Centocinquant’anni di evangelizzazione in Tanzania


Non reportage da Bagamoyo, ma racconto per ricordare la celebrazione dei 150 anni della evangelizzazione del Tanzania.

Testo di Marianna Micheluzzi – foto padre Francesco Bernardi

Manca circa una mezzora (sono le 9, 30 del mattino) all’inizio della grande celebrazione all’aperto nella enorme spianata di Bagamoyo, che guarda di rimpetto l’oceano. Proprio quello stesso oceano che, nel lontano 1868, consentì a padre Antornine Horner, un tedesco, missionario della Congregazione del Santo Spirito, di raggiungere la terra ferma provenendo da Zanzibar.

E noi siamo fermi, sotto un cielo azzurro e un sole cocente, a pochi metri dalla croce commemorativa che ricorda, appunto, la prima missione, la più antica, di Tanzania, fondata un secolo e mezzo fa.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, folla alla celebrazione

Una folla enorme, coloratissima e molto varia, anche per le fogge originali degli abiti, in particolare quelli femminili, comincia ad accalcarsi. Ci sono uomini e donne di tutte le età. Anziani, bambini e giovani. E ci sono pure i giovanissimi. Quelli, adolescenti, amanti dell’hip hop, che le mamme hanno tirato giù dal letto perché ci fossero anche loro alla festa. Si prevede una presenza di pubblico intorno alle circa 250 mila persone. L’evento, importante per il paese, era stato pubblicizzato a sufficienza in anticipo e nelle parrocchie e dai media. In particolare dalla radio, che arriva quasi ovunque, e ne ha dato notizia circa un mese prima.

Così il popolo di Tanzania, il popolo cattolico, che non vuole mancare all’appuntamento, c’è. C’è tutto e si fa sentire. È una festa, una festa grande. Qui si amano i raduni festosi dove, dopo l’ascolto è possibile anche cantare e ballare in segno di gioia condivisa. Non mancherà il rullo dei tamburi e neppure il suono del corno secondo la tradizione (anche biblica).

La gioia del Vangelo di cui si racconterà questa mattina ha cambiato, infatti, con la presenza missionaria, la vita di moltissime persone. È avvenuto nelle città e nelle campagne. Il Vangelo con le sue parabole, con i suoi insegnamenti mirati, ha accompagnato la gente nei momenti felici e pure in quelli un po’ meno felici. Il Vangelo è stato un autentico volano di promozione umana e sociale, e quindi di sviluppo. Nel paese e per il paese. Un paese dove c’è ovviamente ancora tantissimo da fare ma che, per la più parte, dati alla mano, ha iniziato da tempo ormai un buon cammino. E di certo lo continuerà.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, il coro

Risultati di grazia

Un percorso, quello della presenza missionaria cattolica, le cui tappe fondamentali traccerà questa mattina agevolmente l’oratore, e cioè padre Faustine Kamugisha, sacerdote cattolico della diocesi di Bukoba, noto negli ambienti cattolici e non solo, incaricato della celebrazione dalla Tec, la Conferenza episcopale del Tanzania. Padre Kamugisha, tra l’altro, ha scritto un libro che ha proprio per titolo: «I 150 anni di Evangelizzazione del Tanzania: la gioia del Vangelo». Un testo che ci dirà molto altro ancora sull’impegno missionario in Tanzania in quanto redatto da un tanzaniano, che ha scelto per la sua vita la strada del sacerdozio.

Logo dei 150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania

Ecco alcuni dati per comprendere l’impegno della Chiesa cattolica in Tanzania, che emergono dagli allegati acclusi al programma della celebrazione.

  • La Conferenza episcopale del Tanzania (Tec) comprende attualmente ben 34 Diocesi. Di strada, dagli inizi, possiamo dire che se ne è fatta davvero tanta anche se tanta altra ne resta ancora da fare.
  • 235 Scuole secondarie sono oggi il numero di istituti gestiti direttamente dalla Tec.
  • 75 sono, invece, i centri di formazione professionale, molto utili per la gioventù e perciò molto frequentati.
  • 4 sono le Università cattoliche a pieno titolo.
  • 55 sono gli Ospedali, sempre afferenti alla Tec così come 94 i Centri sanitari e 338 i Dispensari. Degli ospedali del Tanzania merita, per la sua eccellenza, d’essere ricordato in particolare l’ospedale di Ikonda, retto e gestito dai missionari della Consolata di Torino. Con un reparto apposito, unico nel territorio, dove sono ospitati i malati di Aids, purtroppo ancora dolente piaga d’Africa.

Tutto questo, uomini, cifre, risultati, è opera delle Missioni cattoliche, che tanto hanno dato in termini di accompagnamento e crescita alla popolazione locale. Popolazione che, di rimando, ha sempre ricambiato (va detto) e ricambia con riconoscenza e generosità. Il Tanzania, infatti, è uno dei paesi dell’Africa che, con il Kenya, conta tra l’altro un buon numero di vocazioni sacerdotali. Lo stesso dicasi per le vocazioni al femminile. E va anche ricordato l’impulso dato alla nascita di congregazioni locali.

Assieme alla presenza certa del presidente del Tanzania, John Pombe Magufuli, ai ministri locali e agli ambasciatori esteri, compreso quello italiano, nella concelebrazione lo spazio dell’omelia sarà riservato al presidente dell’assemblea. E cioè al cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi, in rappresentanza di Papa Francesco.

Bagamoyo, dalla schiavitù alla libertà

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, arrivo dei vescovi

Bagamoyo sappiamo che, storicamente, come città fu fondata alla fine del ‘700 (XVIII sec.) ma in precedenza, già nel 1400, era un territorio oggetto dell’occupazione araba (lo ricorda moltissimo infatti, ancora oggi, nelle sue architetture) e, purtroppo, fu porto di transito nei secoli successivi, quando divenne dominio dell’Oman (1750). Un porto idoneo al trasferimento degli schiavi nelle terre d’Arabia e dell’Asia. Schiavi che altro non erano che uomini e donne e bambini, rastrellati in paesi dell’Africa occidentale, nei numerosi villaggi rurali, trasferiti successivamente a Bagamoyo, imprigionati poi in una fortezza e infine venduti. Un Museo in Bagamoyo ne ricorda l’immane tragedia. La parola Bagamoyo significa nella lingua locale: «Uccidi il tuo cuore». Ovvero: «Perdi ogni speranza».

I missionari cattolici, quando arrivarono, costruirono il «Villaggio della libertà», dove poter ospitare appunto quegli schiavi che riuscivano a riscattare. Fu un’iniziativa che, in qualche modo, concorse poi a dare forza, gradualmente negli anni, al movimento abolizionista della schiavitù.

A ricordare i 150 di Missione cattolica, sempre in Bagamoyo, c’è anche un gigantesco baobab cresciuto in centocinquanta anni (1868-2018), che è ancora lì maestoso nel cortile della missione. E che merita d’essere visitato. Come lo merita anche il cimitero locale, che ricorda, con delle lapidi, i 50 missionari morti giovanissimi per malaria o altre malattie tropicali. Cosa che accadeva sovente, specie agli inizi della missione, perché non esisteva conoscenza adeguata di queste malattie, né tanto meno rimedi idonei a guarire chi ne fosse colpito.

Resta il fatto che il seme piantato da tanti missionari e missionarie, che si sono avvicendati negli anni in terra di Tanzania, ha dato senza dubbio i suoi frutti, se oggi il paese può guardare innanzi, agli anni che verranno, con una certa fiducia e un discreto ottimismo.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, fedeli da tutto il paese

Non sappiamo se padre Faustine Kamugisha oppure il cardinale Njue citeranno Nyerere, il grande presidente cattolico, il padre dell’Ushamàa, che tanto ha dato al suo Paese e alla sua gente, privilegiando da subito per il suo popolo quali priorità urgenti: il lavoro, l’istruzione, la salute, perché si potesse vivere tutti, ma proprio tutti, un’esistenza dignitosa.

E lo ha fatto, Nyerere, non va dimenticato, giorno dopo giorno, affiancando e condividendo sempre, in tutti gli anni della sua presidenza, il lavoro dei tanti missionari.

Il prossimo appuntamento in Tanzania, dopo quello odierno, sarà quello che celebrerà, tra pochi mesi, il giubileo di 100 anni dell’arrivo dei missionari della Consolata, nel 1919.

Testo di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, musicista




AIUTIAMOLI A CASA LORO /1


Dal sentito dire al toccare con mano, dai facili slogan alla conoscenza della realtà. “Aiutiamoli a casa loro” è una facile risposta quando non solo non si conosce, ma addirittura si tenta di allontanare un problema. Per noi è una provocazione che porta a impegnarci per una vera conoscenza della realtà.

Iniziamo un percorso di conoscenza delle realtà e dei paesi del mondo affinché possiamo comprendere bene che “casa loro” è già a casa nostra: dai prodotti dell’agroalimentare ai minerali, dal “land grabbing” al turismo… tante, tantissime materie prime che il mondo occidentale usa quotidianamente, che provengono da altrove e che troppo spesso sono frutto di sfruttamento più che di scambio alla pari, generando così anche conflitti che di volta in volta sono tacciati di essere scontri tribali o di religione, ma che, purtroppo, sottostanno a un potere economico delle nazioni ricche e delle loro multinazionali.

In questo primo appuntamento (Modica, Domus S. Petri – mercoledì 7 novembre 2018) desideriamo renderci conto delle tantissime risorse provenienti dai “paesi del terzo mondo” la cui economia però è gestita essenzialmente dai “paesi del primo mondo”, casa nostra appunto!

Padre Gianni Treglia
Comunità Missionaria Intercongregazionale di Modica

Incontro su “Aiutiamoli a Casa loro” /1 nella Domus Sancti Petri di Modica il 7 novembre 2018 con Mohamed Ba, senegalese, organizzato dalla Comunità missionaria intercongregazionale.


Si parla di immigrazione, se ne parla spesso. Purtroppo, ci si concentra solo sulla presenza dello straniero sulle nostre terre, vicino alle nostre case… e l’altro, il diverso, il forestiero, lo straniero di cui non conosciamo nulla, solo e semplicemente perché diverso, ci fa paura, è altro da noi, è altro da me. La nostra “sicurezza” si sente minacciata, il timore di rimanere espropriati del proprio buon vivere diventa ansia e questo genera in noi un istinto di protezione da cominciare a ergere muri, barriere, divisori e divisioni, col solo risultato, però, di non vivere sereni, di morire isolati.

Parlare di numeri, offrire statistiche, dati reali che dovrebbero demolire il pensiero di una “invasione dello straniero”, sembra non bastare ad arginare la percezione dell’uno che diventa cento, del due che sembra ventimila! Non volendo però passare per gente cattiva, men che meno razzisti, ci si rifugia in facili slogan: sarebbe bello che ognuno potesse vivere serenamente nei propri luoghi di origine, dove è nato e cresciuto, quindi “Aiutiamoli a casa loro”.

Se questo slogan nascondesse anche una buona intenzione da parte di chi lo pronuncia (più verosimilmente è un tentativo di allontanare e non volere il problema), cosa effettivamente significa? Basterebbe offrire un contributo economico ai paesi di provenienza degli stranieri per non averli più a casa nostra? Casa loro e casa nostra, qual è la distanza, quale l’interdipendenza? Forse che casa loro non è già presente a casa nostra nelle “cose” che usiamo? Quanto di casa nostra siamo proprietari a casa loro?

Aiutiamoli a casa loro! Il facile modo di dire, nato più dal sentito dire che da una reale volontà di fare qualcosa, diventa per noi, Comunità Missionaria Intercongregazionale di Modica, occasione per dare inizio a Percorsi di formazione all’Accoglienza e all’Integrazione, offrendo spunti di riflessione che conducano a una reale conoscenza dell’altro, dello straniero. Temi che ci facciano scoprire i popoli e le nazioni del mondo, la mobilità umana e le sue ragioni di cui, forse inconsapevoli, ne facciamo pienamente parte.

Il primo appuntamento di tali percorsi ci ha visti presenti in alcune classi di due scuole superiori di Modica, l’Istituto G. Verga e il Liceo Scientifico Galilei-Campailla, e in un incontro pubblico presso la Domus S. Petri, sempre a Modica.

L’Africa, la cui estensione è oltre tre volte superiore all’Europa, è fonte di immense risorse naturali, ricchissimo quindi per natura: petrolio, oro, diamanti, coltan, cotone, caffè, frutta… solo per citare qualcosa. Eppure, nell’immaginario collettivo, l’Africa è vista come il paese della povertà. Perché? In questo primo incontro si è cercato di rispondere proprio a questa domanda, perché? Perché tanta povertà in luoghi così ricchi?

Scoprire che tanta ricchezza è quotidianamente usata a “casa nostra”, dal caffè che mi risveglia al mattino al carburante che mi permette di usare l’auto, dalla maglietta bella che indosso al gioiello che porgo in regalo, forse non è novità. Sapere che tanta ricchezza non solo è usata a “casa nostra”, ma “casa nostra” ne è anche il proprietario “a casa loro”, forse non conviene dirlo ad alta voce. Proprio questo “inconveniente”, invece, dovrebbe stimolare le coscienze a pensare che per aiutarli a casa loro occorre una conversione nel senso della redistribuzione, della restituzione, della giustizia a partire da casa nostra.

La riflessione e testimonianza di Mohamed Ba, attore, scrittore, musicista, educatore, senegalese da vent’anni in Italia, ha aiutato giovani e adulti a ripercorrere secoli di presenza occidentale in Africa, presenza che ha via via generato schiavitù, colonialismo, accaparramento, sfruttamento… in nome di una sfrenata corsa al possedere che ci porta tutt’oggi a pensare che “chi non ha non è”. Senza alcuna vena rivendicativa ha invitato a fare memoria di tutto questo proprio per non ripetere gli errori commessi, piuttosto dare inizio a una nuova generazione che sappia cogliere le diversità come ricchezza, che sappia porre la persona al centro, prima dei beni materiali. Accogliere diventa così arricchimento e non più paura di perdere cose, casa e libertà. Accogliere l’altro ci fa diventare quello che realmente siamo, umani!

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Sorella morte


Così san Francesco chiamava la morte, sorella. Come ha chiamato sorella l’acqua, ma mentre le sue parole sull’acqua, sul sole e la natura sono diventare patrimonio comune, immortalate in bellissimi canti, la sua affettuosa familiarità con la morte non ha fatto presa. La morte è più matrigna cattiva che sorella. Eppure la morte è parte del vivere.
Un giorno, una signora che ha fatto l’ostetrica per tutta la vita, mi ha raccontato che alla prima lezione di ostetricia l’insegnante aveva detto: «Ricordatevi che si nasce per morire». Non se l’aspettava, perché era là per imparare ad accogliere la vita, ma con quella frase l’insegnate aveva, quasi banalmente, collocato la morte al suo posto naturale.

Non sono in vena di pensieri tristi, anche se novembre è associato alla morte e alla visita ai cimiteri, ma oggi il pensiero della morte non mi dà né tristezza né ansia. Anzi, al contrario, il pensiero della morte mi stimola a vivere meglio e con maggiore intensità una vita degna di questo nome.

Ogni momento come se fosse il primo, ogni momento come se fosse l’ultimo. Con intensità e scopo, senza ansia o frenesia. Gustandolo, perché «ora» è il momento più bello possibile. Senza sprecare tempo nell’attesa del giorno fortunato, dell’occasione, della situazione ideale. Questo momento è un dono unico. È un dono, non un peso, da vivere facendo le «opere belle» che rendono gloria a Dio (cfr. Mt 5,16), scegliendo cioè «tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode» (Fil 4,8). Vivere al massimo, ora, senza aspettare domani, prepara a morire per andare nelle «buone mani» di Dio. Mani sulle quali è scritto il mio nome.

Sorella morte, grazie perché sei un invito a vivere. E a vivere «bene» e in «bellezza». Anche se non è facile. Ci sono giorni di grande fatica in cui sembra che il sole non sorga. Giorni in cui ti guardi intorno e vedi gente senza gioia vivere con aggressività, con atteggiamenti autolesionisti, senza amore, senza un sorriso, senza speranza. Gente incapace di guardare in alto, presa com’è dai suoi traffici, dai suoi interessi, dalle sue paure. E ti sembra che i tuoi sforzi «per un mondo migliore» siano inutili. Ti domandi «chi me lo fa fare?». Ti verrebbe la voglia di chiuderti in te stesso, di smetterla di preoccuparti per gli altri, eterno Don Chisciotte che lotta contro «i mulini a vento». E senti forte il peso della solitudine.

Ma tutto cambia se proprio nei giorni bui incontri un volto sorridente e una faccia amica, se hai attorno a te persone che condividono i tuoi stessi sogni, un gruppo, una comunità di fede e di amore che guarda nella stessa direzione.

Avere una comunità che ascolta la stessa Parola, celebra la stessa Speranza, vive la stessa Carità, brucia della stessa Fede. Con la quale ridere e piangere, pregare e amare, lottare e sognare. Che ti carica sulle spalle quando sei stanco o quando cadi e ti chiede il meglio di te quando sei forte. Una comunità dove si cammina insieme e ognuno dona quello che è, senza arrivismi e competizioni. Un «popolo» che fa esperienza di esodo passando dall’essere un branco di «belve» a una famiglia di «uomini».

Tutto cambia quando incontri una comunità che è Chiesa, una Chiesa che è comunità.

Sorella morte, quanto vorrei che tu fossi per ciascuno di noi una vera maestra di vita, e non, come succede spesso, una scusa per diventare egoisti, attaccati alle nostre cose, arroccati nel nostro io, timorosi di tutti, chiusi nel nostro «particolare». Insegnaci a vivere con intensità e amore ogni attimo, qui e ora, costruendo relazioni di fraternità con chi cammina con noi, accettando la nostra debolezza e quella degli altri, costruendo ponti e abbattendo muri e barriere, curando questa casa che ci è stata affidata perché sia il posto sempre più bello in cui vivere insieme nell’attesa.
Aiutaci ad essere pronti a nascere alla Vita. Tu che sei la porta della luce, facci entrare nel giardino di pace e armonia nel quale, carichi solo dell’amore donato, come bambini finalmente ci buttiamo nelle braccia del Padre che tanto ci ama e ha preparato per noi la festa più bella.




Messico: E giunse il tempo di Amlo


Dal prossimo 1 dicembre, per la prima volta nella storia del paese, al governo ci sarà un uomo di sinistra: Andrés Manuel López Obrador. Conosciuto con l’acronimo di Amlo, 64 anni, il nuovo presidente è stato votato dal 53,19 per cento dei messicani, stanchi di corruzione, ingiustizie e di una violenza che pare inarrestabile. Lo attende un compito molto difficile.
Un’analisi di padre Jorge García Castillo che, a Città del Messico, dirige le riviste «Esquila Misional» e «Aguiluchos».

Andrés Manuel López Obrador (Amlo) durante l’ultimo comizio prima delle elezioni del 1° luglio. Foto: Francisco Estrada, Notimex / AFP.

Per molte ragioni, in buona parte negative, le elezioni generali messicane che si sono svolte lo scorso 1° luglio, sono state speciali: il Movimiento de Regeneración Nacional (Movimento di rigenerazione nazionale, Morena), fondato e guidato da Andrés Manuel López Obrador (detto Amlo), in coalizione con il Partido del Trabajo e il Partido Encuentro Social (Pes), ha vinto con percentuali mai viste prima.

Dall’altra parte, i grandi perdenti sono stati i due partiti con le maggiori radici politiche in Messico: il Partido Revolucionario Institucional (Partito rivoluzionario istituzionale, Pri) e il Partido Acción Nacional (Partito di azione nazionale, Pan). La parte peggiore è toccata al Pri, che per decenni aveva vinto in quasi tutte le contese elettorali fino a diventare ciò che il peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura, ha definito (già nel 1990) «una dittatura perfetta». I motivi della sua sconfitta? Lotte interne a vari livelli, l’elezione di José Antonio Meade (una persona grigia e discutibile) come candidato per la presidenza della Repubblica, la corruzione, il clientelismo, il coinvolgimento dell’ex presidente Carlos Salinas de Gortari [nella guerra sporca contro Amlo, ndr], il discredito derivante dal comportamento criminale di diversi governatori, membri di rilievo del partito, ecc.

Al momento delle elezioni, il presidente Peña Nieto aveva appena il 20% di approvazione del suo operato. La peggiore situazione nella storia del Pri, motivata da molte ragioni alle quali va aggiunto un caso estremo: la scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa (rapiti il 26-27 settembre 2014 e mai ritrovati ndr); una questione che rimane irrisolta fino ad oggi e che, di per sé, sarebbe sufficiente per far cadere molte personalità del mondo della politica e delle forze dell’ordine, incluso il presidente.

La campagna pre elettorale (in senso lato) è stata lunga, costosa, combattuta e logorante. Durante la stessa sono stati usati tutti i mezzi: denaro in quantità industriale, dibattiti, insulti, minacce e violenza. Non possiamo dimenticare, ad esempio, che più di 130 candidati a diverse cariche pubbliche sono stati uccisi nel tentativo di scoraggiare elettori e chi osava presentarsi. C’è stato persino un «processo per frode» nello stato del Messico e in Coahuila da parte del partito al potere.

Il presidente messicano uscente, Enrique Peña Nieto, a una parata militare. Foto: Daniel Aguilar – Presidencia de la Repu?blica Mexicana.

Amlo e una campagna lunga dodici anni

Prima di andare avanti, dobbiamo ricordare che il processo elettorale del 1° luglio ha avuto due livelli: uno federale che includeva la presidenza della Repubblica e il Congresso (128 senatori e 500 deputati della camera bassa) e uno locale per eleggere i governatori degli stati di Chiapas, Guanajuato, Jalisco, Morelos, Puebla, Tabasco, Veracruz e Yucatan, il capo del governo di Città del Messico, congressi locali, municipi e sindaci per un totale di 3.326 posizioni.

Niente e nessuno è riuscito a fermare un processo in cui i cittadini hanno deciso di andare a votare il 1° luglio. Nella gara hanno trionfato in modo schiacciante Andrés Manuel López Obrador e il movimento da lui guidato che ha vinto la maggioranza dei seggi nel Congresso, cinque governatori, i sindaci delle cinque maggiori città del paese e molti altri eletti in posti di minore rilevanza.

Hanno contribuito a questo successo travolgente la tenacia del politico nativo di Tabasco, che ha perseverato in una campagna elettorale durata 12 anni (Amlo si era già presentato nel 2006 e nel 2012, ndr) e le tante situazioni di corruzione, impunità, indegnità morale dei partiti di governo, suoi avversari, che hanno portato alla disintegrazione dello stato, di varie istituzioni e della stessa società civile.

Che paese troverà

A questo punto, è conveniente chiedersi e fare un’analisi del paese che Andrés Manuel López Obrador si troverà a governare. La risposta non è semplice perché c’è un «eccesso di diagnosi» e l’informazione che abbiamo è abbondante e, a volte, contraddittoria. Per evitare di perdersi in un mare di dati, ho scelto di dare un’occhiata a un libro intitolato ¿Y ahora qué? México ante el 2018 («Cosa succede ora? Il Messico prima del 2018»)1. Nel libro, 34 accademici e intellettuali fanno un’analisi sistematica dei fallimenti e delle carenze di questo paese; allo stesso tempo, propongono una serie di iniziative in vista di una radicale trasformazione della realtà.

Tra le questioni affrontate dal libro vi sono la corruzione, l’impunità, l’incompetenza dello stato, le elezioni truccate, il traffico di droga e gli errori compiuti nel combatterlo, l’abbandono della gioventù, la polizia traballante, le carceri come luoghi del crimine, la disuguaglianza, la disconnessione tra il mondo educativo e quello produttivo, le falle del sistema sanitario, il disordine federativo, la debolezza della politica estera, l’inefficienza amministrativa e molte altre piaghe. Tutte situazioni che mantengono il paese in un’arretratezza sistemica. Vediamo di analizzarne alcune.

La violenza

Nel dicembre 2006, Felipe Calderón del Pan, allora neoeletto presidente del Messico, prima delle accuse di brogli elettorali, dichiarò guerra al traffico di droga e lanciò un’offensiva militare e di polizia che non fece altro che peggiorare la situazione. Il presidente sbagliava nelle strategie e non teneva conto che il narcoterrorismo e le organizzazioni criminali a poco a poco erano diventati uno stato all’interno dello stato. In molte occasioni questi gruppi avevano armi più potenti di quelle delle forze dell’ordine ed erano meglio organizzati. A ciò si aggiungeva la complicità dei membri dell’esercito, della marina e della polizia e dei settori della società civile. Le incalcolabili ricchezze delle imprese criminali avevano permesso loro di acquistare il silenzio e la complicità di coloro che avrebbero dovuto proteggere la legalità e la giustizia.

Per quanto riguarda le cifre, in 12 anni di combattimenti contro la criminalità sono state giustiziate, secondo le stime più prudenti, più di 200mila persone senza contare le 35.000 scomparse. Questa situazione supera per la sua portata, la sua modalità e l’estrema crudeltà, quella di alcuni paesi che vivono una guerra dichiarata.

La questione più seria è che il problema è peggiorato invece di migliorare. Per alcune agenzie di stampa, tra cui Animal Político, durante i primi cinque mesi del 2018, ci sono stati più di 13mila omicidi; 2.890 dei quali si sono verificati a maggio, poche settimane prima delle elezioni. Inoltre, in diverse località e stati la percentuale di omicidi è aumentata senza poter fare nulla per evitarlo.

Questo è senza dubbio uno dei problemi più seri che il nuovo governo guidato da Amlo dovrà affrontare.

La corruzione e l’impunità

Su questo argomento, Maria Amparo Casar, nel libro citato, afferma che la corruzione è sistemica e l’impunità una regola che ammette poche eccezioni. I loro costi sono molto pesanti per il paese (p. 24).

Per l’analista, la situazione è aggravata dal fatto che «la lotta alla corruzione è nei programmi di governi e partiti, ma le promesse non sono state seguite da fatti concreti. In altri termini, riguardo alla corruzione, quasi tutto è stato detto e quasi nulla è stato fatto» (p. 33).

La scritta sul cartello ricorda la tragedia dei 43 studenti di Ayotzinapa: «Vivi se li sono portati via, vivi li rivogliamo». Foto di: Daniel Cima / CIDH.

L’illegalità

Collegato al problema precedente è la questione dell’illegalità. Secondo Héctor Raúl Solís, coautore del lavoro sopra citato, c’è una convinzione generale – per lui falsa – che i messicani siano corrotti per natura. «Allo stesso modo tutti – dal taquero dell’angolo che ruba l’elettricità al funzionario che devia milioni di pesos – soffriamo di un’innata tendenza a infrangere la legge» (p. 47). Per Solís questa convinzione è falsa perché «non tiene conto dei moltissimi messicani che ogni giorno si conformano alla legge» e, in ogni caso, la repubblica può essere rinnovata, non attraverso atti spettacolari ma piccole azioni che costruiscano l’istituzionalità necessaria (p.52).

Da parte sua, il famoso intellettuale e diplomatico José Ramón Cossio Díaz, scrivendo delle fratture legali che si verificano nel paese, dice che il Messico non ha uno stato di diritto o almeno esso è seriamente manomesso. In questo caso, ci sono due opzioni (p. 63): «Cercare un nuovo modello o persistere nell’attuale», consapevoli che «l’istituzione di uno stato di diritto in una società anonima, diseguale e ferita come quella messicana non è né semplice né veloce» (p. 65). Senza che tutto questo ci debba far cadere nella disperazione o nel cinismo, la lotta deve continuare. Questo è ciò che il popolo messicano si aspetta dalle persone e dalle istituzioni che governeranno il paese nei prossimi anni.

La povertà

Un altro dei grandi problemi che affliggono il Messico è quello della povertà, in particolare la povertà estrema, perché colpisce, secondo le parole del ricercatore John Scott, coautore del lavoro, «il diritto a risorse minime per la sopravvivenza», che «è il diritto umano più basilare» (p. 309). In effetti, in un paese come il Messico a reddito medio-alto, «la persistenza della povertà estrema è moralmente intollerabile» e rappresenta «un doppio fallimento in due aree: l’inclusione produttiva e la protezione sociale» (p. 310).

Lo sconforto di questo male endemico è stato il vessillo degli ultimi governi, anche se poco o nulla è stato fatto per sanarlo. In effetti, il divario tra ricchi e poveri continua a crescere e finora il capitale dei supermilionari aumenta esponenzialmente a scapito dei milioni di messicani che non hanno il minimo necessario. Il salario minimo è da considerarsi un attentato contro la vita e il benessere della maggioranza. Non è sufficiente (si tratta di circa 123 euro mensili, ndr) nemmeno per il paniere di base, tanto meno per coprire i bisogni di salute, educazione, abitazione e spazi di gioco.

Questo problema è una bomba a tempo che può esplodere in qualsiasi momento. Le persone sono stufe di soluzioni palliative e assistenziali che non fanno altro che perpetuare la povertà. Le risorse, in una nazione con un territorio prodigo e generoso, esistono. Solo che sono mal distribuite e, mentre alcuni nuotano nell’abbondanza, altri non hanno l’indispensabile.

L’offerta di Amlo

Alle 23:00 del 1° luglio, prima che vengano diffusi i risultati degli exit poll del suo trionfo, López Obrador convoca un meeting all’Hilton Hotel della Alameda Central (noto parco pubblico, ndr) a Città del Messico. Da lì tiene un discorso che riassume quello che sarà il suo modus operandi come presidente. Una folla osannante lo ascolta nel quartiere dell’hotel e applaude infervorata dal suo messaggio. Soprattutto quando tocca temi come la lotta alla corruzione e all’impunità, il protagonismo dei poveri e il rispetto delle differenze sessuali.

Il tono di questo primo discorso è cambiato radicalmente rispetto a quello portato avanti negli ultimi anni, specialmente durante la pre-campagna e la campagna elettorale. Il politico litigioso, ironico, creativo nell’arte dell’insulto e della minaccia, lascia il posto alla realpolitik e tende la mano a tutti con uno spirito conciliatorio e umanistico. Non parla più di mafie del potere né attacca il mondo degli affari. Al contrario, chiama tutti al dialogo e alla collaborazione.

Lo stesso tono viene usato nel discorso che rivolge pochi istanti dopo ai suoi seguaci concentrati nello Zócalo (piazza della Costituzione, cuore della capitale, ndr), a pochi metri dal Palazzo nazionale, dalla Cattedrale metropolitana e dal quartier generale del governo di Città del Messico.

La strada sarà lunga

Nelle settimane successive all’elezione, López Obrador ha iniziato una frenetica attività chiamando persone, aziende, istituzioni, media, a dialogare e far conoscere quale sarà la sua metodologia di lavoro, a presentare coloro che formeranno il suo gabinetto, a riferire su questioni fondamentali come gli stipendi dei dipendenti pubblici, la sua politica di austerità e decentramento, il trattamento degli ex presidenti e le proposte per combattere la violenza e la corruzione, tra le altre cose.

Niente ha potuto fermare questo processo verso la democrazia: le campagne di discredito, gli attacchi velati ed espliciti al politico del Tabasco, in particolare sui social network, l’avvertimento che la sua elezione avrebbe portato il Messico a una situazione simile a quella del Venezuela di Chávez e la Bolivia di Evo Morales, hanno prodotto l’effetto opposto.

Nella lunga e difficile strada verso la democrazia, la sconfitta del partito di governo e l’indiscutibile trionfo di Amlo segnano un nuovo modo di fare politica in Messico. Più che per il disgusto, la disillusione e il disprezzo verso la classe dei politici e un sistema marcio dalle radici, la gente ha votato per un uomo e un movimento che ispirano fiducia e speranza che le cose cambino.

Questo è ciò che noi messicani speriamo e desideriamo per il bene di tutti, specialmente per le maggioranze impoverite.

Jorge García Castillo

(fine prima puntata – continua)
Traduzione e adattamento del testo a cura di Paolo Moiola.

Note

(1) Aguilar Camín, Héctor et al., ¿Y ahora qué? México ante el 2018, Debate, segunda edición, Ciudad de México, febrero 2018.

La protesta di una donna che ha perso un proprio caro nella tragedia dei 43 studenti di Ayotzinapa. Foto: Leonardo Gonzalez / Fotografias emergentes


Politica e religione

Voto laico, ma non troppo

Il Messico è un paese a maggioranza cattolica, ma con una crescita esponenziale degli evangelici. Come sono state affrontate dalle Chiese le elezioni dello scorso luglio?

In Messico, come in molti altri paesi dell’America, non si può parlare più della «Chiesa», ma delle «Chiese» perché queste e il numero dei loro seguaci aumentano di giorno in giorno.

Su questo argomento, Leonardo Alvarez, l’11 maggio scorso, ha scritto sul quotidiano El Pais (nella sua versione internazionale): «Il Messico non sfugge al contesto latinoamericano che ha trasformato il culto evangelico in una forza elettorale importante e diffusa».

Cita anche l’esempio del Costa Rica, dove, ai primi di aprile, Fabricio Alvarado era sul punto di ottenere la vittoria elettorale con un programma marcatamente evangelico e, nel 2016, in Colombia, il voto maturato nei templi è stato decisivo per la vittoria del «No» nel plebiscito per la pace con le Farc. Ma, se prendiamo in considerazione la sua dimensione, non possiamo non citare il Brasile dove il gruppo parlamentare evangelico ha provocato la caduta e l’allontanamento della presidente Dilma Rousseff.

Per quanto riguarda il Messico, anche se l’articolo 40 della Costituzione lo definisce come un paese laico e la legge elettorale vieta partiti religiosi, il Partito incontro sociale (Pes) nelle elezioni del 1° luglio si è presentato in coalizione con il Movimento di rigenerazione nazionale (Morena) di Amlo.

Il Pes è stato fondato da Éric Flores, appartenente ad una chiesa evangelica, ed ha tra i suoi obiettivi la difesa dei valori tradizionali e della famiglia tradizionale. Situazione questa che contrasta con l’ideologia di Morena su questioni come il matrimonio di coppie omosessuali, l’aborto e la legalizzazione delle droghe. Per Roberto Blancarte, uno studioso di questo tema, l’unione tra Obrador e il Pes è «più spirituale che strategica», perché le chiese evangeliche, sorte soprattutto tra i settori emarginati, riproducono gli schemi dei cacicchi (cacicchismo, inteso come l’esercizio personalistico del potere, ndr), legati a una cultura autoritaria che trova analogie in López Obrador.

Venditore di lumini votivi per la Vergine di Guadalupe, molto venerata in Messico. Foto: Geraint Rowland.

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica messicana, la sua gerarchia non ha mai nascosto le sue preferenze per i candidati di destra e giudica la sinistra partendo da pregiudizi e paure, soprattutto su temi morali considerati non negoziabili. Mi riferisco a questioni quali il matrimonio omosessuale, l’aborto, l’eutanasia. Fino a un recente passato molti hanno collocato la Chiesa cattolica nel campo del conservatore Partito d’azione nazionale, in cui hanno militato cattolici e anche movimenti di estrema destra come Muro e Yunque (gruppi nati negli anni Sessanta, ndr).

Durante l’ultimo processo elettorale, in particolare nelle fasi della campagna, la gerarchia cattolica ha invece evitato di sbilanciarsi.

Più chiare e profetiche si sono dimostrate molte parrocchie, comunità di base, collettivi cattolici, comunità religiose e gruppi di vescovi, in particolare l’arcivescovo di Guadalajara, cardinale José Francisco Robles Ortega, e i vescovi di Veracruz. Tutti questi soggetti hanno accompagnato e guidato il popolo a votare in coscienza.

Jorge García Castillo

 

 




Con due anni di ritardo il Congo va al voto


Nella Repubblica democratica del Congo il mandato di Joseph Kabila è scaduto a dicembre 2016. Ma le elezioni sono state rimandate più volte. Finalmente la macchina organizzativa è in moto per realizzarle il 23 dicembre. Kabila ha deciso (a sorpresa) di rispettare la legge e non candidarsi alla presidenza. Però manda avanti un suo delfino e intanto ostacola gli oppositori. Sarà una tattica alla Putin?

Nessuno ci avrebbe scommesso. Si è dovuta attendere la sera dell’8 agosto (scadenza per la presentazione dei candidati alle presidenziali) per averne la certezza: Joseph Kabila non si è ricandidato. Dopo quasi due anni di balletti, slittamenti, bugie, sotterfugi e silenzi, tutto il paese temeva che il presidente, ancora assiso sullo scranno più alto nonostante il suo mandato sia scaduto nel dicembre 2016, avrebbe trovato qualche scappatornia legale, oppure avrebbe forzato le norme vigenti, pur di non abbandonare il potere. Del resto «così fan tutti» in Africa centrale. Dal Rwanda al Congo Brazzaville, passando per il Burundi e l’Uganda, i presidenti-padroni non mollano. E si temeva che Kabila, al potere dal 2001, non sarebbe stato da meno.

E invece no. Stavolta si andrà al voto senza di lui. Il suo partito, il Pprd (Parti du peuple pour la reconstruction et la democratie, partito del popolo per la ricostruzione e la democrazia), ha tenuto frenetiche riunioni fino all’ultimo giorno utile per presentare e registrare i candidati alle prossime elezioni presidenziali, fissate per il 23 dicembre. E alla fine dal cilindro è saltato fuori il nome del delfino designato: per la maggioranza presidenziale, a correre sarà Emmanuel Ramazani Shadary. Non a caso, forse (conoscendo un po’ le dietrologie di molti palazzi nella regione), tale candidatura è stata ufficializzata l’8 agosto 2018.

Emmanuel Ramazani Shadary / AFP PHOTO / Junior D. KANNAH

Il delfino del presidente

Cinquantasette anni, originario di Kabambare nella regione del Maniema (Est), da febbraio segretario permanente del Pprd, Shadary è stato ufficialmente designato candidato presidente per la coalizione Fcc (Front Commun pour le Congo, Fronte comune per il Congo), piattaforma elettorale di Kabila e dei suoi alleati. Come ricorda la rivista Jeune Afrique, Shadary è stato vice premier e ministro dell’Interno, ma soprattutto è stato colpito dalle sanzioni dell’Unione europea dal maggio 2017 per «ostacoli al processo elettorale e violazione dei diritti dell’uomo»: era infatti ministro dell’Interno e responsabile dei servizi di sicurezza durante la sanguinosa repressione delle manifestazioni anti Kabila e anti terzo mandato. A lui va attribuita anche la recente riforma elettorale, ritenuta favorevole al campo di Kabila, che autorizza in particolare l’uso delle «machines à voter» (macchine per votare), un esperimento che dovrebbe portare al voto elettronico sessanta milioni di abitanti spesso senza istruzione e senza alcun accesso a internet e ai moderni mezzi di comunicazione.

Ancora, Shadary era in carica durante la crisi nel Kasai, quando lo scorso anno la regione subì una fiammata di feroce violenza attribuita ai miliziani di Kamuina Nsapu, ma i cui contorni non sono mai stati chiariti e dove ha giocato un ruolo poco limpido l’esercito regolare, inviato a sedare la rivolta ma macchiatosi di esecuzioni sommarie. Ricordiamo fra gli altri il clamoroso e oscuro assassinio di due esperti delle Nazioni Unite, Zaida Catalan e Michael Sharp, che stavano investigando su numerose fosse comuni. Inchieste giornalistiche approfondite hanno portato all’evidenza elementi che mostrerebbero la complicità del governo nell’eliminazione dei due giovani internazionali.

Insomma, con un curriculum così, non c’è molto da stare tranquilli: il delfino di Kabila dimostra di essere «all’altezza» – si fa per dire – del suo predecessore e di volerne portare avanti lo «stile» di governo. Eppure, quando ne è stata ufficializzata la candidatura, tutti hanno tirato un sospiro di sollievo. Un paradosso, se vogliamo, che la dice lunga sulla situazione politica della Repubblica Democratica del Congo: gioire per la candidatura di un uomo colpito da sanzioni internazionali, semplicemente perché – quanto meno – la sua scelta ha garantito la non ricandidatura del suo capo.

Il presidente Joseph Kabila durante la  conferenza stampa del26 gennaio 2018 a Kinshasa. / AFP PHOTO / Thomas NICOLON / ALTERNATIVE CROP

Un candidato fantoccio?

Ora si apre tutta un’altra serie di valutazioni: quanta libertà di movimento avrà Shadary? Perché è stato scelto lui rispetto ad altri, più noti e più attesi, fra i fedelissimi di Kabila? Sarà una marionetta nelle mani di Kabila? Perché quest’ultimo, alla fine, ha accettato di non ripresentarsi? È presto per dirlo. Di certo, prima di giungere a questa mossa un po’ a sorpresa, Kabila ha agito per pararsi le spalle da conseguenze nefaste. Una volta tornato privato cittadino, infatti, nulla lo metterebbe al riparo da una denuncia alla Corte penale internazionale dell’Aja. Troppi i crimini a lui ascrivibili commessi negli anni che lo hanno visto padre padrone del Congo. All’interno del paese, tuttavia, non avrà problemi, poiché in base alla Costituzione diverrà automaticamente senatore a vita, con annessa immunità parlamentare. Non pago di ciò, a luglio ha fatto votare al parlamento una legge che gli garantisce anche tutta una serie di benefit e prebende.

Fedeli cattolici durante le proteste anti Kabila / AFP PHOTO / John WESSELS

Oppositori indesiderati

Dal canto suo, l’opposizione è ancora in fase di organizzazione.

L’ultima mossa dell’uscente Kabila è stata infatti quella di impedire la registrazione nell’elenco dei candidati presidenti a Moise Katumbi, quello che negli ultimi anni è stato il suo avversario numero uno. Ex governatore del Katanga, uomo ricchissimo, figlio di un greco ebreo sefardita e di una congolese, sposato con una burundo-ruandese tutsi (figlia di un ex ambasciatore ruandese in Belgio), Katumbi aveva già subìto tentativi di delegittimazione nel 2015, quando aveva lasciato la maggioranza presidenziale e il ruolo di governatore per predisporsi alla candidatura alle presidenziali. Nel 2016 fu prima aggredito da un poliziotto che tentò (pare) di avvelenarlo, poi condannato, in contumacia, a 36 mesi di detenzione «per la vendita di una casa non di sua proprietà», costringendolo a rimanere all’estero (dove era precipitosamente corso per farsi curare dal tentativo di avvelenamento) per evitare l’incarcerazione. Il 2 gennaio 2018 ufficializzò la sua candidatura alle presidenziali e il giorno dopo la sua residenza di Lubumbashi venne circondata dalla polizia, che lo accusava di arruolamento di mercenari. Katumbi ha sempre negato la fondatezza di questa accusa, sostenendo di aver semplicemente assunto una vigilanza privata per la sua sicurezza personale. Ma le accuse non erano finite: a maggio venne incolpato di sostenere la ribellione anti Kabila e addirittura di essere dietro l’epidemia di ebola scoppiata nella provincia dell’Equateur. A giugno le autorità congolesi gli revocarono il passaporto, causando il suo arresto a Bruxelles, mentre stava per prendere un aereo. Nel frattempo, in patria e nella diaspora circolavano le voci più disparate sulla sua nazionalità (addirittura dicevano che avesse un passaporto italiano). Insomma, una vera persecuzione mirata a indebolirlo e soprattutto a tenerlo lontano dal paese.

Fino al 3 agosto, quando, giunto in Zambia per entrare in Rdc e andare a registrarsi come candidato presidente, è stato bloccato alla frontiera per giorni, fino alla chiusura delle candidature. Una plateale scorrettezza, che lo ha per ora di fatto escluso dalla corsa, salvo sorprese.

Sul fiume Congo / foto Ennio Massignan

Il ritorno di Bemba

Una sorpresa, invece, è stato il (breve) ritorno in campo del rivale storico di Kabila, Jean-Pierre Bemba: nel 2006 era andato al ballottaggio contro il presidente uscente. La partita si era giocata anche a colpi di cannone. In quei giorni di settembre 2006 ero a Kinshasa e me lo ricordo bene: il centro città fu ostaggio delle truppe fedeli ai due, entrambi autodichiarati vincitori, che si fronteggiavano con armi pesanti e carri armati. Alla fine, Kabila ebbe la meglio. E Bemba cadde nelle maglie della giustizia internazionale, che lo portò a processo all’Aja per crimini contro l’umanità.

Bemba è figlio di un ricco industriale mobutista e per anni aveva avuto le sue truppe personali: un vero signore della guerra. Le sue milizie si erano macchiate di crimini orrendi nell’Est del Congo. Eppure, curiosamente, finì sotto accusa come responsabile per altri misfatti, che i suoi uomini avevano commesso in Repubblica Centrafricana. Bemba fu condannato in primo grado nel 2016 a 18 anni di carcere. Fino a che – a sorpresa – lo scorso 8 giugno la stessa corte lo assolse in appello. Una sorta di autorizzazione a rimettersi in gioco. Sta di fatto che Jean-Pierre Bemba è uscito dal carcere, ha potuto rientrare in Rdc e presentare la propria candidatura, insieme ad altre 24 persone. Fra i più noti, Félix Tshisekedi (figlio dell’eterno oppositore Etienne, deceduto un anno fa), Vital Kamerhe, Adolphe Muzito, Antornine Gizenga. Di Katumbi abbiamo detto. Per inciso, su 25 candidati, una sola è donna.

Ma mentre le opposizioni cercano la quadra per fare fronte comune e provare a sconfiggere la maggioranza presidenziale (la legge elettorale vigente, modificata da Kabila nel 2011 per garantirsi il secondo mandato, esclude infatti il ballottaggio: chi prende più voti al primo turno vince, anche con un venti per cento), ecco il nuovo colpo di scena: la Ceni (Commissione elettorale nazionale indipendente) boccia sei candidature, tra le quali proprio Bemba, che è stato sì prosciolto dall’accusa principale all’Aja, ma ha ancora pendente un giudizio secondario per corruzione di testimoni. Quindi, secondo la legge, non candidabile. E infatti, dopo la sua esclusione dalle liste elettorali, dall’Aja giunge il 17 settembre una condanna a 12 mesi per subornazione di testimoni.

E così, con una scusa o l’altra, gli avversari più temibili sono neutralizzati.

Giusy Baioni


Elezioni legislative

La macchina per il voto

Uno dei punti più discussi del programma elettorale riguarda la cosiddetta machine à voter: il 23 dicembre si dovrebbe infatti andare alle urne col voto elettronico. L’annuncio era stato dato il 31 dicembre 2017 da Corneille Nangaa, presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni). E aveva da subito creato scompiglio. Il timore di brogli è forte e ha portato le opposizioni e anche la Cenco (Conferenza episcopale nazionale congolese) a chiedere alla Ceni di rinunciarvi. Quest’ultima non cede, sostenendo che senza tale dispositivo elettronico non si farebbe in tempo a organizzare le elezioni per il 23 dicembre e che la macchina farebbe risparmiare denaro, oltre che tempo.

La nuova macchina per votare. / AFP PHOTO / John WESSELS

Prodotto dalla sudcoreana Miru Systems, è curioso che la stessa ambasciata sudcoreana a Kinshasa si sia presa la briga di sconsigliarne l’uso, per i rischi di irregolarità. Lo stesso dispositivo era stato preso in considerazione dal governo argentino per le elezioni del 2016, ma alcune organizzazioni della società civile si erano mobilitate contro tale ipotesi. Ingaggiando un hacker, avevano dimostrato che era possibile addirittura modificare il voto espresso dal singolo elettore mediante una semplice app sul cellulare. Le stesse associazioni (Fundación vía libre e Poder ciudadano) lo scorso aprile hanno scritto una lettera aperta alla società civile congolese, spiegando tutte le criticità del voto elettronico.

Ecco come funziona: sullo schermo touchscreen della machine à voter saranno visibili le foto dei candidati sia alla presidenza che alle elezioni legislative e provinciali. Il votante selezionerà una persona per ciascuna delle tre elezioni contemporanee e il dispositivo stamperà una scheda col relativo voto all’interno.

Per l’Argentina si trattava di un microchip inserito nella scheda (che l’hacker aveva potuto facilmente clonare e modificare), mentre nel caso congolese il presidente della Ceni Nangaa ha affermato che le schede non conterranno un microchip, troppo costoso, ma un più economico codice QR. Le associazioni argentine obiettano che il votante non è in grado di interpretare detto codice che – teoricamente – potrebbe anche corrispondere a tutt’altro, oppure permettere di identificare il votante. Insomma, nessuna garanzia di segretezza e validità. L’unica cosa certa è che tutte le opposizioni rigettano questo sistema di voto. E chi lo ha provato (fra gli altri, Bemba) ha impiegato parecchio tempo e ha affermato che è troppo complicato.

Ma non basta: una notizia del 14 luglio riportata dall’emittente nazionale Radio Okapi dà l’idea di quali e quanti rischi si stiano correndo. L’articolo titolava «Isangi: una baleniera immobilizzata dopo la scomparsa di una macchina per votare» e raccontava della collera dei commercianti bloccati con le loro merci su un mercantile fluviale, a causa della sparizione di una parte di un lotto che veniva inviato da Kisangani alla provincia della Tshopo per la sensibilizzazione pre voto. Non è dato sapere se sia stata ritrovata, quel che è certo è che il lotto viaggiava senza alcun controllo e che in un paese grande come l’Europa Occidentale tali episodi potrebbero ripetersi più e più volte.

Forte la preoccupazione espressa dall’Onu e secondo le opposizioni tale dispositivo potrebbe divenire fonte di contrasto anche post elettorale.

Giusy Baioni

Il Congo è in balia a una violenza diffusa / foto Irin




Venezuela: Un paese sotto anestesia


La situazione sociale, economica e politica è precaria, e peggiora rapidamente. Molti fuggono dal paese. I missionari della Consolata, presenti dalla capitale Caracas alle foci del rio Orinoco, hanno scelto di restare accanto alla gente alimentando la speranza e condividendo la vita con i più poveri.

«Volevo offrirvi un caffè, ma oggi non ho niente». Lo sfogo viene da una madre che riceve una visita a casa sua nella regione di Barlovento, stato di Miranda, in Venezuela. La situazione economica, politica e sociale del paese è così complicata che diventa difficile da capire. Con ampi poteri, il governo di Nicolás Maduro, seguendo il suo ispiratore, Hugo Chávez, controlla tutte le istituzioni e impone la sua ideologia. Forse è per questo che ci sono ancora persone che difendono la «Rivoluzione Bolivariana». Tuttavia, crescono le critiche non solo dell’opposizione, ma anche di alcuni settori della sinistra e della popolazione in generale che soffre le dure conseguenze di una disastrosa gestione economica.

Coda per comperare del cibo a Caracas

«Non c’è prospettiva per il futuro e la cosa più triste è che le persone si abituano a vivere male. Il Venezuela è un paese anestetizzato da una diffusa rassegnazione», dice padre Adan Ramirez, cancelliere della curia a Caracas, analizzando lo stato generale e lo spirito della popolazione.

Ci sono persone che credono nella possibilità concreta di un cambiamento, ma manca un leader per transformare questo desiderio in un progetto politico alternativo.

«Tra aprile e luglio (2017) in particolare, in varie parti del paese si sono svolte proteste di massa a favore e contro il governo. Il diritto di riunione pacifica non è stato garantito. Secondo i dati forniti dalle autorità, nel contesto di queste proteste di massa sono rimaste uccise almeno 120 persone e più di 1.777 sono state ferite, tra manifestanti, membri delle forze di sicurezza e passanti» (dal Rapporto annuale 2017-2018 di Amnesty International). Centinaia le persone arrestate.

La situazione già precaria sta peggiorando rapidamente. Sebbene il paese abbia grandi riserve di petrolio, l’iperinflazione ha spinto l’economia nel caos.

È un Venezuela in fiamme quello di oggi, di contrapposizioni forti e sanguinarie. Per questo si scorge quella rassegnazione che nasce quando, alzando gli occhi al cielo, non si vedono più le stelle.

La corruzione e la mancanza di beni di prima necessità colpiscono la popolazione che già soffre a causa della carenza di energia elettrica, acqua, gas, trasporti, farmaci e servizi pubblici.

Distribuzione di cibo a Carapita

Senza nessuna prospettiva di lavoro, milioni di venezuelani emigrano, soprattutto giovani e professionisti. Quasi tutte le famiglie hanno qualcuno all’estero. Molti genitori affidano i bambini ai nonni e se ne vanno fuori dal paese alla ricerca di fortuna.

Secondo il cardinale Baltazar Porras Cardozo, arcivescovo di Mérida e amministratore apostolico di Caracas, il paese non ha la forza di reagire. «I partiti di opposizione sono disabilitati, i loro leader sono incarcerati o costretti a fuggire all’estero. Le istituzioni sono controllate dal governo che domina anche l’economia. La paura è grande, soprattutto tra i giovani che sono disillusi», dice il cardinale, che sottolinea anche le sfide di questa crisi per la Chiesa: «Rilanciare la speranza e la fede del popolo, oltre che curare l’odio, frutto della polarizzazione».

Il Venezuela è il paese con le maggiori riserve di petrolio del mondo, e questo fa dell’oro nero l’unico motore dell’economia, rappresentando oltre il 95% dei proventi delle esportazioni. Nel 2014, un barile di petrolio era scambiato a 115 dollari americani. Oggi è valutato a 70 dollari, dopo essere sceso a 26 nel 2016.

Il governo di Maduro accusa «la borghesia» di creare una struttura economica che non favorisce lo sviluppo. Un altro nemico sempre citato nelle spiegazioni del presidente sono gli Stati Uniti che, secondo lui, interferiscono per destabilizzare il paese.

Missionaria della Consolata riuniti a Barquisimeto

La Consolata in Venezuela

In Venezuela lavorano 13 missionari della Consolata:

  • a Barlovento nelle parrocchie di Panaquire, El Clavo e Tapipa;
  • nell’archidiocesi e nella città di Barquisimeto, con un Centro di animazione missionaria (Cam);
  • nel vicariato di Tucupita tra gli indigeni Warao a Tucupita e
    Nabasanuka;
  • a Caracas nella la sede della delegazione, nel seminario propedeutico e di filosofia, e nella parrocchia di Carapita in periferia.

Oltre a soddisfare i bisogni materiali, i missionari si preoccupano di mantenere viva la speranza della gente con una presenza di consolazione spirituale.

I padri keniani, Charles Gachara Munyu e Silvano Ngugi Omuono, lavorano in tre parrocchie di Barlovento, nella diocesi di Guarenas, regione a 100 chilometri da Caracas, controllata da gruppi armati che operano impunemente. Per visitare le 36 piccole comunità del territorio, i missionari hanno bisogno di avvisare i capi di questi gruppi per non correre rischi. Anche la strada nazionale che dà accesso a Tapipa, Panaquire e El Clavo è controllata. «Spesso siamo fermati dai “malandros”, (come vengono chiamati i ragazzi) che minacciano e rubano gli oggetti di valore», afferma padre Silvano. Il missionario ha già avuto la pistola puntata alla testa quattro volte. In una di queste era acompagnato dal vescovo. «Ho pensato qualche volta di lasciare il paese, ma non sono venuto qui per la mia sicurezza. Credo che sia stato Dio a mandarmi, e così Egli mi proteggerà. Vedendo la situazione della gente e come apprezzano la nostra presenza, riprendo coraggio per continuare la mia missione».

Padre Charles Gachara Munyu

«Una volta assunta la missione dobbiamo lasciarci guidare dallo Spirito, con un cuore aperto alla gente, imparare dalla realtà per aiutare con quello che abbiamo. La nostra cultura è diversa, ma il contributo che diamo è quello di creare e formare le comunità di base che in Kenya sono forti».

Questa è la richiesta principale degli animatori, come fa notare il catechista di Panaquire, Frank Rondón: «Abbiamo bisogno di formare ministri della Parola e dell’Eucaristia, catechisti e altri leader che possano assumere il lavoro di animazione delle comunità e non dipendere, così, sempre dai padri».

Nella diocesi di Guarenas ci sono cinque parrocchie senza parroco, e i missionari della Consolata che già lavorano in tre parrocchie, stanno studiando la possibilità di assumerne una quarta a Caucagua, a 15 km da Tapipa.

Zone «calde e pericolose» attorno a Barlovento

La pastorale afro

A Barlovento la popolazione è afro americana. «Dopo oltre 30 anni di presenza, adesso possiamo concentrarci in modo più mirato sulla pastorale afro. È necessario creare consapevolezza che essere afrodiscendenti ha il suo valore che può essere integrato nell’esperienza della fede cristiana, con un impatto sulla società, la politica, l’educazione e la salute», afferma padre Charles, missionario con un master in Teologia Biblica. «Questo è un processo lento, ma dobbiamo stabilire alleanze con altre organizzazioni per ottenere i diritti. Per molti anni, la Chiesa non ha riconosciuto l’identità afro del popolo sostenendo che erano tutti venezuelani. La nostra presenza è un segno di speranza, ma dobbiamo ancora lavorare sulla resistenza», dice il padre, presente nel paese dal 2002.

I missionari non pensano solo ai sacramenti. «Non importa se celebriamo le messe o semplicemente facciamo una visita. Il fatto di andare a vedere la gente è sufficiente per dire che non sono soli. Le persone apprezzano molto l’amicizia», aggiunge padre Charles. Eduin Ruiz, uno dei coordinatori della pastorale afro, spiega che «l’obiettivo è riscattare l’identità e i valori della cultura negata nel corso della storia. Ciò richiede un lavoro di inculturazione del Vangelo». Padre Silvanus offre un piccolo esempio di forte potere simbolico: «La stessa campana suonata nel passato per avvertire della fuga di uno schiavo, oggi serve per invitare gli afro americani a partecipare alle celebrazioni».

La terra è ricca per coltivare il cacao, che sarebbe un potenziale economico per le famiglie, ma, purtroppo, il governo impone dei prezzi molto bassi rendendone impossibile il commercio. «La qualità dell’istruzione si sta deteriorando, molte scuole sono state chiuse e i giovani non ricevono una formazione professionale adeguata», lamenta Eduin Ruiz, che aggiunge: «In molte famiglie i bambini non possono contare sulla presenza del padre e finiscono per strada dove sono vittime di violenza, povertà e delinquenza. La nostra lotta è per la vita, contro la droga, l’alcolismo e l’insicurezza».

Periferia di Caracas dove c’è la parrocchia di Carapita.

Essere segni di Consolazione

In visita al Venezuela, padre Stefano Camerlengo, superiore generale, ha lasciato tre parole di incoraggiamento. «La Consolazione: che non è un’idea, una politica, ma Gesù Cristo il Salvatore; la Comunione: la comunità non è costituita solo dal padre, ma da tutti coloro che vivono e lavorano per i valori comuni; la Liberazione: come insiste il papa Francesco, essere Chiesa in uscita significa che non dobbiamo solo pregare tra noi, ma dobbiamo andare a cercare e includere gli altri nella proclamazione del Vangelo che è gioia e salvezza per tutti».

La gente ricorda con affetto tutti i missionari della Consolata che negli ultimi 30 anni hanno lavorato nella regione. La catechista Alejandrina Pimentel rammenta che «ognuno contribuisce con il suo carisma. Cerchiamo di capire tutti. Vado in chiesa per la mia fede e non per il prete», osserva. Pedro Vamonde vede l’importanza di continuare il lavoro: «La vicinanza ai missionari ci ha aiutato a cambiare. La Chiesa siamo noi e dobbiamo contribuire di più per sostenerla». I missionari della Consolata si sono stabiliti in Venezuela nel 1971 con il padre Giovanni Vespertini, nella diocesi di Trujillo. Con l’arrivo nel 1974 di padre Francesco Babbini e di altri, i missionari hanno esteso la loro presenza nell’arcidiocesi di Caracas. Anche le missionarie della Consolata hanno tre comunità nel paese, a Caracas, a Puerto Ayacucho e Tencua.

Jaime C. Patias, IMC,
 Consigliere Generale per l’America

assemblea parrocchiale a Carapita


Qualche cifra

Il 20 agosto 2018 è stato introdotto il nuovo «bolivar soberano» (BsS) dal valore di 100mila bolivares (Bs) vecchi.

1 $ = 61 BsS (mercato nero: 90)

Il 1 ottobre è stata lanciata la cryptovaluta «Petro» dal valore di 60 $, ufficialmente acquistabile dal 5 novembre 2018.

Prezzi di alcuni prodotti essenziali

prezzo ufficiale in BsS       in  nero

1 kg di carne              90           250
12 uova                     120           360
1 l di latte 49            120
1 kg pollo 78            180
1 kg di formaggio      80           300
1 l olio da cucina       36             80
1 kg di riso                 42             70
1 kg zucchero            32           120
1 kg farina polenta    20             30
1 kg farina bianca      54           150

1 l benzina regolare  0,70 (= 70mila Bs, prima costava 1 Bs)
1 l benzina premium                 0,90          (da 6 Bs)
1 l Diesel  0,50
Questi prezzi della benzina sono validi solo per chi ha il «carnet de la patria».

Salario minimo: da settembre 2018: 1.800 BsS (30 $ ca.)

Confronta con i prezzi pubblicati su MC giugno 2018, pag. 27

(Dati al 1/10/2018 da nostra fonte in loco)

Mariakoto, casa lungo uno dei rami del delta dell’Orinoco nel vicariato di Tucupita


Sostieneni il progetto degli Amici Missioni Consolata in favore degli indigeni Warao nel delta dell’Orinoco.

P. Juan Carlos Greco con parte della comunità di Janabasaida.




Preghiera 19. La preghiera traghetta nelle tempeste della vita


Proseguendo la puntata precedente [MC, ottobre 2018], continuiamo l’immersione nella Parola di Dio, pregando con il racconto della tempesta dominata da Gesù, come la racconta Marco (cfr. Mc 4,38-41), il primo degli evangelisti scrittori, che c’impegna in questa e nella prossima puntata del mese di dicembre. Gesù ha un progetto di mondo, di vita e di relazioni che chiama «regno di Dio». Esso riguarda tutta l’umanità, non è riservato a una categoria (religiosa, sociale o etnica), ma per sua natura è universale, quasi a dire che il Dio di cui è testimone si colloca al di sopra di ogni differenza o etnia storica: «Sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te» (Os 11,9). A questo progetto universale di «ben-essere» si oppongono le malattie, il sopruso, la povertà, la morte, la paura, il dubbio dell’assenza di Dio, il senso di abbandono anche da parte di Dio. Tutto attorno crolla, tutto è liquido come il mare. Chi si sveglia nel cuore della notte per recare soccorso? Chi grida al mare di tacere?

Nei Sinottici (Mc, Mt e Lc) il racconto della tempesta sedata è seguito dal racconto dell’esorcismo dell’indemoniato di Geràsa (Mc 5,1-20). Gesù domina le forze della natura (mare e tempesta) e le potenze che sottomettono l’uomo (i demoni). C’è un motivo teologico dietro questo schema: l’uomo Gesù testimonia la potenza di Dio che è sempre in uno «stato di esodo»: libera la creazione e l’umanità dalla schiavitù del male che le imprigiona. L’evangelista attribuisce a Gesù gli stessi poteri che l’AT attribuisce a Dio, creatore dell’universo e liberatore del suo popolo Israele, perché, come lui, impone alle acque di ritirarsi e, come lui, si prende cura di tutti gli Àdam e le Eva di ogni tempo, offrendo loro un giardino di felicità (cfr. Gen 1-3) che chiama «regno di Dio».

Siamo certi che l’interpretazione sia questa perché lo stesso evangelista (cfr. Mc 1,24-27) ha già descritto un racconto di esorcismo con la stessa struttura del racconto della tempesta. Solo leggendo in parallelo i due testi, si rende evidente l’obiettivo spiccatamente teologico di Mc, interessato a presentare Gesù come il rinnovatore dell’intera storia della salvezza. Egli, infatti, con la sua presenza e la sua testimonianza riporta il creato alle condizioni originarie, al loro «principio», domina gli spiriti del male che rendono schiava l’umanità, come fece il serpente nel giardino di Èden (Gen 3). Nello stesso tempo impone la propria autorità agli elementi della natura che gli ubbidiscono come avviene nel racconto sacerdotale della creazione (Gen 1), dove si afferma che tutto esistette in forza della parola: «Dio disse… e così fu» (Gen 1,3-29). «Parola e fatto», in ebraico «Dabàr». In Dio la Parola è sempre un fatto, mai è vana. Questo dovrebbe farci riflettere sul nostro concetto di preghiera, perché spesso le nostre sono solo parole vacue, stanche se non «morte parole».

Due racconti, un insegnamento

Gli ebrei e i cristiani che conoscevano molto bene la Bibbia ebraica e quella greca della LXX, erano spinti in questo modo ad abbinare la persona di Gesù con Yhwh creatore (cosmo), liberatore (esodo) e salvatore (Sinai). Ecco i due racconti in sinossi.

Tempesta sedata (Mc 4,38-41) Schema Esorcismo indemoniato (Mc 1,24-27)
4,38 Lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Rimproveri

a Gesù

1,24 «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio!».
4,39 Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Minacce

di Gesù

1,25 E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!».
4,39b Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Obbedienza

a Gesù

1,26 e

1,27b

E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui…
4,41 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare obbediscono?» Timore

e stupore

1,27a

 

1,28

Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!»

Gli stessi rimproveri di Gesù si trovano nella guarigione dell’uomo dalla mano inaridita (cfr. Mc 3,11-12). I due miracoli sono costruiti sullo stesso schema, hanno lo stesso significato e rispondono alla stessa domanda fondamentale: chi è Gesù? Con questi racconti, Mc risponde che Gesù è l’inviato di Dio, mandato a riprendere in mano l’opera creatrice iniziale compromessa da Àdam ed Eva. Questi rimasero sotto l’influsso e il dominio di Satana-serpente, ora il Figlio di Dio libera i loro figli dall’antico serpente/spirito impuro che vive nelle acque inferiori che domina la vita dell’uomo e la natura. La creazione, per responsabilità dei progenitori, fu assoggettata alla decomposizione (cfr. Rm 8,20-23) perché il peccato di Àdam ed Eva immise nel mondo la corruzione, la distruzione e la morte (v. diluvio in Gen 6,5-7,24) rimanendo sotto l’influenza delle potenze malvagie (cfr. Gb 38,1-11; Rm 8,19-23), mentre ora le potenze del male e della natura ritornano a essere sottomesse al «nuovo» creatore, venuto per introdurle in un regime di vita e di risurrezione che si chiama «regno di Dio» e che bisogna conquistare con determinazione (cfr. Lc 16,16 e Mt 11,12).

Preghiera:

Signore, se guardo la mia vita, la mia giornata, il mio lavoro, mi accorgo che, forse più spesso di quanto io stesso non creda, non «sento» la tua presenza e forse ti considero un «intruso», un ostacolo, specialmente quando sono costretto a scegliere tra i princìpi della coerenza credente e gli interessi della logica del mondo, secondo cui «così è la vita o così fan tutti». Mi accontento di una vita ordinaria, oserei dire banale. Spero anche che tu dorma, tranquillo sulla barca e io, pur rischiando, mi adagio nel mare del compromesso, del male minore, del conformismo, del silenzio complice, del «non posso farci niente». Mi è comodo pensare e credere che «il regno» tuo sia qualcosa da venire, oltre la morte, qualcosa che «tanto chi può verificarlo?». In fondo, vado a Messa, qualche volta prego, mi confesso ogni tanto. Di più non posso. Non mi accorgo che non si tratta di più o di meno, ma solo di «essere» e di apparire chi non sono.

Le quattro chiavi di Dio e di Gesù

Gli antichi nella loro concezione del mondo pensavano che il cielo fosse una calotta sferica trasparente capace di trattenere le acque superiori (pioggia), mentre, dalla parte opposta, i mari raccoglievano le acque inferiori, sede degli spiriti maligni e dimora del dragone apocalittico (cfr. Is 27,1; Ap 20,2-3). La calotta sferica celeste poggiava su colonne piantate sulla terra piatta che così formava una membrana divisoria tra «acque superiori» e «acque inferiori» (cfr. Gen 1,7). È lo schema usato da Dante per la Divina Commedia. Scende la pioggia perché Dio, che governa le acque, apre le cateratte del cielo e fa scendere la pioggia. Vi è, invece, la morte causata da carestia e siccità, quando Dio chiude le cateratte col chiavistello. Solo alla luce di questa concezione si capisce il Targum neòfiti (e anche il Targum frammentario) che commenta Gen 30,22 che dice: «Poi Dio si ricordò anche di Rachele, la esaudì e aprì il suo ventre». Così il targumista, ancora al tempo di Gesù, commentava questo versetto nella sinagoga:

Quattro chiavi sono nelle mani di Yhwh, signore dei secoli. Esse non sono affidate nemmeno a un angelo o a un serafino: la chiave della pioggia, la chiave del nutrimento, la chiave dei sepolcri e la chiave della sterilità. La chiave della pioggia perché è detto: Yhwh aprirà per voi il buon tesoro dei cieli (Dt 28,12). La chiave del nutrimento perché è detto: Tu apri la tua mano e sazi ogni vivente (Sal 145,16). La chiave dei sepolcri, perché è detto: Ecco, aprirò i vostri sepolcri e vi farò uscire. La chiave della sterilità, perché è detto: Yhwh si ricordò di Rachele nella sua misericordiosa bontà e Yhwh ascoltò la voce della preghiera di Rachele e decise per la sua parola di darle dei figli.

La tradizione delle quattro chiavi è presente in tutto il vangelo, che, pertanto, non può essere compreso se non alla luce non solo dell’AT, ma anche della tradizione giudaica:

La chiave dell’acqua:
«Disse al mare: “Taci, calmati!”» (Mc 4,39).

La chiave del nutrimento:
«Io sono il pane della vita» (Gv 6,35.48.51).

La chiave dei sepolcri:
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25).

La chiave della sterilità:
«Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, questi porta molto frutto» (Gv 15,5.2.4.8.16; cfr. Gv 12,24; Mt 13,23; Mc 4,20).

Nota esegetica:

Il termine «chiave» in ebraico si dice «maptèach» il cui acròstico (o natàricon) dà il seguente risultato:

MA       = MA?àr                      = Pioggia
P          = Parnàsa                   = Nutrimento
TEA      = Tehiàt hAmetìm     = Resurrezione dai morti
CH        = CHayyìm                 = Viventi

Le quattro chiavi che Yhwh non affida nemmeno a un angelo, sono nelle mani di Gesù che quindi è fiduciario di Yhwh che rende visibile e con la stessa potenza: in questo modo il vangelo di Marco intende affermare la sua divinità. I primi cristiani, infatti, provenivano dal giudaismo ed era facile che anche negli ambienti ebraici di lingua greca si fossero mantenute non poche tradizioni del giudaismo. Entriamo, ora, nel vivo del Vangelo (Mc 4,35-41) dando una traduzione più attenta, letterale, anche se meno estetica (cfr. Juan Mateos-Fernando Camacho, Il Vangelo di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico, vol. 1, Cittadella Editrice, Assisi 1997, 398-515).

Mc 4,35:
«In quel giorno, venuta la sera, disse Gesù loro: “Passiamo all’altra riva”».

La giornata è finita e invece di andarsene a riposare, come sarebbe giusto, Gesù invita i suoi discepoli a passare all’altra riva. Due versetti prima era sceso il buio dell’incomprensione, tanto che ai discepoli aveva dovuto spiegare le sue parabole in privato: «Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa» (Mc 4,33-34). Ciò, forse, può voler dire che per capire bisogna sapere già prima cosa si vuole, perché non c’è sordo peggiore di chi non vuole sentire. Viene sempre la sera come simbolo della morte e impone da sé il bilancio della giornata che anticipa quello della vita. Se si resta fermi dove si è stati non solo non si va avanti, ma si resta indietro. Bisogna avere coscienza che alla fine del proprio dovere, dell’impegno della propria coscienza, dopo che si è fatto tutto quello che potevamo e dovevamo (cfr. Lc 17,10), bisogna con tranquilla pace, avere ancora lo sguardo attento a scorgere «l’altra riva», perché il mondo non è cominciato né finisce con noi; c’è un futuro che aspetta di essere generato. Se è vero come dice Dante: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78), è ancora più vero che per il testimone c’è sempre un’altra riva che aspetta e solo l’orante ha barca e remi pronti per partire e arrivare.

La riva è sempre dall’altra parte se siamo disposti a «passare» le acque, cioè l’instabilità, l’insicurezza, la fragilità, l’incertezza, la paura di affogare, la mancanza di forze o forse di coraggio: in una parola, superare noi stessi. «Passare all’altra riva», significa non fermarsi e non smarrirsi su ieri e sul passato su cui non abbiamo alcun potere, ma assumere la dolcezza intrigante dell’avventura del domani e cominciare a esplorare la vita che non c’è ancora, nel segno dello Spirito che guarda al Regno di Dio, non al teatro delle debolezze umane. Pregare è «passare oltre» che è il significato di «Pesàch – Pasqua». Pregare, cioè andare all’altra riva, è, dunque, un comandamento di risurrezione, un’esigenza della vita e una vocazione alla disponibilità dell’accoglienza di ciò che la Provvidenza propone. I genitori che volessero i figli uguali e identici a se stessi, si illudono di potere fermare la vita, perché i figli sono già «oltre» i loro sogni e i loro orizzonti: sono «immagine e somiglianza di Dio» che essi possono solo adorare, contemplare, amare, sostenere, guidare. Mai fermare. Se è vero che senza passato non possiamo concepire il futuro – in questo senso il futuro è dietro di noi – quando ci avventuriamo nei sentieri imprevedibili di Dio, dobbiamo lanciarci non solo verso il futuro, ma addirittura verso l’escatologia, cioè verso il compimento finale che è la pienezza del passato e del presente. Il «regno di Dio», appunto.

Mc 4,36:
«Lasciando la folla, lo portarono via così com’era, nella barca, mentre stavano altre barche con lui».

Il successo, la vanità, l’auto-celebrazione sono fuori della logica di Gesù e del missionario-testimone. Queste debolezze sono tipiche del mondo pagano e dell’ambiente clericale-curiale che confonde la «Gloria di Dio» con la propria vanagloria; anzi, fa della «Gloria di Dio» il trono della propria vanità. Gesù non ha niente da portare con sé, se non se stesso: «lo presero con sé così com’era». Egli non è appesantito da bagagli e da bisogni: il suo bisogno è «andare all’altra riva», avanti a sé, nella barca, dove può anche apparire assente, se non si sa cogliere la sua presenza e le esigenze del suo essere. Per sfuggire all’inganno dell’illusione, è necessario avere qualcuno che «ci prenda con sé e ci porti sulla barca». Da soli possiamo più facilmente sbagliare, ma se ci lasciamo accompagnare da altri, allora è facile salvarsi. Nei momenti di fallimento, bisogna anche sapersi lasciare condurre, affidandosi. Noi, ciascuno di noi, siamo i custodi dell’altro che, per natura, ma lo diventa anche per grazia, è «la parte migliore di noi». Custodendo l’altro nella barca, cioè nella Chiesa, negli affetti, nella relazione, nell’amore, nel dovere, nell’amicizia, nel servizio, custodiamo il cuore di Dio e diventiamo «padri/madri adottivi» di quanti incontriamo. Gesù è capace di separazione e di lasciarsi trasportare dai discepoli che lo allontanano dalla folla e dalle altre barche. Quando l’autorità che governa la Chiesa saprà, sull’esempio di Gesù, affidarsi e fidarsi dei propri figli e discepoli, quel giorno, cominceranno a sorgere la terra e i cieli nuovi previsti dal profeta (cfr. Is 65,17; 66,22).

Preghiera attualizzante

Anche per me scende la sera e ho davanti due possibilità: dormire o passare all’altra riva. Alla presenza dello Spirito, cerco d’individuare le volte e le ragioni in cui mi sono addormentato per essere comodo, non disturbato e in che circostanze e con quali motivazioni, invece, ho deciso di passare all’altra riva.

La folla, cioè il bisogno di conferma, di approvazione o di adulazione o di sentirsi indispensabile, quanto posto occupa nella mia vita, nell’operare il mio lavoro, il ministero? Mi lascio portare come sono dallo Spirito o devo avere tutto sotto controllo perché «senza di me nulla è possibile fare?». Il mio potere di accentramento in una scala da 1 a 10, a che misura lo colloco?

La vanità è un valore per me? È così importante da adularla anche facendo finta di essere umile? Mi sono mai servito di «Dio» per imporre il mio pensiero, una mia idea, un mio sopruso?

Signore Gesù, custode delle quattro chiavi di Dio (acqua, pane, morte e vita), tu «che scruti le reni e il cuore» (Ger 11,20) e «conosci il mio cuore e i miei pensieri» (Sal 139/138,23), fa che nulla mi distragga da te e dal mio cammino verso di te perché possa imparare a imitarti come solo lo Spirito tuo può indicarmi e non la vanità che spesso si annida nelle forme più subdole di una spiritualità accomodante.

L’Eucaristia racchiude tutte e quattro le chiavi perché spezza il pane, disseta con acqua e vino, dona la vita e sconfigge la morte. Quante volte la «uso» con leggerezza, con abitudine, con distrazione, con fretta perché «urge» altro nella mia vita? Quante volte ho fatto in fretta per «sistemare le cose con te» e poi potermi dedicare ai miei affari, alle mie capacità, cioè ai miei interessi?

Temo la solitudine perché ho paura di me e questa non può che essere terrore di te, e per tenerti buono cerco di comprarti in qualche modo con preghiere raccogliticce, con tempi-scarto, dedicandomi a te tra un affare e l’altro. Signore, è tempo di purificazione e di verità, è tempo per me che io passi all’altra riva dentro la tua barca, così come sono. Signore, per favore, prendimi per mano e precedimi perché da solo non sono in grado e io sono troppo lontano anche dagli altri, dalla mia comunità, da quella Chiesa che spesso uso come stazione ferroviaria per timbrare un biglietto per un treno che non mi porta a te, ma mi fa tornare a me stesso. Sì, andiamo all’altra riva. Andiamo insieme, Signore Gesù: «Maranàh, thà. Signore, Vieni!» (1Cor16,22).

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-9].




Una controstoria del Novecento in ottica nonviolenta


Si può parlare del secolo racchiuso tra il 1918 e il 2018 come di un secolo di pace? A Torino, un gruppo di studiosi crede di sì: mettendo insieme diverse esperienze di pace e giustizia dei decenni passati in tutto il mondo, ha dato corpo a una vera e propria controstoria. Non sono solo le guerre e il sangue sparso a indirizzare la storia dell’umanità, ma anche, e soprattutto, le azioni di pace, gli atti e le lotte nonviolente, di cui il Novecento è costellato.

«La nostra memoria è selettiva. Si perde nel tempo restituendoci del passato solo ciò che rafforza i nostri schemi mentali e le nostre convinzioni. Il problema della difesa si fonda in gran parte sull’esperienza che ci proviene dal passato. Se la nostra memoria collettiva non conserva che i fatti violenti, è evidente che le soluzioni che troveremo per l’oggi al problema della guerra non potranno che essere soluzioni militari. Al contrario, se recuperiamo dal passato le tracce di un’altra storia, di un’altra difesa, di una resistenza non militare che ha mostrato qua e là la sua efficacia nel corso dei secoli, allora il moderno discorso sulla difesa non potrà che essere radicalmente trasformato», scrive il ricercatore francese Jacques Semelin, e ciò sintetizza bene le motivazioni alla base del progetto di ricerca che da alcuni anni viene portato avanti da un gruppo di lavoro del Centro studi Sereno Regis: far emergere la storia nascosta dei tentativi di costruzione della pace nel secolo appena trascorso, provare a ricostruire qualche tassello significativo dei «Cento anni di pace», come abbiamo intitolato il progetto, dalla prima guerra mondiale a oggi, per aprire speranze di futuro.

Nonviolenza, scultura di Fredrik Reuterswa?rd, Malmö, Sweden. Una versione di questa si trova anche davanti al Palazzo di Vetro di Ny, sede dell’Onu.

Un secolo di pace?

Ma il Novecento non è stato il secolo più violento della storia umana?
Come possiamo dire che è stato un secolo di pace?
Ovviamente, non intendiamo solo le pause tra guerra e guerra, impregnate dei disastrosi effetti della guerra precedente e dei germi infetti della successiva.

Non intendiamo le «paci» che i vincitori impongono ai vinti, perché esse non sono paci, ma il risultato della guerra: l’imposizione con la violenza della propria volontà al più debole. La «pace d’imperio» (Raimond Aron, Norberto Bobbio) non è la pace che soddisfa il diritto umano universale alla vita giusta e libera.

Quando questa sembra ai popoli un buon risultato, è spesso un’illusione, perché la realtà dimostra che «la vittoria non conduce mai alla pace» (Raimon Panikkar). La vittoria italiana nel 1918 fu la «madre del fascismo», come vantava lo stesso regime. La vittoria su Hitler nel 1945 tolse tardivamente un male gravissimo, ma generò altri grandi mali come la Guerra Fredda, enormi diseguaglianze umane, e la minaccia atomica sull’umanità.

Semi di pace

Che cosa intendiamo allora dicendo «cento anni di pace»? Vogliamo mostrare che «in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce» (M. K. Gandhi). In mezzo all’inferno della guerra persistono sorgenti genuine di pace giusta. È sbagliato disperare e lasciare che la violenza sia vista come regina della storia.

La migliore delle paci è quella che si verifica non prima o dopo la guerra, ma invece della guerra. È la pace che si attua preventivamente con il gestire i conflitti senza violenza.

Un’altra pace è quella desiderata come un sollievo, nonostante i suoi limiti, dopo una guerra.

Altrettanto coraggiosa e ammirevole è l’azione di pace fatta durante la guerra, che pone le basi alternative e sostanziali per il superamento della logica distruttiva della guerra stessa.

Nel travagliato cammino umano ci sono semi di pace che attendono di essere visti, coltivati, curati. Non trionfano, ma promettono, perciò ci impegnano.

Cerchiamo queste azioni promettenti nel mezzo delle diverse violenze del Novecento. E le riconosciamo in ogni atto che limita la violenza e riduce le sofferenze, ma specialmente le vediamo nelle lotte nonviolente. Queste ultime sono «lotte» perché non sopportano le ingiustizie e vogliono attivamente liberarne le comunità umane, e sono «nonviolente» perché scelgono di non usare la violenza omicida e distruttiva, ma le forze umane del coraggio, dell’empatia, dell’unità, della resistenza, della disobbedienza civile, dell’organizzazione politica alternativa.

Coerenza tra mezzi e fini

Caratteristica fondamentale della nonviolenza è l’omogeneità tra mezzi e fini, secondo l’insegnamento e le esperienze di Gandhi: «I mezzi possono essere paragonati al seme, e il fine all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero».

La cittadinanza nonviolenta ha come principio fondamentale la «non collaborazione al male», che esige il coraggio della disobbedienza civile all’ordine ingiusto: una disobbedienza leale, dichiarata, solidale che è la prima arma nonviolenta. Infatti nessun potere politico, economico o militare può imporsi se il popolo non collabora.

Questi principi sono fondamentali per un’autentica democrazia, conquista storica del Novecento contro le dittature violente, preziosa e delicata: la democrazia, infatti, si corrompe in «dittatura della maggioranza» (Alexis de Toqueville), quando diritti e dignità delle minoranze non sono rispettati, ma anche quando sono rispettati solo all’interno, mentre verso l’esterno si attuano politiche di dominio e di guerra.

Il superamento delle violenze

Tra gli obiettivi principali della nonviolenza, oltre al superamento delle violenze fisiche, armate, oltre alla lotta contro le violenze strutturali ed economiche, c’è la lotta contro la violenza culturale, la più profonda e nascosta, causa e giustificazione delle altre, la quale si manifesta spesso nella rassegnazione di fronte a ingiustizie e disuguaglianze.

Per superare la violenza occorre smettere di dare per scontato che la società sia per natura fatta di forti e deboli, di primi e ultimi, di affermati e scartati, in competizione individuale e nell’indifferenza verso il bene comune.

Proteggere la casa comune

Pacifisti e nonviolenti da sempre hanno manifestato contro i test nucleari e gli armamenti atomici, a difesa della sopravvivenza umana. Nello stesso tempo, altri movimenti hanno dato vita alle lotte per i diritti animali, per la protezione delle foreste, o contro i crescenti casi di inquinamento causati dalle attività industriali. Tuttavia, la percezione di «essere in guerra contro l’ambiente» è nata, nel pensiero occidentale, molto tardivamente. La parola «ecocidio» è recente: altre comunità da sempre riconoscono in Gaia, Madre Terra, la fonte di vita e la casa comune che ospita tutti i viventi.

Negli ultimi decenni un aumento drammatico di conflitti ha visto contrapporsi i detentori del potere economico/finanziario contro vaste comunità di contadini, pescatori, popoli indigeni, ma anche comunità locali dei paesi «sviluppati». In questi conflitti, gruppi sociali, associazioni, movimenti che condividono strategie e obiettivi nonviolenti organizzano proteste, marce, iniziative che – grazie alle crescenti reti di comunicazione – stanno assumendo dimensioni globali, e propongono nuove modalità di relazione con i sistemi naturali che ci ospitano.

Masanobu Fukuoka è stato un botanico e filosofo giapponese, pioniere di un metodo nonviolento di trattare il terreno agricolo.

Due casi esemplari

A titolo esemplificativo citiamo due esempi concreti di costruzione della pace dal basso.

Il primo è l’opera di mediazione svolta dalla comunità di Sant’Egidio in Mozambico, come testimonia Roberto Zuccolini, suo portavoce: «Il 4 ottobre 1992, festa di S. Francesco, a Roma, il presidente mozambicano e segretario del Frelimo, Joaquim Chissano e Afonso Dhlakama (scomparso di recente), leader della Renamo, la guerriglia che lottava contro il governo di Maputo, firmavano un Accordo generale di pace che metteva fine a 17 anni di guerra civile (centinaia di migliaia di morti; 3-4 milioni di sfollati interni e profughi nei paesi confinanti).

La firma concludeva un lungo processo negoziale, durato un anno e qualche mese, portato avanti nella sede della comunità di Sant’Egidio. Lì, a Trastevere, alcuni membri della comunità (il fondatore, Andrea Riccardi, e un prete, Matteo Zuppi, oggi arcivescovo di Bologna), un vescovo mozambicano (Jaime Gonçalves, ordinario di Beira) e un “facilitatore” espressione del governo italiano (Mario Raffaelli), avevano pazientemente tessuto un dialogo tra chi si combatteva in nome dell’ideologia e del potere. Avevano imbastito un quadro negoziale all’insegna dell’unità del popolo mozambicano, alla ricerca di ciò che unisce e non di ciò che divide.

Con l’Accordo generale di pace si stabiliva la consegna delle armi della guerriglia alle forze dell’Onu, l’integrazione degli ex combattenti nell’esercito regolare, le procedure di sminamento e di pacificazione delle zone rurali, una serie di passi destinati a trasformare il confronto armato tra le parti in una competizione fondata sulle regole costituzionali e democratiche. Le elezioni del 1994, le prime veramente libere nell’ex colonia portoghese, avrebbero sancito il successo dell’intero percorso negoziale e consegnato il Mozambico a una stagione nuova, fatta innanzitutto di pace».

Un altro caso esemplare è l’esperienza di Lucha nella Repubblica democratica del Congo. Dopo la morte di Lumumba, primo presidente dopo l’indipendenza, democraticamente eletto ma subito assassinato, e la lunga dittatura di Mobutu, il paese è nel caos, con milioni di morti, disastro economico e miseria nonostante la ricchezza di risorse.

Alcuni giovani, stanchi della violenza e dell’ingiustizia, attivano un movimento di intervento su problemi concreti e quotidiani, come, ad esempio, l’approvvigionamento dell’acqua. In poco tempo il movimento cresce e nel 2013 prende il nome di Lucha, abbreviazione di Lutte pour le Changement. Il logo del movimento è semplice: una freccia, e le sue iniziative sono comunicate tramite immagini e messaggi chiari e diretti, per coinvolgere tutti, nella convinzione che ognuno può fare qualcosa.

Il punto comune di tutte le azioni di Lucha è la nonviolenza, che richiede più tempo e pazienza della violenza, ma alla fine è più efficace, perché la guerra ha fallito.

«Coloro che accettano di morire nei gruppi armati», sta scritto in uno dei «fumetti» di Lucha, «non sono idioti o manipolati; qualcuno è riuscito a convincerli che stavano facendo qualcosa di bene per il loro paese, ma per noi la nonviolenza è il solo modo di difendere la propria causa rispettando la dignità delle persone». Una figura mostra persone che si tengono per mano, sedute in cerchio per terra, resistendo ai soldati armati.

Un obiettivo formativo per le nuove generazioni

La storia è memoria collettiva formata e narrata in modo da avere un significato. Nel fare storia si mette in atto un vitale rapporto passato-presente. Per questo è importante porsi il problema di come leggere il passato, perché da esso si possano trarre efficaci spunti di riflessione per il vivere civile della realtà odierna.

Due in particolare sembrano le concezioni che la storia contemporanea ha posto radicalmente in crisi: innanzitutto l’idea di progresso-sviluppo così come si è affermata nella storia dell’Occidente dall’età moderna a tutto il Novecento. Questo modello lineare e meccanicistico oggi rivela tutti i suoi limiti nelle conseguenze sociali e ambientali disastrose che ha prodotto. In secondo luogo appare in crisi l’idea di guerra-difesa come si è affermata dalla Rivoluzione francese in poi. L’armamento atomico sintetizza emblematicamente entrambi gli aspetti: è uno dei più importanti frutti del progresso-sviluppo raggiunto – nell’accezione principale che il termine ha nella cultura occidentale, cioè di progresso scientifico tecnologico -, ed è il più potente mezzo di guerra o, meglio, di dissuasione, cioè di quella forma assunta nella guerra fredda dai modelli di difesa. Alla luce di tali considerazioni, rendere visibile una contronarrazione di quanto è stato fatto per costruire percorsi di pace, affinché diventi parte integrante del bagaglio collettivo della società di oggi e del futuro, diventa un obiettivo importante da perseguire: per ridare speranza e fiducia alle nuove generazioni.

Se il XX secolo è stato infatti il secolo dei campi di sterminio, della bomba atomica, dell’allarme ambientale, del malsviluppo, è stato anche l’età di Gandhi, di Martin Luther King e delle rivoluzioni nonviolente in diverse parti del mondo.

La strategia nonviolenta di trasformazione dei conflitti appare oggi l’unica via razionale per risolvere le controversie, l’unica strada compatibile con la sopravvivenza dell’umanità.

Se dunque la storia è interpellata dai problemi del presente e se ogni storiografia è un particolare sguardo sul passato alla luce di essi, l’assunzione di un’ottica nonviolenta nella storia può avere oggi un grande significato e una forte rilevanza teorica e politica.

Angela Dogliotti
con
Dario Cambiano, Elena Camino, Paolo Candelari, Enrico Peyretti

 


La mostra «100 anni di pace»

Nel XX secolo si è manifestata la violenza delle due guerre mondiali, dei genocidi e delle distruzioni di massa, ma anche la novità della nonviolenza come dottrina politica che si è tradotta in nuove modalità di lotta e di liberazione.

La storia umana che dalle elementari all’università viene raccontata come un susseguirsi di guerre, si è costruita anche nei tempi di pace. Il progresso civile, le conquiste sociali e ambientali, i diritti, le Costituzioni, sono opera della lenta e tenace cooperazione tra le persone, non l’esito di conflitti violenti.

La mostra «100 anni di pace»

La mostra presenta in tre sezioni alcune delle tante realtà di nonviolenza attiva che hanno segnato l’ultimo secolo.

1 – No alla guerra: superare l’idea di nemico. La pace dentro la guerra, la resistenza contro la guerra e la resistenza civile. I movimenti e le azioni nonviolente contro il militarismo e per l’obiezione di coscienza, i movimenti antinucleari. L’alternativa nonviolenta alla guerra: un’altra difesa è possibile.

2 – «Satyagraha»: la forza della nonviolenza per costruire giustizia. La resistenza nonviolenta contro il colonialismo. I movimenti per i diritti civili e la giustizia economica e sociale. La resistenza nonviolenta contro occupazioni, dittature e totalitarismi.

3 – Gaia, la nostra casa comune: fare la pace con la natura. La resistenza contro le violenze verso i socio-eco-sistemi. Dall’ecocidio all’inclusione.

Tempi e modi per visitarla

Dal 4 al 30 novembre presso il Centro studi Sereno Regis, Via Garibaldi 13, Torino, con ingresso gratuito.

Visite libere al pubblico al pomeriggio (in orario preserale da confermare).
Per le scuole, al mattino con due turni: 8.30-11.00 e 11.00-13,30.

Per info e iscrizioni alla visita guidata, inviare una mail a
prenotazioniclassi@100annidipace.org

indicando nome e cognome del/la docente, mail e, possibilmente, un recapito telefonico, scuola, classi e materie di insegnamento.

www.100annidipace.org/


Il Centro studi Sereno Regis

Il Cssr è una Onlus che promuove ricerca, educazione e azioni sui temi della partecipazione politica, della difesa popolare nonviolenta, dell’educazione alla pace e all’interculturalità, della trasformazione nonviolenta dei conflitti, dei modelli di sviluppo, delle energie rinnovabili e dell’ecologia.

Costituito nel 1982 su iniziativa del Movimento internazionale della riconciliazione e del Movimento nonviolento, dopo la prematura scomparsa di Domenico Sereno Regis, uno dei fondatori, nel gennaio 1984, il Centro fu intitolato alla sua memoria.

Il Cssr promuove iniziative culturali e ricerche in collaborazione con alcuni dei più significativi centri di ricerca per la pace nel mondo, ad esempio la Rete Trascend, fondata da Johan Galtung per la trasformazione dei conflitti su scala locale e internazionale.

Il Centro studi è una struttura aperta alla collaborazione con altre associazioni e realizza le sue attività grazie al concorso dei soci, dei collaboratori, di giovani in servizio civile, volontari, e grazie al contributo di privati, di enti locali e fondazioni.

Per Info: http://serenoregis.org/

Centro studi Sereno Regis, via Garibaldi, 13 – Torino
Mail: info@serenoregis.org – Tel. +39 011532824




I corridoi umanitari per vincere il traffico (di migranti)


La normativa dell’Unione europea prevede la possibilità di emettere un numero limitato di visti relativi a un singolo paese. Su questo alcune istituzioni cristiane, cattoliche ed evangeliche, hanno trovato un accordo con il governo (della passata legislatura). L’idea è portare in Italia persone particolarmente bisognose. Dopo l’arrivo è pure previsto un percorso d’integrazione. Anche se i numeri non sono enormi, si tratta comunque di oltre un migliaio di rifugiati. E l’accordo potrebbe essere rinnovato con il nuovo governo.

Abeba aveva una malformazione cardiaca. Se non l’avessero operata subito, quasi certamente sarebbe morta. In Etiopia non era possibile. Non ci sono le strutture per i cittadini, ancora meno per i profughi. Lei, piccola eritrea, è però riuscita a venire in Italia ed è stata operata all’ospedale Bambin Gesù di Roma. Così si è salvata. E ciò grazie ai corridoi umanitari organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alla Conferenza episcopale italiana (Cei), il governo di Roma e quello di Addis Abeba.

I corridoi umanitari nascono da una collaborazione tra il governo italiano (ministeri degli Affari esteri e dell’Interno), la Comuntà di Sant’Egidio, la Cei, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) e la Tavola Valdese. Queste ultime due istituzioni si sono occupate in particolare di rifugiati siriani provenienti dai campi profughi del Libano.

Descriviamo qui il corridoio Etiopia-Italia, mentre parleremo del secondo canale, Libano-Italia, nella prossima puntata.

Campione di accoglienza

È un’operazione che, dal novembre 2017, ha permesso di portare in Italia dall’Etiopia 327 eritrei, somali, sudsudanesi. E, tra ottobre e gennaio, ne farà arrivare altri 173. L’Etiopia si trova geograficamente al centro di conflitti e sofferenze. Il paese ospita un milione di profughi in fuga da guerre, carestie e persecuzioni. È una delle nazioni al mondo che accoglie più rifugiati. Una parte consistente arriva dal Sud Sudan, nazione sconvolta da una guerra che, dal 2013, ha causato migliaia di morti e quattro milioni di sfollati, persone che hanno lasciato la casa per cercare rifugio in altre zone del paese o all’estero (vedi MC ottobre 2018).

In Etiopia arrivano anche molti somali in fuga da un conflitto lungo quasi trent’anni che ha causato circa 500mila morti, e da un terrorismo islamico sempre presente e violento (Al Shabaab, vedi dossier MC maggio 2018).

Dal Nord, poi, arrivano gli eritrei, in fuga da un regime paranoico non dissimile da quello nordcoreano, il più dittatoriale di tutta l’Africa, e gli yemeniti, vittime di un conflitto civile senza quartiere che ha trasformato il gioiello della penisola araba in un inferno costellato di crimini di guerra.

«I corridoi umanitari – spiega Giancarlo Penza della Comunità di Sant’Egidio – sono un modo per far arrivare nel nostro paese i rifugiati senza che questi debbano finire nel tritacarne del traffico di uomini, e con la certezza che riusciranno a integrarsi in modo serio nella nostra società».

Una veglia organizzata dalla diocesi di Noto, insieme con la Caritas diocesana, la fondazione Migrantes, l’associazione We Care e il comune di Pozzallo. Con il Vicario generale della diocesi di Noto, Mons. Angelo Giurdanella

Cosa sono i corridoi umanitari

L’idea è nata nel 2011. Di fronte alle continue stragi del mare, i membri della Comunità di Sant’Egidio si sono interrogati sul fenomeno e, stimolati anche da papa Francesco che ha dedicato il suo primo viaggio pastorale proprio ai migranti recandosi a Lampedusa, hanno deciso di scendere in campo.

«Dopo un attento studio delle leggi – continua Penza -, abbiamo scoperto che il codice dei visti offre la possibilità ai singoli paesi europei di concedere un numero annuale di visti “a territorialità limitata” che valgono cioè solo per il paese che li rilascia. Abbiamo così proposto al governo italiano di concedere nullaosta a persone vulnerabili sottraendole ai viaggi della disperazione».

Il governo ha dato il suo assenso e così a novembre 2017 è partito il primo gruppo dall’Etiopia. Le persone sono scelte tra le categorie più deboli: malati (soprattutto i bambini come Abeba), vedove, giovani che hanno subito carcere e torture. «Sono individui – osserva Penza – che ci vengono indicati da organizzazioni religiose che lavorano in loco, ma anche dall’agenzia etiope per i rifugiati e dall’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) con le quali collaboriamo strettamente. Una volta individuati, i rifugiati giungono in Italia e qui chiedono il diritto d’asilo. Il vantaggio è doppio: i migranti non devono sobbarcarsi viaggi lunghissimi e pieni di pericoli; l’Italia conosce fin dall’inizio chi giungerà sul proprio territorio, perché già in Etiopia ha fatto una selezione tra chi ha presentato la domanda di visto».

Integrazione?

I corridoi umanitari permettono però di superare anche il problema dell’integrazione, lo scoglio più grande per chi arriva nel nostro paese. «L’Italia non ha un problema d’immigrazione, ma di integrazione – osserva l’ex viceministro agli Esteri, Mario Giro, da sempre legato alla Comunità di Sant’Egidio -. A questo riguardo il progetto dei corridoi umanitari ha molto da dire: il modello di accoglienza diffusa sta mostrando quanto l’integrazione non sia solo possibile ma è il nostro futuro».

Nel nostro paese, i rifugiati non vengono infatti lasciati a loro stessi. Sono accolti in 13 delle 20 regioni italiane (Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria, Veneto) presso parrocchie, appartamenti di privati e istituti religiosi. Qui possono contare sul supporto di famiglie italiane che si occupano di accompagnare il percorso di integrazione sociale e lavorativa sul territorio, garantendo servizi, corsi di lingua italiana, inserimento scolastico per i minori, cure mediche adeguate.

La Caritas di Ragusa, per esempio, ha ospitato Mohamed Abdi, 54 anni, la moglie Kadija Hussen, 31 anni e cinque bambini tra i 2 e 15 anni. La famiglia, pur di fede islamica, è dovuta fuggire a causa delle minacce di un gruppo musulmano fondamentalista. Una delle bimbe è affetta da lupus, una malattia cronica autornimmune. Un fratellino è già morto a causa della stessa patologia. La Caritas di Ventimiglia ha invece ospitato un papà del Sud Sudan con i suoi due bambini, la bimba ha un grave problema a un occhio.

Come si pagano i corridoi

Ma chi paga l’arrivo, l’accoglienza e l’assistenza in Italia? Il progetto è nato dalla collaborazione tra Comunità di Sant’Egidio e la Conferenza episcopale italiana che copre la maggior parte dei costi grazie ai fondi dell’8 per mille (quello della Fcei, con l’8 per mille della Tavola Valdese, ndr). Altri fondi arrivano da donazioni private. «Allo stato – continua Penza – questa operazione non costa nulla. A fine anno, la convenzione scadrà. Stiamo trattando per rinnovare il protocollo. Nonostante sia cambiato il governo e l’attuale compagine abbia posizioni molto dure sull’immigrazione, finora abbiamo trovato ampia disponibilità. Speriamo davvero di poter ripristinare un sistema che ha permesso di salvare vite umane. L’obiettivo è di alzare l’asticella chiedendo i visti per 600 rifugiati provenienti dall’Etiopia e da altri paesi».

In questo senso fanno ben sperare le parole del premier Giuseppe Conte pronunciate a margine della visita nella sede della Comunità di Sant’Egidio a Roma, dove ha incontrato profughi, anziani e disabili: «La Comunità di Sant’Egidio ha varato in passato protocolli per realizzare corridoi umanitari. Sono iniziative importanti perché fanno arrivare in Italia migranti che hanno diritto alla protezione umanitaria. Numeri specifici, persone individuate. Si tratta di immigrazione regolare».

«La speranza è che in Italia si ripeta questa esperienza – ha dichiarato monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza episcopale italiana accogliendo i primi rifugiati arrivati nel novembre 2017 -. Questi corridoi umanitari devono diventare una prassi consolidata, affinché chi ne ha bisogno possa realizzare il suo sogno di vivere con dignità. Questa esperienza non nasce oggi, ma si pone a fianco di altre iniziative che la Chiesa italiana sviluppa in questi paesi di migrazione e transito da più di 30 anni».

Enrico Casale
(prima puntata – continua)




Chi dice donna dice… dono


Quest’anno, per la nostra campagna di Natale, parliamo di donne: tanto preziose quanto poco valorizzate in molti dei paesi nei quali lavorano i missionari della Consolata. Le seguiamo in tutte le fasi della loro vita: bambine, ragazze, adulte, anziane, studentesse, lavoratrici, madri, nonne.

«Tanto tempo fa in un discorso fatto all’Onu dissi che volevamo che gli uomini facessero qualcosa per noi. Quel tempo è passato. Non chiederemo agli uomini di cambiare il mondo, lo faremo noi stesse». Così si è rivolta al World Economic Forum di Davos lo scorso gennaio Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace 2014, attivista pachistana per il diritto all’istruzione che nel 2009 i talebani cercarono di zittire sparandole alla testa. Malala ha esortato ogni donna e bambina a farsi sentire, denunciando le discriminazioni e violenze che vedono nelle loro comunità e nelle loro società.

Se le donne e le bambine del mondo decidessero di farsi sentire tutte contemporaneamente, il pianeta diventerebbe un posto piuttosto rumoroso. Risuonerebbero, infatti, le parole di protesta di 34 milioni di bambine in età da scuola elementare che non sono in classe; più forte di tutte sarebbe la voce di 15 milioni di potenziali alunne – 9 milioni nella sola Africa – che probabilmente in un’aula non ci metteranno mai piede.

Si sentirebbe inoltre il lamento del miliardo e duecento milioni di donne che nel corso della vita hanno subito violenza fisica o sessuale almeno una volta e di 750 milioni di donne che si sono sposate prima dei 18 anni. Oggi continuano a essere costrette al matrimonio almeno 23 bambine al minuto, per un totale di 12 milioni all’anno@. Si udirebbe senz’altro il grido di dolore – e in questo caso non è un’espressione retorica – di 200 milioni di donne e bambine che hanno subito una forma di mutilazione genitale in trenta paesi del mondo@.

Questo coro è solo immaginario; ma le singole voci sono reali e ben distinguibili. I nostri missionari le ascoltano ogni giorno nel loro lavoro, cercando di fare loro da megafono e di trovare risposte efficaci.

Spose invece che alunne

Loyangallani, Kenya

Tra i Turkana (nel Nord Ovest del Kenya, distribuiti nelle contee del Turkana, Samburu e Marsabit), nascere femmina in una famiglia di pastori nomadi significa spesso dover rinunciare alla scuola. Lo sanno bene i missionari che operano a Loyiangalani e che da circa dieci anni portano avanti un’iniziativa di alfabetizzazione per bambini (destinati a essere pastorelli) e bambine (destinate al matrimonio precoce) che non sono mai andati a scuola.

La contea Turkana è una di quelle che ha il tasso di scolarizzazione più basso: solo metà dei bambini vanno a scuola, contro il 92% della media nazionale. Per le femmine, l’abbandono scolastico è ancora più probabile e i matrimoni precoci ne sono una causa.

Nella contea Samburu, dove si trova il Wamba Catholic Hospital – gestito dalla diocesi di Maralal di cui è vescovo monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata – la situazione delle bambine è ancora più complessa. Qui, secondo uno studio dell’Unicef (esteso anche ad altre quattro aree dove vivono i gruppi etnici Masaai, Pokot, Somali e Rendille) al problema dei matrimoni precoci si affianca e si lega quello delle mutilazioni genitali femminili (Mgf o – in inglese – Fgm, female genital mutilation). Su un campione di quasi 5.300 donne intervistate, per Wamba i dati sono preoccupanti: la mutilazione (escissione della clitoride senza infibulazione, la quale, quest’ultima, comporta anche la cucitura della vagina, ndr) riguarda il 95% delle donne di 18-49 anni e il 57% delle bambine fra i 10 e i 17@.

Alcuni punti sulla Mgf

La questione delle mutilazioni genitali femminili è complessa e va capita bene nel suo contesto. L’esperienza dei nostri missionari e missionarie evidenzia che:

– è una pratica ben radicata nella tradizione culturale di molti (non tutti) popoli africani;
– non viene praticata per ragioni igieniche e non è un fatto privato;
– è sempre legata a due riti di alto significato culturale e sociale, come l’iniziazione o il matrimonio;
– è il segno della nuova identità sociale della bambina (o giovane) che, con il rito, diventa «adulta».

Si tratta dunque di un fenomeno culturalmente complesso e radicato, al punto che molte ragazze chiedono di essere sottoposte all’escissione prima di iniziare la scuola secondaria per non essere escluse o umiliate dalle loro compagne. Per contrastare questa pratica non basta quindi dire «no alle Mgf»: occorre aiutare la comunità a creare forme alternative e socialmente accettate di rituali di passaggio e iniziazione.

L’abolizione delle Mgf o la loro sostituzione con altri riti devono conciliare il diritto della persona all’integrità del proprio corpo con la sua esigenza di essere pienamente inserita, accettata e rispettata nella sua società e cultura.

Il peso dei condizionamenti sociali

Ragazza samburu con gli ornamenti del giorno del «taglio»

Che la pressione sociale e la mancanza di consapevolezza dei propri diritti spingano molte donne a prendere posizioni che le danneggiano è confermato anche dal dato riportato in un rapporto Unicef del 2014. Nel mondo, quasi la metà delle adolescenti (15-19 anni) pensa che un marito o un partner siano giustificabili se picchiano la moglie o la compagna in alcune circostanze: se la moglie litiga con il marito, esce senza avvertirlo, trascura i bambini, rifiuta di avere rapporti sessuali o brucia il cibo. In Africa subsahariana, Medio Oriente e Nord Africa le adolescenti convinte di questo superano la metà@.

In America Latina, la Colombia è uno dei paesi con il tasso più alto di violenza contro le donne, incluse le giovani dai 15 ai 19 anni, da parte di un marito o di un partner: il 37%@.

Il lavoro dei nostri missionari in questo paese si è recentemente arricchito di un metodo di formazione che si chiama «pedagogia della cura» e che nella zona di Puerto Leguizamo coinvolge gli studenti delle scuole superiori in percorsi di controllo e gestione delle frustrazioni e della rabbia e di risoluzione pacifica dei conflitti interpersonali. Anche attraverso questi percorsi si sta tentando di eliminare la violenza che spesso nasce «in contesti familiari caratterizzati da abuso di alcol, machismo e povertà» e che nella stragrande maggioranza dei casi hanno nelle bambine e nelle donne le principali vittime.

Le barriere invisibili

Gli ostacoli che impediscono alle donne di avere accesso a istruzione e sanità non sono sempre facili da individuare: solo una relazione costante e ravvicinata con le comunità può permettere di scorgerli e rimuoverli. Spesso, infatti, questi ostacoli derivano dalla reticenza ad affrontare temi considerati tabù, come il ciclo mestruale, oppure dal delicato equilibrio nei rapporti fra uomo e donna all’interno della famiglia.

Unicef stima che le scuole prive di servizi igienici adeguati nei paesi a basso reddito siano circa la metà. E basta che una scuola manchi dei servizi perché le ragazze rinuncino ad andare a lezione durante il periodo mestruale. Questo problema, stando ai dati diffusi dall’Unesco, interessa una ragazza su dieci in Africa subsahariana, causando per ciascuna una riduzione del venti per cento del tempo passato sui banchi e, a volte, il totale abbandono del percorso scolastico.

Ecco perché la costruzione di bagni nelle scuole primarie e secondarie è una delle esigenze che i responsabili dei nostri progetti sul campo non mancano di fare presenti@.

Povera sanità

Quanto all’accesso ai servizi sanitari di base: ci sono ostacoli evidenti come la mancanza di strutture, e poi altri meno visibili, ma ugualmente determinanti, come le resistenze culturali. Un esempio è il lungo dialogo tra i missionari della Consolata di Dianra, Costa d’Avorio, e le comunità locali per decidere la costruzione di alcuni centri di salute nei villaggi legati al dispensario di Dianra Village (vedi Cooperando, MC Aprile 2017). Poiché lì le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi (e quindi andare dall’équipe medica per se stesse o i figli), i missionari hanno dialogato con i leader comunitari perché tutti fossero sensibilizzati sull’importanza dell’assistenza sanitaria.

La Costa d’Avorio ha uno dei tassi di mortalità materna più alti dell’Africa subsahariana (645 madri decedute ogni 100mila nati vivi nel 2015@) e quasi tre donne su dieci partoriscono senza l’assistenza di personale qualificato.

Il difficile accesso al mercato del lavoro

La partecipazione attiva delle donne alla vita economica di una comunità genera benefici per tutti. Uno studio McKinsey del settembre 2015 ha stimato che, se le donne fossero economicamente attive alla pari degli uomini, il Pil mondiale aumenterebbe di 28mila miliardi entro il 2025. Se ogni paese, anche non raggiungendo la completa parità di genere, si impegnasse almeno a «copiare» il vicino più virtuoso nel garantire alle donne la partecipazione alla vita economica, l’aumento del Pil sarebbe comunque pari a 11mila miliardi di dollari a livello globale, con un aumento del 12% in Africa e del 14% in America Latina. La sola India vedrebbe aumentare la sua crescita del 16%. Per i paesi in via di sviluppo presi nel loro insieme la fetta di aumento del Pil sarebbe di circa 4mila su 11mila miliardi di dollari@.

Il World Economic Forum ha stilato una classifica dei paesi del mondo che misura la parità di genere: i quattro più vistuosi sono l’Islanda, la Norvegia, la Finlandia e il Ruanda, mentre il primato negativo va allo Yemen, seguito da Pakistan, Siria e Ciad.

Nonostante le numerose conferme del loro valore, le donne rimangono a livello globale meno pagate e più probabilmente disoccupate o occupate in lavori precari rispetto agli uomini. Su di loro ricade quasi sempre l’incombenza di occuparsi dei familiari, si tratti di bambini, anziani o malati.

Investire sulle donne

Le esperienze dei nostri missionari confermano che investire sulle donne paga: i numerosi progetti di piccola imprenditoria e microcredito in RD Congo, Kenya, Costa d’Avorio hanno consentito alle donne di sostenere le proprie famiglie, pagare le spese mediche e coprire i costi per l’istruzione dei figli. Il microcredito che i missionari gestiscono nel Nord della Costa d’Avorio ha percentuali di restituzione del prestito che non scendono mai sotto il 98%. A Camp Garba, in Kenya, il lavoro con le donne dei gruppi etnici turkana e borana iniziato con un progetto di agricoltura e sartoria è stato fondamentale nel ricostruire i rapporti fra le comunità all’indomani degli scontri che nel 2012 opposero i due gruppi etnici e che avevano portato alla morte di trenta persone, alla distruzione di 150 case e all’esodo forzato di tremila sfollati. Oggi, un gruppo consolidato di donne turkana, borana e somale continua a collaborare per mandare avanti le attività ed è riuscito a coinvolgere altri membri della comunità in un progetto di allevamento di bestiame.

Le incerte prospettive per le donne anziane

Il mondo sta invecchiando, avverte la prestigiosa rivista scientifica inglese The Lancet: nel 2015 le persone sopra 60 anni di età erano 900 milioni, nel 2050 saranno due miliardi e la maggior parte di queste vivrà nei paesi in via di sviluppo, principalmente in Asia. Ma anche l’Africa subsahariana vedrà i suoi anziani triplicare: dagli attuali 53 milioni a 150. Eppure, lamenta il direttore dell’International Longevity Centre all’Università di Cape Town, Sebastiana Kalula, nell’agenda politica dei governi africani il fenomeno e il tema di come affrontarlo non appaiono fra le priorità. L’invecchiamento interesserà maggiormente le donne, che tendono a vivere più a lungo degli uomini sia nei paesi ad alto reddito che in quelli più poveri@. A questo fenomeno se ne combinano altri due: in primo luogo, la migrazione verso le città porterà i due terzi della popolazione mondiale a vivere in centri urbani; inoltre, la precarietà del lavoro spingerà le persone a lavorare più a lungo e più lontano da casa. Un possibile effetto del combinarsi di invecchiamento, inurbamento e precarietà potrebbe essere che le donne anziane non solo non saranno accudite dai familiari più giovani, ma potrebbero trovarsi loro stesse costrette a occuparsi dei loro nipoti. Già oggi, la condizione degli anziani abbandonati, ammalati e in povertà assoluta è ben nota ai missionari della Consolata che a Sagana, Kenya, gestiscono una casa per le anziane o che a Guiúa, in Mozambico, hanno avviato un programma per anziani malnutriti fra i quali le donne sono la maggioranza.

Chiara Giovetti


CAMPAGNA

DI NATALE 2018

Un dono…
per riparare i danni

«Chi dice donna dice danno», recita un detto popolare. Nel detto può esserci del vero, a patto di completarlo: «Chi dice donna dice danno… che lei subisce». Ogni giorno, in tutto il mondo.
Il nostro impegno è da sempre quello di proteggere, promuovere e valorizzare le donne, ma quest’anno vogliamo fare di più: ci impegneremo a eliminare i danni che le donne subiscono e aiutarle a dimostrare alle comunità quanto la loro presenza sia un dono.

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nei nostri asili.
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per un’anziana seguita nei nostri centri.
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