Monsignor Aldo Mongiano, una voce a difesa dei popoli indigeni amazzonici

Testo di Luis Miguel Modino del Repam – foto Gigi Anataloni / AfMC


La vita delle persone è spesso profondamente identificata con le cause che difendono. Nella storia della Chiesa del Brasile ci sono stati molti missionari che hanno dato la vita in difesa delle popolazioni indigene. Uno di loro è stato monsignor Aldo Mongiano, vescovo di Roraima dal 1975 al 1996, morto il 15 aprile 2020 a Pontestura, Monferrato, Italia, dove è nato il 1° novembre 1919 e dove risiedeva con la sorella.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Con 80 anni di professione religiosa, 76 anni di vita sacerdotale e 44 anni come vescovo, monsignor Aldo viene ricordato nella diocesi di Roraima come qualcuno che ha seminato molto. Secondo l’attuale vescovo della diocesi, monsignor Mario Antonio da Silva, che afferma: “Io e tutti gli altri missionari, fratelli e sorelle, e le nostre comunità , con i nostri cristiani laici, abbiamo raccolto (da lui) frutti abbondanti”. L’attuale vescovo definisce i 21 anni dell’episcopato di monsignor Aldo come un tempo “di testimonianza del Vangelo, della vita missionaria profetica a favore dei popoli dell’Amazzonia, in particolare dei popoli indigeni”.

Monsignor Aldo Mongiano si distingueva nel suo lavoro profetico con le popolazioni indigene, ma, secondo Dom Mario Antonio, “ha anche combattuto per i giovani, per il ruolo dei laici, monsignor Aldo era un vescovo che, a Roraima, accoglieva vocazioni locali, e allo stesso tempo missionari provenienti da tanti luoghi del Brasile e del mondo per aiutare nella missione in questa particolare Chiesa di Romarai”. Ecco perché l’attuale vescovo di Roraima dice che “siamo grati a Dio per il dono della vita e la vocazione di monsignor Aldo, e che i frutti continuano ad essere abbondanti nel suo pastore dedicato nella vita della nostra Chiesa”.

Uno di questi missionari è stato padre Alex José Klopenburg della diocesi di Bagé – RS, che ha lavorato a Roraima dal 1988 al 1992. Arrivò nella diocesi al “momento della costituente e dell’invasione dell’area indigena Yanomani da parte dei cercatori d’oro”. Di fronte a questa situazione, il missionario ricorda che “monsignor Aldo era un grande profeta, convinto difensore dei popoli originari, con la campagna Una mucca per gli Indios, nella zona di Raposa Terra do Sol, alla ricerca di un sostentamento per il popolo Macuxi e Wapichana”. Egli definisce questo momento come “tempi difficili, di persecuzione aperti alla Chiesa, ai missionari che hanno fatto l’opzione preferenziale per i più poveri. Tempi di testardaggine profetica e di coraggio evangelico”.

In questo frangente, “Monsignor Aldo era un pastore, profeta, vero padre e fratello dei più piccoli. Animatore comunitario, protettore e sostenitore dei missionari che erano lì. Senza paura, con la certezza che stava facendo ciò che il Signore crocifisso gli ha chiesto di fare”, ricorda il sacerdote della diocesi di Bagé. Nella sua preghiera, chiede “ora con Dio in cielo, di continuare a intervenire per l’Amazzonia, per i popoli indigeni, che ha amato, difeso e aiutato”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho, ha iniziato la sua missione episcopale a Roraima nel 2005. Arrivò lì il 13 luglio e ricorda che il 15, prima di essere ordinato vescovo il 17 luglio, fece la sua professione di fede nella casa delle suore della Consolata, all’altare, alla presenza di monsignor Servilio Conti e monsignor Aldo, i due vescovi emeriti di Roraima. Monsignor Roque aveva già sentito parlare di monsignor Aldo, ma i tre mesi che ha vissuto con lui dopo la sua ordinazione episcopale, quando due o tre volte alla settimana si sono incontrati per parlare, è stato un tempo in cui “ho imparato a rispettarlo e ad amarlo per la sua storia e per la sua dedizione come missionario”.

Il presidente del Consiglio Missionario Indigenista – CIMI -, parla di monsignor Aldo come de “l’uomo che ha affrontato le accuse e le persecuzioni più assurde, ha dovuto passare molto tempo con la protezione della polizia contro gli attacchi, ma non ha mai perso la sua serenità, mai ripagato il male con il male, al contrario”. Anche monsignor Roque ricorda che monsignor Aldo, in una piccola città, come lo era Boa Vista all’epoca, quando “incontrò i più feroci oppositori e aggressori (lo fece) con la serenità di un uomo di Dio, salutò e chiese alla famiglia, perché come buon pastore conosceva praticamente tutte le famiglie, ed era sempre libero di dire, la pensiamo in modo diverso, ma io ti amo, ti rispetto.”

l’arcivescovo di Porto Velho vede monsignor Aldo come qualcuno che “ha sempre avuto questa gioia e disponibilità a costruire ponti di speranza, di riconciliazione, ma anche di molta chiarezza nella missione”, essendo qualcuno che, insieme ai missionari della Consolata e alla diocesi di Roraima, ha dato un grande contributo al cammino della Chiesa dal punto di vista delle popolazioni indigene, soprattutto per quanto riguarda la difesa dei territori e dei leader. Monsignor Roque ricorda che “l’investimento che ha fatto assumendo avvocati per liberare le gli indigeni che erano stati arrestati senza accuse specifiche, semplicemente per piacere”.

Questo atteggiamento è sempre stato riconosciuto dalle popolazioni indigene di Roraima. Come ricorda monsignor Roque Paloschi, nel 2011, quando monsignor Aldo visitò Roraima, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, un’anziana donna del popolo Macuxi, gli diede un piccolo vaso di argilla, dicendo: “Monsignor Aldo, non possiamo ringraziarlo per tutto quello che hai fatto, non solo per noi, ma per la gente di Roraima. Se oggi abbiamo la terra, questo è dovuto alla mano di Dio, ma anche alla sua mano, la mano della missione. Non può portare molte cose sull’aereo, ma vogliamo darle questo come segno di gratitudine, perché questa terra ha molto sangue, molte persone sono morte, ma ha anche la passione dei missionari della Consolata e di altri, e la sua passione per difendere la causa indigena”.

Un altro ricordo che mostra il carattere di monsignor Aldo, secondo monsignor Roque Paloschi, si è verificato il 17 settembre 2005, quando hanno dato fuoco alla prima missione che i monaci benedettini hanno costruito tra le popolazioni indigene, che era un luogo di accoglienza e un centro di formazione per le popolazioni indigene. Monsignor Aldo accompagnò il vescovo lì, e di fronte a questa situazione devastante, disse alle popolazioni indigene che soffrivano, lì umiliate, ferite: “da queste ceneri Dio eleverà nuovi semi per la speranza delle comunità indigene”. Come ha scritto lo stesso monsignor Aldo nel libro “Roraima, tra martirio e speranza”, appassionato della sua esperienza di vescovo, “la missione si fa così, con passione, ma anche con grande sacrificio, con le ginocchia, ma anche con la certezza che è Dio a guidare”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Aldo ha celebrato i 100 anni di vita il 1° novembre 2019, pochi giorni dopo la chiusura dell’Assemblea sinodale del Sinodo per l’Amazzonia, che ha ricordato molti dei sogni che aveva nella sua missione in Amazzonia, tra i popoli indigeni. Egli disse nell’omelia: “Ho ricevuto solo favori e ringraziamenti da Dio. Ho un sacco di regali. Mi rattrista il fatto di non essere stato più generoso nel rispondere al Signore. Avrei potuto essere più devoto, più disposto a sacrificarmi, più amorevole. Chiedo perdono per i miei limiti, i miei peccati, e vi ringrazio per tanta gentilezza”. Chi è stato missionario in molti luoghi ha sempre compreso la sua missione come un tempo “in cui devo proclamare il Signore, parlare di un Buon Dio, di un Dio misericordioso, che ha inviato suo Figlio a salvarci, che è venuto a insegnarci come guidare i nostri passi sulla via della vita. Non avrei mai pensato di ricevere tanti onori, tanto grazie, tanta misericordia, tanta gentilezza”.

In quella celebrazione, insieme ai missionari di Consolata, c’erano monsignor Mario Antonio da Silva, presente vescovo di Roraima, e monsignor José Albuquerque, vescovo ausiliario di Manaus. Secondo lui, “parlare di monsignor Aldo Mongiano, significa parlare della Chiesa che è nell’Amazzonia, della Chiesa che affonda le sue radici nel territorio di Roraima. Ricordiamo con grande gratitudine tutto ciò che monsignor Aldo ha rappresentato per la nostra regione, una parola gentile e dolce, con parole sempre incoraggianti, uno sguardo tenero e un sorriso”.

Il vescovo ausiliario di Manaus, afferma che “è impressionante come monsignor Aldo, allo stesso tempo, fosse una persona ferma e convinta, che difendeva i diritti di tutti, ma soprattutto dei popoli indigeni, di diversi gruppi etnici, non solo da Roraima, ma dal Brasile. Era anche un sostenitore della causa dei poveri e un convinto sostenitore dei capi laici e laiche. Con tutta questa fermezza, monsignor Aldo è sempre stata una persona molto fraterna, molto accogliente, la sua presenza è stata impressionante”. Qualcuno che ricorda la celebrazione dei 100 anni di vita di monsignor Aldo come un momento che sarà per sempre inciso nella sua memoria, vive questo momento della sua partenza, come “ringraziamento per quello che è stato monsignor Aldo e rimarrà per noi, un riferimento di una voce profetica che è stata accanto alla più sofferta”.

Luis Miguel Modino

Nostra traduzione da Repam – 16 aprile 2020
https://redamazonica.org/2020/04/fallece-monsenor-aldo-mongiano-una-voz-profetica/

Leggi anche:

Il testamento spirituale di Mons Mongiano su consolata.org

Scarica il pdf della sua autobiografia:

Aldo Mongiano, Roraima tra profezia e martirio, Edizioni Missioni Consolata, Torino 2010




Usati e calpestati

testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


Scrivere in questi giorni non è facile. La realtà è così complicata che vorrei tanto poter semplicemente tacere. Però un dramma come quello dei profughi siriani non può lasciare indifferenti, anche se siamo confusi dal coronavirus che sta contagiando il mondo. Mi viene inoltre da pensare che ci sia un virus più pericoloso del Covid-19, un virus che attacca cuore, occhi e orecchie, e mina l’umanità che è in noi nel nome della paura, della sicurezza e del potere. Ha contagiato Erdogan, Trump, Putin, i governanti d’Europa, i dirigenti delle multinazionali, i politici nostrani primatisti o opportunisti, i politici africani corrotti, i «giocatori» di borsa e chiunque non vede altro che il proprio interesse. Anche noi, gente comune, siamo a rischio di contagio.

Che migranti o rifugiati o stranieri provengano dalla Siria, dall’America centrale o dalla Libia, non cambia molto: sono tutti carne da macello, numeri da usare in campagna elettorale. Alla spregiudicatezza di Erdogan, alla furbizia di Putin e alla pavidità dell’Europa, fanno da controcanto la boriosa sicurezza di Trump e la cieca ostinazione di Maduro. E così si costruiscono nuovi muri, gabbie e campi per contenerli, si dispiega l’esercito, si penalizza chi soccorre, mentre i trafficanti «lavorano» indisturbati.

Aggiungi a tutto questo la tracotanza di Bolsonaro nell’arraffare l’Amazzonia, la violenza dei fanatici dell’Isis e dei gruppi jihadisti che terrorizzano il Medio Oriente e l’Africa, la mancanza di scrupoli delle multinazionali che per il controllo delle materie prime fanno affari con politici corrotti e gruppi armati di ogni genere in Nigeria, Centrafrica, Mozambico, Sudan e tanti altri paesi, tra cui il Congo Rd (che sta pagando con milioni di morti), sotto lo sguardo impotente delle Nazioni unite e il tacito consenso delle grandi nazioni industrializzate. Aggiungici la corsa agli armamenti che non conosce sosta, il water grabbing e il land grabbing per avere il controllo e il monopolio di risorse essenziali come acqua e cibo, e l’uso spregiudicato dello strumento del debito per mantenere nazioni, pur tra le più ricche di risorse, in condizioni di perenne sudditanza e povertà, e il quadro sarà quasi completo.

Lo so, quando elenco queste cose mi lascio prendere la mano, perché il silenzio dei poveri è assordante, e qui da noi (nel Nord del mondo), soprattutto di questi tempi monopolizzati dalle notizie «virali», di loro non si parla, se non marginalmente.
Il modo in cui i rifugiati siriani sono usati nella battaglia per il controllo del petrolio (e dell’acqua) tra Turchia, Russia, Europa, Usa e paesi tutti del Medio Oriente è vergognoso. Usati e calpestati, senza ritegno, come merce di scambio e ricatto. Come usati e calpestati sono i lavoratori di tante fabbriche in Cina, Bangladesh e altre nazioni dell’Asia, ma anche in Etiopia e altri paesi africani. Usati e calpestati come coloro che scappano dal Centro America e Venezuela, o come i popoli indigeni dell’Amazzonia, dell’India o della Papua Nuova Guinea.

In questi giorni di virus, in un contesto di cambiamenti climatici e guerre (anche economiche) per procura, stiamo vivendo una situazione del tutto nuova. Siamo «costretti» a vivere davvero una «quaresima» che mette a nudo la nostra fragilità. Quando leggerete queste righe, forse (ma proprio forse) il peggio sarà già passato, almeno da noi, e qualcuno riderà, triste consolazione, di altri paesi che ci hanno trattato come degli «untori». Ma «il peggio» sarà davvero passato solo se avremo saputo «leggere i segni dei tempi» e colto l’opportunità di guarire dai mali che ci affliggono dentro, per rialzarci e rinnovare il nostro impegno a vivere in modo responsabile, solidale e fraterno in questo mondo.

Questa «quaresima» forzata può essere un tempo di grazia, nel quale ascoltare dalla nostra «stanza interiore» la Parola del Dio di Gesù Cristo, di un Padre che non minaccia, non ricatta e non punisce, ma invita a diventare davvero noi stessi, più umani secondo la misura del Figlio dell’Uomo, che ha fatto dell’amore, del perdono, del servizio, della mitezza e della gratuità lo stile della sua vita.

È stato bello in questi tempi vedere tanti gesti di amore, servizio e solidarietà da parte di medici, infermieri, volontari e persone ordinarie, giovani e anziane. È il volto luminoso di questa nostra Italia. Un bel segno di speranza per tutti, e di resurrezione. Buona Pasqua.

Lesbo | © Valentina Tamborra

Per un aggiornamento su Lesbo:

AYS Special from Lesvos: COVID-19 and an island bursting at the seams
A special report is written by Joel Hernàndez, who serves as the Head of Advocacy and Development at Refugee Trauma Initiative, an NGO providing psychosocial support to displaced families in Greece.


Ultimo minuto, nota del direttore

Quando ho scritto questo editoriale agli inizi di marzo, ho peccato di ottimismo. La situazione che stiamo vivendo è ancora piena di tante incognite e l’epidemia è diventata una pademia. Ma se ho peccato di ottimismo, non ho certo sbagliato ad avere speranza. E quanto stiamo vivendo, la generosità di tantissime persone e i gesti di incredibile bellezza e gratuità che vengono fatti, confermano tale speranza.

Come missionari e missionarie della Consolata siamo vicini ai nostri famigliari, parenti, amici e benefattori coinvolti in questa pademia. Molti di noi sono nativi delle regioni più colpite. Ciascuno di noi, anche lo scrivente, piange i suoi. Ci sentiamo uniti a tutti e a ciascuno, offrendo soprattutto la nostra preghiera, il nostro partecipato silenzio, le nostre lacrime.
E siamo anche solidali con i nostri confratelli e le nostre consorelle che in Africa, Asia e America latina si trovano ora ad affrontare la pandemia con persone che spesso vivono in condizioni di estrema povertà e disagio sociale.

Che la beata Leonella, infermiera che ha curato per tutta la sua vita, e la beata Irene, che ha scelto di dare la sua vita per gli ammalati di peste, ci siano vicine in questo tempo difficile. Uniti nelal preghiera e nell’affetto.




Noi e Voi


Un’economia per i nostri nipoti

L’articolo di Gesualdi sulla 4ª rivoluzione industriale a cui stiamo assistendo mi ha richiamato ad alcuni parallelismi, come ad esempio il ritardo della politica ad affrontare seriamente la questione ambientale o quella dei flussi migratori, ma pure mi ha confermato indirettamente la poco lungimirante cultura sindacale troppo concentrata sulle rivendicazioni salariali, a scapito di una difesa del diritto di tutti a un lavoro dignitoso. Mi ha anche rimandato a un saggio, si badi, datato 1930, del famoso economista Keynes dal titolo «Economic possibilities for our grandchildren», di cui cito appena una domanda:

«Quale livello di vita economica possiamo ragionevolmente attenderci fra un centinaio d’anni? Quali sono le prospettive economiche per i nostri nipoti?», a cui l’economista rispose molto ottimisticamente.

La risposta di Keynes

«Sono certo che, con un po’ più di esperienza, noi ci serviremo del nuovo generoso dono della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi di oggi e tracceremo per noi un piano di vita completamente diverso che non ha nulla a che fare con il loro.

Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere limitati doveri, compiti, routines. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo “pane” affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.

Dovremo attenderci cambiamenti anche in altri campi. Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso – distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita – sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali».

Una sfida per noi

Sappiamo tutti che l’umanità non ha mai avuto così tanta scienza e tecnologia a disposizione da poter liberare dalla schiavitù fisica e morale l’intero pianeta, se ben guidata dalla politica e quindi sostenuta dall’economia e da una finanza dal volto nuovo.

Siamo in una situazione, invece, in cui il benessere continua ad essere negato ai più, perché regna l’individualismo più esasperato. E di questo siamo testimoni ogni giorno assistendo purtroppo al teatrino della politica nostrana. Saper distinguere e trattare di conseguenza chi semina zizzania e cura solo il proprio tornaconto sarebbe già un bel passo.

Claudio Solavagione
Torino, 13/02/2020


Ricordando padre Silvano Cacciari

Buongiorno Direttore,
sono un’insegnante che in questi giorni riflette su un caro amico di una vita che improvvisamente ci ha lasciati: padre Silvano Cacciari. Chi era, è chiaro a molti, ma non a tutti: un missionario.

Oggigiorno è difficile definire chi è un missionario, molti ci provano, anch’io.

Padre Silvano era un uomo e un religioso di grande e vivace intelligenza, e di singolare senso pratico nelle cose. Durante tutta la sua lunga vita si è prodigato ad aiutare i poveri dovunque nel mondo missionario sia nelle sue brevi esperienze in terra di missione, che, soprattutto, a Torino, «terra» non facile.

La sua profonda intuizione dell’animo umano lo ha sovente portato a elargire a cuore aperto a ogni povero che si presentava ciò di cui aveva bisogno (qui vorrei sottolineare che la povertà non è solo quella fisica), attirandosi critiche e grandi malumori da parte di molti, che giudicandolo con grettezza umana da farisei lo hanno messo al muro e gli hanno scagliato pietre di ogni genere.

Oggi, a pochi giorni dalla sua scomparsa terrena vorrei dire alcune parole forti: Gesù è venuto tra i suoi e non l’hanno accettato e capito, ma lo hanno lapidato. Padre Silvano non è un santo per quanto posso affermare io, aveva i difetti e le debolezze che molti di noi hanno, però che cosa si può aspettare un missionario in terra di missione se non una fine simile a quella di Colui che l’ha mandato?

Si è difeso, talvolta anche dai suoi, e Gesù non l’ha fatto?

Quando padre Silvano ha fatto tutto ciò che la sua coscienza gli diceva, si è ritirato, come hanno voluto i suoi superiori e umilmente ha passato gli ultimi tempi in Casa madre presso il Fondatore a riflettere, a confessare, ad ascoltare i poveri che gli aprivano il loro cuore e a celebrare la messa delle 11 di ogni giorno.

Anch’io rifletto e penso di non poter insegnare nulla a nessuno, mi sento però di dover dire grazie a padre Silvano, in primis per avermi accolta e aiutata in momenti difficili miei e della mia famiglia, e per tutti coloro che hanno beneficiato della sua disponibilità e della sua singolare abilità nell’amministrare e nel lavorare come missionario tra i poveri, sia per le missioni straniere che qui a Torino.

Forse molti di noi non lo hanno capito e lo hanno giudicato nella maniera in cui va il mondo. Io sono certa che soffrendo molto ci ha capiti e perdonati.

Ora che è nelle braccia del Padre misericordioso e nella pace eterna, ci aiuterà a fare chiarezza nelle nostre offuscate coscienze. Grazie di cuore e riposa in pace padre Silvano!

Brigida Pastorello
30/01/2020

Padre Silvano Cacciari è deceduto improvvisamente il 18 gennaio scorso. Nato il 20/06/1939 a Castello D’Argile (Bologna), ha fatto i primi voti come missionario della Consolata nel 1962 ed è stato ordinato sacerdote nel 1965. Dopo aver insegnato ad Alpignano nella scuola dei fratelli missionari, nel 1971 ha conseguito il dottorato in giurisprudenza e nel 1972 è stato amministratore della prelazia di Roraima in Brasile, poi studente specializzando negli Stati Uniti. Dal 1974 è stato richiamato a Torino, prima come incaricato dell’uffico legale dell’Istituto e poi, dal 1992, come amministratore dell’Ospedale Koelliker. In questa posizione ha dato il meglio di sé, portando l’ospedale a livelli di eccellenza italiana ed europea e aprendolo alla collaborazione con gli altri ospedali gestiti dai missionari della Consolata in Africa. Per questo nel marzo 2016 ha ricevuto l’onorificenza «Al merito della Repubblica italiana» (vedi foto).

Dal 2015 ha svolto servizi pastorali nella chiesa del beato Allamano, sempre a Torino.

Gli ultimi anni sono stati effettivamente difficili sia per lui che per l’Istituto per vicende che hanno ricevuto indesiderata pubblicità anche sui giornali. È morto riconciliato con i suoi superiori. La sua morte è stata una sorpresa per tutti noi che lo abbiamo visto fino all’ultimo inforcare la sua bicicletta e farsi un giro per la città. Il bene che ha operato resterà sempre a testimonianza della passione missionaria di un uomo che, pur con le sue fragilità, si è donato fino in fondo cercando di «fare bene il bene».

Padre Silvano Cacciari con padre Angelo Fantacci a Mombasa, vicino ad un pozzo il costruzione

Apprezzamenti con chiose

Spettabile Redazione,
conoscevo solo superficialmente il vostro Istituto, [,,,] quindi nemmeno conoscevo la vostra rivista. Casualmente ne ritrovo una copia regolarmente nella chiesa che frequento a Milano di rito tradizionalista, sensibilità che informa la mia vita liturgica morale culturale, con quel che ne consegue (seguo Corrispondenze Romane, mi piacciono e approvo Tosatti, la Siccardi e compagnia bella; cfr. dossier n. 1-2/2020). Insomma, sono di quelli che hanno esultato al rapimento della Pachamama (a Roma durante il Sinodo per l’Amazzonia), che personalmente brucerei su un rogo.

Eppure la vostra rivista mi piace. La trovo stimolante e bella (semplicemente): nell’ultimo numero bello il trafiletto sul Vietnam a pag. 9; interessantissima la storia degli emigranti venezuelani in Brasile, pagg. 10 e ss.; sconvolgente quello sul razzismo dei neri sudafricani contro gli «altri» neri africani, pagg. 19 e ss.; occupandomi di minori, è bello senza fronzoli edulcoranti l’articolo sulla «Ricomposizione del puzzle» a pagg. 51 e ss.; nuovo e coraggioso quello sui Fulani, pag. 61; stupenda, direi, e commovente la «intervista» a Mafalda di Savoia, uno dei pochi fulgidi esempi della nostra Real Casa.

Insomma, complimenti. Se appare un po’ ardua la – pur dovuta – difesa d’ufficio di padre Dalmonego, sicuramente preparatissimo, come avete definito senza però entrare nel merito di quelle che, almeno sui media, sono apparse come sue dichiarazioni francamente un po’ ardite, devo però riconoscere che nel complesso la rivista è equilibrata, poliedrica, stimolante, profonda. […]

In definitiva, grazie e complimenti. Ce ne fossero di riviste come la vs. nel mondo cattolico: sembrano tutte dei bollettini parrocchiali. Credo che mi abbonerò. Saluti e buon lavoro

Raffaele Ronchi
30/01/2020

Messa in TV

È giusto da parte delle autorità civili aspettarsi che anche la Chiesa faccia la sua parte nella lotta alle epidemie, è giusto da parte delle autorità ecclesiali chiedere ai fedeli di adattarsi a certe situazioni particolarmente incresciose e pericolose. Le esagerazioni però servono solo a peggiorare la situazione: arrivare a dire, come ha fatto qualcuno, che la messa in Tv o con lo smartphone, ha lo stesso valore della messa dal vivo, non va bene.

La Santa Eucarestia è la Persona stessa di Cristo ed è fatta per essere incorporata materialmente non online, e convivialmente, non in privato. Le stesse espressioni «messa privata» o «messa per pochi», sono dei controsensi dottrinali maledettamente fuorvianti; per esprimere il concetto che occorre essere rigorosi e che le precauzioni non sono mai troppe (purché di precauzioni si tratti, non di sceneggiate, o peggio ancora di vergognose speculazioni…), si possono e si debbono usare altri termini.
Cordialmente

Carlo Erminio Pace
Fano, 29/02/2020

Quanto noi tutti, e il mondo intero, stiamo vivendo in questi giorni è davvero nuovo e inedito. Coinvolge tutti, mette in discussione il nostro modo di vivere ed esige da noi una risposta che mette alla prova il meglio della nostra umanità. Però non giustifica affatto certe affermazioni – vere o presunte – sulla partecipazione alla messa. Nessun sacerdote, ma anche nessun cristiano, può dire che la messa in Tv vale come la messa partecipata dal vivo con la comunità che celebra. È un’affermazione che nega la natura stessa dell’Eucarestia ed è assurda come dire che la confessione via telefono, skype o smartphone è valida.

Che in tempi come questi la messa in Tv possa aiutare a pregare, offrire la possibilità di fermarsi ad ascoltare la Parola di Dio e sostenere la fede, è perfettamente accettabile. Come è utile fare una video conferenza o una lezione usando i social. La mente e il cuore possono essere stimolati e fatti lavorare. Ma se uno ha fame non è lo stesso vedere qualcuno mangiare un panino e mangiarlo davvero.

Usare i media per sostenerci, anche spiritualmente, è bello. È anche una sfida alla nostra creatività, al nostro comunicare, al nostro star vicini gli uni agli altri. Ma non è il modo normale di vivere. E può diventare un rischio: quello di credere che la fede sia un fatto intimista e personale e che basti la smart prayer.

L’Eucarestia invece è comunità, famiglia, incontro. È ascolto e servizio, dono e accoglienza, festa e cammino, perdono donato e ricevuto. E tanto altro che qui, ovviamente, non è possibile sviluppare. Ma sui siti cattolici, come quelli di Avvenire, Famiglia cristiana, Rocca, La Settimana, il monastero di Bose, Agenzia Sir e tanti altri, potete trovare un mare di bellissime riflessioni e approfondimenti su questo.
Uniti nella preghiera.

 

Water grabbing

Qualche nota aggiuntiva al problema dell’acqua che giustamente viene trattato ampiamente nel dossier del numero di marzo:

  • Kurdistan, popolato da una delle più antiche popolazioni del mondo, gli alleati della Prima guerra mondiale avevano promesso l’indipendenza ma a Versailles si resero conto che i curdi avevano in mano il rubinetto dell’acqua di Siria e Iraq e di una parte rilevante di quella di Turchia e Persia, per cui di indipendenza non si parlò più, se mai di repressione.
  • Alture di Golan, sempre oggetto di scontri tra israeliani e siriani perché vi nasce il Giordano ormai totalmente controllato dagli israeliani che ne sfruttano le acque al punto di prosciugare il mar Morto, destinato a diventare una miniera di sale a cielo aperto.
  • Nilo, destinato a portare sempre meno acqua in Egitto, perché sfruttato per irrigare Etiopia e prossimamente Sudan, con investimenti cinesi che hanno acquistato a buon prezzo moltissime aree dove coltivare quanto serve a loro, una volta irrigate. Gli egiziani, ormai 100 milioni – di cui 5 sono militari e poliziotti -, sono destinati alla sete e all’emigrazione, e la loro produzione di cotone all’estinzione.
  • Tibet: fornisce gran parte dell’acqua del Pakistan e dell’India, ma è in mano ai Cinesi che presto la devieranno, certamente prima che la popolazione indiana diventi più numerosa di quella cinese. Attenzione: Cina, Pakistan e India sono tutte e tre potenze nucleari.

Con simpatia e gratitudine per il lavoro che fate

Claudio Bellavita
28/02/2020

 




Brasile. Manaus. Sperduti nella metropoli

testi e foto di Marco Bello e Paolo Moiola |


I Warao sono arrivati anche a Manaus, la metropoli dell’Amazzonia. Ci sono due abrigos ufficiali: uno in pieno centro (Tarumã) e uno all’estrema periferia (Alfredo Nascimento). Li abbiamo visitati entrambi. Non senza qualche difficoltà.

Boa Vista. Alla rodoviaria ci sono le tende dell’Operação Acolhida. Vi vengono ospitati gruppi di migranti venezuelani: una notte, al mattino seguente occorre andarsene. La presenza dell’esercito brasiliano, che gestisce l’operazione, è visibile ma discreta. Pochi metri più in là delle tende ci sono gli stalli dei bus.

Sono tre le compagnie che prestano servizio tra Boa Vista e Manaus. La capitale di Roraima e la metropoli dell’Amazzonia distano poco meno di 800 chilometri, percorsi in circa 10 ore.

Viaggiamo tutta la notte lungo la sola (per fortuna, viene da pensare) strada esistente chiamata Br-174. Una via di comunicazione che ha portato a un disboscamento straordinario, con l’eccezione della parte che costeggia la riserva dei Waimiri-Atroari (a conferma che dove ci sono popoli indigeni la foresta è sempre più preservata).

Questo è il percorso che molti venezuelani, e Warao in particolare, intraprendono per cercare lavoro e una vita migliore in Brasile. È un viaggio obbligato sia per fermarsi nella metropoli che per raggiungere una qualsiasi altra città del paese.

Arriviamo a Manaus al mattino. Anche qui la rodoviaria ospita tende per i migranti venezuelani, ma la situazione pare più problematica rispetto a Boa Vista, forse anche per gli spazi angusti e per il contorno di un traffico automobilistico straordinariamente intenso.

Le dimensioni cittadine sono decisamente maggiori di quelle di Boa Vista, per andare in centro città ci mettiamo circa un’ora di taxi. Ci sono semafori e auto ovunque. Non sembra davvero di essere nel cuore dell’Amazzonia.

Tarumã

L’abrigo di Tarumã, gestito dalla municipalità, è in pieno centro, a pochi passi dal teatro Amazonas, l’unico edificio di rilievo storico di Manaus.

Nella più grande città amazzonica (conta circa 2,1 milioni di abitanti), gli abrigos sono sotto la responsabilità del comune, nello specifico del Segretariato municipale della donna, dell’assistenza sociale e della cittadinanza (Semasc). I rifugi per i venezuelani sono diversi, ma due in particolare accolgono solo indigeni, la maggioranza dei quali Warao. Non si tratta di spazi aperti, come a Boa Vista, ma di condomini popolari, presi in affitto per lo scopo.

Il rifugio di Tarumã è in un edificio eguale agli altri e senza alcun segno visibile di riconoscimento. Tutto cambia appena superato il cancello. Si entra in un cortiletto dove sui fili tesi sono posti ad asciugare una selva di indumenti, soprattutto pantaloncini e magliette. L’interno della struttura è completamente spoglio, mancano le porte e le scale sono al grezzo. Nelle stanze e lungo i corridoi incrociamo soltanto bambini. Gli adulti, infatti, sono quasi tutti in uno spazio all’aperto posto al terzo e ultimo piano, una specie di cortile interno dove si stanno svolgendo svariate attività. Sembra di arrivare nello spiazzo centrale di un villaggio indigeno. Alcune donne stanno lavando i bambini in una tinozza con acqua corrente. Altre stanno pulendo delle pentole. Altre ancora sono nell’angolo più lontano accanto a fuochi su cui si sta cucinando. Ai lati, vicino al muro, sono seduti uomini e donne con i bambini più piccoli. Uno di essi attira la nostra attenzione perché è visibilmente denutrito. Il papà che lo tiene in braccio ci spiega che è appena arrivato dal Venezuela. Pur sapendo della scarsità di cibo e medicine che affligge il paese, questo è il primo bambino in brutte condizioni che vediamo.

Mariusa Addio

Ci dicono che sono tutti Warao della comunità di Mariusa, nell’alto delta dell’Orinoco. Qui il cacique è Orlando Martinez, che è coadiuvato da tre giovani vice cacique. Di mezza età, tarchiato e con qualche dente di meno, Orlando inizia a parlarci in warao (tradotto in simultanea da padre Kokal, il missionario della Consolata che ci accompagna). Poi, dopo qualche minuto, il suo racconto diventa in castellano, un po’ stentato e trascinato.

«Siamo 130 persone, 35 famiglie, tutte di Mariusa (secondo nostre informazioni la capienza sarebbe di 70 persone, ndr). Si stava bene là. Siamo tutti pescatori: catturavamo i granchi, pescavamo. Quando c’era Chávez i prezzi erano equilibrati, si poteva lavorare. Ma poi, dopo la sua morte, i prezzi hanno iniziato a crescere e non abbiamo più trovato la benzina per le imbarcazioni. Così non riuscivamo più a procurarci da mangiare». Orlando racconta del periodo terribile che precedette la partenza dalla comunità, due mesi durante i quali non si trovava più cibo. «Eravamo circa 60, tra uomini, donne e bambini. Abbiamo cercato dei passaggi per raggiungere la frontiera. Non avevamo scelta: venire via o morire di fame». Arrivati a Pacaraima, prima città brasiliana di frontiera, si fermarono là per un mese, mendicando e rivendendo rifiuti metallici. Poi il gruppo si trasferì a Boa Vista, dove si installò per tre mesi a Pintolandia (cfr. MC marzo), quindi la decisione di continuare per Manaus.

«Qui, la prima settimana dormivamo in strada. Ma una notte mi accorsi che dei malintenzionati volevano portare via una nostra bambina. Ci difendemmo, ma l’insicurezza e la paura erano aumentate. Un prete brasiliano ci aiutò a raggiungere prima un abrigo e poi a insediarci qui, a Tarumã».

Continua Orlando: «Un Warao che è arrivato dal Venezuela due settimane fa mi ha raccontato che non c’è più nessuno a Mariusa, le comunità sono abbandonate. Siamo tutti in Brasile. Noi vorremmo tornare in Venezuela, ci pensiamo ogni giorno. Un paese ricco, che ha il petrolio. C’era tutto, ma perché è finito così?». Orlando non pensa di andare in un’altra città brasiliana: «Io sto qui tranquillo, ho paura di andare più lontano. Qui mangio, di giorno esco a fare qualche lavoro, vendo acqua, raccolgo lattine da riciclare. Guadagno 30 – 50 reais (10-12 euro), così compro pollo, riso e può mangiare la famiglia al completo».

Rischio culturale

Uno dei vice cacique di Orlando è il giovane Nelson Rojas, dinamico e pieno di idee. Canottiera colorata e collana indigena, non si siede e gesticola parlando con enfasi davanti a noi: «Sono della comunità indigena warao Anoko Ido, riconosciuta dal Venezuela come comune di Sotillo, stato Monaga. A causa della crisi che vive il Venezuela, siamo stati obbligati ad abbandonare la nostra casa. Purtroppo, molti Warao stanno perdendo la nostra cultura. Venendo in un altro paese apprendono un’altra cultura, perdono le proprie radici. I bambini crescono e non vogliono più parlare warao, ma portoghese. Questo ci dà fastidio, intimamente, perché ferisce la nostra identità di Warao».

Nelson parla dei pericoli che oggi si corrono nelle comunità del delta. In alcune zone si è installato il narcotraffico e la vita è diventata rischiosa.

«Ringraziamo Dio che parte di noi adesso è qui in Brasile, anche se non era proprio un nostro desiderio. Almeno abbiamo da mangiare, l’istruzione per i bambini, non siamo in pericolo di vita come in Venezuela. Io ero un portavoce della mia comunità, ma sono dovuto venire via lo stesso».

Nelson esprime pure un’opinione sulla situazione geopolitica, parlando del presidente del Brasile: «Bolsonaro era inizialmente d’accordo a mandare l’esercito degli Usa per appoggiare Guaidó (capo dell’opposizione venezuelana e presidente autoproclamato, ndr), ma poi ci ha pensato bene e ha deciso di no, perché è un paese vicino, ci sono relazioni, anche commerciali. Ad esempio, il Brasile compra energia dal Venezuela». E con un po’ di nostalgia ci dice: «Il nostro è un paese bello, con tante possibilità. Molti stranieri vorrebbero investire in Venezuela, stabilirsi lì, ma con questo governo non è possibile». Nel frattempo, sotto la veranda che si apre sul cortile, una volontaria della Caritas diocesana ha iniziato a impartire una lezione di portoghese a un gruppo di Warao, quasi tutti giovani.

Salutiamo e torniamo all’entrata, davanti alla quale, per approfittare dell’ombra, si è accomodato un gruppo di indigeni. A un certo momento, sul marciapiede, spingendo il proprio carretto, passa un venditore di gelati. È un haitiano arrivato a Manaus dopo il terremoto che devastò l’isola caraibica. Gioviale ed espansivo, l’uomo, afrodiscendente, si siede a parlare e ridere con gli indigeni, così diversi ma accomunati dalla stessa condizione di migranti per necessità.

Alfredo Nascimento

L’abrigo Alfredo Nascimento si trova all’estrema periferia Nord di Manaus. Prende il nome dal bairro (quartiere), a sua volta parte di Cidade de Deus, uno dei quartieri più violenti della città. Abbiamo deciso di visitarlo pur non avendo (ancora) in mano il nullaosta delle autorità municipali che lo gestiscono. Dopo qualche fermata lungo la strada per chiedere indicazioni, finalmente giungiamo a destinazione: l’abrigo è posto su una via in decisa pendenza. Lo riconosciamo anche vedendo alcune persone che, accanto a un rubinetto estemporaneo, raccolgono l’acqua in secchi di plastica.

Fuori del rifugio, seduti sul marciapiede ci sono una decina di uomini, giovani e anziani, molti a torso nudo.

Alcuni portano in testa un cappellino del Venezuela. È con loro che scambiamo le prime parole. Sono loro che ci informano dove si può incontrare il responsabile. Mentre uno di noi va a cercarlo, gli altri due ne approfittano per muoversi senza restrizioni.

L’abrigo è una sorta di struttura condominiale su due piani con le stanze che danno su corridoi all’aperto dove sono stati tirati decine di fili per stendere gli indumenti lavati. Ogni alloggio è occupato da un nucleo familiare, di solito piuttosto numeroso. All’interno non ci sono mobili, ma le immancabili amache e molte borse contenenti indumenti e oggetti della quotidianità. In alcuni alloggi è presente un lavandino, ma l’acqua non vi arriva. Qualche (rara) stanza ospita anche un televisore davanti al quale – come in tutto il mondo – i bambini rimangono incantati.

Nell’abrigo di Alfredo Nascimento regna la calma. Forse addirittura troppa. Difficile dire se si tratti di rassegnazione o di una manifestazione della pazienza indigena. Su un muro sono stati appesi due manifesti di Acnur, l’agenzia Onu per i rifugiati. Scritti in portoghese e in warao, tramite alcuni disegni mostrano come trattare i rifiuti e come usare le latrine.

Il personale

In un piccolo ufficio con aria condizionata a intensità esagerata incontriamo il responsabile, Alfredo, che ci accoglie trafelato. Ci sono anche alcuni operatori con il gilet dell’Acnur e dell’Unicef, tutti giovanissimi, e due poliziotti armati.

Alfredo, anche lui giovane (sotto i 40), ci racconta che l’abrigo è aperto da circa due anni, ha 70 miniappartamenti da due camere e alcune cucine comunitarie. L’acqua viene presa da pozzi artesiani. Attualmente vi si trovano 667 persone, quando la capacità stimata è di 350.

Qui e nell’altro abrigo di Manaus i controlli sono molto meno stringenti che in quelli gestiti dalla Operação Acolhida a Roraima (cfr. MC marzo). Anche noi ne abbiamo approfittato.

«C’è il registro, ma è difficile controllare – ci confessa il responsabile -. Noi chiediamo che le persone segnalino gli arrivi e le partenze. Se giungono altri familiari, gli ospiti non vogliono lasciarli in strada». Così accade che ci sia un certo va e vieni e che l’abrigo sia piuttosto sovraffollato.

«Qui, un po’ di tempo fa, c’erano molte liti, soprattutto a causa dell’abuso di alcol da parte degli uomini. Oggi la situazione è notevolmente migliorata», riprende Alfredo.

Nella visita ci imbattiamo in un tavolino, dove un operatore della Ong World Vision (statunitense), insieme a uno dell’Unicef (che ci dicono essere uno psicologo), interroga un Warao e compila un modulo: stanno conducendo un’inchiesta.

«A livello della salute c’è un monitoraggio quotidiano fatto da un operatore sanitario e periodicamente vengono fatte vaccinazioni. Ci sono dei casi di tubercolosi, e i migranti arrivano molto debilitati, quindi particolarmente a rischio».

Tra una telefonata e l’altra, Alfredo ci confida che il municipio ha in programma un trasferimento di tutti i Warao di Tarumã e Alfredo Nascimento in una zona ancora più periferica, ma in mezzo alla natura, dove «dovrebbero trovarsi a loro agio». Al tempo stesso, questo vorrebbe dire allontanare ancora di più i migranti dalle loro reti in città e dalla possibilità di trovare lavoro. Un dualismo tra comunità e città che i Warao hanno già sperimentato in Venezuela, dove una parte di loro ha scelto di lasciare canoe e palafitte per la vita urbana.

Finalmente Alfredo ci congeda. Ha molti impegni e si deve rinchiudere a lavorare nel suo ufficio ghiacciato.

Dignità

Quando siamo ormai in procinto di andarcene, un piccolo bus si ferma davanti al rifugio. Non porta persone, ma viveri. Viene subito scaricato e gli alimenti consegnati agli ospiti in attesa. Quasi a conferma della nostra prima impressione, non c’è ressa né confusione. Gli indigeni ospiti del rifugio di Alfredo Nascimento danno dimostrazione di affrontare la loro difficile condizione con compostezza e dignità.

Marco Bello e Paolo Moiola
(3.a puntata – continua)


L’antropologo militante

«Migranti, ma in primis indigeni»

Le riflessioni di Sidney Antônio da Silva, professore all’Università federale di Amazonas (Ufam), a Manaus.

Manaus. Sidney Antônio da Silva, antropologo, è professore all’Università federale di Amazonas (Ufam). Paulista, si è trasferito a Manaus nel 2006 per studiare la migrazione nella regione Nord del Brasile1. Qui coordina anche il Grupo de estudos migratorios na Amazônia.

Il professor Sidney ci riceve in una sala del moderno Dipartimento di antropologia sociale: «Da fine 2016 la presenza di migranti venezuelani accampati nei pressi della stazione degli autobus attirò l’attenzione della gente e delle autorità. Il Ministero pubblico federale (Mpf) intervenne, e fece in modo che il municipio si prendesse la responsabilità sui Warao a Manaus. Dopo circa sei mesi di vita in baracche improvvisate trovarono loro un rifugio, nel bairro Coro Alto».

Il municipio e il governo locale ritennero però che tale sistemazione non fosse adeguata per i Warao e, anche grazie a soldi federali, verso fine 2018 trasferirono i migranti in piccole case adatte ai nuclei familiari, dove potevano organizzarsi e autogestirsi.

«Fu una decisione interessante, molto appoggiata, in particolare dall’Acnur. Noi accademici abbiamo accompagnato questo processo, facendo una ricerca sull’accoglienza dei Warao2 commissionata dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). Dividerli in piccole comunità, a partire dai legami di parentela, è molto importante. Loro non migrano soli, lo fanno con la famiglia allargata. È una specificità Warao e occorre essere attenti a questa rete».

Andare oltre l’abrigo

Qualcosa andò storto e si tornò ai rifugi di massa. «Ci sono stati problemi, forse per ragioni economiche. Il municipio li ha portati nel quartiere periferico Alfredo Nascimento, sistemandoli in piccoli condomini di edilizia popolare. Ma in questo modo sono stati allontanati dalle reti che si stavano costruendo nei quartieri più vicini al centro e ora si ritrovano isolati. Si tratta di reti di lavoro informale, vendita di artigianato, richiesta di soldi nelle strade. Nel centro della città è rimasta un’unica palazzina in rua Tarumã».

Il professor Sidney mette in evidenza la tipologia migratoria tipica dei Warao: «Il modello di abrigo non basta. Sappiamo che non risponde alle aspettative di questo popolo, perché per una sua dinamica storica il Warao ha una mobilità, una circolarità, sperimentate già dentro il Venezuela e ora nel Brasile. Stanno infatti circolando nel paese, in altre città del Pará e nel Nordeste. Inoltre, non è un gruppo omogeneo di Warao, e quindi sono portatori di interessi differenti».

Dialogo tra indigeni

Le due grandi sfide che l’antropologo identifica sono educazione e inserimento produttivo. «L’abrigo Alfredo Nascimento ha suscitato diversi problemi: mancanza di attività, bambini che non vanno a scuola, (appena 25 su 200). L’inserimento dei Warao in Brasile passa per un’educazione non tradizionale, ma pensata per un gruppo itinerante. C’è poi la questione dell’interculturalità, perché parlano un’altra lingua, hanno una propria cultura».

«La seconda sfida è la generazione di reddito: creare spazio in modo che possano produrre artigianato, o partecipare in altro modo all’economia. Occorre pensare a forme di inserimento lavorativo, che non sia però una forma marginale di sotto impiego o lavoro degradante».

Un altro aspetto fondamentale per l’integrazione è «fare in modo che la società e il governo brasiliano li riconosca come indigeni. Loro sono migranti, ma sono pure indigeni. Non possiamo lavorare solo con la categoria dei migranti. Perché sono diversi, c’è una differenza etnica, culturale».

L’approccio del governo attuale, in particolare in relazione agli indigeni, complica la situazione: «Oggi esiste una mobilitazione degli indigeni brasiliani che temono che i propri diritti non siano più rispettati. I Warao sono in una situazione di particolare vulnerabilità, perché sono pure stranieri.

Un percorso possibile è che si uniscano agli indigeni brasiliani, per sommare le forze, e che questi non li vedano come una possibile minaccia o come intrusi. Noi come istituzione universitaria, le Ong e la Chiesa dovremmo appoggiare questo dialogo tra indigeni. È importante che i Warao possano essere organizzati come gruppo. Non credo, da ricercatore ma anche da militante, che si possa conseguire qualcosa senza organizzazione e coinvolgimento dei migranti, senza una dinamica dal basso».

L’era Bolsonaro

Il professore sottolinea la svolta dell’era Bolsonaro: «C’è stato un cambiamento molto grande, perché al nuovo governo non è “simpatico” il governo venezuelano. Pertanto, si è creata una tensione che ha portato fino alla chiusura della frontiera. È cambiato il modo in cui il Brasile vede il Venezuela, non più come amico ma come possibile minaccia, e questo si è riflesso nel rapporto con i migranti. Una forma di xenofobia e discriminazione per i venezuelani, visti spesso come quelli che non vogliono lavorare, perché nel loro paese ricevevano tutto gratuito. Questo ha creato più difficoltà nella vita dei migranti, non solo venezuelani: la migrazione vista come qualcosa di criminoso, orribile, dopo anni in cui si è lottato per cambiare la visione del migrante come pericolo».

M.B. – P.M.


I rapporti tra indigeni

 La nostra mano per i fratelli warao»

A colloquio con Enock Taurepang (Cir) e Mauricio Yekuana (Hutukara), rappresentanti degli indigeni di Roraima.

Boa Vista.Vogliamo tentare di rispondere a un quesito semplice ma importante: nello stato più indigeno del Brasile come sono stati accolti gli indigeni che provengono dal Venezuela? Proviamo a cercare un primo riscontro nella sede del Consiglio indigenista di Roraima (Cir). Fondato nel 1971 con l’appoggio della Chiesa cattolica, il Cir è un’organizzazione che dà supporto giuridico e politico ai popoli indigeni dello stato. Incontriamo il suo coordinatore generale, Enock Barroso Tenente, di etnia Taurepang1.

«Quando i primi Warao – racconta Enock – arrivarono nello stato di Roraima, la gente non sapeva chi fossero. Non si sapeva da dove venissero. Molte persone della città pensarono che fossero indigeni del Brasile. Essi hanno sofferto abbastanza pregiudizi ed anche violenza, come d’altra parte noi indigeni di Roraima. Si diceva che avevano molta terra ma che, al tempo stesso, volevano stare in città per chiedere l’elemosina ai semafori e nelle strade del centro».

«Dopo un po’ di tempo, sia la società bianca che quella non bianca è venuta a sapere chi fossero. Che erano un popolo nomade che stava passando un periodo di difficoltà nella propria terra indigena. Che erano dovuti andarsene a causa dello sconvolgimento portato dal modello di sviluppo. Tutto questo li aveva portati lontani dai loro territori per cercare un nuovo spazio in cui vivere».

Enock Taurepang racconta degli incontri avuti con alcuni rappresentanti dei Warao fin dal 2017, e aggiunge: «L’appoggio che noi possiamo dare ai Warao è politico. C’è la proposta che l’Onu e altre organizzazioni internazionali possano dare un contributo per comprare una proprietà privata. In questo momento, un pezzo di terra su cui sistemare i Warao sarebbe essenziale. Sarebbe una soluzione immediata. Come Cir, noi confermiamo il nostro appoggio politico e una mano fraterna affinché essi possano vivere meglio qui nel nostro stato».

Yanomami e Yekuana

Per capire ancora meglio i rapporti tra gli indigeni di Roraima e quelli provenienti dal Venezuela cerchiamo una seconda testimonianza. Per questo chiediamo un appuntamento a Mauricio Yekuana2, direttore di Hutukara, l’associazione degli Yanomami che ha Davi Kopenawa come presidente. Lo incontriamo nella sede dell’associazione. Il momento è particolare: da pochi giorni c’è stato l’annuncio dell’assegnazione del Right Livelihood Award (conosciuto anche come «premio Nobel alternativo») per il 2019 a Davi e all’associazione3. Oltre a questa splendida notizia ce n’è un’altra, che invece è negativa. La sede di Hutukara e quella adiacente dell’Instituto socioambiental (Isa) sono state fatte oggetto di ruberie. Questi fatti vanno ad aggiungersi a minacce e intimidazioni che sono ormai divenute la normalità in un generale clima anti indigeno alimentato dal presidente Bolsonaro.

«Anche i Warao – spiega Mauricio – sono stati invasi dai garimpeiros. Hanno paura perché il fiume viene inquinato e non c’è sicurezza. Loro se ne vanno perché non c’è più nulla da mangiare e non c’è terra da seminare. Non avendo più niente, lasciano i propri territori in cerca di una vita migliore per i loro figli».

Accanto alla solidarietà e alla comprensione, nello stesso tempo Mauricio non nasconde i problemi: «La nostra terra Yanomami ha molti problemi. Quando hai problemi nella tua propria casa, è difficile affrontare quelli degli altri».

Diversi, eppure solidali

Enock Taurepang e Mauricio Yekuana hanno risposto al nostro quesito di partenza aiutandoci anche a chiarire un punto fondamentale. Come i popoli non sono tutti eguali (dal punto di vista antropologico e culturale), così non sono tutti eguali i popoli indigeni. Questo significa che non è implicito che un popolo indigeno sia in accordo con un altro popolo indigeno. Fatta questa precisazione, constatiamo che il rispetto e la disponibilità mostrate dai popoli indigeni di Roraima verso quelli provenienti dal Venezuela costituiscono un comportamento a cui tanti dovrebbero ispirarsi.

Marco Bello – Paolo Moiola


Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.





Guka, il nonno (un piccolo grande missionario)

testo a cura di Gigi Anataloni |


Padre Angelo è deceduto il 28 dicembre 2019 a Nairobi in Kenya. Aveva 95 anni, di cui 73 vissuti da missionario della Consolata e 69 da sacerdote. Ecco la sua testimonianza di missionario in Kenya dal 1962 in un’intervista del maggio 2019.

«La mia vocazione missionaria è nata nella città di Fiuggi dall’incontro con mons. Filippo Perlo, al quale facevo quotidianamente da chierichetto, in una chiesa vicina alla casa di mia zia dove mi trovavo per le vacanze».

I padri Jaime Patias e Antonio Rovelli, consiglieri generali dei missionari della Consolata, in visita in Kenya nel maggio scorso, hanno incontrato e intervistato il guka (nonno, in lingua kikuyu).

«È il Signore che fa i miracoli! Io non ho mai fatto miracoli, ma ho sempre cercato l’appoggio dei benefattori per fare dei piccoli miracoli con le opere di carità».  Ascoltando la videointervista di padre Angelo, spontaneamente si ricorda una frase di san Paolo che riassume molto bene la vita di questo «piccolo grande» missionario: «Tutto io faccio per il Vangelo» (1 Cor 9,23).

Le parole di padre Angelo

P. Fantacci con bambini di Archer’s Post

«Mi chiamo padre Angelo Fantacci. Sono arrivato alla bella età, vicino ormai alla fine, di 95 anni (nato il 14/10/1924 a Collepardo, in quel di Frosinone) e questo lo considero una grande benedizione del Signore perché non tutti arrivano a questa età.

La mia vocazione è nata nel 1937 a Fiuggi dove d’estate andavo da una zia che aveva un albergo vicino alla chiesa parrocchiale. Tutte le mattine andavo a servire la messa lì e vedevo sempre un sacerdote con la barba che diceva la messa. Da quel bambino che ero, mi ero stupito, e parlando con mia zia le dicevo che il prete a cui avevo servito la messa portava le calze rosse. Barba e calze rosse: non era certo il modo di presentarsi del parroco del mio paese. E mia zia mi rassicurava che era normale perché quello era un missionario che era stato in Africa. Tranquillizzato, ho continuato ad andare a servire la messa.

Una mattina, mentre uscivo, lui mi ha chiamato. “Bambino, vieni qui”. Non sono cresciuto molto, ma allora ero davvero piccolo! “Come ti chiami?”, “Angelo”. “Dove stai?”, “Da mia zia che ha l’albergo Paradiso” (niente meno).

“Conosco tua zia, dille che ti mandi a trovarmi dove io abito”. Allora mia zia la mattina successiva mi ha detto: “Vai su a metà strada tra Fiuggi fonte e Fiuggi città e là trovi la casa di questo vescovo e così lui ti può parlare”.

Allora c’era il tram che portava fino lassù, così ho chiesto alla zia di darmi i soldi per il biglietto. Ma lei: “No no, tu vai a piedi”.

Ed è così che ho cominciato la mia missione! Sono andato e ho incontrato monsignor Filippo Perlo, monsignor Gabriele, suo fratello, padre Luigi, il terzo fratello, e la loro sorella Agnese, che d’estate venivano a stare in quella casa a Fiuggi.

Lì mons. Perlo ha cominciato a parlare delle missioni e mi ha fatto vedere tante fotografie. Poi mi ha dato due libri che lui aveva scritto e che ho portato a casa. Li ho mostrati alla zia e ho cominciato a leggerli. Da lì è nata un po’ la mia vocazione missionaria, tanto è vero che poi a ottobre di quell’anno ho deciso di andare nel seminario dei missionari della Consolata a Gambettola, e là ho cominciato i miei primi studi che ho poi completato in Piemonte dove sono stato ordinato nel 1950».

Arrivo in Kenya

«Sono arrivato in Kenya nell’agosto del 1961, adesso non ricordo bene la data. Era il 23 o il 25, ed è stato l’ultimo viaggio fatto in nave da Venezia fino a Mombasa, poi da Mombasa sono arrivato a Nairobi in treno. Da qui mi hanno mandato a Nanyuki, ai piedi del Monte Kenya, dove ho fatto il mio apprendistato, e poi un anno a Kaheti, parroco, tra i Kikuyu. Nel 1963 sono partito per Archer’s Post, sulla strada per andare a Marsabit, nel Nord del Kenya, dove non c’era assolutamente niente».

Antica cappella protestante Archer’s Post

Archer’s Post era in una località strategica dal punto di vista del lavoro dei missionari, perché relativamente vicina a Isiolo (dove finiva la strada asfaltata) e primo avamposto sulla strada verso Wamba (a Est) e Marsabit (Nord). Quest’ultima era la cittadina capitale dell’area omonima abitata da pastori nomadi che nel 1964 sarebbe diventa la sede della nuova diocesi affidata ai missionari della Consolata.

Padre Angelo è rimasto là fino al 1971. Nel 1972 è stato trasferito come parroco nella missione di Maralal, in posizione centrale per l’evangelizzazione della zona verso il lago Turkana, dove ha costruito quella che oggi è la cattedrale dell’omonima diocesi. Lo stesso anno è stato eletto consigliere del superiore dei missionari della Consolata in Kenya. Durante quel periodo, nel 1975, nel consiglio regionale hanno preso una decisione importante: aprire una missione sulla costa, nella città portuale di Mombasa, dove la maggior parte degli abitanti era musulmana.

«Dunque, avevano deciso di aprire anche a Mombasa però nessuno voleva andarci. Io ero del consiglio, uno di quelli che avevano approvato il nuovo progetto, così il superiore e gli altri padri mi hanno detto “accetta almeno tu che puoi andare e cominciare”. Allora sono andato a iniziare la missione sulla costa dell’Oceano Indiano».

1965 lavaggio dei piatti dopo pranzo, padri Rossi Berluti, Fantacci e Valli

Missione e opere

«Se ho realizzato delle opere è perché la missione vale se ci sono delle opere, soprattutto caritative o sociali. Il Signore faceva i miracoli, ma io non sono mai arrivato a fare un miracolo. Però ho sempre cercato di fare delle opere a cominciare dalle scuole per i bambini.

In alcuni posti lungo la costa di Mombasa non c’erano scuole, come anche al Nord tra i nomadi, perché gli inglesi avevano completamente dimenticato quella zona.

Quando ero ad Archer’s Post, la prima cosa da costruire non era la casa e la chiesa – l’unico cristiano ero io – ma il dispensario medico e io stesso davo le medicine più comuni, quelle che potevo dare senza rischi, naturalmente. Poi avevo iniziato con la scuola dei bambini, a partire dall’asilo. Dopo, pian pianino, erano venute tutte le altre opere e anche la chiesa dedicata alla nostra mamma Consolata. Così era cominciata la missione di Archer’s Post nel lontano 1963».

«L’ultima opera che ho fatto (prima di essere costretto dalla salute malferma a ritirarsi a Nairobi nel 2018) è una grande scuola a Ukunda, vicino a Diani, una rinomata località balneare molto frequentata dagli italiani. Prima ho comprato il terreno, che è costato parecchio, e poi ho detto al vescovo: “Qui c’è tutto questo terreno, vi voglio costruire una scuola tecnica per i bambini affinché possano imparare un mestiere”. Ora c’è una bella scuola gestita dai religiosi di una congregazione kenyana».

Missione a Mombasa

Nel 1976 è cominciata l’avventura di padre Angelo sulla costa, con la scelta della zona di Likoni, alla periferia Sud della città-isola di Mombasa. Per arrivarci occorreva (allora e oggi) prendere il traghetto. Gli abitanti erano un grande miscuglio di gruppi etnici provenienti dalle varie zone del paese attratti dalla possibilità di lavoro nel porto e nell’emergente industria turistica.

Nella missione di Likoni-Mtongwe, padre Angelo è rimasto fino al 1996, salvo un breve intervallo di tre anni (1979-1981) nella missione di Sagana nella diocesi di Murang’a.

A Mombasa la situazione non era facile. C’erano sono forti tensioni tra i nativi (islamici) e quelli che venivano da fuori (in maggioranza cristiani). Nel 1992 e nel 1997 gli scontri sono stati così violenti che la missione si è trovata invasa dai rifugiati. Ha scritto suor Corona Nicolussi (MC 12/2010): «La prima volta arrivarono 10mila rifugiati. Erano dovunque: in missione, in chiesa, nella scuola, asilo e cortile. Quando sentii che avevano cominciato a bruciare le case, andai con suor Ester a comperare un po’ di fagioli e granoturco da dare a chi era nel bisogno. Invece, dopo pranzo, la gente cominciò ad invadere la missione. Chiamai padre Angelo (Fantacci), il parroco. “Che facciamo?” Togliemmo i banchi della chiesa e la riempimmo di donne e bambini. Tutti i locali erano pieni, e il cortile era diventato un grande accampamento. Per fortuna non pioveva. Prova ad immaginare com’era! Chiudemmo il dispensario e tutte le cure andarono a chi avevamo in casa. Pensa che quando di notte mi chiamavano per un’emergenza, dovevo scavalcare i corpi dei dormienti».

A causa degli scontri, del 22 agosto 1997, il numero dei rifugiati presso imissionari della Consolata di Likoni ha raggiunto 2.200 unità

Una rete di benefattori

Chissà quanta gente ti ha aiutato a fare tutte quelle opere, gli domandano gli intervistatori.

«Ho sempre cercato di stare in contatto con i benefattori. Scrivevo lettere (proprio lettere) che spedivo e mandavo a tutti personalmente. Devo dire con sincerità che questi benefattori mi hanno sempre aiutato e qualcheduno continua ad aiutarmi anche adesso. Quindi devo ringraziare veramente questi benefattori perché hanno dimostrato il loro affetto non per me, ma per la missione sentendosi anche loro missionari. Scrivendo e ringraziando dicevo loro “ecco, bravi, perché non facciamo questo per noi stessi, ma per il Signore. Queste opere sono realizzate grazie alla vostra generosità”.

La fede ha valore quando ci sono delle opere. Possiamo predicare bene il Vangelo ma deve essere seguito dalle opere. Gesù è la fonte dei miracoli, ma i nostri miracoli dipendono dai benefattori e dalla loro generosità. Quindi le opere caritative e sociali che noi missionari abbiamo cercato sempre di realizzare esistono grazie alla loro generosità. E io vecchio missionario di 95 anni ringrazio anche a nome di tutti i missionari. Sono sicuro che il Signore saprà ricompensare tutti come giustamente meritano».

Gli intervistatori chiedono a padre Angelo due parole di incoraggiamento alle nuove generazioni di missionari della Consolata.

«Cari giovani missionari cercate prima di tutto di non pensare a voi ma alla gente con cui venite a contatto. E che cosa predicare? Non ciò che volete voi, ma seguire il Vangelo perché seguendo il Vangelo vi ascoltano di più e diventeranno senza dubbio dei bravi cristiani, e poi da questi possono nascere anche delle buone vocazioni».

Rifugiati presso la missione della Consolata di Mombasa dopo i disordini del 13 agosto

Il lavoro non è nostro, ma di Dio

«Ho sempre notato che la gente, pur vedendo il nostro colore bianco, ci ha sempre accettato con cordialità. Io contrasti duri non li ho mai avuti. Con qualche autorità sì, ma con la gente mai. Sempre in buoni rapporti. E hanno sempre ascoltato e sempre stimato ciò che si faceva per loro e questo ci incoraggiava a continuare a predicare il Vangelo, perché il Vangelo, come dice il Signore, è la parola della vita, la parola della salvezza e anche la parola di tanta gioia. Perché più si ascolta il Vangelo e più si segue Gesù e più uno si avvicina a lui e si avvicina anche all’eternità».

Sull’avviso per il funerale di padre Angelo, avvenuto il 3 gennaio 2020 al cimitero dei missionari della Consolata al Mathari, Nyeri vicino alla chiesa Memoriale degli Italiani, c’era scritto: «Caro padre Angelo, hai dato tutta la tua vita alla missione del Padre, come una matita nelle mani dell’artista: ti sei lasciato affinare e usare liberamente fino alla fine…».

La messa funebre è stata celebrata da mons. Virgilio Pante, vescovo della Diocesi di Maralal, con la presenza di molti confratelli e gente.

Un giovane missionario kenyano presente al funerale ha scritto: «Sulla sua tomba è stata posta una corona floreale. L’hanno deposta dei bambini che erano presenti alla sepoltura, per due motivi. Uno, padre Angelo è morto il 28 dicembre 2019, nella festa dei Santi Innocenti. Due, era un segno che in effetti era il nostro guka, nonno!

Sarà ricordato con affetto per il suo famoso detto: “Mzee, kazi sio yako, ni ya Mungu” (anziano, il lavoro – quello che hai fatto – non è tuo, ma di Dio)».

Gigi Anataloni

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Ho compilato questo testo, senza pretese di completezza, utilizzando l’intervista del maggio 2019 e le notizie pubblicate su consolata.org in occasione del funerale, aiutato da memorie (e foto) personali. (G.A.)

 


Un pioniere della missione in Kenya

Mons. Filippo Perlo

Mons. Filippo Perlo (1873-1948), nipote di don Giacomo Camisassa, braccio destro del beato Giuseppe Allamano, è uno dei primi missionari della Consolata. Partito con il primo gruppo per il Kenya nel 1902, nel 1903 diventa superiore del piccolo gruppo di missionari che iniziano la loro avventura evangelica nella terra dei Kikuyu (Agekoyo allora). Nel 1905 quella regione diventa «Missione indipendente» separata dal Vicariato di Zanguebar (Zanzibar, vicariato che fino allora ha responsabilità su gran parte dell’Est Africa) e nel 1909 Vicariato apostolico del Kenya. Perlo ne diventa il primo vescovo fino al 1924, quando rientra definitivamente in Italia ed è nominato superiore generale dell’Istituto dopo la morte del fondatore, il beato Allamano. Nel 1930 si ritira a Roma con i fratelli e la sorella. Muore il 4 novembre 1948, pochi mesi dopo suo fratello mons. Gabriele.

Uomo di grande intelligenza, eccellente fotografo, grande stratega della missione, duro con se stesso ed esigente con i suoi confratelli, ha dato un impulso determinante allo sviluppo della missione in Kenya. Amato da tanti, contestato da altri, nel 1930 è stato estromesso dall’istituto, nel quale è rientrato in occasione del suo 50° di messa nel 1945. È stato una figura controversa, ma la sua passione per il Vangelo e la missione, il suo amore per il Kenya (dove ha anche fondato un istituto di suore locali a Nyeri) e per l’istituto sono fuori discussione. (G.A.)

Padre Barlassina (o Gabriele Perlo?) nella missione di Vambogo mentre ascolta il rapporto giornaliero dei catechisti. La foto porta scritta autografa di Filippo Perlo (già vescovo) a matita sul retro con due parole cancellate da uno strappo sulla carta: “P…….. della scena” + Filippo

 




Per attrazione

testo di Luca Lorusso |


Ventisette anni in Kenya, cinque in Italia, due in Liberia, undici in Tanzania. Si possono riassumere i 45 anni di missione di fratel Sandro in cinque pagine? Ci proviamo, attraverso aneddoti, date e nomi di luoghi pieni d’incontri.

Settant’anni compiuti poco meno di un anno fa. Un’energia invidiabile. Una parlantina che parte lentamente, ma che, una volta avviata, va decisa. Una lunga esperienza missionaria: ventisette anni in Kenya, cinque in Italia, due in Liberia, undici in Tanzania.

Fratel Alessandro Bonfanti, nato a Robbiate, Como, il 9 maggio 1949, chiamato da tutti Sandro, si siede di fronte a noi e ci guarda con occhi schietti che sembrano scrutarci.

Quando iniziamo a registrare la sua voce, sembra imbarazzato, ma l’imbarazzo, se c’è, è solo temporaneo, e inizia a raccontare la sua vita partendo da Neema, una ragazza che oggi ha tredici anni e che lui ha conosciuto poco dopo il suo arrivo nel 2009 in Tanzania.

Neema (cioè Grazia)

«Quando sono arrivato in Tanzania, sono stato mandato alla procura di Dar es Salaam dove passano molti missionari e missionarie, sia della Consolata che di altre congregazioni o fidei donum.

Un giorno, una suora italiana di Vingunguti, slum alla periferia della città, mi ha chiesto se conoscessi un posto che potesse accogliere una bimba con un handicap grave. Io ero appena arrivato, e non sapevo.

Poco tempo dopo sono passato dalla suora per avere notizie, e lei mi ha portato in una baracca. Dentro c’era una mamma con un neonato al petto. In un angolo scuro c’era una bimba di due anni che non parlava, non stava in piedi e nemmeno seduta. La mamma era stata abbandonata dal marito perché considerata incapace di fargli una creatura normale. Ora aveva una relazione con un altro uomo da cui era nato il piccolo che stava allattando, ma quell’uomo non voleva tenere la bambina».

Fratel Sandro si è preso a cuore la situazione, e ha iniziato a cercare: «Nessuna istituzione era in grado di occuparsi di una bimba che avrebbe trascorso tutta la vita in modo non autonomo».

Negli anni trascorsi alla procura, fratel Sandro ha incontrato molte persone: «Un giorno è venuto padre Filippo Mammano, un fidei donum siciliano, per delle spese, e mi ha raccontato che nella sua missione di Ilula aveva un orfanotrofio. Allora io gli ho parlato della bambina e, dato che lui sarebbe rimasto da noi fino all’indomani e aveva il pomeriggio libero, mi ha detto: “Andiamo”.

Quando siamo arrivati lì non ci siamo detti niente, ma ho visto che anche lui è rimasto colpito. Siamo tornati in procura, abbiamo cenato assieme, e dopo cena ci siamo seduti fuori. Mi ha detto: “Portamela a Ilula. Ho già del personale che segue gli orfani. Una in più una in meno…”».

Ilula, dove padre Filippo è parroco da 30 anni, si trova a 450 km da Dar es Salaam. Fratel Sandro si è accordato con lui e gliel’ha portata, «naturalmente insieme alla mamma che è rimasta lì due giorni, e poi è tornata».

Fausta la biologa

Fratel Sandro è felice di parlare di Neema e di padre Filippo: muove le sue grandi mani in gesti ampi e accompagna la narrazione con tutto il corpo, sottolineando i passaggi importanti con piccole pause e puntando i suoi occhi nei nostri.

Prosegue: «Una delle prime bambine che padre Filippo ha aiutato è stata una certa Fausta, cresciuta in missione. Dato che era brava a scuola, l’ha mandata a studiare biologia a Catania. Quando si è laureata ed è rientrata in Tanzania, ha detto a padre Filippo: “Tu mi hai aiutata, e io per un anno lavoro gratis per l’orfanotrofio”. Fausta aveva già ricevuto due richieste di lavoro da due università, tra cui quella di Iringa, a 45 km da Ilula.

Nel frattempo, è arrivata Neema, e Fausta le si è affezionata. In più, poco tempo dopo, Fausta ha saputo che lì a Ilula era morta una mamma durante il parto. Aveva partorito una bambina e il papà non si era fatto vivo. Nessun parente. Allora Fausta l’ha presa con sé e l’ha adottata.

Oggi Fausta è l’incaricata dell’orfanotrofio. Intanto, avendo già Neema, hanno iniziato a prendere altri bambini con handicap vari, e ora, su 120 ospiti, la metà ha bisogni speciali, alcuni anche con problemi mentali».

Neema, nel tempo ha iniziato a mangiare da sola e a parlare. Stando con gli altri, impara molte cose. «Poi ha la sua carrozzina – prosegue fratel Sandro -. Adesso sta dritta e non cade più. E comincia anche a scrivere.

Padre Filippo prende gli scarti degli altri. Quando c’è qualcuno che non trova posto da nessuna parte, come Neema, da padre Filippo trova accoglienza».

«Vieni e vedi»

Fratel Sandro è arrivato in Africa nel 1973, a 23 anni. La professione perpetua l’ha fatta a fine ‘74, ma la prima professione temporanea l’aveva fatta nel ‘68, appena diciannovenne.

Gli chiediamo quando ha sentito la chiamata a diventare fratello missionario.

«Io non ho sentito nessuna chiamata – ci dice lui, forse un po’ divertito dall’idea di darci una risposta poco convenzionale -. Quando ero piccolo, il parroco mi ha chiesto più di una volta di fare il chierichetto, e io mi sono sempre rifiutato. I miei erano molto religiosi, mio papà era presidente dell’Azione cattolica del mio paese e durante l’estate mi mandava all’oratorio feriale. Il prete addetto all’oratorio chiamava tutti gli anni un missionario della Consolata dalla casa di Bevera (Lecco). L’estate prima di iniziare le medie è venuto padre Ugo Benozzo, che ci raccontava storie di missione e ci faceva vedere film. Un giorno mi ha chiesto: “Ti piacerebbe essere missionario?”. Io non ci avevo mai pensato, ma in quel momento dovevo dire sì o no. Mi sembrava che se gli avessi detto di no l’avrei offeso, allora ho detto di sì. Ho pensato: “Tanto questo non lo vedo più…”. Solo che dopo un mese è tornato in paese e mi ha cercato. Allora io ho cominciato a oppormi: “Ma no, io missionario!”. Lui mi ha detto: “Guarda, vieni e vedi…”, io alla fine sono andato, e sono ancora qui».

Agosto 1965, Olimpiadi estive. La squadra della IV ginnasio nel seminario di Bevera di Castello Brianza. Fratel Sandro è il portiere.

In Kenya

Entrato in seminario minore a 11 anni, dopo tre anni Sandro aveva già le idee chiare: voleva diventare fratello. «Dalla quarta ginnasio mi sono detto: “Io non voglio annoiare la gente con le prediche”. Sono stato sempre restio a presentarmi in prima persona».

Allora si è dedicato allo studio della meccanica e, finite le superiori, nell’ottobre 1968, ha fatto la prima professione temporanea. Destinato alla procura di Alpignano (To), vi è rimasto per quattro anni facendo anche un corso di edilizia per corrispondenza.

«Nel 1972 ero ad Alpignano quando padre Guido Motter, vice superiore generale, è arrivato e mi ha chiesto di partire per il Kenya. Quindi sono stato nove mesi in Inghilterra per imparare l’inglese, e in Kenya sono arrivato nel ‘73, destinato a Kaheti, a 140 km a Nord di Nairobi, in una scuola di edilizia e falegnameria. Lì c’era fratel Vincenzo Quaglia. Per tre anni ho gestito la scuola».

Nel frattempo, nella scuola tecnica di Sagana, 30 km più a Sud, volevano aprire la sezione di edilizia. «Il preside padre Giuseppe Bertaina, un giorno mi ha parlato del progetto. Io pensavo che volesse solo una consulenza, invece dopo quindici giorni è arrivato il superiore dicendomi: “Ti sei già messo d’accordo per andare a Sagana? Mi hanno detto che saresti disposto ad aprire la sezione di edilizia”, insomma – ride fratel Sandro -: mi sono trovato incastrato».

A Sagana fratel Sandro è rimasto quattro anni, fino a quando, nel 1980, è stato mandato a Nanyuki per dare una mano nella procura della diocesi di Marsabit. «Lì ho fatto due anni: raccoglievamo e spedivamo materiali di tutti i tipi.

Poi mi hanno chiesto di aiutare padre Ottavio Santoro, amministratore regionale del Kenya, e mi sono trasferito nella capitale».

Qualche gara di rally

Quando fratel Sandro è andato a Nairobi, ha incontrato un suo ex studente che nel frattempo si era sposato, trasferito nella capitale e aveva iniziato a fare i rally.

«A Sagana insegnavo disegno per le costruzioni e disegno meccanico. Quando sono finito a Nairobi e ho incontrato questo mio studente, lui mi ha chiesto se volevo andare nel suo team. Io gli ho detto: “Guarda che non sono un meccanico”. E lui: “Ma come? A scuola mi hai insegnato disegno!”. Comunque, per curiosità, sono andato, e, alla fine, una corsa tira l’altra, mi ha coinvolto nell’organizzare il lavoro dei meccanici, e così sono stato nel mondo dei rally per cinque anni. Ero giovane. Avevo molta voglia di girare. In Kenya ci sono deserti, montagne, pianure, e con i rally ho avuto occasione di girarlo in lungo e in largo. In ogni caso – conclude -, andavo solo qualche domenica all’anno».

A Sagana con Fr Marino De Cesari e fratel Achille Gasparini.

A Morijo tra i Samburu

A Nairobi nell’amministrazione, fratel Sandro è rimasto dal 1982 al 1986. «Un giorno il superiore mi ha detto: “Vai in seminario”. Allora ho fatto l’amministratore in seminario per quattro anni. Poi ho detto al superiore che sentivo di non essere mai stato in missione, nonostante fossi in Africa dal ‘73. Un giorno mi ha chiamato e mi ha chiesto se volevo andare nel Samburu, a Morijo, con padre Aldo Vettori. Sono stati quattro anni magnifici. Lì mi sono sentito missionario.

Morijo si trova in cima a un cucuzzolo. Per fare una casa, e la chiesa, prendevamo dei pali di legno, poi mandavo gente a raccogliere sassi piatti e li inchiodavo con chiodi di sei pollici. Da fuori sembrava una casa di sassi. Dentro invece mettevo una rete e intonacavo creando una camera d’aria per tenere il fresco.

Poi c’era il problema dell’acqua. In cima al cucuzzolo ho fatto un muretto. Quando pioveva, l’acqua veniva raccolta in due cisterne, e da lì veniva giù e si usava per lavarsi. Per bere veniva bollita e filtrata. Quando pioveva, si formava una specie di torrente. L’acqua veniva fuori da una pietra. Allora ho iniziato a scavare e quando siamo arrivati alla profondità di un metro abbiamo trovato l’acqua. In seguito, abbiamo fatto fare un pozzo».

La ragazza posseduta

«Nel territorio della missione di Morijo c’erano i Samburu e i Turkana. Un giorno mi hanno chiamato per una donna Turkana che dicevano indemoniata. Lì c’era anche l’infermiere che mi ha detto: “No, è epilettica”. Allora abbiamo preso la ragazza, che avrà avuto 18 anni, e l’abbiamo portata all’ospedale di Wamba dove una suora mi ha detto: “Queste sono le medicine da darle, se le prenderà, starà bene”. Allora l’ho riportata al suo villaggio e ho chiesto al catechista di dare tutti i giorni la pastiglia alla ragazza. Dopo un anno, non aveva più crisi epilettiche. La gente del suo villaggio però mi ha detto: “Questa ragazza che hai portato via e guarito, non troverà un marito. Nessuno ha il coraggio di avere una relazione con lei, chissà che non ci sia un rimasuglio del demonio”. E mi hanno detto: “Fai come se fosse tua”. Per gli anziani era diventata mia responsabilità. Allora io l’ho mandata al catechismo nel villaggio, e dopo un po’ è stata battezzata».

L’italia

Dopo l’esperienza nel Samburu, fratel Sandro, nel 1994 è tornato a Nairobi nell’amministrazione. Dopo sei anni, nel 2000, ha ricevuto la notizia che sua mamma stava male, ed era grave: «Nel 1989 era morto mio papà. Lui era paralizzato, e i miei fratelli avevano fatto a turno per assisterlo. Quando si è ammalata mia mamma, una mia sorella mi ha detto. “Ci sono missionari che vengono a casa per assistere i genitori ammalati. Vieni anche tu. Mamma è grave”. Allora ho chiesto di venire in Italia, ma quando sono arrivato, mia mamma è morta dopo due settimane. Era il 2001. Quindi sono andato a Roma per chiedere di tornare in Kenya, ma il vice superiore mi ha detto: “Ti abbiamo destinato in Italia, e adesso rimani in Italia”. Ha chiamato padre Franco Gioda, superiore in Italia in quel momento, e mi hanno mandato ad Alpignano a servizio dei missionari anziani.

Gioda mi ha detto: “Se accetti, io in un anno ti rimando in Africa”.

Passato l’anno mi sono fatto avanti per chiedere di ripartire, ma Gioda mi ha chiesto: “Perché? Non ti trovi bene?”. Poi ha tirato fuori gli Atti degli apostoli… sai com’è Gioda… Alla fine sono stato cinque anni. Fino al 2006».

Liberia

Quando finalmente fratel Sandro è tornato in Africa, non è tornato in Kenya, ma è andato in Liberia, paese appena uscito da 14 anni di guerra civile. «Padre Stefano Camerlengo mi ha proposto di andare nel lebbrosario di Ganta, sul confine con la Guinea Conakry, per aiutare le suore della Consolata.

Se dovessi dire dove mi sono trovato meglio in missione, risponderei a Morijo tra i Samburu e a Ganta tra i lebbrosi. Tra i due, comunque, sceglierei la Liberia. Mi occupavo della manutenzione del lebbrosario, ma tutti i giorni facevo il giro dei malati. Con loro mi sono trovato bene. Subito dopo la guerra erano una quarantina, dopo un po’ sono arrivati a 250. In Liberia quell’ospedale era un punto di riferimento. Venivano anche dalla capitale.

Tra i lebbrosi mi sentivo voluto bene. Quando ho detto che sarei andato via, volevano costruirmi una casetta per quando sarei tornato a trovarli».

In Tanzania

In Liberia, fratel Sandro si era abituato a stare da solo. «Quando sono venuti a dirmi che dovevo tornare in comunità, ho detto: “Guardate che ho 60 anni, mio fratello, che è più giovane di me, è andato in pensione quest’anno, non pensate che possa fare chissà che cosa”. Mi hanno risposto: “Va bene, per la tua pensione vai in Tanzania”».

Arrivato nel 2009, fratel Sandro ha fatto due anni e mezzo in procura a Dar es Salaam, dove ha conosciuto Neema e padre Filippo, e poi quattro anni nella casa regionale di Iringa, come segretario del consiglio regionale.

«Durante la conferenza regionale del 2015, padre Sandro Nava ha parlato di una farmacia a Iringa iniziata da padre Salvador Del Molino, e ha chiesto a me di occuparmene. L’idea era questa: fare una farmacia per vendere i medicinali alle missioni, ai dispensari e alla gente a prezzi accessibili. Si trattava di fare un magazzino per vendere all’ingrosso. Ho iniziato, e ora vendo medicine per un raggio di 200 km».

Fratel Sandro Bonfanti e papa Francesco

Quando diventi prete?

Se c’è una cosa su cui fratel Sandro torna volentieri nelle due ore che stiamo insieme, è la specificità della sua vocazione.

«Io non sono un sacerdote. Sono missionario della Consolata, ma sono un fratello.

Da quando sono diventato fratello, tutti mi chiedono: “Quando diventi prete? Perché non diventi prete?”. Io però non mi sono mai visto come un sacerdote. Desideravo andare in missione e aiutare le missioni e la gente.

Anche quando sono diventato fratello mi facevano domande: “Sai quello che fai? Sei sicuro?”.

Ecco, sulla parola sicuro, direi che uno non è mai sicuro, uno ci prova. Avevo 23 anni quando sono partito per il Kenya. Ho detto: “Io ci provo”, e ci sto ancora provando.

Io vedo la vocazione del fratello nella vita di Gesù. Lui infatti ha vissuto come una persona normale, come un laico. Non si è presentato come sacerdote, non era un levita, non era un fariseo. Quando la gente lo vedeva, diceva: “È figlio del falegname”.

Poi guariva, insegnava, s’interessava della gente.

Il fratello trova un esempio per sé nella vita di Gesù. Il fratello è quello che si mette al servizio degli altri. L’evangelizzazione non si realizza con il proselitismo, ma avviene per attrazione: vedono che tu ti comporti in un certo modo e si sentono di fare altrettanto.

Anche noi fratelli, pur non predicando, con il nostro esempio siamo evangelizzatori.

Noi padri e fratelli della Consolata abbiamo gli stessi voti, lo stesso nome, viviamo in comunità, però per gli uni la professione è quella del sacerdote, noi fratelli invece possiamo fare qualsiasi mestiere e ci esprimiamo con quello. Oggi il fratello può essere un avvocato, uno che tiene i conti, un medico, un infermiere, un tecnico.

Questo per dire che la missione non è fatta solo da sacerdoti annunciatori, ma anche da tanti professionisti di qualsiasi campo.

E se ci sono dei laici che desiderano avere il nostro spirito, ben vengano. Perché non è necessario essere dei fratelli, come lo sono io. La missione è aperta a tutti. La missione è aprire il cuore della gente. Tu devi avere un cuore aperto al mondo».

Luca Lorusso




Dio apre ai pagani la porta della fede

testo di Angelo Fracchia |


«Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26). Non si tratta però soltanto di un appellativo. A seguire Luca, potremmo dire che per la prima volta ad Antiochia i cristiani diventano consapevoli di essere un gruppo nuovo e di avere anche responsabilità nuove.

A pensarci, il mondo nel quale si muovevano i primi cristiani sembra molto simile al nostro. Intanto anche loro sperimentavano una nuova interconnessione tra i popoli del Mediterraneo: i romani avevano portato in oriente strade, sicurezza, commercio, ricchezza e il fascino per un mondo che non guardava in faccia a tradizioni, rispetto, pudore. Anche loro, come noi oggi, avevano una lingua di riferimento internazionale più o meno conosciuta da tutti: ovviamente non era l’inglese, ma il greco. Così molti, pur mantenendo le proprie lingue e culture locali, parlavano anche questa lingua che era capita quasi ovunque e portava con sé un modo nuovo di vivere, pochissimo attento allo spirituale ma estremamente affascinante.

In questo contesto, si poteva incontrare un miscuglio molto disordinato di superstizioni e culture, di nuovi movimenti spirituali e antiche organizzazioni religiose, il tutto subordinato all’interesse primario per il laicissimo denaro che, globalmente, sembrava avere la meglio su tutto, ma nello stesso tempo lasciava un forte desiderio, soffocato ma diffuso, di valori e spiritualità autentici.

Insomma, si direbbe che la comunità di Antiochia possa costituire, nonostante la lontananza, un modello ancora valido per noi oggi.

La prima comunità «cristiana»

Quella comunità viveva a cavallo tra due culture linguistiche (greca ed aramaica) e ancor più tra molte tradizioni religiose: il mondo ebraico, fortemente rappresentato e affascinante, quello semita tradizionale che finiva per identificarsi soprattutto con l’astrologia, quello romano ufficiale che però non sembrava molto profondo, oltre a diversi altri movimenti, a volte dalla vita abbastanza breve. Sarà per questo che ad Antiochia i cristiani si scelgono come capi un miscuglio altrettanto variegato di persone (cfr. At 13,1): Barnaba è un ebreo originario di Cipro (At 4,36), Simeone porta un nome ebraico e un soprannome latino (Niger), Lucio ha un nome latino e viene da Cirene, Saulo è un ebreo di Tarso, e in quanto a Manaèn (nome ebraico ma in forma greca) si dice che abbia conoscenze altolocate, essendo stato compagno d’infanzia di Erode Antipa. Evidentemente è una comunità che non ha paura di mescolarsi e di prendere anche dall’estero il meglio che trova.

Questa chiesa, aperta in entrata, si mostra altrettanto aperta in uscita, perché dall’ascolto della preghiera ricava la percezione (ispirazione dello Spirito: At 13,2) di dover inviare per la prima volta qualcuno in una missione di evangelizzazione, e come responsabili scelgono non quelli di cui vogliono liberarsi, ma proprio due dei cinque capi, più un aiutante (At 13,5). E i due capi scelti (Barnaba e Saulo) sono proprio quelli che hanno avuto un ruolo fondamentale nell’inizio della comunità.

A Cipro, alcune sorprese

L’idea di una missione evangelizzatrice è tutt’altro che scontata. L’ebraismo, da cui i cristiani vengono, discute addirittura se sia possibile o no per i pagani diventare ebrei, e di solito si preferisce scoraggiare la conversione, invitando invece al semplice rispetto di una forma di legge ridotta per i simpatizzanti.

I cristiani ritengono invece di dover annunciare Gesù, di aver scoperto un tesoro che non possono chiudere sottochiave. Nello stesso tempo, non sembra che partano ciecamente all’avventura: Cipro è subito di fronte ad Antiochia, a una distanza che in giornate di bel tempo si può coprire in un solo giorno, inoltre è la patria di Barnaba, il capo spedizione, che sull’isola probabilmente può contare su più d’un contatto.

Questa ipotesi viene facilmente confermata dalla notizia che è addirittura il proconsole di Cipro, Sergio Paolo, a invitare e ospitare i tre missionari (At 13,7).

A palazzo i tre trovano anche un mago, che sembra quasi il contraltare degli evangelizzatori. Si tratta di un ebreo che si dedica alla magia ed è conosciuto con un nome (Bar-Iesus, figlio di Gesù) che ricorda tanto quello dello stesso Gesù. Ma si rivela poi per quello che è veramente: Elimas (il mago) che cerca di tenere il proconsole lontano dalla fede (At 13,8). A questo punto Paolo lo attacca, punendolo con una cecità temporanea che sembrerebbe addirittura frutto di un atto magico (At 13,11).

Tre conseguenze

Quello che Luca gestisce quasi come un veloce incidente ci lascia con tre conseguenze e un’annotazione.

Tra le conseguenze, si nota che il proconsole crede al Vangelo. La notizia, buttata lì, è straordinaria, perché si tratterebbe della seconda conversione di un romano, e per di più capo di una provincia. Certo, non si dice che viene battezzato, e questo potrebbe essere il motivo per cui Luca non rimarca tanto la notizia, ma è rilevante che fosse simpatetico. C’è da dire poi che forse un romano in quella posizione non poteva ancora permettersi di sbilanciarsi troppo ufficialmente.

La seconda conseguenza è sulla composizione della squadra missionaria. Quando arriva a Cipro è composta, in ordine, da Barnaba, Saulo e Giovanni Marco, ma quando riparte i membri sono «Paolo e i suoi compagni». A Cipro, cioè, Paolo decide di farsi chiamare con la forma latina del proprio nome, quasi a rendersi più facilmente accettabile e accoglibile anche da ambienti amministrativi latini e culturali greci, e prende la guida della missione.

Chissà se è questo cambiamento a suscitare la terza conseguenza del passaggio cipriota, ossia l’abbandono della missione da parte di Giovanni Marco (At 13,13), un abbandono che avrà conseguenze più tardi (At 15,37-39).

La considerazione è che Luca rende consapevoli i suoi lettori che il Vangelo continua a farsi strada, speditamente, benché tra opposizioni e ostacoli sia esterni (il sinedrio, un mago…) che interni (i litigi nella squadra missionaria). Entrambi, e forse soprattutto i secondi, sarebbe meglio che non esistessero, ma in ogni caso non fermeranno l’opera dello Spirito.

Predicazione ad Antiochia di Pisidia

Dopo Cipro, la missione prende una strada non del tutto prevedibile: anziché arrivare a Tarso, come avremmo potuto immaginare, o dirigersi verso Ovest, in direzione della popolatissima valle del Lico (dove c’è Laodicea), i missionari, rimasti in due, decidono di avviarsi verso l’entroterra, attraversando quasi tutte le città abitate in larga misura da ebrei e servendosi di un’importante via lastricata romana, che porta in Galazia.

Qui troviamo una delle rarissime imprecisioni geografiche di Luca, che parla, come leggiamo nelle nostre traduzioni, di «Antiochia di Pisidia». Probabilmente non cambia nulla per la quasi totalità dei lettori moderni, ma il nome più preciso di quella città era «Antiochia verso la/davanti alla Pisidia» (in pratica era la prima città della Galazia per quelli che vi arrivavano dalla Pisidia), anche se i contemporanei di Paolo e di Luca si sbagliavano molto spesso. Oggi il sito archeologico di quell’antica città dei Galati si trova vicino a una cittadina chiamata Yalvaç, che in turco significa «profeta», in ricordo di Paolo.

Il discorso di Paolo

Qui Paolo tiene un ampio discorso che sembra riecheggiare quello di Pietro nel secondo capitolo degli Atti. Dopo un saluto iniziale, si annuncia il cuore del Vangelo, ossia la morte di Gesù seguita dalla risurrezione che ne conferma le pretese e la missione (At 13,26-31, come in 2,22-24.32). Poi sottolinea che tutto questo è conferma di ciò che era già stato annunciato dalle profezie (At 13,32-37, in parallelo con 2,25-36, citando addirittura in parte gli stessi testi dell’AT), e conclude con un finale appello alla fede e offerta di perdono (13,38-41; cfr. 2,38-39).

Sembra quasi che Luca voglia confermarci che Paolo non si è messo in testa di predicare qualcosa di nuovo o personale, ma ripercorre completamente il cammino della chiesa dall’inizio in poi.

A essere tipico di Paolo, semmai, è proprio il saluto iniziale (13,16-25), rivolto a ebrei e non ebrei, con l’annotazione che molti di questi ultimi accolgono con favore la notizia del Vangelo. Ciò che finora era accaduto, quasi di nascosto e per eccezione, con l’annuncio ai samaritani (At 8,5-25), all’eunuco (8,26-39) e a un centurione romano (At 10), ma che già ad Antiochia di Siria era diventato più generalizzato, qui si fa ora ricorrente e consueto, e l’annuncio ai pagani presto dovrà essere affrontato esplicitamente (At 15).

Anche perché, di fronte al successo di Paolo, ci sono giudei che iniziano a ostacolarlo «furiosamente» (At 13,45), al punto da fargli proclamare che, di fronte al rifiuto ebraico, si rivolgerà ai pagani (At 13,46-47).

L’opposizione alla predicazione del Vangelo costringerà Paolo e Barnaba ad abbandonare la città, ma i semi del Verbo sono già stati gettati.

Predicazione in Licaonia

Da Antiochia di Pisidia, Paolo e Barnaba raggiungono Iconio, ad almeno tre giorni di cammino sempre su una strada ben lastricata. Anche da qui l’opposizione ebraica li costringe a fuggire.

A un’ulteriore giornata di cammino, ecco Listra, dove la guarigione miracolosa di uno storpio spinge gli abitanti del posto a portare in trionfo Paolo e Barnaba, salutandoli come dèi.

Siccome il greco può servire ottimamente per capirsi tra forestieri, ma gli abitanti di Listra parlano tra loro in licaonio, i due evangelizzatori non capiscono di essere portati in processione al tempio per offrire loro un sacrificio (At 14,11-13).

Quando finalmente se ne accorgono, si ritraggono scandalizzati e spiegano l’unicità del Dio che ha fatto l’universo e continua a custodirlo (At 14,15-17). Il brevissimo discorso è interessante perché questa volta Paolo non parte dalle profezie antiche e sembra addirittura dimenticare Gesù, per concentrarsi sul Dio creatore di tutto.

Da qui potremmo ricavare un insegnamento importante (e forse più che mai attuale dopo i dibattiti feroci in occasione del Sinodo sull’Amazzonia). Paolo non ha ovviamente dimenticato Gesù, ma si trova in un contesto in cui è più urgente e centrale richiamare all’unicità di un Dio trascendente. Quante volte anche oggi le diverse comunità cristiane si trovano in contesti che richiedono di concentrarsi non su tutta la teologia, ma solo su alcuni aspetti che si rivelano essere i più urgenti e significativi in quel contesto. Non significa rinnegare il quadro globale e l’integrità dell’annuncio della fede, ma lasciare che il Vangelo interagisca con situazioni che sono particolari. Paolo lo ha fatto prima di noi.

Persecuzioni e ritorno

Le opposizioni agli evangelizzatori non si interrompono. Anzi, Paolo viene addirittura lapidato (At 14,19), ma sembra che lui e Luca vogliano evitare qualunque tipo di vittimismo. Viene creduto morto, ma si rialza e il giorno dopo lascia la città.

La meta, questa volta, è la casa madre, quell’Antiochia sull’Oronte che li aveva spediti in missione. Paolo e Barnaba ne approfittano per ripercorrere tutta la strada fatta all’andata, evitando scorciatoie, evidentemente per visitare e confortare le comunità appena fondate. Tornati alla partenza, poi, non si soffermano su tutte le avventure che pure Luca ci ha narrato, ma vanno direttamente al cuore della questione: «Dio ha aperto ai pagani la porta della fede» (At 14,27).

Angelo Fracchia
(13 – continua)




Teocrazia e Petrocrazia

testi di: Adel Jabbar, Angelo Calianno, Francesco Gesualdi, Maria Chiara Parenzo, Paolo Moiola. A cura di: Paolo Moiola |


introduzione / Leader inadeguati Trump – Khamenei, i due ayatollah.

Le radici storiche della situazione attuale Un mosaico ricco di sbagli e di petrolio.

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Vivere oggi a Teheran Nati dopo la rivoluzione.

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Trump – Khamenei, i due ayatollah

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L’ ayatollah Seyyed Ali Khamenei, leader supremo della Repubblica islamica dell’Iran, sostiene che votare è anche un «dovere religioso» (come riferito dalla Islamic republic news agency, Irna, l’agenzia iraniana ufficiale). Un uso strumentale della religione è cosa «normale» in una teocrazia. Ancora più «normale» è che i potenziali candidati siano costretti a passare attraverso le forche caudine del Consiglio dei guardiani. Con un risultato: i pochi iraniani che lo scorso 21 febbraio sono andati al voto, hanno trovato sulla scheda soltanto candidati conservatori, essendo stati esclusi prima della competizione elettorale tutti gli altri. A elezioni concluse, la Guida suprema ha sentenziato che «la religione è la fonte assoluta di una democrazia totale» (Irna, 23 febbraio). Criticare il regime teocratico iraniano non significa però esaltare automaticamente la controparte statunitense, considerata la democrazia per antonomasia.

Nel suo pomposo, esagerato ed egocentrico discorso sullo «Stato dell’Unione» (lo scorso 4 febbraio), Donald Trump si è vantato di aver deciso da solo l’operazione che ha portato all’uccisione del generale iraniano Soleimani. Ha poi sottolineato che le sanzioni statunitensi stanno mettendo in ginocchio l’economia iraniana e, non contento, ha aggiunto che forse gli iraniani sono troppo orgogliosi o troppo stupidi per chiedere aiuto. Un aiuto – precisiamo noi – oggi ancora più necessario vista la diffusione nel paese dell’epidemia da coronavirus.

© Babak Fakhamzadeh

Khamenei è l’ayatollah ufficiale, a capo di un regime teocratico che sottomette i propri cittadini agli interessi di una casta, Trump è un ayatollah honoris causa perché subordina ogni cosa del mondo all’interesse statunitense. Se un tempo gli Stati Uniti erano considerati gli sceriffi del pianeta, oggi si presentano come giudici urbi et orbi. L’utilizzo delle sanzioni economiche e finanziarie è soltanto uno dei sistemi antidemocratici usati a propria discrezione dal presidente Trump. Antidemocratici perché si ripercuotono sulle popolazioni, antidemocratici perché colpiscono anche le imprese di paesi terzi (gli alleati europei tra essi) che osino continuare a lavorare con gli stati sanzionati.

Ma le similitudini non finiscono qui. Anche Trump come Khamenei usa la religione per i propri fini. Numerosi suoi funzionari hanno dichiarato che lui «è il prescelto». Rick Perry, già governatore e segretario all’energia, ha affermato in televisione che Trump è stato installato nell’Ufficio ovale (della Casa Bianca) da Dio.

Per essere consigliato al meglio in materia religiosa e raccogliere consensi nell’anno elettorale, lo scorso 31 ottobre il presidente Usa ha assunto nella propria amministrazione Paula White, nota televangelista e commerciante della fede (libri, Cd, collane, ecc.), già pastora di una chiesa evangelica della Florida (poi chiusa per fallimento). Una signora che, a gennaio (il 5), ha parlato tra l’altro di «gravidanze sataniche» e «grembi satanici» (costretta poi a rettificare).

Khamenei e Trump sono due ayatollah che riescono addirittura a farci guardare con occhi meno severi i nostri politici. O, per meglio dire, almeno una parte di essi.

Paolo Moiola


Le radici storiche della situazione attuale

Un mosaico ricco di sbagli e di petrolio

Difficile trovare un altro luogo tanto instabile quanto il Medio Oriente. È così dal 1920, ma dal 1979 la precarietà si è aggravata e gli attori coinvolti si sono moltiplicati. La soluzione pare lontana, mentre le condizioni di vita delle popolazioni sono sempre più drammatiche.

L’area del Vicino Oriente, comunemente chiamata Medio Oriente, è stata uno degli scenari principali della Grande guerra. Gli assetti statuali odierni sono il risultato della spartizione dei possedimenti dell’Impero ottomano tra le potenze vincitrici, ovvero Francia e Regno Unito. Ciò determinò enormi cambiamenti, nuove aree di influenza e soprattutto una endemica instabilità.

Il Medio Oriente costituisce un nodo strategico per il controllo delle vie di comunicazione che collegano tre continenti: Asia, Africa ed Europa; per cui numerosi attori della politica mondiale entrano in forte concorrenza tra di loro. Inoltre, in questa vasta area si trovano i maggiori giacimenti mondiali di petrolio e di gas naturale, rendendola una zona primaria per l’approvvigionamento energetico. Le tensioni risalenti già all’epoca della guerra fredda hanno subito un inasprimento con la guerra tra Iraq e Iran (1980-1988), e si sono ulteriormente accentuate dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. La prima guerra del Golfo (Iraq-Kuwait, 1991), l’occupazione statunitense dell’Afghanistan nel 2001 e successivamente quella dell’Iraq nel 2003 sono stati degli avvenimenti devastanti che hanno costretto tutti i protagonisti a rivedere le proprie posizioni.

L’Iran e le sue ambizioni

In questo quadro si inserisce l’Iran con le sue aspirazioni da protagonista utilizzando in modo strumentale l’appartenenza allo sciismo, corrente minoritaria nel mondo islamico, per esercitare una certa egemonia sulle popolazioni che, in vari modi, aderiscono a questa confessione al fine di rafforzare il proprio ruolo come potenza regionale.

Lo stesso paese degli ayatollah gode di una collocazione geografica che permette l’accesso a importanti giacimenti petroliferi, oltre al fatto che una parte del suo territorio si affaccia su vie di comunicazione strategiche come lo Stretto di Hormuz, un crocevia decisivo per il trasporto del greggio. L’Iran, inoltre, si affaccia sul Golfo Arabico, l’Oceano Indiano, il Mar Arabico e il Mar Caspio. Esso rappresenta, infine, uno dei più grandi paesi della regione con una superficie di circa 1,6 milioni di km2 (oltre 5 volte l’Italia) e una popolazione di più di 81 milioni di abitanti. L’economia iraniana – che, a fasi alterne, subisce embarghi e sanzioni dettate dagli Stati Uniti e da diversi altri paesi, inclusi paesi europei, ormai da decenni – riesce ancora a reggere. Infatti, malgrado la sua dipendenza dalle entrate della vendita del petrolio spesso soggette a restrizioni e fluttuazioni del prezzo, ha raggiunto un discreto sviluppo negli ultimi anni, grazie anche ai rapporti politici e agli scambi economici con paesi quali Russia, Cina e India. Segni manifesti di mire egemoniche in Medio Oriente sono emersi subito dopo la rivoluzione islamica iraniana del 1979, quando allo scopo di diffondere gli ideali della rivoluzione, in particolare nei paesi arabi, i mullah si dichiararono difensori degli interessi dei musulmani. In questo senso l’Iran ha sostenuto e sostiene con diversi mezzi la formazione di Hezbollah, diventata ormai una forte presenza nello scacchiere del Medio Oriente, impegnata a liberare i territori libanesi occupati da Israele e a difendere la sovranità del Libano. Inoltre, garantiscono un importante supporto alla formazione degli Huthi nello Yemen e ai movimenti palestinesi Hamas e dello Jihad Islamico, malgrado questi ultimi appartengano alla corrente sunnita maggioritaria dell’Islam.

L’occasione a lungo attesa per occupare il ruolo guida nella regione, si è presentata infine con gli attacchi agli Usa dell’11 settembre 2001 che hanno dato avvio alla cosiddetta «guerra al terrorismo» attraverso l’invasione americana dell’Afghanistan e la successiva occupazione dell’Iraq nel 2003. Per rafforzare il suo ruolo di potenza regionale, l’Iran si è tra l’altro impegnato a sviluppare un’importante industria bellica e a investire risorse per aumentare la propria capacità militare.

In tal senso va compreso anche il suo impegno nell’ambito della ricerca nucleare. Tale impegno ricopre anche la funzione di affrontare le sfide poste dalle politiche degli Stati Uniti e del suo alleato israeliano, specialmente in considerazione del fatto che quest’ultimo è in possesso di armi nucleari.

© foto Rnw

Le divisioni dottrinali non spiegano tutto

La politica dello stato iraniano si basa sulla concezione del «velayat-e faqih» ovvero dell’autorità della Guida suprema sciita, sia a livello nazionale che a livello delle comunità sciite internazionali. L’Iran si è posto diversi obiettivi: propagare il pensiero della rivoluzione islamica iraniana e sostenere i suoi alleati politicamente ed economicamente, diffondere la concezione dello sciismo facendo leva sulle varie galassie sciite e in particolare sulla difesa del suo principale alleato siriano. Tale ottica è divenuta una fonte di preoccupazione per gli stati limitrofi della regione. Attualmente infatti l’autorità della Repubblica Islamica sta facendo molti sforzi per supportare alcuni movimenti militanti, di obbedienza iraniana, nell’ambiente sciita dei paesi vicini al fine di rafforzare le proprie posizioni. Questo attivismo trova il suo culmine in Siria già a partire dagli anni ‘80 considerata un alleato fondamentale all’interno del disegno espansionistico degli ayatollah. Alla Siria si è aggiunto poi l’Iraq dopo la caduta del regime di Saddam Hussein e l’ascesa al potere a Baghdad dei movimenti d’ispirazione sciita e altri vicini alle posizioni iraniane, ormai divenuti per Teheran un elemento fondamentale al fine di propagare la propria influenza politica. Ciò spiega la soddisfazione del paese degli ayatollah nel vedere la scomparsa dell’ostacolo iracheno. L’Iran, infatti, malgrado la sua influenza nella vita interna dell’Iraq, non ha dimostrato particolare interesse né alla ricostruzione del paese né tanto meno alla formazione di una forte autorità che godesse del consenso della popolazione, in quanto una guida capace potrebbe rappresentare un nuovo concorrente con il quale dover competere per il controllo dell’area.

Un conflitto intra-islamico

Il contesto mediorientale attuale è diventato uno scenario di scontro tra innumerevoli belligeranti. Fondamentalmente si è di fronte ad un conflitto intra-islamico tra la Turchia, la Repubblica islamica dell’Iran e il Regno dell’Arabia Saudita. Ognuno di questi paesi (di cui il primo e il terzo di fede sunnita) persegue da una parte il mantenimento della propria posizione, dall’altra il raggiungimento di maggiori benefici. Va notato che anche la lettura che tende ad addebitare la causa della frattura tra l’Arabia Saudita e l’Iran alla divergenza dottrinale tra la maggioranza sunnita e la corrente minoritaria sciita, rischia di essere parziale e poco chiarificatrice, nel momento in cui la politica della Turchia diverge anche da quella saudita e da quella egiziana, pur essendo tutti e tre i paesi di orientamento sunnita. Mentre constatiamo, come abbiamo poc’anzi menzionato, l’appoggio iraniano a movimenti sunniti come Hamas e Jihad islamica in Palestina. Un ulteriore esempio, in questa direzione, è dato dalla posizione iraniana rispetto al conflitto del Nagorno-Karabakh, zona contesa tra l’Armenia cristiana e l’Azerbaijan islamico a maggioranza sciita. L’Iran, infatti, per motivi geostrategici, appoggia l’Armenia piuttosto che l’Azerbaijan.

Nessun vincitore, tanti perdenti

Come si evince da questa breve descrizione, il panorama politico medio orientale è carico di forti contrasti e contraddizioni, non da ultimo l’annoso conflitto israelo-palestinese che per decenni ha rappresentato la causa principale d’instabilità per tutta la regione.

Attualmente in Medio Oriente agiscono innumerevoli attori – grandi, medi, piccoli e piccolissimi – e ognuno di essi cerca di giocare al meglio le proprie carte, a volte in alleanze dichiarate, altre volte in accordi fatti dietro le quinte. In questo quadro va ricordato che anche la Federazione Russa e gli Stati Uniti hanno a disposizione dei giocatori locali che si muovono sullo scacchiere in funzione degli interessi degli uni o degli altri. Gli osservatori delle vicende del Medio Oriente si trovano quindi di fronte a un quadro di enorme complessità per cui è pressoché impossibile fare delle previsioni. Sperare in una schiarita nel prossimo futuro risulta arduo, vista anche la paralisi delle istituzioni internazionali e in particolare l’inerzia che distingue l’azione dell’Onu.

Non rimane altro che sperare nello sviluppo di un pensiero civile trasversale nei diversi paesi, capace di leggere e affrontare le drammatiche condizioni in cui versano le popolazioni del Medio Oriente.

Adel Jabbar


Medio Oriente ed Iran: date essenziali

  • 1299-1922 – Nascita e morte dell’Impero ottomano.
  • 1920-1923 – Spartizione dell’Impero ottomano con i trattati di Sèvres e Losanna.
  • 1979 – Rivoluzione islamica iraniana.
  • 1980-1988 – Guerra tra Iran ed Iraq.
  • 1990-1991 – Prima guerra del Golfo.
  • 2001, 11 settembre – Attacco alle Torri gemelle e inizio della «guerra al terrorismo».
  • 2003 – Seconda guerra del Golfo.
  • 2018, maggio – Gli Usa escono dall’accordo sul nucleare iraniano che era stato siglato nel luglio 2015.
  • 2019, 2 maggio – Sanzioni Usa per tutti i paesi che acquistano petrolio iraniano.
  • 2019, novembre – Proteste e disordini in Iran dopo l’annuncio dell’aumento dei prezzi.
  • 2020, 3 gennaio – Gli Usa uccidono il generale iraniano Qassem Soleimani.
  • 2020, gennaio – Nuove sanzioni Usa verso l’Iran.
  • 2020, 21 febbraio – Alle elezioni del parlamento iraniano partecipa soltanto il 42,57% degli aventi diritto. Era stato il 62% nel 2016 e il 66% nel 2012. La vittoria (scontata) va ai conservatori.
  • 2020, febbraio-marzo – Si diffonde l’epidemia da coronavirus.

 

Formazioni e partiti appoggiati dall’Iran:

  • Hezbollah – In Libano.
  • Huthi – In Yemen.
  • Hamas e Jihad islamico* – In Palestina e in Israele.
  • Partiti sciiti – In Iraq.
  • Alauiti – Gruppo sciita siriano cui appartiene anche il presidente Bashar al-Assad.

L’Iran ha rapporti buoni con il Qatar* e ondivaghi con Turchia* e Afghanistan*. I nemici per antonomasia sono invece: Israele, Stati Uniti e Arabia Saudita*.
(*) paesi di fede sunnita.

© Stephen Melkisethian


Nessuno tocchi WhatsApp

La goccia è stata una tassa su WhatsApp, ma i problemi vengono da lontano. Un sistema politico confessionale, frammentato e corrotto e un’economia alla deriva (in bancarotta dal 9 marzo) hanno portato il Libano in piazza.

Beirut. Erano cominciate pacificamente le proteste in Libano. Subito dopo l’annuncio del governo sull’incremento delle tasse, il 17 ottobre, un milione e 200mila persone erano scese nelle piazze di tutte le città principali del paese.

Erano cominciate pacificamente, ma qualcosa, almeno nelle ultime settimane, è cambiato. Sulla strada che porta da Martyr Square, la piazza dei martiri, verso il Suq, la via principale dello shopping, la protesta ha preso una piega più rabbiosa e violenta: cancelli dei palazzi sradicati e usati come scudi contro la polizia, asfalto frantumato per poterne lanciare i pezzi, vetrine di negozi e banche distrutte. Ogni notte, dopo la fine delle proteste, strade e piazze somigliano a un campo di battaglia.

Seguo l’evolversi delle manifestazioni dalla metà di dicembre. Da allora, nuovi gruppi di ragazzi si sono uniti alle proteste e il modo di contestare è cambiato nel tono e nell’intensità. In particolare, c’è stato un incremento del vandalismo dal fine settimana del 18 gennaio, da quella che è stata soprannominata «The Week of Rage», la settimana della rabbia. Insieme a donne, bambini e anziani, ci sono gruppi di ragazzi che costantemente cercano lo scontro con le forze dell’ordine. Sassi, vasi di fiori, segnali stradali, estintori, qualsiasi cosa viene lanciata contro le forze dell’ordine che rispondono con idranti, lacrimogeni e, ultimamente, con proiettili di gomma. Nel fine settimana del 25 di gennaio, diversi ragazzi hanno perso un occhio, proprio per l’uso di questi proiettili «non letali».

Tutto si ripete in una specie di routine quotidiana con i cortei che si avvicinano e arretrano, a seconda della risposta della polizia. È diventato così sistematico che, all’interno delle manifestazioni, ci sono anche ambulanti che vendono acqua e cibo, altri vendono mascherine per proteggersi dai gas. Altri ancora distribuiscono pezzi di cipolla cruda che, se respirati, dovrebbero alleviare gli effetti dei lacrimogeni.

Come si è arrivati a tutto questo? Quali sono le origini di tanta rabbia, chi sono i ragazzi degli ultimi gruppi più violenti?

Un maronita, uno sciita, un sunnita

La scintilla che ha fatto scoppiare il caos è stata l’annuncio del governo di un aumento,
programmato per marzo 2020, delle tasse su benzina, tabacco, internet e varie applicazioni social come WhatsApp.

Questa notizia ha portato un numero mai visto di persone nelle piazze. Tutto quello che è accaduto dal 17 ottobre in poi, è stato un crescere di malcontento e rabbia per una situazione sociale precaria, che in realtà va avanti da almeno un paio d’anni.

Il Libano ha un’economia pressoché stagnante: altissimi tassi bancari, razionamento di acqua ed elettricità, un cambio teoricamente fisso con il dollaro (= 1.518,08 lire libanesi). Inoltre, il paese ha un tasso di disoccupazione che supera il 47%, e il terzo debito pubblico più alto al mondo: 151% del Pil a fine 2018.

Come se tutto questo non bastasse, poco prima dell’annuncio sull’aumento delle tasse, una serie di incendi, molto probabilmente dolosi, ha sconvolto la zona dei parchi naturali con soccorsi arrivati in ritardo, mezzi antincendio ed elicotteri da milioni di dollari, rimasti fermi per mancanza di manutenzione. Questo evento ha mostrato, ulteriormente, l’incapacità dell’esecutivo ad agire in un momento di crisi. Il governo, insieme alle banche, è uno dei principali accusati per questa economia al collasso.

Il governo libanese è settario, per l’articolo 24 della Costituzione del 1926 e successivi accordi, il sistema è formato in modo da dare a tutte le confessioni religiose – sono 18 – una rappresentanza. Così i seggi in parlamento sono divisi proporzionalmente tra cristiani e musulmani e, a loro volta, tra i sottogruppi. Ad esempio, tra i cristiani, abbiamo: armeni, greco ortodossi, maroniti, ecc. I musulmani invece annoverano, tra le proprie confessioni: sunniti, sciiti, drusi, ismaeliti e alauiti. Il presidente deve essere un cristiano maronita (attualmente Michel Aoun), il primo ministro deve essere sunnita (Hassan Diab), il presidente del parlamento, sciita (Nabih Berri).

In questo mosaico di confessioni gli sciiti sono la percentuale maggiore, il 30% della popolazione, e sono rappresentanti in parlamento anche dall’organizzazione Hezbollah (vedere riquadro) che, negli ultimi anni, ha conquistato ministeri chiave all’interno del governo (attualmente salute e industria).

© Angelo Calianno

Il movimento «Li haqqi»

Cerco qualcuno che possa raccontarmi quello che sta accadendo in Libano in maniera più obiettiva e lucida. Molte persone intervistate hanno spesso opinioni condizionate dalla loro fede o dalla propaganda. Chiedendo a vari giornalisti libanesi, con cui spesso mi ritrovo a lavorare nelle piazze, tutti mi indicano Nizar Hassan.

Lui è un ricercatore e attivista di 26 anni. Esperto di politica, negli ultimi anni ha cofondato un gruppo di attivismo politico chiamato «Li haqqi» («per i miei diritti», in arabo). Collabora con diverse testate locali, trasmissioni radio e web.

Lo incontro in uno dei caffè libanesi, dove si riuniscono studenti, intellettuali e attivisti. Decidiamo di darci del «tu». Gli chiedo subito perché i media stranieri hanno chiamato la rivolta «la protesta di WhatsApp». «Molti – risponde Nizar – le hanno dato questo titolo, in realtà è solo uno dei tantissimi punti contro cui ci stiamo ribellando. È vero però che WhatsApp è importante in Libano, dato che i costi della telefonia mobile sono praticamente inaccessibili, soprattutto per i più poveri. Per questo, per comunicare, tutti usano WhatsApp. Dunque, puoi immaginare la reazione della gente, quando è arrivata la notizia che volevano tassare anche quello».

Chiedo quali siano le principali questioni per le quali il suo gruppo si batte. «Il Libano ha problemi molto grandi. L’annunciato aumento delle tasse è stato la circostanza che ha fatto dire alla gente “basta”, ma la nostra economia è ferma da anni. Non ci sono investimenti dall’estero, tasse altissime senza sapere davvero dove finiscono i nostri soldi vista la corruzione dilagante. Da tempo le banche internazionali hanno portato la liquidità all’estero. Quindi, siamo limitati in quello che possiamo prelevare, tra l’altro con percentuali altissime di commissione, a volte il 30%. Uno dei nostri grandi problemi è il sistema politico settario, questa organizzazione dello stato non permette la possibilità di avere gruppi progressisti al suo interno, quindi niente riforme».

Intervistando diverse persone per strada, ho avuto modo di chiedere chi, secondo loro, potessero essere le frange violente apparse nelle ultime settimane, quelle che stanno distruggendo le vetrate di banche e negozi. Alcuni mi hanno detto che è gente pagata da Hezbollah per screditare le manifestazioni e alimentare nel contempo le reazioni della polizia. Altri mi hanno detto che sono pagati direttamente da una parte del governo uscente, in modo che non se ne formi uno nuovo. Chiedo dunque al mio interlocutore, che ha partecipato alle proteste dall’inizio, cosa ne pensa di queste voci.

«C’è molta propaganda e molte teorie di cospirazione a proposito di questo – racconta Nizar -. Hanno messo in giro la voce che qualcuno è stato pagato, così da non prendere i manifestanti troppo sul serio. La verità è che anche gli atti vandalici sono figli della mancata risposta del governo alle richieste della popolazione. Questi ragazzi sono semplicemente persone esasperate dalla situazione. La rabbia è aumentata».

Gli chiedo quale sarebbe la soluzione migliore secondo lui. «La situazione ideale, che davvero rimarrà solo un sogno, sarebbe quella di avere un partito progressista all’interno del parlamento. Qualcuno non più legato alle confessioni religiose. Quello che penso avverrà, sarà la formazione di un governo tecnico. Quello che si deciderà all’interno di questo governo e chi ne farà parte, lo decideranno anche l’evolversi delle proteste».

Prima di lasciarci, chiedo a Nizar cosa vuole il movimento di cui fa parte: «Il nostro programma è molto chiaro: una severa legge anticorruzione, una riforma nel sistema di organizzazione del governo, più libertà ai giudici, riforma del sistema bancario e, ovviamente, l’annullamento degli aumenti sulle tasse previsti per marzo».

In piazza, tra i manifestanti

Martyr Square, la piazza dei martiri, sembra una piccola tendopoli. Qui si riuniscono ogni giorno vari gruppi di manifestanti: c’è chi discute, chi beve un tè, chi fuma dal narghilè. La piazza è diventata un simbolo di protesta permanente che poi si dirama nel resto della città.

Qui, tra i tanti, incontro Ahmad, operaio di fede sciita: «Lavoravo in una fabbrica che ha chiuso due anni fa, come tante altre. Ora mi arrangio come posso, faccio lavori di edilizia quando c’è bisogno, a volte guido un taxi. Quando riesco a lavorare, anche per 10 ore al giorno, non guadagno mai più di 5-6 dollari. Per il momento stiamo andando avanti grazie alle nostre famiglie, ci aiutiamo a vicenda. Cerchiamo di risparmiare su quello che possiamo, soprattutto sul cibo, ma guardati attorno, fino a qualche anno fa avevamo turisti, gli alberghi sulla costa erano pieni. Ora, a parte qualche giornalista, non viene più nessuno».

Hatem invece è un poliziotto. Anche le forze dell’ordine, loro malgrado, vivono una situazione complicata in questo periodo. Turni massacranti, notti intere di guardia, spesso fatti bersaglio di oggetti pericolosi. Hatem racconta: «Anche molti di noi sono in difficoltà. Dobbiamo lavorare il doppio delle ore con uno stipendio basso. Molti di noi sono d’accordo con chi protesta e vorremmo anche essere dall’altra parte, insieme ai manifestanti. Ma se perdiamo questo lavoro, è la fine. Tanti di noi hanno fatto domanda per essere assegnati ad altri dipartimenti, in villaggi più piccoli o sulle montagne. Ovunque, pur di evitare gli scontri con la nostra gente. Se io potessi, lascerei il paese per andare all’estero. Chi poteva, lo ha già fatto».

Nuovo governo, vecchi problemi

Amnesty International ha accusato le forze dell’ordine e l’esercito libanese di reazioni eccessive durante «the week of rage». In particolare, è stato messo sotto accusa l’uso non autorizzato dei proiettili di gomma, per altro sparati tra volto e petto, quindi estremamente pericolosi.

Il 20 dicembre 2019 Hassan Diab, ex professore universitario, è stato nominato dal presidente Michel Aoun come primo ministro di un nuovo governo con ministri tecnici, come anche Nizar Hassan aveva previsto. Subito dopo la nomina di Diab, un gruppo di contestatori ha raggiunto la casa del nuovo premier protestando con veemenza, e recandosi lì quasi ogni giorno per esprimere il proprio dissenso. Hassan Diab è stato sempre sostenuto da Hezbollah. Le associazioni dei movimenti di protesta pensano che la sua nomina, visto il rapporto di Diab con l’organizzazione sciita, non farà altro che mantenere lo stesso sistema di governo, solo con protagonisti diversi.

Molto è accaduto in Medio Oriente negli ultimi mesi. In queste terre, dagli equilibri molto fragili, tutto quello che succede negli stati confinanti ha un effetto nei paesi vicini. Dopo la morte di Soulemani, ucciso in Iraq dalle forze Usa, le strade di Beirut sono state tappezzate di foto del generale iraniano e un grande corteo, formato da sciiti, ha marciato per le vie principali delle città. Il Libano accoglie moltissimi rifugiati, oggi 1 milione e mezzo, provenienti dalla Siria, praticamente un rifugiato ogni 4 abitanti; una delle percentuali più alte al mondo.

In un sistema politico così precario, anche l’arrivo di nuovi e possibili profughi, date le ultime tensioni in Iraq, rappresenta un’emergenza che lo stato farà fatica ad affrontare.

Il 14 febbraio 2005 in seguito a un attentato, fu ucciso, insieme ad altre 21 persone, Rafiq Al-Hariri, allora ex primo ministro libanese. Il corteo funebre per Al-Hariri si trasformò presto in una rivolta, conosciuta poi come la «Rivoluzione dei cedri». Oggi in Libano, nelle piazze risuonano gli stessi slogan di quei giorni, si leggono le stesse scritte di rabbia e protesta sui muri. Se il silenzio, colpevole, del governo nei confronti dei manifestanti si protrarrà oltre, molti temono un ulteriore inasprirsi delle contestazioni.

Angelo Calianno

© Angelo Calianno

Storia libanese – Cronologia essenziale

  • 1516-1918 – Il Libano fa parte del dominio dell’Impero ottomano.
  • 1920 – La Lega delle Nazioni assegna il controllo del Libano e della Siria alla Francia.
  • 1926 – Viene scritta e approvata la Costituzione libanese sotto mandato francese.
  • 1943 – Il governo, in base a una legge non scritta, viene ripartito tra le varie confessioni religiose.
  • 1944 – La Francia accetta di cedere l’amministrazione dello stato al governo libanese.
  • 1958 – La divisione del paese tra i sostenitori del presidente Camille Chamoun (cristiano maronita e filo occidentale) e quelli del socialista Kamal Jumblatt sfocia in sanguinosi scontri. Il presidente Chamoun chiede aiuto agli Stati Uniti che inviano i marines.
  • 1967 – Durante la guerra arabo-israeliana, il Libano non partecipa ufficialmente a nessuna azione. Tuttavia, i palestinesi usano le postazioni libanesi per il lancio di razzi contro Israele.
  • 1975 – Il 13 aprile, nel quartiere di Beirut Ayn al-Rummna, un gruppo di miliziani palestinesi spara contro una folla che assisteva alla consacrazione di una chiesa, uccidendo 4 persone e ferendone altre 7. Poche ore dopo, un secondo gruppo di 27 miliziani palestinesi, prova ad attaccare nuovamente il quartiere di Ayn al-Rummna. Dopo uno scontro violentissimo, contro i cristiani, vengono uccisi tutti e 27: è l’inizio ufficiale della guerra civile.
  • 1976 – Militari siriani, alleati con le milizie cristiane, assediano il quartiere palestinese di Tall El Zaatar e ne tagliano le forniture d’acqua. Il quartiere viene bombardato con razzi, centinaia di persone vengono uccise dai cecchini. Vengono uccisi anche alcuni medici e infermieri della Croce Rossa, i volontari provavano a portare aiuti nel campo. Alla fine, i morti saranno 3mila.
  • 1978 – Israele invade una striscia di territorio nel Sud del Libano, una zona cuscinetto usata per contrastare l’Olp.
  • 1982 – In risposta agli attacchi dell’Olp in Galilea, Israele lancia un massiccio attacco e invasione del Libano. I militari israeliani invadono tutta la parte meridionale fino alla zona Sud di Beirut, che viene bombardata: ha inizio la «prima guerra libanese». Arrivano, con una missione di pace, forze militari francesi, italiane e statunitensi.
  • 1983 – In aprile attacchi suicidi, attribuiti ad Hezbollah, uccidono 63 persone fuori dell’ambasciata americana. Ad ottobre, un altro attacco, colpisce il quartiere dei peacekeepers, uccidendo 241 soldati, per la maggior parte francesi e americani.
  • 1985 – La maggior parte delle forze militari israeliane si ritirano ripiegando a Sud, vicino al confine.
  • 1990 – L’aviazione siriana colpisce il palazzo presidenziale. Questo mette ufficialmente fine alla guerra civile libanese.
  • 1991 – L’Assemblea nazionale scioglie tutti i gruppi di miliziani coinvolti nella guerra civile. Tutti, eccetto quello di Hezbollah, potente gruppo sciita.
  • 1992 – Il miliardario Rafiq al-Hariri viene eletto primo ministro. Verrà assassinato durante un attentato nel 2005.
  • 2006 – Hezbollah rapisce due soldati Israeliani. Israele risponde con il lancio di missili e bombardamenti. L’attacco fa molte vittime tra i civili. L’evento verrà ricordato come la guerra dei 30 giorni o «seconda guerra libanese».
  • 2007 – Nel campo profughi di Nahr al-Bared, scoppia una rivolta tra militanti musulmani estremisti ed esercito. Muoiono 300 persone.
  • 2008 – Il Libano instaura dei rapporti diplomatici con la Siria: è la prima volta che accade da quando gli stati sono diventati indipendenti, nel 1940.
  • 2009 – Saad Hariri, figlio di Rafiq, viene nominato primo ministro.
  • 2011 – Un tribunale speciale delle Nazioni unite in Libano emette un mandato di arresto per alcuni membri di Hezbollah, accusati dell’omicidio di Rafik Hariri nel 2005. Hezbollah si oppone, dichiarando che non permetterà l’arresto di alcuno dei suoi membri.
  • 2013 – Diverse tensioni vengono registrate ai confini con la Siria, in seguito alla guerra. Molti militanti antigoverno siriani, si rifugiano in Libano dopo gli attacchi. L’Unione europea annovera Hezbollah nella lista ufficiale dei gruppi terroristici. Sempre come conseguenza della guerra in Siria, una grandissima ondata di rifugiati arriva nel paese, circa 700mila siriani.
  • 2013 (novembre) – Un attacco suicida fuori dall’ambasciata iraniana a Beirut uccide 22 persone.
  • 2014 – Il numero dei rifugiati siriani in Libano supera il milione. Il presidente Suleiman finisce il suo mandato. Una serie di attentati viene perpetrata durante le campagne elettorali per il suo successore.
  • 2016 – Saad Hariri diventa nuovamente primo ministro.
  • 2019 (ottobre) – Dopo l’annuncio dell’aumento delle tasse, più di un milione di manifestanti scende nelle piazze libanesi. Il primo ministro Saad Hariri rassegna le dimissioni.
  • 2020 (21 gennaio) – Il professore universitario Hassan Diab viene designato primo ministro. Avrà il compito di guidare un governo tecnico.
  • 2020 (9 marzo) – Il Libano è ufficialmente in bancarotta (default): i debiti non potranno essere ripagati.

An.Ca.

© Angelo Calianno

Il ruolo di Hezbollah («il partito di Dio»)

Hezbollah significa «partito di Dio». Nasce originariamente come un gruppo paramilitare sciita, cominciando a formarsi nel 1975 all’inizio della guerra civile libanese. Diventa più organizzato, e un vero e proprio partito politico, nel 1982, durante l’invasione di Israele che voleva espellere i militanti palestinesi dal Libano.

Hezbollah si ispira alla teocrazia iraniana di Khomeini e, negli anni, è finanziato da Siria e Iran. Il loro manifesto recita: «Il presupposto della nostra lotta contro Israele è che l’entità sionista, sin dalle sue origini, ha natura aggressiva ed è costruita su terre strappate ai legittimi proprietari, a spese dei musulmani. Pertanto, la nostra lotta potrà dirsi conclusa solo con l’eliminazione di questa entità. Non sigleremo alcun trattato con essa, non accetteremo alcun cessate il fuoco e alcun accordo di pace».

Nel 1983, Hezbollah si rende protagonista di una serie di attentati suicidi contro la presenza statunitense in Libano. In questi attacchi muoiono 258 soldati americani, inducendo il presidente Reagan a ritirare le truppe.

Hezbollah entra nel parlamento libanese nel 1992, durante i trattati per mettere fine alla guerra civile. Al gruppo viene consentito di mantenere le armi, oggi, «l’arsenale di Hezbollah» è uno dei temi più controversi della politica libanese. Hezbollah si rende spesso protagonista di attacchi con razzi (forniti dall’Iran) contro Israele. Inoltre, offre pubblico supporto alla Siria di Assad.

In questo momento di particolare confusione nella politica e nella società libanesi, Hezbollah è anche nel nuovo governo (definito tecnico) di Hassan Diab. Sarà difficile che questa sua presenza contribuisca a risolvere la complicata situazione del paese.

An.Ca.

Un mosaico di confessioni religiose

Nota bene: queste stime non tengono conto dei rifugiati siriani e palestinesi.

I musulmani rappresentano quasi il 60% della popolazione, divisi tra: sciiti, sunniti, ismaeliti, drusi, alauiti.

I cristiani sono circa il 37% divisi tra: maroniti, greci ortodossi, cattolici greci, armeni ortodossi, armeni cattolici, siriaci ortodossi, siriaci cattolici, nestoriani, caldei, copti, cattolici romani, evangelici.

L’ultima religione, in ordine di consistenza, è quella ebraica, ridotta a poche centinaia di seguaci. In minima parte, sono anche praticati il buddismo e l’induismo.

Ci sono 24 cattedrali in Libano, divise per le varie confessioni, la maggior parte sono di rito maronita. La principale è la cattedrale di San Giorgio a Beirut. Le altre chiese di maggiore importanza nella capitale sono: la cattedrale greco ortodossa di San Giorgio, San Luigi (fondata dai frati cappuccini), San Dimitrios, Santi Elia e Gregorio Armeno, Sant’ Elia (maronita).

An.Ca.

La missione Onu e i militari italiani in Libano

I primi soldati italiani arrivarono con la missione Unifil – United Nations Interim Force in Lebanon -, partita nel marzo 1978 e più volte prorogata. Nel 1982, l’ltalia rafforzò la propria presenza con la missione «Italcon», sempre sotto l’egida dell’Onu. Le forze italiane furono impegnate, insieme a quelle francesi, statunitensi e inglesi, durante la guerra civile libanese.

Un ulteriore intervento si ebbe nel 2006 con l’operazione «Leonte», operazione di pace sempre a guida Onu. L’operazione era volta alla ricognizione delle coste e al monitoraggio delle tensioni tra Hezbollah e Israele. Oggi l’Italia, in Libano, ha il comando delle operazioni generali dell’Unifil. Sono presenti, sul territorio, 1.200 militari italiani che si occupano anche dell’addestramento delle truppe locali. A novembre 2019 a Shama, una delle principali basi italiane, è avvenuto il passaggio di responsabilità del contingente italiano; la consegna è avvenuta tra la Brigata Aosta e quella dei Granatieri di Sardegna.

An.Ca.

© Deck Accessory


Vivere oggi a Teheran

Nati dopo la rivoluzione

Le proteste di fine 2019 sono nate per l’aumento dei prezzi della benzina (+50%). Nel paese la situazione generale è pesante (anche per il Covid-19) e c’è una sensazione d’attesa. Anche se molti hanno perso la speranza di arrivare a un vero cambiamento.

Iranian Supreme Leader Press Office / Handout / Anadolu Agency

Teheran, un bell’appartamento panoramico nei quartieri alti. Leila ci abita con suo marito. Sono una coppia affiatata, non hanno problemi economici, ma si sentono soli. Delle rispettive famiglie sono gli unici rimasti a vivere in Iran: fratelli e genitori sono a Dubai, in Canada, in Germania. Leila ha studiato all’estero. Finiti gli studi, però, è tornata a lavorare nel suo paese, cui è legata anche dalla fede religiosa. Profondamente devota, ha sempre svolto i riti della preghiera in casa, senza andare in moschea a esibire la propria fede. Insegna nella più prestigiosa università di Teheran. Non ha mai immaginato un futuro fuori dal proprio paese, quindi, a differenza di tanti altri, non ha mai avuto l’intenzione di emigrare.

Date queste premesse, non mi aspettavo il tenore della nostra conversazione, un pomeriggio di fine dicembre. Quel giorno era il quarantesimo dalla repressione delle proteste di metà novembre, era la giornata in cui, secondo la tradizione, se ne sarebbero dovuti commemorare i morti. Era corsa voce che per l’occasione la gente sarebbe tornata a protestare nelle strade della capitale e del paese. A Teheran l’aria era fitta di inquinamento e di attesa. Nei punti nevralgici era pieno di polizia, di basij (i volontari pro governo) pronti sulle loro motociclette, di agenti in borghese.

«Magari succede qualcosa…», mi ha confidato Leila, quasi con desiderio. Ho sgranato gli occhi. Da lei simili parole? Follia, pura irrazionalità. «Forse è meglio di no – le ho risposto -. Sai bene che loro (gli uomini della casta al potere) non si fermano davanti a nulla, che scorrerà di nuovo il sangue». «E che sia, se questo è il prezzo da pagare!», ha ribadito l’amica. Così ho capito che qualcosa era cambiato: aveva perso la speranza.

«Non ce la faccio più, non prego più come prima, penso che dovremo andarcene da qui. Nei giorni della rivolta il capo del nostro dipartimento ha dovuto tenere un discorso ufficiale agli studenti e propagandare le ragioni del governo. Se lo avessero chiesto a me? Non avrei mai potuto farlo. Meglio andarsene prima, tanto a loro non interessa nulla, né dell’università, né degli studenti. Che senso ha lavorare in queste condizioni?». Sì, Leila, come tanti altri, non sperava più.

Le vittime occultate

A metà novembre 2019 in tutto l’Iran sono iniziate manifestazioni di protesta. Come nel 2017-18, il motivo scatenante è stato economico: questa volta il rincaro del prezzo della benzina (oltre il 50% in più), ma, come due anni prima, gli slogan sono diventati subito politici. Senza precedenti, invece, è stata la violenza della repressione. Per la prima volta c’è stato un totale blackout di internet, che è durato da una a due settimane, a seconda dei luoghi. Ovviamente, le cifre ufficiali non sono attendibili e fonti diverse danno numeri diversi, ma la gente qui parla di 1.500 morti, che è quanto riporta anche l’agenzia Reuters. Nel sobborgo di Teheran dove mi trovo gira la voce che, tra gli abitanti, ci siano state 150 vittime. Behruz, un amico di Shiraz (Centro Sud del paese), riporta per la sua città la cifra di 400 vittime. «I cecchini colpivano la gente in strada dai tetti delle case. Hanno usato anche gli elicotteri per sparare alla gente! – la voce gli trema per l’indignazione -. Vedrai che presto succederà qualcosa. Qualcosa dovrà cambiare». Queste parole in bocca al mite Behruz non sono usuali.

Forse i numeri sono esagerati, o forse no, ma in fondo, poco importa. La percezione di tutti è di aver assistito allo scatenarsi di una ferocia inaudita, che ha ucciso in modo indiscriminato, ingiustificato, brutale. Ha colpito i manifestanti inermi, ha colpito tanti che non manifestavano, curiosi o passanti che fossero, non ha risparmiato bambini, donne, ragazzi. Ai parenti delle vittime è stato imposto di seppellire i loro cari nel silenzio, niente cerimonie, niente annunci, niente foto. Nel nostro sobborgo le gigantografie esposte davanti alle moschee sono quelle di guardie della rivoluzione o basij assassinati per vendetta. Li hanno riconosciuti e accoltellati poi, a sangue freddo, mi spiegano.

Giovani e anziani: aspettative diverse

Behruz è giovane: un po’ più giovane di Leila, ma entrambi nati dopo la rivoluzione del 1979. Come Leila, anche Behruz immagina che una rivolta aperta potrebbe avviare un cambio di regime. Nei giorni delle proteste le piazze si sono riempite di giovani e giovanissimi; proprio tra di loro è stato mietuto il maggior numero di vittime. Ma la generazione dei più anziani, di coloro che hanno vissuto la rivoluzione e poi gli otto anni di guerra con l’Iraq, non si aspettano cambiamenti repentini, e neppure li auspicano, non perché non li desiderino, ma perché sanno che qualsiasi tentativo di rivolta dal basso porterebbe a un terribile bagno di sangue.

La Guida suprema e i religiosi attorno a lui non hanno intenzione di rinunciare al controllo sul paese. Hanno in mano due oliatissimi strumenti di repressione: il corpo delle guardie della rivoluzione (pasdaran, sepa) e l’organizzazione dei volontari (basij), e non esiterebbero a usarli contro chiunque tentasse di minare il loro potere.

I Guardiani e le liste elettorali

In tutto questo niente di strano che, prima delle elezioni parlamentari dello scorso 21 febbraio, il Consiglio dei guardiani non abbia ammesso circa la metà delle candidature. La squalifica dei candidati a un’elezione è prassi comune di lotta politica nella repubblica degli ayatollah. Persino ad Akbar Hashemi Rafsanjani, uno dei protagonisti della rivoluzione islamica, ex presidente dell’Iran, e, fino alla morte, presente al fianco di Khamenei nelle apparizioni pubbliche, nel 2013 i Guardiani negarono il permesso di concorrere per le presidenziali. Questa volta, però, la loro scure si è abbattuta sui candidati riformisti con mano particolarmente pesante; quella stessa mano che, a novembre, ha messo in atto la repressione delle rivolte.

È evidente l’intenzione del regime di compattarsi davanti alla pressione esterna e, soprattutto, davanti al crescente malcontento interno. Come a ogni tornata elettorale, la Guida suprema con insistenza ha sollecitato gli iraniani a votare. Per gli uomini del regime è sempre stato importante poter vantare un’alta affluenza alle urne, che essi interpretano come una legittimazione popolare e sventolano come una prova del carattere autenticamente democratico della repubblica islamica.

Però le sirene della propaganda di stato questa volta non hanno funzionato. Si è registrata la più bassa affluenza alle urne dell’Iran post rivoluzionario: 42% a livello nazionale, addirittura 25% nella capitale. D’altra parte, le squalifiche avevano tolto agli iraniani la possibilità di scegliere, come successo altre volte, il «male minore», e cioè i candidati moderati e riformisti.

Maria Chiara Parenzo

© Dyna Mosquito


Tra guerre e nuove alleanze

Sua maestà il petrolio

Ai tempi dello shah, Stati Uniti e Iran erano alleati. Dopo la rivoluzione del 1979, gli Usa preferirono l’Iraq di Saddam Hussein per contrastare l’Iran sciita. Un andirivieni di alleanze, sanzioni e accordi non in nome della democrazia e dei diritti, ma sempre in nome del petrolio.

Il 3 gennaio 2020, all’una di notte, un missile lanciato da un drone colpisce e incenerisce due auto mentre viaggiano in autostrada verso l’aeroporto di Baghdad. A bordo ci sono otto persone, tutte morte all’istante, incluso il comandante della Forza di mobilitazione popolare irachena conosciuto come Abu Mahdi al Mohandis. Ma il vero obiettivo era Qassem Soleimani, generale che coordinava le attività iraniane in Iraq. Lo rivelava la Casa Bianca nel rivendicare la paternità dell’attacco. Un ennesimo atto di ostilità in un rapporto di inimicizia che dura da decenni.

In principio Iran e Usa erano alleati. Nel 1941 la monarchia iraniana – retta dallo shah Mohammad Reza Pahlavi (subentrato al padre) – chiese l’aiuto degli Stati Uniti per arrestare l’occupazione militare messa in atto da Inghilterra e Russia che, all’epoca, erano alleati contro il nazismo. Gli Stati Uniti inviarono 30mila soldati che vennero ritirati a normalizzazione avvenuta. Normalizzazione che continuava a contemplare la presenza di imprese petrolifere britanniche che rimasero in Iran fino al 1979 quando avvenne la Rivoluzione islamica. Tuttavia, l’invio di truppe da parte degli Stati Uniti era stato considerato un gesto di grande amicizia e il legame con la famiglia reale rimase così solido da trasformare l’Iran in una sorta di protettorato Usa. Finché la monarchia rimase al potere, gli Stati Uniti inondarono il paese di denaro, armi, tecnici e consiglieri militari. Finanziarono perfino l’avvio del programma nucleare che più tardi sarebbe stato tanto contestato. Ma, nel 1979, un movimento di protesta guidato dalle autorità religiose islamiche riuscì a rovesciare il potere dello Shah e a poco valsero i tentativi di restaurazione messi in atto dalla Cia: la monarchia fu definitivamente estromessa dalla scena iraniana e con essa se ne andò anche l’amicizia con gli Stati Uniti.

Per Washington la perdita dell’Iran fu un duro colpo perché, dopo l’Iraq e la Siria, era il terzo paese del Medio Oriente che sfuggiva al suo controllo. Ma si dava il caso che Iraq e Iran non si vedessero di buon occhio e nella logica del divide et impera, gli Stati Uniti foraggiarono l’Iraq affinché tenesse impegnato l’Iran in una guerra che durò otto anni (1980-1988). Poi però successe che nel 1990 Saddam Hussein, dittatore dell’Iraq, pretese di invadere il Kuwait, paese sotto protezione statunitense, per cui l’Iraq tornò nella lista dei cattivi. Seguirono anni duri per Baghdad contrassegnati da un pesante embargo che privò il paese perfino dei farmaci di base. Ma il peggio arrivò nel 2003 quando Washington invase il paese portando morte, distruzione e totale dissesto, sia politico che economico.

l ruolo dell’Arabia Saudita

Neutralizzato l’Iraq, l’attenzione si concentrò di nuovo sull’Iran con due vecchie strategie: l’embargo per isolarlo e la tensione militare per sfiancarlo. E se per il primo scopo usò come pretesto il mancato rispetto dell’accordo sul nucleare, per il secondo, soffiò sul fuoco di una vecchia rivalità con l’Arabia Saudita. Ma non volendo, né una parte né l’altra, avventurarsi in conflitti diretti, altri paesi vennero utilizzati come teatri di guerra. In particolare, lo Yemen e la Siria, due paesi con guerre (ancora in corso) che, oltre ad avere provocato migliaia di morti e feriti, hanno prodotto milioni di affamati, di sfollati, di senza casa. In Yemen, 14 milioni di persone sono a rischio morte per fame ed epidemie. Quanto alla spesa militare, mentre l’Iran si è mantenuto nella sua media, l’Arabia Saudita, dal 2009 al 2018, l’ha vista aumentare del 28% con grande vantaggio commerciale per gli Stati Uniti, perché l’88% di tutte le armi importate dal paese nel periodo 2014-2018, sono state acquistate nelle nazioni alleate.

Nonostante la disponibilità all’azione militare da parte dei propri alleati, gli Stati Uniti sono comunque presenti nell’area del Golfo con mezzi e soldati. Oltre a basi aeree in Kuwait, Qatar, Emirati Arabi e a navi da guerra che pattugliano la penisola arabica, in Medio Oriente stazionano   60-70mila militari Usa, di cui 45mila nei paesi che si affacciano sul Golfo Persico e 14mila in Afganistan, sul fianco Est dell’Iran. Un dispiegamento di forze che dal 2001 costa agli Usa una media di 200 miliardi all’anno. Però, se aggiungiamo alla spesa anche i soldi per i veterani e per gli interessi sul debito contratto per trovare i fondi, scopriamo che i soldi complessivamente utilizzati per mantenere la presenza militare Usa in Medio Oriente negli ultimi 18 anni, sono ammontati a 6.400 miliardi, una media di 355 all’anno. Lo calcola il Watson Institute della Brown University.

Le ragioni dell’impegno Usa

Di fronte a tanto sforzo militare la domanda che sorge spontanea è: per quale ragione? Tre risposte si affacciano alle mente. La prima: per difendere la bandiera ideologica del capitalismo e soprattutto gli interessi delle imprese statunitensi. Non a caso l’inimicizia con l’Iran è iniziata con la caduta dello shah e l’instaurazione della Repubblica islamica determinata a nazionalizzare i settori chiave dell’economia e soprattutto a non permettere a imprese straniere di arricchirsi tramite lo sfruttamento delle proprie risorse. La storia dell’Iran degli ultimi 100 anni è contrassegnata dalla determinazione dei paesi occidentali di voler controllare il suo petrolio. E senza volere ricostruire gli eventi in tutti i loro passaggi, basti dire che nel 1954 lo shah aveva concesso l’estrazione e la vendita del petrolio a un consorzio internazionale formato da una decina di multinazionali petrolifere, le principali delle quali erano British Petroleum, Shell, Compagnie Française des pétroles, Exxon e altre imprese americane minori. In contropartita, il consorzio avrebbe consegnato al governo iraniano il 50% dei profitti. Con l’avvento della rivoluzione islamica, nel 1979, l’accordo venne annullato e oggi petrolio e gas iraniani sono estratti e venduti esclusivamente dal Nioc (National Iranian Oil Company), un’impresa di proprietà governativa che si definisce la seconda impresa petrolifera mondiale per capacità estrattiva. Non così negli altri paesi del Golfo, dove molte imprese straniere, fra cui Exxon Mobil, Occidental Petroleum, BP, Royal Dutch Shell, Total, partecipano a progetti di estrazione.

La seconda risposta che potremmo darci rispetto al motivo per il quale gli Usa utilizzino tante energie per presidiare il Medio Oriente, è perché vogliono garantirsi l’approvvigionamento di petrolio. Tuttavia, a un’analisi più approfondita questa risposta oggi vacilla. Gli Stati Uniti sono essi stessi un grande produttore di petrolio. Fino al 1947 erano addirittura autosufficienti. Poi subentrò una certa dipendenza dall’estero perché i consumi cominciarono a crescere più di quanto non crescesse la produzione. A fine anni Ottanta successe addirittura che la produzione aveva cominciato a scendere e la dipendenza verso le importazioni si fece particolarmente acuta fino al 2005. Poi, la situazione cominciò a cambiare con la scoperta dello shale oil, il petrolio intrappolato nelle rocce scistose che può essere estratto grazie a una tecnologia moderna nota come fracking: l’iniezione in giacimento di un fluido ad alta pressione, normalmente acqua mista a sabbia, che, spaccando le rocce, libera il gas o il petrolio che vi è contenuto. La produzione di shale oil cresce di anno in anno e se, nel 2011, era a un milione di barili al giorno, nel 2019 era a 8 milioni al giorno. Tuttavia, l’autosufficienza non è ancora stata raggiunta e ad oggi le importazioni di petrolio continuano a coprire circa il 10% dei consumi statunitensi. Diverso, invece, il discorso per il gas. In questo settore la scoperta dello shale gas si è rivelato così abbondante da avere permesso agli Stati Uniti di produrre più gas di quanto ne consumi. Tant’è vero che sono diventati il terzo esportatore mondiale di gas, sia vendendolo tal quale ai paesi confinanti tramite gasdotti, sia vendendolo al resto del mondo come Lng, gas liquido compresso, tramite nave. Tuttavia, il primo esportatore mondiale di gas resta la Russia che, proprio per questo, gli Stati Uniti stanno cercando di ostacolare in tutti i modi, accampando perfino ragioni di sicurezza. Lo hanno fatto nel dicembre 2019, quando
Donald Trump ha firmato la legge che impone sanzioni a qualsiasi impresa che aiuti Gazprom, impresa di stato russa, a terminare il «Nord Stream 2», il gasdotto che porta il gas dalla
Russia alla Germania (e quindi all’Unione europea) attraverso il Mar Baltico. La scusa è che il gasdotto potrebbe trasformare la Germania in «ostaggio della Russia».

Ed è proprio questa ennesima guerra commerciale fra Usa e Russia a portarci sulla terza possibile risposta, squarciando il velo su un paradosso che sa di incredibile.

Sale la temperatura e sale il petrolio

Nel dicembre 2015 a Parigi venne firmato un accordo per impedire alla temperatura terrestre di salire oltre 1 grado e mezzo centigrado rispetto all’era preindustriale. Un obiettivo che, per essere raggiunto, richiede il dimezzamento delle emissioni di anidride carbonica entro il 2025 e il loro azzeramento entro il 2050. In una parola dovremmo mettere fine, per sempre, all’era dei combustibili fossili. La realtà sembra però andare in direzione opposta. Dal 2015 al 2019 il consumo di petrolio nel mondo è aumentato del 6,5% passando da 93 a 99 milioni di barili al giorno. Ancora più rilevante il consumo di gas che, nello stesso periodo, è cresciuto dell’11%. Numeri che continuano a confermare la centralità dei prodotti petroliferi nella gestione dell’economia mondiale. E, considerato che i paesi del Golfo producono il 24% del petrolio e il 21% del gas naturale mondiale, si capisce come quest’area continui a rimanere strategica. Dal che si deduce che il vero grande motivo per cui gli Stati Uniti continuano a presidiare il Medio Oriente, con tanto dispiegamento di forze, è il controllo del mondo attraverso il petrolio. Con un unico intento: favorire gli stati di ortodossa fede capitalista e penalizzare tutti gli altri. Che tradotto a livello produttivo significa favorire le monarchie del Golfo contro l’Iran. A livello di acquisti significa favorire i propri alleati europei e asiatici contro la Cina. Una Cina che sa di trovarsi in posizione di debolezza considerato che deve importare il 75% del proprio fabbisogno petrolifero. Con un’unica possibilità per sottrarsi all’egemonia degli Stati Uniti: la diversificazione dei propri fornitori. Ma, per quanti sforzi faccia, le sue importazioni di petrolio dipendono per il 44% dai paesi del Golfo. Una spada di Damocle sulla sua testa destinata a pesare a ogni tavolo di trattative che Pechino ha con Washington. Perché non può dimenticare che chi controlla lo Stretto di Ormuz, di fatto controlla il mondo.

Francesco Gesualdi

© Youngrobv

Indicazioni bibliografiche

  • Aa.Vv., America contro Iran, in «Limes», n. 1, febbraio 2020.
  • Aa.Vv., Attacco all’Impero persiano:
    Washington stringe la morsa sull’Iran, in «Limes», n. 7, luglio 2018.
  • Alessandro Cancian, La scuola degli imam e l’educazione religiosa nell’Islam sciita, Jouvence, Milano 2015.
  • Antonello Sacchetti, Iran, 1979, la rivoluzione, la repubblica islamica, la guerra con l’Iraq, Infinito edizioni, Formigine
    (Modena) 2013.
  • Ervand Abrahamian, Storia dell’Iran, dai primi del Novecento a oggi, Feltrinelli,
    Milano 2013.
  • Michael Axworthy, Iran rivoluzionario. Una storia della repubblica Islamica,
    Edizioni Leg, Gorizia 2017.
  • Riccardo Redaelli, L’Iran contemporaneo, Carrocci, Roma 2011.
  • Ryszard Kapuscinski, Shah-in-Shah, Feltrinelli, Milano 2001.

Presidency of Iran / Handout / Anadolu Agency

Hanno firmato questo dossier:

ADEL JABBAR – Sociologo e saggista nell’ambito dei processi migratori e della comunicazione interculturale. È libero docente e collaboratore presso istituzioni accademiche e organismi di ricerca e formazione. Ha insegnato all’Università Ca’ Foscari di Venezia, all’Università di Torino, all’Università di Modena e Reggio Emilia. Svolge attività di referente scientifico dell’Ufficio multilingue della provincia autonoma di Bolzano ed è collaboratore del Centro per la pace di Bolzano e del Forum per la pace della provincia autonoma di Trento. Negli ultimi anni ha insegnato Islamistica all’Istituto superiore di Scienze religiose di Modena, al Centro teologico di Torino e all’Istituto di Scienze religiose di Bolzano.

ANGELO CaLIANNO – Pugliese, reporter freelance, esperto in storia – soprattutto quella legata all’influenza islamica nel mondo – negli ultimi 14 anni ha scritto
reportage e racconti da zone devastate dalla guerra. Ultimamente ha lavorato in Afghanistan, Iraq, Libano e Africa subsahariana. È collaboratore di MC.

MARIA CHIARA PARENZO – Nome con cui si firma una collaboratrice di MC che vive tra Teheran e Milano.

FRANCESCO GESUALDI – Fondatore del «Centro nuovo modello di sviluppo», da oltre due anni firma su MC la rubrica «E la chiamano economia».

A cura di Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.

© ATTA KENARE / AFP

 

 




Popolo Indigeno d’Europa

testo e foto di  Valentina Tamborra |


Nell’estremo Nord del continente da sempre vivono i Sami. Nella storia oppressi e assimilati, stanno oggi lottando per mantenere la loro cultura e tradizioni. A dispetto della modernità che avanza.

I Sami sono una popolazione indigena che oggi conta circa 75mila persone. Divisi dalle frontiere di quattro stati – Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia – vivono in un’area da loro chiamata Sapmi.

L’area ha una propria bandiera i cui colori identificano le sue diverse zone: rosso per la Svezia, verde per la Finlandia, giallo per la Russia e blu per la Norvegia, dove vivono la maggior parte dei Sami.

I nativi di queste zone sono comunemente definiti «lapponi». Il termine però, aveva inizialmente una valenza dispregiativa in quanto la parola svedese «lapp» stava a indicare una «toppa, pezza».

Solo nel 1989 è stato istituito un parlamento sami della Norvegia, in riconoscimento dei loro diritti. L’edificio è stato costruito nella città di Karasjok e la sua architettura ricorda la forma di un lovvo, ovvero una tenda (abitazione tradizionale dei Sami dediti all’allevamento delle renne), pur essendo moderno e all’avanguardia.

Inoltre, dal 1956 è attivo il Sami Council, organizzazione volontaria non governativa che ha come scopo la promozione della cultura e la difesa dei diritti e degli interessi di questo popolo.

La costituzione di un parlamento sami è di particolare rilevanza, in quanto i nativi del Sapmi hanno subito una sorte che sfortunatamente, nella storia, ha toccato diversi popoli nativi.

Sami, Valentina Tamborra

Assimilazione forzata

Tra il 1850 e il 1970 infatti, il popolo sami ha subito quella che è stata chiamata «norvegizzazione».

Durante questo periodo ai Sami residenti in Norvegia venne impedito di parlare la propria lingua e imposto di assumere un cognome norvegese per poter acquistare delle terre e integrarsi con il resto della popolazione norvegese. A quei tempi appartenere al popolo Sami era un marchio d’infamia.

Gli adulti vennero assimilati al modo di vivere occidentale e solo con estrema fatica alcuni di loro – soprattutto i Sami della tundra – continuarono a lavorare con le renne e a preservare la tradizione.

I bambini nati durante il periodo della norvegizzazione infatti, spesso non imparavano neppure la propria lingua. I genitori, per preservarli e far sì che si integrassero fra la popolazione norvegese, parlavano con loro solo nella nuova lingua. Ad oggi molti sono gli adulti che sentono di aver perso le proprie radici.

Una delle prime distinzioni da fare quando si parla di questo popolo è quella fra Sami di mare e Sami della tundra. I primi, vivendo lungo le coste dei fiordi che costellano il paese, sono stati fra i primi a subire il processo di norvegizzazione. Fra di loro, la percentuale di persone che non parlano Sami è molto alta. Mediamente le persone fra i 30 e i 60 anni di età, infatti, non conosco la propria lingua madre. Per ovviare a questo, sono in corso diverse iniziative per il recupero dell’identità: il parlamento sami, infatti, ha reintrodotto la lingua sami nelle scuole e con essa anche lo studio della tradizione e della storia. Esistono poi specifici corsi per adulti che desiderino apprendere la lingua.

I Sami della tundra invece, in quanto nomadi dediti all’allevamento delle renne, hanno subito meno la norvegizzazione e in città come Karasjok e Kautokeino, entrambe in Norvegia, l’85% della popolazione parla sami come prima lingua.

Sami, Valentina Tamborra

I nomadi della tundra

I Sami della tundra sono dediti all’allevamento delle renne e questo li rende nomadi in quanto debbono seguirne i movimenti.

Sin da bambini vengono iniziati dai genitori a questo lavoro che prevede un costante e completo contatto con la natura.

Le renne vivono in assoluta libertà e sono gli uomini a doversi adattare ai loro movimenti. Gli animali infatti, si spostano dalla costa alla tundra a seconda delle stagioni, e seguono la stessa tratta da millenni: lo spostamento segue questa rotta da quando i primi Sami iniziarono a vivere di questa attività, e il movimento è strettamente connesso alla ricerca di cibo da parte delle renne.

I Sami sono al seguito delle renne. Se una volta essi si avvalevano di slitte trainate da renne e sci, oggi le renne vengono dotate di collare gps, e un’apposita App permette di localizzare con più precisione possibile dove gli animali si stanno muovendo.

Questo ha ovviamente semplificato di molto il lavoro dei Sami: prima dell’avvento del gps infatti, era necessaria una costante vigilanza sulla mandria. Intere famiglie Sami vivevano per mesi smontando e rimontando il proprio lovvo seguendo il movimento degli animali. Quando la mandria si fermava a riposare, anche la famiglia poteva fermarsi, ma se gli animali si rimettevano in cammino bisognava immediatamente seguirli. L’ultima transumanza con le slitte e le renne è stata fatta, in Norvegia, nel 1976.

Oggi grazie alla moderna tecnologia, i Sami hanno costruito delle cabin (sorta di piccoli rifugi costruiti in legno, molto basici, vedi box) nelle tratte di percorrenza delle renne e, con potenti motoslitte in inverno e quad (specie di moto a quattro ruote) in estate, sono in grado di raggiungere gli animali molto velocemente.

Sami, Valentina Tamborra

La marchiatura

In estate, quando i nuovi nati fanno capolino nella mandria, è il momento della conta: ogni Sami si predispone a seguire la mandria e direzionarla verso grandi recinti dove ogni renna giovane verrà marchiata con il simbolo proprio del Sami che riuscirà a prenderla.

Portare le renne nei recinti della marchiatura è operazione tutt’altro che semplice: per loro natura infatti, in quanto animali liberi e non abituati all’uomo, le renne tendono a fuggire non appena qualcuno si avvicina. Così i Sami si dividono in gruppi: le motoslitte accerchiano le renne e, stando a una distanza importante (circa 200 metri), cercano di spingerle verso i recinti. Le renne si spostano naturalmente in una sorta di fila indiana che può raggiungere centinaia di metri se non a volte anche qualche chilometro. Raccogliere la mandria è un’operazione assai delicata in quanto se uno solo degli animali cambia percorso, tutte le altre renne lo seguono.

Dopo la marchiatura, che avviene con il tradizionale coltello Sami realizzato a mano utilizzando legno, osso e acciaio, le renne vengono immediatamente rimesse in libertà.

In inverno, tra dicembre e febbraio, sarà il momento di tornare nella tundra e scegliere quali animali verranno utilizzati per fornire carni, pelli e quanto serve per il sostentamento.

Oggi questa forma di allevamento è messa a dura prova in quanto, con lo scavo di nuove miniere e l’installazione di pale eoliche o tralicci della corrente, le renne trovano difficile orientarsi. La nuova conformazione del paesaggio nonché i rumori prodotti da queste installazioni disturbano gli animali durante la transumanza costringendoli a cambiare percorso e facendo loro spendere molta energia in più rispetto al passato. Questo mette a dura prova la mandria e molti animali non sopravvivono. La paura dei Sami, oggi, è quella di vedere nuovamente venir meno la propria tradizione e la propria cultura in nome dell’avanzamento tecnologico.

Sami, Valentina Tamborra

Nel profondo dei fiordi

I Sami di mare vivono prevalentemente lungo le coste norvegesi e non sono nomadi.

Il nome «Sami di mare» potrebbe suggerire una tradizione di pesca, ma in realtà essi si occupavano, in passato, prevalentemente di allevamento di ovini e di tessitura di lana. La pesca non rappresentava la principale fonte di sostentamento ma era parte dell’economia che si reggeva prevalentemente sul baratto. I legami fra Sami di mare e Sami della tundra infatti, erano e sono ancora oggi fortissimi. Le prime strade di collegamento con il resto della Norvegia infatti, vennero costruite solo nel 1970, dunque fino a quegli anni l’economia doveva per questioni di forza maggiore, basarsi sullo scambio fra le due popolazioni Sami.

Se i primi potevano fornire lana, materiale tessile e oggettistica realizzata in legno e osso (oggetti tipici chiamati duodji e dunque utensili come coltelli, calze in lana, coperte, il tutto rigorosamente fatto a mano), i secondi potevano rifornire i Sami di mare con pelli di renna (ottimo isolante dal freddo di queste zone oltre il circolo polare artico), e carne.

Oggi i Sami di mare svolgono i più svariati lavori: perfettamente integrati nel tessuto sociale norvegese, non vivono più di forme di baratto ma sono impegnati in lavori quali insegnanti, medici, cuochi.

Sami, Valentina Tamborra

Spiritualità e religione

Sebbene i Sami siano per lo più luterani, il loro legame con la religione d’origine, lo sciamanesimo, resta estremamente forte.

Lo sciamanesimo era un culto politeista che traeva la propria ispirazione dalla natura. Tra le più antiche divinità troviamo quindi la Madre Terra (colei che governa le nascite e dunque la vita) e il Dio del tuono.

Tra il XIII e il XVI secolo ci furono molte spedizioni missionarie atte a convertire i Sami al cattolicesimo e al luteranesimo. Con l’avanzata dei coloni scandinavi e norvegesi, intere comunità sami furono costrette ad abbandonare le pratiche religiose pagane.

Proprio in Norvegia, nel 1716, nacque il Seminarium Lapponicum: organizzazione con il compito di cristianizzare i Sami fornendo loro le Sacre scritture in lingua Sami. Questa iniziativa fallì in quanto la maggioranza ecclesiastica si oppose alla conservazione dei valori tradizionali (fra cui la lingua) e si procedette al sequestro e al rogo degli oggetti simbolici, come i tamburi, legati al culto pagano.

Fu con l’arrivo di Lars Levi Laestadius, nel XIX secolo, che avvenne una vera svolta.

Questo pastore luterano di origine sami fondò un suo proprio movimento, il Laestadianesimo.

Il primo precetto di questo movimento è la remissione dei peccati e l’incontro con lo Spirito Santo.

Dopo l’arrivo dei coloni infatti, complice il forte cambiamento di vita con l’imposizione di nuove abitudini, l’esproprio forzato dai terreni, la perdita della lingua madre, molti Sami erano caduti nella spirale dell’alcool.

L’alcool però era altresì associato alle pratiche sciamaniche, necessario per cadere in trance.

Laestadius, grazie alla fondazione del suo movimento religioso, aiutò i Sami a trovare una nuova salvezza dalla spirale di abbruttimento nel quale erano caduti dopo l’invasione dei coloni, ma allo stesso tempo impose loro concetti molto restrittivi creando fratture fra la comunità stessa. Chi non si convertiva, infatti, veniva guardato con sospetto e messo in qualche modo al bando dalla comunità.

Il racconto del processo di colonizzazione e di quanto avvenne in quel tempo è ben documentato nel film «La rivolta di Kautokeino» del regista Nils Gaup. Il film è incentrato sulla rivolta di un gruppo di Sami, nel 1852, contro un mercante locale e il suo alleato, un pastore luterano.

Ad oggi, come dicevamo, molti Sami seguono il cristianesimo ma continuano a conservare figure come il «guaritore». La differenza con il passato è che, se una volta il guaritore/sciamano, utilizzava il tamburo per mettersi in collegamento con gli Dei e guarire una persona, oggi la guarigione viene operata tramite l’uso della Bibbia e di Gesù. Questa mescolanza fra cristianesimo e paganesimo è ancora più forte quando scopriamo che alla celebrazione del Natale i Sami affiancano il «Nissetoget» per la celebrazione del Capodanno.

La notte del 31 dicembre, infatti, è usanza ritrovarsi verso le ore 20 per dar luogo a una lunga processione in maschera: ogni famiglia, nelle settimane precedenti all’evento, costruisce maschere e costumi.

Le maschere sono spaventose perché debbono rappresentare i demoni o comunque il «male» che verrà bruciato alla fine della processione, a mezzanotte, in un grande rogo simbolico per far iniziare il nuovo anno al meglio.

Con il rogo delle maschere, gli spiriti maligni vengono allontanati e si fa spazio agli dei benevoli a cui rivolgere le proprie preghiere per un anno nuovo sereno.

Sami, Valentina Tamborra

Le pietre del sacrificio

C’è poi un’altra usanza che dimostra come l’antico credo legato alla terra e alla natura sia radicato e forte. Nella tundra infatti, ci si può imbattere in quelle che vengono definite «pietre del sacrificio». Si tratta di grosse rocce su cui i Sami lasciano offerte (possono essere monete, corna di renna, carne) per ingraziarsi gli dei della natura e ottenere così una buona pesca o un buon anno di caccia o di allevamento.

Oltre alle pietre del sacrificio, restano ancora oggetto di attenzione e di culto altre rocce: un tempo infatti, prima dell’avvento del luteranesimo, i Sami identificavano come luogo sacro ove ritrovarsi a pregare, delle pietre di forma particolarmente allungata verso il cielo – luoghi che simboleggiavano l’unione fra terra e mondo invisibile.

Molto importante è poi per questa popolazione, il legame con gli antenati: la morte, che è vista come passaggio e naturale parte della vita, non è la fine di tutto. Per i Sami chi ci ha preceduto è in qualche modo eternamente presente. Una credenza diffusa infatti è che portare via un oggetto da una delle molte pietre del sacrificio, possa far infuriare gli spiriti che non daranno pace ai vivi sino a quando l’oggetto non verrà riposto nel luogo ove è stato trafugato.

Paganesimo, cattolicesimo, luteranesimo e sciamanesimo si fondono creando così una spiritualità molto forte che attinge alla tradizione antica.

Tutto questo è ben espresso nelle parole di un guaritore che per rispondere alla domanda «in quale dio credi?», ha usato la seguente espressione: «Che importanza ha il nome che gli dai? Se è uno, se sono molti? Ciò che conta, è che tutti si preghi per la pace».

Sami, Valentina Tamborra

La natura e la lingua

I Sami, sia di mare che della tundra, vivono strettamente a contatto con la natura. Questo li porta a un rispetto e a un rigore estremo.

Pur dovendo cacciare e allevare, non esiste Sami che non biasimi ad esempio la pesca o la caccia sportiva.

Per questa popolazione infatti, il rispetto della Madre Terra resta la base di ogni azione. Prima della caccia, prima della pesca, all’inizio della stagione della transumanza, si ringrazia e si chiede il permesso a Madre Terra per portare avanti la propria attività.

Un altro aspetto singolare e che racconta molto di quanto possa essere complicato e allo stesso tempo strettamente legata alle questioni ambientali la cultura Sami, è la loro lingua.

Catalogata in undici differenti dialetti, di cui uno estinto nel 1800 e l’altro nel 2003, solo sei di loro hanno una storia letteraria. È molto complicato comprendere e imparare questa lingua in quanto per una singola parola abbiamo talvolta più di 100 diverse espressioni, un esempio concreto è la parola neve. Vivendo nell’artico infatti, ove per circa sei mesi all’anno la neve, il ghiaccio e la poca luce fanno da padroni, è necessario poter definire al meglio uno dei componenti essenziali che determina la loro capacità di movimento e di lavoro in territori tanto duri come la tundra. E così per descrivere una neve secca, o fragile, o farinosa, o ghiacciata si usano parole completamente diverse fra loro.

Modernità e tradizione

Ad oggi risulta sempre più difficile per i Sami portare avanti il loro tradizionale stile di vita per via di diversi fattori che concorrono a rendere difficile la prosecuzione di una vita nomade e «al servizio» dei ritmi naturali: cambiamenti climatici, riduzione delle terre loro concesse per l’allevamento delle renne, nonché un turismo che raggiunge sovente mete che sino a poco tempo fa erano precluse proprio perché dedicate all’allevamento e al pascolo delle renne, sono tutti elementi che rendono difficile il mantenimento della tradizione.

In alcune città fra Norvegia e Svezia si sono già verificate proteste al fine di impedire la costruzione di nuove miniere, e alcuni capi della comunità dei Sami della tundra hanno provato a far sentire la loro voce ai propri governi. Nonostante ciò sembra inevitabile l’avanzamento del progresso e con esso, come spesso avviene, il sacrificio di realtà minori e dedite a una vita lontana dalla frenesia moderna.

Ciò che si spera, nella comunità, è che la tenacia, la forza di volontà e l’attaccamento alle radici consentano ai giovani Sami di portare avanti la propria tradizione anche se con fatica e sacrificio.

Valentina Tamborra

Sami, Valentina Tamborra

Vivere nelle cabin

Il riparo dei «rennari»

Le cabin, rifugi molto spartani, hanno sostituito l’utilizzo dei lovvo, tende tipiche che oggi vengono utilizzate essenzialmente per affumicare la carne di renna. Ciononostante la vita nella cabin è tutt’altro che agevole: l’energia elettrica viene fornita da un generatore posto all’esterno della cabin stessa e non è presente acqua corrente.

Date le temperature rigide dell’inverno, all’interno della cabin raramente si superano i 15 gradi e si è costretti a stare in molti dentro spazi davvero risicati. Spesso infatti gli allevatori condividono un rifugio formato da due o tre piccole stanze, in sei o sette persone.

L’acqua per cucinare o lavare le stoviglie viene ottenuta grazie al ghiaccio che si forma sulla superficie dei laghi. Raccolto in contenitori di metallo, viene poi sciolto sul fuoco.

Il bagno non è ovviamente presente, si costruiscono delle piccole capanne in legno a circa 200 metri dalla cabin.

I Sami che seguono la transumanza spesso restano nella tundra per due o tre settimane, adattandosi così a un modo di vivere estremamente semplice e spartano.

V.T.

Sami, Valentina Tamborra

 




Affogati in un mare di plastica

testo di Rosanna Novara Topino |


La plastica è ormai ovunque: spiagge, fondali marini, stomaco di cetacei e pesci. Tutti i mari della terra sono inquinati da residui plastici. Con conseguenze devastanti.

Tutte le volte che, dopo una forte mareggiata, facciamo una passeggiata sul bagnasciuga di una qualsiasi località di mare dobbiamo evitare di calpestare oggetti (bottiglie, tappi, cannucce, contenitori vari, ecc.) e frammenti di plastica avvolti in resti di alghe. Sono anni che questo capita, ma la situazione ormai sta diventando insostenibile, come dimostrano i ritrovamenti sempre più frequenti di grossi cetacei spiaggiati che, all’autopsia, rivelano grandi quantità di plastica di ogni tipo nello stomaco. È capitato nell’aprile 2019 a Porto Cervo, dove si è arenato un giovane capodoglio femmina di 8 metri, in agonia dopo avere abortito un feto di 2,40 metri. Una volta morto, nello stomaco di questo esemplare sono stati rinvenuti sacchi neri, tubi corrugati, un involucro di detersivo, piatti usa e getta e sacchetti della spesa. La stessa sorte è toccata ad un capodoglio spiaggiato in Indonesia con 6 kg di plastica nello stomaco e ad uno morto per shock gastrico nelle Filippine, che ne aveva ben 40 kg.
Già negli anni ’70, il problema della plastica in mare allarmò gli scienziati, che ne predissero la pericolosità senza peraltro essere ascoltati finché nel 1997, di ritorno in California dalle Hawaii l’oceanografo e skipper Charles J. Moore trovò un’enorme quantità di plastica galleggiante al centro del Nord Pacifico, una vera e propria «isola» di plastica, denominata Great Pacific Garbage Patch. Ben presto ci si rese conto che non era l’unica. La plastica viene infatti trasportata attraverso l’oceano (inteso come insieme di tutti i mari della terra) grazie ai venti e alle correnti marine. Sono state rinvenute alte concentrazioni di detriti di plastica galleggianti nel Nord Atlantico, Sud Atlantico, Nord Pacifico, Sud Pacifico e Oceano Indiano.

Il Mediterraneo: piccolo mare, tanta plastica

A queste cinque zone se ne aggiunge un’altra, in cui la plastica si trova in concentrazione assai elevata, il mare Mediterraneo, anche se in esso non si trovano isole, essendo la plastica più dispersa. Per le sue peculiari caratteristiche geografiche, essendo un mare semichiuso, circondato da tre continenti e interessato da molteplici attività umane, il Mediterraneo, che rappresenta solo l’1% di tutti i mari, contiene una concentrazione di microplastica quasi 4 volte superiore a quella di una delle grandi isole oceaniche, raggiungendo il valore di 1,25 milioni di frammenti di microplastica per km2 mentre si arriva a 10mila frammenti per km2 nei sedimenti. Questa situazione è dovuta al fatto che, nel Mediterraneo, la plastica permane molto a lungo, senza fuoriuscirne e frantumandosi ripetutamente fino a raggiungere dimensioni infinitesimali. La plastica rappresenta circa il 95% di tutti i rifiuti rinvenuti nel Mediterraneo. Ogni anno nei mari europei, in primis proprio nel Mediterraneo, finiscono tra le 150mila e le 500mila tonnellate di macroplastica e tra le 70mila e le 130mila tonnellate di microplastica. Quella del Mediterraneo è il 7% della microplastica globale. I paesi che maggiormente rilasciano plastica nel Mediterraneo sono la Turchia (144 tonnellate/ giorno), la Spagna (126), l’Italia (90), l’Egitto (77) e la Francia (66). La popolazione costiera del Mediterraneo è di circa 150 milioni di persone, che producono tra i 208 e i 760 kg di rifiuti solidi urbani pro capite l’anno. Alla popolazione stanziale vanno aggiunti circa 200 milioni di turisti l’anno, che visitano le coste mediterranee, con un aumento del 40% dell’inquinamento soprattutto nella stagione estiva. Le principali vie fluviali della plastica verso il mare sono rappresentate dai grandi fiumi, che sfociano nel Mediterraneo come il Nilo, l’Ebro, il Rodano, il Po, il Ceyhan e il Seyhan. Oltre al danno ambientale, il notevole inquinamento da plastica nel Mediterraneo colpisce l’economia dei paesi costieri; ne risultano penalizzati soprattutto i settori della pesca e del turismo. Per quanto riguarda la pesca, la plastica provoca una riduzione del numero di catture, danni alle imbarcazioni e alle attrezzature e riduzione della domanda di prodotti ittici da parte dei consumatori, per timore di contaminazioni. In questo settore, l’Unione europea registra, a causa della plastica in mare, una perdita di circa 61,7 milioni di euro l’anno. Riguardo al turismo, spiagge e porti sporchi possono allontanare i turisti, con una ricaduta sui posti di lavoro in questo settore. Per scongiurare che accada tutto ciò, nelle località colpite aumentano i costi per la pulizia degli stabilimenti balneari e delle zone portuali.

© Collin Key

Plastica recuperata, bruciata, spedita

L’elevata presenza di plastica nel Mediterraneo è correlata alla produzione di questo materiale e alla sua dismissione. Dai dati del Wwf, l’Europa risulta il secondo produttore di plastica mondiale, dopo la Cina. Nel 2016 in Europa sono stati prodotti 60 milioni di tonnellate di plastica, di cui 27 milioni si sono trasformati in rifiuti. Solo il 31% dei rifiuti in plastica sono stati riciclati, il 27% è andato in discarica e il rimanente è stato utilizzato per il recupero energetico. In pratica attualmente viene riciclata solo un terzo della plastica prodotta, cioè quella del packaging e questo per motivi tecnici ed economici. Solo le plastiche omogenee, come quelle per gli imballaggi possono essere triturate, lavate, fuse e quindi rigranulate (la manifattura di prodotti plastici parte da granuli e piccole palline di resina dette pellets o nibs, come materia prima), mentre le plastiche miste, tra cui le pellicole per alimenti, finiscono nei termovalorizzatori e nei cementifici oppure in discarica. In quest’ultimo caso si crea un ulteriore problema perché spesso gli imprenditori che gestiscono le discariche, pur di non pagare per lo smaltimento della plastica stoccata, danno fuoco alla discarica (in Italia sono bruciate oltre 100 tra discariche e aziende di riciclaggio negli ultimi due anni) o ne inviano il contenuto in paesi con leggi ambientali poco efficaci a contrastare l’inquinamento, come la Malesia, che si sta trasformando nella nuova «Terra dei fuochi», dove bruciano sia i rifiuti locali che la spazzatura proveniente dall’Occidente. La combustione incontrollata della plastica genera il rilascio nell’ambiente di sottoprodotti altamente tossici per la salute, tra cui le diossine, i furani, i policlorobi-fenili (Pcb) e gli idrocarburi aromatici policiclici.

La plastica italiana

In Europa la produzione della plastica, che per il 90% prende origine da materie fossili, utilizza il 4-6% del totale di petrolio e gas usati in questo continente. Nell’area mediterranea, l’Italia è il maggiore produttore di manufatti in plastica (che rappresentano il 2% della produzione globale) con 8 milioni di tonnellate all’anno e genera 3,9 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica, di cui 0,5 milioni (13%) non vengono raccolti, 2,5 milioni finiscono in discarica o nell’inceneritore e un milione viene riciclato. In Italia si consumano ogni giorno 32 milioni di bottiglie di acqua minerale (in media 178 litri a testa all’anno); in questo abbiamo il primato europeo e siamo tra i primi al mondo. L’Italia rappresenta il secondo maggiore produttore di rifiuti che vengono rilasciati nel Mediterraneo. Per quanto riguarda la raccolta differenziata degli imballaggi in plastica (la sola tipologia di plastica riciclata in Italia), nel nostro paese esiste un forte divario regionale, passando dal 57% di raccolta differenziata nel Nord Est al 27% nel Sud. Il 13% dei rifiuti in plastica non viene raccolto per carenze infrastrutturali di alcuni comuni o regioni. Il ricorso alla discarica è maggiore al Sud (40%), rispetto al Centro (24%) e al Nord (12%). Al contrario, i termovalorizzatori sono più diffusi al Nord con 26 impianti su 37 presenti nel nostro paese.

Esaminando in dettagliato le percentuali della raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani per regione, si nota che in alcune regioni del Sud, come Sicilia, Molise, Calabria e Puglia, i cittadini e le aziende separano meno di 1/3 dei rifiuti, oppure questi non sono gestiti correttamente. Molto probabilmente sono due i problemi che andrebbero risolti in queste regioni: una maggiore informazione dei cittadini e una migliore organizzazione della raccolta differenziata. Andrebbe poi risolto, nelle regioni costiere ad elevato afflusso turistico come Liguria, Sicilia, Lazio e Campania, il problema del sovraccarico stagionale dei rifiuti, che può compromettere il sistema di gestione della raccolta differenziata.

La plastica dispersa

Ciò che non viene raccolto ha un’elevata probabilità di finire prima o poi in mare e l’Italia ogni anno disperde nel Mediterraneo 53mila tonnellate di plastica, di cui il 4% è trasportato dai fiumi (il Po trasporta il 3% del totale e il Tevere l’1%), il 18% deriva da attività in mare come pesca, acquacoltura e navigazione e il 78% deriva dalle attività costiere, da una cattiva gestione dei rifiuti, dal notevole afflusso turistico e da attività ricreative. Tra le città costiere che riversano più rifiuti in plastica ci sono Catania, Venezia, Bari, Roma, Palermo e Napoli.

Una volta dispersa in mare, il 65% della plastica rimane in superficie per circa un anno e può viaggiare per una decina d’anni sospinta dalle correnti e dal vento, ritornando infine sulle coste. Il 24% ritorna già entro un anno sulle nostre coste, che sono ulteriormente gravate di un altro 2% proveniente da altri paesi. I fondali marini contengono circa l’11% della plastica finita nel Mediterraneo, quindi un quantitativo nove volte inferiore a quello delle coste, ma quasi impossibile da rimuovere.

La Situazione italiana

Le coste italiane, essendo le più lunghe ed esposte del Mediterraneo, sono destinate a ricevere maggiori quantitativi di rifiuti, che si aggirano in media in 5,3 kg al giorno per km2. Nelle acque italiane, la concentrazione di plastica galleggiante è tra le più alte che si possano trovare nel Mediterraneo, con oltre 20 g/m3 di frammenti plastici nella zona del delta del Po e nella laguna di Venezia. L’inquinamento da plastica del mare e delle spiagge ha un notevole impatto su diversi settori dell’economia italiana. Si stimano perdite annue sui 30,3 milioni di euro nel settore del turismo.
L’Italia non dovrebbe dimenticarsi che il turismo costiero rappresenta il 12% del Pil nazionale. Sulla pesca si stimano perdite annue di circa 8,7 milioni di euro. Il commercio marittimo subisce delle perdite annue stimate in 28,44 milioni di euro a causa dell’attorcigliamento della plastica nelle eliche dei motori e del suo ingresso nei circuiti di raffreddamento, che si traducono in spese straordinarie di manutenzione, ritardi e inattività delle imbarcazioni. A questi si aggiunge l’aumento dei rischi di collisione. Ci sono poi i costi per le operazioni di pulizia degli impianti portuali, anch’essi a rischio di danneggiamento, che possono comportare il blocco delle vie di accesso e ritardi. La pulizia delle aree costiere, a sua volta, può essere più o meno costosa, a seconda del grado d’inquinamento e si può arrivare fino a 18mila euro per tonnellata di rifiuti per aree gravemente inquinate. Si stima che i costi annui per la pulizia di porti e di litorali in Italia siano di circa 16,6 milioni di euro. A tutto ciò vanno aggiunti i 40 milioni di euro di una sanzione, che è stata comminata all’Italia nel 2014 dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, per il mancato adeguamento di 44 siti adibiti a discarica alle norme di sicurezza della direttiva 99/331/EC. Detto questo, pur con i suoi limiti, l’Italia ha la più grande industria di riciclo di rifiuti di imballaggi di plastica del Mediterraneo e punta a raggiungere un tasso di riciclo del 55% entro il 2030.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte)


Cosa si trova

Spiagge della nostra inciviltà

Gli oggetti in plastica più comunemente rinvenuti sulle nostre spiagge sono piccoli frammenti, tappi, cotton fioc, pezzi di polistirolo, bottiglie, contenitori per alimenti, cannucce e posate. Oltre a questi, sulle nostre spiagge e in acqua si rinvengono spesso mozziconi di sigaretta, che vengono gettati ogni anno nella ragguardevole cifra di 3mila miliardi a livello globale e che rappresentano una notevole fonte d’inquinamento perché, una volta giunti in mare, rilasciano nicotina, catrame e la plastica che li compone, cioè l’acetato di cellulosa, che si disgrega in microplastica. I mozziconi, oltre a rappresentare una fonte di inquinamento, sono anche un grave pericolo per diverse specie di animali marini, che li scambiano per prede.

Pur essendo diversi i tipi di plastica prodotti, il 50% è rappresentato dalle seguenti tre tipologie:

  • polipropilene (PP), utilizzato per costruire cruscotti e paraurti di autoveicoli, tappi delle bottiglie, custodie dei CD, reti antigrandine, bicchierini per il caffè;
  • polietilene a bassa densità (LDPE), usato per sacchi di plastica e sacchetti della spesa, film da imballaggio, giocattoli, coperchi, tubi flessibili, contenitori, rivestimenti di cavi;
  • polietilene ad alta densità (HDPE), usato per cavi delle telecomunicazioni, tubazioni interrate, flaconi, bottiglie del latte, taniche, mobilio in plastica, zanzariere, tappi di bottiglia, fogli di plastica per isolare le discariche.

Per quanto riguarda la tipologia dei manufatti in plastica prodotti in Italia, il 42% è rappresentato dagli imballaggi (che costituiscono l’80% dei rifiuti in plastica, data la loro breve vita media); il 30% è rappresentato da manufatti utilizzati nei settori tessili, della casa, ricreativo e agricolo (che generano il 15% dei rifiuti in plastica); il 21% riguarda i settori di edilizia, costruzioni e trasporti (che generano solo il 2% di rifiuti in plastica, essendo materiali a lunga vita media); il 6% riguarda il settore elettrico/elettronico (che genera il 2% di rifiuti in plastica).

(Rnt)