Mondo. Morire di parto nel Sud globale

 

Tra il 2000 e il 2023 la mortalità materna è diminuita del 40% a livello mondiale.
Una buona notizia che, però, va tenuta insieme a un’altra: nel 2023 le donne che hanno perso la vita per cause legate alla gravidanza e al parto sono state 260mila. Il tasso di mortalità registrato (197 decessi ogni 100mila nati vivi) è ancora troppo alto per raggiungere l’obiettivo stabilito dall’Agenda 2030 (70 ogni 100mila).
Infine, anche tramite i dati sulla mortalità materna, si può certificare il divario che divide i paesi ricchi da quelli poveri. Due decessi su tre, infatti, sono avvenuti in Paesi fragili o colpiti da conflitti, il 70% in Africa subsahariana.

 

«Non si dimentica mai l’esperienza di quando una donna ti sta scivolando via tra le mani e sai che è troppo tardi», dice all’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) la dottoressa Hadiza Galadanci, docente di ostetricia e ginecologia all’Università Bayero di Kano, in Nigeria.
Parla di una donna che muore di emorragia mentre partorisce un bambino. Muore, cioè, a causa di una complicazione del parto che è frequente, ma, quando affrontata in modo adeguato, non mortale.
Tuttavia, i decessi per emorragia rappresentano il 27% dei casi di mortalità materna, e avvengono quasi tutti in Africa subsahariana, dove persistono numerose sfide, tra cui la mancanza di accesso all’assistenza prenatale, ad assistenti al parto qualificati, a farmaci e a strutture sanitarie.

Nel 2023 sono state 260mila le donne che nel mondo hanno perso la vita per cause legate alla gravidanza e al parto, un tasso di mortalità pari a 197 ogni 100mila nati vivi, troppo alto per raggiungere nel 2030 l’obiettivo di 70 ogni 100mila stabilito dall’Agenda 2030.
Il 92% di tutti i decessi si sono verificati nei Paesi a basso e medio reddito, e la maggior parte di essi si sarebbero potuti prevenire. Il 70% del totale è avvenuto in Africa subsahariana.

Il Paese della dottoressa Galadanci, la Nigeria, è stato nel 2023 il Paese «peggiore» nel quale diventare madre. Il tasso di mortalità materna e il numero assoluto di decessi sono stati i più alti al mondo (993 ogni 100mila nati vivi: circa 75mila donne, 205 ogni giorno).

Dopo la Nigeria, il tasso più alto si è registrato in Ciad (748, per 6mila decessi), poi in Sud Sudan e in Centrafrica (entrambi con un tasso di 692, per 2.300 e 1.700 decessi).
Il primo paese non africano per tasso era l’Afghanistan, con 521 donne morte ogni 100mila nati vivi. Il primo per numeri assoluti era, invece, l’India, con 19mila decessi (e un tasso, inferiore alla media mondiale, pari a 80).

Per fare un confronto: in Italia i decessi per cause correlate alla gravidanza e al parto sono stati 25 nel 2023, per un tasso pari a 6 ogni 100mila nati vivi.

Il nuovo rapporto delle Nazioni Unite, Trends in maternal mortality, lanciato il 7 aprile in occasione della Giornata mondiale della salute, mette sul piatto questi dati.

Lo fa sottolineando che, grazie al miglioramento dell’accesso ai servizi sanitari essenziali in molti Paesi, tra il 2000 e il 2023 il tasso di mortalità materna è diminuito del 40%. Ma lo fa soprattutto denunciando la riduzione graduale dei fondi globali che hanno fatto registrare un notevole rallentamento nei progressi dal 2016 in poi, e che, secondo Unicef Italia, anche alla luce dei recenti tagli agli aiuti, «minacciano i fragili progressi nel porre fine alle morti materne».

La Giornata mondiale della salute ha dato il via a una campagna annuale intitolata «Inizi sani, futuri di speranza», per spronare i governi e la comunità sanitaria a intensificare gli sforzi per porre fine alle morti materne e neonatali prevenibili, e a dare priorità alla salute e al benessere a lungo termine delle donne.

Leggendo il rapporto Onu sono molti i dati interessanti che offrono un’immagine plastica delle disuguaglianze tra paesi ad alto reddito e quelli a basso reddito, e tra quelli con istituzioni stabili, e quelli coinvolti in conflitti di vario genere.

«Tra il 2000 e il 2023 – si legge sul sito dell’Organizzazione mondiale della sanità -, l’Europa orientale e l’Asia meridionale hanno ottenuto la maggiore riduzione complessiva del tasso di mortalità materna: un calo, rispettivamente, del 75% (da 38 a 9) e del 71% (da 405 a 117). […] La maggiore riduzione del rischio di mortalità materna durante questo periodo si è verificata nella regione dell’Asia centrale e meridionale, con un calo dell’83%, da 1 donna su 71 nel 2000 a 1 su 410 nel 2023. […].
L’elevato numero di morti materne in alcune aree del mondo riflette le disuguaglianze nell’accesso a servizi sanitari di qualità ed evidenzia il divario tra ricchi e poveri. Nel 2023, il tasso di mortalità materna nei Paesi a basso reddito era di 346 su 100mila nati vivi, contro 10 su 100mila nati vivi nei Paesi ad alto reddito.

Nel 2023, 37 Paesi sono stati classificati come in conflitto o in fragilità istituzionale/sociale, e rappresentavano il 61% delle morti materne globali, nonostante rappresentassero solo il 25% dei nati vivi.
Il tasso di mortalità materna è significativamente più alto nelle aree colpite da conflitti (504 decessi ogni 100mila nati vivi) rispetto ai contesti fragili (368) e ai contesti non in conflitto né fragili (99)».

Le donne nei Paesi a basso reddito hanno un rischio di mortalità materna più elevato: 1 su 66 contro 1 su 7. 933 nei Paesi ad alto reddito. «Le donne povere nelle aree remote – prosegue l’Oms – hanno meno probabilità di ricevere un’assistenza sanitaria adeguata. Questo è particolarmente vero per le regioni a basso reddito con un numero troppo piccolo di operatori sanitari qualificati […]. Gli ultimi dati disponibili suggeriscono che, nella maggior parte dei Paesi ad alto e medio reddito, circa il 99% di tutte le nascite beneficia della presenza di un’ostetrica, un medico o un’infermiera qualificata, mentre solo il 73% nei Paesi a basso reddito, e l’84% in quelli a reddito medio-basso».

La maggior parte delle morti materne è prevenibile, poiché le soluzioni sanitarie sono ben note. La salute materna e quella del neonato sono strettamente collegate. Per quanto riguarda le morti neonatali, si stima che ogni anno siano oltre 2 milioni i bambini che muoiono nel primo mese di vita, e circa altri 2 milioni che nascono morti. Per questo «è importante – dice l’Oms – che tutti i parti siano assistiti da operatori sanitari qualificati, poiché una gestione e un trattamento tempestivi possono fare la differenza tra la vita e la morte delle donne e dei neonati».

«Nel contesto degli Obiettivi di sviluppo sostenibile – conclude l’Oms -, i Paesi si sono uniti sull’obiettivo di accelerare il declino della mortalità materna entro il 2030. […] “ridurre il tasso di mortalità materna globale a meno di 70 per 100mila nascite […]”. Il tasso globale nel 2023 era di 197 per 100mila nati vivi […]. Tuttavia, le conoscenze scientifiche e mediche sono disponibili per prevenire la maggior parte delle morti. […] è il momento di intensificare gli sforzi coordinati e di mobilitare e rinvigorire gli impegni a livello globale, regionale, nazionale e comunitario […]».

Luca Lorusso




Rwanda-Burundi. Tensioni alle stelle

 

A fine marzo, in un’intervista alla «Bbc», il presidente del Burundi, Evariste Ndayishimiye, ha citato «report credibili d’intelligence» che lasciavano presagire un possibile piano d’attacco del Rwanda nei confronti del suo Paese.

Già qualche settimana prima, Ndayishimiye aveva detto che Kigali stava «annettendo parti di Paesi vicini». Si riferiva all’espansione del Movimento del 23 marzo (M23) nella Repubblica democratica del Congo (Rdc). Infatti, forte del sostegno economico e militare rwandese, l’M23 sta conquistando ampie parti di Nord e Sud Kivu. «Se la comunità internazionale non interverrà – ha sottolineato Ndayishimiye – presto il Rwanda attaccherà anche il Burundi». Kigali, dal canto suo, si è detta «sorpresa» dalle parole del presidente burundese.

Relazioni complesse
Tuttavia, non è una novità che le relazioni tra Rwanda e Burundi siano tese. Nelle ultime settimane poi, complice l’escalation di violenza nell’Est della Rdc, l’ostilità tra i due vicini – che condividono profondi legami storici e culturali – si è intensificata.
Molto ruota attorno ai conflitti congolesi e alla porosità dei confini. Nelle province orientali della Rdc, infatti, operano diversi gruppi armati, tra cui movimenti che vogliono rovesciare i governi di Rwanda, Uganda e Burundi. Così, spesso, questi Paesi si accusano a vicenda di sostenere gruppi rivali con l’obiettivo di destabilizzare i rispettivi regimi.
Ad esempio, per il Burundi, dietro al Red-Tabara (che dal Sud Kivu cerca di deporre Ndayishimiye) c’è il sostegno del Rwanda. Mentre Kigali ritiene che il Burundi appoggi le Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (formate da alcuni responsabili del genocidio del 1994 rifugiatisi nella Rdc).
Accuse reciproche che, in alcuni casi, sono sfociate in tensioni politiche e rotture diplomatiche. A inizio 2024, dopo alcuni attacchi del Red-Tabara lungo il confine congo-burundese, Ndayishimiye ha denunciato il supporto economico e militare del Rwanda al movimento (accuse tra l’altro dimostrate da report informali dell’Onu, come avvenuto anche con l’M23). Di fronte alla smentita di Kigali, il governo burundese ha espulso alcuni diplomatici rwandesi e chiuso il confine tra i due Paesi.
Un qualcosa di simile si era già verificato nel 2015: dopo un tentativo di colpo di stato (fallito) ai suoi danni, l’allora presidente burundese Pierre Nkurunziza aveva accusato il Rwanda di aver reclutato, addestrato ed equipaggiato i golpisti (sospetti ancora una volta confermati dall’Onu) e aveva chiuso il confine tra i due Paesi. Il passaggio era stato riaperto solo sette anni dopo, nel 2022.

Tensioni crescenti
Negli ultimi mesi, le tensioni sono cresciute. Infatti, dietro all’M23 – che ha dichiarato di voler arrivare a Kinshasa – c’è il Rwanda. È sempre più evidente che, attraverso il gruppo armato, Kigali sta tentando di estendere la propria influenza sull’intera Rdc, attraente per la posizione geopolitica e la ricchezza di risorse. D’altronde, già durante la Prima guerra del Congo (1996-1997) il Rwanda aveva sostenuto l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo di Laurent-Désiré Kabila, arrivando a Kinshasa.

Il Burundi, invece, ha condannato l’avanzata dell’M23 e il supporto rwandese. Sta anche continuando a sostenere militarmente il governo congolese, nonostante il ritiro di parte dei suoi 12mila soldati (erano presenti nella Rdc da fine 2021 a fianco dell’esercito della Rdc per combattere il Red-Tabara e altri gruppi attivi nel Sud Kivu).
Attualmente, i militari burundesi si concentrano nei pressi di Uvira, città strategica sulle sponde del lago Tanganyika, a pochi chilometri dalla capitale economica del Burundi, Bujumbura. L’obiettivo è creare una zona cuscinetto al confine congo-burundese per impedire ai militari rwandesi e all’M23 di arrivare a minacciare il Burundi.
Ma – nonostante a febbraio i diplomatici di Rwanda e Burundi avessero stabilito che l’M23 non avrebbe occupato Uvira – il movimento è sempre più vicino alla città. E così Ndayishimiye ha sottolineato la possibilità che Kigali voglia attaccare anche il suo Paese.

Crisi umanitaria
Il tutto nel contesto di un’enorme crisi umanitaria. I flussi di rifugiati crescono di giorno in giorno: secondo l’Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati), nella Rdc ci sono 7,3 milioni di sfollati interni (il numero più elevato di sempre). Mentre i congolesi che, nei primi tre mesi del 2025, hanno cercato rifugio in Paesi vicini sono almeno 100mila.
Di questi, 70mila si sono riversati in Burundi, impattando su un sistema di accoglienza già fragile. Infatti, il World food programme (programma di assistenza alimentare dell’Onu) ha tagliato le razioni alimentari individuali del 50-75% per raggiungere il maggior numero possibile di sfollati.
Dunque, l’avanzata dell’M23 e del Rwanda non sta solo creando il rischio concreto di un’escalation regionale, ma anche aggravando una situazione umanitaria già estremamente fragile.

Aurora Guainazzi




Namibia. La prima presidente donna

 

Venerdì 21 marzo è stata una giornata storica per la Namibia e il continente africano. Netumbo Nandi-Ndaitwah ha giurato come nuova presidente del Paese. È la seconda donna africana (dopo Ellen Johnson Sirleaf in Liberia) a vincere le elezioni per la massima carica del proprio Stato (mentre sono diverse altre le donne elette dal Parlamento o diventate presidenti dopo eventi come la morte e le dimissioni dei leader originariamente eletti).

Popolarmente chiamata «Nnn», Nandi-Ndaitwah è una figura storica della South west african people’s organisation (Swapo). Movimento di liberazione nazionale, dal 1990 (anno dell’indipendenza dal Sudafrica), la Swapo è il partito predominante della scena politica namibiana. Al suo interno, Nandi-Ndaitwah è entrata a soli 14 anni. Da leader dell’ala giovanile del movimento, ha poi scalato le gerarchie, arrivando a guidare ministeri come gli Affari esteri, il Turismo e l’Informazione.
A febbraio 2024 poi, Nandi-Ndaitwah è diventata vicepresidente della Namibia. Ha preso il posto di Nangolo Mbumba, che invece aveva giurato come nuovo capo di Stato dopo la morte del presidente eletto nel 2019, Hage Geingob. Pochi mesi dopo, a novembre, Nandi-Ndaitwah era la candidata della Swapo alla presidenza.
I risultati ufficiali le hanno attribuito il 58% dei consensi, ma sono stati contestati dall’opposizione che ha denunciato irregolarità e ritardi. Nonostante ciò, la Corte suprema namibiana ha rigettato le accuse e confermato la vittoria di Nandi-Ndaitwah.
Con la sua elezione, la Swapo si è assicurata il controllo delle strutture politiche del Paese per altri cinque anni. Al contempo, però, ha ottenuto il suo peggior risultato elettorale di sempre, confermando il declino che sta coinvolgendo molti dei partiti dominanti (spesso ex movimenti di liberazione nazionale) dell’Africa australe, dal Sudafrica al Botswana. In particolare, la Swapo ha perso dodici seggi (da 63 a 51) rispetto al 2019. Un declino figlio anche dei tanti problemi che attanagliano il Paese dall’indipendenza e che, finora, sono rimasti in larga parte irrisolti (e in alcuni casi sono addirittura peggiorati).

Disoccupazione
Ad esempio, la disoccupazione che nel 2023 (secondo l’agenzia statistica governativa) riguardava il 37% della popolazione (in crescita rispetto al 33% del 2018). Molti dei disoccupati sono giovani: il 44% dei namibiani tra 18 e 34 anni non ha un lavoro. Perciò, alla vigilia del giuramento, in un’intervista alla «Sabc» (canale televisivo sudafricano), Nandi-Ndaitwah ha annunciato un piano da 85 miliardi di dollari namibiani (circa 4,6 miliardi di dollari statunitensi) con cui «nei prossimi cinque anni – ha detto – creeremo almeno 500mila nuovi posti di lavoro».
D’altronde, dalla disoccupazione alla povertà il passo è breve. Già il 16% della popolazione vive con meno di 2,15 dollari al giorno (la soglia di povertà assoluta). In più, una buona metà dei namibiani (circa 1,6 milioni di persone su 3 milioni di abitanti) non supera la linea di povertà dei Paesi a medio-alto reddito (il gruppo in cui la Namibia è collocata nelle classifiche internazionali): 6,85 dollari al giorno.

Disuguaglianza e terra
Povertà e disoccupazione sono frutto di una società estremamente disuguale. L’indice di Gini (strumento per il calcolo della disuguaglianza di reddito) della Namibia è 0,59, uno dei più elevati dell’area. È frutto di una struttura socioeconomica che non è ancora riuscita a superare il retaggio dell’apartheid a cui il Paese era sottoposto negli anni di dominio sudafricano.
L’esempio per eccellenza è la questione della terra – non a caso tema sensibile anche in Sudafrica – che Nandi-Ndaitwah ha definito «un problema serio in Namibia». Alla «Bbc», poco prima dell’inaugurazione, la nuova presidente ha dichiarato di voler applicare il principio del «willing-seller, willing-buyer» (un meccanismo basato sulla volontà, non sulla costrizione, dei proprietari terrieri bianchi a vendere i propri terreni). L’obiettivo è modificare un contesto rurale dove il 70% delle terre è ancora nelle mani dei bianchi, che però sono solo l’1,8% della popolazione.
Ma il settore agricolo non è l’unico problema. Come tanti altri Paesi africani, anche la Namibia – un territorio tanto vasto quanto ricco di risorse e scarsamente popolato – dipende in larga parte da produzione ed esportazione di materie prime grezze (soprattutto minerarie). Oltre a sviluppare il settore – creando industrie di raffinazione per aumentare valore e guadagni – Nandi-Ndaitwah vuole anche stimolare nuovi ambiti. Come le industrie creative e il digitale che, secondo lei, in futuro, saranno fonte di centinaia di nuovi posti di lavoro ed entrate economiche.
Le sfide che dunque attendono la prima presidente della Namibia sono numerose. Come ha dichiarato lei stessa, subito dopo l’elezione, «c’è ancora molto da fare».

Aurora Guainazzi




Colombia-Perù. Nate in Amazzonia

 

Nel cuore dell’Amazzonia, dove il fiume Putumayo bagna le terre peruviane e colombiane, sorge Puerto Leguízamo, in Colombia. È in questa cittadina di confine che, dal 21 al 23 marzo, si sono date appuntamento più di trenta donne indigene (adolescenti, giovani, adulte e nonne), per un incontro dal titolo suggestivo di «Mujer amazonica. Sembrando esperanza – cosechando vida» (Donna amazzonica. Seminare speranza – raccogliere vita).

Provenienti dalle comunità di confine di Perù e Colombia, le donne appartenevano ai popoli indigeni Kichwa, Murui Muina (noti anche come Huitoto o Witoto) e Siona. L’incontro – organizzato dalla «Misión Putumayo» di Soplín Vargas, in Perù – si è basato su tre pilastri: territorio, cultura e vita.

Lo scopo del convegno – arrivato alla terza edizione e ospitato negli spazi del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano – era quello di condividere i ricordi di lotta e resistenza, discutere delle proprie conoscenze in materia di medicina, agricoltura e arte, sostenere la difesa dei diritti territoriali e impegnarsi nella cura della nostra Casa comune.

Dopo tre giorni di dibattito, le donne indigene, «seminatrici di speranza e mietitrici di vita», con il supporto delle organizzazioni indigene presenti (la peruviana Feconafropu e la colombiana Acilapp), hanno elaborato un Manifesto in nove punti da diffondere quanto più possibile.

Danze delle donne indigene negli spazi messi a disposizione dal Vicariato apostolico di Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. Foto Fernando Flórez Arias.

Nel primo e nel secondo punto si dice che «i territori delle comunità indigene sono patrimonio collettivo, ancestrale e di gestione esclusiva» e che va fermata l’espansione della «frontiera estrattiva» che minaccia le comunità e gli ecosistemi. Il terzo punto chiede «il rispetto e la difesa dei diritti, della vita e dell’integrità delle donne indigene». Il quarto e il quinto riguardano il diritto alla salute e la richiesta di implementare «un nostro sistema sanitario, basato sulla medicina tradizionale e sulle conoscenze ancestrali». Il sesto punto affronta il problema economico chiedendo ai governi di dare «priorità alla produzione delle famiglie indigene e contadine del territorio» e di formalizzare le piccole imprese comunitarie. Il settimo punto riguarda la questione educativa e con esso si chiede di «formalizzare sistemi educativi indigeni» tali da consentire la sopravvivenza ancestrale come popoli indigeni. Infine, gli ultimi due punti affrontano i problemi della discriminazione e della violenza chiedendo alle autorità di «combattere con risolutezza ogni forma di violenza, discriminazione e violazione dei diritti delle donne, nel rispetto della vita e di Madre Terra».

Le donne indigene del Convegno in un momento all’aria aperta. Foto Fernando Flórez Arias.

L’appello finale è una dichiarazione di volontà, di amore e d’intenti. «Il nostro impegno – scrivono le donne amazzoniche – come donne native dell’Amazzonia è prenderci cura della Casa comune (il territorio). Restiamo impegnate a rivitalizzare e rafforzare la nostra identità culturale come contributo alla nuova generazione, come gratitudine e riconoscimento ai nostri saggi antenati, nonni e nonne. Continueremo a lottare per il rispetto dei diritti, della giustizia e dell’uguaglianza nei nostri territori e nella società in generale».

Fernando Flórez Arias

 




Guerre finanziate, guerre dimenticate


Lo scorso febbraio anche Bukavu, capitale del Sud Kivu, in Congo Rd, è caduta in mano ai ribelli dell’M23. Centinaia di migliaia sono gli sfollati che cercano riparo a Bujumbura, la capitale del Burundi. La milizia, armata ed equipaggiata con attrezzatura moderna, affiancata dall’esercito ruandese, il Rwanda defence force (Rdf), sta continuando la sua «conquista» verso Sud.

Il piccolo Rwanda (di superficie poco superiore alla Sicilia), di fatto, sta sfruttando le risorse minerarie dell’Est del Congo almeno dal 1996. È diventato un grande esportatore di stagno, tungsteno, tantalio, oro (chiamati oggi «minerali strategici»), senza però averne un grammo nel proprio sottosuolo. Ne abbiamo scritto su MC in questi anni.

Allora perché negli ultimi mesi il Rwanda ha deciso di invadere anche le due grandi città del vicino Paese sovrano, Goma e, appunto, Bukavu?

L’M23 già nel 2012 aveva occupato Goma per diverse settimane, ma la pressione di alcuni Paesi occidentali, che avevano minacciato il Rwanda di tagliargli i finanziamenti, era bastata a fare ritirare ribelli.

Dal 2021, quando l’M23 ha ripreso le attività, non ha fatto che appropriasi con la forza di siti minerari, dal Nord al Sud Kivu, terrorizzando la popolazione che fugge ingrossando i campi profughi. Intanto, l’esercito del Congo non riesce a opporre resistenza.

Oggi sembra che Paul Kagame, il «presidente-uomo solo al comando» dal 1994 del Rwanda, abbia deciso di tentare lo stesso colpo che fece nel 1996 con un altro gruppo ribelle da lui pilotato, l’Afdl (Allenaza delle forze democratiche per la liberazione del Congo), ovvero di riprendere il controllo de facto del Congo o di parte di esso.

Il Rwanda ha ricevuto ingenti finanziamenti dall’Occidente negli ultimi trent’anni. Ad esempio, la cifra media annuale tra il 2020 e il 2021 è stata di 1,24 miliardi di dollari. Intanto la spesa militare è cresciuta da 40 milioni di dollari nel 2005 a 180 nel 2021. L’Rdf è un esercito grande rispetto alle dimensioni del Paese, molto ben addestrato e moderno.

In particolare, è stato finanziato per operazioni di peacekeeping in diversi Paesi africani. Dal 2017, i militari ruandesi sono presenti nel Nord Mozambico in un’operazione contro i gruppi islamisti che imperversano nella regione di Cabo Delgado.

Sono documentati i 40 milioni di dollari che l’Unione europea ha dato al regime ruandese (sotto spinta francese) per proteggere i pozzi petroliferi della Total, tra il 2022 e il 2024. Sono inoltre documentati (da esperti delle Nazioni Unite), la coincidenza in alcuni casi di truppe e comandi tra le Rdf presenti in Mozambico e quelle in Congo.

Il 13 febbraio scorso, il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione europea di congelare gli aiuti budgetari al Rwanda e di sospendere l’accordo sui minerali strategici, stipulato nel febbraio 2024 (MC aprile 2024), finché i militari ruandesi saranno impegnati in Congo. Altre sanzioni Ue sarebbero pronte, su iniziativa di Belgio e Francia. Mentre anche Londra ha annunciato la sospensione degli aiuti finanziari.

Allargando l’orizzonte, noto che le importanti guerre in Ucraina e in Medio Oriente si prendono tutta l’audience nei media italiani. Altri conflitti, che magari influiscono meno sulla vita dei cittadini, semplicemente scompaiono. Sto pensando a quello in Sudan, guerra civile ma con caratteristiche regionali e globali, di cui parliamo nelle pagine di questo numero. Penso al Sahel (Mali, Niger, Burkina Faso), la cui popolazione è presa tra gruppi armati islamisti e governi golpisti dei militari. In un’area in cui passa una delle maggiori rotte della migrazione tra l’Africa e l’Europa. Paesi che si sono alleati con la Russia, mettendo nelle mani di Putin il «rubinetto» di questo flusso. Penso ad Haiti, Paese diventato invivibile perché controllato da bande armate criminali. Le cause sono storiche e precise, documentate e sempre occidentali.

E penso alla guerra civile in Myanmar, che ha compiuto quattro anni, e della quale parliamo anche sul nostro sito.

Aspettiamo dunque che il Rwanda, con uno degli eserciti più forti d’Africa, finanziato dagli occidentali, conquisti il Burundi (che è già allarmato) e magari arrivi a Kinshasa?

Marco Bello, direttore editoriale

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Grazie al comandante

Caro padre, seguo sempre con attenzione la sua rubrica, chi le scrive spesso fa riflettere e le sue risposte sono uniche. Mi fa cosa gradita in questo mio scritto, ringraziare la preziosa opera che un mio caro concittadino, Giovanni De Marchi, ha sempre fatto in Etiopia. Con tenacia e senso di altruismo, dopo aver raggiunto l’età del pensionamento da comandante di stazione dei Carabinieri a Borgo Valsugana, ha dedicato tutte le sue energie ad aiutare padre Paolo Angheben in terra d’Africa (insieme nella foto qui sotto). Un sostegno economico veramente importante che ha raccolto qua in Valsugana e soprattutto l’essere stato presenza attiva con i suoi innumerevoli viaggi in Etiopia in aiuto «al padre» come di suo chiamava padre Angheben, venuto a mancare pochi anni fa per Covid (+18/05/2021).

Il suo aiuto è continuo anche ora e, nel suo piccolo, rimane quella bellissima goccia di solidarietà concreta e spirituale che con costanza trasmette ai suoi fratelli. I bambini che ha aiutato vent’anni fa ora sono uomini, molti hanno studiato e sono cresciuti con dignità e il merito va a persone che hanno sostenuto con belle iniziative.

Grazie Giovanni, sei una di queste persone.

Armando Orsingher, 21/01/2025, Borgo Valsugana (Tn)

Al caro Giovanni, che ha lo stesso nome di padre Giovanni De Marchi (1914-2003), il pioniere del ritorno dei Missionari della Consolata in Etiopia nel 1970, grazie della tua passione contagiosa per quella terra e la sua gente. L’Etiopia è stata il primo amore di san Giuseppe Allamano.


Accolto nella «tierra sin males»

Il padre Antonio Gabrieli, missionario della Consolata, è deceduto a Buenos Aires all’alba del 7 febbraio 2025, all’età di 76 anni. Ha dedicato 56 anni alla vita religiosa e 51 al sacerdozio, lasciando un’eredità di fede, impegno e dedizione missionaria.

L’Argentina, dove arrivò per la prima volta come missionario nel 1983, divenne la sua casa. Durante le sue quattro decadi di missione e servizio pastorale nel Paese, ricoprì numerosi ruoli: parroco, vicario, formatore, maestro dei novizi, superiore di comunità, consigliere e superiore regionale.

Nelle ultime settimane di vita, padre Antonio ebbe accanto non solo i fratelli missionari, ma anche le sue due sorelle che viaggiarono dall’Italia per stargli vicino. L’8 febbraio è stato sepolto nel cimitero «Giardino della Pace» a Luján, in Argentina, lasciando un profondo patrimonio di fede e servizio missionario.

Fratello tra i fratelli

Padre Antonio Gabrieli – testimonia padre José Auletta – è stato «un fratello tra i fratelli, un missionario che ha sempre svolto il suo servizio con moderazione, rispetto e un distinto trattamento umano verso tutti coloro che lo cercavano. […] Mi ha sempre incoraggiato e sostenuto nel lavoro di accompagnamento ai popoli indigeni dell’Argentina, riaffermando così la sua fedeltà al carisma missionario. Mi ha segnato profondamente la sua vicinanza alla gente, in particolare ai fratelli Guaraní, che oggi lo ricordano con affetto e gratitudine».

Padre Antonio Gabrieli a Maralal, giugno 1999

La serenità e la forza del padre Gabrieli – ricorda Auletta – furono evidenti anche negli ultimi giorni della sua vita. «Pochi giorni prima della sua partenza, durante il ritiro annuale di gennaio, mi colpì la sua pace nell’affrontare la malattia che lo affliggeva. Oggi, con profonda gratitudine, facciamo memoria di questo fratello che è partito verso la tierra sin males, il cielo nuovo e la terra nuova. Il nostro caro padre Antonio Gabrieli lascia un’eredità di fede, impegno e amore per gli altri». […]

Breve biografia

Padre Antonio Gabrieli, figlio di Paolo e Patroni Maria, nacque il 13 luglio 1948 a Darfo, Brescia (Italia) e fece il noviziato con i missionari della Consolata, emettendo la sua prima professione religiosa il 2 ottobre 1968. Ordinato sacerdote il 22 dicembre 1973, visse i suoi primi anni di missione in Italia, come formatore nelle case di Gambettola e Bedizzole, e nell’animazione vocazionale a Porto San Giorgio.  Dopo aver raggiunto l’Argentina tutta la sua vita la spese in quel paese eccetto il periodo tra il 1993 e il 1999, quando ricoprì l’incarico di consigliere generale dei Missionari della Consolata per il continente americano.

Quando celebrò i 50 anni di ordinazione disse che l’Argentina «è la mia terra e la porto nel cuore». Tutto il Paese e ognuna delle città dove ha prestato il suo servizio missionario: San Francisco, Martín Coronado, Jujuy, Mendoza, Yuto, Merlo e Buenos Aires.

padre Julio Caldeira, da Consolata.org, 11/02/2025

Padre Antonio è stato un caro amico con cui ho condiviso l’animazione missionaria a cavallo tra gli anni 70 e gli 80: lui nella comunità di Porto San Giorgio (Ap) e io in «Amico», la rivista per gli animatori missionari. Ci siamo poi incontrati durante il capitolo generale del 1999 a Sagana in Kenya. A lui dedico le due foto di quei giorni, in particolare la seconda, quando ha presieduto la messa che i capitolari hanno celebrato nella missione di Maralal e l’avevano vestito come un anziano samburu.


Far rivivere l’ospedale di Wamba

L’associazione Oscar Romero, nata nel 1990 e operante nelle parrocchie, nelle scuole e sul territorio del magentino e del castanese (zona ovest di Milano), […] dal 2004 è attiva nell’aiutare la popolazione del nord del Kenya, con la creazione di posti di lavoro, la fornitura di sistemi per la potabilizzazione dell’acqua che utilizzano impianti a osmosi per la desalinizzazione dei pozzi salati e con la costruzione di impianti fotovoltaici, allo scopo di sfruttare la luce solare per produrre elettricità.

Uno dei punti fermi è far in modo che i progetti, realizzati e sostenuti grazie alle donazioni raccolte, nascano sul posto, siano avallati dal vescovo e dalle autorità civili locali e siano portati avanti dagli abitanti delle popolazioni locali.

Proprio su questi punti si basa l’obiettivo per il quale l’associazione si sta attualmente adoperando: la riapertura dell’ospedale di Wamba, che per la sua organizzazione e localizzazione geografica rappresenta un servizio di fondamentale importanza per la salute della popolazione locale.

Wamba è un villaggio nel distretto del Samburu orientale nella diocesi di Maralal, in Kenya. L’ospedale è stato fondato nel 1969, ed è rimasto attivo per oltre 40 anni, con una capacità di circa 200 posti letto, e in grado di assistere i pazienti da tutto il Kenya, la maggioranza dei quali provenienti dalle diocesi di Maralal, Marsabit, Meru, Wajir, Nanyuki e Nyahururu.

Esteso su 40 ettari di terreno, offriva ricovero e sostegno ad una popolazione di oltre 40mila individui, destinati altrimenti a rimanere isolati da ogni contatto civile, umano e sanitario.

La riapertura e la riattivazione di questa struttura sono fortemente volute sia dall’attuale vescovo, il missionario della Consolata monsignor Hieronymus Joya della diocesi di Maralal, che dall’intera popolazione. Questo perché l’ospedale, è in grado di fornire un servizio di assistenza completo e necessario, con i suoi reparti femminile, maschile, pediatrico, maternità, laboratorio, radiologia, fisioterapia, farmacia, cucina e servizio biancheria. Tra le sue strutture ci sono anche tre sale operatorie, le case per i medici e una scuola di formazione infermieristica che attualmente (a partire dal mese di gennaio 2025) sta formando 50 infermieri e infermiere per inserirli nei reperti dell’ospedale di Wamba e altri centri sanitari dove si richiede questa importante figura professionale.

La riattivazione è pensata come riapertura «modulare», iniziando dai servizi più urgenti di maternità e medicina d’emergenza, per arrivare alla riapertura totale, e si manifesta come un’importante sfida su molteplici fronti:

❤ dare nuova energia: grazie alla costruzione di un impianto fotovoltaico in grado di fornire elettricità all’intera struttura;

❤ dare nuova luce: grazie alla sostituzione delle vecchie lampade obsolete con nuove lampade a led, che permettono di risparmiare;

❤ dare nuovo cibo: grazie all’attivazione di un forno per la panificazione e una panetteria interni, ma che serviranno anche il resto della comunità;

❤ dare nuova speranza: grazie alla formazione e all’addestramento del personale, per un’efficace assistenza sanitaria e creazione di nuove opportunità d’impiego.

Lo scorso mese di gennaio alcuni membri dell’associazione Oscar Romero di Magenta sono stati in visita a Wamba, raccogliendo le necessità e il forte desiderio espresso dalla popolazione locale di avere un centro sanitario quale Wamba Hospital sul loro territorio. Anche la gente del posto si sta muovendo per una raccolta fondi attraverso attività ed eventi. Un’iniziativa che, in modo particolare, sta coinvolgendo tutto il Samburu County è il «Run for Wamba», (vedi foto qui accanto) grazie alla quale la gente, che ha aderito in massa, ha la possibilità di avvicinarsi alla situazione di necessità, donando ciò che può. Tale numerosa partecipazione dimostra la corresponsabilità e comprova l’importanza che la popolazione locale dà alla riapertura dell’ospedale.

In questa situazione di emergenza sanitaria e umana, la riapertura dei reparti diviene un’ impor- tante priorità per la nostra associazione, che assieme ad altri gruppi e associazioni si sta prendendo a cuore questa impellente necessità, contribuendo a dare nuova vita a questo importante centro sanitario.

Il primo passo per la riapertura sarà l’installazione di un impianto fotovoltaico con un sistema di accumulo a batteria per dare energia ai reparti di medicina, maternità e i laboratori per le analisi medico specialistiche. Questo permetterà di avere un notevole abbattimento dei costi dell’energia elettrica, che incide in modo importante sulla gestione dell’ospedale. Le batterie di accumulo garantiranno la continuità energetica per la catena del freddo (ad esempio dei vaccini) e altre necessità. Un secondo passo sarà l’apertura di un forno per la panificazione per uso interno all’ospedale e, a seguire, una rivendita di pane rivolta all’esterno, attraverso un negozio, aperto proprio sulla strada principale della cittadina, e collegato strutturalmente all’ospedale.

L’associazione Oscar Romero di Magenta oltre alla sensibilizzazione verso situazioni di emergenza simili a quella dell’ospedale di Wamba, è impegnata in Italia attraverso eventi pubblici e all’interno delle scuole, nel percorso di educazione civica e dal 2004 organizza viaggi solidali in Kenya. Il viaggio è fatto da piccoli gruppi di 5-6 persone che, ospitate nelle diverse comunità dove i progetti sono attivi o in corso, potranno prendere visione delle diverse problematiche esistenti. Al viaggio non mancherà la visita delle bellezze che il Kenya, con le sue immense distese dei parchi naturali, può offrire attraverso emozionanti safari.

Angelo Riscaldina per associazione Oscar Romero
Magenta, 25/02/2025 – romero.magenta@gmail.com

Pubblichiamo ben volentieri quanto avete scritto su Wamba, un ospedale che conosco bene, dove sono stato curato quando ero nella missione di Maralal: una struttura ricca di vitalità e capace di essere a servizio dei poveri, delle donne, degli orfani, e scuola di eccellenza per tanto personale sanitario. Un centro di cura dove medici come il dottor Silvio Prandoni hanno dato il meglio di sé.

 




Sudan. La guerra più dimenticata


In seguito alla caduta del dittatore Al-Bashir sì è creato un equilibrio precario. Sfociato, nel 2023, in guerra aperta. Le potenze regionali appoggiano una o l’altra parte. Anche la Russia ha interessi per un possibile accesso al Mar Rosso. Intanto l’emergenza umanitaria è enorme.

Sullo sfondo si sentono i colpi che esplodono. Raffiche continue, inframezzate da colpi più forti. «No, non stanno combattendo – spiega la nostra fonte al di là della linea telefonica -, stanno festeggiando. Qui a Port Sudan, la capitale provvisoria del Sudan, c’è una grande felicità per la conquista di un quartiere di Khartoum da parte dell’esercito sudanese. C’è entusiasmo e la gente spara in aria. La guerra però non è finita e temo che il bilancio delle vittime e degli sfollati sia destinato a crescere ancora nei prossimi mesi».

Trascurato dai media internazionali, tutti concentrati sui conflitti in Ucraina e nella Striscia di Gaza, il Sudan è il teatro di un conflitto devastante che rappresenta una delle crisi umanitarie e geopolitiche più complesse degli ultimi anni. Questo conflitto non solo ha destabilizzato il Paese, ma ha anche attirato l’attenzione della comunità internazionale, con diverse potenze regionali e globali che sostengono indirettamente una delle due fazioni.

People take to the streets of Port Sudan to celebrate the reported advance of Sudanese military forces and allied armed groups on the key Al-Jazira state capital Wad Madani, held by the paramilitary Rapid Support Forces (RSF), on January 11, 2025. (Photo by AFP)

Gli attori in campo

La guerra, scoppiata nell’aprile 2023, ha visto scontrarsi le Forze armate sudanesi (Saf) e le Rapid support forces (Rsf), una milizia paramilitare. Le forze armate sudanesi, guidate dal generale

Abdel Fattah al-Burhan, rappresentano l’esercito regolare del Paese. Fin dai tempi del presidente dittatore Omar al-Bashir (al potere dal 1989 al 2019), i militari hanno svolto un ruolo centrale nella politica sudanese, spesso intervenendo direttamente negli affari di Stato. D’altra parte, le Rapid support forces (Rsf), comandate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (noto come Hemeti), sono una milizia nata dalle ceneri dei Janjaweed, un gruppo noto per le atrocità commesse nel Darfur nel corso degli anni 2000.

Le Rsf, pur essendo state formalmente integrate nelle strutture di sicurezza statali, hanno sempre mantenuto una forte autonomia e sono state accusate di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani.

Il conflitto tra Saf e Rsf è scoppiato a causa di tensioni legate alla transizione politica del Sudan verso un governo civile. Dopo la caduta di Omar al-Bashir nel 2019, il Paese ha vissuto un periodo di instabilità, con l’esercito e le Rsf che hanno inizialmente collaborato per mantenere il controllo. Tuttavia, le divergenze sulla futura struttura del potere e sulla riforma delle forze armate hanno portato a uno scontro aperto. «Non ci sarà alcuna negoziazione né compromesso con i gruppi armati che combattono contro lo Stato – ha detto al-Burhan -. Non ci sarà negoziazione né compromesso con chi ha preso le armi contro lo Stato e il popolo. Continueremo sulla strada della vittoria fino a quando ogni centimetro del Paese non sarà liberato dalle Rsf».

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Alleanze internazionali

Il conflitto in Sudan non è solo uno scontro interno. In esso si riflettono anche le dinamiche geopolitiche regionali e globali. Diverse potenze internazionali hanno preso posizione, sostenendo indirettamente una delle due fazioni in lotta. L’Egitto, confinante con il Sudan, ha tradizionalmente sostenuto le forze armate, vedendo nell’esercito regolare un baluardo contro l’instabilità nella regione.

Gli Emirati arabi uniti hanno invece sostenuto le Rsf, fornendo armi e finanziamenti. Questo sostegno è legato agli interessi economici degli Emirati nel Paese, in particolare nel settore agricolo e minerario. Le aziende della famiglia di Dagalo controllano le miniere d’oro del Darfur. Secondo un’analisi dell’agenzia di stampa britannica Reuters, nel 2018-2019 una di queste società inviava negli Emirati trenta milioni di dollari in lingotti d’oro ogni tre settimane. Va ricordato che gli Emirati sono il terzo importatore mondiale di oro e che il 75% dell’oro sudanese viene trafficato proprio sul mercato emiratino. Inoltre, in passato, le Rsf hanno collaborato con gli Emirati in operazioni militari nello Yemen contro gli Houthi, rafforzando i legami tra le due parti. «Gli Emirati – ci spiega una fonte locale che vuole mantenere l’anonimato -, inviano tonnellate di armi ai ribelli delle Rsf. Queste armi, in parte acquistate da aziende serbe, in parte da aziende francesi, vengono fatte arrivare in Libia, nelle aree controllate dal generale Khalifa Haftar. Da lì transitano in Ciad per poi arrivare in Darfur». Secondo «The Africa report», gli Emirati avrebbero fatto avere al presidente ciadiano Mahamat Deby, un miliardo di dollari in cambio del sostegno alle Rsf e del via libera al traffico di armi e munizioni sul suo territorio.

Più ambigua invece la posizione della Russia. Mosca ha sempre mostrato interesse per il Sudan. Gruppi paramilitari russi, come il gruppo Wagner, hanno fornito addestramento e supporto alle Rsf, cercando di espandere l’influenza russa in Africa. Negli ultimi mesi, però, si è registrato un avvicinamento tra Mosca e Khartum. In gioco, l’accesso al Mar Rosso, via di transito tra le più importanti del mondo e possibile base strategica dell’esercito russo, in vista di un possibile ritiro dalla Siria. Ufficialmente la Marina militare di Mosca aveva reso nota la volontà di creare un centro logistico in Sudan a novembre 2020: all’epoca si era riferito che nella struttura avrebbero potuto essere presenti contemporaneamente fino a quattro navi russe e che il personale addetto alla base non avrebbe superato le 300 unità. Negli anni si sono poi susseguite notizie, sempre smentite sia da Mosca sia da Khartoum, su accordi falliti o respinti dalla parte sudanese. A fine febbraio il ministro degli Esteri sudanese, Ali Yousef Sharif, al termine dei colloqui con il suo omologo russo Sergei Lavrov, ha annunciato che Mosca e Khartum avrebbero raggiunto «un’intesa reciproca» per la creazione di una base navale russa proprio sul Mar Rosso. Lavrov, dal canto suo, non ha confermato, né ha citato accordi, memorandum, decisioni o firme. Nonostante il silenzio del braccio destro di Vladimir Putin, secondo alcuni analisti, i due Paesi stanno però continuando a trattare su questo punto.

Sfumate invece sono le posizioni di Stati Uniti e Unione europea. Entrambi hanno cercato di mediare un cessate il fuoco, ma senza successo. Hanno condannato le violenze e chiesto una transizione verso un governo civile, ma il loro ruolo rimane limitato rispetto alle potenze regionali.

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Etiopia, il vicino scomodo

Un ruolo delicato nella partita sudanese è giocato dall’Etiopia. Il nodo della discordia è la Grande diga del millennio etiope che Addis Abeba sta realizzando sul Nilo Azzurro, il principale affluente del Nilo. L’Egitto teme che questo mega sbarramento possa ridurre in modo massiccio il flusso idrico a valle e quindi mettere in crisi i rifornimenti di acqua dolce alla sua popolazione. Il Sudan, altro Paese a valle della diga, si è sempre schierato con Il Cairo fin dai tempi di Omar al-Bashir. La caduta di quest’ultimo non ha cambiato nei fatti la politica di Khartum. Al-Burhan ha continuato a essere un alleato fedele dell’Egitto e quest’ultimo lo ha ripagato con un aperto sostegno nell’attuale conflitto. L’Etiopia ha inizialmente tenuto una posizione più neutrale ma, con il tempo, si è progressivamente avvicinata alle Rsf, in forza anche della sua alleanza strategica con gli Emirati arabi uniti. Questi ultimi hanno sostenuto Addis Abeba anche nella disputa sul triangolo di al-Fashaga, un’area molto fertile sotto la sovranità sudanese, ma abitata da popolazione Amhara (una delle principali componenti del mosaico etnico etiope). Il conflitto è peg- giorato dopo la guerra civile in Tigray, Etiopia (2020), quando il Sudan ha cercato di riprendere il controllo della regione approfittando della crisi etiope. Nonostante periodici negoziati, le tensioni restano alte e la disputa rimane irrisolta, con il rischio di nuovi scontri.

Sudanese people who fled escalating violence in the al-Jazira state are pictured at a camp for the displaced in the eastern city of Gedaref on November 23, 2024. (Photo by AFP)

L’Arabia Saudita

Altro attore importante nel teatro sudanese è l’Arabia Saudita. Riad ha forti interessi economici e geopolitici in Sudan, in particolare nella regione del Mar Rosso. Investimenti sauditi nei settori agricolo e infrastrutturale sono significativi, e la stabilità del Sudan è cruciale per la sicurezza marittima e le rotte commerciali saudite. Inoltre, il Sudan è stato un partner militare dell’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, fornendo truppe per la coalizione guidata da Riyad. Ufficialmente il suo coinvolgimento si è concentrato principalmente su una mediazione diplomatica e l’invio di aiuti umanitari. L’Arabia Saudita, insieme agli Stati Uniti, ha facilitato i colloqui di pace tra le fazioni in guerra. A maggio 2023, ha ospitato a Gedda i negoziati tra l’esercito sudanese e le Rsf, allo scopo di ottenere un cessate il fuoco e un accesso umanitario sicuro. Riyad ha fornito assistenza umanitaria al Sudan, inviando aiuti alimentari e medici attraverso il King Salman humanitarian aid and relief center (KSrelief). Inoltre, ha evacuato cittadini sudanesi e stranieri in pericolo durante le fasi più intense del conflitto. Nonostante il suo ruolo di mediatore, alcuni analisti ritengono che l’Arabia Saudita mantenga legami con entrambi gli schieramenti, specialmente con le Rsf, attraverso gli Emirati arabi uniti, un alleato storico di Riad.

People struggling to commute gather around a packed bus in Port Sudan as local transportation is strangled after government authorities reportedly changed two currency notes, invalidating old notes, on December 30, 2024 in the Red Sea port city, where the government loyal to the army is based. Sudan is reeling from 20 months of fighting between the Sudanese army and the paramilitary Rapid Support Forces, led by rival generals, which have led to a dire humanitarian crisis. The war since April 2023 has killed tens of thousands of people and uprooted 12 million, creating what the United Nations has called the world’s largest displacement crisis. (Photo by AFP)

Una tragedia umanitaria

Il bilancio umanitario del conflitto è drammatico. Secondo le stime delle Nazioni Unite e di organizzazioni umanitarie, dal suo inizio nel 2023, la guerra ha causato oltre diecimila morti, tra civili, combattenti e personale medico. Le violenze hanno colpito indiscriminatamente la popolazione, con bombardamenti aerei, scontri armati e saccheggi che hanno devastato intere città, in particolare la capitale Khartum e la regione del Darfur.

Secondo le agenzie Onu, il numero di sfollati interni ha superato i cinque milioni, ai quali si aggiungerebbero un milione e mezzo di rifugiati nei Paesi vicini, tra cui Ciad, Sud Sudan, Egitto ed Etiopia. In realtà si sospetta che il numero complessivo di rifugiati e sfollati tocchi gli undici milioni. Molti vivono ai confini con l’Egitto in campi improvvisati, senza accesso a cibo, acqua potabile o assistenza medica. «Al confine tra Sudan ed Egitto – racconta un missionario cattolico che vuole mantenere l’anonimato – esistono campi profughi enormi. Le condizioni sono terribili. Gli sfollati sono abbandonati da tutti e non hanno alcun tipo di assistenza. Le organizzazioni umanitarie (Onu, Pam, Cri, ecc.) non possono fare molto. Esercito e milizie temono che il cibo possa finire nelle mani del nemico e quindi limitano l’accesso alle derrate alimentari e ai farmaci. La situazione è così critica che molti eritrei che erano fuggiti dal durissimo regime di Isaias Afewerki, hanno preferito ritornare a casa piuttosto che patire qui sofferenze inaudite».

Nelle zone sotto il diretto controllo dell’esercito, la vita è quasi normale. «Qui a Port Sudan – spiega un altro missionario cattolico – vivono almeno 300mila sfollati. La situazione è calma sotto il profilo dell’ordine pubblico. Non tutto però è semplice. Ci sono problemi a trovare lavoro e non è facile reperire una sistemazione abitativa, perché i prezzi degli affitti sono lievitati. Anche il cibo costa molto. Tanti sono alloggiati in famiglie amiche. La maggior parte però sta in campi profughi». Nonostante ciò, i ragazzi e le ragazze sono tornati a scuola, le strutture religiose sono attive e gli uffici pubblici e privati funzionano.

«Di fronte a questa situazione – conclude il missionario -, la Chiesa cattolica si è attivata per fornire assistenza agli sfollati. Siamo una realtà piccola, ma cerchiamo di fare il massimo che possiamo con i mezzi che abbiamo. Le autorità ci rispettano e lasciano che operiamo. Questa, d’altra parte, non è una guerra di religione. Qui non ci sono musulmani contro cristiani. È una guerra di potere e sia i musulmani sia i cristiani ne sono vittime. Le nostre strutture e quelle islamiche sono attaccate dai ribelli perché interessa loro avere luoghi dove accamparsi e dove rubare legna, mezzi e beni di conforto. Infatti, hanno occupato sia chiese che moschee. Se dobbiamo essere sinceri, le violenze sono state perpetrate soprattutto dalle Rsf. Sono i loro miliziani ad aver ucciso e ad aver compiuto i peggiori atti di vandalismo. Assaltano e distruggono tutto. Fanno tabula rasa».

Enrico Casale

foto-yusuf-yassir-unsplash




Pochi, tanti, troppi: il dilemma demografico


I paesi africani e l’India spingono verso l’alto la popolazione mondiale. Questa continuerà a crescere fino al 2100. Allo stesso tempo, molti paesi stanno sperimentando una rapida decrescita. Proviamo a dare un senso ai dati e a capirne le conseguenze.

Quando si parla di popolazione, lui – Thomas Malthus (1766-1834) – viene sempre evocato. Economista, demografo e anche pastore anglicano, il suo An essay on the principle of population, uscito per la prima volta nel 1798, rimane un caposaldo della tematica demografica. L’incremento della popolazione – spiegava il reverendo Malthus – andrebbe regolato perché esso eccede l’incremento delle risorse disponibili. Utilizzando le sue parole: «La popolazione, se non controllata, aumenta in proporzione geometrica. La sussistenza aumenta solo in proporzione aritmetica». Successivamente, si vide che calcoli e previsioni di Malthus erano errati, ma era corretto e antesignano il suo ragionamento di base: la correlazione tra popolazione e risorse disponibili.

Santiago Cilemauro-mora-unsplash

Numeri che parlano

All’epoca di Malthus la popolazione mondiale era stimata tra uno e 1,2 miliardi di persone. Oggi siamo arrivati a 8,2 miliardi e tale cifra raggiungerà un picco di 10,3 miliardi verso il 2085 per iniziare poi a decrescere. Non è però questo il dato fondamentale per comprendere quanto i tempi siano cambiati.

Quello su cui concentrarsi è il tasso di fertilità, che esprime il numero medio di figli per donna in età feconda (15-49 anni). Ebbene, a livello mondiale il tasso è passato da 5 figli per donna nel 1960 a 2,2 nel 2024.

Questo numero è vicinissimo a un altro chiamato tasso di sostituzione, che indica il numero di figli per donna necessario per sostituire i morti con nuovi nati e mantenere stabile la popolazione complessiva. Attualmente, il numero è pari a 2,1 figli per donna.

Venendo all’Italia, negli anni fra il 1955 e il 1975 sono nati ogni anno fra 800mila e un milione di bambini. Nel 2024 sono stati 374mila, segnando un nuovo record negativo.

Il tasso di sostituzione è stato raggiunto per l’ultima volta nel 1976. Poi è iniziata una rapida discesa arrivando all’attuale 1,2 figli per donna. Questo dato è ulteriormente distinguibile in 1,1 per le mamme italiane e 1,9 per le mamme straniere residenti in Italia. Queste ultime stanno però seguendo lo stesso percorso delle donne italiane con il loro tasso di fecondità in lenta ma costante riduzione (era 2,8 nel 2002).

La bassa fertilità è stata accompagnata da un graduale rinvio della genitorialità, come mostra l’aumento dell’età media delle donne che diventano madri per la prima volta, che oggi si situa sui 32 anni per le italiane e sui 29 per le madri straniere. D’altra parte, in tanti paesi del Sud del mondo avviene anche l’opposto: si diventa madri troppo presto.

«Nel 2024 – racconta il rapporto Onu World population prospects -, 4,7 milioni di bambini, ovvero circa il 3,5% del totale mondiale, sono nati da madri di età inferiore ai 18 anni. Di questi, circa 340mila sono nati da ragazze di età inferiore ai 15 anni, con pesanti conseguenze negative per la salute e il benessere sia delle giovani madri che dei loro figli».

Le motivazioni del calo delle nascite nei Paesi più sviluppati sono plurime, ma forse quella principale è una: la profonda modificazione di quella che un tempo veniva chiamata «famiglia tradizionale» (la donna vista soprattutto per il suo ruolo di madre e meno come soggetto con proprie ambizioni), a cui si aggiunge la motivazione economica («i figli costano»).

Un cimitero; nel 2023, ci sono stati 6 nati e 11 decessi ogni 1.000 abitanti (dati Istat). Foto Patricia Prudente – Unsplash.

«Sostituzione etnica»?

Si parla – soprattutto a livello giornalistico – d’«inverno demografico», o di «tempesta demografica perfetta». È sicuramente vero che un Paese con un tasso di fertilità inferiore al tasso di sostituzione avrà problemi importanti perché meno lavoratori e più anziani cambiano la società e il suo funzionamento.

In altri termini, un simile livello di denatalità potrebbe produrre una doppia conseguenza: da una parte una mancanza di lavoratori, dall’altra un’insufficienza di risorse per pagare le pensioni a una platea sempre più vasta di persone e sostenere le spese sanitarie e assistenziali per una popolazione più anziana e, quin- di, più fragile.

Appurato questo, soluzioni se ne possono trovare, visto che nel mondo di esseri umani non ne mancano e ci sono aree nelle quali il sistema sociale ed economico non regge la crescita numerica della popolazione.

Per esempio, dove ci fossero carenze demografiche si potrebbero indirizzare maggiori flussi migratori, anche se in questo caso – lo sappiamo bene – la questione diventerebbe soprattutto politica. In particolare, verrebbe paventato il fenomeno della «sostituzione etnica». Come, in un convegno dell’aprile 2023, ha sostenuto il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. «Non possiamo – ha spiegato – arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada».

Invece, la strada è proprio quella visto che fare risalire il tasso di fertilità è un’impresa difficile e, comunque, di lungo periodo.

Popolazione e ambiente

Attorno al tema demografico ruota anche un’altra questione, sempre più attuale.

Può essere riassunta in un quesito: più popolazione significa più pressione antropica? Sicuramente sì, ma la risposta non può esaurirsi qui.

Secondo uno studio scientifico (Environmental research letters del 12 luglio 2017), nei paesi sviluppati fare un figlio in meno ridurrebbe, in media, l’impronta ecologica di 58 tonnellate di CO2 all’anno.

Questo risultato non deve però indurre a conclusioni frettolose. Affrontiamo il problema da un punto di vista diverso, comparando la percentuale delle emissioni di anidride carbonica (il maggiore tra i cosiddetti gas serra) tra Paesi poveri ad alta crescita demografica e Paesi ad alto reddito con una crescita della popolazione bassa o nulla.

Scopriamo così che la Nigeria – paese africano con una popolazione in forte aumento – contribuisce alle emissioni mondiali di CO2 soltanto per lo 0,73 per cento e la Repubblica democratica del Congo, altro paese africano in crescita demografica, per lo 0,05 per cento. Molto diversi sono i dati dei paesi sviluppati. Per esempio, gli Stati Uniti (secondo paese più inquinante dopo la Cina) sono responsabili del 14,45 per cento delle emissioni e l’Italia del 5,32 (fonte: Statista, 2023).

Questo significa che, oltre alla pressione antropica, risulta determinante il modello economico e di consumo adottato ed è su quello che sarebbe necessario intervenire.

In caso contrario, se i Paesi del Sud globale (dove la popolazione cresce) volessero avere – come loro diritto – il livello di consumi di quelli del Nord, la crisi ambientale (già molto grave) esploderebbe.

La demografia modella il mondo

Secondo l’Onu, sono quattro le grandi tendenze demografiche che modellano il mondo: la crescita della popolazione, il suo invecchiamento, l’urbanizzazione e le migrazioni internazionali.

La sua lettura della situazione rimane improntata all’ottimismo: «I cambiamenti nella dimensione, nella struttura per età e nella distribuzione spaziale delle popolazioni – si legge nel rapporto – portano sia sfide che opportunità. Gestendo le sfide e sfruttando le opportunità, possiamo accelerare il raggiungimento di uno sviluppo inclusivo e sostenibile, creare opportunità per sradicare la povertà, migliorare l’accesso alla protezione sociale, all’assistenza sanitaria e all’istruzione, promuovere l’uguaglianza di genere, promuovere modelli più sostenibili di produzione e consumo e salvaguardare l’ambiente».

Paolo Moiola

uomini in cammino; i flussi migratori possono essere una risposta al calo demografico, ma questa soluzione trova l’opposizione dei partiti di destra. Foto Sebastien Goldberg – Unsplash.


La popolazione a livello mondiale

popolazione mondiale                               8,2 miliardi
A livello mondiale, il picco della popolazione sarà raggiunto verso il 2085 con 10,3 miliardi di persone.

tasso di fertilità                                             2,2
È il numero medio di figli per donna in età fertile. Nel 1960 era di 5 figli per donna.

tasso di sostituzione                                  2,1
Detto anche «tasso di rimpiazzo», è il numero  medio di figli per donna
che consente alla popolazione di restare numericamente costante.

aspettativa di vita                                       73,3 anni
Detta anche «speranza di vita» alla nascita. La più alta è in Giappone (84,4 anni),
la più bassa in Ciad (53 anni) e altri paesi africani.

Paesi in decrescita demografica      63 paesi
Comprendono il 28 per cento della popolazione mondiale.
Ne fanno parte i paesi europei (eccetto Francia e Gran Bretagna) e asiatici.
Tra essi anche Russia, Cina, Giappone e Corea del Sud.

Paesi in crescita fino al 2054                48 paesi
Comprendono il 10 per cento della popolazione mondiale.
Vi fanno parte anche il Brasile, l’Iran, la Turchia e il Vietnam.

Paesi in crescita fino al 2100                126 paesi
Record di crescita demografica per l’Africa con i paesi subsahariani,
il Congo Rd, l’Etiopia e la Nigeria. Al gruppo appartengono anche gli Stati Uniti
per via dei flussi migratori. L’India raggiungerà il picco di popolazione nel 2060.

            Fonti: United Nations, World population prospects, 2024;
United Nations, World fertility report, 2024.

La popolazione a livello italiano (dati 2024)

popolazione italiana           59 milioni
Gli stranieri residenti in Italia sono 5,3 milioni, r
appresentando circa l’8,9% della popolazione complessiva.

tasso di fertilità                    1,20
Nel 2024 ci sono stati 374mila nuovi nati, 5mila in meno rispetto al 2023.
Lontanissimi gli anni del baby boom: nel 1946, 1947, 1948 e 1964
nacquero più di un milione di bambini per anno.

aspettativa di vita                  84,01 anni
L’aspettativa di vita delle donne italiane è pari a 85,97 anni, quella degli uomini italiani è di 81,90 anni.

età media                                  48,4 anni
L’Italia ha la popolazione più vecchia tra i paesi dell’Unione europea. In Ue, la media è di 44,5 anni.

Fonti: Istat ed Eurostat. Tabelle: a cura di Paolo Moiola.




Le traduzioni ci sono (ma non per i cinesi)


L’accordo tra Pechino e Vaticano sulle nomine vescovili è stato prolungato per altri quattro anni. A che punto sono le relazioni tra i due soggetti? E come stanno i cattolici cinesi? Lo abbiamo chiesto al professor Sisci.

«La Santa Sede e la Repubblica popolare cinese, visti i consensi raggiunti per una proficua applicazione dell’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, dopo opportune consultazioni e valutazioni, hanno concordato di prorogarne la validità per un ulteriore quadriennio, a decorrere dalla data odierna. La Parte vaticana rimane intenzionata a proseguire il dialogo rispettoso e costruttivo con la Parte cinese, per lo sviluppo delle relazioni bilaterali in vista del bene della Chiesa cattolica nel Paese e di tutto il popolo cinese».

Così recita l’annuncio del Vaticano del 22 ottobre dello scorso anno.

Si tratta del proseguimento di un rapporto iniziato nel settembre del 2018 quando il governo cinese e le autorità vaticane siglano un accordo provvisorio sulle nomine vescovili. L’intesa non solo pone fine a decenni di ordinazioni episcopali avvenute senza il consenso papale, annullando la distinzione tra «Chiesa ufficiale» e «Chiesa clandestina», ma ricongiunge anche la comunità cattolica cinese, che conta tra sei e dodici milioni di fedeli (cfr. MC marzo).

Il significato simbolico è rilevante: per la prima volta, Pechino riconosce l’autorità religiosa del Papa in Cina, una concessione che, in epoca imperiale, i missionari gesuiti non ottennero mai.

Da quella firma a oggi sono state annunciate una decina di nomine e consacrazioni vescovili congiunte, oltre all’ufficializzazione del ruolo pubblico di alcuni presuli prima non riconosciuti da Pechino.

La crescente collaborazione è testimoniata anche dalla presenza di vescovi cinesi ai Sinodi in Vaticano e ad altri appuntamenti in Europa e America. Nonché dall’interesse della Santa Sede a cooperare con Pechino per riportare la pace in Ucraina. Nonostante i progressi, tuttavia, «rimangono tanti problemi, piccoli e grandi».

Quali siano ce lo spiega Francesco Sisci, sinologo, autore e ricercatore senior presso la Renmin University di Pechino.

Nel 1988, Sisci è stato il primo straniero a essere ammesso alla facoltà di specializzazione dell’Accademia cinese delle scienze sociali (Chinese academy of social sciences, Cass), il principale think tank cinese.

Collaboratore di diverse riviste e istituti di ricerca, nel 2016 ha realizzato la prima intervista al Papa sui rapporti con la Cina, ripresa ampiamente anche sulla stampa cinese. Storico editorialista del Sole24ore, scrive per Asia Times ed è ospite abituale della Cctv (China central television), la televisione di Stato cinese, nonché dell’emittente di Hong Kong, Phoenix tv. Il suo ultimo libro è «Tramonto italiano» (Neri Pozza, 2024).

Immagine notturna della cupola di San Pietro, in Vaticano. Foto Jerome Clarysse – Pixabay.

Tra Pechino e Taiwan

Professor Sisci, l’accordo sulle nomine vescovili, già prolungato nel 2020 e nel 2022, è stato rinnovato lo scorso 22 ottobre non per i soliti due anni ma per altri quattro. Come interpreta questa scelta?

«Il prolungamento a quattro anni vuol dire, palesemente, che il rapporto è migliorato. La situazione è migliore, però non è ottimale. C’è una fiducia crescente che ha dato dei frutti: ovvero la nomina congiunta di alcuni vescovi. Non c’è stato un accordo risolutivo, conclusivo, né sono stati appianati tutti i problemi. Diversi vescovi nominati e riconosciuti a suo tempo dal Papa, non sono stati riconosciuti dal governo cinese. Rimangono poi tante altre questioni, piccole e grandi.

Ad esempio, resta insoluto il tema delle diocesi, così come il problema della conferenza episcopale. Soprattutto il Vaticano continua a chiedere di poter aprire una rappresentanza permanente a Pechino. Non un’ambasciata, bensì una rappresentanza, un ufficio culturale. Così come c’è una rappresentanza a Hong Kong che dipende dalla Nunziatura di Manila. Quindi, questo è uno dei punti in sospeso. Credo ci voglia tempo anche perché ci sono tante preoccupazioni da parte di Pechino per migliorare di più i rapporti».

Tra queste preoccupazioni figura anche Taiwan? A oggi, il Vaticano è uno dei soli dodici Stati a riconoscere ufficialmente il governo di Taipei, che Pechino definisce «separatista».

«No, perché se il problema fosse Taiwan, allora per il Vaticano il problema non esisterebbe. La Santa Sede sarebbe pronta ad aprire un ufficio a Pechino domani. È Pechino che non vuole».

Il professor Francesco Sisci durante un intervento alla televisione cinese Cctv.

La lettera di Benedetto XVI

Oltre ai rapporti istituzionali tra Pechino e il Vaticano, l’accordo sulle nomine vescovili ha portato benefici anche per la comunità cattolica cinese? C’è stato un periodo, intorno al 2014, in cui chi si dimostrava fedele al Papa – la cosiddetta «Chiesa sotterranea» – incorreva in non pochi problemi. Inoltre, nel Sud della Cina diverse chiese sono state demolite o private delle croci. Di tutto questo non si parla più da tempo.

Papa Benedetto XVI

«Stiamo parlando di due cose diverse: una sono le chiese come edifici, l’altra è la Chiesa come comunità di cattolici. Quella della “Chiesa sotterranea” era una denominazione che è durata – grossomodo – fino al 2007, cioè fino alla lettera di Benedetto XVI ai cinesi. Con la lettera il problema viene risolto de iure, perché il Papa incoraggia i cattolici cinesi a essere buoni cattolici, ma anche buoni cittadini. Quindi, per la prima volta, riconosce l’esistenza del governo di Pechino, mettendo fine a una questione molto antica che risaliva al 1951. Ovvero a quando l’ultimo nunzio del Vaticano, Antonio Riberi – che riconosceva il governo nazionalista del Kuomintang – venne espulso da Nanchino perché si era rifiutato di trasferirsi a Pechino (sede del governo comunista istituito da Mao alla fine della guerra civile, ndr).

Con il riconoscimento del governo della Repubblica popolare da parte di Benedetto XVI la “Chiesa clandestina” non aveva più ragione d’essere, perché veniva chiesto a tutti di seguire le leggi cinesi. Poi, con l’accordo sulle nomine episcopali del 2018, si è cominciato più seriamente a lavorare per riunificare la Chiesa.

Certo, come dicevamo, ci sono ancora dei vescovi nominati da Roma che non sono stati riconosciuti da Pechino. Però, non sono “clandestini”(*). Sono semplicemente riconosciuti come preti e non come vescovi. Anche perché, per la legge cinese, il riconoscimento di un vescovo significa che le proprietà della diocesi del luogo vengono intestate al vescovo che è il rappresentante legale della diocesi. Quindi, ci sono una serie di problemi di diritto e amministrazione un po’ come succede anche da noi per certi versi.

Per quanto riguarda invece le chiese intese come edifici, c’è stata una campagna che ha visto abbattere alcune croci e alcuni edifici. Però, che io sappia, questa fase è finita, non c’è più».

Anche grazie all’accordo sulle nomine episcopali?

«Credo che la campagna delle demolizioni si sia conclusa molto prima dell’accordo, che è stato raggiunto solo nel 2018».

Quindi, non le risulta che attualmente ci sia ancora una stretta sulla comunità cattolica?

«In generale c’è una stretta sulla Cina, c’è una stretta sui cinesi. I cattolici sono sottoposti a un trattamento particolarmente sfavorevole? Non credo. La Cina sta attraversando un momento particolare e i cattolici cinesi si trovano ad affrontare questo momento particolare come tutti gli altri cinesi. Non sono vessati né come i tibetani né come gli uiguri, per intenderci».

L’uso del mandarino: ma per chi?

Dal 4 dicembre 2024 l’udienza generale del Papa viene tradotta anche in cinese. Come interpreta questa decisione? A chi si rivolge il pontefice, ai cinesi all’estero o a quelli in Cina?

«Che l’udienza non fosse tradotta in cinese era una cosa strana. Il mandarino è una delle sei lingue principali dell’Onu. I tweet del Papa da sempre sono tradotti in 22 lingue, tra cui il cinese che è anche tra le 53 lingue in cui viene trasmessa Radio Vaticana. Come nel caso dell’Onu, tutto quello che viene tradotto in cinese di solito non arriva in Cina, se non attraverso Vpn (collegamento internet che permette di aggirare la censura, ndr)».

La distensione tra Cina e Santa Sede è riscontrabile anche nel crescente allineamento diplomatico su questioni di interesse internazionale.
Nel settembre 2023 il cardinale Matteo Zuppi è stato in Cina, quarta tappa della missione per la pace in Ucraina che Bergoglio gli aveva affidato. Il porporato ha incontrato il responsabile cinese per l’Eurasia, Li Hui, in «un clima aperto e cordiale». I due hanno discusso della guerra e delle sue drammatiche conseguenze, sottolineando «la necessità di unire gli sforzi per favorire il dialogo e trovare percorsi che portino alla pace». Quell’incontro ha avuto degli sviluppi?

«La comunicazione con la segreteria di Stato continua. Zuppi però era andato in Cina con un tema specifico, non per parlare di questioni bilaterali. Era andato per parlare di donne e bambini ucraini. Quindi della situazione umanitaria collegata alla guerra. Questo era lo scopo del viaggio, né più né meno. Non ho informazioni più recenti sulle interlocuzioni con la Cina, ma il Vaticano è ancora molto impegnato a livello diplomatico».

Il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano. Immagine Wikimedia.

Il Vaticano è anche sempre più impegnato in Asia. Tempo fa lei scriveva che questo protagonismo della Santa Sede coincide con il declino delle istituzioni del secondo dopoguerra, come le Nazioni Unite presso cui i paesi asiatici sono sottorappresentati. Secondo lei, è un’evoluzione dovuta semplicemente al contesto internazionale attuale, qelle dinamiche mondiali? Oppure questo interesse per l’Asia nasce da un impulso personale di papa Francesco?

«Entrambe le cose. Mi sembra di sì, mi sembra ci sia stato un impulso personale. Probabilmente incoraggiato anche dal segretario di Stato Pietro Parolin. D’altro canto, Francesco voleva fare il missionario in Giappone. E poi si deve essere reso conto che la Chiesa deve essere in Asia, se non vuole rischiare di diventare marginale. È una questione di numeri, di demografia».

In un suo articolo pubblicato su SettimanaNews ha fatto anche riferimento al fatto che, in Asia, la Chiesa cattolica può fare leva su due elementi: uno è l’Eucaristia, ovvero un rito nel quale Dio si offre per essere consumato e sacrificato, interrompendo così il ciclo della vita e della morte, che rappresenta un tema centrale nelle filosofie orientali come nell’induismo, nel buddhismo e nel taoismo.
L’altro è la confessione, che potrebbe compensare la circolazione di pratiche psicoterapeutiche che lasciano le persone con un senso di solitudine, senza un perdono specifico.

«Sì, ci possono essere degli elementi di contatto nelle varie culture asiatiche. I cinesi, ad esempio, si stanno avvicinando solo ora alla psicoterapia, che può essere considerata un’evoluzione della confessione. Quest’ultima però ha il vantaggio che prevede anche un’assoluzione esterna, mentre la psicanalisi potrebbe risultare non risolutiva per il paziente, che deve trovare una sua strada. Insomma, elementi interessanti. Però, bisogna lavorarci, non è una cosa così ovvia».

Il ruolo dei cardinali asiatici

Professore, pensa che, al di là di papa Francesco, ci sia una disposizione del Vaticano a proiettarsi verso l’Asia? Il lavoro di Bergoglio ha messo basi sufficientemente solide perché quest’opera di evangelizzazione sopravviva all’arrivo di un altro pontefice?

«Francesco sta facendo molti cardinali in Asia: ha nominato un cardinale in Mongolia (monsignor Giorgio Marengo, missionario della Consolata, ndr), uno in Laos. Ha fatto un cardinale in Bangladesh, e un altro a Teheran.

Per la prima volta abbiamo una folla di cardinali asiatici. Questi devono diventare delle teste di ponte della Santa Sede e del cattolicesimo in Asia. Lo saranno? Vedremo. Naturalmente non è una cosa di due giorni: è una cosa di venti anni o anche duecento».

Alessandra Colarizi
(seconda parte – fine)

(*) A inizio marzo, è stato arrestato monsignor Pietro Shao Zhumin, vescovo di Wenzhou.

La facciata della chiesa cattolica del Salvatore (Xishiku), a Pechino. Foto Zheng Zhou.




La casa della comunità fa 50


Il 5 aprile 1975 il cardinale Michele Pellegrino   consacra la nuova chiesa sorta non distante dalla Casa Madre dei Missionari della Consolata.  La comunità parrocchiale era nata cinque anni prima ma, di fatto, era già viva da tempo nella chiesa pubblica dedicata a Giuseppe Allamano.

Era il primo gennaio 1970 quando nacque la parrocchia Maria SS. Regina della Missioni. La sua casa era, allora, la chiesa pubblica della Casa Madre dei Missionari della Consolata, dove, dal 1938, era custodito il corpo del fondatore, Giuseppe Allamano, allora non ancora riconosciuto santo.

La chiesa, fin dalla sua costruzione, era un punto informale di aggregazione per tanti fedeli e nel dopoguerra era diventata di fatto una succursale delle tre parrocchie che lì confinavano. Così nacque ufficialmente la nuova parrocchia che, pur coprendo un territorio molto piccolo di circa mezzo chilometro quadrato, aveva una popolazione di oltre 10mila abitanti.

Da subito emerse l’esigenza di provvedere a una sede parrocchiale propria e distinta dalla Casa Madre, la quale era già rigurgitante di opere proprie e non era in grado di mettere a disposizione locali sufficienti per le necessità pastorali.

Pertanto, il 26 settembre 1971, su progetto degli architetti Domenico Mattia e Ugo Mesturino, con l’assistenza di Torino Chiese, sull’area di poco più di 1.500 m2 concessa dal comune, iniziarono i lavori di costruzione. Il luogo era un tempo un deposito officina per tram. Da qui lo stile della costruzione sobrio e moderno fatto di blocchi di cemento armato con alte colonne portanti che ricordano i binari del tram.

I muri perimetrali, che salgono verso l’alto raggiungendo vari livelli senza toccare il tetto, dal quale sono separati da ampie vetrate, danno l’idea di un edificio ancora in costruzione. Questo per ricordare che i fedeli sono le pietre vive della chiesa, la quale è un edificio che deve continuare a crescere nella fede, nella carità e nell’impegno ad annunciare e testimoniare il Regno di Dio nel mondo.

Finita la costruzione, il 5 aprile 1975, il cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, consacrò la nuova chiesa parrocchiale, la dedicò a Maria Regina delle Missioni e inaugurò i locali per le attività pastorali. Era presente una folla enorme, molti missionari, le suore della Consolata e molti sacerdoti delle parrocchie vicine. Nell’omelia il cardinale ricordò efficacemente i pilastri della vita comunitaria commentando il testo del libro degli Atti (2,42-47): «I fratelli erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera».

Chiesa edificio e comunità

Partendo da questi quattro pilastri: ascolto della Parola, unione fraterna, frazione del pane e preghiera, padre Gottardo Pasqualetti, nel 2000 in occasione del 25° della chiesa, quando era superiore dei missionari della Consolata in Italia, sottolineò cinque tratti fondanti della chiesa come edificio e come comunità viva.

Il primo tratto è che l’edificio è «casa di raduno» del vicinato (significato originale della parola parrocchia), e i fedeli sono invece «popolo radunato nella Trinità», corpo di Cristo. Non sono quindi solo una somma di persone che si trovano per necessità o semplice piacere, come al supermercato o allo stadio.

Il secondo tratto è che la chiesa è il luogo della «mensa della Parola e del pane», il corpo di Cristo: Parola che alimenta e sostiene un progetto di vita basato su amore e gratuità, e pane spezzato che ci fa essere un’unica famiglia.

Il terzo è che la chiesa, sia quella di pietra che quella delle persone, è casa di preghiera, comunità in preghiera. Solo nella preghiera si alimenta uno stile di vita centrato sull’amore a Dio, su giustizia e pace con gli altri, e sulla cura del creato, non come proprietà privata, ma bene di tutti.

Quarto: è casa della carità e della dignità umana affermata e difesa nel servizio ai poveri vicini e lontani, e nell’impegno per la pace e una politica attenta ai veri bisogni delle persone.

Da ultimo, è casa aperta la mondo. Un tratto, quest’ultimo, espresso anche dalla forma peculiare dell’edificio che privilegia la dimensione orizzontale su quella verticale per ricordare che la vicinanza a Dio è la sorgente e la forza per aprirsi ai fratelli. E questo è confermato dalla sua posizione in mezzo alle altre case: la chiesa è più bassa di tutti gli edifici circostanti, non domina, ma è lì, in mezzo, per essere casa di tutti. Non solo per il quartiere, ma per il mondo intero: la passione missionaria caratterizza da sempre la comunità che è vicina a tanti missionari e che ha in padre Ugo Pozzoli e nel cardinale Giorgio Marengo due dei suoi frutti più belli. Senza dimenticare i molti parrocchiani che sono parte viva di gruppi come gli Amici Missioni Consolata, Impegnarsi serve, Karibuni, la Terza Settimana o partecipano alle attività del Cam, ora Cultures and mission, già Centro di animazione missionaria.

Sacerdoti e laici

In cinquant’anni sono passati sei parroci, da padre Ernesto Tomei a padre Francesco Peyron, da padre Cesare Giulio a padre Osvaldo Coppola, da padre Francesco Bernardi a padre Pietro Moretti, l’attuale parroco dal 2010. Molti di più i viceparroci, collaboratori e collaboratrici, favoriti dalla vicinanza della Casa Madre, sia dei missionari che delle missionarie. Ma la vera forza sono i laici: catechisti, animatori, chierichetti, coristi, membri della San Vincenzo, volontari dei gruppi missionari, lettori. E i ragazzi e giovani non si sono fatti spaventare dalla mancanza di aree verdi, rimpiazzate da un salone palestra audacemente ricavato sotto il sagrato. Una bellezza, ma anche un rompicapo per tutti parroci, visto che il soffitto-sagrato è spesso danneggiato da crepe che lasciano passare la pioggia a causa della grande escursione termica. Passando sulla strada si possono facilmente sentire le grida di gioia dei ragazzi impegnati in frenetiche partite di calcio.

Di giubileo in giubileo

Inaugurata durante il giubileo del 1975, la chiesa ha celebrato il 25° in quello del 2000 e ora il 50° nel nuovo giubileo dei «pellegrini di speranza». Felice coincidenza che porta a ripensare non solo i cinquant’anni di una piccola chiesa, ma la vita stessa della Chiesa, la quale, attraverso molteplici vicende, continua a trasmettere la bella notizia di Cristo che trasforma la vita degli uomini.

Il cinquantenario è l’occasione per rinnovare la consapevolezza che siamo inseriti in una comunità che supera gli stretti confini del quartiere, della città, della nazione, facendoci diventare «pellegrini di speranza» in questo mondo oggi segnato da così ampie contraddizioni e sofferenze.

Missionari nell’oggi

Ora la comunità che ha trovato casa in questa chiesa non è più la stessa e non vive di nostalgie.

La Regina delle missioni ornata per la festa

La realtà sociale del quartiere è cambiata. Certo non è mai stata una realtà di periferia. La maggior parte delle persone che vi abitano sono proprietarie delle loro case, costruite negli anni del dopoguerra. Ma tanto è cambiato. La costruzione del vicino Palazzo di Giustizia ha trasformato l’area da zona residenziale a zona di uffici e studi legali che hanno occupato tanti appartamenti e sbilanciato i prezzi degli affitti. E così la popolazione sì è più che dimezzata. Oggi le stime più ottimiste parlano di cinquemila abitanti, in realtà forse siamo poco più di tremila, grazie a una piccola inversione di tendenza che ha riportato qui alcune famiglie giovani quando la metropolitana è arrivata fino al Lingotto, rendendo di nuovo interessante abitare nel quartiere.

La partecipazione alla vita della comunità mostra gli stessi sintomi della nostra Italia oggi: invecchiamento, tanti funerali, pochi battesimi, rari i matrimoni. Condomini che non favoriscono relazioni e solidarietà, ma isolano le persone, con casi di suicidio e anziani trovati morti dopo giorni. Diffidenza ad accogliere il sacerdote che arriva a visitare perché ci sono in giro troppi imbroglioni. Mancanza di spazi verdi dove socializzare e incontrarsi. Ma tutto questo non scoraggia, anzi è uno stimolo al rinnovamento, cominciando dal gruppo «Piazzetta verde» nato dalla riflessione sulla Laudato si’, che si impegna a ridare una dimensione umana all’ambiente e al vicinato.

C’è la San Vincenzo attenta ai vecchi e nuovi poveri. E poi il coro, i lettori, il gruppo dei genitori e tante altre iniziative per dare risposte vive all’essere cristiani missionari oggi.

E i giovani non dormono, ben coscienti di essere soggetti responsabili e creativi nella comunità: un nutrito gruppo di animatori, facendo la staffetta con i catechisti, accompagna i ragazzi da dopo la prima comunione fino alla fine della scuola superiore, anima l’oratorio e una miriade di iniziative per rendere gioiosa e appetibile la vita di fede.

Non è un’avventura facile, le sfide sono tante. Ma anche solo l’aver trasformato la chiesa dalla freddezza di un capannone industriale alla bellezza di un giardino accogliente, è un segno positivo e bello, segno che il cammino di speranza continua ed è possibile.

Gigi Anataloni

Benedizione delle Palme 2024

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