chimica, matematica che accompagna la materia nucleare che, per essere presentata in modo comprensibile ad un pubblico poco avvezzo all’argomento, deve essere spesso limata e sintetizzata in modo poco ortodosso.

Tutto questo porta spesso ad approssimazioni o a faziosità difficilmente conciliabili con l’informazione che si intende offrire.

Ai lettori di Missioni Consolata tenterò, quindi, di presentare l’argomento nucleare, se non in modo oggettivo, per lo meno cercando di seguire l’onestà intellettuale che dovrebbe contraddistinguere ogni divulgazione, nonostante il mio personale scetticismo su questa fonte energetica soprattutto in fatto di gestione delle centrali.

Piergiorgio Pescali

          

Dall’atomo alla fusione nucleare

Ritratto di Antornine-Henri Becquerel

Dalla scoperta della divisibilità dell’atomo (1896) al suo sfruttamento per produrre energia, la scienza della fisica nucleare ha fatto passi enormi. Non sempre nella direzione corretta, come dimostrano le tragedie di Hiroshima e Nagasaki (1945) e l’esistenza di pericolosi armamenti nucleari. Oggi l’energia nucleare viene sfruttata (soprattutto) per usi civili, ma anche in questo caso sul tavolo rimangono problemi seri. Come il pericolo di incidenti (le centrali di Chernobyl e Fukushima ce lo ricordano) e lo smaltimento delle scorie radioattive.

Nel 1914 la casa editrice britannica Macmillan & Co. pubblicò un romanzo di Herbert George Wells, La liberazione del mondo. In quelle 286 pagine si descriveva, in modo fantascientifico, una guerra che sarebbe scoppiata nel 1956 tra la coalizione franco-britannica-statunitense e quella austro-germanica. Il libro di Wells, autore noto al grande pubblico in quanto aveva già dato alle stampe successi come L’isola del dottor Moreau (1896), L’uomo invisibile (1897) e La guerra dei mondi (1898) che tanto panico causò nell’edizione radiofonica di Orson Welles, non raggiunse la fama dei precedenti lavori, ma ipotizzava, per la prima volta, l’utilizzo di un’arma che, sebbene differente nella concezione, avrebbe dominato la storia del mondo dal secondo dopoguerra fino ad oggi: la bomba atomica.

Basandosi sugli studi di Ernest Rutheford, William Ramsay e, soprattutto, di Frederick Soddy, Wells ipotizzò che, in un futuro non troppo lontano, gli eserciti avrebbero potuto utilizzare la scoperta della radioattività per creare armi che uccidessero non solo grazie al loro potenziale distruttivo immediato, ma prolungando nel tempo l’emissione dei radioisotopi.

L’autore morì il 13 agosto 1946, un anno dopo lo scoppio delle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki, facendo così in tempo a veder realizzarsi nella storia la sua anticipazione letteraria.

La liberazione del mondo era un libro apocalittico, ma con un finale positivo: nel cancellare gran parte dell’umanità, la bomba atomica aveva anche permesso di gettare le basi per la creazione di nuove forme di pensiero e di governo. Alla fine, dunque, la scienza, in cui il pacifista Wells credeva fermamente, mostrava sempre il lato costruttivo e vantaggioso.

L’innato ottimismo che la società a cavallo tra il XIX e il XX secolo riponeva nel progresso, aveva nella neonata fisica nucleare il suo principale motivo d’essere.

L’atomo è divisibile: la nascita della fisica nucleare

Enrico Fermi

Nel febbraio 1896, pochi anni prima che La liberazione del mondo fosse data alle stampe, la scoperta della radioattività fatta dal fisico francese Henri Becquerel aveva inaugurato l’avventura nucleare smontando la tesi secondo cui l’atomo (dal greco ??????, àtomos, indivisibile) era la parte ultima della materia e dimostrando che invece era a sua volta formato da altre particelle più piccole. Era nata la fisica nucleare.

Ci vorranno altri 36 anni prima che la struttura dell’atomo sia svelata nella sua interezza: nel 1897 Joseph John Thomson scoprì l’elettrone, nel 1919 Ernest Rutheford propose l’esistenza di un nucleo formato da protoni caricati positivamente e nel 1932 James Chadwick ipotizzò l’esistenza all’interno del nucleo di una particella di massa simile a quella del protone, ma di carica neutra: il neutrone.

Proprio quest’ultima scoperta scatenò nuove teorie della fisica e nel 1933 Leo Szilàrd suppose che se un nucleo poteva assorbire un neutrone, avrebbe potuto, allo stesso modo, espellerlo creando una reazione nucleare a catena. Il 4 luglio 1934, lo stesso giorno in cui morì Marie Curie, i cui lavori sulla radioattività erano stati fondamentali per lo sviluppo della fisica nucleare, Szilàrd depositò a Londra il suo brevetto sul modo di sfruttare l’energia contenuta in un nucleo atomico basato sulla reazione a catena di decadimenti nucleari.

Sembrava che la scienza concedesse all’umanità un futuro più roseo che mai, ma all’orizzonte cominciavano ad approssimarsi le nubi nere di un nuovo conflitto mondiale. Fu la Germania nazista la prima nazione a credere all’atomo come fonte inesauribile di energia e di potenza militare. Nel dicembre 1938 un team di fisici tedeschi guidati da Otto Hahn e Fritz Strassmann dimostrò che un nucleo di uranio-235 avrebbe potuto dividersi in altri nuclei più piccoli, se bombardato con un neutrone. Il 13 gennaio 1939 la fisica Lise Meitner, assieme al nipote Otto Frisch, risalirono all’origine della reazione riuscendo a calcolare l’enorme quantità di energia che poteva liberarsi dalla fissione, termine coniato da Frisch in analogia alla fissione di cellule nel campo biologico.

La scoperta di Meitner e Frisch cominciò a scaldare gli animi non solo degli scienziati, ma anche dei militari: se la fissione poteva liberare tale quantità di energia, allora un’arma basata su questa reazione a catena avrebbe dato alla nazione che la possedeva un vantaggio incolmabile sulle altre.

Lo sbaglio del Terzo Reich: l’espulsione degli scienziati ebrei

La guerra bussava ormai alle porte e il Terzo Reich era il paese che aveva la più profonda conoscenza della fisica nucleare. Nell’aprile 1939 l’Heereswaffenamt, l’Ufficio armi dell’esercito tedesco, fondò l’Uranverein, il «club dell’uranio» che avrebbe dovuto approfondire gli studi sulla fissione nucleare. Fortuna volle che i gerarchi nazisti avessero altre priorità e non credevano che la Germania dovesse dare urgenza ad un programma di cui non si aveva sicurezza che potesse essere terminato in tempi brevi. La fiducia nelle istituzioni e nella preparazione militare assecondate dalla remissività sino ad allora mostrata dai governi più ostili al Reich (Gran Bretagna e Francia), sembravano garantire a Berlino una facile vittoria senza dover spendere inutili energie in programmi scientifici alternativi. In più i dirigenti nazisti avevano iniziato sin dal 1933 ad espellere gli ebrei dagli uffici pubblici e, seppur il principale istituto scientifico tedesco, il prestigioso Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft fur physikalische Chemie und Elektrochemie, non fosse strettamente sotto controllo statale, venne fatta pressione affinché venissero allontanati ebrei e comunisti da quello che il quotidiano nazista Volkischer Beobachter definì un «parco giochi per cattolici, socialisti ed ebrei»1. Lo stesso Hitler, quando Max Planck tentò di convincerlo che espellere i ricercatori di razza ebraica sarebbe stato il suicidio della scienza tedesca, rispose di non aver «niente contro gli ebrei in sé. Ma gli ebrei sono tutti comunisti e loro sono miei nemici, a loro faccio la guerra». La cecità del governo nazista fu, nella sua tragicità, provvidenziale perché privò la Germania di una parte importante dell’intellighenzia scientifica. Cervelli come Albert Einstein, Edward Teller, Rudolf Peierls, Hans Bethe, Arthur von Hippel, Max Born, James Franck, Hermann Weyl, Eugene Rabinowitch, Heinrich Kuhn assieme agli stessi Lise Meitner e Otto Frisch espatriarono, così come fece Enrico Fermi dall’Italia. In seguito molti di questi stessi scienziati parteciparono attivamente e diedero contributi fondamentali all’interno del «Progetto Manhattan», l’ambizioso piano voluto da Franklin Delano Roosevelt, su pressione di Leo Slizàrd, Eugene Wigner e Albert Einstein, timorosi che la Germania potesse costruire una bomba nucleare.

La svolta decisiva del progetto che, alla sua massima espansione, impiegava 130.000 addetti, avvenne alle 5.29 del mattino del 16 luglio 1945 quando nel sito di Trinity, a Jornada del Muerto, nel New Mexico, venne fatto scoppiare Gadget, il primo ordigno nucleare prodotto dall’uomo, della potenza di 22 chilotoni.

Contrariamente a quanto si pensi, non vi fu alcuna corsa a due: Hitler non si interessò mai veramente alla bomba nucleare e al termine della guerra fu chiaro a tutti che la Germania era ben lontana dal confezionare un ordigno simile. Quando, il 6 agosto 1945, la Bbc diede l’annuncio dello scoppio della bomba su Hiroshima, Werner Heisenberg, il più celebre tra i fisici coinvolti nell’Uranverein, non credette ad una parola: «Posso solo supporre che qualche dilettante in America, con scarse conoscenze in materia, li abbia ingannati dicendo: “Se sganciate questa ha l’equivalente di 20.000 tonnellate di esplosivo ad alto potenziale”, ma in realtà non funziona per niente»2.

Eisenhower e gli «atomi di pace»

Dopo Hiroshima e Nagasaki il mondo iniziò ad interrogarsi sull’etica della scienza e sul pericolo nucleare. Nel 1956 Robert Jungk mise sotto accusa gli scienziati che avevano collaborato al Progetto Manhattan nel suo libro Gli apprendisti stregoni. Già il fisico tedesco dell’Uranverein, Carl Friedrich von Weizsacker ebbe a dire che «La storia ricorderà che gli americani e inglesi hanno fatto una bomba mentre i tedeschi, sotto il regime di Hitler, hanno prodotto un motore capace di funzionare. In altre parole, in Germania sotto il regime di Hitler si è avuto lo sviluppo pacifico del motore a uranio, mentre americani e inglesi hanno sviluppato questa terrificante arma da guerra»3.

Ma in un mondo sempre più energivoro diveniva indispensabile trovare fonti di energia a basso costo e ad alto rendimento per sostenere lo sviluppo industriale e sociale che si andava delineando a partire dagli anni Cinquanta. Come fare a convincere il mondo intero a utilizzare una tecnologia che aveva dimostrato di essere così distruttiva e che, dopo la guerra, continuava a terrorizzare l’umanità nella contrapposizione tra Est e Ovest? Fu Eisenhower a indicare alle Nazioni Unite un piano di controllo nucleare presentandosi l’8 dicembre 1953 all’Assemblea generale con un discorso che viene considerato lo spartiacque tra il nucleare a scopo bellico e quello a scopo civile: Atomi per la pace4. Il pianeta aveva appena sfiorato un nuovo conflitto nucleare nella guerra di Corea, Stalin era morto da poco e non si sapeva che strada avrebbe preso l’Urss sotto la guida del nuovo segretario del partito. Eisenhower propose un ente sovranazionale che controllasse le scorte di materiale fissile (il combustibile nucleare) «destinato ad essere usato per uno scopo pacifico […] nell’agricoltura, medicina e altre attività pacifiche […] al fine di fornire energia elettrica in abbondanza alle aree del mondo di essa più affamate».

Il pannello di controllo del reattore nucleare della centrale atomica di Obninsk, nelal regione di Kaluga in URSS, messo in funzione il 27 giugno 1954.

Il 27 giugno 1954 la centrale di Obninsk, in Unione Sovietica, fu il primo impianto nucleare ad essere collegato alla rete elettrica nazionale inaugurando così l’epoca del nucleare a scopo civile. Si sarebbe dovuto attendere il 26 agosto 1956 per vedere la prima centrale nucleare costruita appositamente per generare energia elettrica, la Calder Hall del Regno Unito, entrare in operazione. Da allora la fissione dell’atomo divenne sempre più alla portata di tutti, ed oggi i 448 reattori nucleari sparsi in 31 paesi del mondo producono circa l’11% dell’energia elettrica prodotta nel pianeta e il 5,86% del consumo energetico assoluto5,6,7,8.

Anche l’Italia entrò con entusiasmo nel club del nucleare il 12 maggio 1963, quando venne inaugurata la prima centrale atomica a Latina. Solo tre anni più tardi il nostro paese era il terzo produttore al mondo di energia nucleare9. Sembrava che nulla potesse arrestare l’avanzata della fissione, ma all’eccitazione iniziale seguì una più ponderata disamina dei pro e dei contro.

Il movimento «No Nukes»

Con le contestazioni studentesche del Sessantotto cominciarono ad affacciarsi anche i primi movimenti «No nukes». Diversificati nelle intenzioni, nei metodi e nelle idee, gli attivisti convogliavano i loro timori verso la sicurezza, sia ambientale che umana, e la pericolosa complementarietà dell’industria nucleare civile e militare. Le prime centrali nucleari cominciavano a produrre quantità considerevoli di scorie radioattive che destavano preoccupazione tra la popolazione in quanto di difficile smaltimento. Inoltre i reattori, utilizzando uranio arricchito (uranio con alta percentuale di isotopo 235) e producendo plutonio-239, potevano essere sfruttati dall’industria militare per la produzione di bombe nucleari. Infine, dato che la teoria della fissione e fusione nucleare è identica sia per produrre ordigni che per produrre energia ad uso civile, ogni sviluppo tecnologico dell’uno poteva essere applicato nell’altro campo. Non è un caso che tutti i paesi che possiedono o hanno posseduto un arsenale nucleare abbiano sul loro territorio centrali nucleari per produrre energia a scopo civile o reattori di ricerca10.

Durante gli anni Settanta si moltiplicarono le manifestazioni contro la proliferazione nucleare: si organizzavano concerti, si giravano film, scendevano in campo star dello spettacolo e della politica. Nel 1975 la ventunenne Anne Lund, un’attivista antinucleare danese appartenente alla Organisationen til Oplysning om Atomkraft (Organizzazione per l’informazione sulle centrali nucleari) disegnò uno dei loghi più famosi e utilizzati nella storia della grafica: il sole che ride e che alla domanda «Energia nucleare?» risponde con un gentile, ma perentorio, «No, grazie».

I più gravi disastri nucleari

Alle obiezioni degli attivisti e delle organizzazioni ambientaliste, le compagnie impegnate nel nucleare, appoggiate dai governi, rispondevano assicurando tutti sulla sicurezza e sulla necessità di avere una fonte energetica pulita, efficiente e, soprattutto stabile e economica.

Ma la sicumera mostrata dai fautori del nucleare sembrò frantumarsi di fronte ad una serie di incidenti: la perdita di refrigerante con conseguente parziale fusione del reattore avvenuta il 28 marzo 1979 a Three Miles Island, negli Stati Uniti, fu solo il preludio di quello che, il 26 aprile 1986 accadde a Chernobyl, considerato il più grave incidente della storia del nucleare a scopo civile, seguito, l’11 marzo 2011, da quello, altrettanto pericoloso, di Fukushima, in Giappone. In tutto, dal 1957 ad oggi, nel mondo ci sono stati 14 incidenti che hanno coinvolto reattori nucleari, di cui dieci con conseguenze dirette sull’ambiente e la popolazione circostante11.

Le sciagure di Chernobyl e Fukushima furono manipolate da entrambe gli schieramenti pro e contro il nucleare per portare acqua al proprio mulino, in modo cinico e presentando in modo approssimativo, per non dire fraudolento, mappe, grafici, dati e cifre. In Italia, a seguito dell’incidente di Chernobyl venne indetto un referendum che sancì, con un consenso dell’80,57% dei votanti, la chiusura delle 4 centrali nucleari presenti sul territorio nazionale: Trino Vercellese, Caorso, Latina, Sessa Aurunca. Un tentativo di reintrodurre la fissione venne fatto nel 2011 ma, a poche settimane dal voto, Fukushima determinò l’esito delle urne con un 94,75% di contrari12,13.

La resistenza del nucleare e la crescita delle fonti rinnovabili

L’ondata di scetticismo verso l’energia atomica sembra, però, non aver intaccato l’avanzata del nucleare nel mondo. I 363 reattori nucleari che nel 1985, prima dell’incidente di Chernobyl, producevano 245.779 MWe (= megawatt elettrico, ndr) di energia, nel 2010 (prima di Fukushima) erano saliti a 441 con una produzione elettrica di 375.227 MWe per raggiungere un totale di 391.116 MWe nel 2017. E con 61 reattori in costruzione per 61.264 MWe di potenza, il nucleare sembra essere ancora una fonte energetica attraente, nonostante nei prossimi 10-20 anni dovranno essere smantellati più della metà dei reattori perché troppo vecchi15,16.

Tra i paesi che nel 2010 avevano un contributo energetico dato dal nucleare, solo Germania e Giappone hanno deciso di diminuire in modo sostenuto (ma non annullare del tutto) l’apporto atomico nel loro consumo energetico dopo la catastrofe di Fukushima. Nel primo caso si è passati dal 22,6% del 2010 al 13,1% nel 2016; nel secondo caso dal 29,2% al 2,2%17. Tutte le altre nazioni, comprese alcune di quelle considerate più sensibili ai temi ambientali, come Finlandia, Svezia, Svizzera, Canada, hanno mantenuto attive le proprie centrali18,19.

I motivi di questa tendenza al rialzo sono da ricercarsi in diverse ragioni. Le energie rinnovabili (è anche il caso di ricordare che «rinnovabile» non è sinonimo di energia «pulita»), pur in forte e costante aumento sono ancora troppo suscettibili agli eventi naturali e non sempre possono essere disponibili ad un uso immediato (ad esempio, la carica di un’auto elettrica dura in media tra i 20 e i 40 minuti). Inoltre la crescente richiesta energetica mondiale obbliga le compagnie a rifornire in modo sempre più cospicuo e costante la rete. Gli impianti di produzione di energia rinnovabile, come eolica o fotovoltaica sono ancora troppo costosi, poco concorrenziali, dipendenti dalle condizioni atmosferiche e non in tutte le regioni possono essere installati (i pannelli fotovoltaici, ad esempio, occupano ampie superfici sottraendo aree che potrebbero, ad esempio, essere utilizzate in agricoltura). Le fonti energetiche fossili, come carbone, petrolio, gas naturale oltre che inquinare, hanno forti implicazioni geopolitiche, le scorte sono limitate e la loro estrazione, mano a mano che i giacimenti superficiali si esauriscono, diviene sempre più costosa e tecnologicamente impegnativa.

Infine, parametro certo di non poco conto, tra tutte le fonti energetiche a disposizione, il nucleare è di gran lunga quella che, a parità di unità di combustibile arricchito, genera la maggior quantità di energia20.

Pur non esistendo un parametro oggettivo e universalmente riconosciuto per valutare la convenienza o meno di una fonte energetica rispetto ad un’altra, le compagnie si affidano all’Eroi (Energy Returned On Investment, «ritorno energetico sull’investimento energetico») un valore che indica quanto conveniente è una determinata fonte energica pronta al consumo ottenuto dividendo l’energia prodotta durante tutto il ciclo di attività dell’impianto per l’energia spesa nella produzione, dalla costruzione allo smantellamento dell’impianto stesso, compresi i costi di manutenzione durante il ciclo di vita. Più alto è il suo valore più conveniente è produrre quel tipo di energia. L’Eroi, però, non tiene conto dei costi di produzione delle materie prime e del loro trasporto; di conseguenza i valori per una stessa fonte energetica variano in misura notevole a seconda del periodo, del luogo in cui l’energia è prodotta e consumata, del costo delle materie prime, della manodopera, etc. Ad oggi l’Eroi rimane comunque l’unico parametro scientifico per determinare l’effettiva economicità energetica ed è su questa base che governi e industrie programmano la loro politica energetica. Il nucleare rimane ancora una fonte tra le più convenienti dopo l’idroelettrico e il petrolio21. L’introduzione dei reattori di quarta generazione, prevista tra 10-20 anni, aumenterebbe ancor più l’Eroi.

© Greg Webb – IAEA, 2010

Le lobbies mondiali e le riserve di uranio

Contrariamente al sentito dire, dal 1985 ad oggi gli investimenti nel nucleare sono in continua diminuzione. L’Oecd ha stimato che nel 2015 sono stati spesi nel campo della ricerca e sviluppo energetico 12,7 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali sono confluiti nel campo della sicurezza, dei problemi ambientali e sociali. I governi tendono a finanziare ricerche in programmi energetici a medio-lungo termine atti ad essere commercializzati, in modo da recuperare, in parte o totalmente, gli investimenti. I capitali privati, invece, sono focalizzati ad investimenti a corto termine migliorando tecnologie già esistenti. Se negli anni Settanta più del 70% degli investimenti in ricerca e sviluppo erano diretti nel campo nucleare, nel 2015 questi si sono ridotti al 20%. Al tempo stesso è aumentato l’interesse verso le fonti energetiche rinnovabili e l’efficienza energetica, campi verso i quali sempre più lobbies industriali guardano con partecipazione, anche per via dei forti incentivi economici offerti dai governi22. Risulta quindi sempre più difficile parlare di ostacoli verso le energie rinnovabili posti da cartelli di grosse multinazionali. Oramai anche le maggiori compagnie impegnate nel campo nucleare destinano una parte sempre più cospicua dei loro investimenti nelle rinnovabili (in particolare solare e eolico).

Tutto questo, però, non esclude che attorno al nucleare vi siano ancora interessi enormi, in particolare per quelle compagnie che operano nei paesi dove i piani energetici nazionali concedono ampi spazi a questa forma di energia. I principali gestori di impianti nucleari sono la francese Edf (58 reattori gestiti), la russa Rosenergoatom (35 reattori gestiti e 7 in costruzione), la sudcoreana Korea Hydro and Nuclear Power Co. (25 reattori gestiti, 3 in costruzione) e l’indiana Nuclear Power Corporation of India Ltd (22 reattori gestiti, 4 in costruzione)23,24.

Più conosciute al grande pubblico, perché presenti sul mercato dei consumatori, sono le multinazionali che si occupano della manutenzione e della costruzione di impianti nucleari: la parte del leone la fanno la Westinghouse (manutenzione di 70 reattori e altri 6 reattori in costruzione), l’Areva (66 reattori in manutenzione, ma appena salvata dal fallimento dallo stato francese, ndr), la General Electric (44 reattori in funzione e 2 in costruzione), la Mitsubishi Heavy Industries, la Toshiba, la Siemens, la Skoda25.

Come si può vedere la galassia delle ditte impegnate nel nucleare è molto variegata e non esclude quegli stessi paesi che al nucleare hanno rinunciato o stanno per rinunciare. A queste si aggiungono le compagnie che estraggono e lavorano l’uranio, metallo che, dopo l’arricchimento, viene utilizzato come combustibile nei reattori nucleari.

Due terzi dell’estrazione mondiale di uranio provengono dal Kazakistan (39% della produzione mondiale nel 2016), Canada (22%) e Australia (10%). Niger e Namibia, serbatornio per il combustibile nucleare francese estraggono ciascuno il 4% della quantità mondiale di uranio26.

Ma se in Kazakistan, in Canada e in Russia le compagnie che estraggono e lavorano uranio o appartengono allo stato o sono ditte a capitale privato per maggioranza locale, in Niger solo il 34% delle compagnie sono statali (il restante 66% sono straniere) mentre in Namibia, dove solo l’1,2% delle compagnie sono locali, la situazione è ancora più spostata verso il mercato straniero27. La chiusura del mercato giapponese e la diminuzione delle centrali in Germania hanno fatto crollare il prezzo del minerale. A seconda dei costi di estrazione e di lavorazione del materiale grezzo, il prezzo medio si aggira sui 130 dollari per kg (con riserve stimate attorno a 5.718.000 ton) per raggiungere i 260 dollari al chilo per l’uranio di difficile estrazione o di bassa purezza iniziale (con riserve stimate pari a 7.641.600 ton)28,29.

L’Australia è la nazione che possiede le riserve mondiali più cospicue (29%), seguita da Kazakhstan (13%), Russia e Canada (9% ciascuno), Sud Africa (6%) e infine Niger, Brasile, Cina, Namibia (5% ciascuno)30.

La produzione nel 2017 è stata di 68.000 tonnellate, 27% delle quali (19.000 ton) dirette verso gli Stati Uniti, 12% verso la Francia (8.000 ton), e poi in Russia, Corea, Cina, Ucraina31. Il forte incremento di domanda energetica cinese, ha indotto questo governo a iniziare una serie di manovre per diminuire la dipendenza verso il mercato estero, in particolare petrolifero. Così, oltre all’impulso dato alle fonti energetiche rinnovabili, è in progetto il raddoppio del contributo dato dal nucleare. La Cina è il paese al mondo dove si sta riscontrando il maggior incremento di energie rinnovabili; oggi il 25% dell’energia prodotta in Cina proviene da fonti energetiche rinnovabili e il 2% dal nucleare; nel 2040 si stima che il nucleare passerà al 4%, mentre il rinnovabile al 57%32. Questo porterà Pechino a importare una quantità di uranio tra le quattro e le cinque volte superiore a quella attuale (tra 14.400 e le 20.500 tonnellate di uranio nel 2035 contro le 4.200 attuali) trasformando la Repubblica popolare nel primo paese al mondo importatore del minerale fissile superando anche gli Stati Uniti33. Allo stesso tempo la domanda di uranio aumenterà per altri mercati che stanno rafforzando la presenza nucleare nel loro scenario energetico: India, Argentina, Giappone, ma anche con new entry come Polonia, Turchia, Emirati Arabi e Viet Nam34. Sebbene la richiesta sarà destinata ad amplificarsi, le riserve di uranio sono talmente vaste che, anche con uno scenario pessimista, potranno durare secoli35.

© Nuclear-Regulatory-Commission_1991

La radioattività e le scorie

Uno dei principali problemi che nascono dalla fissione nucleare è quello dei rifiuti radioattivi. Per una malsana informazione, ogni qualvolta si pronuncia la parola «radioattività» si ha un sobbalzo di terrore. In realtà tutti noi viviamo immersi nella radioattività. Continuamente. In ogni luogo del mondo. Occorre, quindi, distinguere tra radiazione naturale e radiazione artificiale individuando anche, oltre alla tipologia di radiazione emessa dai singoli componenti, anche la quantità.

Le centrali nucleari producono materiali radioattivi, ma non sono le sole sorgenti di scorie prodotte dalle attività umane. Limitandoci quindi ai soli reattori in funzione a scopo civile, i rifiuti considerati radioattivi si dividono in tre categorie: Llw (Low-Level Radioactive Waste, rifiuti radioattivi a basso tasso di radioattività), Ilw (Intermediate-Level Radioactive Waste, rifiuti a medio tasso di radioattività) e Hlw (High-Level Radioactive Waste, rifiuti ad alto tasso di radioattività). Mentre i Llw costituiscono il 90% del volume totale e non danno particolari problemi di smaltimento, i Ilw e i Hlw sono quelli su cui si innestano i principali e più accesi dibattiti tra chi osteggia e chi, invece, propugna la scelta nucleare. Le scorie Hlw ammontano al 3% dell’intera gamma di rifiuti prodotti da una centrale e all’interno di questa sezione vengono classificati anche i combustibili spenti, le barre di uranio che hanno terminato il loro ciclo vitale all’interno del reattore e che, quindi, posseggono una radioattività molto elevata. Il combustibile spento costituisce lo 0,2% del totale dei rifiuti radioattivi, pari a circa 34.000 m3 annui e di questi circa il 20-25% viene inviato ai cicli di riprocessamento36. Il resto viene trattato con un metodo chiamato vetrificazione.

I Llw sono stoccati in depositi superficiali a causa della loro (relativa) bassa pericolosità, mentre i Ilw e gli Hlw devono essere conservati per anni (da decine a migliaia, a seconda del livello di radioattività emanato) in luoghi geologicamente sicuri e sotterranei facendo levitare in modo sostanziale i costi del ciclo vitale di una centrale atomica.

Per poter essere maneggiati con sufficiente sicurezza, i rifiuti Hlw vengono lasciati in depositi temporanei; il combustibile esausto è mantenuto in media per 5 anni nelle piscine di stoccaggio; durante questo periodo il materiale perde il 90% della sua radioattività. Prima di essere inviato ai centri di riprocessamento, però, le scorie nucleari vengono separate secondo i loro componenti. La composizione media del combustibile esausto contiene il 93,4% di uranio-238, lo 0,71% di uranio-235, 5,15% di prodotti di fissione e 1,3% di plutonio37.

Appare chiaro che, oltre alla pericolosità intrinseca delle scorie, vi è anche il rischio (spesso reale, come abbiamo già scritto) che parte del plutonio generato come scarto di produzione possa essere utilizzato nel campo militare per la costruzione di ordigni nucleari.

Dopo alcune decine di anni, i rifiuti di tipo Hlw possono essere classificati come Ilw, ma la radioattività di tali scorie torna a livelli originari solo dopo migliaia di anni. Rifiuti a basso e medio livello di emissione radioattiva che hanno un emivita38 di 30 anni, possono essere depositati in depositi superficiali o in grotte poco profonde e se, per questo tipo di rifiuti, alcuni siti sono già operativi, molto più dibattuta è la scelta delle aree da destinare alla conservazione dei rifiuti Hlw39. Il deposito del monte Yucca, nel Nevada, che avrebbe dovuto accogliere 70.000 tonnellate di Hlw, è stato definitivamente bocciato nel 2010 dopo 32 anni di verifiche, sopralluoghi, progetti, mentre i siti di Onkalo, in Finlandia, e di Forsmark la cui operatività permetterebbe di contenere combustibile esausto a 450 metri di profondità sono in fase di ultimazione40,41.

© ter – AEA, 2016

Il nucleare in Italia

In paesi come l’Italia, dove per due volte si è respinta la possibilità di dotare il paese di un piano energetico che comprendesse anche il nucleare, il problema del trattamento e deposito delle scorie è oggi il principale tema sul quale si dibatte il tema dell’atomo. Attualmente vi sono cinque i reattori nucleari in funzione, tutti a scopo di ricerca: tre sono gestiti dall’Enea («Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile»), uno dall’università di Palermo e uno dal Laboratorio energia nucleare applicata dell’università di Pavia42.

Le quattro centrali costruite tra gli anni Sessanta e Settanta – Latina, Garigliano (Caserta), Trino Vercellese (Vercelli) e Caorso (Piacenza) – sono in corso di disattivazione assieme agli impianti sperimentali di riprocessamento di combustibile nucleare di Eurex e Itrec, all’impianto di plutonio dell’Enea a Casaccia (Roma) e al reattore Essor del Centro comune di ricerche (Ccr) di Ispra (Varese).

Tutte queste attività hanno generato rifiuti radioattivi a cui si aggiungono annualmente nuove scorie nucleari provenienti dalle attività mediche e dai ciclotroni per la produzione di radiofarmaci. Oggi sono centinaia i centri nel nostro paese che conservano rifiuti radioattivi (la maggior parte provenienti da attività mediche), mentre 19 sono le strutture principali da cui le scorie verranno trasferite per confluire in un deposito nazionale la cui individuazione geografica non è ancora stata decisa43. Questa incredibile lacuna (la gestione delle scorie dovrebbe essere una delle priorità che accompagnano un progetto energetico nazionale che includa il nucleare) dimostra la miopia e la leggerezza con cui la classe politica italiana del passato ha trattato il programma energetico, le cui conseguenze – sia economiche che sociali – oggi paghiamo a caro prezzo.

© Dean Calma / IAEA_FRANCE

Il futuro del nucleare

Alla luce di quanto scritto, che futuro avrà il nucleare nel panorama energetico mondiale?

Con lo sviluppo delle energie rinnovabili, i forti incentivi che vengono offerti a chi fa ricerca nel campo e a chi opta per installare impianti e, soprattutto, la paura di un ennesimo incidente, il nucleare potrebbe non essere in grado di competere. Inoltre nei prossimi due o tre decenni la metà dei reattori oggi in funzione dovrà essere smantellata con costi e problematiche di smaltimento enormi. Al loro posto potrebbero subentrare i reattori di IV generazione meno costosi, poco adatti a sviluppi militari e, soprattutto, più sicuri e, successivamente, i reattori che si rifanno al progetto Inpro (International Project on Innovative Nuclear Reactors and Fuel Cycles) coordinato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea). Nel frattempo, però, la transizione tra lo smantellamento degli impianti obsoleti e l’avvio della IV generazione verrebbe occupata dai reattori di piccola portata facili da costruire e semplici da mantenere verso cui hanno mostrato interesse tutti gli stati che nel prossimo futuro dovranno fermare i propri impianti. In tutti questi nuovi progetti l’Italia è presente con i propri ricercatori.

Ma quello a cui il futuro lontano sta guardando con maggior attenzione è la fusione nucleare, una tecnologia basata non più sulla fissione (divisione) del nucleo atomico, bensì sul processo inverso, cioè l’unione di due nuclei. La reazione, più o meno quella che avviene nelle stelle, produrrebbe una quantità enorme di energia (circa 4 volte quella che si verificherebbe nella fissione di una pari massa di uranio-235 e 4 milioni di volte maggiore a quella che si sprigionerebbe da una pari massa di combustibile fossile) accompagnata da una produzione di scorie poco significative44.

Sebbene la ricerca sulla fusione e su un processo che possa essere convenientemente adottato per produrre energia quasi pulita a scopo civile sia stato avviato sei decenni fa, il traguardo sembra ancora lontano. Le difficoltà tecniche sono enormi. In primo luogo, la temperatura: per innescare e mantenere una fusione nucleare occorrono temperature che si aggirano sui 100-150 milioni di gradi. E non vi è alcun materiale che sia in grado di sostenere tale temperatura e contenere il plasma che si forma: ogni contatto con le pareti del contenitore raffredderebbe il plasma interrompendo la reazione. Inoltre ogni contatto con un elemento estraneo inquinerebbe il plasma stesso.

Per fortuna la tecnologia e la ricerca (anche italiana) sulla fusione è riuscita a trovare soluzioni, seppur costose e ancora in fase di sviluppo e sperimentazione, come il contenimento magnetico del plasma. Al primo Tokamak45, il reattore nucleare a fusione costruito nella seconda metà degli anni Sessanta, sono seguiti un’altra ventina di impianti pilota sino a quando un consorzio che comprende Unione europea, India, Cina, Russia, Giappone, Corea e Stati Uniti ha dato inizio al più ambizioso progetto nel campo della fusione nucleare: l’Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), in fase di costruzione a Cadarache, in Francia, che costerà 15 miliardi di dollari (rispetto ai cinque inizialmente preventivati nel 2001) e potrà entrare in funzione nel 203546. Nella migliore delle ipotesi l’uomo potrebbe consumare energia proveniente dalla fusione solo nella seconda metà del secolo. Un intervallo di tempo ancora troppo lungo perché il nostro pianeta possa sopportare un depauperamento delle materie prime e un inquinamento cui è sottoposto a livello attuale.

Nel frattempo, il mondo dovrà funzionare con l’energia disponibile che, qualunque sia la fonte, non è né pulita né infinita.

Piergiorgio?Pescali


Atomi e isotopi

Ogni atomo è formato da elettroni che roteano attorno ad un nucleo formato da protoni e neutroni (disegno). Nonostante l’elettrone abbia una massa 1.836 volte inferiore a quella del protone, la carica delle due particelle è uguale, ma di segno opposto. L’elettrone ha una carica negativa, mentre il protone una carica positiva. Quando in un atomo il numero di protoni è identico a quello degli elettroni, le cariche si annullano a vicenda e l’atomo è neutro. Se, invece, il numero degli elettroni è superiore a quello dei protoni l’atomo si trasforma in ione negativo; all’opposto, si ha uno ione positivo.

La quasi totalità della massa di un atomo è data dal nucleo (99,98% della massa, il restante 0,02% è data dagli elettroni) che, come accennato, contiene, oltre ai protoni, anche i neutroni, particelle di massa simile a quella dei protoni, ma di carica neutra.

Ogni elemento che troviamo in natura, dall’elio con cui sono gonfiati i palloncini, al mercurio al ferro, è definito esclusivamente dal numero di protoni presenti nel nucleo. Il carbonio, ad esempio, ha 6 protoni, l’elio ne ha due, l’idrogeno uno, l’uranio 92.

Il numero di protoni determina il numero atomico (Z) ed è quello che individua la proprietà chimica di un elemento, mentre la somma di protoni e neutroni è detta numero di massa (A).

Stessi elementi possono avere un numero di neutroni (N) diverso all’interno del loro nucleo. In questo caso parliamo di isotopi: sono atomi le cui caratteristiche chimiche rimangono identiche, ma varia il numero di massa.

L’idrogeno, ad esempio, ha un nucleo formato da un solo protone, ma quando accanto al protone troviamo anche un neutrone abbiamo il deuterio, mentre se i neutroni sono due abbiamo il trizio. Deuterio e trizio sono elementi utilizzati nella fusione nucleare.

P.Pescali


Fissione e fusione

I nuclei atomici possono dividersi per formare atomi di numero atomico e numero di massa inferiore, o unirsi per formare atomi di massa maggiore. Nel primo caso si parla di fissione nucleare, nel secondo caso di fusione.

L’elemento utilizzato per produrre energia nelle centrali nucleari a fissione è, generalmente, l’uranio. Non tutto l’uranio è, però, fissile. L’uranio ha 92 protoni nel proprio nucleo ed un peso atomico di 238 (viene indicato come 238U, 92U238 o semplicemente uranio-238). Sino ad oggi conosciamo 11 isotopi dell’uranio; tutti hanno lo stesso numero di protoni (92), ma un numero diverso di neutroni che variano da 138 a 148. Quando viene estratto il minerale è composto da isotopi presenti in diversa percentuale: il 99,3% è uranio-238 (uranio con 92 protoni e 146 neutroni), mentre lo 0,7% è uranio-235 (uranio con 92 protoni e 143 neutroni). Dato che la fissione dell’uranio-238 non dà luogo ad una reazione a catena, il combustibile utilizzato nelle centrali nucleari è l’uranio-235. Ecco perché, una volta estratto, il minerale deve essere arricchito per portare la concentrazione di uranio-235 al 3-5%.

Bombardando l’uranio-235 con un neutrone, il nucleo assorbe la particella trasformandosi in uranio-236 (236U, isotopo dell’uranio con 92 protoni e 144 neutroni). L’altissima instabilità dell’uranio-236 fa sì che il suo nucleo di divida in due nuclei più piccoli liberando altri neutroni che andranno a colpire altri nuclei di uranio-235. Ad ogni fissione si libera una quantità di energia che va a creare calore riscaldando l’acqua attorno al reattore la quale genera vapore che andrà ad alimentare la centrale. A parità di massa, una centrale a fissione può generare energia un milione di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile; una centrale a fusione sarebbe – invece – di 4 milioni di volte superiore.

La fusione è, semplificando al massimo, il processo inverso: due nuclei, generalmente di deuterio e trizio, di fondono per formarne uno più grande (elio). Il deuterio è un elemento comune, lo si può estrarre dall’acqua marina, mentre il trizio, che non esiste in natura in quantità elevate, lo si ricava dal litio, elemento presente nella crosta terrestre. 150 kg di deuterio e 2-3 tonnellate di litio sono sufficienti per generare elettricità per un anno in una città di un milione di persone. L’ostacolo principale della fusione è il confinamento del plasma, che si trova ad una temperatura di centinaia di milioni di gradi. Negli impianti sperimentali si utilizza il confinamento magnetico, che “chiude” il plasma in un campo magnetico impedendogli di entrare a contatto con le pareti del contenitore. Ogni reazione di fusione, oltre che un nucleo di elio produce un neutrone che, essendo di carica neutra, non verrà trattenuto dal campo magnetico e andrà a cedere la sua energia alle pareti del “blanket”, il contenitore toroidale, che si riscalderà. Un fluido asporterà il calore del blanket entrando in un generatore di vapore che farà funzionare una turbina a vapore. A parità di massa, una centrale a fusione può generare energia 4 milioni di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile.

P.P.


La radioattività

La stabilità di un atomo è data dal rapporto tra numero di neutroni e protoni (N/Z) all’interno del nucleo. I protoni, infatti, essendo particelle dotate della stessa carica positiva, tendono a respingersi a vicenda: le forze nucleari attrattive dei soli protoni non sono in grado di prevalere su quelle repulsive. I neutroni, essendo di carica neutra, aumentano proprio le forze nucleari attrattive che riescono a tenere i protoni confinati all’interno del nucleo. Questo equilibrio è ottimale quando il rapporto tra neutroni e protoni si attesta tra 1 e 1,5; quando questo valore viene superato l’atomo diventa instabile.

A questo punto l’isotopo instabile tende a rilasciare energia per riconfigurarsi in un isotopo più stabile. Questo rilascio di energia determina la radioattività e continua sino a quando il rapporto N/Z raggiunge un valore ideale. A seconda dell’isotopo, il rilascio di energia può durare da frazioni di secondo a migliaia di anni e la velocità con cui questa energia è emessa si chiama tempo di dimezzamento. Più il tempo di dimezzamento è breve, più radioattivo sarà l’isotopo. Dato che ad ogni ciclo di emivita il decadimento radioattivo è esponenziale, dopo 7 cicli di dimezzamento l’isotopo contiene meno del’1% della radioattività iniziale.

L’uomo da sempre convive con la radioattività. Raggi cosmici, terreno, cibi contengono isotopi che emettono in continuazione attività radioattiva. In media ogni individuo assorbe annualmente una dose di radiazioni naturali tra i 2,4 e i 3,3 millisievert (il valore varia da luogo a luogo in quanto la radioattività rilasciata dal suolo e dai raggi cosmici non è uniforme su tutto il pianeta).

Questi valori rappresentano circa il 50-70% delle radiazioni totali assorbite dall’uomo in quanto si devono aggiungere le dosi dovute alle attività umane, la quasi totalità delle quali (2,6 millisievert) è dovuta alle attività mediche (radiografie, medicina nucleare, tomografie). Le radiazioni dovute alle attività industriali corrispondono a meno dello 0,1% del totale della dose annuale assorbita (0,003-0,01 mSv).

In genere, però, le radiazioni naturali non hanno alcun effetto sulle nostre cellule o, tuttalpiù, possono essere riparate dalle cellule stesse. Il pericolo avviene quando l’energia delle particelle radioattive è elevata a tal punto da «ferire» la cellula senza che questa riesca a curarsi. In questo caso può continuare a vivere rischiando però di infettare altre cellule, oppure morire. Perché una cellula muoia occorre che la quantità di energia somministrata sia intensa e di breve durata: è il caso peggiore.

Le radiazioni emesse dai reattori nucleari sono di tre tipi:

  • alfa
  • beta
  • gamma

Le particelle alfa sono formate da due protoni e due neutroni. Dotate di bassa energia, posso essere fermate da un semplice foglio di carta.

Le particelle beta sono elettroni. Hanno energia superiore alle particelle alfa, ma non sufficiente da penetrare a fondo nella pelle (sono fermate da fogli di alluminio spessi pochi millimetri). Possono percorrere solo pochi metri nell’aria.

Le particelle gamma sono onde elettromagnetiche simili ai raggi X, quindi dotate di alta energia. Per fermarle occorrono materiali ad alta densità, come il piombo. Nell’aria possono percorrere anche diverse centinaia di metri prima di perdere la loro carica energetica. Al contrario delle particelle alfa e beta, che sono corpuscolari, le particelle gamma sono molto simili ai fotoni della luce (da cui variano solamente per avere una lunghezza d’onda minore). Generalmente, l’emissione delle radiazioni gamma è accompagnata da quelle alfa e beta.

Vi è, infine, un quarto tipo di radiazione, formato da neutroni. Sono particelle ad altissima energia che sono fermate da spessi strati di cemento e di acqua.

P.P.


Hanno firmato questo dossier:

  • Piergiorgio Pescali Giornalista e scrittore, laureato in fisica, storia e filosofia, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, Giappone e penisola coreana. Dal 1996 visita con regolarità la Corea del Nord. Da anni collaboratore di MC, suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Avvenire, Il Manifesto, Panorama e, all’estero, da Bbc e Cnn. Il suo blog è: www.pescali.blogspot.com.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC

Un avviso di pericolo nucleare a Trinity, nel deserto del New Mexico (Usa), dove il 16 luglio 1945 venne fatto esplodere il primo ordigno nucleare.


Note

(1)    Philip Ball, How 2 Pro-Nazi Nobelists Attacked Einstein’s “Jewish Science”, Scientific American, 13 febbraio 2015.

(2)    Jeremy Bernstein, Hitler’s Uranium Club: The Secret Recordings at Farm Hall, Springer Science+Business Media New York, 2001, p. 116.

(3)    Jeremy Bernstein, ibidem, p. 138.

(4)    La trascrizione dell’intero discorso, assieme all’audio originale, è consultabile sul sito della World Nuclear University.

(5)    AEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, References Data Series n. 1, 2017.

(6)    AEA, Vienna, Maggio 2017.

(7)    IAEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, ibidem, p. 18.

(8)    La differenza tra i due dati: l’11% si riferisce al contributo dato dal nucleare alla sola rete elettrica; altre fonti di energia elettrica sono l’idroelettrica, il solare, l’eolica. Il 5,86% si riferisce al contributo dato dal nucleare al consumo energetico assoluto rapportato, quindi, anche con il contributo dato dal petrolio, gas naturale, geotermia, bioenergia.

(9)    ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, Comunicazione e informazione in tema di energia nucleare, di G. Forasassi, R. Lofrano, L. Moretti, Documento CERSE-UNIPI RF 1068/2010, Report RdS/2010/153, settembre 2010.

(10) Dei nove paesi che possiedono armi nucleari solo due (Israele e Corea del Nord) non hanno centrali per produrre energia a scopo civile, ma entrambe hanno istituti e impianti nucleari a scopo di ricerca.

(11) The Economist, 12 aprile 2011. La gravità di un incidente nucleare è classificata secondo una scala INES (International Nuclear and Radiological Event Scale) che va da 1 (semplice anomalia) a 7 (incidente catastrofico). Dalla scala 4 l’incidente nucleare ha conseguenze locali. Dal 1957 ci sono stati 2 incidenti su scala 7 (Chernobyl e Fukushima), 1 su scala 6, 3 su scala 5, 4 su scala 4, 2 su scala 3, 1 su scala 2 e 1 su scala 1 (fonte IAEA, The Economist).

(12) http://elezionistorico.interno.gov.it/

(13) Ibidem

(14) Interessante, sul cambio di consenso degli italiani sul nucleare, il citato rapporto ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, del settembre 2010 in cui – alle pagine 7/8 – si afferma che alla fine del 2010, pochi mesi prima di Fukushima, il 44% degli italiani sarebbe stato favorevole al ritorno del nucleare in Italia.

(15) IAEA, Vienna, Maggio 2017.

(16) Secondo un rapporto IAEA del maggio 2017, sui 448 reattori in funzione, 65 hanno un’età tra i 41 e 47 anni, 181 hanno tra i 31 e i 40 anni e 108 tra i 21 ed i 30 anni. La vita media di un reattore nucleare di I, II e terza generazione si aggira sui 40 anni, prolungabile a 60 per quelli di III generazione.

(17) IAEA, Vienna, maggio 2017.

(18) Ibidem.

(19) International Energy Agency (IEA): www.iea.org/weo2017/.

(20) A parità di massa la quantità di energia prodotta dalla fissione nucleare è superiore di sei ordini di grandezza (un milione di volte) quella del petrolio.

(21) ASPO Italia, «Associazione per lo studio del picco del petrolio», 2005.

(22) OECD International Energy Administration (IEA), 2015.

(23) IAEA, Vienna, Maggio 2017.

(24) Il numero di reattori nucleari non coincide necessariamente con il numero di impianti nucleari in quanto in uno stesso sito possono essere in funzione più reattori nucleari.

(25) IAEA, Vienna, Maggio 2017.

(26) World Nuclear Association (WNA), luglio 2017.

(27) Le principali compagnie che estraggono, lavorano e smerciano uranio solo la kazaka KazAtomProm (21% del mercato mondiale), la canadese Cameco (17%), la francese AREVA (13%), la russo-canadese ARMZ-Uranium One (13%) e l’australiana BHP Billiton (5%) (fonte: WNA, luglio 2017).

(28) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, OECD 2016, p.9.

(29) I principali siti minerari da cui viene estratto la pechblenda, il minerale che contiene uranio, sono: la McArthur River (Canada), proprietà della Cameco per il 69,8%, che estrae l’11% dell’uranio mondiale, la Cigar Lake (Canada), proprietà della Cameco al 50% (11% dell’uranio mondiale), la Tortkuduk & Myunkun (Kazakhstan), di proprietà del consorzio KatcoJV/Areva (6% dell’uranio mondiale), l’Olimpic Dam (Australia), proprietà della BHP Billiton (5% dell’uranio mondiale), l’Inkai (Kazakhstan), di proprietà del consorzio Inkai JV/Cameco, 5% dell’uranio mondiale e SOMAIR (Niger), per il 63,6% di proprietà dell’Areva, 4% dell’uranio mondiale (fonte: WNA, luglio 2017) .

(30) World Nuclear Association, luglio 2017.

(31) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100.

(32) IEA, World Energy Outloook 2017.

(33) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016, ibidem.

(34) Ibidem.

(35) Attualmente le riserve totali stimate sono sui 16.130.000 tonnellate; anche presupponendo lo scenario di richiesta più elevato proposto per il 2035 dall’IAEA (93.510 tonnellate totali nel mondo), le riserve basterebbero per 170 anni. (fonte: Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100).

(36) IAEA, Estimation of Global Inventories of Radioactive Waste and Other Radioactive Materials, June 2008, p.13.

(37) https://whatisnuclear.com/waste.html.

(38) L’emivita (o tempo di dimezzamento) di un isotopo radioattivo è definita come il tempo occorrente perché la metà degli atomi di un campione puro dell’isotopo decadano in un altro elemento.

(39) I depositi ILW e LLW sono situati nel Regno Unito (LLW Repository a Drigg, in Cumbria gestito da un consorzio formato da AREVA, Serco e Studsvik UK), Spagna (El Cabril gestito da ENRESA), Francia (Centre de l’Aube gestito dall’Andra), Giappone (LLW Disposal Centre a Rokkasho-Mura gestito da Japan Nuclear Fuel Limited), USA (in 5 siti, Texas Compact vicino al confine col New Mexico, gestito da Waste Control Specialists; Barnwell, South Carolina gestito da EnergySolutions; Clive, Utah gestito da EnergySolutions; Oak Ridge, Tennessee gestito da EnergySolutions e Richland, Washington, gestito da American Ecology Corporation), Svezia (a Forsmark, in un deposito situato a 50m sotto le rive del Baltico, gestito dal Swedish Nuclear Fuel e dal Waste Management Company) e Finlandia, nel deposito di Onkalo a Olkiluoto e Loviisa, con profondità a 100 metri.

(40) http://www.posiva.fi

(41) http://www.skb.com/future-projects/the-spent-fuel-repository/

(42) Elaborazione ISPRA dei rapporti attività dei gestori impianti e ARPA/APPA, 2014.

(43) I 19 siti principali che oggi custodiscono i rifiuti nucleari sono le 4 centrali nucleari (gestiti da Sogin), 4 impianti di riciclo di combustibile esausto (gestiti da Enea e Sogin), 7 centri di ricerca nucleare (ENEA di Casaccia, CCR Ispra, Deposito Avogadro, LivaNova, CESNEF -Centro Energia e Studi Nucleari Enrico Fermi- Università di Pavia, Università di Palermo), 3 centri del Servizio Integrato ancora attivi (Nucleco, Campoverde e Protex) e 1 centro di Servizio Integrato non attivo (Cemerad).

(44) https://www.iter.org/sci/Fusion.

(45) «Tokamak» è l’acronimo russo che sta per «camera toroidale a confinamento magnetico».

(46)  https://www.iter.org/faq#collapsible_5.