Nella stessa barca

Testo a di Gianantonio Sozzi, Imc |


«Oggi siamo impauriti e smarriti come i discepoli del vangelo che sono stati presi alla sprovvista, nella loro barca, da una tempesta inaspettata e furiosa». Mentre papa Francesco diceva queste parole nella sua preghiera solitaria in piazza San Pietro, lo scorso 27 marzo, ho pensato che l’immagine della barca accomunava due grandi tragedie del nostro tempo: in modo simbolico quella del Covid-19 che, nel momento in cui scrivo, ha ucciso già ben oltre 20mila persone nella sola Italia, e in modo diretto quella dei naufragi del mediterraneo che, negli ultimi sei anni, hanno fatto quasi altrettante vittime.

A differenza delle migrazioni, fatte con barche lontane da noi che attraversano disperatamente il Mediterraneo stipate di persone che non vorremmo accomodare a casa nostra e preferiremmo «aiutare a casa loro», il Covid-19 ci ha costretti a renderci conto che la barca su cui viviamo tutti, sia noi che «loro», è una sola: frantumate tutte le nostre certezze e pretenziose frontiere, oggi ci possiamo rendere conto «di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda».

Oggi è ancora presto per tirare delle conclusioni. Siamo ancora in mezzo alla tempesta, e non ne vediamo la fine. Stiamo appena iniziando a elaborare la nuova consapevolezza che basta un virus microscopico per mettere in scacco buona parte della struttura produttiva mondiale che genera quella ricchezza senza la quale – pensavamo fosse così – non siamo capaci di fare alcunché.

In questa tempesta, per noi missionari, cresce anche l’ansia per quello che succederà oltre i nostri confini, «in altri paesi finora largamente risparmiati dal Covid-19, soprattutto in Africa – scrive padre Stefano Camerlengo, superiore dei missionari della Consolata – indubbiamente mal attrezzati a gestire una situazione drammatica, impreparati a contrastare il virus».

Oggi è presto per capire che mondo sarà quello dopo il coronavirus, ma non è presto per la speranza. Come cristiani, sappiamo che è la speranza a farci capaci delle più ardite costruzioni, dei più ambiziosi progetti e, con la collaborazione di tutti, della realizzazione dei più nobili sogni. Abbiamo l’opportunità di costruire un’umanità nuova, un po’ più solidale, un po’ più fraterna, un po’ più di tutti.

L’esperienza del Covid-19 ci ha messi di fronte alla realtà di una forma di vita, il virus, che non può vivere senza ricorrere a un sistema biologico più complesso di sé, e abbiamo visto che a volte il virus uccide quella vita dalla quale trae sostentamento. Succede così anche per l’uomo in relazione con il creato. L’uomo oggi può decidere se continuare a essere un virus letale per la Terra, oppure no. Oggi forse siamo più consapevoli che potremo dire «andrà tutto bene» solo se smettiamo di violare e contaminare la nostra «casa comune».

Possiamo sperare che il Covid-19 ci aiuti tutti a uscire anche dai deliri di onnipotenza del pensiero unico e dei populismi che dipingono tutto di bianco e nero, tracciano frontiere indiscutibili pretendendo di distinguere con precisione ciò che è dentro da ciò che è fuori, e che, quando non sono più in grado di gestire la crisi, allora rispondono con una specie di «si salvi chi può», e pace all’anima di coloro che non sono in condizioni di farlo.

Possiamo sperare in un’economia nuova che sappia mettersi al servizio dei bisogni quotidiani dell’uomo. Lo scrittore e giornalista Tiziano Terzani, qualche tempo prima della sua morte diceva: «Siamo sicuri che il progresso debba essere solo crescita? Non sarebbe molto meglio arrivare a una situazione in cui tutti abbiamo poco ma il giusto? Oggi l’economia non è per l’uomo ma è fatta per costringere tanta gente a lavorare a ritmi terribili, per produrre delle cose per lo più superflue, che altri possono comprare solo se lavorano a loro volta a ritmi disumani».

Questo virus che ci ha chiusi in casa, forse alla fine ci avrà aiutati anche a scoprire il valore di alcune cose che non si possono comprare: la vita, l’affetto di parenti e amici, la comunità, gli abbracci, il tempo speso bene.

Gianantonio Sozzi, imc




Usati e calpestati

testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


Scrivere in questi giorni non è facile. La realtà è così complicata che vorrei tanto poter semplicemente tacere. Però un dramma come quello dei profughi siriani non può lasciare indifferenti, anche se siamo confusi dal coronavirus che sta contagiando il mondo. Mi viene inoltre da pensare che ci sia un virus più pericoloso del Covid-19, un virus che attacca cuore, occhi e orecchie, e mina l’umanità che è in noi nel nome della paura, della sicurezza e del potere. Ha contagiato Erdogan, Trump, Putin, i governanti d’Europa, i dirigenti delle multinazionali, i politici nostrani primatisti o opportunisti, i politici africani corrotti, i «giocatori» di borsa e chiunque non vede altro che il proprio interesse. Anche noi, gente comune, siamo a rischio di contagio.

Che migranti o rifugiati o stranieri provengano dalla Siria, dall’America centrale o dalla Libia, non cambia molto: sono tutti carne da macello, numeri da usare in campagna elettorale. Alla spregiudicatezza di Erdogan, alla furbizia di Putin e alla pavidità dell’Europa, fanno da controcanto la boriosa sicurezza di Trump e la cieca ostinazione di Maduro. E così si costruiscono nuovi muri, gabbie e campi per contenerli, si dispiega l’esercito, si penalizza chi soccorre, mentre i trafficanti «lavorano» indisturbati.

Aggiungi a tutto questo la tracotanza di Bolsonaro nell’arraffare l’Amazzonia, la violenza dei fanatici dell’Isis e dei gruppi jihadisti che terrorizzano il Medio Oriente e l’Africa, la mancanza di scrupoli delle multinazionali che per il controllo delle materie prime fanno affari con politici corrotti e gruppi armati di ogni genere in Nigeria, Centrafrica, Mozambico, Sudan e tanti altri paesi, tra cui il Congo Rd (che sta pagando con milioni di morti), sotto lo sguardo impotente delle Nazioni unite e il tacito consenso delle grandi nazioni industrializzate. Aggiungici la corsa agli armamenti che non conosce sosta, il water grabbing e il land grabbing per avere il controllo e il monopolio di risorse essenziali come acqua e cibo, e l’uso spregiudicato dello strumento del debito per mantenere nazioni, pur tra le più ricche di risorse, in condizioni di perenne sudditanza e povertà, e il quadro sarà quasi completo.

Lo so, quando elenco queste cose mi lascio prendere la mano, perché il silenzio dei poveri è assordante, e qui da noi (nel Nord del mondo), soprattutto di questi tempi monopolizzati dalle notizie «virali», di loro non si parla, se non marginalmente.
Il modo in cui i rifugiati siriani sono usati nella battaglia per il controllo del petrolio (e dell’acqua) tra Turchia, Russia, Europa, Usa e paesi tutti del Medio Oriente è vergognoso. Usati e calpestati, senza ritegno, come merce di scambio e ricatto. Come usati e calpestati sono i lavoratori di tante fabbriche in Cina, Bangladesh e altre nazioni dell’Asia, ma anche in Etiopia e altri paesi africani. Usati e calpestati come coloro che scappano dal Centro America e Venezuela, o come i popoli indigeni dell’Amazzonia, dell’India o della Papua Nuova Guinea.

In questi giorni di virus, in un contesto di cambiamenti climatici e guerre (anche economiche) per procura, stiamo vivendo una situazione del tutto nuova. Siamo «costretti» a vivere davvero una «quaresima» che mette a nudo la nostra fragilità. Quando leggerete queste righe, forse (ma proprio forse) il peggio sarà già passato, almeno da noi, e qualcuno riderà, triste consolazione, di altri paesi che ci hanno trattato come degli «untori». Ma «il peggio» sarà davvero passato solo se avremo saputo «leggere i segni dei tempi» e colto l’opportunità di guarire dai mali che ci affliggono dentro, per rialzarci e rinnovare il nostro impegno a vivere in modo responsabile, solidale e fraterno in questo mondo.

Questa «quaresima» forzata può essere un tempo di grazia, nel quale ascoltare dalla nostra «stanza interiore» la Parola del Dio di Gesù Cristo, di un Padre che non minaccia, non ricatta e non punisce, ma invita a diventare davvero noi stessi, più umani secondo la misura del Figlio dell’Uomo, che ha fatto dell’amore, del perdono, del servizio, della mitezza e della gratuità lo stile della sua vita.

È stato bello in questi tempi vedere tanti gesti di amore, servizio e solidarietà da parte di medici, infermieri, volontari e persone ordinarie, giovani e anziane. È il volto luminoso di questa nostra Italia. Un bel segno di speranza per tutti, e di resurrezione. Buona Pasqua.

Lesbo | © Valentina Tamborra

Per un aggiornamento su Lesbo:

AYS Special from Lesvos: COVID-19 and an island bursting at the seams
A special report is written by Joel Hernàndez, who serves as the Head of Advocacy and Development at Refugee Trauma Initiative, an NGO providing psychosocial support to displaced families in Greece.


Ultimo minuto, nota del direttore

Quando ho scritto questo editoriale agli inizi di marzo, ho peccato di ottimismo. La situazione che stiamo vivendo è ancora piena di tante incognite e l’epidemia è diventata una pademia. Ma se ho peccato di ottimismo, non ho certo sbagliato ad avere speranza. E quanto stiamo vivendo, la generosità di tantissime persone e i gesti di incredibile bellezza e gratuità che vengono fatti, confermano tale speranza.

Come missionari e missionarie della Consolata siamo vicini ai nostri famigliari, parenti, amici e benefattori coinvolti in questa pademia. Molti di noi sono nativi delle regioni più colpite. Ciascuno di noi, anche lo scrivente, piange i suoi. Ci sentiamo uniti a tutti e a ciascuno, offrendo soprattutto la nostra preghiera, il nostro partecipato silenzio, le nostre lacrime.
E siamo anche solidali con i nostri confratelli e le nostre consorelle che in Africa, Asia e America latina si trovano ora ad affrontare la pandemia con persone che spesso vivono in condizioni di estrema povertà e disagio sociale.

Che la beata Leonella, infermiera che ha curato per tutta la sua vita, e la beata Irene, che ha scelto di dare la sua vita per gli ammalati di peste, ci siano vicine in questo tempo difficile. Uniti nelal preghiera e nell’affetto.




Innamorati e vivi

testo di Gigi Anataloni, direttore di MC |


È il tema della prossima «giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri» che si celebrerà il 24 marzo nel 40° anniversario del martirio di sant’Oscar Arnulfo Romero.

Scrive Missio Italia sul suo sito: «Secondo i dati raccolti da Fides, nel corso dell’anno 2019 sono stati uccisi nel mondo 29 missionari […]: 18 sacerdoti, 1 diacono permanente, 2 religiosi non sacerdoti, 2 suore, 6 laici. Dopo otto anni consecutivi in cui il numero più elevato di missionari uccisi era stato registrato in America, dal 2018 è l’Africa ad essere al primo posto di questa tragica classifica. In Africa nel 2019 sono stati uccisi 12 sacerdoti, 1 religioso, 1 religiosa, 1 laica (15). In America sono stati uccisi 6 sacerdoti, 1 diacono permanente, 1 religioso, 4 laici (12). In Asia è stata uccisa 1 laica. In Europa è stata uccisa 1 suora. Un’altra nota è data dal fatto che si registra una sorta di globalizzazione della violenza: mentre in passato i missionari uccisi erano per buona parte concentrati in una nazione o in una zona geografica, nel 2019 il fenomeno appare più generalizzato e diffuso. Sono stati bagnati dal sangue dei missionari 10 paesi dell’Africa, 8 dell’America, 1 dell’Asia e 1 dell’Europa» (www.missioitalia.it).

La «globalizzazione della violenza» contro i cristiani, è un fenomeno a cui stiamo assistendo con stupore e preoccupazione. Non siamo abituati e non ci abitueremo mai alla violenza contro chi vive la sua fede, ma che in Cina si mettano in prigione senza processo credenti di diverse religioni e si distruggano chiese, è ben noto da anni. Che in Pakistan ragazze cristiane siano rapite giovanissime e costrette a cambiare religione e a sposare il loro rapitore, è storia triste che quasi lascia indifferenti. Pure ben nota è la violenza contro i cristiani in Iraq, Siria e Indonesia, e poi in Libia, Nigeria, Somalia, Mali, Centrafrica e in tanti altri paesi dove il fondamentalismo islamico ha messo radici con Al Qaeda, Isis, Boko Haram e gruppi simili. Niente di nuovo anche circa la situazione in Nicaragua e altri paesi centro americani, dove regimi tutt’altro che democratici non accettano critiche. Stupisce un po’ di più il fondamentalismo induista che è emerso in questi ultimi anni ed è diventato aggressivo e violento contro le minoranze cristiane, islamiche e di cultura tradizionale. Per molti è una sorpresa ancor più grande la violenza del fondamentalismo buddista che si sta estendendo a macchia d’olio nel Sud Est asiatico.

Ma quello che sorprende oggi è la violenza di casa nostra contro chiese, preti e cristiani. Gli attacchi mafiosi contro gli scout in Sicilia, la devastazione dei centri Caritas o di aiuto ai poveri e migranti, le scritte blasfeme sulle chiese, i post ingiuriosi sui social, l’intolleranza verso le posizioni della comunità cristiana e dei suoi pastori sui temi come la vita, la famiglia, la sessualità, l’accoglienza. Questa violenza verbale, e anche fisica, non viene da fondamentalisti di altre religioni, ma da
individui che si ritengono addirittura dei buoni cristiani.

Tutto questo lascia certamente perplessi, ma è anche un segno positivo della vitalità della nostra Chiesa, anche in Italia, capace ancora di testimoniare, senza lasciarsi intimorire, il vero volto di Dio che è amore senza barriere e confini.


Scienza e religione

«La teologia e la religione entrano in gioco quando la scienza non è in grado di spiegare ciò che accade nel mondo». Trovate questa frase a pag. 55 nel contesto di un bell’articolo su religione e scienza. Come ho scritto al nostro collaboratore, la frase è ambigua perché potrebbe essere la base per questa conclusione: quando la scienza riuscirà a spiegare tutto, non ci sarà più bisogno della religione.

L’autore ha concordato sull’ambiguità dell’espressione che voleva invece sottolineare la complementarità e la differenza tra religione e scienza, ciascuna con un proprio ruolo specifico, diverso ma non contrapposto.

Ritengo che la scienza abbia il compito di capire e spiegare il come funziona questo nostro mondo e di dare gli strumenti per una sua corretta gestione. La religione risponde invece ai perché e alle domande di senso, cioè le ragioni e
lo scopo per cui il mondo e l’uomo esistono.

È vero che nel passato la religione ha preteso di controllare la scienza, ma è anche vero che senza gli uomini di religione noi oggi non avremmo la scienza che conosciamo.

La religione da tempo ha smesso di volersi imporre alla scienza e ne rispetta l’autonomia, ma non sembra che tutti gli uomini di scienza si siano resi conto che la scienza non deve diventare una religione, bensì restare tale senza aver la pretesa di avere la risposta a tutto, compreso il senso, lo scopo e lo stile dell’esistenza dell’uomo e del mondo.

 

 




P come pace

testo di Gigi Anataloni, direttore di MC |


Ci sono 8.113 vocaboli che cominciano con la lettera «p» nel dizionario italiano. È un mondo di parole ricche di possibilità. Alcune sono indispensabili e parlano al cuore. La prima è Pace. Cominciamo ogni anno con la giornata per la pace (**). Una giornata che è preghiera, sospiro, speranza, ringraziamento e anche protesta. Preghiera, perché la vera pace si ottiene solo da Dio. Ringraziamento, perché la pace è un dono. Sospiro e speranza, perché richiede grande impegno, pazienza e perseveranza. Protesta, perché non si può stare zitti e passivi di fronte a chi, invece della pace, fomenta a tutti i costi la guerra. Guerre e conflitti insanguinano oltre 50 nazioni del mondo, soprattutto in Asia e in Africa, ma non solo. Intanto impinguano le casse dei potenti che, non contenti di produrre armi tradizionali, inventano e sfornano ordigni sempre più sofisticati e distruttivi in un’assurda corsa alla morte. Quante volte si può distruggere un pianeta? Di fronte a questa realtà occorre tirare fuori la parresia cristiana, una parola ben presente nel Nuovo Testamento per indicare il coraggio, l’audacia, la franchezza e la libertà di spirito del cristiano nel testimoniare e vivere la sua fede in colui che è la Parola di Vita e la vera pace del mondo.

La Parresia non manca certo a papa Francesco (***), il quale, tornando dal Giappone dopo la visita a Hiroshima e Nagasaki, ha detto parole chiare. «L’uso delle armi nucleari è immorale, […] e non solo l’uso, anche il possesso, perché un incidente o la pazzia di qualche governante, la pazzia di uno può distruggere l’umanità». Non so se avesse in mente qualcuno in particolare, ma a prescindere dal possesso o meno della bomba atomica, contiamo purtroppo un buon numero di governanti o capi popolo convinti che si ottiene di più con il potere autoritario e intimidatorio, con la guerra e il terrore che con il rispetto delle persone, l’impegno a eradicare povertà e ignoranza, a difendere i deboli, a custodire l’ambiente e a promuovere dialogo e giustizia. Altro che politica come servizio al bene comune e alle persone.

Persona, ecco un’altra parola importante che inizia con la «p». Avere la persona al centro e non il denaro, il potere, il prestigio. Persona e pace vanno insieme. Dove le persone sono calpestate, sfruttate, trafficate, discriminate, umiliate e mantenute nell’ignoranza, non ci può essere pace. Quando ci sono alcuni che si ritengono i «primi» sopra gli altri, non ci può essere giustizia. Quando si distruggono i ponti, si chiudono i porti e sbarrano le porte, non ci può essere pace. Ponti, porti e porte – realtà che implicano sempre due direzioni, una di entrata e una di uscita – sono comunicazione, apertura, incontro, accoglienza, tutti elementi indispensabili per costruire la pace.

Certo l’avventura della pace non è facile richiede poi un ultimo elemento essenziale: il Perdono, un’ultima parola iniziante con la «p» che non può essere dimenticata. Lasciarci perdonare e donare perdono è impegnativo perché cambia il nostro modo di relazionarci con noi stessi e con gli altri. Ci rende più umani o, forse, più divini, perché perdonare è amare e amare è «agire da Dio», essere «perfetti» come Lui, il Padre di tutti, perfetto e misericordioso.
Auguri e benedizioni per un 2020 di pace.

** Messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale della pace 2020

*** Vedi anche le «3P» di papa Francesco

P.S. Vedi l’editoriale (quasi simile) del novembre 2016 «Le tre P: pace, perdono, pazienza»


Haiti, 10 anni dal sisma

Il 12 gennaio 2010, alle 16,53, una potente scossa di terremoto devastò Port-au-Prince, la capitale di Haiti, e le città vicine. Le vittime non sono mai state contate, ma l’ordine di grandezza è 300mila. Fu una tragedia immane. Un punto di non ritorno per uno dei paesi più poveri del mondo.

Sembrava fosse arrivato il momento di rottura per far cambiare la sorte del paese, una specie di azzeramento, per ripartire su basi diverse.

Non fu così. Qualcuno, i soliti noti, ci mise lo zampino, bloccando ogni iniziativa di rinascita promossa dalla società civile.

Questo mese ricorrono i 10 anni da quell’evento. Ironia della sorte, oggi il paese sta attraversando la crisi socio-politica ed economica più grave degli ultimi tre lustri.

All’epoca MC pubblicò l’editoriale dal titolo «Alzati e cammina!», il cui incipit era: «Non esiste un altro posto così al mondo». Nel 2020 non ci siamo dimenticati di Haiti.

Torneremo presto a parlarvi di quel popolo straordinario, di chi ne ha impedito lo sviluppo, e della crisi attuale.

Intanto, il nostro ricordo va alle vittime, e ai loro cari.

Marco Bello




Missionari della Vita

Testo di Gigi Anataloni, direttore MC


Il 4 novembre scorso, a mezzogiorno, la Chiesa di Colombia è stata chiamata a «vivere per la vita e la pace», una manifestazione corale di tre minuti per dire «no» a ogni violenza, in particolare quella contro i popoli indigeni. «La vita è ferita – ha detto con forza l’arcivescovo di Popayan, Luis José Ruenda -. La vita ha bisogno di noi. La vita ferita ha bisogno di tutti. In questi giorni abbiamo ascoltato con dolore la notizia che arriva a tutta la Colombia e al mondo intero dal Cauca. La vita è ferita: ci sono stati due massacri, ci sono state molte morti. Molti indigeni, molti operatori sociali, molti contadini, molti giovani hanno perso la vita negli ultimi tempi».

Ha poi continuato: «La vita è ferita e la vita ferita ha bisogno di tutti noi, missionari, iniziando dalla difesa della vita nel ventre materno: non possiamo accettare l’aborto come un diritto. La donna ha diritto ad essere missionaria della vita. L’anziano ha diritto di terminare degnamente la sua vita. Noi dobbiamo essere missionari della vita nella società e nel privato, nel ventre materno e nel campo di battaglia, in tutti i luoghi dobbiamo essere difensori della vita, […] per la vita, per la vita nel ventre materno e per la vita minacciata dalle forze oscure che cercano di distruggere la nostra società». Per questo alle 12.00 del 4 novembre in tutta la Colombia si sono fermati per tre minuti: per suonare le campane, per pregare in ogni casa e per applaudire per un minuto alla vita «perché, applaudendo un minuto, sappiamo che la vita ha bisogno di noi e che la vita è nelle nostre mani».

Le parole dell’arcivescovo sono un fortissimo stimolo alla Chiesa colombiana, ma hanno anche un valore universale perché sono una chiamata a difendere e promuovere la vita in tutte le sue fasi: dal grembo materno alla vecchiaia; in tutte le sue dimensioni sia che riguardino l’uomo che l’ambiente; e in ogni luogo: dal conforto della casa alle lotte per una società più giusta, pacifica, inclusiva e sicura per ognuno, di qualsiasi popolo, nazione, cultura e religione egli sia.

La vita è ferita. È un grido che ci riguarda tutti. Un grido che in questo tempo prima di Natale assume una valenza anche più profonda. La memoria della nascita di Gesù non può essere lasciata alle «luci d’artista» che abbelliscono le nostre strade, né alle promozioni pubblicitarie che riducono un evento chiave della nostra fede a una grande abbuffata consumista. Non possiamo neanche accontentarci dei presepi nelle scuole o sulle piazze, e neppure di quelli ovvii (e dovuti) nelle chiese. Ma far memoria della nascita di Cristo richiede un rinnovato impegno per promuovere la vita in tutte le sue dimensioni, contro tutti i nuovi Erodi.

Il vescovo della Colombia ci ha ricordato che siamo «missionari della vita»: la Vita, quella con la «V» maiuscola, che è Gesù, e missionari di tutto quello che è vita ed è essenziale per la vita. Essere «missionari» vuol dire essere «attori» non «spettatori», vuol dire prendere posizione, assumersi responsabilità e agire; non restare indifferenti di fronte ai continui attentati alla vita, passati a volte come conquiste di civiltà (vedi aborto, eutanasia, fecondazione assistita); promuovere, difendere e sostenere la famiglia; approfondire le questioni senza accontentarsi dei social e diffondere fake news; diventare coscienti dei problemi, dei bisogni e delle potenzialità del proprio territorio e agire per migliorarne la qualità di vita e servizi; interessarsi del proprio condomino, conoscere i propri vicini, avere un’attenzione speciale per gli anziani e per eventuali famiglie povere e in difficoltà; rifiutare il degrado che prospera nell’indifferenza; cambiare attitudine (non padrone, ma servo – direbbe Gesù) nei confronti degli altri, che non sono dei nemici, ma uomini come me e fratelli e sorelle, anche se vengono da altri paesi e hanno la pelle superficialmente diversa dalla mia.

Gesù ci ha dato una regola aurea: «Ama il prossimo come te stesso» (cfr. Mt 22,39) che è anche «fai agli altri quello che vorresti sia fatto a te» (cfr. Mt 7,12). Gli spazi di azione sono senza fine e ognuno può trovare il suo, basta vincere la logica del «divano», non accontentarsi di manifestare e smetterla di dare la colpa agli altri. Anche se poco, anche se arriva
solo al marciapiede davanti a casa, faccio tutto quello che mi è possibile per creare un ambiente più bello, più accogliente, più fraterno, più giusto, dove si respiri pace, dove nessuno si senta escluso,
dove la vita – in tutte le sue dimensioni – sia davvero difesa, accolta, promossa e coccolata.

C’entra con il Natale? Vedete voi. È bello fare il presepio, partecipare alla messa di mezzanotte, ritrovarsi tutti in famiglia per un bel pranzo insieme, ma l’accogliere il «Signore della vita e che è Vita» deve trasformare il nostro modo di vivere quotidiano. Buon Natale.




Dubbi

Testo di Gigi Anataloni |


Nel mese di ottobre c’è stato il Sinodo sull’Amazzonia, un avvenimento atteso tra grandi speranze e pesanti critiche sia dentro la Chiesa che nel mondo politico ed economico.
Il Sinodo è stato celebrato in un periodo nel quale i segnali d’allarme lanciati dalla natura sono davanti agli occhi di tutti e stanno provocando una vasta mobilitazione, bellissima, benché non priva di dogmatismi, equivoci e manipolazioni. Nessuno è autorizzato a restare neutrale o a fare lo spettatore, è necessario però dar voce ai dubbi e fare emergere interrogativi.

Il primo riguarda la prospettiva dalla quale guardiamo il problema. Quando sento Greta all’Onu gridare tra le lacrime «avete rubato i miei sogni, la mia infanzia con le vostre vuote parole», penso che è coraggiosa nel suo appello ai grandi – ci voleva -, ma allo stesso tempo rimango perplesso di fronte al suo «my». Lo trovo poco inclusivo, anche se credo che Greta sia ben cosciente di non parlare solo per sé, ma anche per i suoi coetanei nel mondo. Mi sarebbe piaciuto che quel «my» fosse stato piuttosto un «our». Un «nostri», detto per dare voce ai milioni di ragazzi e ragazze dell’età di Greta che non possono andare a New York, che fanno fatica a fare un pasto al giorno, lavorano nei cunicoli del coltan, frugano nei rifiuti nelle discariche delle grandi città, vedono scuola e vacanze e cure mediche come chimere, sono trafficati e sfruttati in condizioni impossibili con paghe irrisorie, sono costretti a imbracciare armi o annegano nel «nostro» mare. Un mondo di invisibili che quando fanno notizia disturbano la nostra pace.

Sarebbe bello se fossimo capaci di guardare oltre le nostre mura e smettessimo di ritenerci il centro del mondo. Se soffriamo noi per i disastri ambientali, tanto più sono danneggiati coloro che vivono al di fuori del nostro centro di benessere, dal quale guardiamo con i nostri satelliti i fumi dei fuochi dell’Amazzonia (ma non solo) senza vedere chi dai quei fuochi fugge o viene bruciato.

Non ho dubbi invece su quanto sono ripugnanti certe analisi o racconti che enfatizzano i cellulari dei migranti o i televisori satellitari nelle baraccopoli e in certi villaggi indigeni, come se fossero il segno qualificante di una vita bella, pacifica e ricca e non invece gli indicatori della disintegrazione di società e gruppi umani a cui è stato impedito di vivere la propria cultura e tradizioni, a cui è stata tolta la libertà. È indegno presentare come segno di benessere quello in realtà che è indice di alienazione e disgregazione sociale.

Tornando ai dubbi, ne ho molti anche sulle soluzioni proposte per salvare il pianeta. Si parla di energia pulita e si costruiscono enormi wind farm, come quella che occupa 162 km2 nei pressi del Lago Turkana in Kenya, o le grandi dighe per produrre energia pulita sul rio delle Amazzoni o sul fiume Omo in Etiopia, senza tenere conto delle popolazioni che lì vivevano da millenni, costrette a lasciare le loro terre. Pulita per chi allora? Si parla di case a impatto zero, per le quali il legno gioca una parte fondamentale. Ma gran parte di quel legname viene dal disboscamento abusivo di foreste equatoriali. Si vogliono le automobili elettriche, e tutte le industrie del settore si lanciano a produrle. Ma qual è il costo ambientale e umano del coltan e di altri minerali usati per le nuove batterie? Si promuove lo stile di vita vegetariano e vegano. Ci si domanda chi paga il prezzo dell’espansione di monocolture (per lo più in paesi del Sud del mondo) per la produzione dei prodotti di base per quelle diete? Si attaccano gli allevatori intensivi di bovini o maiali, ma quanto si fa per ridurre davvero il consumo di carne sulle nostre tavole? Siamo disposti a pagare di più per avere carne da allevamenti che trattino meglio gli animali?

E i biocarburanti? Sicuri che la loro produzione che esige grandi monocolture sia davvero amica dell’ambiente? Non parliamo poi del nostro rapporto con le automobili. Se la produzione diminuisce e calano le vendite si parla subito di crisi nazionale. Ma anche, dall’altra parte, vedi la promozione dell’uso della bici. «Bici è bello», vero. Ma certe politiche di fare piste ciclabili a tutti i costi, anche a quello di causare lunghissime code su strade dove prima il traffico passava sciolto, sono scelte che davvero rispettano l’ambiente? O forzature ideologiche?

Credo che il rispetto dell’ambiente e delle persone, la pratica di politiche ambientali che tengano conto di tutto l’uomo e di ogni uomo, soprattutto di chi è socialmente più debole e marginale, e la condivisione paritaria dei benefici tra ricchi e poveri, siano condizioni indispensabili per curare questo giardino che Dio ci ha affidato per il bene di chi lo abita, l’uomo e tutte le creature.




Battezzati e inviati

testo di Gigi Anataloni, direttore MC


Questo è il titolo del messaggio del papa per l’ottobre missionario di quest’anno (testo a p. 74). È un ottobre missionario speciale, non solo perché coincide con la celebrazione del Sinodo sull’Amazzonia che è atteso tra tante speranze e polemiche, ma anche perché in questa occasione «ho chiesto a tutta la Chiesa di vivere un tempo straordinario di missionarietà», scrive papa Francesco, per «rinnovare l’impegno missionario della Chiesa, riqualificare in senso evangelico la sua missione di annunciare e di portare al mondo la salvezza di Gesù Cristo, morto e risorto».

Provo a riflettere su queste due parole, battezzati e inviati, così ricche di significato.

Alcuni giovani, tra i molti che quest’estate sono stati in Africa nelle nostre missioni, sono rimasti scioccati dal sentirsi chiamare «missionari» dalla gente. Sentito una volta, potevano considerarlo uno sbaglio – in realtà nessuno di loro aveva mai pensato di dedicare tutta la vita alla Missione -, ma tante volte li ha fatti riflettere e non solo sul significato del loro essere in quell’angolo d’Africa, anche se solo per un mese, ma sul loro stesso modo di essere cristiani.

«Missionari» li ha definiti la gente, riconoscendo che non erano dei semplici turisti. Una verità profonda circa l’identità di ogni battezzato che, proprio perché tale, è immedesimato a Gesù e diventa partecipe della sua stessa missione di costruire un mondo secondo il progetto di giustizia di Dio.

Battezzati. Siamo talmente abituati a battesimi celebrati con poche gocce d’acqua versate sulla testa di un infante che stentiamo a ricordarci e assimilare il significato più profondo dell’essere «battezzati». Gesù «era angosciato» al pensiero del «battesimo nel quale sarò battezzato» (Lc 12,50), in continuità, ma più radicale di quello ricevuto quando Giovanni Battista l’aveva immerso nelle acque del Giordano, in un’esperienza di morte e rinascita solo simbolica. Il vero battesimo di Gesù è quello della morte in croce e sepoltura nel ventre della terra per resuscitare il terzo giorno. Essere battezzati, allora, non è semplicemente una formalità, è una scelta di vita. È scegliere tra il vivere secondo un modello di umanità centrato su avere, potere, successo, conformismo, interesse personale, e un altro stile di vita basato sulla legge dell’amore, dove l’io diventa noi e la mia felicità è far felice l’altro. È scegliere tra una vita secondo lo stile del padrone/boss e quella del servo/amministratore. È prendere posizione per contestare tutto quello che disumanizza: violenza, razzismo, volgarità, avidità, cupidigia, idolatria (cfr. Col 3,5-15) facendo scelte di pace, giustizia, sobrietà, accoglienza, solidarietà, rispetto, bellezza secondo lo stile per cui Gesù ha pagato con la sua stessa vita.

Inviati. Una parola tardo latina che vuol dire «essere mandati», essere sulla via, in movimento, in uscita. È sinonimo di apostolo e missionario. Solo che definirci apostoli ci spaventa, perché nessuno si sente all’altezza di Pietro e dei suoi compagni. Anche sentirci chiamare missionari ci mette a disagio, perché sembra una scelta troppo radicale che prende tutta la vita. È bello, invece, lasciarci provocare da questa parola che dà un senso profondo al nostro vivere quotidiano da discepoli di Gesù. Non siamo mandati come conquistatori ma come servi e come angeli (messaggeri), e «agnelli in mezzo ai lupi» (Lc 10,3), per essere «sale e luce» (Mt 5,13-14) e costruire un mondo nuovo di pace e amore secondo i criteri di giustizia (= la visione, il progetto, il sogno) di Dio stesso.

Siamo missionari con Gesù primo missionario, e con lui crediamo possibile dare forma a un mondo che sia quel giardino (paradiso) nel quale vivere la libertà e l’amore con se stessi e con gli altri (Gen 2,25) e da «puro di cuore» (Mt 5,8) passeggeremo con Dio (Gen 3,8) godendo la bellezza unica (Gen 1,31) del creato.

Il cammino in uscita è tutt’altro che una passeggiata, lo provano le centinaia di migliaia di cristiani martiri (lett. testimoni) del Vangelo anche oggi, battezzati nello stesso battesimo di Gesù, testimoni che pagano con la vita il loro credere in un mondo a misura di figli e figlie di Dio.




Faccia dura come pietra

Una moto rombante mi sveglia di soprassalto. Sono le 3 di notte. Nel silenzio per diversi minuti seguo le accelerate assordanti del superbiker che si dirige verso il cuore della città. Il sonno se n’è andato e mi domando che gusto ci sia a svegliare la gente così. Una bravata? Una scommessa con amici? Una dimostrazione di «onnipotenza» da postare sui social? Il grido di libertà di un paladino che non si lascia imbrigliare dalle regole di un perbenismo noioso?

Quale sia la risposta non lo so, la fantasia però mi spinge a immaginare il superbiker come uno che si ritiene il coraggioso contestatore di una società addormentata. Questo mi richiama altre immagini di eroi che spopolano nelle cronache quotidiane e sui social: ragazzi che si filmano mentre si prendono a botte in piazza, torturano un povero vecchio, terrorizzano un loro coetaneo, imbrattano muri, treni e monumenti, violentano compagne di classe, minacciano i loro insegnanti, saltano sui tetti, si fanno selfie in bilico sul vuoto, sfidano i divieti, pestano i migranti, rubano in un supermercato, bullizzano un senzatetto. Una lunga lista di oscenità, viste da alcuni come prove di «coraggio» e vissute come antidoto alla noia e al vuoto interiore.

Questi pensieri, poi, ne suggeriscono altri, ancora più cupi, che riguardano altri coraggiosi eroi, sprezzanti delle ipocrisie del politicamente corretto: quelli che dalle tribune politiche, o dai social, urlano di porti chiusi, «legittima» difesa, più armamenti, invasori da cacciare, difesa dei confini, prima gli italiani, Ong trafficanti di uomini, navi da demolire. Il tutto sulla testa del parlamento e della gente attraverso decreti d’urgenza sempre più aspri fatti circolare sui social (a beneficio dei «60 milioni» di fans) prima che nei documenti ufficiali del governo.

Ma queste cose non si devono pensare, né tanto meno scrivere su una rivista missionaria. «Vi siete svenduti alla sinistra? Cattocomunisti! Da quando in qua fate politica? Non sono affari che riguardano la missione. Guardate piuttosto alle vostre malefatte come Chiesa, all’Inquisizione, alle crociate, ai soldi del Vaticano. E i preti pedofili, e il papa eretico?» (per citare solo alcuni dei commenti più moderati che si trovano sui social).

Infine si intromette il Vangelo di Luca che ci sta accompagnando in questo anno 2019. Luca presenta Gesù che, dopo l’assassinio di Giovanni Battista, rende la sua faccia dura come pietra e comincia a marciare davanti ai suoi discepoli verso Gerusalemme dove sa che sarà «innalzato». I suoi sono convinti che «innalzato» significhi «portato in alto» (sulle spalle di schiavi) alla maniera dei grandi del tempo e secondo le aspettative popolari: per esprimere potere, autorità, prestigio, regalità, distruzione dei nemici. Lui invece è ben cosciente che il suo essere innalzato significherà andare sulla croce, come uno schiavo, un oggetto, e non come un uomo. Ancor meno come un re. Questo non lo ferma, anche se ne ha paura (vedi al Getsemani). Anzi, va avanti con più determinazione.

A quelli che desiderano seguirlo e che riescono a tenere il suo passo, non promette soldi, poltrone, privilegi, successo, popolarità, ma un «Dio vicino» in una vita sobria, essenziale, dura ed esigente, in una vita da nomade. Gesù educa i suoi a essere persone contente del «pane quotidiano», senza il peso e i legacci delle preoccupazioni, senza l’ansia per cose pur essenziali come la casa, il cibo, i vestiti. Vuole «angeli» (nel significato originale di messaggeri) la cui prima parola sia «pace a voi»: non l’annuncio di regole, riti, imposizioni, formalità, divieti, ma di gioia, festa, fraternità, bellezza, condivisione, comunione, amore reciproco, rispetto, accoglienza, perdono. Gesù cerca persone che lo seguano con coraggio e testimonino che Dio è amore e Padre di tutti, e ha un occhio di riguardo proprio per chi è disprezzato o ignorato da coloro che si ritengono «i buoni e giusti».

«Gli ultimi sono i primi»: non sono solo parole, ma una scelta di vita. Anche a costo di scandalizzare i «giusti», che per difendere il bene del popolo lo appendono alla croce.

Avere coraggio oggi non è fare le cose che raccolgono consensi, rendono popolari nel branco, fanno avere più voti, ma scegliere di stare dalla parte dell’uomo, «tutto» l’uomo, ogni uomo, perché uomo.


#ChiAmaVa è il claim scelto dall’equipe di comunicazione social della Fondazione Missio per il prossimo ottobre missionario. L’obiettivo della Campagna è di valorizzare il dinamismo della missione: chi ama si mette in movimento, è predisposto all’incontro e, come cristiano, trasmette la bellezza del Vangelo.



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Chi è il nemico?

Testo di Gigi Anataloni, direttore MC


Oggigiorno è facile imbattersi in qualcuno convinto che «l’Islam vuole distruggere il Cristianesimo e quindi bisogna tenere lontani i migranti che ne sono la testa di ponte». Espressioni come questa, scritte in modo meno educato, ricorrono con frequenza impressionante nei commenti sui social o nelle interviste Tv. Apparentemente sembrano dichiarare una seria preoccupazione per il futuro della nostra religione, in realtà rivelano un atteggiamento in aperto contrasto con la nostra fede.

Non voglio sottovalutare il pericolo e l’aggressività di un Islam radicale e fondamentalista, come quello promosso e finanziato da diversi paesi del Golfo, i quali continuano a essere sostenuti dall’attuale governo americano che pure ha tra i suoi sponsor le ali più integraliste e tradizionaliste del cristianesimo cattolico ed evangelico. Questo tipo di Islam, di cui l’Isis, Al Qaeda e altre organizzazioni fondamentaliste sono espressione, sta portando terrore e lutti in molte parti del globo, e non sono solo i cristiani a soffrirne, ma anche i musulmani stessi, oltre ai fedeli di altre religioni.

Sono anche ben cosciente che l’Islam si ritiene l’unica religione vera, ma condivide questa certezza con Ebraismo e Cristianesimo, che – pur in modi diversi – considerano Abramo come loro padre nella fede. Questa convinzione è stata abbondantemente usata nella storia come una liberatoria anche dai cristiani per giustificare guerre di religione e conquiste.

Tornando alla nostra Italia: secondo le statistiche dell’Istat, elaborate dall’Ismu, nel 2018 quasi il 58% degli oltre 5 milioni di immigrati in Italia sono cristiani e poco più del 28% sono musulmani.

Ovviamente non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte al pericolo costituito dal fondamentalismo o dal terrorismo islamico (o di altre religioni e sette). Però dire che l’Islam vuole distruggerci come cristiani – e che quindi occorre difenderci con tutti i mezzi dai suoi fedeli invasori – rischia di essere non solo una fake news ma soprattutto un alibi alla crisi di fede in Europa e una scelta, quella dell’odio del nemico, che Gesù ha decisamente condannato sia col suo esempio personale che con le sue parole.

In realtà i primi nemici del Cristianesimo siamo proprio noi cristiani. Guardiamoci con oggettività. Analizziamo le nostre scelte quotidiane di vita, le priorità che abbiamo, l’uso del nostro tempo, l’immagine ideale che abbiamo di noi stessi, i sogni che trasmettiamo ai nostri figli. Forse, pur chiamandoci cristiani, in realtà siamo diventati degli idolatri e seguiamo molti dei. Al primo posto c’è il dio denaro e poi i suoi molti accoliti come il benessere, il successo, l’affermazione personale, il prestigio, il potere, il desiderio di eterna giovinezza, l’avere tutto senza fatica. Così la domenica non è più il giorno del Signore ma il weekend, al centro dei nostri interessi non c’è più la persona ma il profitto, la comunità è resa vana da indifferenza e individualismo, il lavoro diventa sfruttamento, il divertimento sostituisce allegria e felicità, il bullismo corrompe le relazioni di amicizia… In casa non si prega più insieme, ma neanche si mangia insieme e ci si parla poco: dominano la Tv sempre accesa, il computer e il cellulare. Chi ti considera se dici che vai a messa, che preghi, che fai servizio nella comunità, aiuti i poveri, hai cura dell’ambiente? Un’ora di messa la domenica è lunga e pizzosa, ma fare la coda per ore in autostrada per andare al mare e ai monti o davanti a un certo negozio per avere l’ultimo gadget tecnologico non fa problema. Fare allenamenti estenuanti per imparare uno sport o altre attività è un impegno necessario se si vuole essere qualcuno, stare bene o essere accettati, andare al catechismo con fedeltà e partecipazione per diventare una persona migliore è un peso. Poveretto poi uno che pensasse di diventare sacerdote o suora o missionario: deve rinunciare a tutto.

È fin troppo facile fare la lista degli atteggiamenti idolatrici che mettono in evidenza come siamo proprio noi i primi nemici della nostra stessa fede. Piangerci addosso non serve, neppure alimentare le paure. La strada è quella della conversione per dare una bella scossa alla nostra fede, per amare davvero il Dio Misericordioso e gli altri (tutti gli altri) e per porre la nostra speranza in ciò che
ci costruisce come uomini a immagine di Gesù.




Tutta colpa di…


testo di Gigi Anataloni, direttore di MC


Ne aveva fatte di tutti i colori quel giorno a scuola, tanto da farsi punire. Non semplicemente una sospensione, ma un buon numero di vergate di fronte a tutti dopo l’appello mattutino. Era poi venuto finalmente a parlarmi. «Che ti è preso?», gli ho chiesto. «Non lo so, ma non sono stato io. È stato il diavolo che me lo ha fatto fare».

È una storia di molti anni fa ormai, quasi una vita fa, quando ero nomade sulle piste del Nord del Kenya. Senza entrare nel merito della punizione corporale allora in uso in tutte le scuole, quello che mi interessa sottolineare ora è la scusa usata dal ragazzo per giustificare il suo comportamento: «Non sono stato io, ma il diavolo me lo ha fatto fare». Quando c’è di mezzo il diavolo, un poveraccio che può fare? Non è più lui il responsabile delle sue azioni.

I «poveri diavoli» di allora mi tornano in mente guardando a quanto succede oggi nel nostro bel paese. La caccia al colpevole sembra diventata uno sport nazionale. Le cose vanno male. Naturalmente «è colpa di…». Non mia, non nostra, ma colpa «loro», degli altri. In fondo, il diavoletto invocato allora dai «miei» ragazzi era una scusa su cui fare una bella risata, ma oggi non me la sento più di riderci sopra. Se qualcosa va storto non si cercano le cause, ma i colpevoli, i capri espiatori. E i colpevoli per antonomasia oggi sono i migranti (soprattutto se di pelle nera) e i rom che rubano il lavoro, le case, gli aiuti pubblici, la pace, la sicurezza, il buon nome.

Un paio di millenni fa, quando l’Italia era il «centro del mondo», non esisteva il problema dei migranti, ma si andava tranquillamente a conquistare altri paesi con guerra e razzie e si tornava a casa trionfanti con migliaia di schiavi esibiti come trofei e usati poi per coltivare i campi dei vincitori. E se per caso quei lavoratori stranieri avevano l’impertinenza di ribellarsi, ecco una bella crocifissione di massa come quella dopo la sconfitta di Spartaco: seimila crocifissi sulla via Appia tra Roma e Capua (uno ogni 30 metri circa), bel monito a chiunque osasse pensare che tutti gli uomini sono uguali.

Naturalmente i nostri antenati Romani non erano gli unici a pensarla così. Basta ricordare che il traffico di milioni di «migranti» dalle coste dell’Africa dell’Est verso la penisola arabica e il Golfo persico, iniziato da tempi immemorabili, non è mai finito (se si considera la libertà di cui godono le persone nella penisola). Per non essere da meno, noi europei (e cristiani) dell’età moderna, una volta «scoperta l’America» e capite le sue potenzialità economiche, ci siamo ben organizzati e abbiamo rifornito della necessaria manodopera, non proprio libera né volontaria, le nostre nuove colonie spogliando le coste dell’Africa dell’Ovest.

Ovvio, gli europei di oggi non hanno responsabilità delle cose fatte dai loro predecessori. Noi non siamo schiavisti come loro. Infatti, lo schiavismo di oggi non è colpa nostra, ma legge di mercato – per sopravvivere alla concorrenza -. Se oggi si trasferiscono le fabbriche in paesi dove i lavoratori costano meno e non hanno protezioni sindacali, e si riempiono i nostri campi di braccia fantasma controllate dai caporali, noi ci possiamo fare ben poco e, anzi, spesso diventiamo vittime a nostra volta. Se poi ci sono dei problemi, il sistema di sfruttamento ha una capacità di adattamento incredibile: giocando sull’indifferenza, sul bisogno, sulla lentezza delle istituzioni, sulla paura e sul potere della corruzione, si chiudono le tendopoli dei disgraziati, si fanno trasferimenti in massa, oppure si sistema il tutto con un bell’incendio. Non si risolve così anche il problema dei rifiuti?

Ritengo che ci sia bisogno che ciascuno prenda le sue responsabilità tenendo presenti alcuni punti che mi sembra dovrebbero essere ormai diventati chiari per tutti:

  • su questa terra o ci salviamo tutti insieme o nessuno si salva (il riscaldamento globale ne è un esempio: non si risolve costruendo isole per privilegiati, come non ci si salva dalla guerra atomica con i rifugi ma solo eliminando le atomiche e la guerra);
  • non ci sono persone di serie A e altre di serie B: ogni uomo ha la stessa dignità, gli stessi diritti, gli stessi doveri;
  • educazione, lavoro, casa, salute, pace e il poter stare a casa propria o il muoversi liberamente non sono privilegi di pochi, ma diritti di tutti; se uno non può avere tutto questo, o addirittura gli è impedito, è facile che cerchi strade alternative e violente per ottenerlo;
  • solo se si mette al centro la persona, ogni persona – non l’economia, il profitto e il potere -, si costruisce veramente un mondo «umano» dove ciascuno può vivere bene da «cittadino»;
  • scaricare le colpe delle proprie difficoltà e sofferenze su capri espiatori non risolve i problemi; aumentare la sofferenza degli altri non aumenta la nostra felicità;
  • la pace e l’armonia si costruiscono erigendo ponti, aprendo porte e creando relazioni paritarie, non innalzando muri e chiudendo porti.