Più cuore e più spazio


L’ospedale di Neisu, in Congo, si è arricchito di un reparto di cardiologia, mentre in Costa d’Avorio il centro di salute di Marandallah avrà presto una nuova farmacia e il centro di Dianra potrà contare su un reparto per il ricovero di pazienti.

Le malattie cardiovascolari (Mcv) sono la principale causa di morte sul pianeta: secondo i dati riferiti al 2019 dello studio Global burden of disease (Gbd) dell’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington (Usa). Queste patologie hanno, infatti, provocato 18,5 milioni di decessi su un totale mondiale di 56,5 milioni, un decesso su tre. Si tratta di cardiopatie ischemiche nella metà dei casi, di ictus in un caso su tre e di altre patologie nel restante 17% dei casi. Oltre l’80% di queste morti avvengono in paesi a basso e medio reddito.

Il paese numericamente più colpito è la Cina, con oltre 4,5 milioni di decessi, che rappresentano però il 43% del totale dei decessi nel paese. Ad avere il primato in termini percentuali è l’Ucraina, le cui 449mila morti causate da malattie cardiovascolari sono il 64% del totale nazionale@.

In Africa subsahariana, nel 2019 le morti per Mcv sono state un milione, quasi raddoppiate rispetto alle 564mila del 1990. Anche a livello globale si è verificato un aumento, ma è pari a circa il 50%, dai 12 milioni del 1990 a 18,5 milioni attuali, mentre nell’Unione europea vi è stata una lieve diminuzione, passando da 2,3 milioni a due.

Un rapporto pubblicato nel 2014 dall’Organizzazione mondiale della sanità sottolineava come una delle cause dell’aumento di queste patologie in Africa subsahariana fosse l’invecchiamento della popolazione. La regione aveva anche la più alta prevalenza – cioè persone malate sul totale della popolazione – di ipertensione al mondo: 38,1% tra i maschi, 35,5% tra le femmine con alcuni paesi – Capo Verde, Mozambico, Niger, São Tomé e Principe – che riportavano tassi di prevalenza del 50% o superiori.

C’erano circa 80 milioni di adulti con ipertensione nell’Africa sub-sahariana nel 2000, si legge ancora nel rapporto, e le proiezioni del 2014 suggerivano che questa cifra salirà a 150 milioni entro il 2025. Fra le cause che il rapporto indicava, vi era la frequente assunzione di sale a dosi elevate: il sale viene infatti utilizzato per conservare gli alimenti ma anche aggiunto per rendere più gustosi i cibi@.

La situazione in Congo

Nel 2019 in Repubblica democratica del Congo sono morte 564mila persone, di cui quasi 90mila – il 16% – per malattie cardiovascolari. Per 31mila e settecento persone – circa una su tre – si è trattato di cardiopatie ischemiche e 33mila – di nuovo un terzo – sono state colpite da ictus, mentre delle restanti 25mila, oltre la metà è deceduta a causa di una cardiopatia ipertensiva.

Vale per la Rd Congo la stessa tendenza segnalata sopra per l’Africa subsahariana: le morti da malattie cardiovascolari sono raddoppiate, da poco più di 45mila del 1990 alle attuali 90mila.

A complicare le cose vi è la scarsa disponibilità di personale sanitario nel paese che conta 30.768 medici generalisti e 778 specialisti per una popolazione di quasi 90 milioni di persone, un rapporto di 0,4 medici ogni mille abitanti, che sale a 1,5 ogni mille se si considera anche il personale infermieristico@. Per avere un termine di paragone, secondo i dati Istat più recenti, del 2019, in Italia il rapporto è di 4 medici ogni mille abitanti considerando generalisti e specialisti insieme, e sale a 10 ogni mille abitanti se si aggiunge il personale infermieristico@.

All’ospedale Notre Dame della Consolata (Hndc) che i missionari Imc gestiscono a Neisu, provincia dell’Alto Uélé, Nordest della Rd Congo, nel 2020 le malattie cardiovascolari sono state la causa di otto su 49 decessi (16%) fra i ricoverati in terapia intensiva, sette per insufficienza cardiaca e uno per ipertensione, mentre in medicina generale 20 delle 39 morti (51%) sono state causate da insufficienza cardiaca.

Quanto ai ricoverati, sui 908 ricoveri in medicina interna, 193 avevano patologie cardiovascolari – circa un paziente su cinque – nella maggior parte dei casi (174) un’insufficienza cardiaca, mentre in terapia intensiva, su 309 ammessi, 32 avevano una Mcv, circa uno su dieci. In 29 casi si trattava ancora una volta di insufficienza cardiaca.

Un reparto cardiologia per Neisu

L’ospedale Notre Dame de la Consolata di Neisu è nato all’inizio degli anni Ottanta come dispensario, per iniziativa di padre Oscar Goapper, medico e missionario poi scomparso nel 1999. Oggi la struttura sanitaria consiste di un ospedale centrale e 12 centri periferici, di cui il più lontano si trova a 55 chilometri dalla struttura centrale, in una zona che può richiedere un’intera giornata per essere raggiunta perché le strade non sono asfaltate e spesso sono dissestate: durante la stagione delle piogge, infatti, acqua e fango le rendono impraticabili.

L’ospedale ha oggi 210 posti letto e il personale è composto da 5 medici generalisti, 46 infermieri all’ospedale più 11 nei centri periferici, e 32 dipendenti tra impiegati dell’amministrazione, inservienti e addetti alla manutenzione. Nel 2021 i parti sono stati 599 e le visite esterne quasi 6.200.

La struttura, fino a pochi mesi fa, non disponeva di un reparto di cardiologia, né poteva riferire i pazienti ai centri sanitari del capoluogo provinciale, Isiro, non solo per le distanze, ma soprattutto perché nemmeno in città esisteva un reparto in cui assistere le persone con Mcv. «Ricoveriamo i malati in medicina interna o terapia intensiva», spiegava Ivo Lazzaroni, missionario laico responsabile dell’ospedale, «causando loro ulteriore stress e disagio alla vista di altri ammalati in condizioni difficili o, a volte, già in stato terminale. Era chiaro che serviva un nuovo padiglione solo per malati cardiaci, dove potessero essere loro garantite cure adeguate e riposo. Per questo abbiamo pensato di costruire un reparto con due stanze da dieci posti letto l’una, un ambulatorio e due stanze private con toilette».

Grazie alla generosità di diversi donatori privati e aziende, i lavori strutturali sono iniziati nella primavera del 2021 e si sono conclusi nei primi mesi di quest’anno, mentre è ora in corso l’acquisto di equipaggiamento, attrezzature e arredamento: ecografo o ecodoppler, letti e altro mobilio essenziale. Era inoltre necessario formare il personale sanitario in modo che si specializzasse sulle Mcv: grazie a un’altra donazione privata è stato possibile inviare la dottoressa Michèline e le infermiere Mariamo e Marie Noelle a Kinshasa, capitale del paese, a frequentare un corso di formazione di tre mesi.

Costa d’Avorio: piccoli centri, grandi servizi

In Costa d’Avorio i Missionari della Consolata gestiscono due centri sanitari nel Nord del paese: il Centre de santé Joseph Allamano (Csja) a Dianra e il Centre de santé Notre Dame de la Consolata (Csndc) a Marandallah.

A Dianra, ai servizi già presenti – dispensario, maternità, farmacia, laboratorio analisi – si sono aggiunti a partire dal 2019 un servizio odontoiatrico, un programma nutrizionale e un servizio di accompagnamento alle persone affette da patologie mentali. Grazie al sostegno di un donatore privato, si è poi avviato il servizio trasfusioni, con l’installazione di un frigo per la banca del sangue, portato avanti nel quadro della fruttuosa collaborazione con le autorità sanitarie locali.

Il servizio trasfusioni, rivolto specialmente a bambini affetti da anemia grave, ha ricevuto più richieste di quanto il responsabile del Csja, padre Matteo Pettinari, si aspettasse, e il numero di posti a disposizione nelle sale degenza si è presto rivelato troppo basso. Padre Matteo ha aggiunto materassi posati al suolo nelle sale degenza, ma è stato subito chiaro che non poteva trattarsi di una soluzione né sufficiente né definitiva. Per questo si sta ora completando la costruzione di un’ulteriore sala per l’ospedalizzazione, che permetterà di accogliere in spazi adeguati i pazienti che necessitano di una trasfusione tenendoli separati da quelli ospedalizzati.

Un altro intervento in corso a Dianra è quello della messa a norma del centro come richiesto dalle autorità sanitarie locali: si sta dunque provvedendo a tinteggiare o piastrellare le sale di visita e attesa, a dotare il centro di pattumiere a pedale, a sostituire le tende di stoffa con altre di un materiale plastificato per poterle più facilmente disinfettare e altri accorgimenti di questo tipo.

Presso il centro di salute di Marandallah, invece, grazie a diverse donazioni di privati e aziende, si sta procedendo alla costruzione di una farmacia più grande, poiché quella attuale – spiegava a inizio 2021 il responsabile padre Alex Likono – non aveva più spazio sufficiente né per lo stoccaggio dei medicinali né per permettere al personale di muoversi in modo agevole e trovare con rapidità i farmaci. Si stanno inoltre acquistando e installando ventilatori in ogni reparto – durante la stagione più calda, in questa zona della Costa d’Avorio si arriva a temperature intorno ai 40° – in modo da garantire una degenza il più possibile confortevole ai pazienti e un ambiente di lavoro gradevole al personale.

Chiara Giovetti


I numeri degli ospedali e dei centri sanitari:

Anno 2021                         consulti       parti         posti letto       personale

Hndc Neisu                       6.191            599          210                  94

Csja Dianra                       3.850           175           8                      25

Csndc Marandallah          3.286          91             18                     25


Vaccino malaria, a che punto siamo

Lo scorso aprile l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riportava che era arrivato a un milione il numero di bambini fra Kenya, Malawi e Ghana che avevano ricevuto una o più dosi di RTS,S (noto come Mosquirix), il vaccino attivo contro il Plasmodium falciparum, il più letale dei parassiti che causano la malaria e quello più diffuso in Africa. Il vaccino non offre protezione contro il Plasmodium vivax, parassita diffuso invece in molti paesi non africani. L’efficacia del vaccino era stata confermata nello studio di fase 3 della sperimentazione clinica, avvenuta fra il 2014 e il 2019: tra i bambini di età compresa tra 5 e 17 mesi che hanno ricevuto tre dosi di RTS,S somministrate a intervalli di un mese, seguite da una quarta dose 18 mesi dopo, il vaccino ha ridotto la malaria del 39%, cioè l’aveva prevenuta in quasi quattro casi su dieci. Le quattro dosi hanno anche ridotto del 31,5% la malaria grave in questa fascia di età, riducendo i ricoveri e la necessità di trasfusioni di sangue. Tra i bambini che all’età di 5-17 mesi hanno ricevuto le prime tre dosi senza poi ricevere la quarta, il beneficio protettivo contro la malaria grave è andato perso, evidenziando l’importanza della quarta dose.
Tra i bambini più piccoli, invece, il vaccino contro la malaria non ha funzionato abbastanza bene da giustificarne l’ulteriore utilizzo in questa fascia di età.
Il programma vaccinale pilota è stato lanciato nell’aprile 2019 e si prevede finisca nel 2023: allora saranno disponibili i dati più consolidati sulla fattibilità della somministrazione, sul ruolo del vaccino nel ridurre le morti e sulla sua sicurezza nell’uso di routine. Questi risultati, spiega l’Oms, informeranno le future decisioni circa la possibilità di somministrazione su larga scala@.

Chi.Gi.




Salute mentale, servono dati e risorse


Circa un miliardo di persone nel mondo soffre di disturbi di salute mentale o derivanti dall’uso di alcol e droghe. Eppure, solo una persona su quattro ha la possibilità di accedere a trattamenti adeguati. Il risultato è una perdita significativa di anni di vita in salute e un costo molto elevato per l’economia mondiale. MConlus affronta anche questo problema tramite le sue missioni in Costa d’Avorio, Messico e Kenya.

Secondo i dati elaborati Our world in data, il portale di divulgazione scientifica sviluppato dall’università di Oxford, nel 2019 erano 792 milioni le persone che convivevano con un disturbo di salute mentale. Il più comune era l’ansia, che toccava 284 milioni di persone, seguito dalla depressione per 264 milioni; 46 milioni di individui presentavano disturbi dello spettro bipolare, 20 milioni erano affetti da schizofrenia o altre psicosi e 16 milioni avevano disordini alimentari. A questi si aggiungevano poi 107 milioni di persone con disturbi derivanti dall’uso di alcol e 71 milioni dall’uso di droghe, per un totale di poco meno di un miliardo di persone@.

I dati, chiarisce il portale, vengono dall’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington, a Seattle (Usa), il cui studio Global burden of disease (Gbd) ha indagato gli effetti di 290 malattie e 67 fattori di rischio nel mondo. Il Gbd@ è uno dei principali punti di riferimento per gli studi sulla salute mentale, ampiamente citato e utilizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tuttavia, gli stessi ricercatori che lo hanno realizzato segnalano che su questo tema i dati sono spesso lacunosi e raccolti in modo disomogeneo, specialmente quando riguardano i paesi a medio e basso reddito. Di conseguenza, in particolar modo in quei paesi, l’ampiezza del fenomeno è probabilmente sottostimata.

La pandemia da Covid-19, calcola inoltre l’Ihme, ha indotto un aumento dei casi di ansia (+76,2 milioni) e depressione grave (+53,2 milioni), colpendo in modo particolare le donne e i più giovani@.

Malato mentale chiuso in gabbia nelle Filippine.

Anni di vita persi e risorse insufficienti

Le persone con problemi di salute mentale gravi, sottolinea l’Oms sulla sua pagina dedicata alla salute mentale, muoiono prematuramente – anche con vent’anni di anticipo – a causa di malattie prevenibili e la depressione è una delle principali cause di disabilità.

L’aspetto della disabilità e degli anni vissuti in meno, precisa Our world in data, è molto importante, perché permette di cogliere l’impatto che questi disturbi hanno sulla salute in modo più dettagliato di quanto non sia possibile fare limitandosi solo ai decessi. In particolare, permette di cogliere il cosiddetto «carico di malattia» (disease burden) misurato in anni di vita corretta per disabilità (Daly, o Disability-adjusted life year), cioè la somma del numero di anni persi a causa di malattia o disabilità più quelli persi per morte prematura.

Utilizzando questo indicatore, i disturbi legati alla salute mentale rappresentano il 5% del carico globale di malattia e sono responsabili del 14% degli anni vissuti con malattia o disabilità@.

I problemi di salute mentale non risparmiano gli adolescenti: uno su cinque soffre di questi disturbi e il suicidio è la seconda causa di morte fra le persone fra i 15 e i 29 anni. Anche nelle situazioni post-conflitto la proporzione di persone con un problema di salute mentale è di una ogni cinque. Il costo per l’economia mondiale dei due disturbi più diffusi, l’ansia e la depressione, è quantificato in circa mille miliardi di dollari l’anno@.

Nonostante questi dati, la spesa media per la salute mentale è di circa il 2% al livello globale e anche nell’aiuto pubblico allo sviluppo la quota destinata ad affrontare questo tema non va oltre l’1% dell’aiuto destinato al settore sanitario (che a sua volta è una frazione di quello totale). Tre quarti delle persone affette da uno di questi disturbi non ricevono alcun trattamento e, anzi, si trovano spesso a vivere in contesti in cui pregiudizio, violazioni dei diritti umani, stigmatizzazione e leggi del tutto inadeguate rendono ancora più difficile la loro situazione.

Incontro di formazione a Guadalajara, Messico

La salute mentale e lo stigma

Diversi reportage negli ultimi anni hanno descritto le condizioni in cui sono spesso costrette a vivere le persone affette da questi disturbi nei paesi a basso reddito@: la pratica di incatenare i malati e di confinarli in luoghi come i prayer camps, i campi di preghiera, è una violazione dei diritti umani e peggiora la loro condizione. Anche questa rivista ha raccontato nel 2018 uno degli sforzi di fornire un’assistenza adeguata alle persone con disagio mentale e diffondere la conoscenza del problema in alcuni paesi dell’Africa Occidentale (vedi MC 8-9/2018, Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon).

Priorità: salute mentale

Oggi, nel centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata hanno avviato un servizio di assistenza per le persone con disturbi di salute mentale che il responsabile, padre Matteo Pettinari, progetta di far diventare un giorno un vero e proprio centro diurno.

Uno dei vantaggi di un servizio come questo è poter distinguere fra disturbi di salute mentale, malattie neurologiche e patologie che non hanno nulla a che fare con le due condizioni precedenti. Operare questa distinzione è particolarmente importante nel caso di un disturbo cronico del cervello come l’epilessia@, la cui comprensione in paesi come quelli africani è tuttora inficiata da superstizioni e stigmatizzazione.

Padre Matteo riporta il caso di un giovane preso in carico dal centro di salute di Dianra: «Étienne ha l’epilessia, ma purtroppo qui non è stata subito riconosciuta come tale e, anzi, è stata interpretata come un problema di interferenza con il mondo degli spiriti e altre letture di questo genere, che affondano le proprie radici nella tradizione culturale e nella cosmovisione del popolo senoufo. Per questo la famiglia lo ha progressivamente ritirato dalla scuola e portato da diversi guaritori, che sono intervenuti sulla dieta togliendo la carne o i legumi, senza ovviamente ottenere miglioramenti. Il nostro centro di salute è riuscito a intercettare il suo bisogno di assistenza e inserirlo in un programma che prevede il trattamento farmacologico. Ora Étienne riesce a gestire il piccolo punto ristoro del centro sanitario e ad avere una vita comparabile con quella di persone non affette da questa malattia, ricavando anche un reddito che lo rende economicamente indipendente. Inoltre, adesso ha un contesto di relazioni che lo sostengono, liberandolo dall’isolamento al quale sono spesso condannate le persone nella sua situazione».

Il dispensario di Dianrà, in Costa D’Avorio

La salute mentale e il conflitto

Lo scorso 29 marzo padre Ramón Lázaro Esnaola condivideva via Telegram dal Messico una notizia apparsa in un articolo sul sito di una radio di Guadalajara: nei primi tre mesi del 2022, nello stato di Jalisco c’è stato un solo giorno senza omicidi, il 23 marzo. Le statistiche del governo federale, continuava l’articolo, rivelano che dal 1° gennaio al 27 marzo c’erano stati 364 omicidi dolosi, 4,23 al giorno in media@. In Italia, nello stesso periodo gli omicidi sono stati 67@.

Secondo un’indagine dell’Istituto nazionale di statistica del Messico (Inegi) effettuata su un campione di 27mila abitazioni, il 39,6% degli intervistati di 18 o più anni dichiara di aver sentito spari frequenti di arma da fuoco nei pressi della propria abitazione nell’ultimo trimestre del 2021@.

Servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

Alla tensione e violenza generalizzata si aggiunge poi la violenza domestica: sempre l’istituto nazionale di statistica riporta in uno studio del 2016 realizzato su oltre 142mila case che una donna su quattro di età superiore ai 15 anni aveva subito una forma di violenza – fisica, emotiva, sessuale – da parte del partner negli ultimi 12 mesi (il dato saliva al 43% considerando tutta la vita); oltre una su cinque riportava che le violenze avevano avuto luogo nell’ambiente di lavoro, il 17,4% in  ambito scolastico e il 10% in ambito familiare escludendo il compagno, quindi da parte di fratelli, sorelle, padri, madri, patrigni, matrigne e altri parenti@.

In un contesto come questo, gli interventi che i missionari della Consolata stanno mettendo in atto cercano di fornire alle persone alcuni strumenti che permettano loro di affrontare le situazioni di violenza e i lutti. In particolare, riporta padre Ramón nella relazione sul progetto finanziato dagli Amici di Missioni Consolata con la raccolta fondi del 2020@, nei laboratori proposti nel corso del progetto si è lavorato sull’identificare «situazioni che generano squilibri emotivi, modelli, convinzioni che hanno causato la perdita di autostima», incoraggiando la conoscenza di sé e lo sforzo di basare il proprio processo decisionale su motivazioni razionali e non impulsive, mentre i laboratori più specifici sulla perdita e sul lutto sono previsti entro la fine di quest’anno.

Quanto alla risposta delle autorità sanitarie pubbliche, riferisce sempre dal Messico padre Alex Conti, il Sistema nazionale per lo sviluppo integrale delle famiglie «è presente in ogni comune e fornisce assistenza psicologica a costi accettabili, anche se non pubblicizza molto il servizio. Un servizio di assistenza psicologica è presente anche in molte parrocchie».

Dal 2018 vi è poi una legge, la Nom 035, per la «prevenzione dei fattori di rischio psicosociale, ovvero quegli elementi in un ambiente di lavoro che possono rappresentare un rischio per la salute mentale delle persone, come orari lunghi, sovraccarico di lavoro, leadership negativa e mancanza di controllo sul lavoro, tra gli altri. Questo regolamento è obbligatorio per tutti i luoghi di lavoro», ma secondo il quotidiano El Economista solo un terzo delle imprese ha applicato la legge in tutti i suoi aspetti@.

«Gli psicologi professionisti privati forniscono assistenza a costi variabili che vanno dai 300 pesos (circa 13,54 euro) in periferia e dagli 800 ai 1.200 (36-54 euro) in città per le persone dei ceti più ricchi. Uno dei problemi è che gli assistiti spesso non hanno costanza e, nel caso di quelli meno abbienti, danno priorità ad altre spese».

Formazione di operatori per il nuovo servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

la cittadella psichiatrica a Nairobi

Lo scorso novembre il quotidiano Avvenire riportava la notizia della firma di un memorandum d’intesa fra il governo keniano del presidente Uhuru Kenyatta e Gksd, «una partecipata del Gruppo San Donato che gestisce in Italia 17 ospedali privati in convenzione col Servizio sanitario nazionale, tra cui eccellenze come il San Raffaele di Milano». L’intesa dovrebbe portare alla costruzione, su una superficie di 80 ettari, di un complesso per la salute mentale, il Mathari Mental Hub, in grado di ospitare fino 600 pazienti assistiti da 1.100 membri dello staff fra medici e tecnici. Si tratterebbe di un «polo d’eccellenza di salute mentale – pubblica e gratuita – non solo per il Kenya, ma per tutta l’Africa Centrale»@.

Anche solo dalla città di Nairobi non mancherebbero gli utenti: una ricerca sulle sex workers di Nairobi, disponibile sul sito della Cambridge University Press, ha riportato che su 1.039 persone, di età media pari a 33,7 anni, che hanno preso parte allo studio, circa una su quattro soffriva di depressione moderata/grave, una su dieci d’ansia moderata o grave, il 14% di disturbo da stress post traumatico e il 10,2% segnalava un comportamento suicidario recente: un tentativo di suicidio nel 2,6% dei casi e ideazione suicidaria nel 10%. Tra le donne con disturbi di salute mentale, circa due su tre hanno avuto anche un problema da abuso di alcol o droghe@.

Chiara Giovetti




Le tante febbri di Conakry


Un paese poco conosciuto in Europa, ricco di risorse naturali e minerarie, ma anche culturali e umane. Inserite in un contesto sociale e politico fragile, troppo spesso sfruttate da imprese multinazionali. Vi portiamo nelle sue contraddizioni.

Lontana dai riflettori dei grandi media, la Guinea sta vivendo un momento storico difficile sia sul piano sanitario che politico.

Con il colpo di stato avvenuto il 5 settembre scorso a opera del leader golpista Mamandy Doumbouya ai danni del presidente Alpha Condé, gli assetti politici del paese sono cambiati.

Sito in Africa occidentale, la Guinea ha 13 milioni di abitanti, ed è 178ª nella classifica Onu dello sviluppo umano (su 189). La situazione è ancora molto delicata, anche se non ci sono stati più grandi scontri o rivolte da parte della popolazione. In un primo momento, nel mese di settembre, la capitale Conakry era un via vai di polizia e militari. Piccoli gruppi hanno cercato di ribellarsi ai soldati, ma senza grandi risultati. Il tenente colonnello Mamandy Doumbouya ha giustificato l’operazione con la situazione economica del paese in caduta libera e il grave aumento della povertà.

Chi troppo vuole…

Il presidente Alpha Condé, eletto per la prima volta nel 2010 e rieletto nel 2015, aveva fatto in modo di cambiare la Costituzione che limitava i mandati a due, tramite un referendum il 22 marzo 2020. Si era quindi fatto rieleggere per un terzo mandato nell’ottobre dello stesso anno, provocando la contestazione di un vasto movimento composto dai partiti di opposizione e da gran parte della società civile. Le proteste di piazza, duramente represse, avevano causato decine di morti.

La popolazione è ancora oggi nettamente divisa in due, c’è chi sostiene Mamandy Doumbouya, autoproclamato presidente ad interim il primo ottobre, e chi ancora appoggia Alpha Condé, attualmente agli arresti.

I due, anche se non appartengono direttamente alla stessa famiglia d’origine, hanno legami, e questo è uno dei motivi che ha arginato le lotte a sfondo tribale nel paese.

Il concetto di famiglia in Guinea è molto esteso: la famiglia coincide con un gruppo tribale che mantiene un cognome e un’identità storica e culturale. Queste appartenenze sono estremamente importanti e significative.

La popolazione guineana si considera da sempre come una grande famiglia. I nuclei più forti a livello sociale e politico sono i Keita, i Touré e i Condé. Fortunatamente le varie famiglie si considerano come cugine tra di loro, e questo, negli anni, ha frenato molte rivolte e proteste. Il popo-lo guineano è d’indole pacifica e ha sempre cercato di rispettare gli accordi presi tra le varie fami-glie, molti secoli fa.

Dopo il colpo di stato, la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) ha iso-lato la Guinea sul piano economico, chiedendo elezioni libere nell’arco di sei mesi e il ritorno del potere ai civili. Ma il nuovo uomo forte, Doumbouya, non sembra preoccuparsene, negando che ci sia una crisi nel paese.

Un governo costituito da militari spaventa gran parte dei guineani, ma anche i presidenti di molti stati limitrofi.

Risorse minerarie

La Guinea è uno dei paesi più poveri dell’Africa dell’Ovest, anche se il suo territorio è ricco di risorse minerarie. Pure l’agricoltura è una componente essenziale dell’economia del paese, in particolare le coltivazioni di riso.

L’oro e altri minerali preziosi, come la bauxite, dalla quale si trae l’alluminio, sono sfruttati dalle grandi compagnie minerarie europee o americane.

La febbre dell’oro è un fenomeno che si è accentuato durante i primi anni 2000: con l’abbandono delle vecchie miniere di pietre preziose a causa dei cambiamenti del mercato globale, gran parte della popolazione e delle grandi compagnie minerarie si è indirizzata sulla spasmodica ricerca del metallo giallo.

Oltre alle grandi miniere gestite dalle multinazionali, l’estrazione dell’oro avviene in maniera artigianale. Queste piccole miniere sono un rifugio per molte persone che vivono situazioni di grande difficoltà economica e cercano nell’oro una speranza di riscatto, che il più delle volte non si realizza.

Questo sogno raramente ha un finale a lieto fine, ma al contrario porta disagio, fatica e malattie.

L’estrazione aurifera è sviluppata prevalentemente nell’alta Guinea, in particolare nella prefettura di Kouroussa. È proprio in queste terre rosse che ogni giorno centinaia di uomini e donne entrano nelle viscere della terra per cercare fortuna.

Il più delle volte l’oro è polverizzato e mischiato al terreno. Abilmente i minatori tradizionali riescono a dividere le particelle d’oro da quelle del terreno per poi fonderle insieme. Tutto avviene grazie all’utilizzo del mercurio. Purtroppo questa attività è svolta molto spesso vicino ai fiumi, soprattutto al Niger, e il risciacquo dell’oro con il mercurio sta gravemente danneggiando le risorse idriche e non solo.

Anche le miniere tradizionali hanno le loro cooperative che cercano di difendere gli interessi dei minatori. Molto spesso però le grandi compagnie sono interessate ai terreni nei quali lavorano i minatori artigianali e questo genera conflitti. Il più delle volte questi ultimi hanno la peggio. Lo stato quasi sempre appoggia le compagnie per un ritorno economico che però non va mai a sostegno della popolazione locale.

Oro e salute

Il processo di estrazione dell’oro causa molti danni, oltre che all’ambiente, anche alla salute. Svolgendosi vicino a delle risorse idriche, la malaria è una delle malattie più comuni tra i minatori. Per non parlare degli incidenti legati a tali attività. Molti uomini prima di entrare negli stretti cunicoli alla ricerca del prezioso metallo usano psicofarmaci e alcol per farsi coraggio, e questo non fa altro che aumentare la frequenza di comportamenti inadeguati che possono destabilizzare la vita sociale e la salute dei minatori.

In Guinea esiste una popolazione viandante (nomade), che si sposta continuamente alla ricerca di nuovi filoni. Questo crea villaggi temporanei e fatiscenti dove le condizioni igieniche e sanitarie sono disarmanti.

Negli ultimi anni molti burkinabè si sono uniti a questi gruppi, il che ha creato problemi a livello d’integrazione ed episodi di razzismo e intolleranza.

Le donne che appartengono a queste comunità sono solite lasciare i loro figli soli al villaggio mentre vanno nelle miniere vicine. Molto spesso, se queste donne non trovano nulla, la sera si prostituiscono con gli uomini che lavorano alle miniere. La promiscuità fa aumentare fortemente i casi di infezioni da Hiv nella popolazione.

In questi villaggi fatti di materiali di recupero, i bambini si trovano loro malgrado a vivere una vita difficile e piena di pericoli. La mancanza di acqua è una delle cause maggiori di malattie come la disidratazione o la dissenteria e i bambini più piccoli molto spesso non sopravvivono. Sono molti i bambini che non possono frequentare le scuole, lontani da ogni confort e con la responsabilità di curare la casa e i fratelli più piccoli.

Una sanità che fa acqua

La situazione del paese, a livello sanitario, è molto complessa e non riguarda solamente le popolazioni che lavorano in miniera.

L’età media della popolazione è di diciassette anni e la mortalità infantile è ancora molto alta.

La fascia più vulnerabile è quella dei bambini dai zero a cinque anni. Mentre il governo e le istituzioni sanitarie non riescono a garantire una salute pubblica efficiente. Tutte le cure sono a pagamento e la forte corruzione degli organi amministrativi e sanitari fa peggiorare la situazione.

Il 2021 è stato un anno molto complesso a livello sanitario. Già durante i primi mesi ci sono stati dei casi, fortunatamente isolati, di ebola, e un caso di febbre emorragica Marburg. Entrambi questi episodi sono nati nella prefettura di Nzérékoré, nella Guinea Forestiére, ai confini con la Costa d’Avorio, zona con scarsissime risorse economiche.

La regione della Guinea Forestiére è molto diversa dal resto del paese, sia a livello culturale che religioso. Mentre la maggioranza nel resto del paese è musulmana, nella prefettura di Nzérékore prevalgono i cattolici. Anche se non ci sono forti contrasti tra i credenti delle due fedi, a livello culturale chi appartiene al mondo cattolico viene considerato più soggetto ai vizi. Il fatto che proprio in questa zona nascano molte delle epidemie è sintomo di grande povertà e permeabilità dei confini. Il controllo sanitario di chi entra nel paese, infatti, è pressoché inesistente.

Inoltre, intorno all’epidemia di ebola sfortunatamente è nato un grosso business ed è difficile delle volte avere dati sicuri su cui lavorare. Questo complica ulteriormente la situazione e molti speculatori cercano di intercettare i soldi destinati alla cura e alla prevenzione di questa malattia.

Malaria & co

Come se non bastasse, ogni anno la Guinea deve affrontare le conseguenze della malaria che uccide periodicamente centinaia di bambini. L’alta letalità di questa malattia è legata al costo eccessivo delle cure, inoltre molti villaggi del paese sono completamente isolati e, soprattutto durante la stagione delle piogge, è impossibile muoversi per recarsi nei grandi centri dove ci sono gli ospedali migliori. Per questo motivo la medicina tradizionale è ancora importante sia a livello culturale che sanitario, ma purtroppo non è sufficiente a curare i casi gravi.

Un altro virus che spaventa molto è quello del morbillo. Numerosi focolai vicino alla capitale Conakry sono stati isolati grazie all’aiuto di associazioni non governative, e la diffusione è stata arginata.

I vaccini non sono sufficienti e sono costosi, e questo implica che anche per malattie infantili, debellate nei paesi ricchi, in Guinea si continui a morire.

Il Covid è arrivato

Negli ultimi anni, a questi problemi sanitari, si è aggiunta la paura del Covid-19.

L’espandersi della variante Delta sembra aver colpito maggiormente il paese, a differenza delle altre varianti. Anche se il tasso di mortalità non è elevato, la preoccupazione esiste sopratutto nelle aeree metropolitane.

L’Africa è stata colpita meno duramente rispetto al resto del mondo. Questo può avere numerose spiegazioni, tutte teoriche. L’età media della popolazione è molto bassa, mentre il virus uccide di più gli anziani, e alcuni virologi sostengono che nel genoma di alcune popolazioni africane c’è una resistenza maggiore a questo virus. Avere un quadro complessivo dell’andamento del Covid in Guinea non è semplice. La mancanza di tamponi e controlli adeguati ci offre dati imprecisi e parziali.

La campagna vaccinale anti Covid è iniziata a metà 2021, ma non ha avuto molto successo, sopratutto nei piccoli villaggi. La popolazione non è ben informata sulle reali conseguenze del virus e ha paura di farsi fare la vaccinazione. In un primo momento il siero più utilizzato è stato quello cinese, Sinovax, mentre ora sul mercato è possibile trovare anche Astra Zeneca.

Nella capitale Conakry, invece, gran parte della popolazione vuole vaccinarsi, poiché i casi e i decessi sono stati più numerosi. Il problema è che non ci sono sufficienti vaccini per coprire tutte le esigenze, e il ministero della Salute non ha attuato un piano idoneo per salvaguardare la popolazione più fragile. Misure di contenimento sono state attuate dal governo, e – mentre scriviamo – vige un coprifuoco che parte dalle 22 fino alle 5 del mattino.

Queste sono le febbri della Guinea, paese meraviglioso dove la natura ti accoglie calorosamente e dove gli ospiti, soprattutto occidentali, vengo trattati con enorme rispetto e riverenza.

Gianluca Uda




Congo RD: Perché abbiano la vita


Fratel Domenico, missionario della Consolata, da 37 anni spende la sua vita per le popolazioni che vivono in una delle zone più martoriate del mondo, nel Nord del Congo. Tra malati, bimbi malnutriti, persone con disabilità, poveri, carcerati, studenti.

Fratel Domenico Bugatti, da 37 anni, esattamente la metà della sua vita, opera in una delle zone più martoriate del mondo. Si spende tra le popolazioni dell’Alto Uélé, provincia a Nord Est della Repubblica democratica del Congo, al confine con il Sud Sudan e il Centrafrica.

È stato prima a Neisu, poi a Doruma, infine, da 22 anni, a Isiro.

Tra le molte cose che racconta con tranquilla pacatezza, ci sono anche due fughe in foresta per sfuggire ai gruppi armati, e un assalto notturno di ribelli sudanesi, decisi a saccheggiare la missione e poi scacciati con le armi dalla gente del villaggio.

Incontriamo fratel Domenico a Torino, durante una sua «vacanza» obbligata per piccole questioni di salute. Scalpita per poter tornare nel suo Congo, dai «suoi» bambini del centro nutrizionale Gajen e delle scuole, dalle «sue» persone con disabilità per le quali costruisce speciali carrozzine inventate da lui, dai detenuti del carcere costretti a vivere in condizioni spaventose, dalle persone malate alle quali offre le sue competenze infermieristiche. Gli chiediamo di raccontarci di sé.

Tra Italia e Canada

Nato nella frazione Sant’Apollonio di Lumezzane, Brescia, il 5 ottobre 1947, fratel Domenico è entrato nel seminario dei Missionari della Consolata nel 1959.

«Cinquanta anni fa – racconta -, arrivavano nei nostri paesi i missionari. Facevano animazione, e chi voleva iscriversi, si iscriveva. Io mi sono legato a uno di loro, allora sono entrato nel seminario di Bevera. Lì ho fatto due anni».

Fratel Domenico porta sul viso due larghi occhiali con spesse lenti che mettono in risalto i suoi occhi timidi. Tra i bottoni chiusi della sua polo blu, sbuca una piccola croce di legno con un foro al centro a forma di cuore.

Sembra un po’ a disagio. Non sappiamo se per la mascherina alla quale forse non è molto abituato e che si aggiusta continuamente sul naso, o per il fatto stesso di dover parlare di sé, incalzato dalle nostre domande.

Appare un po’ schivo, benché di cose da raccontare ne abbia molte, e anche di avventurose.

«Quando avevo 14 anni, nel ’61, sono andato ad Alpignano (Torino) per fare la scuola di avviamento. Lì ho fatto i tre anni di formazione come falegname e calzolaio. Poi sono andato in noviziato alla Certosa di Pesio. Eravamo in tre. Uno era un laico che lavorava già da tempo in Kenya.

A 18 anni, nel 1965, sono andato a Milano per fare animazione missionaria. Sono rimasto lì fino al ‘70. Poi sono tornato ad Alpignano. Nel 1972, il superiore mi ha chiesto se ero disponibile ad andare in Canada, nel Québec. Io pensavo da sempre all’Africa, però ho detto di sì, e ci sono andato per lavorare nella procura (un ufficio che curava la raccolta e la spedizione di tutti gli aiuti alle missioni nei paesi più poveri, ndr). Allo stesso tempo seguivo gli studenti del seminario, che ai tempi erano 35-40.

Nel 1977 sono tornato in Italia, e ho fatto un corso di infermieristica. Ho dato una mano a padre Saverio Dalla Vecchia per iniziare la futura casa per anziani di Alpignano. In Casa Madre a Torino, infatti, c’erano già diversi missionari anziani e malati. Ci sono rimasto fino al 1984».

La scoperta del Congo

Quando finalmente i superiori hanno proposto a fratel Domenico di partire per l’Africa, aveva 37 anni. È stato inviato in Congo, allora Zaire, a Neisu, nella zona Nord orientale del paese, in una missione tra la popolazione di etnia mangbetu fondata nel 1981 nella foresta dai suoi confratelli padre Antonello Rossi a padre Oscar Goapper.

Quest’ultimo, morto prematuramente nel 1999, all’età di 47 anni, era un missionario della Consolata argentino con la passione per la medicina.

«A Neisu si trattava di aprire un ospedale – continua il suo racconto fratel Domenico -. Padre Oscar, infatti, si era trovato con tanti casi di malattia, e lui, con un medico, ha organizzato un ospedale. All’inizio era un insieme di case in fango.

Alla fine, Oscar è riuscito a fare dei corsi universitari a Milano, ed è diventato medico lui stesso.

Quando sono arrivato io, mi ha detto: “Qui infermieri ce ne sono già. Tu occupati della costruzione”. Allora ho iniziato a costruire, e ho fatto i padiglioni della parte centrale dell’ospedale. Chi è venuto dopo di me, ha aggiunto attorno altre costruzioni. Sono stato lì 8 anni».

Oggi, l’Ospedale Notre Dame de la Consolata, sviluppato partendo dal preesistente ambulatorio, è una struttura che dispone di 150 posti letto, punto di riferimento per l’assistenza sanitaria di tutta la zona, anche grazie alla sua rete di postazioni sanitarie distribuite in diversi villaggi nel folto della foresta (cfr. Amico nei n. 3 e 5 di MC 2021).

A Doruma nella guerra

Nel 1993, fratel Domenico si è spostato presso il popolo Zande, a Doruma, un grosso villaggio importante snodo per il commercio a tre chilometri dal confine con il Sudan, allora preso nella guerra civile che in seguito avrebbe portato alla nascita dell’attuale Sud Sudan.

«A Doruma c’erano molti profughi sudanesi assistiti dall’Unhcr. Noi eravamo in una missione costruita a inizio Novecento dai domenicani, dove noi della Consolata siamo arrivati nel 1973 – racconta il missionario -. Quando sono arrivato lì, mi occupavo dell’economia e della manutenzione. Ci sono stato cinque anni, prima che fossimo costretti a venire via. I primi tre sono stati abbastanza calmi. Poi, nel 1997, Mobutu (l’allora presidente dello Zaire, ndr.) è stato spodestato da Laurent Désiré Kabila, durante la cosiddetta prima guerra del Congo. Le frontiere non sono state più controllate, e i ribelli del Sudan hanno iniziato a entrare».

È uno dei molti risvolti della crisi dei Grandi Laghi che negli anni Novanta e seguenti avrebbe provocato milioni di morti in diversi paesi dell’area.

La missione di Doruma ha così vissuto momenti drammatici, venendo più volte saccheggiata, sia dall’esercito governativo che dalle forze ribelli del Sud Sudan (Spla).

«Un giorno sono arrivati: prima i militari congolesi che scappavano verso il Centrafrica. Poi i ruandesi e gli ugandesi che inseguivano i congolesi. Noi ci siamo rifugiati tre settimane nella foresta insieme alla gente. C’era con me padre Ferdinando Paladini, il padre congolese Honoré
Tsiditeta e le suore agostiniane.

Alla fine padre Stefano Camerlengo, che era il nostro superiore  in quegli anni, è riuscito a organizzare con altre congregazioni una piccola spedizione, e quindi siamo potuti a venire via. Siamo arrivati a Kinshasa passando da Isiro e Kisangani».

I fucili puntati addosso

«Era il 1998. Quando siamo arrivati a Kinshasa – continua fratel Domenico, sorridendo, come se stesse raccontando di una vacanza al mare -, la notte stessa siamo partiti per Madrid, perché le ambasciate avevano detto di evacuare. Sono tornato un po’ a casa e poi ad Alpignano».

Dopo tre mesi, le cose in Congo sembrava che stessero cambiando. Allora fratel Domenico e padre Rinaldo Do, che era superiore della missione di Doruma, sono rientrati in Congo. Ma la crisi era lontana dal finire: «Se prima c’erano i militari congolesi – continua il fratello missionario -, ora c’erano i ribelli sudanesi che arrivavano d’improvviso e prendevano quello che potevano.

Ci è toccato stare ancora un mese in foresta. Io e padre
Rinaldo abbiamo vissuto grazie ai cristiani che ci hanno dato una capanna e un po’ di cibo.

Dopo un mese, siamo rientrati alla missione. Era l’inizio del 1999. Poco tempo dopo, una sera, è arrivato da noi il nostro superiore provinciale che da mesi voleva venire. Ha parcheggiato la macchina piena di vettovaglie nella missione. Di notte sembrava tutto tranquillo, ma poi, alle 4 del mattino, ci siamo ritrovati circondati dai ribelli sudanesi.

Bussavano alle porte e ci facevano uscire puntandoci i fucili addosso. Ci hanno fatti sedere sui gradini della casa di fronte alla chiesa e hanno iniziato a portare via tutto quello che c’era.

Abbiamo passato più di un’ora così. A quel punto è arrivato qualcuno dal villaggio e ha incominciato a sparare. I ribelli hanno pensato che fossero i militari, allora hanno preso tutto quello che potevano e hanno iniziato a fuggire, tirando anche delle granate per proteggersi. Noi ci siamo nascosti dove potevamo, e siamo stati un’altra ora lì, senza sapere cosa fare. Poi siamo usciti dai nostri nascondigli e abbiamo visto che i ribelli non erano riusciti a prendere l’auto con cui era arrivato il superiore. Allora lui ci ha detto: “Qui bisogna partire, non c’è più sicurezza”. Ha lasciato la missione in mano alla catechista e a un prete diocesano che era arrivato lì per un po’ di vacanza, e noi siamo saliti sull’auto e siamo partiti, così come eravamo, cercando di non fare troppo rumore. Siamo arrivati a Isiro, a 300 km di strada sterrata, il giorno dopo».

Nuova vita a Isiro

Dopo quella fuga, fratel Domenico non è più tornato nella missione di Doruma, che adesso è gestita da sacerdoti locali, ed è stato assegnato alla comunità Imc di Isiro, cittadina che attualmente si stima conti più di 200mila abitanti, capitale del Distretto dell’Alto Uélé.

L’associazione Cuore Amico, che nel 2015 gli ha conferito il «premio Cuore Amico» come figura esemplare di missionario, descrive così il suo impegno nella nuova missione: «Da subito si occupa della realizzazione di un centro nutrizionale d’appoggio ai moltissimi bambini e giovani con gravi carenze alimentari che affollano le strade della cittadina, vittime degli effetti della guerra.

Partendo da un terreno con una costruzione non terminata, fratel Domenico realizza il Centro di alimentazione Gajen che oggi funziona a pieno ritmo: fornisce alimenti per bambini e malati, effettua visite mediche, attività di laboratorio e farmacia, dà gratuitamente medicine. Le attività del Centro non si fermano all’alimentazione e all’assistenza sanitaria: vi si organizzano corsi di igiene e formazione per le mamme, visite negli ospedali o centri di salute per aiutare piccoli e poveri, accoglienza e aiuto a bambini, ragazzi e giovani non scolarizzati, per i quali si paga la retta scolastica mensile; si realizzano attività sportive, vi si costruiscono biciclette per portatori di handicap, vi si organizzano corsi di alfabetizzazione e promozione della donna, vi si vendono pane e biscotti grazie alla costruzione di un piccolo forno.

Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo […].

A partire dal 2005 costruisce e ristruttura la Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle missioni della Consolata che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. Sorge accanto alla clinica universitaria ed ha al suo interno una biblioteca, aperta a tutti gli studenti della città, e un auditorium. La Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della popolazione, un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai congolesi».

Il centro Gajen

«Quando sono arrivato a Isiro – prosegue fratel Domenico -, c’era padre José Ariel Hoyos
Zuluaga, che sarebbe morto nel 2013. Con lui abbiamo cominciato ad accogliere i bambini malnutriti. A padre Ariel è succeduto padre Rinaldo Do. Abbiamo comprato dei terreni e, un po’ per volta, abbiamo organizzato il centro nutrizionale che abbiamo chiamato Gajen: Groupe d’appui aux jeunes et aux enfants nécessiteaux (Gruppo d’appoggio a giovani e bambini bisognosi)».

Fratel Domenico ha costruito poi il dispensario, una sala per l’osservazione con dei letti, il laboratorio, la farmacia, la cucina.

«All’inizio avevamo quattro infermieri, oggi abbiamo due infermieri e un pediatra. Abbiamo salvato qualche centinaio di bambini… forse qualche migliaio. E continuiamo. I bambini vengono con le mamme al mattino, tutti i giorni, per due o tre mesi, alcuni anche per quattro o cinque mesi. Fanno colazione, e un controllo. Una volta che hanno preso le medicine, verso mezzogiorno diamo loro un pasto abbondante. Ne mangiano una parte, e l’altra parte la portano a casa. Stanno da noi fino all’una, poi tornano a casa con le mamme».

Quando ci sono casi di bambini con altre malattie, ad esempio l’Aids, fratel Domenico li manda all’ospedale generale di Isiro o all’ospedale di Neisu, a 30 km.

Scuole, carrozzine, carcere

In questi 22 anni a Isiro, fratel Domenico ha espresso tutte le potenzialità dei suoi talenti. Oltre al centro Gajen, si è occupato di persone con disabilità, costruendo quasi 200 carrozzine con pezzi di biciclette e tubi reperibili sul mercato locale; si è preoccupato di offrire un alloggio agli studenti che arrivano dalle missioni Imc della zona. «Poi ho iniziato ad andare nelle prigioni: visitiamo i carcerati e portiamo cibo e medicine. È un carcere fatto come al tempo dei belgi: uno di quei capannoni che, quando c’era la colonia, servivano per le piantagioni di caffè e cotone. I carcerati stanno nel capannone così, senza letti, senza stanze, sdraiati a terra… una cosa impossibile. Se uno non vede, non ci può credere.

Io e padre Rinaldo, qualche tempo fa, abbiamo fatto una settantina di letti per portarli al carcere. Ma sono spariti tutti dopo poco tempo. Venduti: materassi e letti. A quel punto abbiamo continuato a portare solo gli alimenti e le medicine».

Un’altra delle cose di cui si occupa fratel Domenico è la conduzione della scuola materna e della scuola primaria per i bambini del centro nutrizionale. «Le scuole devono essere autosufficienti, quindi chiediamo una retta per i bambini. Lo stato dice di voler dare qualcosa, ma alla fine non dà niente. Le scuole si reggono con le rette degli studenti e gli aiuti dall’Italia. Il centro nutrizionale invece è un servizio completamente gratuito».

Il problema del Congo

Chiediamo a fratel Domenico come ha visto cambiare in questi 37 anni il Congo. «Il paese ha sofferto molto. Il suo problema è la sua ricchezza. Tutte queste guerre che ci sono, sono per il sottosuolo. I paesi limitrofi cercano di prendersene una parte: come il coltan, ad esempio, poi i diamanti, l’oro. A Isiro, nel sottosuolo, c’è molto ferro. Adesso non ci sono cave, ma il giorno che ci sarà bisogno di ferro, le faranno. Ci sono dappertutto compagnie straniere che estraggono minerali. La guerra in Nord Kivu è dovuta a questo, alla sua ricchezza. Cercano di eliminare la gente facendola partire o uccidendola. Ammazzano senza pietà. E la gente scappa».

Infine, gli chiediamo quali sono state le soddisfazioni e le difficoltà della sua missione: «La difficoltà, è quella di capire come andare avanti economicamente con la nostra opera. La soddisfazione, invece, è quella di poter vedere in giro i bambini che abbiamo salvato, che sono tanti, che magari erano arrivati al centro nutrizionale mezzi morti. Piano piano li abbiamo fatti riprendere. Alle volte sono figli di ragazze madri. La soddisfazione è questa: che lo scopo che ci siamo prefissi, cioè quello di aiutare, è realizzato».

Luca Lorusso




2021, un anno di progetti, nonostante la pandemia

 


Dopo il 2020, anche il 2021 è stato un anno difficile a causa del persistere della pandemia di Covid-19, che ha colpito in modo particolare tutti quei paesi che non hanno né le infrastrutture né i mezzi per adeguate campagne vaccinali.



20 Natali di solidarietà

Missioni Consolata Onlus è il braccio operativo del Missionari  della Consolata in Italia per sostenere i progetti dei loro confratelli  nei tre continenti dove annunciano il Vangelo con opere e parole.

È grazie all’aiuto generoso di voi, amici e benefattori, persone normali, che conoscete la fatica del vivere e del guadagnarsi il pane quotidiano se in centovent’anni (di cui 20 con la nostra Onlus) siamo riusciti  a realizzare scuole, ospedali, dispensari, centri per bambini abbandonati e donne vittime di violenza; se abbiamo «vestito gli ignudi, dato da mangiare agli affamati, consolato i prigionieri, dato l’acqua agli assetati, accolto gli stranieri», difeso la vita e l’ambiente, formato leader e quanto altro la creatività dell’amore è stata capace di inventare; se abbiamo fatto nascere  comunità cristiane vivaci e gioiose, costruito cappelle e chiese.

Grazie – Thank you – Asante sana – Ace olen – Akiba – Sobodi  – Matondo – šukran – Merci – Gracias – Obrigado.

Le sfide davanti a noi sono ancora tante, aggravate dalla pandemia,  dal cambiamento climatico e dall’irresponsabile attitudine dei potenti che non hanno occhi né cuore per i più poveri e i più indifesi.
Con il vostro aiuto potremo continuare a essere testimoni e servitori della misericordia di Dio e della tenerezza della nostra Consolata.
In queste pagine vi presentiamo solo alcuni dei progetti in corso. Ogni anno Mco pubblica il suo bilancio sociale sul sito missioniconsolataonlus.it nel quale sono presentati tutti i progetti e i conti relativi al periodo.

Per dare il vostro contributo trovate le informazioni necessarie
cliccando qui.

Vedi 20 Natali di solidarietà sul sito della Onlus



I Missionari della Consolata, che vivono in molte di quelle nazioni, per rispondere alle tante situazioni di difficoltà che il Covid-19 ha determinato, hanno avviato diversi progetti in favore delle fasce più fragili della popolazione.

Quella del Messico è una realtà molto dura per le donne. Padre Ramón Lázaro Esnaola, che da circa due anni lavora a San Antonio Juanacaxtle, stato di Jalisco, ne racconta le difficoltà e i drammi nei resoconti che condivide con confratelli e amici: «In questi mesi ho incontrato persone in situazioni davvero difficili: un’adolescente abbandonata quando aveva due anni alla quale la pandemia ora ha portato via anche la madre adottiva; una giovane donna a cui i cartelli del narcotraffico hanno ucciso il marito e di cui ora non sa nemmeno dove sia il corpo; tante donne, ragazze, bambine che subiscono maltrattamenti e abusi da parte padri, patrigni, compagni occasionali delle madri, parenti. E tante che il marito abbandona per un’altra e che si trovano sole, in condizioni economiche precarie, a crescere figli senza un compagno che le aiuti».

La violenza sulle donne è uno degli aspetti della violenza che permea di sé tutta la società messicana, dove gli omicidi sono 36mila all’anno, 29 ogni 100mila abitanti@. Per avere un metro di paragone, secondo i dati Istat, l’Italia nel 2019 ha avuto 315 omicidi, pari a 0,53 ogni 100mila abitanti@. In un simile contesto, è chiaro che «la violenza in tutte le sue espressioni – sui minori, familiare, di genere, giovanile, istituzionale … – è il nostro pane quotidiano», continua padre Ramón. «Ci sono giorni in cui, di fronte a certe storie, ci si sente davvero sobrepasados, sopraffatti. Poi, però, ci ricordiamo del motivo per cui siamo qui: per stare vicini alle persone, consolare e seminare speranza, e ritroviamo la forza per costruire il Regno».

Per sostenere padre Ramón e i suoi confratelli in Messico nello sforzo di offrire un’alternativa alle donne vittime di traumi, lutti e violenza, gli Amici Missioni Consolata avevano dedicato la mostra di solidarietà e la connessa raccolta fondi dell’8 dicembre 2020 al progetto Promuovi la vita difendi la donna@. Il progetto che padre Ramón ha seguito e realizzato in collaborazione con Mati, un’associazione locale di psicologi, ha avuto un costo di circa 16.498 euro, ha interessato circa 500 famiglie ed è quasi concluso, ma le attività della Casa Hogar Florecitas Madre Naty e di Mati continueranno a raggiungere decine di donne in condizioni di vulnerabilità.

Casa Hogar Florecitas Madre Naty

Acqua e allevamento per la Tanzania

Alla fine del 2020, i missionari della Consolata in Tanzania, in uno dei villaggi dalla missione di Pawaga, nella municipalità di Itudundu, Iringa, hanno realizzato un piccolo impianto idrico che serve 108 famiglie, una scuola e un dispensario. Fondi donati da privati, pari a circa 7.800 euro, hanno permesso di acquistare una pompa alimentata da un impianto fotovoltaico per connettere una fonte d’acqua con quaranta punti di distribuzione nel villaggio, in modo da garantire a tutte le famiglie di potersi procurare l’acqua senza dover percorrere chilometri a piedi. Il contributo degli abitanti del villaggio è consistito in venti giornate di lavoro volontario per installare la pompa e i tubi, montare i pannelli solari e piantumare alberi nel mezzo ettaro di terra che circonda la fonte d’acqua. Ora le oltre 750 persone del villaggio possono contare su un punto di distribuzione di acqua a meno di un chilometro dalla propria abitazione, in più la scuola primaria e il dispensario hanno impianti idrici adeguati.

Un altro progetto è a Kimbiji, nella diocesi di Dar es Salaam, dove, grazie al sostegno di Caritas italiana, si è avviata una piccola attività di allevamento generatrice di reddito per alcuni giovani per i quali la pandemia ha reso ancora più complicato trovare lavoro. La Banca Mondiale riporta che nel 2020 circa mezzo milione di tanzaniani è sceso sotto la soglia di povertà a causa delle restrizioni e delle conseguenze della diffusione del virus@. A Kimbiji, ora, diciassette giovani sono direttamente coinvolti nell’avvio di un allevamento di suini. A beneficiare della formazione fornita nell’ambito del progetto sulle tecniche di allevamento suino saranno fino a sessantacinque persone.

Una banca del sangue a Dianra

Al centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa D’Avorio, è in corso un progetto, sostenuto da un donatore privato e seguito da padre Matteo Pettinari, che si concentra sulla formazione del personale, sul miglioramento dei servizi del dispensario, come il trasporto dei pazienti, e sul sostegno delle attività legate alla salute infantile. Ma la parte del progetto che aggiunge al centro di salute un servizio fondamentale è quella della banca del sangue e delle trasfusioni. Avviata lo scorso settembre – dopo che ad agosto era arrivato il frigo per la conservazione delle sacche di sangue ed era stata completata la necessaria formazione del personale del centro -, la banca del sangue ha un ruolo fondamentale nel contrastare patologie, come l’anemia infantile strettamente legata alla malaria che è endemica nella zona.

Prima di questo intervento, spiegava nel progetto padre Matteo, era necessario andare nei centri trasfusionali più vicini, dai 30 ai 200 km di distanza su strade spesso impraticabili. «Ora, dal 14 settembre, data della prima trasfusione, a oggi», scriveva padre Matteo il 27 ottobre, «abbiamo già utilizzato 50 sacche di sangue: di queste, tre per trasfusioni a donne nel reparto maternità, le altre 47 sono tutte andate a bambini fra 0 e 5 anni».

Trasfusioni nel centr osanitario di Dianra

Progetti ancora aperti

In Mongolia si è concluso l’intervento che mirava a dotare il centro per i bambini di Chingiltei, nella periferia della capitale Ulan Bator, di uno spazio giochi con campo sportivo. Il centro è attivo dal 2017 e offre attività creative, ludiche e sportive, oltre al doposcuola per una trentina di bambini. Ora è pronto per tornare in funzione – la pandemia ne aveva imposto la chiusura – e per farlo deve acquistare materiale scolastico, identificare i bambini in condizioni di maggiore vulnerabilità per offrire loro borse di studio, e stipendiare il personale docente. Connesso con il lavoro del centro c’è anche un programma di sostegno per le famiglie più in difficoltà, alle quali vengono forniti beni di prima necessità.

veduta di Chingiltei, alla periferia della capitale Ulan Bator, Mongolia

Un posto sicuro per studentesse

Inhangoma è una missione che dista circa 30 chilometri da Mutarara, una cittadina di 60mila abitanti nella provincia di Tete, Nord del Mozambico. Ha un centro educativo che comprende una scuola secondaria frequentata da 1.250 alunni fra la ottava e la dodicesima classe. Gli studentati maschile e femminile, dove alloggiano gli allievi provenienti da zone lontane, sono sotto la responsabilità del ministero della Pubblica istruzione, ma la struttura per le studentesse è in uno stato fatiscente. Così, la mancanza di un alloggio sicuro e di condizioni igieniche adeguate scoraggia le ragazze che spesso abbandonano la scuola, in un contesto dove sono pochi gli studenti che arrivano alla fine del ciclo secondario. Il Mozambico ha un tasso di completamento della scuola secondaria inferiore al 24%, venti punti in meno della media dell’Africa subsahariana@.

«Da un po’ di tempo», spiega monsignor Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata e vescovo di Tete, «la diocesi ha ricevuto la richiesta di farsi carico di questo studentato femminile, a cominciare dal rifacimento del tetto fino alla tinteggiatura dei muri, dalla sostituzione di porte e finestre danneggiate, all’approntamento di servizi igienici adeguati». Questo primo intervento, per il quale monsignor Antunes ha chiesto sostegno a Missioni Consolata Onlus (Mco), ha un costo pari a circa 7.300 euro e offrirà un’ospitalità dignitosa e sicura a 45 ragazze che potranno così continuare i propri studi senza paure.

La scuola di Cantagalo

Una biblioteca per la scuola in terra indigena

La scuola indigena Shiminiyosi si trova nella comunità di Cantagalo nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Amazzonia brasiliana. È nata, come altre scuole indigene, in reazione all’imposizione da parte dello stato brasiliano di un sistema educativo che non tiene in considerazione le peculiarità storiche, linguistiche, ambientali e culturali dei popoli indigeni e tenta di omologarli alla cultura dominante.

Padre Joseph Mugerwa, che si occupa in particolare delle attività della comunità di Cantagalo, dove si trova la scuola, scrive:

«Nel dicembre 1988, le famiglie e le comunità di questa zona decisero, di propria iniziativa, di creare una scuola che fosse anche un luogo di valorizzazione della cultura indigena. Furono le famiglie degli studenti di allora e la comunità stesse, accompagnate dai missionari, che scelsero un luogo adatto e costruirono questa scuola, che oggi accoglie 120 alunni delle elementari. Su richiesta dei leader locali, la scuola è stata riconosciuta e approvata dal decreto del dipartimento dell’Istruzione dello stato di Roraima, ha un corpo docente di sedici insegnanti e il numero di studenti è in continua crescita».

Ma nonostante il riconoscimento ufficiale, la scuola non ha ricevuto alcun sostegno dallo stato per migliorare le proprie strutture. «Le piogge del 2019 hanno distrutto il tetto: con il progetto che presentiamo a Mco, dal costo di 9.749 euro, chiediamo assistenza per sistemare la struttura», precisa padre Joseph, «e per creare una biblioteca per gli studenti».

Lo stato dei bagni della scuola di Cantagalo

Oujda, al servizio dei migranti

Dal novembre 2020 i Missionari della Consolata sono attivi in Marocco, nella città di Oujda a 15 km dal confine con l’Algeria@.

Dal 26 settembre 2021 hanno la responsabilità piena della parrocchia di Saint Louis.

Qui sotto trovate i dettagli di questa nuova avventura missionaria che gli Amici Missioni Consolata vogliono sostenere con le loro iniziative di dicembre, in alternativa a quello che, prima del Covid-19, era la mostra dell’Immacolata.

Chiara Giovetti


 



Aiuto migranti Oujda | per dettagli clicca sul link qui sotto

Missione AMO, quattro ruote per servire

Padre Edwin di fronte alla chiesa di Saint Louis a Oujda

«Quattro ruote per… »

Gli Amici Missioni Consolata (Amc) si impegnano ad aiutare la «Missione Amo» provvedendo un mezzo essenziale per il servizio: un furgone multiuso, un Renault express intens, dal costo pari a 16.500 euro.

Il furgone verrà utilizzato per

  • recuperare i migranti che giungono nella zona malati, affamati ed esausti, e portarli al Centro di accoglienza della parrocchia, ai centri sanitari o al pronto soccorso per le cure necessarie;
  • trasportare e distribuire prodotti alimentari, per l’igiene o di protezione individuale, sia per il fabbisogno del Centro che per individui in necessità in varie parti della città;
  • accompagnare i migranti ai centri di formazione professionale e ogni altro bisogno prevedibile o imprevedibile.

***

È possibile sostenere questo progetto visitando il «Punto missioni Consolata» di fronte al Santuario della Consolata a Torino o inviando offerte per «AMC progetto 4 ruote per servire» utilizzando i dati trovati a questo link.

 

 




Le molte facce della pandemia

testo di Rosanna Novara Topino |


Le chiusure (lockdown) e le misure contro la pandemia hanno comportato e comportano varie conseguenze negative sulla salute mentale. E su quella fisica, con controlli cancellati e cure rinviate.

Da quando è scoppiata la pandemia da coronavirus – e ormai siamo alla soglia dei due anni -, veniamo quotidianamente informati sull’andamento dei contagi, dei ricoveri e dei decessi oltre che, negli ultimi otto mesi, delle vaccinazioni anti Covid-19. Siamo quindi portati a pensare che l’unico problema sanitario causato da questo virus sia quello della malattia. Ci sono però altri aspetti sanitari, di cui si parla meno, che sono la diretta conseguenza delle misure messe in atto nel tentativo di contrastare la pandemia e che vanno presi in attenta considerazione, poiché rischiano di protrarsi più a lungo nel tempo della pandemia stessa e di avere gravi ripercussioni sulla società.

Il peggioramento della salute mentale

C’è stato e c’è tuttora un forte impatto del coronavirus sulla salute mentale, che si manifesta trasversalmente in diverse fasce d’età e che può sfociare in atti di autolesionismo fino al suicidio o in atti violenti verso altre persone.

Sebbene i dati a disposizione siano incompleti, la sensazione è che, a seguito della pandemia, i problemi legati alla salute mentale e il numero dei suicidi siano aumentati. Tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato che la salute mentale è diventata un’emergenza gravissima. In particolare, il suicidio rappresenta un problema di sanità pubblica così rilevante che, nel 2020, l’Oms ha elaborato un documento sulla sua prevenzione rivolto ai professionisti dell’informazione, fornendo loro indicazioni sulle modalità per una corretta informazione, vista la loro potenziale influenza sul manifestarsi del fenomeno, soprattutto tra le persone più vulnerabili.

Già nel 2014, l’Oms aveva dichiarato il suicidio come quindicesima causa di morte al mondo e la seconda tra 15-29 anni d’età. Quindi, il problema era già rilevante prima della comparsa del Covid-19, che lo ha esacerbato. Basta pensare a cosa è avvenuto nel 2020 in Giappone, dove sono morte suicide 20.919 persone, con un aumento del 3,7% rispetto all’anno precedente. Un numero molto elevato, se confrontato con quello dei decessi correlati al coronavirus nello stesso periodo, pari a 3.459. Il dato è ancora più angosciante, tenendo conto del fatto che di questi suicidi 479 sono stati di adolescenti, 140 in più dell’anno precedente.

In Italia, secondo l’Istat, il numero annuale di suicidi è di circa 4mila e questa è la seconda causa di morte nella fascia d’età sotto i 24 anni. Secondo diversi responsabili dei dipartimenti di salute mentale e dei centri di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, le pressioni psicologiche legate al Covid subite da bambini e adolescenti hanno causato un’impennata di ricoveri legati ad atti autolesionistici e a tentativi di suicidio. In particolare, dall’ottobre 2020 in questi centri si è registrato un aumento di ricoveri di questo tipo del 30% per ragazzi e bambini.

La Didattica a distanza (Dad) ha prodotto varie conseguenze negative sugli studenti. Foto Alexandra Koch – Pixabay.

I ragazzi e la scomparsa della socialità

I disturbi sono aumentati notevolmente a seguito dei lockdown, delle chiusure e restrizioni varie, dell’insegnamento a distanza (Dad), che hanno creato una grave crisi psicologica soprattutto, ma non solo, tra i giovani.

Accanto ai ricoveri per gesti autolesivi e tentativi di suicidio, sono in aumento anche quelli legati ai disturbi del comportamento alimentare, soprattutto tra le ragazzine e a episodi di aggressività nei ragazzi.

Durante i periodi di lockdown sono venute meno le occasioni di socialità, che sono indispensabili per tutti, dal momento che l’essere umano è un animale sociale. In particolare, bambini e adolescenti per la loro crescita necessitano della vicinanza dei loro pari, una volta superata l’età della più tenera infanzia, dove prevale il legame con i genitori. Il prolungato isolamento, la mancanza di attività sportiva o ludica e di attività musicali, quali partecipazioni a cori e orchestre, hanno appesantito ulteriormente il carico psicologico già molto negativo dovuto alla paura di ammalarsi, di perdere i propri cari o di essere veicolo per loro della malattia.

I ragazzi e lo stress da Dad

Per molti bambini e ragazzi la didattica a distanza si è rivelata una notevole fonte di stress, che ha acuito il loro disagio psicologico. Questo, tra l’altro, ha portato ai peggiori risultati di sempre dei test Invalsi di fine anno scolastico, oltre che al digital divide tra le famiglie degli alunni più benestanti e quelle più povere e a un aumento di dispersione scolastica, che è passata dal 13% pre pandemia al 25% durante la pandemia (con punte di abbandono di un alunno su tre nel Sud Italia).

A differenza di quanto avviene nelle persone adulte o anziane, per le quali il suicidio è molto spesso legato a forme di depressione, nei giovani esso rappresenta quasi sempre un modo eclatante di manifestare il proprio disagio, la rabbia e la frustrazione dettati dall’impulsività. Quest’ultima è anche un fattore biologico legato allo sviluppo del cervello. Nelle fasi precedenti la maturità cerebrale (raggiunta intorno ai 20-21 anni nelle ragazze e tra i 24-25 anni nei ragazzi), c’è un minore controllo della parte limbica della corteccia cerebrale, che presiede agli impulsi e alle emozioni. Questo comporta una prevalenza nei giovani dell’aspetto emotivo su quello razionale e spiega le grandi difficoltà incontrate da loro nell’affrontare le crisi legate alla pandemia.

Per prevenire queste reazioni giovanili, che possono diventare estremamente pericolose per la loro vita, è importantissimo l’aspetto della familiarità e della condivisione.

A volte fare qualcosa insieme come una passeggiata, un gioco o condividere un hobby dà migliori risultati di tanti discorsi. È fondamentale, da parte degli adulti, dedicare del tempo all’ascolto dei bambini e dei ragazzi, sia in famiglia sia in ambito scolastico ed extrascolastico. Per permettere ai ragazzi di recuperare le carenze accumulate con la didattica a distanza, sarebbe indispensabile farli affiancare da figure di supporto messe a disposizione dagli istituti scolastici, una volta tornati alle lezioni in presenza, in modo da dare loro ripetizioni in orario extracurricolare, senza aggravio economico per le famiglie.

Le conseguenze per adulti e anziani

Tra gli adulti e gli anziani, le persone che hanno scelto di suicidarsi durante la pandemia, lo hanno fatto molto spesso per motivi economici, per l’isolamento e per le pressioni psicologiche, a cui sono state sottoposte.

Per quanto riguarda i motivi economici, va detto che la crisi  esisteva già ben prima della pandemia, che però l’ha notevolmente acuita. Secondo l’Istat, in un anno in Italia sono stati persi 700mila posti di lavoro (da febbraio 2020 a luglio 2021) in coincidenza con la pandemia. Dall’inizio della pandemia sono numerosi gli imprenditori falliti e coloro che hanno perso il lavoro, tra cui molti adulti con figli a carico. Sicuramente le difficoltà economiche (molte famiglie si sono ritrovate in condizioni di sovraindebitamento) e l’incertezza del futuro hanno fatto cadere molte persone in depressione, talvolta con gravi conseguenze.

Per ovviare ai disagi psicologici legati alle chiusure sarebbe indispensabile creare una rete di ascolto e di supporto da parte delle istituzioni pubbliche, in grado di aiutare coloro che, pur avendone bisogno, non possono permettersi i costi di una psicoterapia.

Un altro grave impatto sulla psiche di molte persone è stato causato dall’isolamento conseguente ai lockdown, che ha verosimilmente contribuito al diffondersi di idee suicidarie in molti soggetti, specialmente quelli fragili. Molto spesso hanno fatto questa tragica scelta persone anziane, che temevano per la propria salute o quella del consorte, oppure che hanno dovuto trascorrere troppo tempo senza potere vedere i propri cari, magari rinchiusi in qualche Rsa, dove le visite dei parenti sono state a lungo impedite.

Secondo la Società italiana di gerontologia, in base ad un’analisi condotta su anziani ricoverati con Covid-19, anche senza arrivare al suicidio, l’isolamento è comunque causa di un aumento del rischio di mortalità. Addirittura, secondo questa analisi, la riduzione della durata della vita negli anziani è influenzata dall’isolamento e dalla solitudine a un livello simile a quello di chi fuma 15 sigarette al giorno e maggiore a quello di chi è obeso.

Le mascherine saranno compagne obbligatorie per lungo tempo. Foto Gerd Altmann – Pixabay.

Violenza domestica e femminicidi

Il distanziamento sociale ha avuto spesso come conseguenza un aumento del consumo di alcol e droghe (si è diffuso il fenomeno dello spaccio a domicilio), che si è spesso accompagnato a quello della violenza domestica. Quest’ultima ha portato a un aumento dei casi di femminicidio, quasi tutti in ambito familiare, durante la pandemia.

Secondo l’Istat, nel 2020 i casi di femminicidio sono stati il 50% di tutti i casi di omicidio durante i periodi di lockdown.

Va detto che le misure di quarantena collettiva sono spesso state associate anche in passato a un aumento del rischio di suicidio, come è avvenuto durante le epidemie Sars, Mers e spagnola. Inoltre, il personale medico e infermieristico, che svolse il servizio durante quelle epidemie, così come nella pandemia attuale, spesso è stato colpito da «disturbo da stress post traumatico» (Ptsd).

L’impatto della pandemia sulla salute mentale si è manifestato parallelamente su due piani: da un lato con l’esordio di problemi psicopatologici nuovi nella popolazione generale e dall’altro con l’aggravamento di condizioni patologiche preesistenti, che non è stato possibile seguire adeguatamente presso i servizi psichiatrici, che spesso hanno dovuto ridurre o sospendere l’erogazione delle cure, a causa dell’introduzione delle norme di contenimento del contagio. Per questo motivo molti pazienti con malattia psichiatrica preesistente alla pandemia non hanno potuto essere sottoposti alle normali visite di controllo e si è quindi assistito, nei primi mesi della pandemia, a un netto incremento degli scompensi psicopatologici «prevenibili».

Tra le cause che hanno portato molte persone a un grave disagio psicologico, con possibilità di tendenze suicidarie, oltre al distanziamento sociale e, ovviamente, alla perdita dei propri cari, c’è stata la paura costante di contrarre il virus o l’averlo effettivamente contratto. La paura è stata peraltro enormemente alimentata da un’informazione mediatica, che troppo spesso ha esagerato, mandando in onda, a tutte le ore e per mesi, immagini di ambulanze, operatori sanitari in tuta integrale, bare accatastate: un insieme di cose che possono avere avuto un impatto pericoloso sulle persone più fragili.

I pazienti Covid e quelli non covid

Un analogo problema di visite di controllo posticipate o, peggio, di cure temporaneamente sospese in ossequio alle norme di contenimento del contagio ha riguardato sia i pazienti oncologici che quelli di altre categorie, tra cui i cardiopatici. A distanza di un anno dall’inizio della pandemia e precisamente ad aprile 2021, la Federazione di oncologi, cardiologi ed ematologi (Foce) ha consegnato al premier Draghi un documento di denuncia sui gravi disagi subiti dai pazienti da loro seguiti. Ci sono stati infatti moltissimi ritardi o cancellazioni di interventi chirurgici per tumore. È stata registrata una diminuzione dell’afflusso al pronto soccorso e alle unità intensive di cardiologia degli infartuati e sono stati ritardati o cancellati il 20-30% dei trattamenti oncologici.

Questi disagi hanno colpito 11 milioni tra pazienti oncologici, ematologici e cardiopatici. Inoltre, si sono verificati gravi ritardi anche per quanto riguarda lo screening annuale dei tumori, a cui afferiscono 5-6 milioni di persone. È evidente che la precedenza data alle cure dei malati di Covid causerà altre morti o l’aggravamento di patologie più facilmente trattabili, se diagnosticate tempestivamente. La stessa Foce ha reso noto che, da marzo a dicembre 2020, c’è stato un eccesso di mortalità generale nella popolazione del 21%, rispetto alla media dei cinque anni precedenti: 108.178 decessi in più. Di questi, il 69% era rappresentato da pazienti Covid, molti dei quali affetti da patologie cardiologiche o oncoematologiche, quindi a maggiore rischio di letalità da contagiati. Il restante 31%, però, era costituito da morti non Covid, deceduti per patologie in cui il fattore tempo gioca un ruolo determinante, come quelle cardiologiche e si è trattato di pazienti che non hanno ricevuto tempestivamente un’assistenza adeguata in occasione degli eventi acuti. Nei soli mesi di marzo e aprile 2020 ci sono stati 19mila morti in più delle attese, non legate alla Covid.

Se confrontata con le altre nazioni europee, l’Italia ha avuto, nello stesso periodo, il più alto numero di decessi per patologie non Covid, e questo dimostra che qualche errore di programmazione è stato fatto. Se, infatti, è necessario contrastare la pandemia, tuttavia non possono essere messe in secondo piano patologie altrettanto o più gravi. L’elevata mortalità dovuta a queste ultime è la logica conseguenza dei ritardi nella prevenzione, nella formulazione di una diagnosi, nella presa in carico e nell’attuazione di trattamenti salvavita. Il problema è rappresentato dal fatto che si è pensato di aumentare i posti letto per pazienti Covid a scapito dei posti letto riservati a pazienti di altre patologie, anziché aumentare il numero complessivo dei posti letto ospedalieri, con assunzione di ulteriore personale medico, tecnico e infermieristico.

Questo è il risultato dei tagli alla sanità pubblica fatti da governi di ogni colore politico che si sono succeduti alla guida del nostro paese negli ultimi anni.

Conseguenze sulla vista

Un’altra conseguenza dei lockdown legati alla pandemia è stato l’aumento della miopia, soprattutto tra i bambini e i giovani, dovuto alle molte ore passate ai videoterminali sia per le lezioni a distanza, sia per giocare o stare sui social, che per mesi hanno rappresentato la forma di comunicazione più utilizzata. Un recente studio pubblicato su Jama Oftalmology e condotto su 120mila tra bambini e ragazzi cinesi di età compresa tra 6-16 anni ha rilevato un aumento della miopia tre volte superiore da quando è iniziata la pandemia, rispetto agli anni precedenti.

Anche la vista degli adulti, con lo smart working ha subito dei contraccolpi, ma in questo caso, più che di aumento della miopia (lo sviluppo dell’apparato visivo è ormai completo nell’adulto) si può parlare di pseudo-miopia dovuta allo sforzo accomodativo, gestibile facendo delle pause di circa 20 minuti ogni due ore di lavoro.

Anche in ambito oculistico, in Italia la pandemia ha rallentato enormemente le visite di controllo, portando a liste d’attesa fino a tre anni, che impediscono l’accesso alle cure anche per patologie molto invalidanti come la cataratta e la maculopatia.

Rosanna Novara Topino




Vangelo senza quarantene


Vescovi in mezzo alla pandemia

Cinque missionari della Consolata raccontano la loro lotta contro il Covid-19. Da un punto di osservazione (e partecipazione) particolare: quello del vescovo. Cinque Chiese locali in cinque paesi tra Africa, Asia e America Latina. Cinque esperienze accomunate dallo spirito missionario, quello che va in cerca dei lontani e degli ultimi, anche in tempi di confinamento.

I vescovi missionari della Consolata oggi sono dodici. Tutti al servizio di Chiese presenti in territori poveri e a volte dilaniati dai conflitti, comunità colpite duramente anche dalla pandemia di Covid-19.

Nati in otto paesi diversi tra Europa, Africa e America Latina, hanno dai 47 ai 79 anni e operano in Brasile, Colombia, Eswatini, Kenya, Mongolia e Mozambico.

Dall’Africa alla Mongolia all’America Latina, il Covid-19 non ha risparmiato nessun paese e nessuna classe sociale, ma i primi a rimanere senza ossigeno sono stati, come sempre, i più poveri, gli esclusi, compresi quelli che nemmeno hanno potuto capire di cosa stessero morendo e sono rimasti fuori dalle statistiche per mancanza di tamponi, perché nel loro paese c’è un solo medico ogni 10mila persone.

Cinque di questi vescovi raccontano ai lettori di MC come stanno affrontando l’emergenza sanitaria nelle Chiese che servono. Monsignor Giorgio in Mongolia, mons. Joaquín in Colombia, mons. Diamantino in Mozambico, mons. José Luis in Eswatini e mons. Giovanni in Brasile.

Ciò che accomuna i loro episcopati è lo stile missionario, declinato in modo originale in ciascuna delle Chiese particolari nelle quali hanno operato e operano. L’annuncio a tutti, soprattutto a chi non ha ancora conosciuto Cristo, la scelta degli ultimi, la consolazione, la promozione della pace, il dialogo interreligioso, l’amore per Maria Consolata sono tra i pilastri della loro azione pastorale, anche in mezzo alla pandemia.

Sono volti di una chiesa che partecipa alla sofferenza e alla speranza del suo popolo.

Luca Lorusso

Grafico di Kreativezone


Confinati nelle steppe

Mongolia: Monsignor Giorgio Marengo

È diventato vescovo della giovanissima chiesa mongola nel mezzo della pandemia. Con tutti i luoghi di culto chiusi, dopo più di un anno, monsignor Marengo non ha ancora potuto celebrare l’eucaristia con il suo popolo. Ma la vicinanza ai mongoli, sia cristiani che non, è sempre viva.

La nomina a vescovo di Ulaan Baatar è arrivata a padre Giorgio Marengo il 2 aprile 2020, mentre era parroco della missione di Arvahieer, un piccolo centro rurale della Mongolia.

In quei giorni, le immagini della fila di camion militari che trasportavano le bare delle vittime bergamasche del Covid-19, facevano il giro del mondo. Il 27 marzo in Italia si era registrato il numero più alto di morti nella prima ondata, 919 in 24 ore, superato solo dai 993 del 3 dicembre successivo. La Mongolia sperimentava le chiusure anti-Covid già da febbraio, benché mancassero molti mesi al 29 dicembre, quando si sarebbe registrato il primo morto per Covid anche lì.

A causa delle chiusure, monsignor Giorgio non ha potuto essere ordinato vescovo in Mongolia e ha dovuto aspettare quattro mesi dopo la nomina. L’ordinazione è avvenuta l’8 agosto 2020 nella sua Torino, al santuario della Consolata.

È successore di mons. Wenceslao Selga Padilla, vescovo filippino della congregazione del Cuore immacolato di Maria, morto nel 2018, che, assieme ad alcuni confratelli, aveva rifondato la chiesa in Mongolia dal 1992, dopo 70 anni di comunismo. La Prefettura apostolica comprende l’intero territorio della Mongolia, 1,566 milioni di Km2 (quasi cinque volte l’Italia) nei quali vivono tre milioni di abitanti, e 1.300 cattolici. I sacerdoti sono 24, tutti, tranne uno che è locale, sono missionari stranieri. C’è un diacono che aspetta da due anni, a causa del Covid, di diventare prete, e 35 suore, anch’esse straniere.

A oggi, mons. Marengo non ha potuto ancora celebrare l’eucaristia con il suo popolo.

Monsignor Marengo, lei è diventato vescovo l’8 agosto 2020 nel bel mezzo della pandemia.

«La mia vita è cambiata in un anno strano. Molte delle cose legate al diventare vescovo, io le ho vissute fuori dagli schemi. Ad esempio: quando vieni nominato vescovo, entro 90 giorni devi essere consacrato. Ecco, per me non è stato possibile, perché in Mongolia non poteva venire nessuno, il paese era chiuso. Un altro esempio è la nomina: di solito vi è coinvolta molta gente, compreso il nunzio… per me, invece, eravamo quattro gatti, e tutto è stato fatto in sordina.

L’ho presa come un’indicazione di metodo, che poi è quello allamaniano di non fare rumore.

Oggi la Mongolia è ancora isolata e i luoghi di culto sono tutti chiusi da un anno e mezzo.

All’inizio, ho vissuto la pandemia in campagna, ad Arvahieer, come parroco. Quando è arrivato il momento di dare pubblicamente la notizia della mia nomina, sono andato in corriera a Ulaan Baatar. In quei giorni l’Italia era il paese più colpito dal coronavirus. Quando sono arrivato in capitale, è entrata la polizia nella corriera e, dato che io ero l’unico straniero, mi hanno chiesto di dove fossi. Quando ho risposto che ero italiano si sono spaventati tutti. Allora l’autista, che mi conosce, ha subito detto: “No no, lui vive qua, non era in Italia in queste settimane”».

Torino, consacrazione vescovile di Mons. Giorgio Marengo Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia

La chiusura ha riguardato solo le riunioni religiose, o tutti?

«A ondate è stata ridotta, fino a essere cancellata, anche la vita sociale in generale: le attività, i cinema, i teatri, ecc.

A intermittenza, le altre attività sono riprese, quella religiosa no. Non solo i luoghi di culto cristiani, ma tutti, anche i monasteri buddisti. Per noi cristiani è fondamentale recarci di persona in chiesa, per la celebrazione dei sacramenti, soprattutto l’eucaristia. È dunque un grande sacrificio quello che ci viene chiesto».

Ci fa una cronaca del Covid nel paese?

«Quando in Italia c’era il Festival di Sanremo, nel 2020, in Mongolia eravamo già chiusi.

Appena sono arrivate le prime notizie da Wuhan, il governo ha chiuso il confine con la Cina e ha bloccato tutte le comunicazioni interne.

In Mongolia sono molto bravi perché sono abituati a epidemie periodiche, per esempio alla peste bubbonica trasmessa dalle marmotte e dai roditori. Ogni anno d’estate ci sono dei luoghi in cui scoppia un focolaio, e allora chiudono tutto.

Per il Covid sono stati tempestivi, e sono riusciti a stare tranquilli per diversi mesi.

A marzo 2020 c’è stato il primo caso di un positivo: era un francese, lavoratore di una multinazionale. All’inizio è stato molto male, ma poi è guarito, e questa guarigione è stata vissuta dal paese come una vittoria. Si è diffusa un po’ l’illusione che la Mongolia fosse esente dalla pandemia. In effetti, i casi sono stati molto pochi per diversi mesi, fino all’autunno del 2020.

L’11 novembre è iniziato il primo lockdown serio, fino a Natale. Non si poteva uscire di casa. In quei mesi i mongoli hanno capito che non erano indenni neanche loro.

Con l’anno nuovo è iniziata la campagna vaccinale di massa. Questa primavera è stato un susseguirsi di lockdown e parziali riaperture.

Oggi (ad agosto, ndr) i casi sono molti e ci sono ancora decessi quotidiani, con picchi di 10 persone al giorno*».

Quali nuovi problemi e nuove opportunità ha portato la pandemia al paese?

«Nei momenti di chiusura sono emerse con più forza le grandi tensioni già presenti nella popolazione. Quelle che sfociano in piaghe sociali come l’alcolismo, che infatti ha avuto un boom.

La famiglia si sta sgretolando in Mongolia. Molte famiglie si sono trovate all’improvviso a stare “recluse” insieme nei pochi metri quadri della loro gher o appartamento, e sono venute fuori molte situazioni difficili, soprattutto laddove l’unità familiare era già minacciata dall’assenza di uno dei genitori, solitamente il padre. In generale, è balzata all’occhio di tutti la carenza del sistema sanitario. In un paese che sta crescendo, la sanità pubblica dovrebbe essere una priorità.

Il popolo mongolo, però, si compatta molto bene in caso di emergenza. Il sentimento di unità nazionale è molto forte, e si è visto chiaramente con la pandemia. Ad esempio, nessuno si lamenta della mascherina.

Sono anche emersi casi di eroismo civile: quando scarseggiavano ambulanze e autisti e lo stato ha chiesto aiuto alla popolazione, molta gente, anche con la propria macchina, si è offerta.

Come Chiesa abbiamo innanzitutto cercato di soccorrere le persone più in difficoltà, organizzando distribuzioni di generi di prima necessità. In questo, molti amici italiani sono stati di grande aiuto, rispondendo con generosità ai nostri appelli. Poi, trovandoci chiusi in casa, abbiamo potuto riflettere maggiormente sulle nostre attività, provando a intraprendere un discernimento. Da questo lavoro è nato, ad esempio, un progetto di catechesi in piccoli gruppi che possa andare avanti anche in caso di lockdown, perché le riunioni fino a cinque persone sono concesse. Una catechesi slegata dagli schemi del classico catechismo parrocchiale, quello fatto dall’autunno alla primavera, con la pausa estiva. Ci siamo inventati qualcosa di più adattabile.

E poi c’è tutto il discorso dei media: ancora adesso facciamo la trasmissione online della messa sul canale FB della prefettura apostolica della Mongolia. Anche le parrocchie la fanno. E i catechisti hanno iniziato a far circolare materiale sui social per sostenere i fedeli».

Qual è la peculiarità dell’essere un vescovo missionario della Consolata? Qual è il «valore aggiunto» che lei e i suoi confratelli vescovi offrite alle diocesi che guidate? E cosa offre il vostro essere vescovi all’Istituto?

«Alle chiese particolari i vescovi della Consolata offrono il loro essere missionari, quella spinta che va in ricerca non solo di chi è già cristiano, ma anche di chi è ancora fuori dal gregge cattolico. Penso anche alla nostra impostazione sacerdotale basata sulla spiritualità del beato Allamano, e quindi sui pilastri dell’eucaristia, della vita mariana e del fare bene il bene senza rumore. Sottolineerei soprattutto la dimensione della ricerca dell’annuncio. Cosa che magari in altri contesti, se il vescovo non viene da un’esperienza missionaria, può essere meno presente. Quindi un’attenzione particolare agli ultimi, e a quelli che, semplicemente, non sono cristiani, un atteggiamento di dialogo, una volontà di creare ponti nella società.

Per l’Imc avere dei vescovi tra i suoi missionari penso possa voler dire avere sott’occhio la situazione delle Chiese particolari da una prospettiva un po’ più ampia. Sono un po’ come delle voci che portano dentro l’Istituto tutta la Chiesa».

Il motto del suo episcopato è un versetto del salmo 34: «Guardate a Lui e sarete raggianti». In che modo ha vissuto questa esortazione nel suo primo anno da vescovo?

«Intanto mi sono piacevolmente stupito di come questo salmo ritorni molto spesso nella liturgia feriale. Ogni tanto nella messa quotidiana salta fuori questo “guardate a Lui e sarete raggianti”. Puntare lo sguardo del cuore verso il Signore penso sia la priorità del vescovo missionario.

Cerco, con tutta la mia povertà, di attaccarmi a questa Parola per viverla. La sproporzione fra le esigenze e le sfide della chiesa, e la mia povertà personale, mi mette con le spalle al muro, e mi rende più consapevole che la luce viene da Cristo. Se veramente guardiamo tutti a Lui, questa luce poi si espande nelle nostre realtà.

Poi c’è questa particolarità: “Guardate a lui e sarete raggianti” può essere tradotto anche con “guardate a lui e sarete luminosi”, oppure “illuminati”. Ecco, per noi l’illuminazione viene come pura grazia, non è il raggiungimento di un’intuizione nostra, è la luce di Cristo che ci raggiunge. L’illuminazione è anche il concetto centrale del buddismo. Quindi per me il versetto del salmo 34 ha anche il gusto del dialogo interreligioso.

Ho una grande stima dell’illuminazione come cammino di perfezionamento proposto dal buddismo, e nello stesso tempo sono felice di essere cristiano perché so che la luce viene e, semplicemente, noi la dobbiamo accogliere, e che arriva per chiunque, non è una cosa riservata a pochi intimi, ma è la proposta cristiana per tutti».

Luca Lorusso

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mongolia sono stati 236mila, 780 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 968, uno ogni 3.127 abitanti (in Italia uno ogni 470).


Scuola, sanità e narcos

Colombia: Monsignor Joaquín Humberto Pinzón Güiza

Monsignor Pinzón è il primo vescovo del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano. In un territorio «remoto», dove i confini sono percepiti come idee astratte, il Covid ha portato la durezza del confinamento, e la coscienza di essere uno spazio marginale per lo stato centrale. La pandemia ha evidenziato la carenza di sanità e scuola, ma anche il potere del narcotraffico e dei gruppi di guerriglieri. Nonostante questo, la resilienza e la speranza del popolo rimangono intatte.

Il nostro Vicariato di Puerto Leguizamo-Solano, costituito nel 2013, si trova nel Sud dell’Amazzonia colombiana. Comprende un territorio di 56mila km2 in cui convergono le comunità di tre dipartimenti colombiani: Sud di Putumayo, Sud di Caquetá e Nord dell’Amazzonia. La sua popolazione è di circa 59mila abitanti, di cui 49mila cattolici. Ci sono tredici sacerdoti, di cui 12 religiosi e uno diocesano, e 12 suore per 5 parrocchie. Uno dei suoi tratti peculiari è il suo carattere di confine (tra Colombia, Perù ed Ecuador), che consente lo sviluppo di dinamiche di scambio a tutti i livelli.

Frontiere immaginarie, frontiere reali

Quando papa Francesco dice che «tutto è connesso», ci aiuta a prendere coscienza che le dinamiche vitali che si generano sul pianeta riguardano tutti noi che lo abitiamo.

Essa è una verità ancora più evidente in questo tempo di pandemia da Covid-19. Chi avrebbe immaginato che il coronavirus, avendo avuto origine in terre lontane, avrebbe colpito anche questo angolo di mondo? Questo «luogo remoto», come è considerato da molti.

Possiamo dire che la pandemia non solo ha raggiunto il nostro territorio, ma ci ha anche colpito in modi sorprendenti e inaspettati*.

In questo spazio di vita colombiano dove i confini politici degli stati spesso sono più realtà immaginarie che effettive, dove le frontiere non entrano nella mentalità delle persone e dei popoli, ci è stato imposto un confinamento duro.

Improvvisamente le nostre interazioni e i nostri movimenti sono stati limitati.

Abbiamo capito che nonostante l’Amazzonia sia ampia, possono verificarsi condizioni che impongono limiti al movimento e alle relazioni.

Ora i confini nazionali e internazionali stavano entrando in vigore e in vita. Sì, la sfocatura e la relatività dei confini erano fortemente diluite davanti al nostro sguardo attonito e impotente.

Ora il fiume che ci ha sempre unito, non solo ci separava, ma sollevava nazionalismi che non aiutano nella ricerca di soluzioni ai problemi comuni che affrontiamo come persone, popoli e paesi.

Ora reciprocità e armonia lasciavano il posto all’isolamento e alle tensioni personali e comunitarie, locali, nazionali e internazionali.

Mons Pinzon con suor Gabriella Bono

Territorio trascurato: salute, scuola, fame

Il Covid-19 non solo ha messo in evidenza le differenze tra i paesi, ma ha anche e soprattutto rivelato le differenze all’interno del nostro paese. Abbiamo capito che quando veniamo chiamati «abitanti lontani» c’è qualcosa di vero, poiché in questo tempo di pandemia si è manifestato in modo chiaro lo storico abbandono dei luoghi periferici della Colombia da parte dello stato.

È così che il nostro territorio si rivela, pur con tutto il suo splendore, come territorio marginale, territorio di remota, vera frontiera. I servizi sanitari sono carenti: non esistono né le infrastrutture né il personale sufficiente, tanto meno le attrezzature e le forniture necessarie. Se la pandemia ha aiutato in qualcosa, l’ha fatto nell’evidenziare la precarietà del sistema sanitario.

Anche i servizi educativi sono stati travolti. Si è pensato di poter offrire un’educazione virtuale ai nostri bambini e ragazzi, ma qui, al di là dei cartelloni pubblicitari che affermano: «Leguizamo vive digitale», non c’è un servizio internet all’altezza. Non esistono apparecchiature informatiche che possano consentire ai ragazzi di connettersi. Se queste carenze sono state vissute nei centri urbani, che dire dei villaggi e delle comunità più remote?

È stato un fenomeno che ha esacerbato i problemi già esistenti di un sistema educativo di bassissima qualità, con molti limiti materiali e umani; un sistema che sopravvive grazie agli enormi sforzi degli insegnanti.

Purtroppo, tra i ragazzi c’è una grande diserzione della scuola: molti, demotivati dal fatto di non avere i mezzi per studiare, hanno iniziato a lavorare in fattorie, miniere o coltivazioni illecite.

Il confinamento ha portato anche la fame a coloro che vivono alla giornata (soprattutto nei centri abitati). A riguardo di questo, apprezziamo molto la generosità che è nata per soccorrere tante famiglie in difficoltà. Il valore della solidarietà è stato visibile.

Tarapaca, Colombia. Nov. 12, 2020. Aiuto a una famiglia in necessità. Credit: UE / ECHO / Nadège Mazars

Il traffico di droga non si ferma

Una realtà che non ha subito il confinamento è stata quella del traffico di droga. Anche durante la pandemia hanno continuato a esistere la coltivazione, la lavorazione e la commercializzazione delle droghe. È un fenomeno che rafforza un altro problema drammatico: la violenza.

Senza dubbio, quest’altra pandemia, quella della violenza, ha generato più morti del Covid-19, soprattutto tra i giovani.

Le coltivazioni illecite hanno la capacità di incoraggiare le nuove generazioni a entrare nel mondo del guadagno facile, di difondere quella che viene definita «narco mentalità», quella di chi vuole arricchirsi in fretta e con poco sforzo.

Tutto questo sta generando disgregazione familiare e sociale, sia nelle comunità contadine che in quelle indigene.

La guerriglia

Un’altra realtà, legata a quella della droga, che non ha vissuto il confinamento, è quella bellica. Essa ha continuato a seguire il suo corso «normale», uccidendo e provocando danni.

Gli effetti del processo di pace che si sta portando avanti con i guerriglieri delle Farc, li abbiamo sentiti nella fase di attuazione, quando il gruppo di insorti ha deciso di consegnare le armi. Abbiamo vissuto un periodo di armonia nel territorio e abbiamo potuto sperimentare una certa tranquillità. Ma è stato qualcosa di effimero, come ci ha detto un contadino: «Tanta felicità non può essere così duratura».

Ebbene, purtroppo, il processo di pace non ha previsto come fare per mantenere il controllo e garantire l’ordine nei territori precedentemente in mano alle Farc. Le istituzioni non sono state in grado di arrivare in quei territori. E i territori strategici per la loro collocazione geografica, come il nostro, sono diventati oggetto di contesa da parte di diversi attori, come i dissidenti delle Farc e i gruppi legati al narcotraffico (senza specifica identificazione), tutti motivati dal profitto che le economie illegali portano, e tutti generatori di paura, ansia, caos e morte.

La nostra gente vive consapevole che non c’è alternativa al resistere, e al resistere con saggezza e prudenza, come sa fare da decenni. È la stessa strategia che mette in atto per affrontare il Covid.

Fare del Covid un’opportunità per la vita

Le devastazioni della pandemia da Covid-19 e le altre pandemie che abbiamo descritto, fanno percepire alle persone la fragilità della vita, nonostante sia un dono così prezioso. La malattia, così come la violenza, non hanno remore a colpirci con forza. Ciò che risalta di più in questa lotta è la resilienza delle persone che guardano al futuro con speranza.

Scendendo dal fiume Caquetá sul deslizador, mezzo di trasporto fluviale di questi territori, ho assistito a una conversazione tra alcune persone. Mi ha colpito la frase di una donna: «A che ci è servito tutto questo, se non impariamo niente? Continuiamo come prima».

La verità è che, per molti, tutto quello che hanno vissuto in questo tempo di pandemia, è stato solo una parentesi da chiudere al più presto per tornare alla «vita normale». Ma c’è anche chi crede che questa esperienza ci abbia aiutato in qualcosa, soprattutto a pensare e ripensare il nostro stile di vita politico, economico e sociale.

La pandemia ha messo in luce lo splendore e la fragilità della vita, e la precarietà dei nostri servizi educativi e sanitari. Ecco perché l’imperativo che ne traiamo è quello di valorizzare la vita al di là di ogni altra realtà e di lottare per essa, individualmente e collettivamente.

L’incertezza è ciò che caratterizza il futuro del nostro territorio. Il destino della guerra e del traffico di droga è incerto; incerta la situazione di abbandono da parte dello stato, e la condizione dei servizi educativi e sanitari. Sì, tutto è incerto, e qualsiasi previsione sarà sempre inscritta nell’orizzonte delle probabilità, delle utopie che a volte si trasformano in chimere. Tuttavia noi, come Chiesa, crediamo che la situazione che stiamo vivendo sia uno spazio propizio per sviluppare una spiritualità che ci permetta di affrontare le difficoltà, per rafforzare le spiritualità dei popoli e, al loro interno, proporre la spiritualità della cura, della riconciliazione, della comunione e dell’accompagnamento.

Qui è urgente sognare, progettare e realizzare propositi evangelici che formino e alimentino la vita dei credenti come popolo e come discepoli.

Essere famiglia umana

La coscienza di essere un’unica famiglia umana si rafforza nella fraternità e nell’amicizia sociale.

Nel nostro Vicariato sarà urgente la formazione della coscienza comunitaria, e il rispetto della vita in tutte le sue manifestazioni.

Qui siamo sollecitati a capire che siamo tutti sulla stessa barca e che i problemi di alcuni riguardano tutti, come ha sottolineato papa Francesco. È necessario dare corpo all’utopia della fratellanza, quella tra gli uomini e quella tra l’uomo e la natura. A tal fine, cercheremo di fare delle nostre comunità spazi di vita e di comunione, spazi di trasmissione e coltivazione dei valori di un’umanità solidale.

I motivi per credere sono tanti, tanto da fare della resistenza la nostra forza e da trasformare la paura in speranza.

Joaquín Humberto Pinzón Güiza

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Colombia, su una popolazione di 48,6 milioni di persone, sono stati 4,9 milioni, 1.011 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 125.331, uno ogni 387 abitanti (in Italia uno ogni 470).

Casa distrutta dal ciclone Idai a Tete


Se non bastassero cicloni e terrorismo

Mozambico: Monsignor Diamantino Guapo Antunes

Successore del suo confratello, monsignor Ignazio Saure, divenuto arcivescovo di Nampula, mons. Diamantino è vescovo di Tete dal 12 maggio 2019. È il quinto da quando la diocesi è stata eretta nel 1962. Il Covid, in Mozambico, come in molti altri paesi, ha reso ancora più evidente l’insufficienza della sanità pubblica, e il bisogno di vicinanza e di gesti di consolazione.

La diocesi di Tete conta circa tre milioni di abitanti sparsi in un’area di 100mila Km2 (un terzo dell’Italia). I cattolici sono 750mila. Ci sono 35 parrocchie, 65 sacerdoti, tra cui 17 diocesani e gli altri missionari. I Missionari della Consolata sono sette, incluso il vescovo, responsabili di quattro missioni e un centro di formazione per catechisti.

Il territorio è molto vario, c’è una zona fertile molto popolata (altipiano di Angonia), e una zona secca e arida (lungo il rio Zambesi). Centro propulsore di tutta la regione è la città di Tete.

Le popolazioni appartengono alla stessa etnia bantu, ma sono differenti per lingua e tradizioni. Le principali lingue sono: cinyungwe (40%), cichewa (35%) e cisena (15%) e altre (10%).

La gente vive di agricoltura e, quando può, di commercio informale con bancarelle lungo la strada. Si vive a contatto con le popolazioni dello Zambia, Zimbabwe e Malawi. Il territorio di Tete è ricco di miniere di carbone e ha una delle più grandi centrali idroelettriche dell’Africa, la diga di Cabora Bassa sul fiume Zambezi.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Storia della diocesi

Possiamo dividere la storia dell’evangelizzazione nell’attuale diocesi di Tete in due periodi. Il primo fu iniziato nel 1562 da gesuiti e domenicani che rimasero nella zona fino alla loro espulsione nel 1910. Il secondo iniziò nel 1942, e fu un periodo di penetrazione e consolidamento della Chiesa nel vasto territorio. Esso portò alla creazione della diocesi nel 1962. L’opera di evangelizzazione continua a essere svolta dai gesuiti, dai Missionari d’Africa, dai Padri di Burgos, dai Missionari Comboniani e della Consolata, a diretto contatto con la popolazione, nel lavoro quotidiano e nell’assistenza sanitaria, con notevoli frutti.

La situazione pandemica

Il primo caso di infezione con il nuovo coronavirus in Mozambico è stato confermato il 22 marzo 2020. Si trattava di un uomo di 75 anni tornato dal Regno Unito. Nel 2020 i casi di infezione sono stati pochi, ma con l’allentamento di alcune misure di prevenzione alla fine dell’anno, e l’arrivo dei turisti sudafricani, i casi sono aumentati notevolmente*.

Il Mozambico a inizio agosto era il paese africano con il maggiore tasso di positività, il 16,7%. Le misure del governo si sono fatte più severe. Le scuole sono state chiuse in alcune città, i luoghi di culto pure, c’è il coprifuoco dalle 21 alle 4. Mercati chiusi la domenica. Funerali limitati.

Gli operatori sanitari sono vaccinati, ma la campagna di vaccinazione è lenta. L’intento è di estenderla a tutto il paese entro la fine del 2021.

I nuovi problemi

Il Covid-19 è arrivato in Mozambico in un momento di grande difficoltà. Eravamo nel mezzo della gestione dell’emergenza legata ai cicloni Idai e Kenneth, che avevano distrutto nel 2019 case, centri di salute e ospedali, oltre ad aver causato 600 morti e molti dispersi. Inoltre il terrorismo islamista nella provincia di Cabo Delgado era (ed è) un altro grave problema.

La pandemia ha avuto un grande impatto sull’economia e sulla società, in particolare sul turismo e l’esportazione di materie prime. Il 60% degli stabilimenti turistici ha chiuso. La caduta dei prezzi di materie prime, come carbone e gas, ha pregiudicato gli investimenti esteri, facendo perdere altri posti di lavoro ed entrate statali.

Le piccole imprese hanno immensa difficoltà a mantenere i propri impegni fiscali, divenendo un problema per il paese già abbastanza indebitato.

L’impossibilità dell’insegnamento in presenza ha avuto un profondo impatto sul settore educativo. Lo stesso possiamo dire in campo religioso con la sospensione delle celebrazioni pubbliche e delle altre attività pastorali.

Senza accesso a redditi o sussidi di disoccupazione, con un risparmio piccolo o nullo, e in uno scenario di aumento dei prezzi, la popolazione più povera di Tete, soprattutto urbana, è oggi vulnerabile alla fame. La povertà e l’insicurezza alimentare aumentano l’insicurezza pubblica e urbana, e la piccola criminalità.

Infine, si è ridotta la risposta dei servizi sanitari di trattamento e prevenzione di altre malattie comuni come malaria, tubercolosi, Hiv-Aids.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

La risposta della diocesi di Tete

La provincia di Tete è una delle più colpite dalla pandemia. Essa è, infatti, un corridoio di passaggio per i vicini Malawi, Zambia e Zimbabwe.

La diocesi ha cercato di mantenere viva la speranza tra la gente e di essere una presenza di consolazione e aiuto. Il vescovo ha visitato le missioni ed è stato in contatto con le comunità. Ha chiesto ai missionari di stare ancora più vicini ai fedeli, anche visitando le famiglie.

Siamo a stretto contatto con il ministero della Sanità a livello provinciale, partecipiamo ai tavoli tecnici per organizzare una risposta al coronavirus che metta al primo posto la prevenzione.

Nella Provincia di Tete c’è meno di un medico ogni 10mila abitanti (in Italia ce n’è uno ogni 247, ndr) e le strutture sanitarie sono poche e a volte prive di medicinali. Per questo la prevenzione e la formazione sono la chiave.

Gli agenti di pastorale si sono impegnati anche per diffondere messaggi di sensibilizzazione sul coronavirus, lavorando in piccoli gruppi per rispettare il distanziamento sociale. Abbiamo prodotto spot che sono trasmessi dalla neonata radio diocesana. Gli spot vengono diffusi in dialetti differenti, per arrivare a tutti. Alcuni missionari hanno montato degli amplificatori sulle macchine che girano per barrio e villaggi diffondendo le stesse raccomandazioni.

Diamantino Guapo Antunes

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mozambico, su una popolazione di 28,8 milioni di persone, sono stati 148mila, 51 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.881, uno ogni 15mila abitanti (in Italia uno ogni 470).


Una chiesa piccolo ma pronta

Eswatini: Monsignor José Luís Gerardo Ponce de León

Dal 2014 è vescovo dell’unica diocesi del piccolo Regno di Eswatini. Monsignor Ponce de León descrive una chiesa viva in un paese che, pur pacifico, ha manifestato negli ultimi mesi diverse tensioni, e palesato problemi sanitari, scolastici, economici e sociali rafforzati dal Covid.

Il Regno di Eswatini si trova tra Sudafrica e Mozambico. Il paese, che fino al 2018 si chiamava Swaziland, ha di recente fatto notizia a causa delle violenze dello scorso luglio. Conosciuta come una nazione pacifica, in pochi giorni ha visto la morte di una cinquantina di persone, il ferimento di altre centinaia, e la distruzione di molti negozi.

La diocesi di Manzini è l’unica del paese e, così, io sono l’unico vescovo cattolico. Su una superficie di 17mila km2 (come il Lazio, ndr) vivono 1,4 milioni di abitanti dei quali il 5% cattolici. Arrivato nel 2012 come «amministratore apostolico» dopo la morte di mons. Louis Ncamiso Ndlovu dell’Ordine dei servi di Maria, nel gennaio del 2014 sono diventato il suo quinto vescovo.

La piccola presenza cattolica, in questa nazione a maggioranza cristiana, è ben conosciuta, anche grazie al nostro servizio nel campo della salute (un ospedale, sette cliniche, un ospizio), dell’educazione (sessanta scuole) e della promozione di giustizia e pace (traffico di persone, rifugiati) coordinati dalla Caritas Eswatini.

Proteggere la popolazione

Non appena il presidente del Consiglio ha dichiarato, lo scorso marzo 2020, lo stato di emergenza, la nostra diocesi ha preso due iniziative. La prima è stata quella di interrompere la celebrazione delle funzioni religiose in tutte le parrocchie (17) e le comunità (un centinaio). La rapidità della decisione ha colto di sorpresa molti che hanno così capito la gravità della pandemia. La seconda è stata quella di identificare, insieme alla Caritas, le aree di intervento urgente. Ne abbiamo identificate sei: salute, cibo, acqua, rifugiati, comunicazione, casa.

Salute. Abbiamo fornito l’ospedale, i centri di salute e l’ospizio dei dispositivi di protezione individuale. La Conferenza episcopale italiana ci ha aiutati.

Cibo. La mancanza lavoro e la riduzione degli stipendi hanno inciso sulle famiglie. Le scuole, poi, nel nostro paese, sono una delle principali fonti di nutrimento per i bambini. Con le scuole chiuse, non ne potevano più beneficiare. Per questo, attraverso le nostre parrocchie, stiamo fornendo pacchi alimentari ai poveri della zona.

Acqua. Il messaggio «Lavati le mani» è stato uno dei primi che tutti abbiamo ricevuto e predicato. La domanda qui era: «Come fai quando l’acqua non c’è?». Abbiamo quindi offerto ad alcune famiglie una cisterna e delle grondaie per raccogliere l’acqua piovana. Avere un serbatoio consente anche di acquistare acqua da conservare per i tempi meno piovosi.

Informazione. Come in altri paesi, il governo ha utilizzato radio e Tv per informare sul virus. Con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che c’erano famiglie nelle zone rurali che non avevano nemmeno una radio. Pertanto è stato fatto un elenco di 500 famiglie cui fornirle. Le radio hanno aiutato anche i bambini che hanno potuto ascoltare i programmi radiofonici di insegnamento.

Case con due stanze. Questo programma è iniziato in diocesi molti anni fa grazie al supporto di Home Plan (Olanda). Il Covid-19 lo ha reso più urgente. Il distanziamento è essenziale nella lotta al virus, ma per alcune famiglie che vivono affollate in case di una sola stanza è un lusso.

Rifugiati. Ogni anno visitiamo il Centro per i rifugiati sostenendo le famiglie con pacchi alimentari. La metà dei rifugiati sono bambini. Quest’anno la richiesta del Centro è stata di fornire loro articoli da toeletta e materassi.

Cinquantesimo di padre Massa

Vicinanza social, ma non solo social

Come in altre nazioni, il Covid, oltre a creare dei nuovi problemi, ha portato allo scoperto quelli che già esistevamo ma stavano nascosti, come la mancanza di cibo e di acqua. Ne ha anche accentuati diversi, come la difficoltà delle famiglie di pagare la scuola: quando i giovani hanno potuto tornarci, tanti ci hanno chiesto una mano. La Chiesa cattolica qui è conosciuta come una chiesa al servizio di tutti, e il vescovo, in qualche modo, padre di tutti. Chiunque ne ha bisogno viene a trovarmi e, anche se non possiamo aiutare ogni volta, apprezzano di essere ascoltati.

Da sempre la diocesi ha saputo rispondere alle sfide sociali. Il Covid però ha portato nuove sfide come quella di accompagnare la fede dei cattolici che non potevano più andare in chiesa. La messa qui non è un’abitudine. Celebrare insieme è un elemento forte della nostra spiritualità.

Abbiamo allora preparato dei file audio da inviare via WhatsApp: preghiere e riflessioni sulle letture proposte dai preti della diocesi. Abbiamo anche offerto la messa della domenica su YouTube e, nella settimana santa, «le sette parole».

Con la pagina Facebook della diocesi sappiamo di aver raggiunto tanti.

Le sfide non finiscono

Al momento di scrivere questo articolo Eswatini si trova ad affrontare la terza ondata del Covid*, e soltanto il 10% della popolazione ha ricevuto le due dosi del vaccino. I numeri di coloro che possono entrare in chiesa è limitato. Chi vuole prepararsi per i sacramenti (battesimo degli adulti, comunione, cresima) non può farlo.

Per di più viviamo un tempo di violenza. Sembra che la calma sia tornata, ma è dovuta soltanto alla presenza dei soldati per le strade.

Un’altra sfida che rimane è quella della vicinanza a coloro che sono stati colpiti dal Covid. C’è bisogno di aiuto a livello spirituale e psicologico. Chi è stato contagiato e ha sentito la morte alle porte, chi ha visto i famigliari soffrire o morire a casa (una donna ne ha persi sette in due mesi), è rimasto con delle ferite non guarite.

Le chiese sono sempre il punto di riferimento più importante nei momenti difficili, e, allo stesso tempo, sono le prime a dover chiudere le porte…

Abbiamo bisogno, come diocesi, di ritrovarci (preti, religiose e laici) per riflettere su come essere chiesa in questo momento. La terza ondata probabilmente non sarà l’ultima e rischiamo di mancare di creatività, quella che ci porta lo Spirito, per continuare a testimoniare il Risorto.

José Luís Gerardo Ponce de León

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi registrati in Eswatini, su una popolazione di 1,5 milioni, erano 44mila, 302 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.158, uno ogni 1.267 abitanti (in Italia uno ogni 470).


È tempo di prendersi cura

Brasile: Monsignor Giovanni Crippa

Fin dall’inizio dell’emergenza Covid, dal marzo 2020, la Chiesa brasiliana si è spesa per soccorrere la popolazione, in particolare i poveri. Anche nella diocesi di Estância, dove monsignor Crippa è stato vescovo dal 2014 fino ad agosto, la pandemia ha colpito duro, ma la risposta della Chiesa è stata, ed è, forte e creativa.

La diocesi di Estância è stata eretta da papa Giovanni XXIII nel 1960. Il suo territorio fu il primo in Sergipe (Nord Est del Brasile, ndr) a essere toccato dall’azione missionaria dei Gesuiti (1575).

Situata nella parte centro meridionale dello stato di Sergipe, la diocesi ha una superficie di 6.650 km2 e una popolazione di 509.675 abitanti, di cui, secondo il censimento del 2010, il 50,56% vive in aree urbane e il 76,85% si dichiara cattolico.

La popolazione è il risultato dell’incrocio di indios, neri (ex schiavi) e bianchi figli dei colonizzatori, particolarmente dal Portogallo.

Abbiamo 28 parrocchie e 617 comunità, 41 sacerdoti, tutti diocesani, 22 seminaristi, 8 istituti religiosi femminili, con 52 religiose in 12 comunità.

Le frequenti situazioni di violenza, disoccupazione, illegalità e aggressione all’ambiente richiamano l’attenzione della diocesi, la quale risponde con progetti di formazione e di promozione umana, giustizia e salvaguardia del creato.

La realtà pandemica in Brasile

Tutti nel mondo stiamo vivendo un momento molto difficile a causa della pandemia. Un tempo che tocca la vita delle comunità nei suoi aspetti pastorali, liturgici, spirituali, sociali ed economici.

Il Brasile è uno dei paesi più colpiti, e fin da subito la Chiesa brasiliana si è mobilitata. Già il 15 marzo 2020, infatti, la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha diffuso un messaggio chiedendo l’osservanza delle indicazioni sanitarie per contrastare la diffusione del virus.

La pandemia, inoltre, ha aggravato la crisi politica già in atto da tempo nel paese. Il 30 aprile 2020, il Consiglio pastorale episcopale della Cnbb ha approvato una nota in cui dichiarava il proprio impegno per un «Patto per la vita e il Brasile», firmato con altre importanti entità brasiliane. Allo stesso modo, ha invitato la società e le autorità pubbliche a unirsi per prevenire e combattere la più grave crisi sanitaria degli ultimi tempi.

Ordinazione episcopale del vescovo Giovanni Crippa

In quello stesso mese di aprile 2020 la Cnbb e la Cáritas brasileira hanno avviato l’iniziativa «É Tempo de cuidar» (È tempo di prendersi cura) con l’obiettivo di promuovere la solidarietà a favore delle famiglie bisognose, prive di cibo, lavoro, casa e accesso alle cure mediche.

Un anno dopo, nella 58ª Assemblea generale della Cnbb dell’aprile 2021, è stata nuovamente discussa la realtà pandemica in Brasile, e si è deciso di proseguire con la campagna. L’iniziativa «É Tempo de cuidar» incoraggia anche il supporto spirituale, psicologico e religioso per chi ha vissuto il lutto a causa della pandemia.

Con il tema «Ogni vita è importante», la Cnbb ha poi organizzato il 19 giugno 2021 una giornata di sensibilizzazione e preghiera in memoria degli oltre 500mila morti per Covid-19. Per entrare in sintonia con la Cnbb e il popolo brasiliano, nello stesso giorno, alle ore 15, tutte le campane delle chiese hanno suonato assieme.

Il 9 luglio 2021, ancora una volta, la Cnbb ha alzato la voce per difendere le vite minacciate, i diritti violati e per sostenere il ripristino della giustizia, cosciente che la società democratica brasiliana sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia.

La tragica perdita di oltre mezzo milione di vite, fra le quali un grande numero di sacerdoti e alcuni vescovi, è purtroppo aggravata dal sospetto di illeciti e corruzione compiuti nella lotta alla pandemia. Il grande numero di contagiati* ha rivelato la precarietà del sistema ospedaliero brasiliano, nonché il rifiuto degli orientamenti della scienza da parte dell’attuale governo, particolarmente del presidente Jair Messias Bolsonaro.

Gli effetti nella diocesi

Anche la diocesi di Estância ha dovuto prendere decisioni che hanno segnato la vita delle comunità. Dal 18 marzo 2020, infatti, si è entrati in una sorta di quarantena generale: rapporti sociali ridotti al minimo, distanza di sicurezza tra le persone, manifestazioni di affetto da evitare, confinamento in casa, rinuncia a tutte le attività che comportano assembramenti, comprese le celebrazioni eucaristiche pubbliche.

La pandemia ci ha chiesto di essere più umili: con una maggiore coscienza dei nostri limiti e di non essere né onnipotenti né autosufficienti.

In questo tempo siamo chiamati a ricostruire la speranza, promuovere la solidarietà e incentivare la preghiera. È un tempo che ci ha chiesto una vita di austerità, sobrietà e semplicità.

Tutte le comunità hanno dato una testimonianza evangelica di solidarietà raccogliendo donazioni per i bisogni dei più poveri che bussano sempre più numerosi alle porte delle nostre chiese.

Se le porte delle nostre chiese sono rimaste «chiuse» per un certo tempo, la Chiesa ha però continuato la sua azione evangelizzatrice.

Le sfide in tempi di Covid

La condizione inedita in cui viviamo suscita molti interrogativi e, soprattutto, richiede un discernimento spirituale su ciò che il Signore vuole comunicarci in questo momento di tribolazione.

La pastorale ha bisogno in questo momento di reinventarsi, di usare la creatività. Le Linee generali per l’azione evangelizzatrice della Chiesa in Brasile (Dgae 2019-2023), sono strutturate sulla Comunità ecclesiale missionaria presentata con l’immagine della «casa». Una casa con le porte aperte per entrare (l’importanza dell’accoglienza) e anche per uscire (in missione).

La situazione che stiamo vivendo ci chiede di essere audaci cercando Gesù fuori dalle nostre case. Gesù non può essere ridotto al tempio. Le chiese dalle «porte ancora semi chiuse» ci provocano e ci sfidano a fare delle nostre case uno spazio per costruire la Chiesa domestica.

La Chiesa, anche attraverso i social media, ha davanti a sé la grande sfida di andare nelle periferie geografiche ed esistenziali e risvegliare tanti fratelli e sorelle alla vita di fede comunitaria.

La pandemia ha colpito tutti, anche se con impatti diversi. In questo momento, la Chiesa deve essere un «ospedale da campo» per sanare le ferite, offrire consolazione e speranza. Le situazioni di miseria, perdita del lavoro, vulnerabilità al contagio, interpellano la Chiesa a collaborare per il bene comune con le autorità pubbliche, a superare l’assistenzialismo e ad aiutare le persone a essere soggetti della propria storia.

Forse l’attuale «stato di emergenza» è un indicatore e anche un acceleratore del nuovo volto della Chiesa che Gesù vuole per questo nuovo tempo, che non può e non deve tornare indietro.

Giovanni Crippa**

* Al 7 settembre, i casi registrati in Brasile, su una popolazione di 207,6 milioni, erano 20,9 milioni, 1.006 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 584mila, uno ogni 355 abitanti (in Italia uno ogni 470).

** Pochi giorni dopo aver scritto queste righe, monsignor Giovanni Crippa, l’11 agosto, è stato nominato dal papa vescovo di Ilhéus, diocesi 600 km più a Sud.


Attuali vescovi IMC:

  1. Luis Augusto Castro Quiroga nato l’8/4/1942 a Santa Fe de Bogotá (Colombia). OE: 29/11/1986 a Santa Fe de Bogotá.
  2. Virgilio Pante nato il 16/3/1946 a Lamon, (Italia). OE: 6/10/2001 a Maralal.
  3. Anthony Ireri Mukobo nato il 23/9/1949 a Mufu – Kyeni (Kenya). OE: 18/3/2000 a Nairobi.
  4. Elio Rama nato il 28/10/1953 a Tucunduva (Brasile). OE: 30/12/2012 a São Paulo.
  5. Peter Kihara Kariuki nato il 6/2/1954 a Thunguri – Othaya (Kenya). OE: 11/9/1999 a Murang’a.
  6. Francisco Javier Múnera Correa nato il 21/10/1956 a Copacabana (Colombia). OE: 11/2/1999 a Santa Fe de Bogotá.
  7. Giovanni Crippa nato il 6/10/1958 a Besana in Brianza (Italia). OE: 13/5/2012 a Feira de Santana.
  8. Inácio Saure nato il 2/3/1960 a Balama (Mozambico). OE: 22/5/2011 a Maputo.
  9. José Luis Gerardo Ponce de León nato l’8/5/1961 a Buenos Aires (Argentina). OE: 18/4/2009 a Mtubatuba.
  10. Diamantino Guapo Antunes nato il 30/11/1966 a Albergaria dos Doze (Portogallo). OE: 12/05/2019 a Tete.
  11. Joaquín Humberto Pinzón Güiza nato il 3/7/1969 a Velez (Colombia). OE: 20/4/2013 a Bogotá.
  12. Giorgio Marengo nato il 07/06/1974 a Cuneo (Italia). OE: 8/8/2020 a Torino.

Hanno contribuito al dossier:

  • Monsignor Giorgio Marengo Vescovo di Ulaan Baatar, Mongolia, dall’8/8/2020.
  • Mons. Joaquín Humberto Pinzón Vescovo di Puerto Leguízamo-Solano, Colombia, dal 20/4/2013.
  • Mons. Diamantino Guapo Antunes Vescovo di Tete, Mozambico, dal 12/5/2019.
  • Mons. José Luís Gerardo Ponce de León Vescovo di Ingwavuma, Sudafrica, dal 18/4/2009; poi vescovo di Manzini, Regno di Eswatini, dal 26/1/2014.
  • Mons. Giovanni Crippa Vescovo ausiliare di São Salvador da Bahia, Brasile, dal 13/5/2012; poi vescovo di Estância, Sergipe, Brasile, dal 9/7/2014; ora vescovo di Ilhéus, Bahia, Brasile, dal 9/10/2021.
  •  Luca Lorusso Giornalista redazione MC che ha curato il dossier

 




Clima, cibo, economia: dalla Cop26 al G20

testo di Chiara Giovetti |


La conferenza sul clima Cop26, il vertice Onu sui sistemi alimentari e il G20 si sono svolti o stanno per svolgersi in questo autunno 2021. Le decisioni e gli indirizzi che forse emergeranno da questi eventi potrebbero rivelarsi decisivi per il futuro del pianeta e del modo in cui affronteremo le crisi sanitarie, alimentari e ambientali che verranno.

Il 23 settembre si è tenuto a New York il vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, uno degli eventi previsti nell’ambito del cosiddetto Decennio di azione sulla nutrizione@ che è iniziato nel 2016 e si concluderà nel 2025. Lo scorso luglio a Roma, presso la Fao, agenzia Onu per il cibo e l’agricoltura, si è svolto il prevertice, ospitato dal governo italiano.

Il 30 e 31 ottobre sarà la volta del G20@, il forum internazionale che riunisce i 19 paesi del mondo più industrializzati (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti) più l’Unione europea, che si svolgerà a Roma.

Infine, dal 31 ottobre al 12 novembre avrà luogo a Glasgow, in Scozia, la 26° Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, o Cop26@. L’Italia organizza la Conferenza insieme al Regno Unito e ha ospitato a settembre gli eventi preparatori come il vertice pre-Cop@, l’ultimo incontro ministeriale prima dell’inizio dei lavori a Glasgow, con l’obiettivo di «fornire a un gruppo selezionato di paesi un ambiente informale per discutere e scambiare opinioni su alcuni aspetti politici chiave dei negoziati e offrire per questi ultimi una guida politica».

I tre eventi affrontano temi fra loro profondamente legati: clima, cibo, economia. Due degli incontri, la Cop26 e il G20, hanno anche il potenziale di definire accordi che determineranno davvero le successive azioni dei paesi partecipanti. Lo ha sottolineato lo scorso luglio il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, in occasione del prevertice sui sistemi alimentari alla Fao: «La presidenza italiana del G20 ha individuato le priorità per migliorare la sicurezza alimentare globale. Tra queste, l’impatto negativo dei cambiamenti climatici sarà al centro della Cop26 che l’Italia presiede con il Regno Unito. […] Alla Cop26, a Glasgow, vogliamo raggiungere un accordo ambizioso sul clima»@.

Disinfezione prima della messa a Tura Mission contro il Covid-19

Premesse: il fallimento della Cop25

L’ultima Conferenza sul clima, svolta a Madrid nel 2019, era stata un insuccesso. Marlowe Hood, corrispondente dell’agenzia Afp, ha individuato cinque possibili motivi del fallimento@: il primo era, a suo dire, la gestione amatoriale dei negoziati, dovuta alla non impeccabile leadership del paese organizzatore, il Cile, che non avrebbe svolto in modo efficace il ruolo di mediatore che è fondamentale in incontri diplomatici di questo tipo.

Il secondo motivo era la presenza ingombrante di lobbisti delle aziende che producono combustibili fossili (la volpe nel pollaio, rimarcava Marlowe), con le conseguenti interferenze in negoziazioni il cui scopo è in larga parte quello di ridurre la dipendenza del pianeta proprio da quei prodotti. Vi era stato poi il «corrosivo effetto-Trump», cioè il disimpegno – per non dire il boicottaggio – sulle questioni climatiche manifestato dagli Usa nel quadriennio della presidenza di Donald Trump. Infine, l’atteggiamento tiepido della Cina che, con il 29% di emissioni di CO2, «ha in mano il destino del pianeta»: alla Cop25 Pechino «ha puntato i piedi e, sostenuta dall’India, ha invocato il principio secondo cui i paesi ricchi devono assumere un ruolo guida nell’affrontare il cambiamento climatico, denunciando il loro fallimento nel mantenere le promesse fatte», vincolando poi al rispetto di queste ultime la propria disponibilità a prendere impegni. Secondo diversi esperti, infatti, la Cina adotterà delle misure significative solo se l’Unione europea confermerà il suo obiettivo di impatto zero entro metà secolo e si impegnerà a ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.

Infine, concludeva Hood, il fallimento della Cop25 è stato probabilmente il sintomo di una più ampia crisi della cooperazione e del multilateralismo legata all’ascesa di nazionalismi e populismi e alla tendenza dei governi a contrarre la spesa pubblica.

Che cosa dovrà decidere la Cop26

La conferenza di Glasgow dovrà, dunque, riprendere le fila di un dialogo interrotto nel 2019 e puntare a decisioni più ambiziose possibile. A cominciare dall’impegno per mantenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo, che a sua volta richiede il raggiungimento dell’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050 e maggior decisione e incisività nel promuovere le alternative ai combustibili fossili.

Se il rientro degli Usa nell’accordo di Parigi sul clima, deciso dal presidente Joe Biden, e le alluvioni dello scorso agosto in Germania e Belgio@ sono elementi che suggeriscono un’aumentata sensibilità dei governi all’urgenza di reagire al cambiamento climatico, permangono comunque forti resistenze. Durante l’incontro del G20 a Napoli dello scorso luglio, il presidente della Cop26, Alok Sharma, ha riferito alla Bbc@ che il tema del cambiamento climatico è stato in effetti affrontato dalle venti principali economie del mondo – responsabili dell’80% delle emissioni – e si è visto un generale consenso circa la necessità di eliminare il carbone dalla produzione di energia. Purtroppo, Cina e India, due attori di primaria importanza nell’eventuale processo di decarbonizzazione, si sono opposte con decisione.

Altro elemento che rappresenta un’incognita è il ruolo della pandemia sui negoziati della Cop26. Se, da un lato, molte persone nel mondo sembrano aver recepito la pandemia come un motivo di riflessione sulla sostenibilità della presenza umana sul pianeta, dall’altro, opinioni pubbliche le cui economie sono provate da lockdown e restrizioni potrebbero mostrarsi restie ad accettare i costi degli investimenti richiesti per un’efficace transizione verso fonti di energia e stili di vita più sostenibili.

I negoziatori dovranno tenere conto di tutti questi aspetti e anche delle proposte e richieste emerse dal 28 al 30 settembre dallo Youth Summit@ il vertice che ha riunito a Milano 400 giovani, di età compresa fra i 18 e i 29 anni, da 197 paesi – in modo da includere il punto di vista delle generazioni che saranno più esposte alle conseguenze del cambiamento climatico.

Il G20 e la cooperazione

Il G20, o Gruppo dei 20, e gli incontri fra i leader e i ministri dei paesi che lo compongono, ha le sue origini nella necessità di coordinare gli sforzi delle principali economie del mondo per reagire alle crisi finanziarie della fine dello scorso millennio, a cominciare da quella del 1999 che interessò diversi paesi asiatici – Thailandia, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia – e si estese poi a Brasile e Russia@.

In quell’anno e per i successivi nove, alle riunioni del G20 parteciparono i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi membri. Con la crisi finanziaria del 2008, su iniziativa del presidente Usa George W. Bush cominciarono i vertici del G20 che coinvolgevano i capi di Stato e di governo. Dal 2010 questi incontri hanno cadenza annuale con il paese ospitante che cambia ogni anno@.

Le decisioni prese ai summit non sono vincolanti da un punto di vista giuridico, ma il loro peso politico e di indirizzo può essere molto elevato. Fra i temi connessi alla cooperazione e allo sviluppo che il vertice di Roma dovrà affrontare, vi è la ristrutturazione del debito per i paesi a basso e medio reddito. Nelle economie fragili, l’espansione della spesa pubblica e il maggior indebitamento imposti dalla pandemia rischiano di risultare insostenibili e così, già a novembre dell’anno scorso, i paesi del G20 avevano deciso di congelare il debito. Un provvedimento temporaneo e di emergenza che il summit di Roma dovrebbe tentare di sostituire con un accordo più articolato di riduzione o rinegoziazione@.

Altro tema che dovrebbe ricevere attenzione da parte dei leader del G20 è quello dell’accesso al cibo, dal momento che le persone in condizione di grave insicurezza alimentare sono aumentate dai 690 milioni del 2019 agli 820 milioni attuali, in larga parte a causa della pandemia@.

Il vertice Onu sui sistemi alimentari

Proprio del cruciale tema del cibo si è occupato il vertice Onu sui sistemi alimentari che si è svolto a New York il 23 settembre scorso. Il suo obiettivo, si legge sul sito istituzionale, era di suscitare la consapevolezza che occorre «lavorare insieme per trasformare il modo in cui il mondo produce, consuma e concepisce il cibo»@.

Per sistemi alimentari si intende tutta la «costellazione di attività coinvolte nella produzione, lavorazione, trasporto e consumo di alimenti». Uno dei principali problemi che il vertice intendeva affrontare era quello dei sistemi alimentari fragili e a rischio di collasso, «come milioni di persone in tutto il mondo hanno sperimentato in prima persona durante la crisi del Covid-19».

L’obiettivo era quello di individuare soluzioni e stabilire principi di riferimento che possano guidare il cambiamento di questi sistemi nella direzione di una maggior sostenibilità e garantire a tutti l’accesso al cibo. Alla chiusura di questo articolo (fine agosto 2021, nda) non è possibile dare conto dei risultati del vertice; certamente però le critiche che hanno preceduto il suo svolgimento sono state numerose e aspre.

Il prevertice di luglio e le critiche

Queste critiche sono emerse già in occasione del prevertice che si è svolto alla Fao nel luglio scorso, attraverso prese di posizione come quelle della piattaforma Csm (Civil society and indigenous peoples’ mechanism)@ che riunisce organizzazioni della società civile attive nella lotta all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione: nonostante affermi di essere un «vertice del popolo» e un «vertice delle soluzioni», è l’accusa del Csm, questo summit favorisce piuttosto una maggiore concentrazione nelle mani delle multinazionali, promuove catene del valore globalizzate insostenibili e rafforza l’influenza dell’agroindustria sulle istituzioni pubbliche. E lo fa proponendo «false soluzioni, come i modelli falliti degli schemi volontari per la sostenibilità aziendale, soluzioni “naturali” che includono tecnologie rischiose come gli organismi geneticamente modificati e la biotecnologia e l’intensificazione sostenibile dell’agricoltura». Queste soluzioni, continua il Csm, non sono né sostenibili, né abbordabili per i produttori alimentari su piccola scala e non affrontano le ingiustizie strutturali come l’accaparramento di terre e risorse, l’abuso di potere da parte delle grandi aziende e la disuguaglianza economica.

Anche il Vaticano ha preso posizione nel dibattito. Nel suo intervento al prevertice, il cardinale Peter Kodwo Turkson, prefetto del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, ha ricordato che per individuare soluzioni davvero sostenibili è opportuno guardare ai popoli indigeni e alla loro capacità di adattare i metodi di coltivazione alle condizioni che via via si presentano, mentre occorre porre un freno all’opposto tentativo di spazzare via queste conoscenze: «L’utilizzo delle tecniche tradizionali si è dimostrato fondamentale per la vitalità e la resilienza delle colture e delle specie alimentari indigene, mentre l’introduzione di specie straniere, accompagnate da fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, “compromette gravemente questa vitalità, e l’agricoltura tradizionale locale in Africa lo dimostra”»@.

Chiara Giovetti




Variante Delta, variabile Modi

testo di Maria Tavernini |


Il disastro era previsto e annunciato, ma la classe politica al potere ha minimizzato, preferendo raccogliere consensi più che mettere in sicurezza il paese. E le conseguenze dello tsunami seconda ondata hanno colpito anche il resto del mondo.

A fine gennaio scorso, al vertice di Davos del Forum economico mondiale, il primo ministro indiano Narendra Modi aveva sostenuto che il paese avesse dimostrato al mondo come gestire una pandemia.

«Quando è arrivato il Covid-19, anche l’India ha avuto i suoi problemi – aveva dichiarato il premier -. All’inizio dello scorso anno, diversi esperti e organizzazioni avevano previsto che l’India sarebbe stata il paese più colpito dalla pandemia. Qualcuno aveva anche detto che si sarebbero contagiate 700-800 milioni di persone e che due milioni di indiani sarebbero morti».

Secondo Modi, l’India – che ospita quasi il 18% della popolazione mondiale con 1,38 miliardi di persone, ed è il più grande produttore globale di vaccini, tanto da essere definita la «farmacia del mondo» – non solo si era presa cura dei suoi cittadini, ma aveva anche aiutato altri paesi esportando kit, mascherine e, più di recente, vaccini.

Un lockdown brutale

Dopo la prima ondata di Covid-19 che aveva solo lambito il paese con un tasso di mortalità molto basso e contagi relativamente sotto controllo, soprattutto se rapportati alla popolazione, enorme e molto giovane (età media 29 anni), le autorità avevano cantato vittoria e abbassato la guardia. Sembrava già lontana la brutalità del primo lockdown, imposto a fine marzo 2020 con sole quattro ore di preavviso, che in un’economia basata per l’86% su scambi e rapporti informali, aveva scatenato un incontrollato esodo di lavoratori a giornata e di poveri urbani verso le campagne, e innescato così una grave crisi umanitaria per milioni di persone ai margini della società.

11 marzo 2021. I Naga Sadhus (uomini santi) s’immergono nel Gange per espiare i loro peccati in occasione del Kumbh Mela, il più grande raduno religioso del mondo che si svolge ogni 12 anni in quattro luoghi diversi. Quest’anno è stato ad Haridwar dal 15 gennaio al 27 aprile. (Photo by Prakash SINGH / AFP)

La super diffusione del Kumbh Mela

Dopo un inverno di apparente quiescenza del virus con meno di 10mila nuovi casi al giorno, l’allora ministro della salute Harsh Vardhan, a marzo scorso, aveva trionfalmente annunciato la fine della pandemia nel paese e il ritorno alla «normalità».

Niente poteva essere più lontano dalla verità, ma il governo guidato dai nazionalisti hindu del Bharatiya Janata Party, spinto da una contrazione del Pil del 7,7%, aveva deciso di allentare le restrizioni e far ripartire l’economia.

Mentre il mondo era costretto in casa dalla violenza della seconda ondata e i numeri iniziavano a risalire anche in India, il governo aveva permesso che si tenesse il Kumbh Mela, il più grande raduno umano al mondo: un festival hindu che si celebra a cadenza ciclica in quattro città indiane.

Nonostante le restrizioni, tra gennaio e marzo 2021, oltre tre milioni di pellegrini erano arrivati ad Haridwar da tutta l’India, ammassati sulle rive del Gange per il bagno rituale nel fiume sacro.

Il Kumbh Mela si sarebbe trasformato in un evento «super diffusore» con migliaia di casi collegati.

Solo un anno prima, durante la prima ondata, un altro raduno religioso, in quel caso musulmano, della Tablighi Jamaat, tenutosi nella moschea di Nizamuddin a Delhi – quando i casi giornalieri erano ancora bassi – i fedeli musulmani (poche migliaia, non milioni) erano stati bollati come «corona jihadi» e incolpati dalla destra hindu di aver fatto detonare i casi di Covid-19 nel paese.

Diversi media indipendenti avevano poi smontato quella narrazione ed evidenziato come la comunità musulmana – la più grande minoranza religiosa in India, oltre 200 milioni di persone – fosse stata usata come capro espiatorio dell’aggravarsi della pandemia nel paese.

I comizi oceanici di Modi

Un anno dopo, con i casi in rapido aumento e il Kumbh Mela ancora in corso, il premier si era limitato a esortare i fedeli a fare un bagno solo «simbolico» nel Gange. Nel frattempo, però, si tenevano le elezioni in cinque stati e, mentre l’opposizione aveva sospeso i comizi elettorali con l’aggravarsi della situazione epidemiologica, il Bharatiya Janata Party aveva continuato a tenere comizi oceanici, soprattutto nel secolarissimo Bengala Occidentale, dove Modi sperava di conquistare l’elettorato e dove poi avrebbe invece incassato una pesante sconfitta.

Durante un comizio, nel bel mezzo della seconda ondata, il premier aveva detto di non aver mai visto tante persone a una manifestazione politica: «Dovunque mi volti, vedo gente», aveva esclamato estatico.

In quei giorni, l’India veniva travolta da uno tsunami di casi che avrebbe messo a nudo le fragilità del sistema sanitario indiano e l’impreparazione di una classe politica inadeguata che ha condotto il paese verso una catastrofe di proporzioni inaudite.

24 marzo 2021. I sostenitori del Bharatiya Janata Party (Bjp) durante uno dei comizi elettorali del primo ministro indiano Narendra Modi, a Sipajhar, Assam, India. (Photo by ANUWAR HAZARIKA / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Tsunami seconda ondata

A inizio aprile 2021, il paese è stato letteralmente travolto dalla seconda ondata di infezioni superando un milione di casi attivi.

Nel giro di poche settimane, l’India ha superato il Brasile come secondo paese al mondo per numero di casi dopo gli Usa, con oltre 2,5 milioni di positivi, una media di 300mila nuovi casi e duemila morti al giorno.

Ai primi di maggio, l’India ha registrato in un solo giorno oltre 400mila nuovi casi – l’incremento giornaliero più alto al mondo dall’inizio della pandemia – e oltre 3.500 decessi: una cifra che molti analisti considerano una sottostima (poi rivista al rialzo).

Le immagini dei crematori che bruciavano corpi (come da tradizione nei riti funerari hindu) senza sosta, giorno e notte, anche fuori dagli spazi adibiti, hanno restituito la vera proporzione della tragedia in corso, i cui numeri reali, probabilmente, non si conosceranno mai.

Con gli ospedali pieni, i posti in terapia intensiva ormai saturi, ossigeno e medicine introvabili se non a prezzi esorbitanti sul mercato nero, in un sistema sanitario fatiscente – almeno nel settore pubblico -, diverse grandi città hanno registrato un numero molto maggiore di cremazioni e sepolture rispetto al bilancio ufficiale delle vittime di Covid-19.

Se la seconda ondata ha travolto le megalopoli indiane, le zone rurali sono state letteralmente devastate. Molte persone sono morte per mancanza di ossigeno. La carenza di legna per le cremazioni, le lunghe file e l’inflazione sui prezzi degli ultimi riti ha costretto molte persone (anche hindu) a seppellire i propri cari sulle rive sabbiose dei fiumi: piccoli cumuli di sabbia adornati da ghirlande di fiori. Con le piogge dei monsoni che hanno gonfiato i fiumi, i corpi sono poi venuti a galla, riportati a riva in un macabro spettacolo.

Stime di una catastrofe

Mentre scriviamo, i casi totali ufficiali hanno superato i 30 milioni, e i morti sono più di 400mila: cifre che difficilmente riflettono la realtà. Secondo alcune stime, i numeri relativi a contagi e morti potrebbero essere fino a cinque volte superiori a quelli ufficiali, complice la poca trasparenza delle istituzioni, metodi di registrazione dei decessi frammentari e un inefficace sistema di tracciamento.

Il New York Times ha delineato quattro possibili scenari sui reali numeri della pandemia in India: uno scenario definito «conservatore» stima che i morti siano almeno 600mila; una stima più probabile parla di 1,6 milioni di decessi da Covid-19, mentre lo scenario più catastrofico stima siano 4,2 milioni (stime effettuate alla fine di maggio 2021).

Disastro annunciato

Programma di sensibilizzazione della Trinity care foundation contro il Covid-19 a Jangamakote Village nello stato del Karnataka, nel Sud dell’India.

Secondo l’agenzia di stampa Reuters, nei primi giorni di marzo 2021, un forum di esperti scientifici aveva avvisato i funzionari indiani di una nuova variante del coronavirus, molto contagiosa, che si stava diffondendo nel paese, denominata B.1.617.2, o anche variante Delta, oggi predominante nel Regno Unito.

Nonostante l’avvertimento, il governo centrale non era intervenuto con restrizioni per fermare il contagio: milioni di persone senza mascherine, incuranti delle minime norme di contenimento, avevano partecipato ai festival religiosi e ai comizi elettorali tenuti dal primo ministro Modi, permettendo al virus di circolare liberamente e di mutare.

L’allarme per la nuova variante era stato lanciato a inizio marzo dall’Indian Sars-CoV-2 Genetics Consortium (Insacog), che per primo aveva sequenziato la variante B.1.617.2 del coronavirus, a febbraio. Non si sa se i risultati fossero stati trasmessi direttamente al premier Modi, ma è oramai chiaro che le autorità avevano deliberatamente sottovalutato gli avvertimenti.

Sebbene il rapporto non abbia ricevuto molta attenzione sui principali media indiani, la catastrofe della seconda ondata in India ha messo in luce le ombre dell’amministrazione Modi, ampiamente criticata – in India e all’estero – per la sua incapacità di prevenire e arginare la pandemia. I principali media internazionali hanno infatti puntato il dito contro un esecutivo che ha creduto nel «miracolo indiano», e non si è premurato di contenere il disastro. Piuttosto, di minimizzarlo o negarlo.

I vaccini indiani

Mentre scriviamo, dopo settimane di impennata, la curva dei contagi sembra essere finalmente in lieve flessione: un nuovo lockdown ha fatto rallentare la corsa della contagiosa variante indiana.

Intanto, il piano vaccinale, applicato molto lentamente per mesi, sembra accelerare: l’India è il più grande produttore al mondo di vaccini e ne fabbrica due contro il coronavirus – Covaxin, di Bharat Biotech e Covishield, del Serum Institute of India -. Sono state somministrate 376 milioni di dosi, il numero più alto al mondo dopo Cina e Stati Uniti, ma, in rapporto alla popolazione, un tasso di vaccinazione molto più basso di tanti altri paesi.

Nei giorni peggiori del picco pandemico, l’India ha bloccato le esportazioni del vaccino fino alla fine del 2021 per soddisfare l’enorme domanda interna. La decisione ha avuto un pesantissimo impatto sui 91 paesi a medio e basso reddito che dipendono dal vaccino indiano nell’ambito del piano dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il Covax, che mira a immunizzare due miliardi di persone, ha affermato lo scienziato capo dell’Oms, dr. Soumya Swaminathan.

La campagna vaccinale indiana, iniziata lo scorso gennaio, si era inizialmente concentrata su anziani e persone fragili. Modi aveva poi annunciato di voler mettere il vaccino sul libero mercato per somministrarlo ai più giovani, tramite i governi statali e le strutture sanitarie private, a prezzi maggiorati, creando un doppio binario: chi poteva e chi non poteva permetterselo.

A seguito dell’impennata di infezioni ad aprile e (forse) sulla scia del richiamo ricevuto dalla Corte suprema indiana, che aveva definito il piano «arbitrario e irrazionale», il primo ministro ha poi aperto le inoculazioni gratuite dal 1° maggio per la fascia 18-45 anni. Peccato che non siano state aumentate le scorte, e l’India fa affidamento anche su vaccini prodotti all’estero.

Un leader inadeguato

«Il mondo è sull’orlo di un catastrofico fallimento morale, e il prezzo di questo fallimento sarà pagato con vite e mezzi di sussistenza dalle popolazioni più povere», aveva avvisato a gennaio Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore esecutivo dell’Oms durante una sessione del comitato esecutivo.

La crisi indiana ha confermato i timori di Tedros e dimostrato che in questa pandemia non ci si salva da soli. La mala gestione di un governo impreparato e la conseguente assente pianificazione indiana, ha avuto pesanti ricadute per i cittadini di ogni estrazione e provenienza. Ma anche per quei paesi che dipendevano dalle esportazioni indiane per il piano vaccinale.

Come in altri luoghi del mondo guidati da leader autoritari e populisti, la pandemia ha messo in luce l’incapacità della leadership di rispondere adeguatamente alla crisi, barcamenandosi tra negazione, ottimismo infondato e soluzioni di facciata.

La pandemia ha fatto emergere con violenza le storture del sistema e l’inadeguatezza della leadership indiana: di un partito che, negli ultimi sette anni di governo, si è reso responsabile di un grave declino delle libertà e delle istituzioni democratiche.

Durante i giorni più neri della catastrofe, il primo ministro si è tenuto lontano dai riflettori sostenendo che «il sistema era collassato». Non appena i numeri sono iniziati a calare, come da tradizione, Modi si è assunto i meriti dell’appiattimento della curva.

Peccato che la parola d’ordine «Aatmanirbhar Bharat» (India autosufficiente) sia stata disattesa. L’amministrazione è stata interessata più a controllare la narrativa, silenziare le critiche e nascondere la polvere sotto il tappeto che a tenere a bada il contagio.

E mentre l’India difficilmente dimenticherà questa tragedia, gli esperti avvisano che la terza ondata di contagi potrebbe colpire il paese tra settembre e ottobre.

Maria Tavernini

Programma di sensibilizzazione della Trinity care foundation contro il Covid-19 a Jangamakote Village nello stato del Karnataka, nel Sud dell’India.


I cristiani indiani durante la seconda ondata

Perseguitati ma al servizio

Se il subcontinente indiano è stato travolto dalla seconda ondata di Covid-19, trasformatasi nel giro di poco tempo in una catastrofe senza precedenti nella storia repubblicana, per i cristiani d’India e per le altre minoranze religiose, la crisi è stata ancora più drammatica.

La comunità cristiana indiana è la terza comunità religiosa dopo quella hindu e quella musulmana, con oltre 27 milioni di fedeli, ed è costituita in larga parte da Dalit (i «fuoricasta» secondo la rigida stratificazione sociale indiana) convertitisi anche nella speranza di sfuggire a discriminazioni e umiliazioni.

I cristiani indiani, di questi tempi, pregano per i vaccini, per il cibo e per l’ossigeno: ventilatori e bombole di ossigeno scarseggiano, e le restrizioni hanno impedito a coloro che lavorano alla giornata di guadagnare abbastanza per sfamarsi.

Inoltre, l’appartenenza religiosa ha creato non poche discriminazioni anche nella rete di distribuzione di aiuti alimentari durante i giorni più duri del lockdown. Nell’India a maggioranza hindu, con una leadership che avalla politiche settarie e maggioritarie, le minoranze sono destinate a diventare sempre più un bersaglio, «cittadini di serie B».

La persecuzione delle minoranze religiose è, infatti, significativamente aumentata sotto l’amministrazione Modi: la pandemia non ha fatto che acuire questa tendenza e aggravare le discriminazioni, l’autoritarismo e la violenza.

Benché i cristiani siano stati duramente colpiti dalla pandemia e molti siano stati ridotti alla fame, complici anche le condizioni economiche di molte comunità dal background Dalit e il fatto di essere stati spesso deliberatamente lasciati fuori dagli aiuti ufficiali, le organizzazioni cristiane, come anche quelle sikh e musulmane, sono state in prima linea per assistere poveri e malati.

Sono circa 60mila i posti letto che la Chiesa cattolica indiana ha messo a disposizione grazie alle proprie opere sanitarie per arginare la seconda ondata della pandemia. Le istituzioni sanitarie cristiane si sono concentrate in larga parte sulle aree rurali, quelle più devastate dal contagio, dove le strutture pubbliche sono sottodimensionate e in condizioni pessime.

«Le nostre scuole funzioneranno come centri di isolamento e quarantena; le nostre sedi come centri di vaccinazione; e il nostro personale religioso inizierà una campagna per incoraggiare le persone a vaccinarsi», ha detto il presidente dei vescovi indiani a «Vatican News».

Secondo l’emittente vaticana, molte diocesi indiane si sono attivate mettendo in campo anche metodi innovativi per aiutare ad alleviare le sofferenze della gente: nei giorni dell’emergenza sanitaria, l’arcidiocesi di Bangalore, nel Sud dell’India, ha reso disponibili le sue strutture adibendole a ospedali temporanei per i pazienti Covid. L’arcidiocesi ha inoltre attivato una linea telefonica di supporto per le vittime e i loro familiari, fornendo informazioni sulla gestione domiciliare della malattia e sulla disponibilità di posti letto e ossigeno.

M.T.

 




I vent’anni di Missioni Consolata Onlus

testo di Chiara Giovetti |


La Fondazione Missioni Consolata Onlus compie vent’anni. Nata nel 2001 per accompagnare nel nuovo secolo i Missionari della Consolata, diventata Ong nel 2007 e, oggi, organizzazione della società civile riconosciuta dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, incarna, con le sue iniziative, i tratti peculiari dei missionari che l’hanno fondata.

Il 26 luglio del 2001 nasceva la Fondazione Missioni Consolata Onlus (Mco), costituita dall’«Istituto missionari di Maria Ss.ma Consolata», come si chiamava davanti allo stato la «filiale» italiana di quello che, quasi dalle origini, era registrato nei libri del governo come il «Collegio internazionale della Consolata per le missioni estere». Lo scopo della fondazione, si legge nello statuto, è quello di «informare, sensibilizzare e promuovere l’interesse» verso i paesi in via di sviluppo, con particolare attenzione alle attività dei Missionari della Consolata.

Fin dai suoi esordi, Mco ha avuto uno spettro di attività piuttosto ampio che abbraccia ambiti anche molto diversi fra loro, come gli aiuti umanitari e la tutela dei beni di interesse storico e artistico. Anche gli interventi che la Fondazione intende svolgere per realizzare i propri scopi statutari sono molto vari – dalla cooperazione allo sviluppo alla salvaguardia della pace e dei diritti dell’uomo, dall’allestimento e gestione di musei e biblioteche alla promozione di servizi per favorire l’inserimento della popolazione immigrata -, e prevede non solo azioni dirette, ma anche il sostegno a iniziative svolte da altri enti idonei.

Questa grande varietà è solo apparentemente una frammentazione. È, viceversa, la coerente traduzione in termini operativi e laici di quello che i Missionari della Consolata indicano come elemento chiave del proprio carisma, cioè il tratto che hanno ereditato dal loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e che più li definisce e li identifica: l’ad gentes, cioè l’annuncio del Vangelo a chi ancora non lo conosce. Questa missione richiede uno sguardo talmente ampio e articolato su popoli, culture, religioni, visioni del mondo, che non può che trasferirsi anche alle organizzazioni al servizio del lavoro dei missionari, come è, appunto, Mco.

Campagna Una mucca per l’Indio

Un po’ di storia

Alla fine del secolo scorso, i Missionari della Consolata avevano già all’attivo diverse attività che potevano dirsi di cooperazione allo sviluppo e solidarietà internazionale. Un ufficio cooperazione era presente in Casa Madre a Torino fin dal 1970 e aveva gestito le primissime adozioni a distanza a partire dagli anni Ottanta. Campagne come quella del 1980 per la creazione del «Parco Yanomami» con la raccolta un milione di firme (reali, non digitali), e quella di «Una mucca per l’indio» in favore dei popoli indigeni dell’Amazzonia negli anni 1988-89, avevano proposto una visione dello sviluppo che cercava le cause della povertà nell’ingiustizia e nelle diseguaglianze.

I primi contatti con il mondo del volontariato impegnato in attività di cooperazione cominciarono ancora negli anni Cinquanta con l’invio in Kenya di medici del Cuamm di Padova, passarono attraverso la collaborazione alla nascita e sviluppo di Mani Tese a metà degli anni Sessanta e nel 1967 videro l’Lvia di Cuneo inviare una sua volontaria in Kenya con missionari della Consolata in Meru@.

Inoltre, diversi missionari, ad esempio nella regione colombiana del Cauca, avevano cominciato ad affiancare alle attività realizzate con il sostegno di singoli benefattori anche diversi progetti finanziati con fondi di istituzioni pubbliche e private, dando un contributo cruciale al riscatto del popolo indigeno Nasa. La rivista Missioni Consolata ospitava con regolarità, fin dagli anni Settanta, articoli di riflessione sulla cooperazione e sullo sviluppo.

Tutte queste iniziative, quasi sempre lanciate da missionari pionieri, riflettevano i cambiamenti in atto nei rapporti fra paesi ricchi e quello che all’epoca era chiamato Terzo Mondo. Questi cambiamenti, alla fine degli anni Novanta, richiedevano una maggior professionalizzazione della cooperazione ed evidenziavano la necessità di superare i fallimenti degli anni Ottanta, a cominciare dalla crisi del debito, che si era tradotta per l’Africa e l’America Latina in quello che viene ricordato come il «decennio perduto» dello sviluppo@.

Missione acqua. L’acquedotto di Mukululu

Nasce la fondazione

I missionari che lavoravano con i popoli indigeni dell’America Latina o con le aree più isolate dell’Africa, si erano affacciati al mondo della cooperazione allo sviluppo e dei progetti spesso appoggiandosi ad altre organizzazioni e associazioni. Avevano condiviso poi queste loro esperienze, che di fatto erano diventate anche competenze, con i confratelli in Italia, rendendo sempre più urgente e concreta la necessità di darsi uno strumento come la Fondazione per poter portare avanti le iniziative in prima persona.

A questo si aggiunga poi il fatto che il decreto legislativo 460 del 1997@ introduceva la detraibilità delle erogazioni liberali a favore delle Onlus, cosa che avrebbe portato un beneficio anche ai donatori. La strada che conduceva alla nascita di Mco era tracciata.

All’inizio di questo secolo, dunque, era tempo per i membri della Regione Italia dell’«Istituto missionari di Maria SS.ma Consolata» di trarre le conseguenze di questi cambiamenti e di mettere a frutto le intuizioni di tanti confratelli attivi sul campo e in Italia. La Fondazione avrebbe organizzato le conoscenze e l’esperienza che l’Istituto aveva acquisito dagli anni Settanta, e le avrebbe rese disponibili a tutti i missionari.

I finanziatori di Mco

In questi vent’anni, Mco ha realizzato progetti e iniziative, sia direttamente che come partner di altre organizzazioni, grazie a fondi di diversi enti privati e pubblici: la Conferenza episcopale italiana, Caritas italiana, la città di Torino, la Regione Piemonte, Roma Capitale, l’8×1000 della Chiesa valdese, la Water Right Foundation, solo per citarne alcuni.

Ma la peculiarità – e la forza – di Mco sono, da sempre, i donatori privati, oltre settemila persone nel 2020, insieme a tante realtà dell’associazionismo, dell’imprenditoria e del mondo cattolico: 79 associazioni, organizzazioni, cooperative sociali e gruppi amici, 32 aziende, 20 diocesi o loro uffici missionari, e a oltre 200 istituti o congregazioni religiose.

Con i lebbrosi di Gambo

Gli ambiti di azione

Quanto agli ambiti della cooperazione allo sviluppo in cui la Fondazione è attiva, quello prevalente è senza dubbio l’istruzione (un ambito tipico dell’impegno missionario) che riguarda tutti i gradi scolastici dall’infanzia alla secondaria, fino ai corsi professionali (infermieristica, insegnamento …) e universitari, e comprende il sostegno a distanza concentrato, ma non limitato, sulle scuole primarie.

Seguono poi l’educazione allo sviluppo, realizzata sulle pagine della rivista Missioni Consolata, di cui Mco è editore, il diritto alla salute promosso da quattro ospedali e tanti dispensari in Africa, oltre diversi centri di salute in Amazzonia. L’accesso all’acqua, la salvaguardia dei diritti dei popoli indigeni, lo sviluppo economico, la difesa dell’ambiente sono gli altri ambiti.

Mco realizza i propri progetti e le iniziative in collaborazione con i Missionari della Consolata o con organizzazioni partner indicate da questi. I responsabili operativi dei progetti, dei programmi di sostegno a distanza, delle strutture sanitarie ed educative che Mco sostiene sono missionari che lavorano e risiedono nei paesi nei quali si svolgono le attività. A loro, la Fondazione offre servizi tecnici nella raccolta fondi, nella stesura, presentazione e rendicontazione dei progetti, nelle relazioni con i donatori, nella promozione e comunicazione del loro lavoro tramite la rivista, i siti web e i social.

Nel 2020 Mco ha raccolto fondi e svolto attività in 18 paesi: Italia, Tanzania, Repubblica democratica del Congo, Kenya, Etiopia, Uganda, Costa d’Avorio, Eswatini, Angola, Mozambico, Sudafrica, Madagascar, Mongolia, Brasile, Colombia, Messico, Argentina, Venezuela.

In Africa, a beneficiare maggiormente dei fondi raccolti sono stati Tanzania, Repubblica democratica del Congo, Kenya ed Etiopia, mentre per l’America Latina è stato il Brasile – e specialmente le attività in Amazzonia con i popoli indigeni di Roraima – che ha ricevuto il sostegno maggiore.

Progeto di sviluppo rurale sostenuto dalla Caritas a Neisu

Le prospettive per il futuro

L’anno del ventesimo anniversario dalla fondazione ha coinciso anche con quello in cui Mco è stata chiamata a preparare e pubblicare il suo primo Bilancio sociale. Questo esercizio ha finito per trasformarsi anche in un’occasione per riflettere proprio su questi vent’anni e, inevitabilmente, sulle prospettive per il futuro. Come scrive il coordinatore di Mco, padre Ugo Pozzoli, nella lettera introduttiva al Bilancio sociale@, «la rivista che deve aprirsi maggiormente a un pubblico più giovane attraverso un più forte impulso sul web e sui social; la formazione dei nostri missionari, soprattutto quelli sul campo, che deve garantire un sempre migliore accompagnamento di progetti e programmi di cooperazione e solidarietà; la Certosa di Pesio, storico luogo di fede immerso nel verde di un bellissimo parco naturale, che deve trasformarsi in luogo di educazione alla spiritualità della missione e dell’ambiente: sono soltanto alcune fra le sfide che ci attendono nel prossimo futuro e verso cui guardiamo speranzosi».

Quanto poi al campo della cooperazione allo sviluppo, occorrerà chiedersi quali siano, oggi, quei territori inesplorati che possono dare sostanza a quell’ad gentes che plasma l’Istituto Missioni Consolata e Mco con lui, come negli anni Sessanta lo furono l’esperienza con i popoli indigeni dell’America Latina e, all’inizio del Novecento, l’invio in Kenya dei primi missionari.

Un esempio efficace sono le parole che padre Matteo Pettinari ha affidato a questa rivista nel marzo del 2020@: «Si può dire che la salute mentale sia l’ad gentes del mondo della sanità: sono i malati mentali quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Mco e i missionari si sono sempre impegnati nella sanità, ma è presente da anni nell’Istituto la consapevolezza che per farlo con efficacia oggi, forse, non si tratta più solo di costruire un ospedale en brousse, nella foresta, dove nessuno è ancora arrivato, bensì di riuscire a immaginare qual è la nuova brousse nel 2021 – si tratti di un luogo fisico o di un ambito, come appunto la salute mentale – per raggiungerla e non lasciare al margine le persone che la abitano.

Non c’è un manuale tecnico che possa aiutare a sviluppare uno sguardo al tempo stesso lucido e coinvolto per vedere le brousse di oggi e capire come affrontarle. Probabilmente quello sguardo è lo stesso che un missionario come fratel Carlo Zacquini ha condiviso con chi scrive raccontando il suo primo contatto con gli Yanomami e con la foresta amazzonica al suo arrivo a Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana, ormai più di cinquanta anni fa: «Rimasi a bocca aperta: vedevo bellezza, armonia, e pensavo che volevo capirla ed esserne parte. Così pian piano, in punta di piedi, cominciai ad avvicinarmi».

Chiara Giovetti

Familia ya Ufariji

Mco – carta d’identità

  • Nome: Fondazione Missioni Consolata Onlus
  • Data di nascita: 26 luglio 2001
  • Riconoscimento come Ong idonea: 17 dicembre 2007
  • Iscrizione all’elenco delle Organizzazioni della società civile (Osc): 4 aprile 2016
  • Sede legale: Torino, Corso Ferrucci, 14
  • Sedi operative: Certosa di Pesio a Chiusa di Pesio (CN), fraz. San Bartolomeo e Roma, Viale della Mura Aurelie, 16
  • Sito web: www.missioniconsolataonlus.it
  • Personale: Diciotto persone, di cui quattro missionari, tredici laici e una volontaria
  • Attività principali: sostegno a distanza, progetti di cooperazione, informazione e formazione, rivista Missioni Consolata
  • Ambiti principali: istruzione, educazione allo sviluppo, sanità e nutrizione, accesso all’acqua, diritti dei popoli indigeni, sviluppo economico, pace e cura del creato