Cina. La ciotola di ferro


L’economia di Pechino cresce meno rispetto al passato e la disoccupazione giovanile è alta. Anche per questo si sono diffusi termini come «tangping» (stare sdraiati), «neijuan» (involuzione), «bailan» (lasciare marcire), indicatori di un malessere preoccupante, soprattutto tra i più giovani.

«Posso semplicemente dormire nella mia botte godendomi un bagno di sole come Diogene, o vivere in una grotta come Eraclito e pensare al “logos”. Poiché su questa terra non è mai esistita davvero una scuola di pensiero che esalti la soggettività umana, posso crearla io stesso. Stare sdraiati (tangping) è il mio movimento filosofico: solo stando sdraiato l’uomo può diventare misura di tutte le cose».

Nell’aprile 2021, sul forum Baidu Tieba, un giovane cinese di nome Luo Huazhong spiegava il motivo che lo aveva portato a scegliere uno stile di vita sobrio e minimalista.

Annoiato dalla routine, nel 2016 il ventiseienne aveva lasciato un lavoro in fabbrica poco gratificante. Inforcata la sua bici, aveva poi pedalato per 2.100 chilometri dalla provincia del Sichuan al Tibet tra vallate sconfinate e paesaggi mozzafiato. Tornato nella sua città natale, nella Cina orientale, all’epoca del suo post, trascorreva il tempo leggendo libri di filosofia e tirava a campare con lavoretti da 60 dollari al mese. Certo, ormai poteva permettersi solo due pasti al giorno, ma – come recitava il post – meglio stare sdraiati ad assaporare i piccoli piaceri della quotidianità piuttosto che trascorrere le proprie giornate sulla catena di montaggio.

Cinesi e «sdraiati»

Luo non è l’unico a pensarla così. Nel 2021, la parola tangping è stata annoverata tra i dieci meme più popolari dell’anno dal «Centro nazionale di monitoraggio e ricerca delle risorse linguistiche», agenzia affiliata al ministero dell’Istruzione cinese. Secondo un sondaggio condotto nel 2022 dalla società di ricerca Tsingyan Group, circa il 96% di seimila rispondenti ha affermato di conoscere persone «sdraiate», con una concentrazione maggiore tra la popolazione di età compresa tra i 26 e i 40 anni.

La viralità del tangping non è, però, solo un fenomeno di costume, una moda del momento. È il sintomo di un malessere più ampio: come altrove, anche in Cina, le aspettative personali cambiano di generazione in generazione. Ma nella Repubblica popolare, più che altrove, l’insolita «apatia giovanile» rispecchia la mancanza di prospettive professionali.

D’altronde gli «sdraiati» sono in buona compagnia. Negli ultimi anni la blogosfera cinese ha generato espressioni simili a tangping: neijuan (involuzione) e bailan (lasciare marcire) sono termini che – sebbene con gradi diversi – esprimono ugualmente il profondo pessimismo dei più giovani verso il futuro. La crescita cinese rallenta e i millennials (si intende la generazione nata negli anni ‘80 e prima metà ‘90, ndr), cresciuti nell’era della prosperità, sperimentano le prime difficoltà economiche.

Grafico con i dati sul tasso di disoccupazione in Cina. Immagine Statista.com.

Stipendi da 256 euro

Stando alla Banca mondiale, nel 2022 il reddito pro capite cinese si aggirava sui 13mila dollari rispetto ai mille scarsi del 2000. Ma ora «l’ascensore» sembra essersi un po’ fermato.

Dall’inizio del Covid, per molte categorie professionali gli stipendi sono rimasti invariati o sono persino diminuiti. Secondo uno studio della Beijing Normal University, circa 964 milioni di persone in Cina guadagnano ancora meno di 2.000 yuan al mese (256 euro). Nel migliore dei casi si tratta di una fase di assestamento. Nel peggiore degli scenari, sono già i primordi della famigerata «trappola del reddito medio»: se così fosse, esaurita la scintilla del progresso, il gigante asiatico sarebbe condannato a restare bloccato in una fase di stagnazione. D’altronde, la mobilità sociale è in evidente fase di stallo.

Settori che hanno trainato la locomotiva cinese nei primi anni Duemila sono entrati in crisi: l’immobiliare – bene rifugio per molte famiglie cinesi – risulta distorto da decenni di bolla speculativa. L’economia digitale – miniera d’oro di Alibaba, Tencent & Co. – sconta ancora il colpo di coda della pandemia. Complice la stretta normativa avviata dal Governo tre anni fa per disciplinare le big tech: come in Occidente, anche in Cina sono fioccate accuse di pratiche anticompetitive, ma anche di sfruttamento. Non è un caso che i vari meme tangping, neijuan e bailan, abbiano attecchito soprattutto tra gli impiegati nell’Information technology (It), mediamente ben pagati, certo, ma sottoposti a turni di lavoro mortali (nel vero senso della parola).

Per ammortizzare il calo dei ricavi, nel 2022, Alibaba ha ridotto la propria forza lavoro di 19.576 unità, per poi effettuare un ulteriore taglio di 11.065 posti, arrivando a circa 230mila dipendenti (luglio 2023). «Ottimizzazioni» simili sono state annunciate da Tencent e dagli altri principali competitor nazionali per un totale di 216.800 posizioni chiuse tra luglio 2021 e marzo 2022. Strage anche nel comparto del tutoring online, sottoposto a un’analoga campagna di rettificazione. Mentre il Governo cinese puntava ad alleggerire la spesa delle famiglie e il carico degli studenti, l’unico risultato concreto della ferrea regolamentazione è riscontrabile nella perdita di almeno un milione di posti di lavoro. L’impatto in termini occupazionali è molto più devastante considerata la popolarità del settore tra i giovani alle prime esperienze professionali. Un bel problema per i neolaureati che, secondo stime del ministero dell’Istruzione, il prossimo anno raggiungeranno quota 11,79 milioni, 210mila in più rispetto al 2023. Quel che è peggio i numeri vanno proiettati nel calo generalizzato del settore dei servizi, e in particolare del comparto privato; proprio quello che assorbe ben l’80% dell’occupazione urbana, ma lo scorso anno quello stesso comparto privato ha rappresentato solo il 40% delle 100 maggiori società quotate del paese, il valore più basso dal 2019.

Panorama di Shenzhen. Foto Darmau – Unsplash.

Voglia di pubblico

Al tentativo di rafforzare il controllo statale sull’economia, i giovani hanno risposto come prevedibile. Ovvero facendo a gomitate per aggiudicarsi la cosiddetta «ciotola di ferro»: lavori nel settore pubblico retribuiti così così, ma stabili e con numerosi benefit. A novembre, 2,25 milioni di persone hanno sostenuto l’esame nazionale per diventare dipendenti pubblici a fronte di soli 39.600 posti vacanti. Altri, al contrario, valutando la precarietà del momento, hanno optato per soluzioni di transizione. Nel 2021 erano circa 200 milioni i «lavoratori flessibili», inclusi 4 milioni di rider e oltre 1,6 milioni di live streamer (coloro che trasmettono in diretta via web). Un trend, quello della gig economy, rimasto costante anche una volta rimosse le misure anti Covid. Secondo un rapporto pubblicato dalla principale piattaforma di reclutamento Zhilian Zhaopin e dall’Università di Jinan, nel primo trimestre del 2023 la domanda per lavoretti temporanei è continuata ad aumentare nonostante il graduale calo dell’offerta.

Chiariamo: seppure con il freno a mano tirato, l’economia cinese continua a generare milioni di posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione complessivo è rimasto stabile, poco sopra il 5%. Ma, si sa, i numeri ufficiali vanno presi con le molle. Non solo perché tengono conto esclusivamente della popolazione urbana, laddove il 40% dei cinesi vive ancora in campagna. Dopo aver segnalato a giugno un tasso di disoccupazione giovanile del 21,3%, il livello più alto mai registrato, l’Ufficio nazionale di statistica ha sospeso «momentaneamente» la pubblicazione dei dati. E quando, a gennaio, l’ha ripresa, l’indice era sceso al 15%, secondo un nuovo sistema di valutazione.

Percorrere altre strade

In assenza di stime attendibili, sono proprio le testimonianze sporadiche dei giovani internauti la risorsa più utile per ricostruire la situazione lavorativa nel Paese. Oltre agli «sdraiati», gli ultimi anni di incertezze hanno favorito la diffusione di abitudini di vita parimenti «anticonformiste»: è questo il caso della popolarità riscossa dai luoghi sacri. Stando ai dati diffusi dalla piattaforma turistica Qunar, le visite ai templi sono aumentate del 367% nel primo trimestre del 2023. Una conversione mistica in buona parte associata ai millennials, tanto che circa la metà dei visitatori risultava nata dopo il 1990.

«Qui mi sento rilassato e a mio agio», spiega al Lianhe Zaobao un trentenne entrato come volontario in un tempio di Shenzhen per sperimentare una «vita diversa». Anziché pregare per trovare un buon lavoro, qualcuno ha tentato la fortuna. Tra gennaio e ottobre 2023, i biglietti della lotteria sono andati a ruba, con vendite in aumento del 53% rispetto all’anno precedente.

© Chi Lok Trang – Unsplash

Migrazione verso gli Usa

Optando per un’esistenza più rilassante in tipico spirito tangping, sono sempre di più i giovani cinesi che si trasferiscono nelle località più selvagge e amene del Paese; chi in smart working chi in cerca di forme più hipster di sostentamento. Qualcun altro ha, invece, deciso di rifarsi una vita all’estero. Anche a costo di finire nelle grane.

Secondo dati del Dipartimento per la Sicurezza nazionale americana, il numero di persone con passaporto cinese ad aver attraversato il confine degli Stati Uniti senza documenti validi è più che raddoppiato negli ultimi anni. Quasi 60mila immigrati cinesi sono stati arrestati per aver attraversato illegalmente il confine negli ultimi 14 mesi. In confronto ammontano solo a 24.603 i visti rilasciati regolarmente. Ma non serve andare tanto lontani per trovare una stabilità economica. A marzo 2023, in Cina, risultavano esserci 16 milioni di «figli a tempo pieno»: adulti (perlopiù disoccupati) disposti a vivere a casa assistendo i propri genitori in cambio di una retribuzione mensile.

Occupazioni digitali

Consapevoli del problema, le autorità stanno cercando di correre ai ripari. Nuove linee guida dovrebbero regolamentare meglio la gig economy. Nel 2022, la Cina ha aggiunto 158 nuove occupazioni al suo elenco dei lavori ufficialmente riconosciuti: 97 riguardano l’economia digitale, dal marketing online all’intelligenza artificiale.

Se tutto andrà come da programma, entro il 2030 saliranno a 449 milioni i posti sostenuti dalla digitalizzazione. Nel frattempo, Pechino si affida a misure estemporanee.

Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero delle Finanze, nel 2023 il governo centrale ha destinato 66,76 miliardi di yuan (9,17 miliardi di dollari) alle indennità di disoccupazione, un aumento annuo dell’8%. In alcune province, come lo Anhui, le imprese statali sono tenute non solo a reclutare neolaureati, ma anche a farlo rispettando quote prefissate.

Legittimità e benessere

Tanta premura è comprensibile: preservare la salute del mercato del lavoro è una questione in parte economica, in gran parte di stabilità sociale. Lo è soprattutto in Cina dove, in mancanza di elezioni popolari, il partito comunista fonda la propria legittimità politica sulla capacità di assicurare benessere economico. Dal movimento del 5 maggio 1919 alle proteste di piazza Tian’anmen, nel corso della storia cinese sono sempre stati i giovani a guidare le grandi mobilitazioni di piazza.

È proprio guardando al passato che, negli ultimi anni, la leadership cinese ha lanciato programmi di formazione di ispirazione maoista. Controllare la qualità delle coltivazioni, dipingere muri e ravvivare la lealtà politica dei contadini: sono alcune delle mansioni svolte dai giovani disposti a lavorare nelle campagne come ai tempi della Rivoluzione culturale. Oggi, tuttavia, non si vuole solo indottrinare le nuove generazioni. Domare la disoccupazione urbana è un’altra condizione imprescindibile per «costruire un paese socialista moderno», come vuole Xi. Questo aveva quasi certamente in mente il presidente quando ha ordinato di «guidare sistematicamente i laureati nelle zone rurali».

Propagandare l’ottimismo

Può sembrare una decisione disperata. Se così è, però, Pechino non lo dà a vedere. Alla parola disoccupazione la dirigenza comunista preferisce l’eufemismo «occupazione lenta»: secondo la vulgata ufficiale, il problema non sta nella mancanza di lavoro, ma nei giovani che, finiti gli studi, prendono tempo per pianificare il proprio futuro. L’importante è crederci, come si suol dire. D’altronde, la comunicazione o – meglio – la propaganda è tutto per il regime comunista che, dai tempi di Mao, legittima i propri (in)successi con la mobilitazione di massa.

Così, se la parola del 2021 era tangping, secondo i media governativi lo scorso anno è stata zhen, «rivitalizzazione». Uno sfoggio di ottimismo per incoraggiare i cittadini a sostenere il paese (e la sua leadership) davanti alle avversità economiche. Peccato che gli «sdraiati» di alzarsi non sembrano averne alcuna voglia.

Alessandra Colarizi

 




Torino. Missione Barriera


Periferia nord di Torino. Il quartiere più povero e multietnico della città dalla quale partirono i primi missionari della Consolata per il Kenya. Qui, un missionario keniano, da dieci anni, vive l’ad gentes tra italiani, stranieri, poveri, tossicodipendenti, migranti appena arrivati. L’annuncio attraverso la difesa dei diritti di chi non ha voce, l’accoglienza e la vicinanza.

I Missionari della Consolata sono arrivati nella parrocchia di Maria Speranza Nostra, zona Nord di Torino, nel 2013. Il parroco, padre Godfrey Msumange, classe 1973, era tanzaniano; il vice, padre Nicholas Muthoka, dell’81, keniano.

La stampa locale, ai tempi, aveva parlato del «parroco nero» con un certo stupore. Ad accoglierli, una donna italiana che lanciava insulti dal balcone.

Nello storico quartiere torinese di Barriera di Milano, il più multietnico della città, non tutti, forse, erano ancora pronti a vedere la chiesa locale guidata da sacerdoti africani.

Stile accogliente

Dal 2017 il parroco è padre Nicholas. Lo incontriamo in una fredda mattina d’inverno dopo dieci anni da quell’inizio per farci raccontare una delle frontiere della missione ad gentes dell’Imc in Europa.

Arriviamo in via Ceresole 44 alle 11. Le strutture della parrocchia prendono un intero isolato.

Suoniamo il citofono: viene ad aprire un giovane vietnamita che non dice una parola di italiano. È uno dei cinque migranti accolti in parrocchia.

Ci conduce dal parroco nel suo spartano ufficio ricavato in una stanzetta al fondo della chiesa.

Tra i banchi, nella navata, alcune persone fanno le pulizie: una donna nigeriana con suo figlio, un uomo brasiliano-peruviano, due donne italiane, una pugliese, l’altra piemontese.

Il missionario ci aspetta seduto su una poltrona in tessuto marrone. Maglioncino e camicia grigi, collarino bianco «d’ordinanza» in evidenza. Occhi brillanti, sorriso ironico, voce squillante. È in compagnia di padre Elmer Pelaez Epitacio, l’attuale viceparroco, messicano del 1982.

Il quartiere più straniero

La parrocchia, fondata nel 1929, si trova nel cuore di un quartiere popolare da sempre meta di migranti: prima dalle campagne piemontesi, poi dal Sud Italia, oggi da tutto il mondo.

La popolazione di «Barriera» è la più povera della città, con un reddito medio di 17mila euro, contro i 35mila del centro e i 47mila della collina, ma è anche la più giovane e, forse, vivace. Se nel capoluogo piemontese gli stranieri, provenienti per quasi la metà dall’Europa e per l’altra metà da Africa, Asia e America Latina, sono il 15,6% della popolazione (134mila su 858mila), in Barriera di Milano sono uno su tre (18mila su 50mila, il 36%), senza contare quelli che negli anni hanno acquisito la cittadinanza italiana.

Barriera è anche il quartiere nel quale viene sentita maggiore insicurezza da parte dei residenti, tanto da indurre le forze dell’ordine a fare frequenti retate che servono più a lavorare sulla percezione della popolazione che non sulla soluzione dei problemi. Proprio come denunciato più volte negli anni da padre Nicholas: le istituzioni parlano solo di degrado e mai delle persone che ne sono coinvolte, e affrontano lo spaccio, la violenza, i bivacchi di donne e uomini senza dimora, spostandoli da una zona all’altra del quartiere, senza offrire prospettive a chi volesse iniziare una vita più dignitosa.

Parrocchia colorata

Padre Nicholas ci fa accomodare. Accanto a lui, padre Elmer è seduto dietro la scrivania: volto ampio e allegro, capelli nerissimi, sciarpa beige sopra una maglia di pile grigia. Il missionario messicano è stato ordinato sacerdote nel 2021, ed è arrivato qui da un anno e mezzo, dopo un’esperienza tra gli indigeni Nasa della Colombia.

Racconta: «Sono felice di essere qua. Siamo in un territorio molto ricco. In questi dieci anni, la presenza missionaria ha dato un nuovo volto alla parrocchia». Poi elenca le attività: «Oltre alla pastorale ordinaria e al catecumenato, c’è l’oratorio aperto tutta la settimana, il gruppo caritativo che offre cibo ai poveri, il gruppo di mutuo aiuto per ex tossicodipendenti, il centro d’ascolto, due doposcuola. Poi abbiamo una prima accoglienza per stranieri: in uno spazio gestito dall’Ong Cisv ospitiamo una dozzina di donne; nella nostra canonica invece, in questo momento, stanno con noi cinque uomini».

Il missionario illustra anche l’ampia e variegata comunità Imc che vive in parrocchia: quattro sacerdoti (lui, p. Nicholas, p. Samuel Kabiru, keniano, e p. Frederick Odhiambo, keniano) e cinque seminaristi, provenienti da Etiopia, Tanzania, Kenya, Uganda e Costa d’Avorio, che studiano teologia e fanno pastorale in parrocchia. «Questo è un posto ricco di missione – chiosa -. Domenica scorsa, quattro donne africane e quattro adolescenti latinoamericani hanno chiesto ufficialmente il battesimo. Non è necessario andare in Africa o America o Asia. Oggi il mondo è qui».

Laicato e annuncio

Domandiamo da chi sono aiutati i missionari. «Ci sono suor Romana, una vincenziana, e Ivana, dell’Ordo virginum – risponde padre Nicholas -. Si occupano di catechesi, centro di ascolto, carità, anziani… praticamente di tutto. E poi ci sono i laici: il laicato qui è forte, non è solo manovalanza. Le cose le pensiamo e facciamo assieme».

Il missionario ha visto crescere, in questi dieci anni, il protagonismo dei laici e la loro attenzione ai «lontani», oltre che ai «vicini». «C’è stata anche una crescita nell’annuncio – aggiunge, dando una particolare forza a questa sottolineatura -. Una maggiore consapevolezza che non dobbiamo stare solo tra noi».

In oratorio le attività principali sono tre: l’oratorio feriale nel quale le persone, soprattutto ragazzi, vengono, giocano, stanno assieme. Questa è l’occasione per conoscerli. «Poi proponiamo il gruppo formativo – aggiunge padre Nicholas -. Infine, c’è il doposcuola due giorni alla settimana: sono quasi tutti magrebini, asiatici e africani. Poi c’è un gruppo di 35 bambini cinesi che fanno doposcuola la domenica, seguiti da una donna cinese. Per imparare la loro lingua e ripassare le materie di scuola. Da una parte, tutto questo è promozione umana, dall’altra è annuncio: all’estate ragazzi vengono tutti, sentono il Vangelo, cantano. La donna cinese, spesso, si ferma davanti alla madonna a pregare. Anche se non è cristiana».

La droga, il disagio

Nel quartiere, uno dei problemi più visibili è la droga: sia il consumo che lo spaccio.

Negli ultimi anni la stampa locale ha parlato spesso di un gruppo di tossicodipendenti che fino a poche settimane fa occupava il capannone abbandonato di un’azienda, la ex Gondrand.

Dopo l’ennesimo sgombero e l’inizio dell’abbattimento della struttura, ora i giovani si sono spostati. Sempre nei dintorni di Maria Speranza Nostra.

Padre Nicholas segue dal 2020 le persone coinvolte, e ha denunciato a più riprese l’indifferenza delle istituzioni nei loro confronti. «Per me sono prima di tutto dei giovani, non “tossici” o “migranti” o “barboni”. E sono nostri parrocchiani.

Hanno iniziato a venire da noi per il cibo – racconta -. Li abbiamo conosciuti e poi abbiamo iniziato ad andare a trovarli. C’è un gruppo più o meno fisso di venti, trenta persone. Ma il giro è più ampio: vengono da tutta la città e arrivano anche a cento. Formano una comunità. Stanno assieme, si picchiano, fanno di tutto, sono pieni di malattie.

Noi stiamo loro vicini con il cibo, le medicine, l’ascolto e con la difesa dei loro diritti presso chi dovrebbe occuparsene. Si spera che si muova qualcosa, ma sono anni che facciamo a pugni con l’aria».

Storie individuali

L’attenzione della parrocchia alle persone è segno della missione che si fa prossimità. Padre Nicholas ci racconta la storia di alcuni di loro: «Ad esempio, quella di un trentenne del Ghana: lavorava come meccanico, ma beveva molto, giocava alle macchinette, e poi chissà cos’altro faceva. Spendeva tutto in due giorni, ed era finito a vivere alla ex Gondrand. Io gli ho parlato molte volte, ma per due anni non c’è stato verso. Un giorno, cinque minuti prima della messa, arriva in lacrime: “Padre mi devi aiutare”. Io gli dico: “Proprio adesso? Cinque minuti prima della messa? Dopo due anni che ti sto dietro?” – ride padre Nicholas -. Mi sono fatto sostituire per la messa e l’ho ascoltato. Poi gli ho proposto: “Domani vieni con me al Sert, il servizio dell’Asl per le dipendenze. Una casa non te la trovo se prima non fai un percorso”. Allora lui ha iniziato a dirmi: “Sei cattivo, tu non mi vuoi aiutare…”, ma il giorno dopo è venuto con me. Dopo due mesi, era a posto.

Adesso è tranquillo, sereno, mi ha fatto pure un’offerta», conclude con un’altra risata.

Stupri e violenze

Un’altra storia riguarda una trentenne musulmana: «Una volta sono arrivato lì, alla Gondrand, proprio mentre la stupravano in tre – racconta padre Nicholas -. Meno male che mi conoscevano, e che, quando mi hanno visto, sono andati via. Per lei non era la prima volta, né l’ultima, ma non voleva denunciare per paura. Io le parlavo, ma lei non voleva andarsene. Quel gruppo è come una comunità. Si sentono legati tra loro, nel bene e nel male.

Un po’ di tempo dopo, è rimasta incinta. Non sapeva neanche chi fosse il padre. Allora si è convinta. Abbiamo contattato i servizi sociali ed è andata in una casa protetta. L’ho rivista poco tempo fa: era con il piccolo e abbiamo chiacchierato».

Nel gruppo non mancano le ragazze italiane: «Alla Gondrand, fino a un po’ di tempo fa, c’era un boss, originario dell’Africa occidentale. Era violento e controllava tutto, anche la droga che entrava e usciva. La sua ragazza di 25 anni era di Asti. Vivevano assieme al terzo piano della palazzina abbandonata. Un giorno sono stato chiamato con urgenza e, quando sono arrivato lì, ho trovato la ragazza con un ferro conficcato nella pancia. C’era sangue dappertutto. A mani nude ho tamponato la ferita e ho chiamato l’ambulanza. È stata salvata. Ma poi, quando è stata un po’ meglio, ha firmato l’uscita dall’ospedale ed è tornata lì con quell’uomo.

Io ho anche provato a chiamare la mamma, che però non ne voleva sapere. Poi se ne sono interessati i servizi sociali e alla fine è andata via. Dopo un po’ di tempo mi ha mandato un messaggio per farmi gli auguri di compleanno. In quel momento era a casa con la mamma. Qui non l’abbiamo più vista».

Spostare i problemi

Oggi alla ex Gondrand non c’è più nessuno. «La stanno buttando giù – dice padre Nicholas -. Ma è solo una questione di facciata. I giovani senza casa si sono semplicemente spostati».

Arrivano Franca e Mimma, due volontarie del gruppo caritativo, sulla sessantina. «Loro sono quelle a cui abbiamo sbolognato la faccenda della Gondrand», ride sornione il missionario.

«La maggior parte sono tossici, alcuni spacciatori – racconta Franca con voce calma e calda -. Ci sono anche donne italiane cui sono stati tolti i figli. Da poco siamo riusciti a sistemarne una che ha trovato un lavoretto ed è tornata a casa. Un’altra ha smesso di drogarsi da un mese. I ragazzi sono in gran parte di origine africana. Il problema di tutti loro è la droga. Vivono come randagi, un po’ qua e un po’ là.

Quando abbiamo iniziato, temevamo che fossero violenti, ma è bastato dire loro: “Ciao, come ti chiami, cosa fai, perché sei lì?”, e adesso ti salutano, ti ringraziano, ti abbracciano». «C’è una cosa che mi dà molta tristezza – interviene Mimma, che è rimasta in piedi accanto alla porta -. Questi ragazzi, uomini o donne che siano, non hanno la speranza di raggiungere un qualche obiettivo. È la droga che ammazza tutte le loro speranze. Quando vedi l’abbattimento totale di una persona ti manca il fiato».

«Sono gli “invisibili” – riprende Franca -. In realtà visibilissimi, perché sono per strada, da tutte le parti, ma sono invisibili per le istituzioni».

Vorremmo fotografare le volontarie, ma loro preferiscono di no: non vogliono «farsi pubblicità».

L’ad gentes in Europa

Si è fatto tardi. L’ora e mezza che avevamo a disposizione è già trascorsa. Rivolgiamo ai missionari le ultime due domande: «Cosa dice questa esperienza all’Istituto Missioni Consolata?».

Risponde padre Nicholas: «Penso che questa esperienza metta in luce qualcosa che sapevamo già: che la missione è anche in Europa. Facciamo opere di carità che hanno al centro l’annuncio. E indubbiamente qui siamo in un territorio ad gentes. Questa esperienza si inserisce nel nostro carisma e lo arricchisce. Qui non s’incontra un ambiente culturale omogeneo, come nella missione classica, ma molteplici culture in un contesto complesso».

Alla seconda domanda, «che cosa porta il carisma Imc in questo quartiere?», risponde invece padre Elmer: «Noi, come Imc, portiamo l’annuncio, e questo annuncio è la consolazione. E questo è un posto in cui offrire a poveri, adulti, bambini, anziani la vera consolazione».

Luca Lorusso

 Archivio MC




Clima, Cop28: meglio del previsto o solo parole?


Alla Cop28 di Dubai i Paesi del mondo hanno raggiunto un accordo che va oltre le basse aspettative della vigilia. Ma realizzarlo è tutta un’altra storia e le incognite continuano a essere tante.

A riguardarla ora, a mesi di distanza, la traiettoria della scorsa conferenza sul clima ricorda molto il profilo a saliscendi delle montagne russe. Partita con premesse poco promettenti e con aspettative bassissime, ha avuto un’apertura dei lavori incoraggiante, parecchi momenti tesi e perfino tragici durante lo svolgimento, una conclusione più positiva del previsto e, infine, un immediato ridimensionamento dell’ottimismo generato da questa conclusione.

La Cop28 – cioè la «Conferenza delle parti aderenti alla convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici» – si è svolta a Dubai, negli Emirati arabi uniti, dal 30 novembre al 13 dicembre 2023. Essa ci mostra un mondo che ha giudicato del tutto insufficienti gli sforzi fatti finora per mettere in pratica l’accordo di Parigi del 2015 sul clima, e ha deciso di intensificarli rinunciando ai combustibili fossili. Non è riuscita, tuttavia, a spingere le parti fino all’adozione di decisioni legalmente vincolanti.

Il dibattito fra chi vede nelle decisioni prese alla Cop28 un buon risultato e chi non lo vede si gioca in definitiva su questo: per la prima volta c’è un accordo ufficiale sul fatto che il mondo debba andare verso l’abbandono dei combustibili fossili, ma non c’è alcuna garanzia che i Paesi rispetteranno questo accordo e non tenteranno di piegare i suoi passaggi più vaghi ai propri interessi immediati.

Allagamenti a Rio do Oeste (foto Marco Favero / Governo de SC)

Dove eravamo rimasti

La Cop27 di Sharm El-Sheik, in Egitto, si era conclusa con un unico risultato degno di nota: la decisione di creare un «Fondo perdite e danni», destinato a compensare per i danni subiti finora i Paesi più vulnerabili, dove le conseguenze del cambiamento climatico sono già molto pesanti.

Sulla mitigazione, cioè su quell’insieme di interventi necessari per contrastare il fenomeno stesso del cambiamento climatico, e quindi prevenire danni e perdite, non c’erano stati progressi. L’Egitto, Paese ospitante, aveva anche approfittato della Conferenza sia per portare avanti la propria agenda di esportatore di gas, sia per tentare di ripulire l’immagine del governo di Al-Sisi, danneggiata dalle sistematiche violazioni dei diritti umani che il regime mette in atto e dal progressivo impoverimento della popolazione egiziana@.

La scrittrice e attivista Naomi Klein a questo proposito aveva commentato che il vertice sul clima stava andando «ben oltre il greenwashing di uno stato inquinante: è il greenwashing di uno stato di polizia»@.

L’annuncio, giunto come da tradizione nei giorni di chiusura della Cop, che la sede per il successivo summit sarebbe stata Dubai, uno degli Emirati arabi uniti – cioè un altro Paese la cui economia si basa sui combustibili fossili – aveva poi contribuito a creare il clima di rassegnata sfiducia che si è trascinato fino all’apertura della Cop28. Si era allora a fine novembre 2022, tempo nel quale tutti gli scienziati stavano già anticipando quello che ora sappiamo per certo: che il 2023 sarebbe stato l’anno più caldo mai registrato@.

Loyangallani, El Molo Bay, Ol Molo Village, l’isola di Komote nel 2009 (foto Gigi Anataloni)

Una conferenza tesa

La Conferenza del 2023, ospitata nella Expo city sorta nel 2020, si è aperta con l’accordo che rende operativo il Fondo perdite e danni, quello che la Cop27 aveva solo stabilito di creare. Secondo Jacopo Bencini, dell’organizzazione Italian climate network (Icn), la presidenza emiratina della Cop28, guidata dal sultano Ahmed Al Jaber, ha voluto con quella mossa «fugare il più possibile dubbi e sospetti rispetto a questa prima Cop presieduta da un Ceo (amministratore delegato, ndr) di un’azienda petrolifera»@.

Al Jaber è infatti direttore generale e amministratore delegato di Adnoc, la compagnia petrolifera di stato di Abu Dhabi, un altro dei sette emirati federati. Aveva ricevuto molte critiche quando, una settimana prima della Cop, aveva detto che non esistono prove scientifiche a dimostrare che eliminare i combustibili fossili permetterà di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali come richiede l’accordo di Parigi@.

La conferenza, raccontava Ferdinando Cotugno nei suoi dispacci@ pubblicati sul quotidiano Domani e nella sua newsletter Areale, è poi proseguita con negoziati costretti a farsi largo nella melma di risentimenti e tensioni che si agglutinava intorno a troppi elementi di disturbo: scorie delle fratture e dei conflitti del mondo esterno alla Cop che inquinavano l’atmosfera pacificata della Expo city.

Innanzitutto, il veto del presidente russo Vladimir Putin, ostile all’ipotesi che una capitale dell’Unione europea potesse ospitare la Cop29; ma anche le molte resistenze delle economie basate sul fossile, rivelate dalle agenzie Reuters e Bloomberg con la pubblicazione dei contenuti di alcune lettere inviate dall’Opec, l’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio, agli Stati membri. Le lettere contenevano una consegna inequivocabile: respingere ogni proposta di accordo che attaccasse direttamente i combustibili fossili invece delle emissioni@.

Secondo alcuni osservatori, nel rompere lo stallo potrebbe aver giocato uno strumento tradizionale della cultura araba, il majlis, che – riportava@ nella sua analisi sul New York Times il giornalista economico Peter Coy – è sia un luogo che un evento. È la zona di un’abitazione araba dove i padroni di casa si siedono con gli ospiti. Nella versione della Cop28, il majlis ha preso le sembianze di una riunione più informale, a porte chiuse, con i delegati seduti in cerchi concentrici a dar vita a una condivisione più personale e immediata.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Sullo sfondo l’isola di Komote nel 2024. (Foto Anna Pozzi)

La prima bozza

Ma, nonostante gli accorgimenti per rendere la negoziazione più fluida, la prima bozza di accordo uscita l’11 dicembre si è rivelata molto problematica@. La principale pecca era quella di non contenere il cosiddetto phase-out dei combustibili fossili (cioè la scelta di smettere del tutto di usarli), nemmeno per il carbone, sull’abbandono del quale la comunità internazionale sembrava invece più concorde. Il testo era più attento a promuovere i metodi per catturare e stoccare l’anidride carbonica, prevedendo una riduzione dei soli combustibili fossili le cui emissioni non possano essere abbattute appunto con quei metodi (unabated, nell’espressione inglese). Ma è noto che la ricerca sulle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 è ancora molto lontana dall’aver trovato soluzioni che permettano di abbattere emissioni su larga scala@.

Il culmine delle tensioni è stato probabilmente raggiunto con la frase – molto ripresa dai media – di John Silk, capo delegazione delle Isole Marshall, che così ha commentato la bozza: «La Repubblica delle Isole Marshall non è venuta qui per firmare la sua condanna a morte. Quello che abbiamo visto oggi è totalmente inaccettabile. Non andremo alle nostre tombe d’acqua in silenzio»@.

L’accordo che nessuno si aspettava

Aree allagate di Kinshasa dopo le piogge del 14 dicembre 2023 e 4 gennaio 2024 che hannop causato lo straripamento del fiume Congo (foto Cesar Balayulu)

Dopo un’ulteriore ultima nottata di negoziati, i delegati sono tuttavia arrivati a un documento finale – il primo Global stocktake, o Gst (in italiano: inventario globale)@ – che, a detta di molti osservatori, contiene alcuni passaggi storici. Un’analisi completa del documento è disponibile sul sito di Icn@; i punti che rappresentano una svolta sono i seguenti.
Per la prima volta in 28 anni, la conferenza sul clima fa ufficialmente proprie le posizioni della comunità scientifica, riconoscendo che il riscaldamento del pianeta è «in modo inequivocabile» causato dall’uomo, e invita tutte le parti a contribuire agli sforzi globali per allontanarsi (transitioning away, nel testo originale) dai combustibili fossili nei sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo – ammettendo così di fatto che questo tipo di combustibili è, per così dire, il grosso del problema – e per triplicare l’energia prodotta con fonti rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica.

L’impegno a non superare la soglia del grado e mezzo rimane «la stella polare», ha detto l’inviato per il clima ed ex segretario di stato Usa, John Kerry e, anche se da Dubai non è uscita una tabella di marcia precisa, l’accordo dice in modo chiaro che per onorare questo impegno occorre limitare le emissioni del 43% entro il 2030, del 60% entro il 2035, e arrivare infine a zero emissioni nette entro il 2050.

Il Gst contiene un riferimento all’energia nucleare su cui il dibattito italiano si è molto focalizzato. Eppure, osservava Cotugno nella sua newsletter del 13 dicembre, il testo uscito da Dubai è ben lontano dal dare lo stesso peso a rinnovabili e nucleare: riconosce quest’ultima opzione come legittima, ma l’impegno verso le rinnovabili è molto più marcato.

Aree allagate di Kinshasa dopo le piogge del 14 dicembre 2023 e 4 gennaio 2024 che hannop causato lo straripamento del fiume Congo (foto Cesar Balayulu)

Tante incognite

Già durante la plenaria conclusiva della conferenza hanno cominciato a emergere gli elementi su cui occorrerà vegliare perché l’accordo non venga svuotato del suo senso.

A nome dell’Alleanza dei piccoli stati insulari, la capo negoziatrice samoana Anne Rasmussen ha rilevato la presenza nell’accordo di una «sequela di scappatoie»@. Il delegato del Senegal, a nome dei 46 paesi meno sviluppati, ha espresso preoccupazione per «i bassi contributi complessivi»@ che i vari fondi per il clima@ hanno nei fatti ricevuto, e che sarebbero vitali sia per finanziare interventi di adattamento, sia per limitare i danni subiti da una crisi climatica della quale i Paesi da lui rappresentati sono i meno responsabili.

Solo per fare un esempio: pochi giorni dopo l’effettiva creazione del Fondo perdite e danni con cui si è aperta la Cop, i Paesi ad alto reddito avevano promesso 700 milioni di dollari. La cifra però rappresenta solo lo 0,2 per cento dei 400 miliardi che, secondo la stima più citata negli ultimi mesi, sarebbe necessaria per le compensazioni.

Se la professoressa Valeria Termini, intervistata da Lucia Capuzzi su Avvenire@, vede la svolta di Dubai in un cambio di approccio della Cina – apparsa, dice Termini, più pronta a sostenere i Paesi in via di sviluppo e meno legata a quelli produttori di petrolio -, il giornalista esperto di clima David Wallace-Wells ha scritto che ai ritmi di emissioni attuali la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento è già fuori dalla nostra portata@. Citando il Global Carbon Budget, pubblicazione coordinata dall’Università di Exeter, nel Regno Unito, che ogni anno sintetizza i risultati del lavoro di numerosi gruppi e centri di ricerca, Wallace-Wells riporta che le emissioni dovrebbero raggiungere lo zero non molto oltre il 2040: dieci anni prima di quanto indicato nell’inventario globale di Dubai.

A pesare sulle prospettive di gestione della crisi climatica c’è anche l’incognita delle elezioni negli Stati Uniti che, alla data di chiusura di questo articolo vedono l’ex presidente Donald Trump in largo vantaggio nelle primarie del partito repubblicano. Già durante il suo mandato, Trump aveva ritirato gli Usa – secondo Paese al mondo per emissioni – dall’accordo di Parigi e riempito le agenzie governative di lobbisti dei combustibili fossili, e c’è da aspettarsi un secondo mandato ancora più aggressivo, scriveva Politico lo scorso gennaio@.

Allo scenario del disimpegno degli Usa va poi aggiunta la disinformazione, che ha modificato forma e ha smesso quasi del tutto di negare che il cambiamento climatico esiste per dedicarsi invece ad attaccare le soluzioni, sostenendo ad esempio che le rinnovabili e i biocombustibili non funzionano o che le politiche per il clima ci impoveriranno.

È questo che emerge da uno studio del Center for countering digital hate, che ha analizzato l’evoluzione dei contenuti dei video negazionisti su YouTube. Il compito dell’ambientalismo nel 2024, twittava a proposito Ferdinando Cotugno, «è proteggere le ragioni della transizione dalla nuova ondata di bugie»@.

Chiara Giovetti

Mungitura in una stalla. L’allevamento intensivo degli animali è uno degli imputati principali del cambiamento climatico (foto Gigi Anataloni)




Venezuela. Qui non funziona niente… però c’è il sole!


Suor Mara mi sta portando in auto a celebrare la messa in una comunità. Viaggiando comincia a elencare tutte le cose che non funzionano in Venezuela, e sono tante. Alla fine, però, conclude che almeno c’è il sole. È la sintesi dello spirito venezuelano e l’anima che tiene ancora in piedi questo popolo.

Da sette anni il Venezuela vive una grave crisi economica. Il crollo del prezzo del petrolio e la corruzione della classe politica hanno spinto più di cinque milioni di persone ad andarsene. La situazione è paragonabile a quella dei paesi che hanno attraversato un conflitto armato.

Le politiche economiche della cosiddetta rivoluzione bolivariana che, in un primo momento, avevano suscitato enorme entusiasmo nella popolazione venezuelana, a poco a poco hanno dimostrato la loro follia portando al collasso l’economia.

Allo stesso tempo, la mancanza di trasparenza politica e gli attacchi all’opposizione democratica hanno indotto gli Stati Uniti e l’Europa a imporre pesanti sanzioni, che hanno peggiorato ulteriormente la situazione.

A causa della fame che dilagava in tutto il Paese, la gente ha cominciato a lasciare il territorio nazionale con tutti i mezzi a sua disposizione, raggiungendo quasi sei milioni di sfollati economici.

Durante la pandemia, il governo ha dovuto fare alcune concessioni al settore privato, come la possibilità di libera importazione e vendita di molti prodotti. Questo ha contribuito a ridurre le enormi carenze, senza tuttavia risolvere il problema a causa dei prezzi in dollari degli stessi.

In questa situazione il governo ha cominciato ad accettare di dialogare con l’opposizione politica e ha aperto diversi tavoli negoziali in Messico e alle Barbados.

In fila per ricevere un pasto dal programma di aiuto della parrocchia di Carapita – distribuzione agli adulti

Le guerre cambiano le cose

Gli scenari di guerra, soprattutto quelli in Ucraina e in Israele e Palestina, hanno contribuito anch’essi ha cambiare il panorama. L’embargo petrolifero imposto alla Russia, il pericolo di un’escalation di violenza in Medio Oriente hanno costretto le potenze occidentali a ridurre le misure che avevano adottato, portando, in un certo senso, un sollievo a tutto il Venezuela.

Infatti, le compagnie internazionali possono nuovamente estrarre il petrolio nel Paese, ed è così che la Repsol spagnola, l’Eni italiana e la Total francese sono  nuovamente presenti con la Chevron statunitense, che non ha mai lasciato il territorio. C’è stata quindi un’iniezione di denaro nelle casse del Paese che ha portato una ventata di sollievo economico.

Questo fa sperare che nel prossimo futuro ci sarà una leggera crescita.

Al momento, il miglioramento non si percepisce ancora, e gli stipendi di tutti rimangono molto bassi, però la riduzione delle sanzioni fa sperare in un prossimo cambiamento.
Tornando all’esodo dei venezuelani, di carattere essenzialmente economico, è prevedibile che con il miglioramento delle condizioni di vita, esso possa diminuire, ed è addirittura prevedibile che alcuni ritorneranno.

In effetti, il responsabile degli aiuti umanitari in Venezuela, in un recente incontro con imprenditori, ha sottolineato che più di 300mila venezuelani sono già tornati nel territorio nazionale e ora stanno lavorando per avere le condizioni minime per non essere costretti a ripartire.

Tutto ciò, insieme al fatto che quest’anno ci dovrebbero essere le elezioni presidenziali, ci fa sognare che un barlume di speranza possa risplendere sul Venezuela. Questa è l’attesa di tutti coloro che lavorano perché in questo Paese ritorni la pace, la crescita e la giustizia.

Intanto, nel novembre 2023, il portale digitale del quotidiano El Nacional, contrario al governo di Nicolás Maduro, ha riferito che il flusso migratorio venezuelano, che stava arrivando in Messico attraversando diversi paesi tra cui la terribile giungla del Darién a Panama, era diminuito del 66%.

In fila per ricevere un pasto dal programma di aiuto della parrocchia di Carapita – distribuzione agli adulti

La Chiesa

La Chiesa cattolica in Venezuela conta circa 25 milioni di fedeli pari al 90% della popolazione. L’evangelizzazione del territorio cominciò agli inizi del XVI secolo contemporaneamente al processo di conquista coloniale da parte della Spagna.

Con lo Stato al collasso, l’assistenza ecclesiastica resta per molti l’unica àncora di salvezza. Aiutando i poveri, la Chiesa tiene in vita quel sostrato di umana solidarietà senza la quale non c’è riscatto.

Ha raccontato il cardinale Baltazar Porras, arcivescovo di Caracas: «Si pensa che il nostro sia un Paese ricco, mentre invece è solo il Governo a essere ricco, non la gente. In questo momento attraversiamo una grave crisi, con grandi povertà e miseria in tutto il Venezuela, e anche noi preti e vescovi dobbiamo aiutare la popolazione a non perdere la speranza. A differenza di quello che accade in Europa, qui avviene una rinascita della fede, perché nella crisi e nella sofferenza abbiamo bisogno di Dio per lavorare in favore del bene comune e della dignità delle persone. Questo fa sì che abbiamo una vita ecclesiale ricca e gioiosa». In una lettera scritta alla conclusione della Conferenza episcopale del luglio 2021, i vescovi così scrivevano: «Quando un’ideologia prende il sopravvento come sistema di potere che viola i diritti umani e rifiuta la dignità delle persone, essa genera ingiustizia e violenza istituzionale».

I vescovi sottolineano tre realtà specifiche nella dolorosa situazione del Paese, esacerbate dalla pandemia: «Lo smantellamento delle istituzioni democratiche e delle imprese statali; […] il drammatico esodo dovuto all’emigrazione forzata di quasi sei milioni di compatrioti espatriati per mancanza di opportunità di sviluppo nel Paese [e] la povertà della grande maggioranza del nostro popolo». Particolare enfasi è stata messa sulla malnutrizione dei bambini e sulle situazioni di ingiustizia vissute dagli anziani. I vescovi aggiungono che, oltre a questi aspetti, «ci sono i danni psicologici, morali e spirituali vissuti dai venezuelani nel dramma che stiamo vivendo».

«Ciò che è veramente in gioco, in mezzo a tutto questo deterioramento, è – scrivono ancora – la persona umana nella pienezza della sua vocazione». Per questo concludono invitando i cristiani a fare attenzione perché «c’è un obiettivo di fondo: trasformare l’essere umano, creato da Dio come un essere libero e responsabile, in un semplice esecutore».

Poveri per le vie di Carapita a Caracas

Appello a non mollare

Poveri per le vie di Carapita a Caracas

Nella lettera della Conferenza episcopale (Cev) oltre la denuncia è forte anche il richiamo alla necessità di «continuare a lavorare per la comunione, la pace e il benessere materiale e spirituale del nostro popolo» e l’appello a tutti i settori del Paese perché facciano la loro parte nella ricerca del bene comune. «Che nessuno si senta escluso». Nell’esortazione, spiegano che la «rifondazione della nazione» implica l’inclusione degli svantaggiati, la promozione del dialogo, la promozione della famiglia e dell’educazione e «il rinnovamento dei partiti politici». Insieme ai già noti problemi in ambito sociale, economico e politico c’è la fragilità del sistema democratico venezuelano e le molteplici difficoltà a partecipare alle elezioni viste le intimidazioni e l’estromissione dei candidati.

Monsignor González de Zarate, attuale presidente della Conferenza episcopale e Arcivescovo della diocesi di Cumanà, spiega: «Di fronte a questo panorama, la Chiesa fa un ripetuto appello agli attori politici perché cerchino percorsi di rinnovamento e di partecipazione, percorsi di inclusione sociale in risposta ai grandi bisogni del nostro Paese». Riguardo alla situazione economica che vede una ripresa, il presidente dei vescovi parla di un «miglioramento apparente», perché larghi strati della società restano esclusi e, anzi, sottolinea che una causa dell’esodo venezuelano è «la mancanza di opportunità che costringe le persone a lasciare il Paese», cosa che «crea una grave crisi familiare perché gli adulti in età produttiva viaggiano, lasciando spesso gli anziani e i bambini soli in situazioni precarie».

Non c’è dubbio che la Chiesa venezuelana abbia accompagnato il popolo in questa drammatica situazione. Gli ostacoli per essa sono stati gli stessi di quelli «vissuti quotidianamente da tutto il popolo venezuelano». Oggi per la Chiesa è molto più difficile compiere la sua missione – ha spiegato monsignor González de Zarate – perché ci sono problemi di insicurezza. Tuttavia continua a servire specialmente i più poveri ed esclusi come meglio può. «Con le sue esortazioni – ha concluso il presidente dell’episcopato – vuole illuminare questa realtà a partire dai valori del Vangelo, della solidarietà, della giustizia e della libertà, in modo inclusivo, con la partecipazione di tutti».

I Missionari della Consolata

In fila per ricevere un pasto dal programma di aiuto della parrocchia di Carapita – la cura dei bambini

I nostri missionari continuano la loro missione con una presenza semplice e consolante, molto apprezzata dalla gente e anche dalla Chiesa locale. La missione in terra venezuelana è caratterizzata dalla presenza nella periferia della capitale con una parrocchia, Carapita, in ambiente povero e popolare, e con la casa della delegazione che è la casa di accoglienza. A Barquisimento continua il Centro di animazione missionaria e vocazionale, mentre Barlovento è una missione tra afrodiscendenti. Infine, siamo nel delta del rio Orinoco con il popolo indigeno warao con una presenza nella città di Tucupita per accompagnare gli indigeni residenti in città e una sul fiume, a Nabasanuka.

La missione in questo tempo così politicamente e socialmente complicato è caratterizzata anche dal supporto alimentare ai più poveri e abbandonati. Ogni giorno nelle diverse comunità i nostri missionari distribuiscono cibo a 400 – 600 persone.

In fila per ricevere un pasto dal programma di aiuto della parrocchia di Carapita – distribuzione agli adulti

Un’esperienza che ho potuto fare una domenica sera è stata quella di unirmi al gruppo giovani di Caracas e, insieme ad alcuni missionari, visitare i poveri e i senza tetto lungo le strade della città condividendo con loro una «arrepita» e una bevanda calda fatta di latte in polvere e avena. Un’esperienza molto commovente, caratterizzata dall’incontro personale con uomini e donne concrete. Il gruppo non si limita a dare del cibo ma si rende disponibile all’incontro, al dialogo, allo scambio e condivisione fraterna, e anche alla preghiera. Ogni incontro permette uno scambio di parole e di consolazione che danno al povero pasto colore di cielo. Qui ci sono tante storie di sofferenza, tanti sogni non ancora realizzati, tante realtà negate; ma c’è anche il profumo del crisma, ci sono i segni del Messia, di colui che prende su di sé le sofferenze degli altri.

Tornando alla missione quella sera, mi sono commosso perché non siamo andati a fare la predica su Gesù, ma l’abbiamo incontrato nella sua Parola e nella sua carne: in quei volti che ho incrociato, in quelle mani che ho stretto, in quelle case che mi hanno ospitato. Non abbiamo fatto una buona azione, ma siamo andati a incontrare lo stesso Gesù che abbiamo incontrato nella celebrazione dell’Eucaristia e nell’ascolto della Parola alla Messa della mattina. E poi, se non c’è la strada non c’è Vangelo, perché noi non possiamo annunciare una notizia bella, non possiamo dire che i sogni si realizzano se non ci mettiamo in strada. E il Vangelo non è mai astratto. Mai come in questo caso il Vangelo è la strada.

Speriamo che il sole continui a risplendere anche per la povera gente di questo paese meraviglioso.

Stefano Camerlengo




E si mise a sedere sulla cenere


Eccoti sul tuo trono, antico Re di Ninive. Siedi avvolto nel profumo mediorientale del tuo manto.
La citta su cui regni è come la tua vita. Tumultuosa, disarticolata. Traboccante di commerci e lingue, gesti umani e grugniti di bestie, piazze vivaci e vicoli ripugnanti, odori e polvere.

Ci vogliono tre giorni di cammino per attraversarla. Quando ci provi, ti stupisce.

A volte t’imbatti in misteriosi bastioni fortificati, e li aggiri. Non sai cosa celino, e si aprono solo pronunciando parole d’ordine che hai scordato.

Eccoti qui, sul tuo trono. Sei inquieto, ma non troppo. Amministri l’ordinario, pensi di avere tutto sotto controllo, o quasi.

Non ti accorgi, però, che il suolo trema e le nubi si addensano, non vedi che gli abitanti del tuo regno, uno dopo l’altro, si vestono di sacco e iniziano un digiuno.

Non ne prendi coscienza finché dentro te la fame non morde con insistenza. E allora la percepisci: c’è una voce che risuona per le strade. Chiede la tua presenza, e domanda di riportare alla memoria le parole d’ordine accantonate e lasciare da parte il resto.

Qualcosa di profondo sta avvenendo.

È la fine? O un’occasione?

Decidi che è un inizio, uno dei molti che già hai vissuto e che vivrai.

Qualcuno, un giorno, ricordando quanto accade in questo momento, scriverà a tuo riguardo: «Egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere» (Giona 3,1-10).

L’ordine che esce dalla tua bocca segue quanto già sta avvenendo: tutto ciò che vive e si muove nel tuo regno, uomini e bestie, si fermi, trattenga la voracità che l’acceca e lasci cadere la violenza che è nelle sue mani. Si liberi dalle false immagini che si è fatto di sé e del suo dio e invochi il Signore perché riporti tra le case la vita.

Chissà che il tuo ardente sdegno per te stesso, o Re, non si plachi, e che tutto quanto doveva morire ed essere lasciato andare non si trasformi in cenere su cui riposare.

Dall’alto di una croce, e dalla luce di un sepolcro, una Parola ti riaprirà.

Buon cammino verso la Pasqua, svincolati dai troni che ci bloccano e dai manti che ci coprono,

da amico

Luca Lorusso

Clicca qui sotto per andare al sito di Amico e leggere tutto: per la preghiera | Il progetto per i ragazzi di Zuunmod | La testimonianza di suor Francesca Allasia dalla Mongolia | L’intervista a padre Celio Fumo, animatore missionario a Bevera.




Nuova speranza, nuove azioni


Davanti ai processi di distruzione del mondo, sono necessarie resilienza e azioni. Ognuno di noi può dare un contributo unico e significativo.

«Il tratto costante del suo impegno […] è la consapevolezza che il lavoro culturale, politico e spirituale per rafforzare la resilienza e la capacità di azione di individui e gruppi è l’unico modo per far fronte alla catastrofe dei processi di distruzione in atto nel mondo».

Così scrive Giovanni Scotto, curatore dell’edizione italiana di «Speranza attiva», a proposito di Joanna Macy, autrice del libro assieme a Chris Johnstone.

Attivista nonviolenta fin dagli anni Settanta, Macy ci invita a trasformare le nostre relazioni in una «rete della vita», attraverso un «lavoro che riconnette» gli esseri umani e il mondo, per superare il diffuso senso di disconnessione che sta alla radice delle crisi contemporanee.

La «speranza attiva» è l’asse portante del percorso, perché coltivarla «significa diventare partecipi nel realizzare ciò che più vogliamo». Ma come fare per metterci in gioco? Le tre parti del libro ce lo spiegano.

La grande svolta

Nella prima parte, intitolata La grande svolta, l’autrice analizza la crisi della modernità attraverso tre narrazioni: quella «dell’ordinaria amministrazione», nella quale tutto «va bene così», «non si può cambiare nulla», l’obiettivo è «andare avanti»; quella del collasso ambientale e sociale cui ci sta portando il mondo dell’ordinaria amministrazione; infine, quella della «grande svolta» che narra l’emergere di risposte creative capaci di avviare la transizione dalla società industriale della crescita a una che cura la vita.

Non c’è dubbio che la crescita infinita perseguita dal capitalismo liberista abbia prodotto i disastri cui oggi assistiamo. Nel XX secolo il consumo globale di combustibili fossili è aumentato di 20 volte. L’industria, l’agricoltura moderna, la crescita demografica, gli stili di vita occidentali, hanno sestuplicato l’uso di acqua e incrementato la siccità dal 15 al 30% delle terre emerse. Secondo il Millennium project delle Nazioni Unite, povertà estrema e fame potrebbero essere cancellate entro il 2030 con 160 miliardi di dollari l’anno, mentre la spesa militare mondiale nel solo 2022 è stata di 2.240 miliardi.

È evidente, dunque, che il collasso del pianeta deriva anche da scelte politiche orientate alle armi, invece che all’utilizzo delle risorse contro le diseguaglianze e il cambiamento climatico.

Per cambiare occorre diventare consapevoli delle scelte fatte e delle alternative esistenti.

Nei grandi processi di cambiamento, all’inizio le cose succedono solo ai margini, poi però le nuove idee e i nuovi comportamenti si diffondono fino a raggiungere una massa critica e un punto di svolta.

Nella narrazione della grande svolta Macy mostra che l’azione di cambiare noi stessi, accrescendo compassione ed empatia, e quella di cambiare il mondo sono essenziali entrambe e si rinforzano a vicenda.

L’autrice propone, dunque, un percorso di cambiamento che si articola in un processo di empowerment in diverse tappe: le prime due descritte nei capitoli Cominciare dalla gratitudine e Onorare il dolore del mondo, contenuti nella prima parte del volume, le altre nei capitoli delle due parti a seguire: Vedere con occhi nuovi e Andare avanti.

La gratitudine ci disintossica dal consumismo, basato sull’insoddisfazione: negli ultimi 50 anni sono state consumate più risorse che durante tutto il resto della storia umana. Nonostante questo non siamo più felici e la depressione ha raggiunto livelli da «epidemia». La gratitudine ci offre una via di uscita perché sposta l’attenzione da «cosa manca» a «cosa c’è» ed è essenziale per la sopravvivenza, come sanno i popoli nativi che ringraziano costantemente la Natura.

L’intelligenza ecologica riconosce che il nostro benessere personale dipende dal benessere del mondo naturale, da rispettare, preservare e ringraziare.

Per poter affrontare le sfide, dobbiamo sviluppare modi di parlarne che non diventino battaglie per determinare di chi sia la colpa, né attivino meccanismi di evitamento, ma sviluppino piuttosto la consapevolezza che il dolore del mondo è il nostro dolore. Scegliendo di onorare il dolore della perdita invece di ignorarlo, spezziamo l’incantesimo che ci rende insensibili davanti alla dissoluzione del mondo.

Vedere con occhi nuovi

Nella seconda parte, intitolata Vedere con occhi nuovi, l’autrice propone quattro tappe, ciascuna descritta in un capitolo.

Espandere l’identità è la prima: l’idea di un separato dagli altri non è l’unica possibile. Il nostro sé può diventare un «sé ecologico», più ampio e profondo, sentendo il mondo naturale come parte di noi. La natura ci insegna che la vita non si espande combattendo, ma facendo rete.

Per fare rete occorre Un altro tipo di potere (la seconda tappa), la collaborazione, il «potere con» anziché il «potere su».

Ognuno di noi deve sentirsi protagonista del processo di guarigione e riparazione a livello globale, ma, perché esso avvenga, ciascuno deve giocare il proprio ruolo per attivare il «potere con». Sentirci troppo autosufficienti rischia di farci dimenticare che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Nell’aiuto reciproco le nostre vite diventano ricche di senso e insieme possiamo Arricchire la comunità (la terza tappa).

Oltre allo sviluppo di una comunità che sappia estendersi a tutta l’umanità, è importante anche ampliare il nostro punto di vista sul tempo, Estendere il tempo (quarta tappa): per assicurare il legno necessario per la manutenzione del tetto della sala comune del New College dell’Università di Oxford, costruito nel 1379 con travi di quercia, i forestali piantarono grandi querce che crescevano lentamente. Oggi il nostro sistema economico fissa obiettivi e misura il successo in base alla rapidità della crescita. Ma sappiamo che perseguire una crescita infinita in un mondo limitato è una ricetta per il disastro.

Per comprenderne l’entità, immaginiamo che il viaggio della vita sulla Terra fino a oggi sia racchiuso in una giornata di 24 ore: ogni minuto equivale a 3 milioni di anni. Due minuti prima della mezzanotte compare una scimmietta africana, l’antenato comune a umani e scimpanzé. L’intera storia dell’homo sapiens, dai primi passi a oggi, si svolge negli ultimi 5 secondi.

Se poi immaginiamo di rappresentare in 24 ore i 250mila anni della storia umana, scopriamo che per quasi 23 ore siamo stati cacciatori raccoglitori. A due minuti dalla mezzanotte avviene la rivoluzione industriale. Nell’ultimo minuto la popolazione cresce da uno a sette miliardi. Negli ultimi 20 secondi (dal 1950 a oggi) l’umanità ha usato più risorse di quanto non abbia fatto in tutto il resto della sua storia.

Andare avanti

Nella terza parte del volume, Andare avanti, Joanna Macy invita a immaginare futuri possibili per diventare lungimiranti. La realtà è un processo in continuo movimento. Per sostenere il cambiamento nella direzione che ci appare giusta occorre credere che sia possibile, sapendo che le scelte che si fanno lo influenzano, poi occorre chiedersi: «Cosa stiamo facendo per aiutare a costruire il futuro che vogliamo?», infine è importante trovare dei punti di riferimento che indichino cosa è possibile: andare a conoscere e portare alla luce esempi di lotte che hanno avuto successo.

Il cambiamento è un fenomeno discontinuo: possono avvenire passaggi improvvisi e imprevisti, eventi apparentemente insignificanti possono portare a profonde trasformazioni. Esistono delle «soglie» passate le quali succede qualcosa di nuovo, come avviene per l’acqua che, a un certo punto, rapidamente cristallizza.

Ognuno può

Viviamo in un’epoca in cui il corpo della terra è sotto attacco. Allo stesso tempo, sta avvenendo uno straordinario processo di rigenerazione, una risposta creativa e vitale, la Grande svolta.

Troviamo la forza di affrontare la situazione nel momento in cui riconosciamo che ciascuno di noi ha un ruolo significativo da giocare, un contributo unico e specifico. Accettando la sfida di fare del nostro meglio, scopriamo una perla preziosa che arricchisce la nostra vita e, allo stesso tempo, contribuisce a guarire il Pianeta.

Angela Dogliotti
Centro Studi Sereno Regis

Altre letture sul tema:

  •  – Helena Norberg-Hodge, Ispirarsi al passato per progettare il futuro. Dal Ladakh una lezione universale per la localizzazione e la decrescita, Arianna Editrice, Bologna 2013.
  • – Rob Hopkins, Immagina se, Chiarelettere, 2020.
  • – Rebecca Solnit, Un paradiso all’inferno, Fandango, 2009.
  • – Daniel Tarozzi, Io faccio così. Viaggio in camper alla scoperta dell’Italia che cambia, Chiarelettere, 2013.
  • – Melania Bigi, Martina Francesca, Deborah Rim Moiso, Facilitiamoci! Prendersi cura di gruppi e comunità, La Meridiana, 2016.
  • – Elena Pulcini, La cura del mondo, Bollati Boringhieri, 2009.



Il pensiero oltre la siepe


Povertà e miseria non sono sinonimi. Anzi, la prima può coincidere con la virtù della sobrietà. La seconda è, invece, uno scandalo da combattere. Con l’intervento dello Stato.

Povertà e miseria non sono la stessa cosa: la prima è una virtù, la seconda uno scandalo. La povertà è uno stile di vita che sa distinguere tra i bisogni reali e quelli imposti. È la capacità di dare alle esigenze del corpo il giusto peso senza dimenticare quelle spirituali, affettive, intellettuali, sociali. È un modo di organizzare la società affinché sia garantita a tutti la possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali con il minor dispendio di materiali e di energia e la minore produzione di rifiuti.

La miseria, invece, è la condizione di chi non riesce a soddisfare nemmeno i bisogni fondamentali. L’una è espressione di rispetto, sostenibilità, armonia. L’altra di degrado, violenza, ingiustizia. Dunque, si tratta di due condizioni distinte. L’una da promuovere magari ribattezzandola con termini come sobrietà, frugalità, semplicità, tanto per non dare adito a fraintendimenti. L’altra da combattere perché disumana.

Dove vive la miseria

Le Nazioni Unite definiscono la miseria come povertà multidimensionale e, limitatamente ai Paesi del Sud del mondo (Cina esclusa), calcolano che in questa condizione vivano 1,1 miliardi di persone, il 20% della popolazione di questa porzione di mondo. Persone che non mangiano a sufficienza, non hanno un alloggio degno di questo nome, che non hanno accesso neppure ai primi gradi di istruzione scolastica, che non riescono a curare le malattie più banali come una dissenteria o una bronchite.

Secondo il criterio monetario utilizzato dalla Banca mondiale, vivono con meno di 2,15 dollari al giorno. Metà di loro sono bambini e adolescenti sotto i 18 anni.

L’Africa è il continente con la più alta concentrazione di miseria: metà di tutti i miseri del mondo si trovano nell’area subsahariana. Un altro terzo è in Asia. E, se guardiamo alla distribuzione fra città e campagna, scopriamo che la miseria è prevalentemente rurale: l’84% di tutti i miseri del mondo vivono nelle campagne.

Miseria e povertà. Foto Towfiqu Barbhuiya – Unsplash.

È sempre Nord e Sud

Le ragioni per cui nel Sud del mondo la miseria continua a mietere così tante vittime affondano le loro radici nel passato coloniale, tutt’altro che tramontato. Il Nord ricco continua a dissanguare il Sud non solo tramite il tradizionale scambio ineguale, oggi esteso anche ai manufatti in virtù della deloca- lizzazione produttiva basata su salari da fame, ma anche tramite il debito e varie altre strategie finanziarie legate alla fuga dei capitali.

La Banca mondiale certifica che, nel 2021, i governi dei 120 paesi del Sud del mondo a reddito basso e medio, avevano un debito verso l’estero pari a 3.500 miliardi di dollari, per il quale hanno sborsato, nello stesso anno, 120 miliardi per interessi. Considerato che, nello stesso periodo, hanno ricevuto in donazioni 108 miliardi di dollari, se ne conclude che il Sud del mondo è stato un finanziatore netto del Nord ricco per 12 miliardi di dollari. Un esborso che la popolazione ha pagato sotto forma di minore assistenza sanitaria, minor spesa scolastica, minori investimenti per elettrificazione e sussidi all’agricoltura. Le Nazioni Unite ci informano che 4 miliardi di persone vivono in nazioni dove la spesa per gli interessi sul debito è più alta di quella per sanità o istruzione. Come se non bastasse molte multinazionali presenti nel Sud del mondo si ingegnano in tutti i modi possibili per evadere le tasse ed esportare illegalmente le ricchezze ottenute nel Paese. La fuga illegale di capitali provoca all’Africa un salasso annuo di quasi 90 miliardi di dollari, mentre nel periodo 2004-2013 l’America Latina ha perso 765 miliardi. Parola di Unctad e di Un Eclac, due organi delle Nazioni Unite che si occupano di commercio internazionale l’una e di questioni economico sociali dell’America Latina, l’altra.

Corruzione e latifondo

Alle storture internazionali si aggiungono fenomeni interni ai singoli paesi del Sud che immiseriscono ulteriormente la popolazione. Fra essi la corruzione (che contribuisce a sottrarre risorse alle casse pubbliche) e la protezione dei latifondisti a danno dei piccoli contadini. Ovunque nel mondo si assiste all’avanzata dei grandi proprietari terrieri che sottraggono terra ai piccoli contadini, ma in certi angoli del Sud del mondo le sproporzioni sono gigantesche. Secondo l’ultimo censimento agrario condotto in India nel 2011 il 4,9% dei proprietari terrieri controlla il 32% di tutte le terre agricole, mentre 101 milioni di famiglie rurali, il 56,4% del totale, non ne possiedono affatto. La mancanza di terra è una delle ragioni principali per cui l’84% degli immiseriti si trova nelle campagne.

Detto questo, si capisce che il primo passo per ridare dignità a quel miliardo di miseri è una seria riforma agraria che deve essere accompagnata da tutti gli altri correttivi necessari a garantire ai governi i fondi necessari a realizzare investimenti nel campo dell’elettrificazione, della viabilità, della sanità, dell’istruzione.

E nei paesi ricchi

Di miseri ce ne sono anche nel Nord opulento. Li vediamo nei sottopassi delle stazioni o delle metropolitane, derelitti sdraiati su cartoni di fortuna. Li vediamo anche nelle file in coda per un piatto di minestra alle mense della Caritas. Nella sola diocesi di Roma, nel 2023 sono stati distribuiti 65mila pasti gratuiti. In Italia i conti nazionali ce li fornisce l’Istat che definisce la miseria con il termine di «povertà assoluta», precisando che considera povero assoluto chiunque sia incapace di permettersi un «paniere di beni e servizi considerati essenziali», comprendente prodotti alimentari, alloggio, riscaldamento, trasporto, spese sanitarie e altro.

Secondo le ultime statistiche del 2023 in Italia la povertà assoluta colpisce 2,18 milioni di famiglie, per un totale di 5,6 milioni di persone, quasi un abitante su dieci. A fare ancora più male è sapere che il 22% dei poveri assoluti (1,2 milioni) sono bambini e adolescenti. In effetti il 13,4% di tutti i minorenni in Italia si trova in povertà assoluta, con ripercussioni non solo sul piano materiale, ma anche scolastico. Nella scuola dell’obbligo il tasso di dispersione scolastica è al 14%. Come dire che 14 ragazzi su 100 abbandonano precocemente la scuola o, se vi rimangono, è come se fossero parcheggiati considerato che non riescono a raggiungere gli obiettivi formativi prefissati. Colpisce, inoltre, la sovrapposizione delle due cifre: 13,4% di povertà assoluta e 14% di dispersione scolastica.

Aumenti e servizi pubblici

In un mondo dominato dagli scambi monetari, la miseria è il frutto di due opposti fenomeni: redditi troppo bassi e prezzi di beni e servizi essenziali troppo alti. Ad esempio, dopo l’aumento vertiginoso delle bollette elettriche verificatosi nel 2022, anche famiglie che normalmente se la cavavano si sono avvicinate al baratro della miseria. Oltre alla bolletta energetica, anche affitti troppo alti e la demolizione di servizi pubblici come la sanità pesano sulle spalle delle famiglie fragili che, non potendo sostenere i costi imposti dalle strutture private, semplicemente rinunciano
a curarsi.
Dunque, un primo fronte su cui intervenire per arginare la miseria è la fornitura di servizi pubblici gratuiti in ambiti essenziali come sanità, istruzione, trasporti. E subito dopo politiche per calmierare i prezzi di altri servizi altrettanto essenziali come alloggio, energia, cibo, acqua, che un sistema di svliluppo ideologico ha ceduto al mercato. Ricordandoci che i prezzi sono una via potente di distribuzione della ricchezza: impoveriscono chi compra e arricchiscono chi vende.

Il secondo fronte su cui intervenire è quello del reddito. In prima battuta con interventi tampone, tipo reddito di cittadinanza, per garantire un introito minimo a chi ne è sprovvisto. E, subito dopo, creando le condizioni affinché tutti possano disporre in maniera autonoma di redditi sufficienti a vivere dignitosamente.
In un sistema in cui la principale fonte di sostentamento è rappresentata dal lavoro salariato, la categoria a maggior rischio di grave deprivazione materiale è quella dei disoccupati. La Caritas conferma che il 48% delle persone che si rivolgono alle sue strutture sono disoccupati o inoccupati che fanno fatica a trovare un lavoro. Ma aggiunge che stanno crescendo anche le persone che un lavoro ce l’hanno, ma riscuotono un salario troppo basso per arrivare alla fine del mese. Si tratta dei cosiddetti «working poors» (ne abbiamo già parlato su MC a dicembre 2021), persone che sono povere pur lavorando. In Italia sono 2,7 milioni, l’11,3% di tutti gli occupati.

Il ruolo dello Stato

Le misure più urgenti per combattere la miseria sono due: garantire un salario dignitoso a chi lavora e garantire un lavoro a chi un’occupazione non ce l’ha. In ambedue i casi il ruolo del potere pubblico è determinante. Per il primo obiettivo la strada da battere è l’introduzione, per legge, di un salario minimo al di sotto del quale non si può scendere. Che non significa depotenziare l’attività contrattuale del sindacato, ma soccorrere le categorie più deboli che un sindacato non ce

l’hanno o ne hanno uno troppo debole per imporre livelli salariali dignitosi. Quanto al secondo obiettivo lo stato deve smetterla di aspettare che siano le imprese private a creare occupazione. Il lavoro può e deve crearlo lo Stato che deve concepirsi come un datore di lavoro di ultima istanza. Ossia un soggetto che assicura a tutti un posto di lavoro. L’idea non è nuova ed è interessante notare che uno dei primi a proporla fu Martin Luther King che, fra le altre battaglie, conduceva anche quella contro la disoccupazione che era un vero e proprio flagello per la popolazione nera del tempo.

In un proclama del 1964, pochi giorni prima di essere assassinato, King si scaglia contro il governo degli Stati Uniti: «È l’ostinata insensibilità del governo nei confronti della miseria che alimenta la rabbia e la frustrazione. Benché la disoccupazione semini disperazione nei ghetti neri, il governo continua a cincischiare con misure senza efficacia. Soprattutto si rifiuta di diventare datore di lavoro di ultima istanza. Continua a buttare la palla nel campo delle imprese private come se i fallimenti occupazionali registrati fin qui possano fare da garanzia di successi futuri».

Martin Luther King si appellava al governo perché sapeva che lo stato è l’unica entità in grado di creare occupazione indipendentemente da qualsiasi altra condizione. Il mercato crea lavoro solo se vende. Lo Stato, in quanto tutore dei beni comuni e produttore di servizi a beneficio di tutti, può creare occupazione per decisione unilaterale. Il mercato stesso, quando si accorge si essere in una situazione di stallo, chiede allo Stato di intervenire per ridare impulso alla macchina produttiva.

Quello che dovremmo fare è smettere di concepire lo Stato solo come stampella del mercato e vederlo, piuttosto, come la casa comune dentro la quale tutti possono trovare rifugio e una tripla area di sicurezza. Prima di tutto la salvaguardia dei beni comuni (aria, suoli, fiumi, boschi, spiagge, mari) perché la nostra esistenza dipende da un ambiente in buona salute. In secondo luogo, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (acqua, alloggio, energia, salute, istruzione e altro ancora) affinché la vita non sia più un’angoscia, ma una gioia. Infine, la garanzia di un lavoro che dia a tutti la possibilità di sentirsi utili e socialmente apprezzati.

Miseria e povertà. Foto Dulana Kodithuwakku – Unsplash.

Immaginare e fare

Se vogliamo salvarci, dobbiamo cambiare progetto. Convincerci che oltre al vendere e al comprare, al competere e al gareggiare, al profitto e allo sfruttamento, all’arricchimento personale e alla proprietà privata, esiste anche la comunità, la solidarietà, la gratuità, i beni comuni. E come loro – multinazionali, signori della finanza, investitori – hanno il diritto di organizzarsi per arricchirsi, allo stesso modo noi, i piccoli, abbiamo il diritto di organizzarci per vivere. E l’unico modo possibile è la forma comunitaria perché la solidarietà collettiva è la sola ricchezza su cui possiamo contare. Ecco perché dovremmo avere il coraggio di riorganizzarci su una logica di doppia economia: quella dei bisogni fondamentali e quella degli optional. La prima, affidata alla comunità, funzionante con il lavoro di tutti per la dignità di tutti. La seconda, affidata al mercato, funzionante con il lavoro di chi ambisce a maggiori consumi. Fantasticherie? Può darsi. Ma quando l’impostazione corrente non è in grado di dare le risposte attese, bisogna sapere gettare il pensiero oltre la siepe.

Francesco Gesualdi

 

 

 




Amante della gioia


Anche chi non conosce molto dei Vangeli, di certo sa che Gesù ha compiuto il suo «primo miracolo» trasformando l’acqua in vino a Cana (Gv 2,1-11).
Chiunque abbia frequentato un po’ il Vangelo di Giovanni, però, è ben consapevole che esso è un’opera complessa, dove il messaggio più immediato è vero, ma rimanda anche a qualcosa di più profondo. D’altronde, è l’evangelista stesso a suggerirlo quando definisce i miracoli di Gesù non «prodigi», come fanno spesso gli altri vangeli, ma «segni». Un segno, si sa, non ha valore soltanto per se stesso, ma perché rimanda anche ad altro.

È possibile, allora, che anche un racconto che in apparenza è molto semplice nasconda insegnamenti ulteriori, come peraltro la sua posizione all’inizio del Vangelo potrebbe farci sospettare. Per coglierli, lasciamo che sia il racconto a guidarci. Innanzitutto, dobbiamo capire che cosa dice a un primo livello (che resta autentico e significativo), e quali indizi ci dà lo scrittore per scendere al secondo livello.

Non troppo ascetico

Tutte le tradizioni religiose, ma in fondo tutte le scelte di vita, anche quelle politiche o sportive o dello spettacolo, ci insegnano che per raggiungere un risultato dobbiamo fare grosse rinunce. Una certa tendenza ascetica c’è in ogni scelta di vita seria.

Può quindi stupirci un po’ (ma probabilmente anche farci piacere) che il primo gesto pubblico di Gesù è di andare a una festa di nozze. Il tono del Vangelo, finora, è stato molto solenne, tanto che difficilmente ci saremmo aspettati una svolta di questo tipo. In più, in questo banchetto, sembra di cogliere non poca improvvisazione. Ci viene detto, infatti, che a Cana di Galilea c’è una festa di nozze alla quale è presente Maria, mentre Gesù con i suoi discepoli è invitato quasi come aggiunta, come recupero pensato all’ultimo momento (v. 1-2). Le feste nuziali del Vicino Oriente, spesso ancora oggi, non assomigliano tanto ai nostri pranzi di matrimonio con il numero e la disposizione esatta degli invitati programmati in anticipo, quanto più a una festa di paese, dove qualche posto si può sempre aggiungere. Sembra che questa sia la situazione di Gesù, che si unisce a Maria e si porta dietro anche i suoi nuovi discepoli. Se Gesù ci mostra il volto del Padre, la prima istantanea che ci regala in questo passo è di un Dio un po’ diverso da quello dei filosofi (o dei catechismi, a volte). Se abbiamo in noi l’immagine di Dio come di un vecchio severo con la barba bianca e mai un sorriso, ecco, qui ci troviamo di fronte a un Padre giocoso, a cui non dispiace il clima umano della festa, anche se un po’ improvvisata e approssimativa. Pronto a divertirsi in semplicità e calore.

Ma se abbiamo parlato di improvvisazione, è perché il racconto ce la fa intuire tramite le parole di Maria rivolte a Gesù: «Non hanno vino». Che idea ci si può fare di qualcuno che per delle nozze non mette a disposizione abbastanza vino? Pazienza per il cibo, alla fine ce n’è sempre troppo, ma non si può fare festa senza bere. In più, non sono neanche stati capaci di rimediare con discrezione: infatti deve intervenire Maria, un’invitata, che ne parla al figlio.

Un secondo livello?

La risposta di Gesù all’osservazione di Maria («Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora») è tanto strana da costringerci a fermarci, rileggerla e poi chiederci, perplessi, che cosa sia successo o se voglia dire qualcosa di particolare. Probabilmente questa nostra reazione è esattamente quello che lo scrittore voleva suscitare in noi lettori, ossia che ci fermiamo e notiamo i particolari con stupore, così che non ci sfuggano. Come l’autore di un giallo, Giovanni vuole farci notare che ci sta dando un indizio.

Intanto ci domandiamo: ma davvero Gesù può parlare così a Maria? Lo sappiamo tutti che non si risponde con quel tono a una mamma.

Quel secco «donna», di certo, non suona brutale solo a noi: avrà scioccato anche i primi lettori del Vangelo.

È una parola che richiama la nostra attenzione. Per questo vale la pena soffermarcisi: può essere l’indicazione per intuire più in profondità il senso del versetto. Usata come appellativo rivolto a Maria, la ritroviamo in Gv 19,26 quando Gesù sta per morire in croce, cioè quando è arrivata la sua ora, e sotto la croce si trovano «la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava». Non è certo un contesto nel quale ci si possa lasciare andare a espressioni fuori luogo.

Qui però ci sembra quasi di dover spiegare un enigma con un altro enigma: ad esempio, chi è «il discepolo che egli amava»? Di solito si risponde Giovanni l’evangelista, come ci dice la tradizione. Questo perché si parla di questo discepolo solo nel suo Vangelo, quindi deve trattarsi di lui. Se però fosse davvero l’autore del Vangelo a definirsi così, di certo non sarebbe segno di umiltà e, senza dubbio, avrebbe deciso di usare una formula un po’ ambigua che pare suggerire il fatto che Gesù non amasse gli altri discepoli. La tradizione, per provare a mettere ordine, l’ha intesa come il «discepolo prediletto», nel senso che sì, ovviamente amava tutti, ma a Giovanni era più legato, come può lecitamente succedere tra gli esseri umani. Il Vangelo, però, non parla di predilezione, ma proprio del «discepolo che Gesù amava»; un discepolo che, altrove, è caratterizzato dal fatto di essere veloce a intuire, pronto di riflessi ma in piena umiltà, un discepolo che non guida gli altri ma è rapido a giungere alla fede (pensiamo a Gv 20,1-8 e 21,7). C’è allora da pensare che in questa espressione si nasconda il discepolo ideale, il modello di discepolo, quello che ognuno di noi è chiamato a essere, che magari non ha incarichi particolari nella Chiesa ma vive nella fede il rapporto con Gesù. Se sotto la croce, quindi, quel discepolo è un simbolo dei credenti cristiani, di ciascuno di noi, allora anche «la madre» probabilmente è un simbolo. Ma di cosa? Se ci pensiamo, sarebbe ben curioso che Gesù si ricordasse solo in quel momento di affidare sua madre a qualcuno, dopo tre anni che se ne andava in giro e non badava a lei. È ben difficile che, nel contesto teso e solenne della crocifissione, Gesù pensi a non lasciare in giro bollette non pagate.

Maria è il «luogo» dal quale viene Gesù. Egli nasce, come tutti, da una donna, ma anche da una tradizione (che peraltro erano le donne a dover trasmettere). Gesù è figlio di tutta la storia religiosa del popolo di Israele (che è un nome femminile nella Scrittura), spesso presentato come una donna in attesa dello sposo (Dio), simbolicamente raccolta nell’immagine della «figlia di Sion» (nei profeti, e poi in 2 Re 19,21; Sal 9,15, e anche in Gv 12,15). Interpretate simbolicamente, quelle parole di Gesù sulla croce sono ricchissime: mentre muore, Gesù invita la tradizione religiosa del Primo Testamento a riconoscersi nella Chiesa, e questa a essere riconoscente nei confronti di colei da cui viene: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26), proprio ciò che la Chiesa cristiana ha fatto accogliendo e onorando tra le proprie Scritture quelle ebraiche.

In continuità con il passato

Tutto questo ragionamento, ci riporta a Cana: già in quell’episodio la «madre di Gesù» è anche simbolo della comunità religiosa del Primo Testamento? Se così fosse, si capirebbe l’insistenza, altrimenti strana, sulle anfore in pietra (Gv 2,6), con l’allusione alla «purificazione rituale dei giudei»: a Giovanni sarebbe bastato scrivere che i servi avevano preso dell’acqua, ma l’evangelista voleva indirizzare lo sguardo del lettore sulla tradizione ebraica: è (anche) quella a segnalare che c’è una mancanza nell’umanità che fa festa, e a indicare Gesù come colui che è da ascoltare, per risolvere il problema. Non sa spiegare che cosa Gesù farà, ma sa dire che c’è da seguire lui.

I profeti e la legge contenuti nel Primo Testamento non «deducono» la figura di Gesù, ma sanno suggerire che Dio tornerà a prendersi cura dell’umanità, entrando nell’umanità stessa. Gesù compie le attese del Primo Testamento, pur in parte sorprendendole.

E non solo: è la madre a sollecitare Gesù a intervenire. Non pregandolo o comandandoglielo, perché non potrebbe. O meglio: Maria, madre fisica di Gesù, potrebbe chiederglielo o persino ordinarglielo (la tradizione ebraica è molto esigente per quanto riguarda i doveri dei figli, soprattutto maschi, nei confronti dei genitori), ma è evidente che qui Giovanni non sta pensando a lei, quanto al suo ruolo simbolico. La tradizione del Primo Testamento non è padrona di Gesù, che è totalmente libero di agire o astenersi dall’azione. Però lo inserisce in una storia in cui il Dio di Israele è pronto a commuoversi per la sofferenza umana, a farsi coinvolgere nella vita dei suoi e anche a violare le proprie norme per non perdere la relazione con l’umanità (ci porterebbe fuori strada affrontare questo tema, ma nel Primo Testamento accade spesso che Dio «minacci» il suo popolo di rompere la comunione con lui se non rispetta le sue «leggi», e che poi, però, faccia un passo indietro, preferendo perdere la faccia piuttosto che il rapporto con l’essere umano).

Non sarà ancora giunta la sua ora, ma Gesù, se vuole essere fedele a quel Dio del Primo Testamento, non può restare indifferente di fronte all’imbarazzo umano e, sia pure senza dire di aver cambiato idea (come pare umano anche in questo), di fatto si mette a disposizione di quella festa, «inventandosi» un modo di risolvere l’impaccio che è senza precedenti nella Bibbia.

Il volto del Padre

C’è qualcosa di nuovo che questo episodio ci mostra sul volto divino?

Prima di tutto Gesù ci mostra un Padre che non si vergogna dell’umanità anche nei suoi aspetti più «banali», di festa, di gioia semplice, persino disorganizzata e improvvisata. Non ci troviamo di fronte a un Dio rigidamente perfetto, che esige dei figli impeccabili, ma a un amante della vita, che ci potremmo immaginare sorridere al vedere il banchetto e le bevute e inquietarsi all’idea che la festa possa rovinarsi prima del tempo.

E poi ci troviamo di fronte a un Padre fedele e imprevedibile, che non abbandona mai la sua amicizia con l’umanità e, allo stesso tempo, sa anche inventare soluzioni nuove e impensate ai problemi che si presentano, anche quando, in sé, potrebbero non sembrare problemi vitali. Un amico capace di sorprese infinite, ma che gli amici non li abbandonerà mai.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 02 – continua)


Un dono specialissimo per voi

È disponibile in versione pdf la raccolta dei 38 articoli di Paolo Farinella su «Le nozze di Cana», pubblicati in questa rivista tra il febbraio 2009 e il gennaio 2013.

Un lavoro appassionante alla scoperta e approfondimento di uno degli episodi più belli e gioiosi dei Vangeli.
240 pagine da leggere con il cuore.

Cliccare sull’immagine per scaricare.

Augurandovi una proficua lettura, ci permettiamo di ricordarvi che un’eventuale donazione ci aiuterà a continuare a servirvi al nostro meglio.
Grazie.

 




Rwanda, un Paese per donne. Forse

 

In occasione dell’8 marzo, giornata internazionale delle donne, parliamo del Rwanda, Paese dell’Africa centrorientale ai primi posti nel mondo per le politiche sull’uguaglianza di genere, ma, in realtà, ancora profondamente patriarcale.

Più del 61% dei seggi in Parlamento sono occupati da donne, le quali ricoprono anche metà delle posizioni ministeriali. I loro diritti sono tutelati da numerose leggi, tra cui spicca quella contro la violenza di genere. Negli ultimi anni, la mortalità materna è calata drasticamente e le norme statali garantiscono equità tra maschi e femmine nell’accesso a ogni livello d’istruzione.

Il Rwanda sembra il Paese ideale per le donne. Tanto più che, da inizio anni Duemila, questo piccolo Stato dell’Africa centrorientale si posiziona stabilmente ai primi posti delle classifiche mondiali su uguaglianza di genere ed empowerment femminile, con indicatori di gran lunga superiori a molti Paesi occidentali.

L’immagine del Rwanda come Paese al femminile è nata subito dopo il genocidio del 1994, a seguito del quale il 70% della popolazione era composto da donne: molte avevano preso il posto degli uomini – uccisi, fuggiti o incarcerati – come capifamiglia e nel mondo del lavoro. Nel 2003, poi, la parità di genere è stata inserita nel preambolo della Costituzione di «uno Stato basato sul principio dell’uguaglianza di tutti i rwandesi, così come dell’uguaglianza tra uomini e donne».

Nei fatti, però, la situazione è ben diversa. Come spesso accade, tra la teoria e la pratica c’è un abisso e, dietro ai dati che descrivono una situazione apparentemente invidiabile, si nascondono diversi ostacoli e problematiche.

Con il 61% di deputate e il 35% di senatrici, nel 2023, il Rwanda era il Paese del mondo con il maggior numero di donne in Parlamento (mentre nel 2008 era stato il primo a eleggere più donne che uomini). Ma, in uno Stato la cui politica dal 1994 è dominata dal crescente autoritarismo di Paul Kagame e del suo Fronte patriottico rwandese, la maggioranza delle parlamentari appartiene al partito dominante ed è incapace di portare avanti una propria agenda per la tutela dei diritti femminili.

Il considerevole numero di donne in Parlamento, quindi, il più delle volte, non si traduce nell’approvazione di politiche a loro favore, se non sono coerenti con le direttive del partito. Dunque, non deve sorprendere che sia stata un’Assemblea, composta per il 56% da donne, ad approvare nel 2009 la riduzione da dodici a sei settimane del congedo pagato per la maternità.

Le donne che si oppongono alla narrativa di Kagame sono spesso – ancor più degli uomini – oggetto di violenze e persecuzioni, anche a sfondo sessuale. Quando nel 2010 Victoire Ingabire, principale rivale del presidente in vista delle elezioni di quell’anno, è tornata nel Paese dopo sedici anni di esilio, è stata immediatamente arrestata e incarcerata con l’accusa di cospirazione. Foto di Diane Rwigara nuda hanno invece iniziato a circolare sul web appena 72 ore dopo l’annuncio della sua candidatura alle presidenziali del 2017. Esclusa sulla base di presunte irregolarità nella registrazione della domanda, poco dopo, Rwigara è stata arrestata per una presunta evasione fiscale.

Più ombre che luci, dunque. E la politica, l’esempio più sfavillante del Rwanda al femminile, non è altro che la punta dell’iceberg di un sistema dove l’uguaglianza di genere è in realtà ben lontana dall’essere realizzata.

Uguaglianza apparente

Come si è detto, il Paese si è dotato di un panorama legislativo all’avanguardia nella tutela dei diritti delle donne, ma tra norma e prassi persiste ancora una grande distanza, a causa di cultura patriarcale e tradizioni sociali particolarmente radicate.

Dal 1999, le donne possono ereditare le proprietà di famiglia, ma, di fatto, la condizione posta dalla legge – presentare un certificato di registrazione di un matrimonio monogamo, in un Paese dove le unioni informali e/o poligame sono frequenti – impedisce loro di beneficiare di questo diritto.

Limiti che ritornano anche nella gestione delle risorse finanziarie e nell’esercizio dei diritti fondiari: tendenzialmente, le decisioni su denaro e proprietà sono assunte dagli uomini, mentre le donne, senza certificati di matrimonio, faticano anche solo a ottenere prestiti bancari. Non a caso, esse rappresentano il maggior numero di poveri in Rwanda.

Anche quando sono vittime di violenza, le donne sono spesso in difficoltà. Nonostante la legge sulla violenza di genere (2008) abbia condannato qualsiasi forma di aggressione nei loro confronti e inasprito le pene, la violenza è ancora diffusa – soprattutto nei contesti rurali – e poco denunciata. Le donne temono infatti di essere stigmatizzate dalla società se denunciassero, e di perdere qualsiasi risorsa finanziaria, dal momento che il denaro familiare il più delle volte è nelle mani degli uomini.

Non va meglio nel mondo dell’istruzione: sebbene la legge prescriva parità nell’accesso alle scuole, solo il 30% di coloro che ricevono un’istruzione secondaria sono ragazze. È infatti ancora profondamente radicata l’idea che le donne si debbano occupare della casa e della cura di marito e figli e che quindi non sia necessario investire nella prosecuzione dei loro studi.

Dunque, l’8 marzo in Rwanda – come in tanti altri Paesi di tutto il mondo – ricorda quanto la strada verso la reale parità di genere sia ancora lunga e passi, non solo attraverso leggi e provvedimenti, ma attraverso il superamento di una cultura patriarcale ancora profondamente radicata.

di Aurora Guainazzi




Iran. Droni e petrolio vendesi

Nonostante le foto diffuse dall’Agenzia di stampa della Repubblica islamica (Irna) sembrino mostrare il contrario, venerdì 1 marzo l’Iran – paese con 88 milioni di abitanti – è andato alle urne senza alcun entusiasmo, segnando la più bassa partecipazione di votanti dalla rivoluzione del 1979: il 41 per cento degli aventi diritto. In gioco c’erano i 290 seggi del Parlamento (Majlis) e gli 88 dell’Assemblea degli esperti. Quest’ultima è l’organo clericale cui spetta la scelta della Guida suprema, attualmente rappresentata dall’ayatollah Ali Khamenei (85 anni).

Come ampiamente previsto, anche senza attendere i risultati del secondo turno (sarà a maggio), hanno vinto i conservatori e gli ultra conservatori, agevolati dall’assenza – per divieto o per boicottaggio – non solo dei candidati progressisti ma anche di gran parte di quelli moderati.

Donne iraniane al voto venerdì 1 marzo 2024 in una foto diffusa dall’Agenzia di stampa statale. (Foto Maryam Almomen – IRNA)

Il popolo iraniano sta vivendo anni bui sotto il giogo della casta sciita al potere. Dopo le manifestazioni di piazza del 2022 (proteste guidate dalle donne), la violazione dei diritti civili e la carcerazione o l’uccisione degli oppositori sono una prassi consolidata.

Per la teocrazia iraniana non mancano, però, le note positive. Nonostante un’inflazione elevata (40 per cento annuo), l’economia resiste (più 4,2 per cento nel 2023), sospinta dai legami sempre più stretti con la Cina di Xi Jinping e la Russia di Vladimir Putin, paesi che lo scorso 1° gennaio hanno accolto l’Iran in seno al gruppo dei Brics. La produzione di petrolio, grande ricchezza del Paese, è in crescita (2,99 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2023, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia) con la quota d’esportazione quasi interamente acquistata dalla Cina. In questo momento storico il maggiore successo economico (e politico) del Paese è però dato dalla vendita di un micidiale prodotto tecnologico per uso militare: i droni, i veicoli aerei senza pilota (Unmanned aerial vehicles, Uav). I droni iraniani – come lo «Shahed 136» o il «Mohajer-6» – sono venduti soprattutto alla Russia per la sua aggressione all’Ucraina, ma anche in Africa (Etiopia, Sud Sudan e Fronte Polisario del Sahara occidentale) e in America Latina (Venezuela e Bolivia).

Inoltre, essendo il Paese sponsor delle milizie sciite in Libano (Hezbollah), in Yemen (Houti) e in Iraq, i droni di fabbricazione iraniana sono un’arma sempre più utilizzata nell’esplosiva regione mediorientale.

Paolo Moiola