Filippine. Il ritorno di Marcos


Le elezioni dello scorso maggio hanno visto il trionfo del figlio del dittatore Ferdinand Marcos, cacciato a furor di popolo nel 1986. Accanto a lui, la vicepresidente è la figlia del presidente uscente, il «duro» Duterte. Cosa farà la strana coppia del paese strategico per il Mar Cinese meridionale?

Bongbong ha iniziato a diventare presidente delle Filippine il 9 novembre 2016. Quel giorno, mentre il mondo seguiva la vittoria di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca, la Corte suprema di Manila dava il via libera alla sepoltura, nel cimitero degli eroi, del dittatore che aveva governato con pugno di ferro le Filippine tra il 1965 e il 1986. Nove giorni dopo, la bara di Ferdinand Marcos, morto nel 1989 in esilio a Honolulu, è arrivata in elicottero a Manila dalla sua città natale di Ilocos Norte. Ed è stata posta con gli onori militari nel luogo più sacro per i patrioti filippini. Il 9 maggio 2022, esattamente cinque anni e mezzo dopo, Ferdinand Marcos Junior ha vinto le elezioni presidenziali delle Filippine.

Chi lo avrebbe mai detto, a fine febbraio 1986, che il figlio del dittatore cacciato dal paese sarebbe un giorno diventato anch’egli presidente? Il 25 febbraio di 36 anni fa la famiglia Marcos abbandonò il palazzo del Malacañan, dove viveva nello sfarzo più assoluto. Mamma Imelda conservava una collezione di tremila paia di scarpe. Proprio lei è considerata da molti la mente dietro la scalata politica del figlio.

Dopo la fuga a bordo di aerei americani, che Marcos Jr. avrebbe definito un «rapimento» nel 2011, la folla di manifestanti (che paralizzava Manila da settimane per protestare contro l’esito considerato fraudolento delle elezioni) prese d’assalto il palazzo presidenziale saccheggiando gli uffici del dittatore e bruciando i quadri con la sua effigie.

Marcos aveva governato imponendo una dura legge marziale che gli aveva consentito non solo di eliminare tutti gli oppositori politici, ma anche di confiscare un numero enorme di aziende e istituzioni. Secondo le accuse, la coppia si sarebbe appropriata in modo indebito di una cifra tra i 5 e i 10 miliardi di dollari di denaro pubblico.

Centinaia di oppositori denunciarono episodi di repressione, torture e uccisioni comprese. Con il giallo mai risolto dell’omicidio di Benigno Aquino (politico e marito di Corazon Aquino, poi eletta presidente, rientrava dall’esilio negli Usa, ndr) all’aeroporto di Manila.

Philippine President-elect Ferdinand Marcos Jr.(C) is proclaimed by Senate President Vicente Sotto (L) and House Speaker Lord Allan Velasco as duly-elected president at the House of Representatives in Quezon City, suburban Manila on May 25, 2022. (Photo by Ted ALJIBE / AFP)

A pieni voti

Eppure, Marcos Jr. non ha vinto con un golpe, ma con un netto successo alle urne. Un impressionante 83% dei 67,4 milioni di elettori, ovvero circa la metà dei 112,5 milioni di abitanti delle Filippine, che è andato a votare. Il 56,79% degli elettori ha scelto Bongbong, ribattezzato così dal padre quando era piccolo per l’abitudine di salirgli sulle spalle (in tagalog, lingua più diffusa, il termine identifica un contenitore di bambù che si porta sulla schiena). È stata anche la prima volta, dopo il rovesciamento del dittatore, che un candidato ha ottenuto una così chiara maggioranza.

Bongbong ha vinto senza prendere le distanze dai genitori. Anzi, da quando ha intrapreso la carriera politica, dopo il ritorno in patria ha lavorato per riabilitarne la memoria. Con il tempo e, più recentemente, con l’aiuto di un’abile propaganda social, si è affermata l’idea che la dittatura di Marcos fosse stata un’epoca d’oro in cui le Filippine godevano di stabilità, alta crescita e massicci investimenti in infrastrutture. Una versione revisionista della storia che, piano piano, ha preso sempre più corpo, soprattutto di fronte a un presente fatto di delusioni, divisioni e conflitti. La disillusione nei confronti dell’establishment politico e dei governi democratici degli ultimi tre decenni è stata alimentata da scandali, processi e impeachment. Trent’anni nei quali la fiducia nella democrazia liberale sembra essersi già esaurita, tanto che alcuni analisti che parlano di un «gusto per il governo illiberale», fomentato dall’amministrazione di Rodrigo Duterte (cfr. MC marzo 2019). Da qui la diffusione di un sentimento di nostalgia per l’era Marcos, in particolare tra gli elettori più giovani che non ne hanno ricordi dei soprusi del dittatore, e che hanno mitizzato quel periodo a causa del mix tra contenuti propagandistici sui social e rabbia verso la tradizionale classe politica filippina. Non un fattore di poco conto, in un paese dove l’età media è di 26 anni. A protestare rimangono gli attivisti, che vedono a rischio il futuro di quella che viene considerata come la più antica democrazia del Sud Est asiatico.

Con la figlia di Duterte

La violenta campagna anti droga di Duterte, accusato di aver ordinato o comunque consentito centinaia di omicidi extragiudiziali, ha scosso il paese a livello sociale. L’economia, già zoppicante, ha subito un duro colpo a causa della pandemia di Covid-19. Duterte ha detto più volte di essere un «ammiratore» di Marcos padre. Non del figlio che, anzi, ha definito «bambino viziato» durante la campagna elettorale. Ma la vicepresidente sarà proprio sua figlia, la 43enne Sara, che ha scelto di correre in ticket con Marcos Jr. contro il parere del padre che l’avrebbe invece voluta leader al suo posto.

Una mossa che, nei piani del rampollo di mamma Imelda, dimostra «unità» e che soprattutto gli ha portato in dote tanti voti dai numerosi sostenitori del presidente uscente. Ora, questa vittoria così netta fa temere a molti che la coppia possa sentirsi in diritto di governare incontrastata.

Che cosa farà Bongbong al potere? Si prevede che continuerà la guerra alla droga di Duterte, ma ha spiegato che avrà una strategia più «mirata» che enfatizzerà maggiormente la riabilitazione e la prevenzione.

In molti tifavano per la sua principale rivale, l’ex vicepresidente Leni Robredo. A partire dalla comunità Lgbt+ e dalle minoranze etniche, per arrivare agli investitori. Il programma in materia economica di Marcos Jr. è ritenuto debole e confuso. Ha parlato di piani per rafforzare i partenariati pubblico-privato, l’agricoltura e il turismo ma senza fornire dettagli significativi.

Scene inside polling precinct during the National and Local Elections in Metro Manila, Philippines on May 9, 2022. Filipinos cast their votes during the 2022 Philippine Election. (Photo by Ryan Eduard Benaid/NurPhoto) (Photo by Ryan Eduard Benaid / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Vicino alla Cina?

Bongbong è sempre stato vago anche in materia di politica estera, ma si ritiene che possa riprendere l’avvicinamento alla Cina che è stato iniziato da Duterte nel 2016. Nonostante Xi Jinping non abbia mai rispettato una sentenza dell’Aja a favore di Manila sulle dispute territoriali del Mar Cinese meridionale, Duterte è stato a Pechino poco dopo il suo insediamento e ha predetto enfaticamente la «vittoria» della Cina nella corsa alla supremazia globale contro l’Occidente.

L’interscambio commerciale tra i due paesi asiatici è arrivato a livelli record. Duterte si è pure fatto immortalare mentre gli veniva somministrato il vaccino cinese Sinovac durante la pandemia.

Da quando alla Casa Bianca è arrivato Joe Biden, però, Manila è sembrata essere in procinto di tornare all’ovile, rafforzando i tradizionali legami con l’antico colonizzatore. Duterte ha fatto marcia indietro su molte delle sue minacce contro Washington, compresa l’abrogazione di un patto di difesa. Anche a causa della crisi di qualche tempo fa, quando decine di navi cinesi stazionavano nelle acque rivendicate dalle Filippine come parte della loro zona economica esclusiva. Nello scorso aprile Manila e Washington hanno condotto insieme l’esercitazione militare più massiccia degli ultimi sette anni.

Il Balikatan, in tagalog «spalla a spalla», ha mobilitato circa 9mila membri tra personale militare filippino e americano nell’area di Luzon. Sono stati realizzati dei nuovi avamposti della guardia costiera su tre isole contese nell’arcipelago delle Spratly, nonostante le proteste di Pechino. Alla fine di maggio le Filippine hanno presentato una protesta diplomatica nei confronti della Repubblica popolare, che ha imposto unilateralmente un divieto di pesca in quelle acque.

Marcos Jr., però, ha promesso che rafforzerà le relazioni con la Cina dotandole di una «marcia più alta». Durante un colloquio telefonico pochi giorni dopo le elezioni, Xi Jinping ha definito il neoeletto presidente «un costruttore e un promotore dell’amicizia con la Cina», e ha proposto un piano di cooperazione per regolare il futuro sviluppo dei legami bilaterali. «Imelda è amica della Cina e ha un’ottima relazione con il governo cinese ad alto livello, il che è destinato a influenzare la politica estera di Marcos Jr. nei confronti della Cina», ha dichiarato Yang Jinglin, professore associato presso il Centro di studi Cina-Asean (Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico) dell’Università del Guangxi (Cina popolare).

O vicino agli Usa?

Marcos Jr. ha comunque garantito che Manila non cederà alle rivendicazioni cinesi sul mar Cinese meridionale, continuando a rifarsi alla sentenza del 2016. «Non permetteremo che un singolo millimetro dei nostri diritti marittimi venga calpestato», ha detto. Un modo per provare a tenere in equilibrio i rapporti sia con Washington che con Pechino. Bongbong ha palesato l’intenzione di ridiscutere e ridefinire il Visiting forces agreement con gli Usa di fronte a uno «scenario regionale in cambiamento». Fino al 30 giugno, Marcos Jr., tra l’altro, non poteva mettere piede negli Stati Uniti a causa di una maximulta, mai pagata, da 353,6 milioni di dollari comminata a lui e alla madre dopo una class action contro le violazioni dei diritti umani del regime guidato dal padre. Ma, nelle scorse settimane, la vicesegretaria di Stato Wendy Sherman ha chiarito che l’impedimento è venuto meno grazie alla sua immunità presidenziale e che il neo leader filippino sarebbe il «benvenuto» negli Usa. Segnale di quanto il posizionamento del paese asiatico sia ritenuto cruciale dall’amministrazione Biden che sta provando a riproiettarsi in Asia-Pacifico per contenere l’ascesa cinese. Da parte sua, il nuovo leader filippino proverà a rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza all’interno dell’Asean, riducendo la dipendenza militare dagli Stati Uniti, e a non esporsi al confronto tra blocchi. L’agognato avvicinamento a Pechino potrebbe però essere rallentato dalle tensioni strategiche.

Sono lontani i tempi in cui Marcos sr. era stato definito «il braccio destro dell’America in Asia» dall’allora presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson durante una visita a Manila del 1966. Secondo molti, Marcos jr. userà il suo potere per fermare le indagini sul patrimonio della sua famiglia, dato che presiederà la commissione che ancora conduce l’inchiesta. «Giudicatemi per le mie azioni, non per le azioni dei miei antenati», ha chiesto Bongbong. Chissà che cosa ne pensano i protagonisti della rivoluzione popolare del 1986, che hanno visto un Marcos varcare nuovamente la soglia di Palazzo Malacañan.

Lorenzo Lamperti

Archivio MC

• Filippine, 500 anni di evangelizzazione, Xiao Chua, Marco Bello, luglio 2021.
• Filippine: La (sporca) guerra alla droga, Luca S. Pistone, marzo 2019.

People walk outside a polling precinct during the presidential election in Antipolo, Rizal province on May 9, 2022. (Photo by Maria Tan / AFP)




Trent’anni di missione


Un’esperienza di un mese nel paese saheliano è stata  per lui una «folgorazione». Da allora non ha più smesso di viaggiarci e ne ha fatto il suo Paese di adozione. Fino ad andarci a vivere. La sua è, in tutti i sensi, una famiglia missionaria. Paolo ci racconta la sua storia.

«Io sono tornato molto fiducioso da questo viaggio in Burkina Faso, con tanta voglia di ripartire e fare investimenti nel Paese». Chi parla è Paolo Turini, classe 1969, di Montevarchi (Arezzo). È tornato da qualche settimana dal paese saheliano. Ma la sua non è una butade, è una constatazione suffragata da una lunga esperienza.

Il primo viaggio come esperienza di missione lo ha fatto nel 1994, proprio in Burkina Faso. È successo quasi per caso. Poi si è creata una profonda relazione con quei luoghi.

Lì ha conosciuto Caterina Piu, pure lei volontaria, e da quel momento il rapporto con i burkinabè è stato prima di coppia e poi di famiglia.

Ma andiamo con ordine.

1994. L’inizio di tutto

«Don Gabriele Marchesi era il mio parroco, ma anche il responsabile dell’ufficio missionario diocesano di Fiesole – ci racconta Paolo -. Il 2 novembre del 1994, dopo la messa dei morti gli chiesi: “Come posso fare una esperienza missionaria?”. Lui mi parlò dei corsi di preparazione dei giovani che poi ad agosto avrebbero fatto un’esperienza di missione. Ma mi disse anche: “Però ho un biglietto per un muratore, per andare a posare delle piastrelle in un dispensario in Burkina Faso. Chi doveva andare si è infortunato, e devo trovare qualcuno per il 10 dicembre”».

Il giovane pensò subito al suo capo scout che faceva quel mestiere. «Corsi da lui, ma mi disse che aveva molto lavoro e non poteva partire. Gli chiesi se mi avrebbe insegnato a posare le piastrelle se fossi andato tutti i sabati e le domeniche a lavorare con lui. Si mise a ridere, ma annuì». Paolo fece subito la proposta a don Gabriele, non c’era un minuto da perdere. E il sacerdote: «Guarda che poi là sei da solo, devi essere bravo!». Ma gli diede fiducia, e Paolo, in alcuni fine settimana, imparò a fare il lavoro.

«Una settimana prima della partenza facemmo una riunione con altri due ragazzi che sarebbero pure partiti e con don Carlo Donati, sacerdote fidei donum, che seguiva questa missione. Fui presentato come muratore esperto!».

Arrivati a Ouagadougou, la capitale, il giorno dopo si trasferirono nella città di Koupela. Il lavoro da fare era in un villaggio, Kanougou. «Eravamo su un fuoristrada su una pista di terra e don Carlo mi disse: “Guarda: a questo sasso svolti a destra e a quell’albero a sinistra. Impara perché da domani ci vieni da solo”. E così è stato. Per venti giorni da solo, prima a portare tutti i materiali e poi a posare piastrelle. Con i bambini che venivano a prendere i ritagli per fare i presepi. Altri dieci giorni sono andato in motorino, perché l’auto non era più disponibile». Paolo conclude: «Come prima esperienza in Africa è stata folgorante».

Quell’esperienza, Paolo l’aveva cercata intensamente, ma non sa neppure lui perché. Inoltre, aveva dovuto rinunciare allo stipendio in Italia, perché aveva già fatto le ferie. Il datore di lavoro lo aveva aiutato, tenendogli il posto.

Oltre a un primo assaggio di Africa, Paolo conobbe così il gruppo missionario di don Carlo con il quale iniziò a fare volontariato. Ogni anno tornava in Burkina a svolgere compiti diversi. Nei restanti mesi, in Italia, era attivissimo: usava il suo tempo libero per le diverse attività di promozione della missione sul territorio.

1977. Un’infermiera

«Nel 1997 ero in Burkina per il mese di missione che facevo tutti gli anni. Mi dissero di andare all’aeroporto a prendere tre volontari. Scesero dall’aereo una signora, una ragazza e un ragazzo. La giovane aveva l’orecchino al naso e i tacchi alti. Ho subito pensato: ma chi l’ha mandata in Burkina? Poi iniziai a interessarmi, mi piaceva l’attenzione che dava ai malati. Così ho approfondito la conoscenza».

Caterina è un’infermiera di Nuoro, ed era andata a fare un’esperienza da una suora sarda in missione a Koupela.

«L’anno successivo siamo riusciti a fare insieme due mesi in Burkina, accumulando ferie e altri permessi. Due anni dopo ci siamo sposati».

Fu in quel periodo che Paolo e Caterina maturarono l’idea di passare più tempo nel Paese. «Quando abbiamo deciso di partire per un tempo più lungo, è stato perché, dopo tanti anni di permanenze di un mese, avevamo capito che, se ci si voleva immedesimare nella cultura e aiutare meglio, occorreva vivere sul posto. Una volta compreso questo, abbiamo cercato in tutti i modi di realizzare il nostro sogno, mettendo a disposizione i nostri talenti».

1999. Il primo anno

Il primo passo è stato ottenere per entrambi un’aspettativa di un anno dal lavoro. Paolo nel 1999 lavorava per le ferrovie come manutentore (aveva passato il concorso pubblico), mentre Caterina faceva l’infermiera.

«Io ho sempre creduto nella formazione tecnica dei giovani – continua Paolo -, affinché abbiano le competenze per realizzare essi stessi il cambiamento. Ero in linea con il metodo dei Fratelli della Sacra famiglia, e c’era il modello di Goundi (villaggio nel centro ovest del Paese) di fratel Silvestro Pia: formare i giovani e dare loro gli strumenti per iniziare l’attività».

Quell’anno di aspettativa lo passarono proprio con fratel Silvestro, con l’intento di costruire una permanenza più stabile.

«Cercammo diverse possibilità: congregazioni religiose, Ong. Nessuno si interessò al nostro progetto. A un certo punto ci eravamo accordati con il gruppo missionario di don Carlo: saremmo rimasti nel Paese a seguire i suoi progetti. Il gruppo aveva aperto tre centri per bambini malnutriti e creato diversi orti moderni. Era quasi tutto pronto, ma una telefonata che ci raggiunse proprio in Burkina durante l’anno di aspettativa ci gelò: “Mi dispiace, non possiamo permettercelo economicamente”.

Don Gabriele conosceva tutta la questione. Ci disse: “Se mi garantite di rimanere cinque anni, trovo una formula”. E trovò quella dei missionari laici, che all’epoca era molto complicata. La diocesi di Fiesole ci avrebbe dato un rimborso per pagarci i contributi, circa 500 euro a testa al mese. Avremmo pagato solo i miei, perché gli altri ci sarebbero serviti per vivere. Non possiamo smettere di ringrazialo perché ci permise di partire».

2001. E missione sia

Paolo e Caterina partirono nel marzo del 2001. Iniziarono dando un aiuto ai padri Camilliani, alla periferia di Ouagadougou, in un centro dove accoglievano malati di Aids. Si occupavamo di completare la formazione degli infermieri neo diplomati e di altre attività. «Non era esattamente il nostro sogno, ma ci permise di partire. Prendemmo un impegno di un anno, poi ci saremmo spostati».

Arrivò la soffiata che una sezione dei Lions (organizzazione filantropica, ndr) voleva finanziare progetti di formazione professionale nel Sud del mondo. Paolo, preso a modello il centro di formazione professionale di Goundi, scrisse un documento da presentare all’associazione. La cifra necessaria era di 75mila euro: «Volevamo realizzarlo nella diocesi di Koupela, perché c’era l’accordo con la diocesi di Fiesole. Parlando con il vescovo, questi ci suggerì proprio Kanougou, perché c’era una struttura, il dispensario delle suore dove anni prima avevo messo le piastrelle, che aveva alcune stanze libere. Inoltre c’era il pozzo per l’acqua».

Le cose non andarono bene: «Anche questa volta arrivò una telefonata che ci lasciò di stucco: i Lions stavano ristrutturandosi e non avrebbero finanziato alcun progetto».

Ma la coppia missionaria era tenace. Lavorando dai Camilliani avevano conosciuto un medico italiano, che si impegnò a trovare loro un primo finanziamento. «Abbiamo deciso di cominciare con una cifra molto più bassa, poi via via si sono aggiunti altri contributi: dal centro missionario di Montevarchi, dallo stesso gruppo di don Carlo e da tanti altri ancora. Lavorando un po’ alla volta, siamo riusciti a realizzare tutto, tranne la sala polivalente, che avevamo capito non essere necessaria. Ci abbiamo messo più tempo, ma abbiamo avuto una spesa totale di 65mila euro».

Riflessioni

I due missionari laici si resero conto che vivere sul posto la missione ha un valore aggiunto molto importante: «L’idea di missione che si ha facendo viaggi periodici nel paese per brevi periodi non sempre è adattata al contesto. Per questo io e Caterina abbiamo deciso di stare a vivere in Burkina. Gli anni passavano, il Paese cambiava, cresceva, ma in Italia era rimasta l’idea dell’Africa dei container. Vivendo lontani si rischia di avere un approccio di aiuto di vecchio stile». Certo, lasciare tutto e partire è molto più complicato che mettere a disposizione le proprie ferie ogni anno: «Abbiamo dovuto entrambi licenziarci dal lavoro. Devo dire che le nostre famiglie ci hanno sempre supportati. A Caterina hanno detto: “Basta che tu sia felice”. E mia mamma ha chiosato: “Tanto tu alle ferrovie non sei mai andato volentieri”».

Ripensando al periodo di residenza in Burkina, Paolo ricorda che non era sempre tutto facile, anzi: «Qualche batosta c’è stata. Alcuni problemi che ti fanno dire: ma chi me lo ha fatto fare. Ma poi ci sono le motivazioni di fondo che ti aiutano ad andare avanti».

Nel frattempo arrivarono i primi due figli, Samuele e Francesco, e la famiglia missionaria si era allargata.

2006. Il ritorno

Il 12 agosto del 2006 arrivò una di quelle telefonate che impongono decisioni importanti. «Il provveditorato agli studi mi informava che ero passato di ruolo. Avevo dato il concorso per la scuola molti anni prima. In 48 ore avrei dovuto decidere se prendere il posto o lasciare. Partire o restare in Burkina.

Quella notte non riuscivo a dormire. Mi giravo e mi dicevo: ma chi ce lo fa fare di tornare in Italia? Stiamo qui. Poi mi rigiravo: abbiamo già due figli e quando cresceranno cosa si farà? Don Gabriele era andato in missione in Brasile. Non si sapeva se la diocesi ci avrebbe rinnovato il contratto. Le incognite erano tante. Apro gli occhi e vedo una lucina rossa nel buio della stanza. Penso al tabernacolo. Sento che mi dice: torna in Italia poi semmai ritorni in Burkina.

Al mattino mi sveglio e dico a Caterina: si è deciso, si riparte. Poi mi accorgo che la lucina era lo zampirone contro le zanzare. Ma oramai si era deciso».

In Italia Paolo e Caterina diventarono l’anima del centro missionario Bakonghe, che si costituì come associazione. Furono, inoltre, nominati entrambi responsabili del Centro missionario diocesano di Fiesole, primi laici a svolgere questo servizio. Paolo continuava a seguire il progetto di Kanougou e, una volta all’anno, andava in Burkina.

Ma ci confessa: «Non sempre siamo contenti della scelta di tornare in Italia. Adesso Samuele ha 20 annie sta già lavorando. Francesco e all’ultimo anno delle superiori, e Petra, nata dopo il rientro, al terzo. Vediamo quando saranno autonomi se tornare in Burkina».

2024. Nuove idee

Nel gennaio di quest’anno Paolo è tornato dall’ultimo viaggio missionario con una nuova idea. «Voglio realizzare una fabbrica di motozappe. Se funziona, può migliorare la vita dei contadini burkinabè, e anche darci un piccolo introito che ci permetta di tornare a vivere in Burkina per seguire le attività del centro di formazione a Kanougou».

Paolo ci dice che l’attuale governo vuole favorire l’agricoltura e quindi cercherà di contattare il ministero. «Prevedo una parte per l’assemblaggio delle motozappe e una parte per la vendita. Il prezzo deve essere accessibile a una famiglia del posto. Servono circa 50mila euro, ma non tutti insieme, si può iniziare con una prima parte e poi andare avanti. Ma in tre anni la fabbrica deve essere produttiva. Devo iniziare a cercare i finanziamenti».

Nel frattempo Paolo sta contattando aziende italiane produttrici di motozappe per proporre eventuali collaborazioni, sia tecniche che finanziarie. Intanto con Caterina continua l’attività missionaria con il centro Bakonghe e con la diocesi.

«Lascerei il Cmd anche ad altri, ma purtroppo in Italia adesso c’è poco interesse per la missione», si lamenta. E fa un commento su come è stato vissuto il loro rientro dalla missione: «Quando siamo venuti via dal Burkina, temevo che i burkinabè ci accusassero di essere dei traditori. Cosa che non è mai accaduta. Piuttosto, ci hanno sempre detto: “Voi potrete aiutarci anche dall’Italia”. Invece qui da noi c’è gente che ci ha detto: ma cosa siete tornati a fare, abbiamo bisogno di voi in Burkina. Voglio dire che abbiamo avuto più difficoltà da parte degli italiani che dagli africani».

Dopo trent’anni di missione in Burkina Faso, seppure con modalità diverse, Paolo è più motivato che mai. Neanche la difficile situazione sociopolitica del Paese lo scoraggia. E con lui, la sua famiglia missionaria.

Marco Bello

 




Senegal. Il più giovane dei presidenti

 

È Bassirou Diomaye Faye, il nuovo presidente del Senegal. Ha prestato giuramento ed è entrato in carica lo scorso 2 aprile. A 44 anni è il più giovane presidente senegalese di sempre, non ha mai avuto cariche elettive ed era praticamente sconosciuto. Funzionario di alto livello del servizio delle imposte, antisistema e panafricanista è noto come persona rigorosa e gran lavoratore.

Faye ha passato gli ultimi undici mesi in prigione sotto l’accusa di oltraggio a un magistrato per un post su Facebook (alla quale si sono aggiunte quelle più gravi per attentato alla sicurezza dello Stato e incitamento all’insurrezione), per uscirne il 14 marzo, grazie all’amnistia pre elettorale. Come lui, anche molti altri oppositori, incarcerati con pretesti nei mesi scorsi, attraversati da tensioni per il processo elettorale, nel goffo tentativo del presidente Macky Sall di restare al potere. Primo fra tutti Ousmane Sonko, fondatore (insieme a Faye) e leader del partito Pastef (Patrioti africani del Senegal, per il lavoro, l’etica e la fraternità), principale oppositore del presidente uscente. Sonko, dato vincente da tutti i sondaggi, era stato condannato e il Pastef sciolto nel luglio dello scorso anno. Bassirou Diomaye Faye è quindi stato scelto come piano B, in sostituzione di Sonko, e ha vinto al primo turno con il 54,28% dei voti.

«Il nuovo presidente del Senegal è un uomo di sani principi, rigoroso, che non parla molto, ed è molto rispettoso delle leggi del paese. Speriamo che saprà fare del Senegal un paese emergente», ci dice il giornalista Ama Dieng, contattato telefonicamente, senza nascondere un certo entusiasmo.
Il giorno dell’investitura, il neo presidente ha subito nominato primo ministro lo stesso Ousmane Sonko. I due si trovano oggi ai vertici del paese: insieme avevano elaborato un programma di sviluppo per il Senegal, che ora hanno la possibilità di provare a realizzare.
Tale ambizioso programma prevede, ha ricordato Faye: più giustizia, meno corruzione, una migliore ripartizione delle ricchezze, più equità nelle relazioni internazionali, la lotta all’iper presidenzialismo, la sovranità economica e la riforma monetaria.

Sonko, dopo la nomina ha dichiarato, tra l’altro: «Alla testa della squadra che stiamo per formare, daremo tutto quello che abbiamo e non risparmieremo nessuno sforzo per raggiungere quello che abbiamo promesso al popolo senegalese, ovvero la rottura (con i governi del passato, ndr), il progresso e il cambiamento definitivo nel giusto senso».
E il primo ministro la squadra l’ha formata rapidamente. È composta di 25 ministri (dieci in meno del precedente governo) e cinque sottosegretari. Tra i punti critici della nuova compagine, si segnala la presenza di solo quattro donne, e ben due generali (alla difesa e all’interno). Il 9 aprile si è tenuto il primo Consiglio dei ministri, per una prima conoscenza, mentre il passaggio di consegne è ancora in corso nei diversi dicasteri.
Oltre ad alcuni membri del Pastef in ministeri di peso, fanno parte del nuovo governo diverse personalità della società civile poco conosciute, e quasi tutti ministri alle prime armi. Resta da capire se effettivamente si tratta di un governo di unità e vicino alla popolazione, come Sonko ha promesso.
«Abbiamo questo duo al potere, nel quale Faye è il capo di Sonko nel governo, ma nel partito è il contrario – ci ricorda Ama Dieng -. Un coppia sulla quale abbiamo molte speranze e pensiamo davvero che cambieranno le cose, perché la popolazione ha bisogno di cambiamento, e lo ha dimostrato con il voto, con la schiacciante vittoria al primo turno del candidato dell’opposizione».

Marco Bello




Se l’arte salverà il Burkina


Silvia è una ragazza tranquilla. Un’intuizione le dice che vivrà lontana dalla sua città di provincia. Studia, poi lavora nel sociale. Ha un’innata propensione all’aiuto agli altri, e una importante vena artistica. Invece di aspettare l’occasione, se la costruisce. E la sua vita sboccia.

Silvia Ferraris è nata nel 1977 ad Asti, e da oltre dieci anni vive a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. «Fino da ragazzina – ci confida al telefono – qualcosa mi diceva che avrei vissuto molto lontano dalla mia città. E questa intuizione ha attraversato tutta la mia vita».

Silvia si trasferisce a Torino per studiare Scienze della comunicazione nel 2000. «In quel periodo feci un viaggio con amici in India, e questo mi fece venire l’idea di lavorare nella cooperazione internazionale». Ma le opportunità sono altre e Silvia fa un anno di servizio civile presso l’ufficio minori stranieri: «Lavoravo in comunità con i cosiddetti baby pusher e le ragazze rumene sfruttate. Nel cuore avevo sempre il desiderio di scoprire i luoghi da dove venivano questi ragazzi».

Nel frattempo, continua a formarsi e consegue una seconda laurea triennale in Scienze dell’educazione. Silvia ha una sua «parte artistica» che non trascura: «Facevo i ritratti ai ragazzi delle comunità. Ho poi deciso di iscrivermi alla scuola di arte terapia, a Milano, della durata di tre anni. Questo percorso mi ha dato la possibilità di coniugare due desideri: spendere le mie competenze in una attività di aiuto, e lavorare nel settore dell’arte».

Il grande salto

In quegli anni conosce anche l’associazione Wai Brasil di Torino (oggi Relamondo), e realizza con alcuni soci un viaggio in Brasile.

Ma tutto questo non basta. Silvia segue anche un master in cooperazione «nei week end, così potevo continuare a lavorare». Capisce che deve fare un’esperienza di lungo periodo: «Ho cominciato a preparare questa idea nel 2010 e due anni dopo sono riuscita a partire. Avevo 33 anni».

Silvia ha pensato a un progetto di arte terapia, da attuare in un Paese africano: sarà il tirocinio della sua formazione. Bussa a diverse porte di Ong, ma non trova un appoggio. Poi, una mattina, durante una sua ricerca su internet, appare il nome di una piccola Ong francese: Hamap humanitaire. «Ho scritto loro. Hanno valutato la mia idea e si sono detti interessati a fare un crowd funding per finanziarla. E così parto, con la metà del finanziamento coperto da una raccolta popolare francese».

Silvia vive un anno in Burkina Faso, dove applica quanto ha appreso nella scuola di arte terapia. «In quell’anno ho capito che il popolo del Burkina Faso è permeato dall’arte. La mia proposta di arte terapia era molto simile a tante pratiche locali, ma si trattava di cambiare prospettiva. Ho anche capito che un anno non sarebbe bastato: volevo continuare a scoprire delle cose».

La vita professionale s’intreccia con quella sentimentale: nel Paese conosce il burkinabè che sarebbe diventato suo marito. Dopo un breve rientro in Italia, decidono di stabilirsi a Ouagadougou nel 2014. Intanto nasce la prima figlia. Qualche anno dopo sarebbe arrivato anche il fratellino.

Una nuova famiglia

«La mia vita è diventata la routine dell’organizzazione famigliare, sebbene in Burkina. Le priorità sono cambiate. Ho iniziato a fare diverse collaborazioni nell’ambito educativo. Intanto mio marito si occupava di una fattoria biologica. Ma anche l’arte terapia era un lavoro che volevo fare crescere».

In Burkina Silvia conosce altre persone impegnate nel sociale e nell’arte. Sono Alice Ouedraogo che lavora con un’associazione per i diritti delle donne e dei bambini, e suo marito, l’italiano Stefano Dotti. Poi c’è Véronique, sorella di Alice, impegnata nell’arte dei tessuti burkinabè. Successivamente incontra l’attore di teatro e regista Sie Palinfo, che subito si trova in sintonia con le sue idee. Anche Elisa Chiara, italiana che lavora nella cooperazione, integra il gruppo, che diventa di tre italiani e tre burkinabè, quattro donne e due uomini.

Insieme, danno vita a un’associazione, «Waga studio», dove Waga suona come Ouaga, il diminutivo famigliare con cui è chiamata la capitale del Paese.

«Le prime attività risalgono al 2015, mentre a livello giuridico è registrata dal 2021. L’obiettivo è promuovere il savoir faire locale nell’ambito della cultura, delle arti e del benessere. Ma un’altra finalità è valorizzare l’aspetto “terapeutico” delle arti. Ovvero usare le varie forme d’arte come strumento di sviluppo personale, soprattutto con persone bisognose. Ad esempio, i ragazzi e le donne in situazioni difficili. Questo aspetto è anche frutto della mia esperienza personale, in quanto arte terapeuta».

Il Paese in crisi

Intanto la situazione sociopolitica del Burkina peggiora. Dal 2016 gruppi armati islamisti imperversano nell’interno del Paese, costringendo molte scuole a chiudere e i centri sanitari a evacuare. La popolazione di molte aree fugge e si riversa in capitale, in improvvisati campi di sfollati che vanno a gonfiare i quartieri periferici. Il governo del presidente Roch Marc Christian Kaboré non riesce a mettere un freno. Tale situazione di instabilità porta a un primo colpo di stato militare, il 24 gennaio del 2022 (cfr MC maggio 2022) e a quello successivo del settembre dello stesso anno. La giunta militare è oggi guidata dal capitano Ibrahim Traoré, giovane ufficiale dell’esercito, e demagogo. Di fatto la situazione della sicurezza è peggiorata mentre si sono intensificati gli arresti arbitrari e le sparizioni politiche, perpetrati da emissari del governo militare.

Il Burkina Faso, insieme a Mali e Niger, anch’essi guidati da giunte militari, ha costituito la coalizione «Alleanza dei paesi del Sahel», che ha voltato le spalle agli alleati storici, come la Francia, e si è avvicinata alla Russia di Vladimir Putin.

«Oggi in molti incroci di Ouagadougou hanno messo quattro bandiere: oltre a quella nazionale, quelle di Niger, Mali e Russia», ci dice Silvia, aggiungendo: «è quasi grottesco». Il Paese vive una situazione molto difficile di instabilità, insicurezza e aumento della povertà, acuita dall’incremento dei prezzi dei generi alimentari, oltre che a una grave regressione del processo democratico e del rispetto dei diritti umani.

In tutto questo Silvia non si scoraggia: «Io credo sempre nella saggezza dei burkinabè».

Arti per la vita

Il gruppo di Waga studio scrive un progetto, «Le arti per la vita, appoggio alla gioventù vulnerabile», che viene presentato alla Tavola valdese nel 2022 ed è finanziato nel 2023. Silvia ci descrive le attività: «Il cuore del progetto è una delle finalità di Waga studio, realizzare dei percorsi artistici dedicati ai ragazzi per fare loro conoscere le proprie potenzialità e aiutarli nello sviluppo personale». L’équipe di Waga studio ha lavorato con venti giovani, alcuni dei quali studenti universitari, che erano fermi per una delle tante sospensioni della didattica.

«Abbiamo proposto loro momenti bisettimanali, atelier di alcune ore, di diverse discipline artistiche, secondo un tema. Si trattava, in una prima fase, di un momento di espressione corporea: danza libera con ritmi particolari, ascolto del proprio corpo, esercizi vicini al teatro e alla danza terapia. Seguiva una parte di arte visiva: dopo che ci si è espressi con il corpo, si mette il vissuto sul foglio, oppure sull’argilla. Parliamo di sviluppo personale, perché questo metodo, attraverso l’arte, fa venire fuori qualcosa, un vissuto, da dove vengo, il presente qui e ora, un’idea di futuro.

Una ragazza ha disegnato il suo villaggio, e poi ha pianto. Dovrebbe servire anche per dare risposte, ad esempio a un’idea da realizzare, oppure a un passato che fa male, a un trauma che continua a riemergere».

A questo progetto hanno partecipato anche l’associazione italiana Relamondo e la belga Nyangazam. Poi il finanziamento è finito e così anche il progetto.

Oggi l’équipe di Waga studio segue diverse attività, da atelier di arte terapia con bambini affetti da noma (malattia che colpisce i più piccoli e ne deturpa il volto), al lavoro con un gruppo di donne sfollate, per il recupero della plastica nel quartiere dove sono accampate. In questo caso il fine è il riciclo per realizzare oggetti di utilità o piccole opere artistiche.

Il sogno

Ma il grande sogno di Silvia, che condivide con gli altri membri dell’associazione è la creazione di un centro culturale permanente a Ouagadougou.

«L’idea è quella di valorizzare il potenziale artistico presente in Burkina – ci spiega -, prendendo spunto dal progetto “Le arti per la vita”, utilizzando le competenze artistiche per formare gruppi di giovani all’arte della performance nei vari settori, con l’obiettivo di permettere loro di scoprire il proprio potenziale e di coltivarlo. È come un coaching, attraverso esperienze artistiche». E continua: «Alla fine della scuola ci sono le restituzioni in performance, ciascuno avrà la sua reazione, ma l’importante è il processo di presa di fiducia in se stessi, di consapevolezza del proprio potenziale».

Il centro vuole essere uno spazio la cui «finalità principale è quella di agire da volano di cambiamento sociale attraverso le arti, per promuovere la cultura della pace e del rispetto reciproco in un processo di costruzione di valori comuni», recita il testo che descrive il progetto. E si tratterà di un centro italo-burkinabè, non solo perché realizzato da un gruppo misto, ma perché vedrà una commistione delle arti dei due paesi.

Tante attività

Avrà un ristorante con cucina delle due culture, italiana e burkinabè, e la fusion tra esse, inoltre ci sarà un coworking. Queste due attività dovranno servire anche all’auto sostentamento economico.

Il centro sarà basato su una scuola di performance: «Questo perché la performance racchiude tutte le arti e permette di comprendere al meglio qual è il campo d’azione privilegiato degli allievi. Inoltre ha potenti ricadute arte terapeutiche: il miglioramento dell’autostima, della fiducia in sé stessi, della capacità di ascolto ed espressione davanti a un pubblico».

Nel centro si realizzeranno anche tutte le attività già svolte nel progetto «Le arti per la vita», con atelier di sviluppo personale in coaching e arte terapia, e formazioni professionali di tipo artistico nei diversi ambiti. Si potranno fare anche dei coach a distanza con professionisti in Italia e Belgio.

E poi sarà uno spazio per corsi di fotografia per ragazzi svantaggiati, esposizioni fotografiche e artistiche, atelier di lettura, spettacoli di vario tipo e festival e molto altro.

La questione resta sempre il finanziamento per partire. Silvia e gli altri stanno presentando il loro progetto a diversi enti, ma sono rari quelli disposti a promuovere la cultura. Anche se, in questo contesto, può voler dire occupare giovani, riempire loro un vuoto e toglierli dalle grinfie dei gruppi armati che li stanno reclutando in gran numero.

Silvia, inoltre, sta portando avanti diversi progetti personali, legati alla danza e all’arte visiva.

La scuola di performance è proprio frutto di questo percorso di formazione artistica.

«A volte, l’idea del centro culturale mi sembra un sogno irraggiungibile. Nel periodo storico che sta vivendo il Burkina è ancora più difficile. Però è stato il frutto di una riflessione profonda, e più immagino cosa vorrei realizzare, più vedo quello. Sia per la mia storia personale, sia perché ci sono tanti artisti bravi in questo Paese».

Marco Bello




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

 


Dall’umiliazione alla dignità

Dopo aver condiviso le forti impressioni provocate da quanto descritto sull’umiliazione a cui si sottomettono vasti strati impoveriti della popolazione argentina, (vedi «Uomini e maiali» su MC notizie) ho avuto occasione di visitare recentemente una delle comunità indigene che la Provvidenza mi ha permesso di accompagnare vent’anni fa nelle vicinanze di Orán (Salta) nella lotta per il diritto al territorio ancestralmente occupato, contrastato dalla grande multinazionale Seabord Corporation (ex Ingenio San Martín del Tabacal), ma grazie a Dio recuperato.

È stata una mezza giornata di intense emozioni, al ricordare l’esperienza vissuta insieme dal 2004 al 2011, come parte di un’équipe della diocesi di Orán, per accompagnare la dura realtà dei conflitti per la terra di diverse comunità che dovevano affrontare l’opposizione ostile e violenta di potenti gruppi economici presenti nella zona.

Mi sto riferendo concretamente alla comunità Tupí Guaraní Iguopeigenda, situata a pochi chilometri della città di Orán.

La resistenza decisa di questa comunità ha fatto sì che si rafforzasse l’organizzazione comunitaria con criteri e valori propriamente indigeni, a cui è seguita l’elaborazione pratica di progetti di sviluppo produttivo per non finire nel circolo umiliante dell’impoverimento e dell’assistenzialismo. Sin dall’inizio, la resistenza ha avuto un obiettivo chiaro: «Non vogliamo dipendere da un precario pacco di alimenti, ma vivere del lavoro della terra che generosamente ci offre quello che coltiviamo con le nostre mani e che ci appartiene». Era, ed è, una dimostrazione chiara di dignità per affrontare le sfide della sussistenza.

Provvidenzialmente, proprio nel giorno in cui ho visitato questa comunità, mi si mostrava con sano orgoglio un riassunto di tutta l’esperienza, attraverso un cartello che riproduceva la memoria viva lasciata come eredità da Pablo Andrada, un hermano (fratello), morto recentemente.

«Siamo un’eredità viva, presente, dei Tupí Guaraní in questo mondo. E rimaniamo in una comunità radicata nel sud del Río Blanco. Iguopeigenda, la nostra identità.

Abbiamo un consiglio di anziani, e anche un nobile consiglio direttivo, e, insieme a tutti i fratelli, cerchiamo di raggiungere gli obiettivi.

Qui la cultura è trascendentale, così come le nostre tradizioni; professarla sarà veramente fondamentale per le future generazioni.

Come ogni comunità ancestrale, con coraggiosa saggezza, anche noi vigileremo sulla biodiversità e la preservazione dell’ambiente.

Siamo produttori di diversi tipi di frutta di stagione, così come ortaggi, tuberi e moringa per la medicina tradizionale.

Le nostre banane sono il nostro orgoglio, sia perché fonte di sostentamento per tutti sia per la loro pregiata qualità è nota in tutto il paese.

Siamo immensamente ed eternamente grati a tante persone per la loro collaborazione, e alle istituzioni per essere state un ponte verso un futuro migliore.

Allo stimato, padre José Auletta, un degno esempio di benevolenza: “grazie” da parte della comunità, per il suo aiuto, consiglio, saggezza e anche per la perpetua amicizia» (Pablo Andrada, Orán – Salta, 10/04/2021).

Un’ulteriore prova della dignità di questa comunità – che porto nel cuore, insieme a tante altre che la missione mi ha fatto incontrare – è il fatto che durante la mia visita essa abbia condiviso con altre comunità pervenute da diverse località la propria esperienza produttiva e di auto sostegno.

Tutto questo è un segno di speranza per una vita fraternamente sostenibile e degna.

José Auletta
missione di Yuto (Jujuy), Argentina, gennaio 2024

PADRE K’OKAL
Il missionario che spargeva allegria

La notizia arriva nel pomeriggio del 2 gennaio: padre K’Okal è scomparso. Penso subito a un sequestro. In Venezuela è diventata una pratica ricorrente. Poi la doccia fredda: è stato ritrovato il suo cadavere. Non ci credo. Cosa è successo? Mille sono le domande. Nei giorni successivi arrivano altri dettagli. La polizia conclude l’indagine in maniera sbrigativa: per loro si tratta di suicidio.

Non è possibile. Non K’Okal.

Padre Josiah Asa K’Okal («K’» per dire «figlio di», ndr), era riconosciuto in America Latina come difensore dei diritti degli indigeni, in particolare dei Warao, che erano diventati il suo popolo, la sua missione. Lavorava con loro oramai da molti anni, parlava bene la loro lingua, conosceva la loro cultura.

«Tu eri impegnato con i diritti umani del popolo Warao, e stavi alzando la voce per denunciare la sempre più preoccupante tratta di persone, dai villaggi indigeni warao verso Trinidad [e Tobago]. Stavi mettendoti contro una mafia pericolosissima, alla quale il tuo presunto suicidio è convenuto tremendamente, per diffondere tra le comunità il terrore del suo potere. Perché si suiciderebbe qualcuno che si è messo in una lotta tanto ardua?», scrive l’attivista Santiago Arconada Rodriguez.  I Warao mettono in dubbio il verdetto della polizia e chiedono un’inchiesta indipendente, un’autopsia indipendente. Lo stesso fanno altri movimenti indigenisti, di difesa dei diritti umani e della società civile venezuelana. Una lunga petizione è firmata da centinaia di organizzazioni e attivisti.

Grande sorriso, sempre allegro, positivo nei confronti della vita. Parlava tante lingue padre Bare Mekoro (il «Padre Nero», come lo chiamavano i Warao), e sempre con un approccio accogliente con tutti. Era keniano, ma era anche venezuelano (nel Paese dal 1997), e fiero d’esserlo.

Ricordo quando ci mostrò la sua carta d’identità di quel paese che amava. Era stato felice di tornarci, quando ci accompagnò per girare parte di «Odissea Warao» sulla migrazione warao dal delta dell’Orinoco verso il Brasile.

«Chi ha conosciuto K’Okal pensa che fosse un santo in carne e ossa. Era un uomo meraviglioso», dice un attivista che ha lavorato con lui.

Le parole di un membro della comunità Warao lo descrivono così: «Padre K’Okal ci ha insegnato ad amare la nostra gente, la nostra cultura. È stato il sale e la luce del nostro popolo, ci ha trasmesso la luce della Parola di Dio e il sale dell’allegria che spargeva ovunque andava».

Marco Bello
Torino, 19/01/2024

Una risata indimenticabile

Ancora lo ricordo mentre balla con un folto gruppo di rifugiati warao a Pacaraima, cittadina brasiliana posta sul confine con il Venezuela.

Stavamo viaggiando per documentare la migrazione di quel popolo indigeno, costretto ad abbandonare i villaggi posti lungo i canali del delta dell’Orinoco. Padre K’Okal, missionario della Consolata e antropologo, era persona fondamentale sia per aver condiviso con i Warao un lungo percorso, sia perché aveva imparato la loro lingua (come lo spagnolo, l’italiano e non so quante altre).

Nel 2022, a Quito, in Ecuador, aveva studiato alla Flacso e la sua tesi era stata proprio sui Warao rifugiati a Boa Vista («Entre vulnerabilización y resistencia estratégica: caso de los desplazados warao en Boa Vista»). Insomma, era una persona di grande intelligenza e preparazione.

Tuttavia, la cosa più bella di Josiah era la sua gioia contagiosa: sorrideva e rideva con estrema facilità e con tutti.

Padre Josiah Asa K’Okal è morto a soli 54 anni. Non di malattia e non per scelta. Una perdita pesante che in tantissimi sentiamo come una grande ingiustizia.

Paolo Moiola
Torino, 19/01/2024


ICE, Iniziative dei Cittadini Europei

Gen.mi direttore e redazione,
sono una vostra lettrice da sempre, e accolgo con gioia MC perché vi trovo parole sagge, notizie di prima mano da tantissime parti del mondo, semi di speranza, pagine di storia e di fede, presentazione di situazioni critiche analizzate senza pregiudizi né ipocrisia, rubriche interessanti. I dossier mi hanno sempre aiutata a capire meglio questo nostro mondo e talvolta li ho presentati anche a scuola (sono un’insegnante in pensione); tramite la vostra rivista sono venuta a conoscenza di problemi di cui i media più diffusi non si occupano, anche con anni di anticipo rispetto al deflagrare di una crisi.

Segno dei tempi, in una rivista missionaria trovano spazio sempre più spesso anche l’Europa e l’Italia, sia perché bisognose di una nuova evangelizzazione, sia perché terre di immigrazione.

A questo proposito mi riferisco  al bell’articolo «Sostituzione etnica o necessità?» che leggo nella pagina di «E la chiamano economia» del numero di dicembre ‘23, in cui, dati alla mano, Francesco Gesualdi presenta con chiarezza la situazione italiana con l’immigrazione clandestina, il «curriculum» di Frontex, il ruolo delle Ong, e la costruzione della paura. Condivido al cento per cento la necessità di una «operazione verità» e sottoscrivo la conclusione dell’articolo: «Dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza». Ora, proprio a questo scopo, perché non far conoscere le seguenti Iniziative dei cittadini europei (Ice)?

La prima è «Stop border violence», nata «per costringere la Commissione europea a garantire e applicare anche nei confronti dei migranti quanto previsto nell’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea» (che afferma: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti», ndr).

L’altra è «Dignity in Europe, per garantire un’accoglienza dignitosa dei migranti in Europa».

L’Ice è un prezioso strumento di democrazia partecipativa a disposizione dei cittadini dell’Ue, che possono influire direttamente sulle politiche messe a punto dalla Commissione europea, presentando richieste sottoscritte da almeno un milione di cittadini Ue in almeno sette paesi membri.

Le due Ice di cui sopra sono nate, rispettivamente in Italia e in Francia, da persone di diversa formazione, e indipendenti da partiti politici, ma accomunate dall’angoscia per le violenze subite dai nostri fratelli migranti e per i loro diritti negati.

Penso che anche questi strumenti  possano contribuire a creare una società aperta, solidale, consapevole, che cura e ripara.

Grazie per l’attenzione e ancora complimenti e auguri per la rivista.

Giovanna Golzio
02/01/2024

 

Molte grazie per la segnalazione. Il tema dell’immigrazione ci sta ovviamente molto a cuore, essendo testimoni sul posto delle terribili e disumane realtà di tanti popoli.

Mi viene una «provocazione» leggendo l’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea: ho pensato che i soggetti cui riconoscere tali diritti siano molti, tra essi, ad esempio, anche i carcerati costretti a vivere in condizioni disumane (cfr. articolo del 15 gennaio in MC notizie sul nostro sito web).


Dossier sul Canada

Ciao Paolo (Moiola),
ho letto quanto hai scritto sul Canada nel dossier del mese scorso. Ho percorso con te, con l’aiuto del computer, il viaggio nell’Ovest del Paese. La lettura è affascinante; penso che anche il viaggio lo sia stato. Hai presentato in forma molto appropriata il tema dello sfruttamento minerario a scapito dell’ambiente e, sicuramente, con ritorni finanziari ingiusti in molti aspetti; la tematica della conquista e spogliazione dei popoli originari; il difficile e doloroso rapporto delle Chiese (e del governo coloniale e post) con essi.

Mi è piaciuto il riquadro sul multiculturalismo, di cui il Canada va giustamente fiero. Credo che tale tema insieme a quello del fenomeno migratorio (Toronto è la più grande «città Italiana» fuori Italia) meriti un approfondimento.

Paolo Fedrigoni, 02/01/2024, Montreal, Canada

Ho letto (il dossier) per intero. È molto, molto interessante. Non so se qualcuno ti ha detto che nella Carta canadese c’è scritto che nel nostro Paese ci sono due lingue ufficiali: l’inglese e il francese. Sono stati i francesi di François I, compreso Jacques Cartier, a dare il nome Canada al Paese. Avevano sentito gli irochesi pronunciare la parola kanata (non sapevano che significasse villaggio) ed è così che il nome è comparso (un po’ storpiato) sulle mappe. Gli inglesi vennero dopo. Mi è piaciuto molto il tuo approccio più antropologico.

Ghislaine Crête,  03/01/2024, Montreal, Canada




A scuola con Penny Wirton

Sommario


Quel ragazzo di nome Penny
Come nasce e si diffonde la rete

Insegnare l’italiano a stranieri di ogni estrazione, età e cultura è una grande sfida. Sedici anni fa, a Roma, una coppia di insegnanti la raccoglie e fonda il primo nucleo di una scuola molto speciale, «senza muri». Il modello si replica in tutto il Paese seguendo principi chiari e condivisi.

«La scuola Penny Wirton nasce da un sogno – scrivono i fondatori, la professoressa Anna Luce Lenzi e il giornalista e scrittore Eraldo Affinati -: insegnare la lingua italiana ai migranti come se parlare, leggere e scrivere fossero acqua, pane e vino. Senza classi. Senza voti. Senza burocrazie. Lavorando al presente con chi c’è, con quello che abbiamo. Cercando di dare a ognuno ciò di cui lui, o lei, ha bisogno.

Matiur entra in aula, sorride, ti stringe la mano e si mette a sedere. Tu subito gli consegni il foglio con la matita e lo aiuti a imparare il verbo essere. Poi, a gruppi sparsi, arrivano gli altri: Abdi, Raissa, Dimitri, Kadigia… Noi crediamo nella qualità speciale del rapporto umano che si può realizzare nell’insegnamento a uno a uno. Negli anni abbiamo acceso passioni, elaborato esperienze, costruito legami, acquisito uno spirito, imparato uno stile. Non vogliamo fare semplice intrattenimento. Siamo legati al rigore didattico, consapevoli che, come sapeva il priore di Barbiana [don Milani], senza lingua non si può vivere. Senza nomi si muore».

È questa la mission della scuola di italiano Penny Wirton a Roma. Si tratta di un vero laboratorio antropologico da cui hanno preso forma altre 59 scuole con la medesima identità su tutto il territorio nazionale.

Le scuole Penny Wirton possono essere comprese in un’ottica di multi dimensionalità dei processi di integrazione. La questione dell’integrazione dei migranti e dei rifugiati impone di stabilire connessioni fra molteplici servizi sia istituzionali che del privato sociale, nella consapevolezza che, come viene affermato dal pedagogista M. Fiorucci e dalla dottoressa R. Cima (2022), «I soggetti a rischio di esclusione sociale – tra cui gli immigrati – e quelli afflitti “dai bassi livelli di scolarità” sono proprio quelli che meno utilizzano le opportunità loro offerte».

Come nasce

La scuola di italiano Penny Wirton nasce a Roma nel 2008 grazie alla volontà dei coniugi Affinati e Lenzi. Il primo, presidente dell’omonima associazione, è scrittore e giornalista da sempre legato al mondo della scuola. Lenzi è esperta di letteratura popolare è stata insegnante di italiano e ha curato diverse antologie scolastiche. Sono coautori dei due volumi: Corso di italiano per stranieri. Il libro della scuola Penny Wirton (2011) e Italiani anche noi. Il libro degli esercizi della scuola Penny Wirton (2015), che rappresentano i testi alla base del materiale scolastico utilizzato nelle diverse sedi della Penny Wirton.

Dalle parole dei fondatori emergono i due i pilastri che hanno portato alla nascita della scuola: da un lato l’esperienza alla Città dei ragazzi (fondata a Roma nel 1953 da monsignor Patrick Carroll-Abbing per accogliere i ragazzi di strada, ndr) e, dall’altro, gli insegnamenti di don Lorenzo Milani.

Come esplicitato da Affinati: «La particolarità della Città dei ragazzi è data dal fatto che è una comunità educativa basata sull’autogoverno, ossia un sistema pedagogico fondato sulla responsabilizzazione dei ragazzi. Al tempo di monsignor Carroll-Abbing i ragazzi ospitati erano tutti bambini italiani orfani e abbandonati. Quando sono andato io, invece, erano tutti stranieri. Ed è lì che mi è venuta l’idea di aprire una Penny Wirton, ossia una scuola italiana per immigrati. In questo senso la nostra scuola nasce da una costola della Città dei ragazzi. […] Poi vi è un altro riferimento, ossia don Lorenzo Milani. Anche lui è stato per me importante per indirizzarmi verso una scuola diversa da quella tradizionale, una scuola basata sul rapporto umano diretto. In altre parole: tempo scuola uguale tempo vita».

La scelta del nome «Penny Wirton» nasce dal fatto che entrambi i fondatori si sono laureati con una tesi su Silvio D’Arzo (1920-1952), autore di un romanzo per ragazzi intitolato «Penny Wirton e sua madre» (1978) che ha come protagonista un bambino povero e disprezzato, orfano del padre, alla conquista quotidiana della dignità e del riscatto. Come evidenziato dai fondatori «abbiamo chiamato così la scuola perché i nostri studenti sono i Penny di oggi, spesso orfani lontani mille miglia dalle loro famiglie».

La diffusione

La primogenita scuola di Roma ha rappresentato il punto di partenza di un fenomeno che, qualche anno dopo, è diventato capillare in tutto il territorio italiano. Anche grazie all’interesse mediatico ottenuto a livello regionale e nazionale, sempre più volontari hanno mostrato interesse per la scuola rendendosi disponibili a portare avanti gli ideali di don Milani nella Penny Wirton di Roma e nelle altre sedi in Italia. Ad oggi risultano essere più di cinquanta le scuole che portano il nome, il marchio e lo stile Penny Wirton: sia nel Sud, che nel centro e nel Nord Italia e in Svizzera. A fronte dell’aumento di richieste di nuove aperture e della crescente risonanza ottenuta dalla scuola, il 21 marzo 2016 è nata la «Carta d’intesa» della Penny Wirton, ossia un documento composto da 22 articoli nel quale sono esplicitati tutti i principi basilari che ciascuna scuola, indipendentemente dal territorio di riferimento, deve inderogabilmente sottoscrivere e rispettare. Il risultato è che ogni scuola risulta essere indipendente e autonoma da un punto di vista gestionale e amministrativo, spesso anche appoggiandosi ad associazioni locali, ma tutte sono legate nelle finalità e nel modo di operare alla scuola Penny Wirton di Roma.

La Penny Wirton non è solo un luogo di apprendimento, ma è anche tanto altro: un presidio di accoglienza nel territorio, uno spazio privilegiato di scambio e relazioni tra individui, un laboratorio antropologico nel quale ciò che conta, prima di tutto, è quello che Affinati definisce «la qualità delle relazioni umane».

Non esistono classi, lezioni frontali e burocrazia. La Penny Wirton è sì una scuola di italiano, all’interno della quale ciò che si cerca di raggiungere è il miglioramento della scrittura, della lettura, dell’ascolto e dell’oralità, ma è anche un luogo in grado di rovesciare e stravolgere il concetto stesso di scuola. Alla Penny Wirton non si mettono in pratica programmi didattici predeterminati e non è prevista l’attribuzione del voto, considerato uno strumento che crea false disuguaglianze e, per certi versi, disincentivante. L’apprendimento dell’italiano parte dallo studente e dalla relazione umana intrapresa assieme a lui dall’insegnante, nel rispetto del suo vissuto, delle sue difficoltà e ambizioni.

I principi della scuola

Così come esplicitato all’articolo 1 della Carta d’intesa, risultano essere tre i principi cardine della scuola: la gratuità, l’apoliticità e l’aconfessionalità.

La Penny Wirton è prima di tutto una scuola totalmente gratuita: agli studenti non è richiesta alcuna iscrizione formale, né tantomeno una contribuzione economica durante tutto il corso. È la scuola stessa che fornisce i materiali didattici indispensabili allo svolgimento delle lezioni. Libri, quaderni, fogli, penne, matite, sono acquistati tramite il meccanismo dell’autofinanziamento diretto da parte dei volontari insegnanti o donazioni da soggetti esterni.

La scelta di partenza da parte di Affinati e Lenzi è stata quella di creare uno spazio che fuoriuscisse dalla logica retributiva del do ut des. Accanto del principio della gratuità, la Carta d’intesa affianca il concetto di «aconfessionalità» e «apoliticità». Anche laddove gli spazi siano messi a disposizione gratuitamente da parrocchie, la lezione è un momento di interazione laico indipendentemente dal luogo nel quale si realizza. In generale, la ricerca di uno spazio fisico gratuito all’interno del quale essere ospitate ha rappresentato e rappresenta per molte scuole Penny Wirton un ostacolo complesso da superare.

Oltre al carattere aconfessionale, la scuola si pone all’esterno di qualsiasi logica politica. Non vengono pubblicizzati partiti e non si fa pressione sull’amministrazione locale. L’idea di fondo è che la non appartenenza religiosa e politica, favorisca una accoglienza inclusiva e senza barriere, riducendo le differenze tra studenti e insegnanti.

La Penny Wirton è una risorsa per il territorio nel quale si realizza l’ideale dell’uguaglianza e dell’accoglienza senza discriminazioni: principi che, esternamente, possono essere strumentalizzati, ma che per loro natura non nascono con un colore politico o religioso.

Uno stile unico

Tra i tratti caratteristici più salienti della scuola vi è l’approccio didattico utilizzato. Alla Penny Wirton, in primo luogo, l’insegnamento non avviene all’interno di classi ma attraverso il rapporto «uno a uno» tra volontario e studente. Alla base vi è il riconoscimento dell’unicità e della diversità di ciascuna persona, non solo da un punto di vista umano, ma anche prettamente scolastico. Infatti proprio a partire dallo studente e dalla sua specifica conoscenza della lingua italiana viene effettuata la scelta degli argomenti da affrontare.

Se i numeri a disposizione lo consentono, compreso quello dei volontari, ciascuno studente svolge le ore di lezione con un insegnante di riferimento o all’interno di piccoli gruppi di lavoro, senza che questo escluda eventuali interazioni con altri allievi o volontari vicini. Si tratta di ambienti nei quali è prioritaria l’attenzione relazionale e didattica per ogni singolo allievo, che, allo stesso tempo, si realizza in uno spazio di vita collettivo e movimentato. In altre parole, individualizzazione e senso comunitario, ossia due movimenti spesso considerati contrapposti, trovano un loro spazio comune alimentandosi vicendevolmente. Da questo punto di vista un ruolo importante è rivestito dalla figura del coordinatore, che raramente lavora con un solo studente, ma funge da collante fra i vari gruppi di studio durante l’attività.

L’insegnamento, sempre secondo la Carta, «non parte da teorie universali o da categorie grammaticali ma dalle persone». Assumendo tale presupposto, le lezioni non rappresentano comunque mai un semplice luogo di confronto o intrattenimento tra soggetti ma, al contrario, un momento nel quale «è perseguito un rigoroso percorso didattico per l’uso e la conoscenza della lingua italiana che segue la progressione da semplice a difficile».

Il materiale didattico utilizzato è solitamente suddiviso in due categorie: da un lato vi sono i libri di testo, e dall’altro è fortemente incentivato l’uso di strumenti per la ludo didattica. I due manuali «Italiani anche noi» rappresentano i due strumenti più utilizzati nelle lezioni di ogni Penny Wirton in Italia. Entrambi sono stati redatti dai fondatori sulla base dell’osservazione degli immigrati nel corso dei primi anni di attività, e sono stati illustrati con disegni originali dalla pittrice Emma Lenzi.

Il percorso

Oltre all’utilizzo dei libri di testo, in molte scuole viene dato ampio risalto anche agli strumenti di ludo didattica. Si tratta di piccoli giochi tascabili, talvolta collegati direttamente ai libri di testo, che permettono un insegnamento più sciolto, dinamico, in grado di «aprire» e stimolare lo studente all’apprendimento.

Lo scopo è quello di aiutare le persone nel miglioramento della lingua, senza in alcun modo quantificare il progresso ottenuto o creare classificazioni o gerarchie tra gli allievi, tenuto conto delle ampie differenze che si riscontrano tra loro. Allo stesso modo non vengono considerate negativamente le assenze effettuate, in quanto «stimiamo che gli allievi Penny Wirton siano assenti solo per cause serie e attendibili, ad esempio lavoro, anche saltuario». Nonostante questo, a ciascuno studente deve essere garantita una «continuità didattica collettivamente curata».

Al fine di ovviare alle intermittenze di frequenza di allievi e insegnanti, ogni studente possiede una scheda personale, sulla quale il volontario del giorno segna la data e gli argomenti svolti. Tale strumento consente all’insegnante della volta successiva di conoscere il lavoro già realizzato e agganciarsi agli ultimi argomenti effettuati. Al termine del percorso, che non ha una data conclusiva prefissata, ma termina quando viene liberamente stabilito dallo studente, la scheda personale rappresenterà il programma didattico svolto durante tutto il corso delle lezioni, e può risultare utile nel conteggio delle ore laddove egli richieda un attestato di frequenza.

Da sottolineare che la Penny Wirton non rilascia diplomi di valore legale, né certificati di livello di italiano validi per il permesso di soggiorno, per i quali è necessario l’intervento di un Ente certificatore.

Insegnanti volontari

Come già scritto, la scuola Penny Wirton si avvale di soli insegnanti volontari, nessuno dei quali, coordinatori inclusi, è in alcun modo retribuito per il servizio garantito. Diverse possono essere le modalità e i motivi per i quali una persona decide di insegnare alla Penny Wirton e questo rende l’insieme di volontari un grande calderone di umanità fortemente differenziato, all’interno del quale, comunque, ci si riconosce nel grande ideale dell’aiuto gratuito.

C’è chi giunge alla Penny Wirton perché mosso da principi politici, chi per questioni etiche, chi per sentirsi utile e chi per provare qualcosa di nuovo. Il risultato è che nelle svariate sedi possono avvicendarsi insegnanti di età e con percorsi di vita molto diversi.

Tra i volontari possono esservi ex docenti, pensionati e non, con esperienze lavorative differenti da quella scolastica. In molte sedi una cospicua fetta è costituita da studenti universitari, ma anche giovani liceali che giungono attraverso lo strumento dello stage formativo nell’ambito dell’alternanza scuola lavoro.

Non è necessario che l’insegnante possieda qualifiche o diplomi specialistici, ma è importante che sia adeguato alla funzione: oltre ad assicurare un servizio gratuito è chiamato a garantire una certa continuità, e non un apporto solo occasionale, e a mettersi in relazione positiva sia con gli studenti che con i colleghi. In altre parole, deve essere un soggetto curioso, aperto alla conoscenza e allo scambio con l’altro e, anche in virtù della dinamicità e mutevolezza continua che caratterizza la scuola, deve rendersi interscambiabile, se necessario, con altri insegnanti.

Al fine di garantire il rapporto uno a uno, ciascuna scuola possiede, in genere, un numero di volontari insegnanti circa pari a quello degli studenti. Laddove ciò non fosse possibile, si cerca di predisporre piccoli gruppi di lavoro.

Le diverse Penny Wirton ricevono continuamente nuove richieste da parte di persone interessate a offrire il proprio servizio. A tal proposito la scuola di Roma predispone periodici momenti di formazione, coordinati e gestiti da Anna Luce Lenzi, sia per nuovi insegnanti che per volontari già attivi che necessitano di aggiornamento. Nelle altre scuole è la pratica sul campo lo strumento formativo prioritario utilizzato a fronte di nuovi arrivi. Generalmente, a tutti viene offerta l’opportunità di iniziare affiancando per alcune lezioni insegnanti più esperti e di consultare i materiali didattici presenti nelle diverse sedi.

Gli studenti

«La scuola – troviamo scritto nella Carta d’intesa – accoglie sempre e accoglie tutti lungo tutto il corso, fino all’ultimo giorno, anche per una volta sola» (Carta d’intesa). Le scuole Penny Wirton sono rivolte agli immigrati, chiunque essi siano. A differenza di altre realtà, si tratta di una scuola priva di criteri di accesso: indipendentemente dal genere, dall’età, dalla nazionalità, dalla situazione economica e dalla condizione di regolarità-irregolarità della sua presenza sul territorio italiano (che non viene richiesta), a nessuno è impedita l’accoglienza e la partecipazione gratuita ai corsi di italiano. Le uniche informazioni registrate rispetto agli allievi riguardano i dati anagrafici (nome, cognome e nazionalità) e il luogo o la struttura di residenza, laddove sia presente.

L’assenza di vincoli di accesso rende anche il gruppo di studenti un grande mosaico eterogeneo in continuo mutamento che varia a seconda del territorio di insediamento della scuola. Promiscuità, nel senso positivo del termine, e mescolanza sono le parole d’ordine che caratterizzano la vitalità di ciascuna di queste realtà. A popolare le Penny Wirton possono essere giovani, alcuni dei quali minori stranieri non accompagnati provenienti dai centri di accoglienza, o adulti, parte dei quali regolarmente insediati e integrati, altri in attesa dello status di rifugiato, altri ancora giunti tramite i ricongiungimenti familiari. Altri sono maggiorenni ospiti di centri di accoglienza.

In alcune sedi si registra un più ampio numero di donne, mentre in altre è preponderante la presenza maschile. Come già sottolineato, la composizione di genere, età e nazionalità è condizionata dal territorio di riferimento, oltre che dal periodo dell’anno. Anche i livelli di preliminare conoscenza della lingua possono, quindi, essere molto differenti. C’è chi è residente in Italia da diverso tempo, lavora e capisce l’italiano, chi è appena arrivato; chi conosce l’alfabeto latino e chi invece scrive da destra verso sinistra.

Spesso per i volontari è possibile trovarsi di fronte a persone non scolarizzate nel paese di origine, rispetto alle quali la scuola «dedica un’attenzione particolare e didatticamente accurata», come recita la Carta. La sfida che si pone in questi casi risulta estremamente complessa: si tratta non solo di insegnare a leggere e a scrivere, ma anche di farlo in una lingua diversa dalla loro. Per questo motivo, sulla base dell’osservazione degli analfabeti in lingua madre in dieci anni di attività, i fondatori hanno creato e divulgato delle linee guida che oggi rappresentano un importante strumento di supporto ai volontari delle varie sedi che si trovano a interfacciarsi con studenti non scolarizzati.

Come arrivano

Gli studenti possono venire a conoscenza della scuola in diversi modi. In primo luogo, ogni Penny Wirton, tra le altre cose, si occupa anche di pubblicizzare sul territorio i corsi tenuti. Da un lato è fortemente incentivato l’uso di piattaforme tecnologiche: ogni scuola, oltre ad avere uno spazio sul sito internet ufficiale della Penny Wirton, possiede e gestisce un profilo Facebook di facile consultazione, nel quale comunicare i giorni, gli orari di lezione e pubblicare foto delle attività svolte. Un’altra modalità è quella del volantinaggio: è utile affiggere volantini pubblicitari alle fermate degli autobus, nelle moschee e in tutti quei luoghi di interesse frequentati da immigrati. Fondamentale, infine, è il contatto tra la scuola e i servizi sociali territoriali, gli sportelli, le associazioni, le cooperative e tutti quei soggetti che nel territorio si occupano di stranieri e migrazione. Talvolta può essere lo stesso centro di accoglienza a indirizzare e accompagnare in prima persona i soggetti ospitati presso i locali della scuola.

Nonostante questo lavoro, così come esplicitato da molti coordinatori, la modalità più usuale attraverso la quale molti stranieri giungono a conoscenza della scuola è rappresentato dal passaparola informale che si sviluppa tra i connazionali.

In virtù del numero crescente di scuole Penny Wirton, il coordinamento fra loro è sempre più importante. Lo scambio di esperienze, testimonianze e informazioni è fondamentale.

Al fine di incentivare gli scambi tra le scuole, da giugno 2018 è stato indetto a Roma il primo convegno nazionale delle scuole Penny Wirton, al quale hanno partecipato rappresentanti di quasi tutte le sedi. I convegni si sono ripetuti tutti gli anni. A seguito dell’ultimo incontro, nel giugno 2023, è stato creato un secondo sito internet intitolato «I quaderni della Penny Wirton», un’ulteriore piattaforma di incontro nella quale condividere e scambiare storie di vita, testimonianze, notizie delle attività nei diversi territori, rafforzando l’unione e l’identità della grande famiglia delle scuole Penny Wirton.

Elisa Sartori

Alcuni numeri

Non è possibile fornire un dato complessivo delle presenze di immigrati e di volontari di tutte le scuole attive sul territorio italiano, tuttavia, per comprendere la portata del progetto, può essere rilevante il recente report della scuola di Roma.

Nel 2022 a Roma sono state erogate 3.100 lezioni individuali su 80 giorni di apertura, con una media di 40 studenti stranieri alla volta, raggiungendo 500 lezioni individuali al mese. Gli studenti stranieri frequentanti in modo continuativo o intermittente sono 340 provenienti da 50 paesi, in prevalenza Egitto, Somalia, Afghanistan, Ucraina, Bangladesh, Nigeria, Perù.

I volontari coinvolti sono 130 a cui si aggiungono 66 studenti delle superiori coinvolti in progetti di alternanza scuola lavoro.

Si allinea al trend descritto per numeri e flussi la scuola di Milano. A dicembre 2023 le scuole Penny Wirton attive erano 59.

E.S.

Una comunità che accoglie
L’esperienza Penny Wirton a Pinerolo (Torino)

Un gruppo di studenti di liceo restano colpiti dal racconto dei fondatori della scuola Penny Wirton. Chiedono ai propri professori di poter attivare un’esperienza simile tra le mura del loro istituto. Così nasce qualcosa di particolare.

L peculiarità della scuola Penny Wirton di Pinerolo è data dal fatto che essa è ospitata da un istituto scolastico statale. Un’iniziativa formativa per sua natura informale e destrutturata, posta dentro a un ambiente istituzionale strutturato e radicato nel tessuto locale. L’istituto scolastico diventa contenitore di un’esperienza formativa rivolta agli immigrati, avente come presupposto un’apertura e un’accoglienza non giudicanti senza forme di controllo. Il progetto ha preso avvio nella primavera del 2018 da un incontro con Eraldo Affinati che presentò ad alcune classi del liceo Porporato il suo romanzo di recente pubblicazione: «Tutti i nomi del mondo». Affinati condivise con il pubblico anche la sua esperienza come fondatore della scuola romana. Su proposta degli studenti stessi nell’anno scolastico 2018-2019 è stato, quindi, presentato al collegio docenti il progetto pilota della scuola di alfabetizzazione per migranti che sarebbe stato inserito nel piano dell’offerta formativa del liceo.

Chi la frequenta

Per quanto riguarda gli stranieri che frequentano la Penny Wirton di Pinerolo, attualmente l’8% dichiara uno stato di non alfabetizzazione nel paese di origine, il 20% un livello elementare o intermittente di istruzione, il 30% un livello intermedio, il 35% un livello medio alto, il 7% un livello di formazione universitaria. Il 20% di loro conosce solo la lingua madre, il 70% la lingua madre e una seconda lingua diversa dall’italiano e il 10% conosce tre lingue.

Per quanto riguarda la conoscenza della lingua italiana, la maggior parte di loro, circa il 70%, è inserita in un percorso regolare di studio, in quanto all’interno dei percorsi dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati): frequentano regolarmente i Cpia (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti) del territorio. Il 10% frequenta le scuole superiori, il 15% frequenta anche corsi regionali per la formazione professionale e il 10% richiede un aiuto per i corsi preparatori all’esame della patente di guida. Altri si avvalgono unicamente di questo servizio perché gli enti presso i quali sono in carico non sono ancora riusciti a inserirli in percorsi di formazione istituzionali.

L’età è molto varia: il 10% sono minorenni, il 40% si può comprendere in una fascia dai 18 ai 30 anni, il 30 % si colloca fra i 30 e i 45 anni, mentre il 20 % ha oltre i 45 anni, fino a un massimo di 60 circa.

Le iscrizioni sono aperte tutto l’anno, per cui è possibile, per chi ne faccia richiesta, iniziare subito in qualsiasi momento.

No all’assimilazione

La mia esperienza diretta di questi anni mi permette di affermare che nella scuola Penny Wirton del Liceo Porporato è assente ogni logica neo-assimilazionista. Questa prevede che la scolarizzazione sia sempre più una moneta di scambio richiesta al soggetto migrante: se egli svolge corsi di italiano e dimostra di aver raggiunto un livello sufficiente, allora è un soggetto «desiderabile» e quindi «assimilabile» nella società. Il tratto caratterizzante di questo approccio è l’idea che tutte le possibili differenze tra le persone sono riconducibili a un’unica struttura umana e che l’incontro con il diverso si risolve progressivamente e inevitabilmente con la sua adesione al modello culturale dominante.

In tale ottica l’assimilazione è considerata un processo organico, univoco, lineare, il cui peso poggia esclusivamente sui migranti. Sono infatti loro che si vedono costretti ad assimilarsi ai «nativi» assumendone gli abiti mentali e gli stili di vita allo scopo di farsi accettare, non essere percepiti come un pericolo per l’equilibrio della società ricevente e progredire nella scala sociale.

In opposizione a quest’orientamento unidirezionale, il principio fondante della scuola Penny Wirton è la valorizzazione delle risorse e della specificità delle persone. Non solo la scuola non rilascia certificati di livello validi per il permesso di soggiorno di lunga durata, ma si configura come un luogo informale nel quale è lo studente a scegliere se e in quale misura frequentare le lezioni. In altre parole, essa è un’opportunità, tra le altre, di sentirsi accolti, senza che vi siano divieti, obblighi di partecipazione o test che certifichino l’apprendimento della lingua.

In questa scuola, confermando gli insegnamenti di don Lorenzo Milani, non esiste e non è tollerato il dualismo «buono-cattivo» o «bravo-non bravo». Come a Barbiana, tutti gli allievi sono considerati, allo stesso tempo, uguali in umanità e diversi da un punto di vista scolastico. L’obiettivo non è quindi quello di livellare il gruppo di studenti a uno standard comune ma, al contrario, aiutare singolarmente gli individui a colmare delle lacune linguistiche, permettendo loro di destreggiarsi più efficacemente nel nuovo contesto di vita.

Cittadinanza attiva

Occorre sottolineare inoltre che, mentre «il modello di civic integration in declinazione italica che si è delineato negli ultimi anni interpella il soggetto, la sua prestazione, i suoi comportamenti, la sua responsabilità individuale, non la comunità migrante, né tanto meno la comunità di accoglienza» (Carbone, vedi bibliografia), al contrario, il progetto delle scuole Penny Wirton si mette nell’ottica di interpellare la comunità d’accoglienza affinché i suoi membri si lascino coinvolgere e partecipino ciascuno secondo le sue competenze e i suoi valori. Con questi presupposti la scuola Penny Wirton può diventare uno spazio in cui sviluppare il capitale relazionale degli studenti, in quanto, oltre a essere una scuola di italiano, può essere, e lo è nei fatti, un luogo nel quale lo studente instaura relazioni significative con altre persone sia connazionali, sia studenti di altre origini, sia volontari.

Seguendo gli sviluppi del progetto è risultata evidente l’attrattività della scuola Penny Wirton per gli immigrati, non solo a livello nazionale con un numero di scuole in aumento in medie e in grandi città, ma anche a livello territoriale con un crescente numero di utenti iscritti e di volontari.

Ascoltando le motivazioni di alcuni studenti frequentanti, sia in modo regolare, sia saltuario, emerge che tale attrattiva ha le sue radici nei principi fondanti espressi dalla Carta d’intesa: la gratuità, l’assenza di criteri di accesso, la libertà di frequenza concessa allo studente e l’insegnamento uno a uno con il volontario insegnante.

Un altro aspetto interessante riguarda la specificità della Penny Wirton di Pinerolo che è situata proprio all’interno di un liceo storico radicato nel tessuto cittadino. Si configura un paradosso interessante dal punto di vista sociologico: una scuola superiore, che rappresenta l’espressione istituzionale di un’organizzazione pubblica, contiene in sé una scuola che per sua natura si propone come informale, destrutturata, senza quegli elementi che caratterizzano l’idea stessa di percorso scolastico (le classi, le valutazioni, le certificazioni, l’apparato amministrativo, l’obbligo di frequenza). Il liceo offre non solo la disponibilità di locali e di strumenti didattici per la realizzazione di un progetto, ma ha integrato la scuola Penny Wirton nelle sue attività di arricchimento formativo, rendendo gli studenti del triennio attori fondamentali per la sussistenza e per l’evoluzione del progetto stesso. Le ore di volontariato degli studenti sono riconosciute come percorsi di Pcto (alternanza scuola lavoro), oppure come crediti scolastici. In alcuni casi la loro esperienza è stata oggetto di trattazione personale agli esami di stato, in altri è stata presentata in occasioni pubbliche, come concorsi scolastici, creando un affetto di disseminazione che ha consolidato di fatto questa realtà.

Alcuni studenti, dopo la conclusione del loro percorso liceale, hanno continuato la loro esperienza di volontariato creando un effetto di promozione sul territorio. Ai nostri studenti liceali si aggiungono poi altri soggetti impegnati nel volontariato e gli operatori dei servizi d’accoglienza del territorio, in contatto informale con la scuola Penny Wirton nella quotidianità.

Processi di inclusione

Tale osmosi fra le istituzioni e il privato sociale del territorio ha anche agevolato l’avvicinamento degli utenti alle risorse locali, contribuendo a sviluppare la loro socializzazione e connotando la scuola Penny Wirton come un luogo di insegnamento e di inclusione.

Gli studenti stranieri vedono nella scuola un’occasione per incrementare la propria rete di legami, non solo con altri studenti e con i volontari incontrati, ma anche con possibili interlocutori del territorio valicando i confini scolastici.

Come scrive Laura Bosio, direttrice della Penny Wirton di Milano, nel suo libro Una scuola senza muri: «[…] non è questione di essere caritatevoli, meno che mai eroici. Per tutti noi quello che facciamo è normale: si prova a dare una mano in un momento complesso, ci si schiera anche, e lo si fa in un modo possibilmente serio e leggero, c’è già tanta tragedia nel fondo. Forse il punto è aiutare gli altri a riconoscersi, mentre riconosciamo noi stessi. Dal basso, gomito a gomito intorno ad un tavolo, davanti ad un libro dove si impara l’Italiano».

Elisa Sartori

Incontri e sorrisi
Esperienze di giovani volontari della Penny Wirton

Una peculiarità della scuola di Pinerolo è quella di essere stata voluta prima di tutto dagli studenti. E alcuni di loro sono i primi volontari-insegnanti. Qui riportano storie vissute in presa diretta con dei quasi coetanei stranieri.

Alcuni studenti del triennio hanno partecipato a un progetto didattico presentando la loro esperienza di volontariato. Dopo aver studiato i flussi migratori e la storia delle migrazioni del nostro Paese, hanno realizzato un lavoro basato su interviste fatte ai migranti durante le ore di lezione della scuola Penny Wirton.

Alex

Alex (nome di fantasia) ci ha raccontato che uno degli aspetti che ama di più della vita è quello di impegnarsi in ciò che fa. In Egitto svolgeva addirittura due mestieri: il tassista per i turisti, e il commesso in un negozio di frutta e verdura. Alex ci ha quindi spiegato che ciò gli manca di più è proprio il lavoro.

Nonostante sia in Italia da poco tempo, e nonostante il periodo storico complesso a causa del post Covid-19 e delle guerre, è già riuscito a fare un colloquio di lavoro. Noi ci auguriamo che sia riuscito a trasmettere un’immagine positiva della sua persona volenterosa, disposta a mettersi in gioco e a trovare le risorse per vivere qui. Per lui, il suo Paese è molto diverso dall’Italia, non solo sul piano delle libertà concesse, ma anche nello stile di vita. A partire dal traffico costante, che in Egitto porta con sé il continuo rumore dei clacson. Lì non ci sono semafori, o comunque non vengono rispettati, e per attraversare la strada, in assenza di strisce pedonali, ci si può impiegare un’ora, e quando finalmente si riesce nell’intento, gli insulti degli automobilisti arrivano a valanga.

Sicuramente Alex abitava in una metropoli, infatti ci ha detto che ha trovato Torino più simile all’Egitto rispetto a Pinerolo, con uno stile di vita totalmente diverso da quello di un piccolo paese di campagna, che lui preferisce. Ama il cibo italiano, in particolare il caffè, bevanda comune e scontata per noi. Adora il profumo che emana la caffettiera pronta.

Predilige di gran lunga la tranquillità di un paese immerso nella natura, nei ritmi e nelle attività umane scandite dalla luce del sole: quando questo tramonta e giunge il buio, la vita si blocca, per ripartire il mattino successivo con l’alba.

Tutto ciò ci ha fatto riflettere su aspetti del luogo in cui viviamo che non avevamo considerato; ma soprattutto il profumo intenso, la serenità, il silenzio e la dolcezza che caratterizza Pinerolo. Ed è come se la conoscesse meglio lui di noi, non nel concreto o nella viabilità, ma nell’essenza. Il suo entusiasmo e la sua semplicità nella descrizione della nostra città ci hanno fatto riscoprire la sua bellezza.

Hanna

Poi c’è Hanna, una ragazza nigeriana di 23 anni che frequenta già da tre anni la Penny Wirton. Quando abbiamo fatto la prima lezione con lei, ci ha guardato subito con occhi timorosi e ci ha scrutato con prudenza. Fra un esercizio di italiano e l’altro ci ha raccontato la sua storia dal momento in cui è arrivata in Italia. Non se la sentiva ancora di parlare del viaggio dalla Nigeria, ma i suoi occhi, scavati e arrossati, parlavano per lei. Osservandoli, infatti, si poteva percepire un passato con numerose difficoltà: nello sguardo ha ancora impresse le immagini e le sofferenze del viaggio.

In situazioni difficili come quella di Hanna, e di molte altre come lei, nelle quali non si possiede alcuna stabilità economica e di relazioni, è difficile tenere aperto il varco della fiducia nel futuro.

La notte non riesce a dormire, non solo a causa del ricordo del viaggio, ma anche della vita che conduce ora, della quale è difficile parlare. Mentre ce la racconta assume una postura chiusa e le mani cercano di sfogare lo stress sulle maniche: le guarda e le tocca per farsi forza a raccontare.

Quella forza riesce a trovarla parlando di sua figlia: Hanna è giunta in Italia con la sua piccola, che oggi ha quattro anni e frequenta l’asilo. Questa madre ha ancora diverse difficoltà da affrontare per garantire un futuro migliore e sereno a sua figlia, ma è disposta a tutto, e sono ancora una volta i suoi occhi a dimostrarlo.

Quando ci fa notare che manca poco all’uscita della bimba da scuola, il suo sguardo, che fino a quel momento era diffidente e segnato dalla stanchezza, si illumina e allo stesso tempo accenna a un sorriso. È la sua bambina che la stimola a superare i molti ostacoli della vita, da quelli passati, come il viaggio dalla Nigeria all’Italia, al lungo cammino di inserimento nel nostro Paese.

All’inizio Hanna non era in grado di leggere e scrivere, era analfabeta anche nella sua lingua madre e ha confessato di provare vergogna per questo, i suoi tentativi di inserimento nei corsi Cpia sono stati fallimentari, ma anche grazie all’aiuto di questo insolito modo di essere accompagnata nello studio alla Penny Wirton, è riuscita a imparare l’italiano e oggi continua il suo percorso con impegno e determinazione. I pensieri e le speranze si sono fatte strada in mezzo alla difficoltà espressiva e ci ha suscitato una grande vicinanza.

Verso un’altra vita

Questi giovani si esercitano a casa segnandosi le parole che non capiscono alla televisione, traducendole in inglese con il traduttore, per poi scriverle e impararle in italiano. In questo modo riescono a comprendere alcuni termini e cercano di collegarli insieme, di intuire il discorso.

Gli sforzi che compiono sono enormi: dall’imparare l’italiano al raccontare il loro passato, cercare un lavoro, crescere dei figli e costruire un futuro.

Nei discorsi di queste persone abbiamo visto la sincerità e questa suscita in noi speranza nell’uomo del domani. Sembra una contraddizione poiché c’è chi vorrebbe che l’immigrazione fosse un fenomeno concluso, da lasciare nel passato, mentre noi, in quello stesso fenomeno, vediamo il futuro.

Questo è il risultato delle interviste realizzate: la nascita di un legame tra intervistatori e intervistati, uno scambio reciproco di racconti ed emozioni. Non siamo solo noi ad aiutare loro con i corsi di italiano, o con risorse economiche, non è dare senza ricevere, anche se questo è o dovrebbe essere lo scopo del donarsi agli altri. C’è una restituzione, uno scambio reciproco, un completamento. Noi siamo rimasti meravigliati dai loro racconti e loro dalla nostra gentilezza, o meglio dalla gentilezza di tutte quelle persone che aiutano nell’apprendimento dell’italiano con il progetto Penny Wirton. Ma anche dalle persone che li aiutano a trovare un lavoro o semplicemente con chi, incontrato per strada, ha dato disponibilità a ripetere una parola non compresa o ha sorriso loro. I sorrisi che alla fine ci accomunano, facendoci superare ogni differenza culturale e linguistica. Nel libro «Una scuola senza muri», Laura Bosio sottolinea che uno dei tratti della scuola Penny Wirton è che quasi tutti sorridono volentieri, nonostante ciò che hanno passato, perché questa esperienza rappresenta per loro un primo passo verso un’altra vita.

Studenti del Liceo Porporato di Pinerolo

 

«L’inclusione è nel Dna del nostro liceo»
La parola del preside Valter Careglio

Valter Careglio è il dirigente scolastico del Liceo Porporato di Pinerolo. Lo abbiamo incontrato.

Che valenza ha l’avere la scuola Penny Wirton come parte dell’offerta formativa del liceo?

«È un’esperienza di service learning, ovvero una prassi di attività di servizio al territorio che comporta un apprendimento da parte della comunità educante, quindi sia dei docenti sia degli studenti. Di fatto tu impari facendo. Rispetto a qualsiasi attività di tirocinio o di alternanza scuola lavoro, il service learning aggiunge un valore: il servizio agli altri e al territorio. La Penny Wirton è proprio questo, perché da una parte mette in gioco le competenze dei docenti e degli studenti che apprendono e si sperimentano, e dall’altra ha un forte valore rispetto ai temi del volontariato, del servizio civile, della cittadinanza.

Inoltre, aprirsi al territorio vuol dire fare cose con il territorio e per il territorio. Questa scuola è nata in sinergia con Diaconia valdese, Caritas, Ciss (Consorzio intercomunale servizi sociali), e altre realtà del pinerolese.

Un altro aspetto è la sua connotazione politica. Chi crede in questo progetto crede in una società multietnica, nel fatto che i valori e i diritti non dipendono dal fatto di nascere in un posto piuttosto che in un altro, ma tutti devono avere pari opportunità; e la lingua è uno scoglio importante da passare.

Non bisogna confondere il piano istituzionale con quello che è la scuola Penny Wirton. L’istituzione ha i Cpia, i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti. C’è anche l’alfabetizzazione degli stranieri, ma si occupano di persone in età scolastica. Taglia fuori persone di età maggiore che non sanno l’italiano, mentre la Penny Wirton va a coprire un segmento importante di cui istituzionalmente nessuno si occupa».

Chi sono i volontari della Penny Wirton al Liceo Porporato?

«Per gestire iniziative così occorrono delle professionalità. E i professori del liceo le possono mettere in campo. Inoltre la Penny Wirton ha avuto la forza di costruire un rapporto con gli ex docenti, personale della scuola che è in pensione e continua a mantenere un impegno. Abbiamo dato un senso a quelle professionalità che pure andando a fare qualcosa di completamente diverso, spendono la loro competenza. Un ex insegnante di lettere è diverso da qualcuno che si improvvisa.

Inoltre si prendono in carico degli studenti in alternanza scuola lavoro.

È un’attività fortemente strutturata e molto significativa. Ha una dimensione sociale, una dimensione politica. È un segmento di volontariato pieno di senso, ovviamente se si crede nell’integrazione».

Si tratta anche di una scelta di campo del dirigente.

«Ci siamo mossi in continuità con quanto fatto dalla precedente dirigente, Maria Teresa Ingicco.

Il Liceo Porporato ha al centro del suo Piano triennale di offerta formativa (il documento fondamentale di programmazione, ndr) il tema dell’inclusione, a tutto tondo. Vuol dire l’attenzione alle persone. Con la scuola di italiano ci occupiamo di persone che non vengono a scuola, ma è un’opportunità molto grande anche per i nostri studenti. Inoltre noi non abbiamo corsi serali, e questa esperienza costituisce un bagaglio importante se un giorno dovessimo realizzarli.

La nostra è una scuola che fino alle 18 è viva, ci sono molte attività e la Penny Wirton è una di queste».

Marco Bello

 

Bibliografia e sitografia

  • Eraldo Affinati, Anna L. Lenzi, Italiani anche noi. Il libro della scuola Penny Wirton, Il Margine, Trento 2011.
  • Eraldo Affinati, Anna L. Lenzi, Italiani anche noi. Il libro degli esercizi della scuola Penny Wirton, Il Margine, Trento 2015.
  • Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna 2011.
  • Vincenzo Carbone, La nozione di integrazione dei migranti forzati, tesi di Master di I livello, Università degli studi Roma tre, 2022.
  • Laura Bosio, Una scuola senza muri, Enrico Mariani editore, Milano 2019.
  • Fiorucci, R. Cima, La formazione come strumento di inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati, tesi di Master di I livello, Università degli studi Roma tre, 2022.
  • Sito ufficiale della Penny Wirton: www.scuolapennywirton.it
  • Sito «I quaderni della Penny Wirton»: www.iquadernidellapennywirton.it

Hanno firmato il dossier:

  • Elisa Sartori
    Insegnante di italiano, latino, storia a geografia, attualmente al Liceo Porporato di Pinerolo. Come educatrice, a Torino, si è occupata di minori in condizioni di disagio, di progettazione sociale inclusiva e di percorsi di sostegno per genitori e minori in comunità. Questo dossier è tratto dalla sua tesi di master di primo livello in «Accoglienza e inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati», Università degli studi Roma tre.
  • Si ringraziano
    Valter Careglio, dirigente del Liceo Porporato di Pinerolo, e Joram Gabbio, vicepreside, per i testi degli studenti.
  • a cura di Marco Bello
    giornalista, direttore editoriale MC.

 




Senegal. Le elezioni che sfuggono

 

La nuova data del primo turno delle elezioni presidenziali in Senegal è stata fissata per il 2 giugno, anche se si aspetta la firma del decreto da parte del presidente Macky Sall. Dopo il Ramadan (10 marzo – 8 aprile), e prima della stagione delle piogge. Ma il mandato del presidente scade il 2 aprile, per cui occorrerà un periodo di interim.

Il presidente aveva rimandato sine die le elezioni previste per il 25 febbraio, ma il Consiglio costituzionale aveva invalidato il decreto. Fatto sta che le elezioni non si sono tenute, per ora. La gente, però, è scesa in piazza per reclamarle.
Il Senegal è uno dei pochi paesi saheliani che aveva ancora mantenuto una certa stabilità e un approccio democratico, ma gli ultimi segnali non sono rassicuranti (ne avevamo parlato qui).
Il tentativo di Sall di modificare la Costituzione per potersi candidare per la terza volta consecutiva, è fallito a causa delle proteste di piazza.
Così il presidente ha cercato di escludere dalla competizione gli oppositori più validi, tra tutto Ousmane Sonko, attualmente in prigione con una condanna a due anni, e di mandare avanti il suo candidato Amadou Ba, l’attuale premier.
Intanto la società civile, con il coordinamento Aar sunu élection (Proteggiamo le nostre elezioni), ha indetto una giornata di sciopero generale mercoledì 28 febbraio, per fare pressioni affinché la consultazione elettorale non sia ulteriormente rimandata.
Nel frattempo, il presidente Macky Sall ha realizzato quello che ha chiamato «Dialoghi nazionali», un incontro con le parti, ovvero società civile, partiti politici, leader religiosi, sindacati e patronato (ma molte organizzazioni e candidati già validati non hanno partecipato), per la ridefinizione del processo elettorale. All’apertura dei lavori, il 27 febbraio, Sall ha annunciato un progetto di legge di amnistia per tutti i fatti accaduti durante le manifestazioni a fini politici tra il 2021 e 2024. Questo potrebbe rimettere in campo Sonko e altri candidati esclusi. Anche Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade (2000-2012), escluso dalle liste, potrebbe essere ripescato.
Inoltre, quindici dei diciannove candidati validi, hanno depositato un ricorso al Consiglio costituzionale chiedendo che le elezioni si tengano prima del 2 aprile.

Marco Bello




Haiti. Contro il governo, contro le gang

 

Haiti vive lo stato di «peyi lòk» (paese bloccato) da metà gennaio, quando le manifestazioni popolari scoppiate in diverse città hanno bloccato tutte le attività. Dalle scuole, alla sanità, ai trasporti e le attività commerciali. La popolazione è scesa in piazza per chiedere che il primo ministro de facto Ariel Henry, faccia un passo indietro.

Henry aveva preso il potere, grazie all’appoggio degli Stati Uniti, il 20 luglio 2021, pochi giorni dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moise. Il suo governo – de facto perché non rispetta le procedure costituzionali, in quanto le elezioni non si tengono da diversi anni – non è riuscito a dare risposte dal punto di vista della sicurezza. I gruppi armati (chiamati in creolo gang) hanno preso il controllo gran parte della capitale Port-au-Prince, di diverse città e delle principali vie di comunicazione del Paese. Le guerre tra gang nei quartieri, inoltre, hanno causato centinaia di morti e circa 313.000 sfollati. Si tratta di cittadini costretti a lasciare i propri quartieri, perché diventati insicuri o perché obbligati dai banditi. Durante il solo 2023 circa 8.400 persone son state uccise, ferite o rapite, secondo dati del Binh (Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti). Sempre dati Onu indicano un aumento di assassinii, con circa 5mila persone uccise, mentre i rapimenti sono quasi raddoppiati rispetto all’anno precedente, portandosi a 2.490.

Un accordo del 21 dicembre 2022, chiamato Consenso nazionale per la transizione, firmato da alcune parti in causa (partiti e società civile), prevedeva che Henry lasciasse il potere il 7 febbraio, data simbolo nella storia haitiana (giorno della cacciata di Jean-Claude Duvalier nel 1986). Non essendoci nessun progresso o segnale di dimissioni la gente è scesa in piazza. Ma le agitazioni popolari sono degenerate in violenza. Strade bloccate con pneumatici incendiati e pietre, saccheggi e incendi, in diverse città. La polizia ha represso le manifestazioni con violenza e lacrimogeni, causando alcuni morti e diversi feriti.

L’8 febbraio, il primo ministro Henry ha dichiarato che il suo scopo è portare il paese ad elezioni, che però non si possono organizzare in una situazione come quella attuale. Non ha quindi senso «sostituire una transizione con un un’altra transizione» e per questo motivo è deciso a non lasciare.

Pneumatici incendiati per bloccare le strade a Port-au-Prince. Foto AlterPresse.

In questo contesto, il progetto di Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas) guidata dal Kenya, approvato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu del 2 ottobre 23, avrebbe dovuto portare ad Haiti un migliaio di poliziotti keniani e altrettanti di altri paesi disponibili già il mese scorso. Missione con lo scopo di appoggiare la polizia haitiana a riportare la sicurezza. Ma il 26 gennaio scorso la Corte suprema del Kenya ha dichiarato incostituzionale la decisione di dislocare ufficiali di polizia al di fuori dei confini nazionali. Mentre il presidente del Kenya, William Ruto si dice ottimista, di fatto l’impasse sullo spiegamento della Mmas è totale.

L’8 febbraio l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, Ocha, ha espresso la sua preoccupazione per la chiusura di oltre mille scuole, l’aumento dei prezzi di generi alimentari di base a causa del blocco del commercio, e l’impossibilità del lavoro di assistenza umanitaria agli sfollati. L’organizzazione ha lanciato un allarme sul rischio di una crisi alimentare sempre più ampia.

Nella stessa data, in una nota, la Conferenza episcopale di Haiti ha lanciato un chiaro appello per «mettere fine alla sofferenza del popolo, la cui volontà si è espressa su tutto il territorio, in particolare il 7 febbraio. Il sangue, le lacrime sono colate attraverso assassinii, rapimenti, stupri perpetrati nel corso degli ultimi tre anni. Ne abbiamo abbastanza! […]».

E rivolgendosi direttamente al primo ministro: «Testimoni della miseria e della sofferenza dei nostri concittadini nei dieci dipartimenti del paese, noi vescovi della Ceh lanciamo un appello vigoroso al primo ministro, Ariel Henry, affinché si renda conto della gravità della situazione attuale e prenda una decisione saggia per il bene di tutta la nazione che è seriamente minacciata nelle sue stesse fondamenta». Una richiesta ad Henry di passare la mano.

Marco Bello




Contro la tratta di persone

Si è tenuta ieri, 8 febbraio, la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone, alla sua decima edizione dopo essere stata indetta da Papa Francesco nel 2015.

«Aleksandr proveniva da una città dell’Europa orientale – viene raccontato nel Global Report on Trafficking in Persons 2022, pubblicato dall’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime, l’ufficio Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) -. La morte della moglie, il suo recente rilascio dal carcere e la disoccupazione lo avevano spinto a recarsi nella capitale in cerca di lavoro. È stato avvicinato da un uomo in una stazione ferroviaria, dopo che gli erano stati rubati i documenti e il denaro. L’uomo gli ha offerto un pasto e ha ascoltato la sua storia. Dopo aver mangiato, Aleksandr si è sentito disorientato, e si è accorto che nel suo cibo erano stati messi dei sedativi. È stato trasportato, privo di sensi, in auto in una regione lontana con altri tre cui era stato promesso un lavoro. I trafficanti ricevono per ogni persona trafficata circa 200-250 dollari Usa.
All’arrivo, ad Aleksandr è stato detto che doveva pagare il reclutatore per il trasporto e, non avendo soldi, la sua unica opzione era lavorare. Dopo un mese senza paga, gli è stato detto che aveva accumulato altro debito per il cibo e le sigarette.
Aleksandr non è mai riuscito a saldare il suo debito ed è stato sfruttato per cinque anni durante i quali ha tentato di scappare diverse volte senza successo ed è stato rivenduto diverse volte per svolgere varie forme di lavoro forzato, dalla produzione di mattoni alla cura del bestiame. Ha lavorato per turni di 16 ore, vivendo in pessime condizioni, subendo violenze, privazione del sonno e malnutrizione.
Durante la sua ultima fuga, ha evitato le strade grandi e si è spostato di notte. Una notte è scivolato in uno stagno procurandosi un grave infortunio alle gambe. È strisciato fino a una stazione, dove alcuni sconosciuti hanno chiamato un’ambulanza. Entrambe le sue gambe gli sono state amputate. Una Ong lo ha aiutato a tornare a casa, ma non è sopravvissuto alle complicazioni post-operatorie ed è morto poco dopo».

I dati della tratta

Secondo gli ultimi dati disponibili, le vittime accertate di traffico di esseri umani a livello mondiale nel 2020 sono state 53.800 in 141 paesi. Un dato che mostra solo la punta di un iceberg che coinvolge diversi milioni di persone: il Global Report on Trafficking in Persons 2022 conta, infatti, solo i casi accertati e registrati di un fenomeno difficile da quantificare (le stime dell’Organizzazione mondiale del lavoro, ad esempio, contano circa 50 milioni le persone ridotte in stato di schiavitù nel mondo).

Per quanto possano essere limitati, i dati diffusi dall’Unodc offrono comunque un quadro che aiuta a capire il fenomeno: delle vittime registrate, il 42% erano donne, il 23% uomini, il 18% ragazze e bambine, il 17% ragazzi e bambini. I motivi del loro essere trafficati sono stati soprattutto il lavoro forzato (38,8%), lo sfruttamento sessuale (il 38,7%) e le attività criminali forzate (il 10,2%). Tra le altre forme di sfruttamento, anche i matrimoni forzati (0,9%), l’accattonaggio (0,7%), le adozioni illegali (0,3%) e la rimozione di organi (0,2%).
I trafficanti prendono di mira i più vulnerabili: donne, bambini e uomini privi di opportunità, protezione sociale e altro sostegno, coloro che, in ogni parte del mondo, fuggono da conflitti o disastri ambientali. Lo sfruttamento può avvenire nel paese d’origine della vittima, durante la migrazione o in un paese straniero.
Secondo il report, le ragazze e le donne hanno una probabilità di subire violenze, anche estreme, tre volte superiore rispetto ai ragazzi e agli uomini; i bambini in generale hanno il doppio delle probabilità di subire violenza rispetto agli adulti.

Le giornate internazionali

La tratta di esseri umani è stata definita nel 2000 nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale organizzato, nel Protocollo addizionale sulla tratta: «La “tratta di persone” indica il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o l’accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità, dando oppure ricevendo somme di denaro o benefici al fine di ottenere il consenso di un soggetto che ha il controllo su un’altra persona, per fini di sfruttamento. Per sfruttamento si intende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, lavoro o servizi forzati, la schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, l’asservimento o l’espianto di organi».
Mentre la giornata internazionale contro la tratta, istituita dall’Onu nel 2013, si celebra il 30 luglio, la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone è stata istituita da papa Francesco nel 2015, e si celebra l’8 febbraio, memoria liturgica di santa Giuseppina Bakhita, la suora, nata in Sudan nel 1869 e morta in provincia di Vicenza nel 1947, che aveva vissuto da vittima l’esperienza della tratta.
Nell’ultimo Angelus del 4 febbraio scorso, papa Francesco ha detto: «Anche oggi tanti fratelli e sorelle vengono ingannati con false promesse e poi sottoposti a sfruttamenti e abusi. Uniamoci tutti per contrastare il drammatico fenomeno globale della tratta di persone umane».

Luca Lorusso

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Burkina Faso. Le stragi della giunta

 

«L’esercito del Burkina Faso ha utilizzato armi sofisticate e di precisione per sparare su assembramenti di civili. Tra agosto e novembre scorsi, in tre raid eseguiti da droni forniti dalla Turchia, sono stati attaccati due mercati e un funerale, con il risultato di oltre 60 civili morti e decine di feriti». La denuncia, ben documentata e verificata è di Human rights watch (Hrw), l’organizzazione per la difesa dei diritti umani con base a New York.

Con un rapporto uscito il 25 gennaio, Hrw descrive i particolari di questi eventi, accaduti il 3 agosto a Bouro (attacco al mercato settimanale di zona frequentato da centinaia di persone), il 21 settembre a Bidi (missili su un funerale) e il 18 novembre nei pressi di Boulkuessi, villaggio del Mali vicino alla frontiera del Burkina (mercato di zona). Hrw ha condotto inchieste basandosi su testimonianze di persone presenti, foto e video inviati dai siti degli attacchi, foto satellitari. I testimoni raccontano di decine di corpi straziati dopo la caduta dei missili. Queste aree, tutte nel Nord del Paese, sono controllate da gruppi armati jihadisti del Gsim (Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani), legato ad Al Qaeda, i cui uomini si spostano normalmente in moto. Alcuni di loro erano presenti nei mercati, e hanno poi organizzato i primi soccorsi.

Hrw insiste sul fatto che: «L’uso di droni con bombe ad alta precisione a guida laser, fa pensare che i due mercati e il funerale fossero gli obiettivi prescelti».

Quindi: «Gli attacchi […] hanno violato le leggi di guerra che proibiscono operazioni che non fanno distinzione tra obiettivi civili e militari, e costituiscono dei crimini di guerra apparenti». L’organizzazione chiede quindi al governo del Burkina Faso di operare inchieste indipendenti, imparziali e trasparenti per ognuno dei casi, portare in tribunale i responsabili e indennizzare le vittime.

La propaganda della giunta militare, sui media controllati, descrive questi eventi, come attacchi con i droni a forze jihadiste, senza alcuna menzione alle vittime civili.

Una guerra che continua

Il governo putschista di Ibrahim Traoré è al potere dal 30 settembre 2022, in seguito a un golpe ai danni della precedente giunta militare, al potere dal 24 gennaio dello stesso anno.

La guerra in corso in Burkina Faso tra esercito e gruppi armati è iniziata nel 2016 dopo i primi attacchi dei miliziani jihadisti. Nell’ultimo periodo Hrw ha documentato gravi abusi perpetrati dalle forze di sicurezza e dalle milizie pro governative. Si tratta di esecuzioni sommarie, tortura e sparizioni forzate. I gruppi islamisti sono pure responsabili di distruzioni, saccheggi, esecuzioni e rapimenti. Secondo l’Africa Center for strategic studies, la violenza e l’instabilità sono aumentate dopo i due colpi di stato del 2022.

All’inizio, la narrazione antifrancese e anticolonialista in generale, aveva fatto accogliere favorevolmente il golpe da larghe fasce di popolazione, soprattutto giovane.

Sparizioni politiche

Oggi, rapimenti di uomini politici, alti graduati dell’esercito o di chiunque abbia espresso dissenso nei confronti della giunta guidata da Ibrahim Traoré, sono all’ordine del giorno.

L’ultimo, in ordine di tempo, è avvenuto la sera del 24 gennaio, quando l’avvocato Guy Hervé Kam (già portavoce del gruppo Le balais citoyen e attuale coordinatore del movimento politico Sens), è stato fermato e fatto sparire da uomini senza identificazioni, al suo arrivo all’aeroporto di Ouagadougou. L’avvocato Kam aveva criticato, in una intervista al quotidiano burkinabè Le Pays, la mancanza di legalità nel paese.

Il presidente dell’Ordine degli avvocati, dopo una rapida indagine, ha scoperto che Kam è detenuto nei locali della polizia della capitale. Ha quindi protestato tramite un comunicato ufficiale, mentre una petizione per la liberazione dell’attivista è stata lanciata.

Un cittadino burkinabè ci ha dato la sua visione sulla situazione attuale: «Tutti vivono nella paura. Ma potrebbe finire male, ovvero del sangue potrebbe scorrere. La popolazione inizia a essere esausta e vuole liberarsi. Non si può più dire nulla. Ad esempio sul costo della vita: tutto aumenta senza ragione ma il primo ministro proibisce che lo si dica. Stiamo anche contribuendo allo sforzo di guerra: a tutti è prelevato l’1% del salario, a partire dal primo gennaio».

Oltre a questo, il 28 gennaio, i governi di Burkina Faso, Mali e Niger hanno dichiarato di uscire dall’organizzazione economica regionale, la Cedeao, il che comporterà problematiche di tipo doganale, di transito di merci e persone. Per questo, per tre paesi, senza sbocco sul mare, che si devono appoggiare ai paesi costieri per qualsiasi tipo di commercio, la decisione potrebbe avere un effetto boomerang.

Marco Bello