Fentanyl, la droga letale in rapidissima diffusione


È un oppioide sintetico nato come farmaco antidolorifico e anestetico. Potentissimo, sta facendo migliaia di vittime nel Nord America. Ma è arrivato anche sulle piazze dello spaccio italiane ed europee. L’allarme è grande e giustificato.

Ascoltando la splendida Purple rain, il pensiero corre subito a Prince, il genio di Minneapolis, che venne ucciso il 21 aprile 2016 da un’overdose di fentanyl. Questo è un oppioide sintetico che il cantante statunitense aveva assunto in seguito all’intervento a un’anca. Lo stesso fentanyl sarebbe la causa della morte nel 2018 di Dolores O’Riordan, la cantante dei Cranberries e di Tom Petty (morto nel 2017), un cantautore e chitarrista statunitense che lavorò anche con Bob Dylan. Questi sono alcuni dei casi più famosi di morti legate all’abuso di fentanyl, sostanza che sta uccidendo centinaia di migliaia di persone ogni anno negli Usa e in Canada e che, da qualche tempo, ha fatto il suo ingresso anche in Europa, dove si teme possa verificarsi un’analoga situazione, benché, per il momento, il numero dei decessi sia ancora basso.

La potenza del fentanyl spiega le sempre più frequenti morti per overdose di coloro che se lo procurano per strada o via dark web oppure lo consumano inconsapevolmente, perché, da qualche anno, viene utilizzato come sostanza da taglio per eroina, cocaina, allucinogeni ed ecstasy. In totale, nel 2023 i decessi per overdose negli Usa hanno superato le 112mila unità e per oltre l’80% di loro il responsabile è stato il fentanyl.

Le cause della diffusione

La quantità di fentanyl sufficiente per provocare conseguenze letali. Foto DEA – United States.

Per capire come questo farmaco sia diventato una delle droghe più diffuse e sia aumentato enormemente il numero di coloro che ne sono diventati dipendenti è necessario risalire ai primi anni Novanta.

All’epoca i medici negli Usa iniziarono a prescrivere il fentanyl come antidolorifico, con una certa disinvoltura legata ad una vera e propria campagna di disinformazione mirata a farne aumentare le prescrizioni, campagna messa in atto da diverse case farmaceutiche. Contro di esse, nel corso degli anni, si sono accumulate oltre duemila azioni legali che hanno portato, tra l’altro, al fallimento della Purdue Pharma. Nella sua campagna promozionale veniva infatti asserito che il fentanyl non crea dipendenza, mentre invece è provato che il suo abuso porta a una gravissima forma di dipendenza e al rischio di overdose.

Un’altra causa della diffusione del fentanyl illegale negli Usa è insita nella mancanza in questo Paese di un sistema di assistenza sanitaria universale, sostituita dal sistema assicurativo. Questo ha portato i meno abbienti a rivolgersi al mercato clandestino dei narcotrafficanti che su queste droghe hanno creato un impero, soprattutto quando il legislatore ha tentato di arginare la situazione rendendo più controllate la prescrizione e la distribuzione del fentanyl.

Protagonisti sono i cartelli messicani che, da anni, immettono negli Usa e in Canada grosse partite di fentanyl. Si sospetta che stiano tentando di orientare tutto il consumo di droghe verso questa sostanza che, come detto, viene utilizzata anche come adulterante di altre droghe. Questa situazione è fonte di enormi guadagni per i cartelli della droga per più di un motivo: il fentanyl crea forte dipendenza, è facile da produrre e costa poco perché, come tutti gli oppioidi sintetici, non necessita di piantagioni (che infatti in Messico stanno diminuendo), non è soggetto all’aggressione dei parassiti o alle variazioni climatiche.

Inoltre, dato che il fentanyl è molto potente, circa 50 volte l’eroina, è molto più facile da trafficare: basta pensare che 100 grammi di fentanyl equivalgono a 5 kg di eroina.

La geopolitica del fentanyl: Cina, Messico, Usa

I narcotrafficanti messicani hanno organizzato nel loro territorio dei laboratori clandestini, nei quali specialisti di chimica assoldati allo scopo sintetizzano questa e altre sostanze a partire dai loro precursori provenienti dall’Asia. Tuttavia, essi acquistano anche grandi quantitativi di fentanyl a basso prezzo direttamente dalla Cina, che da anni ne è il più grande produttore mondiale. E ciò nonostante il governo di Pechino abbia dichiarato l’illegalità della sua produzione e si sia impegnato a perseguire chi lo sintetizza. E ciò su pressione degli Stati Uniti, con cui la Cina ha ratificato un accordo in occasione di un incontro – tenutosi a San Francisco lo scorso novembre – tra il presidente americano Joe Biden e il presidente cinese Xi Jinping.

Per capire la portata di questo giro d’affari, basta considerare quanto afferma un rapporto della Dea (Drug enforcement administration), l’agenzia federale antidroga degli Usa, secondo cui un chilo di fentanyl a elevato grado di purezza acquistato in Cina costa tra i 3.300 e i 5.000 dollari.

Una volta mescolato ad altre sostanze, si possono ottenere da 16 a 24 kg di prodotto e il profitto può arrivare fino a 1,9 milioni di dollari.

Se invece il fentanyl viene smerciato tal quale, essendo molto potente, con soli 10 grammi si arriva a produrne più di 300 dosi, che hanno di solito un prezzo compreso tra i 10 e i 60 dollari, a seconda della zona di spaccio. Dato il prezzo abbordabile, anch’esso causa dell’aumento delle overdosi da fentanyl, questa sostanza è consuma-

ta soprattutto tra le fasce più deboli della popolazione americana, in primis gli afroamericani seguiti dai latinoamericani.

Sperimentazioni

Le principali conseguenze del fentanyl sul corpo umano.. Immagine American Addiction Centers.

Mentre negli Usa si tiene il conto delle morti da overdose, in Messico nessuno se ne cura, per cui i narcotrafficanti possono sperimentare liberamente le nuove combinazioni del fentanyl con altre droghe.

Il problema è quello di riuscire a rendere i clienti dipendenti, senza ucciderli con dosi letali, ma per questo occorre sperimentare su esseri umani.

Le cavie vengono reclutate solitamente nei quartieri marginali di alcune città, tra cui Tijuana, Mexicali e Ciudad Juárez con distribuzioni gratuite o a bassissimo prezzo.

A seguito di queste sperimentazioni, molti giovani sono morti e moltissimi sono diventati dipendenti. Si stima che nel 2018 solo a Tijuana e Mexicali vi fossero almeno mezzo milione di dipendenti da sostanze. I centri di disintossicazione presenti solo in queste due città sono 76.

Negli Stati Uniti si sono susseguite tre ondate di crescente consumo di oppiacei (morfina e sostanze similari) e di oppiodi (sostanze con attività morfino-simile), con conseguente aumento delle morti per overdose. Secondo i dati del Cdc (Center for disease control and prevention), agenzia federale del Dipartimento della salute statunitense, la prima ondata si è verificata come conseguenza dell’aumento delle prescrizioni di oppioidi negli anni Novanta, a cui ha fatto seguito un aumento dei decessi da overdose a partire dal 1999.

Si sospetta che, in qualche caso, possano avere fatto uso degli oppioidi anche i familiari dei pazienti, avendo spesso a disposizione le rimanenze del farmaco, per eccesso di prescrizione.

La seconda ondata ha avuto inizio nel 2010, quando è aumentato notevolmente il numero dei decessi per overdose da eroina, cercata da chi non necessitava più di controllare il dolore, ma era ormai diventato dipendente da oppiacei ed era quindi portato a cercarli nel mercato illegale.

La terza ondata è cominciata nel 2013 con un significativo aumento dei decessi da overdose dovuta agli oppioidi sintetici, soprattutto il fentanyl prodotto illegalmente e spesso mescolato ad altre sostanze.

Attualmente gli oppioidi sintetici sono la prima causa di morte sotto i cinquant’anni negli Usa, dove si registrano circa 200 morti al giorno. Nella sola New York ci sono stati tremila decessi per overdose nel 2023. Tuttavia il primato delle morti per overdose spetta a Filadelfia (dove sta emergendo anche il problema del fentanyl tagliato con xilazina, un potente sedativo, analgesico e miorilassante per uso animale, altrimenti conosciuta come tranq), seguita da San Francisco.

Tra il 2013 e il 2021 negli Usa è stato rilevato un aumento di 30 volte dei decessi correlati al fentanyl in età pediatrica e tra gli adolescenti. Mentre per questi ultimi è ipotizzabile il consumo di stupefacenti a scopo ricreativo, per i bambini non si può fare a meno di pensare alla carenza delle cure parentali e soprattutto di attenzione da parte dei familiari consumatori di oppioidi, che molto probabilmente lasciano le sostanze incustodite e a portata di mano dei piccoli.

Le droghe su misura

Come fanno i narcotrafficanti a eludere i controlli e a immettere sul mercato grandi quantitativi di sostanze stupefacenti? La risposta sta nelle designer drug o «droghe su misura», cioè molecole sintetizzate da chimici clandestini che cambiano qualche parte della molecola originale in modo che la nuova sostanza imiti l’effetto del model-

lo di partenza senza essere riconosciuta dai sistemi di controllo. La categoria di designer drug in più rapida espansione è proprio quella degli oppioidi sintetici. Basta pensare che nel 2009 l’Unodc (United nations office on drugs and crime) registrava un solo oppioide costruito «su misura», mentre nel 2023 erano già 132. Le designer drugs riescono a circolare liberamente e legalmente finché non vengono riconosciute, cosa che necessita di test sempre nuovi e più sofisticati. Gran parte delle droghe su misura attualmente in circolo appartengono a quattro categorie: i cannabinoidi sintetici, i catinoni, le fenetilammine e gli oppioidi sintetici. Ciascuna di queste categorie comprende centinaia di molecole molto diverse per natura chimica ed effetti. Queste sostanze sono prodotte principalmente in Cina e India, ma dal 2015 sono stati scoperti almeno 52 laboratori di sintesi clandestina anche in Europa.

Tossicodipendenti sotto un ponte. Foto Rizvi Rahman – Unsplash.

Il ruolo del web

Il mercato di queste sostanze è spesso su internet, sia nel deep web che su normali siti dediti alla vendita di prodotti apparentemente «innocenti»: i cannabinoidi sintetici spruzzati su mix di piante secche da fumare sono venduti come incensi; i catinoni, che si presentano come polveri cristalline e si confondono facilmente con sali da bagno o fertilizzanti, e come tali vengono smerciati. Qualche volta vengono venduti come composti chimici per laboratori di ricerca.

Nei primi anni Novanta, grazie all’avvento di internet, non solo è stato creato un mercato di sostanze stupefacenti sul web, ma per molti chimici clandestini è stato possibile scambiarsi informazioni e, soprattutto, accedere liberamente alla letteratura scientifica, quindi alle procedure di sintesi. In pratica, le ricette sono sul web e i chimici-cuochi producono e vendono dai laboratori clandestini.

Ad esempio, uno studio risalente al 1974 della Janssen Pharmaceutica ha permesso ai chimici clandestini di sintetizzare i derivati del fentanyl, altrimenti detti fentenili. È chiaro quindi che molte designer drugs derivano da molecole di ricerca biomedica e potrebbero pertanto tornare utili nella pratica medica per il loro potenziale terapeutico. Per non parlare del possibile utilizzo in questo campo dell’Intelligenza artificiale (Ia).

Nel 2021 un gruppo di ricerca diretto da David Wishart dell’Università dell’Alberta in Canada ha messo a punto una Ia chiamata DarkNps (New psychoactive substances), la quale ha assimilato le strutture di 1.753 sostanze psicoattive note e ha generato circa 9 milioni di varianti con una capacità di prevedere circa il 90% delle nuove droghe prodotte dai chimici clandestini, rivelandosi utilissima nella lotta al narcotraffico. Tuttavia, le Ia di questo tipo potrebbero presto diventare delle ottime assistenti anche per i chimici clandestini. Nel contempo potrebbero ideare e realizzare la sintesi di nuove molecole utili a scopo terapeutico. Come sempre la scienza è neutra e sta a noi usarla bene o male.

Rosanna Novara Topino

 

 




Dai gabbiani ai maiali


L’influenza colpisce anche gli animali, in particolare con il virus di tipo «A». Le più diffuse sono l’influenza aviaria e quella suina. In queste pagine, cerchiamo di capire le modalità di trasmissione del virus e le conseguenze sull’uomo.

Da oltre un anno si è avuta in tutto il mondo una recrudescenza dell’influenza aviaria, una malattia degli uccelli causata da un virus dell’influenza di tipo A (vedi sotto: H1N1 versus H5N1). Può essere a bassa (Lpai) o ad alta patogenicità (Hpai).

L’influenza aviaria può contagiare praticamente tutte le specie di uccelli, ma le manife-

stazioni possono essere molto diverse: dalle forme leggere a quelle altamente patogene e contagiose, capaci di causare rapidamente epidemie acute. Se la malattia è causata da una forma virale altamente patogena, può insorgere in modo improvviso e portare rapidamente a morte quasi il 100% degli animali colpiti.

Nel pollame

Tra l’estate e l’autunno 2022 in Italia si è osservato il prolungamento dell’epidemia iniziata nell’autunno 2021, che ha coinvolto diverse colonie di uccelli selvatici marini appartenenti all’ordine dei suliformi (uccelli acquatici). Il 22 settembre 2022, il Centro di referenza nazionale (Crn) per l’influenza aviaria e la malattia di Newcastle ha confermato la prima positività del secondo semestre per virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (Hpai, sottotipo H5N1) nel pollame e questo ha portato a un’aumento delle misure di controllo generali e specifiche.

In tutta Europa sono stati confermati nuovi casi di influenza aviaria ad alta patogenicità tra dicembre 2022 e marzo 2023, per un totale di 522 casi nei domestici e 1.138 nei selvatici.

Particolarmente rilevante è stata l’epidemia di influenza aviaria che ha colpito il gabbiano comune nel Nordest dell’Italia, in Belgio, Francia e Olanda.

Il virus responsabile di questi casi è sempre stato il sottotipo H5N1 e le analisi genetiche virali effettuate in Italia su uccelli selvatici hanno dimostrato che esso sta circolando anche nelle nostre specie stanziali. Da settembre 2022 ad aprile 2023, in Italia sono stati confermati quaranta focolai di influenza aviaria ad alta patogenicità nei domestici, riguardanti in parte gli allevamenti rurali di piccole dimensioni.

Il virus H5N1, attualmente circolante tra i volatili selvatici e domestici, si è dimostrato capace di attaccare anche i mammiferi.

Tra gennaio e febbraio 2022 si sono verificati numerosi episodi di mortalità nelle colonie di leoni marini in Perù. Un focolaio è stato confermato nell’ottobre 2022 in un allevamento di visoni in Spagna, mentre in Italia, nell’aprile 2023, sono stati confermati due casi nelle volpi, dovuti probabilmente all’ingestione di volatili morti per influenza aviaria e, inoltre, cinque cani e un gatto sono stati contagiati all’interno di un allevamento avicolo rurale.

Sorveglianza aumentata

Per tale motivo, il ministero della Salute quest’anno, oltre il mantenimento della sorveglianza sugli uccelli selvatici, ha disposto la sorveglianza anche sui carnivori selvatici.

Il dispositivo del ministero prevede il rafforzamento della biosicurezza negli allevamenti avicoli nazionali, con rilevamento precoce dei casi sospetti di Hpai, che necessitano approfondimenti rapidi in laboratori ufficiali, per effettuare diagnosi differenziali nei confronti di virus influenzali. Inoltre, in caso di accertata circolazione di virus Hpai nell’avifauna, le regioni devono mettere in atto piani di sorveglianza attiva riguardanti gli uccelli acquatici presenti in aree di particolare rilevanza epidemiologica, come i siti di raduno dei volatili lungo le principali rotte migratorie.

La sorveglianza attiva prevede l’effettuazione di controlli sanitari regolari, mediante tamponi tracheali e cloacali su campioni significativi dell’avifauna acquatica per gli esami virologici o, in alternativa, mediante il prelievo di campioni di feci (dal momento che questo virus si annida nell’intestino dei volatili, ad esempio in quello delle oche).

Zoonosi e mutazioni

Perché l’influenza aviaria, che finora ha colpito prevalentemente gli uccelli e sporadicamente gli umani, è fonte di grande preoccupazione?

Perché un virus influenzale A originatosi in un volatile potrebbe trasformarsi in un agente infettivo capace di passare da una persona all’altra, dopo un eventuale passaggio in una terza specie, il maiale.

I suini, infatti, possono funzionare da serbatoio per una ricombinazione tra i virus propri, quelli aviari e quelli umani, creando dei virus ibridi capaci di passare da persona a persona. Se poi nell’essere umano, tali ibridi dovessero subire ulteriori e casuali modifiche potrebbe sempre originarsi un nuovo ceppo virale, potenzialmente potente e letale.

L’attuale influenza aviaria, data dal virus A H5N1, si è originata nel 2003 nel Sudest asiatico. Successivamente ha invaso tutta l’Asia da cui si è propagata al resto del mondo. Finora ha colpito oltre 150 milioni di volatili e si sono contate decine di vittime umane, per lo più tra gli addetti agli allevamenti e al commercio di pollame. Sebbene attualmente l’influenza aviaria sia diffusa soprattutto tra gli uccelli e solo poche decine di persone ne siano state colpite per passaggio diretto, senza una trasmissione da persona a persona, tuttavia la circolazione continua di alcuni virus dell’influenza A (H5) e A(H7) nel pollame è preoccupante per la sanità pubblica. Questi virus non solo causano forme gravi di malattia, ma hanno il potenziale di mutare e di aumentare la trasmissibilità tra le persone.

Le mutazioni del virus

La capacità di mutare è una caratteristica peculiare di tutti i virus influenzali e in particolare degli A. Essa è strettamente legata alle caratteristiche del loro genoma, costituito da Rna segmentato e suddiviso in otto frammenti. Ciò comporta la possibilità che si verifichi, in due virus che abbiano infettato contemporaneamente la stessa cellula, il fenomeno noto come riassortimento antigenico (antigenic shift), dovuto all’associazione in nuove combinazioni dei segmenti genomici di Rna appartenenti a due ceppi virali geneticamente distinti. Da questi processi di riassorbimento prendono origine i «virioni» che presentano un corredo proteico di superficie significativamente diverso da quello di entrambi i virus parentali.

Anticorpi (sistema immunitario e vaccinazione)

Gli anticorpi sono grandi proteine (a forma di Y) che aiutano a difendere le cellule dell’organismo dall’intromissione di corpi estranei come batteri e virus.

Le proteine di superficie virali sono il principale bersaglio degli anticorpi prodotti dal sistema immunitario durante un’infezione naturale o a seguito di un’immunizzazione artificiale (cioè di una vaccinazione). Gli anticorpi preesistenti nell’organismo nulla possono contro le nuove forme virali.

Oltre al riassortimento antigenico, i virus dell’influenza sono caratterizzati anche dalla deriva genetica (antigenic drift) dovuta alle frequenti mutazioni nei geni che codificano per emoagglutinina (HA) e neuroaminidasi (NA). Le alterazioni delle proprietà di superficie dei virus influenzali rendono, pertanto, necessaria la produzione di nuovi anticorpi ad hoc. Questo spiega la necessità di produrre nuovi vaccini antinfluenzali ogni anno.

Nel caso dell’influenza aviaria, attualmente non esiste un vaccino specifico per uso umano. La raccomandazione è di effettuare la vaccinazione contro l’influenza stagionale, in modo da non correre il rischio di stressare oltremodo l’organismo a seguito di una coinfezione da parte di entrambi i virus. Inoltre, la riduzione delle coinfezioni riduce la probabilità che i virus possano acquisire la capacità di diffondersi da persona a persona.

Per quanto riguarda i farmaci attualmente a disposizione per il trattamento dell’influenza aviaria, alcuni farmaci antivirali (come gli inibitori della neuroaminidasi) si sono dimostrati efficaci nel ridurre la durata della replicazione virale, con miglioramento delle prospettive di sopravvivenza. Purtroppo è stata segnalata l’insorgenza di resistenza da parte dei virus ad alcuni di essi.

Carne e uova

Nell’Ue, i focolai di influenza aviaria ad alta patogenicità nel pollame, causati dai sottotipi H5 e H7, prevedono l’attuazione di strette misure di controllo che comportano l’abbattimento e la distruzione dei volatili negli allevamenti colpiti, nonché l’istituzione di zone di controllo intorno ai focolai, dove la movimentazione è consentita solo a seguito di rigidi controlli sanitari che abbiano dato esito favorevole.

Come regola generale, inoltre, i volatili inviati al macello sono sottoposti a visita prima e dopo la macellazione, in modo da assicurare l’eliminazione dalla catena alimentare dei casi sospetti.

Tanti potrebbero chiedersi se è sicuro consumare carne e uova provenienti da aree con focolai di influenza aviaria.

Innanzitutto, va precisato che il virus dell’influenza aviaria viene inattivato dal calore. Quindi, dopo adeguata cottura, i prodotti a base di carne e le uova possono essere consumati. Del resto, il consumo di carne e uova crude o non completamente cotte dovrebbe essere sempre evitato, per potere escludere contaminazioni di qualsiasi genere.

Rosanna Novara Topino


H1N1 versus H5N1:

Le conseguenze sull’uomo

Le malattie causate da virus dell’influenza suina (H1N1) e aviaria (H5N1)  possono essere di lieve entità, con interessamento delle vie respiratorie superiori (febbre, tosse) oppure presentare una rapida progressione fino alla polmonite grave, alla sindrome da distress respiratorio acuto, allo shock e alla morte. Possono essere presenti sindromi intestinali come nausea, vomito e diarrea, soprattutto durante le infezioni da influenza A H5N1, così come congiuntivite. Le caratteristiche della malattia come il periodo d’incubazione, la gravità dei sintomi e il quadro clinico variano a seconda del virus, che ha causato l’infezione, con una netta prevalenza dei sintomi respiratori. Si è visto che i pazienti con virus dell’influenza A (H5) o A (H7N9) presentano un decorso clinico più aggressivo. Inizialmente essi presentano febbre alta (>38°C) e tosse, a cui fa seguito l’interessamento da dispnea delle basse vie respiratorie. Mal di gola o raffreddore, in questi casi sono meno comuni. In alcuni pazienti sono stati riportati anche altri sintomi come quelli intestinali, sanguinamento dal naso o dalle gengive, encefalite e dolore toracico.

RNT


I virus influenzali A, B, C e D

Le quattro tipologie

  • I virus influenzali A – alla cui categoria appartiene quello dell’aviaria – infettano l’uomo e diversi animali. La comparsa di un nuovo virus influenzale di tipo A capace d’infettare le persone e con trasmissione da persona a persona può causare una pandemia influenzale.
  • I virus influenzali B sono suddivisi in due linee, cioè il B/Yamagata e il B/Victoria; essi sono presenti solo nell’uomo, sono meno temibili degli A e sono responsabili delle epidemie stagionali.
  • I virus influenzali C possono infettare sia le persone che i suini e solitamente danno un’infezione asintomatica o una forma lieve di malattia simile a un comune raffreddore.
  • I virus influenzali D sono di recente identificazione e sono stati isolati solo nei bovini e nei suini. Al momento non è chiaro se possano infettare anche l’essere umano.

I virus influenzali di tipo A sono particolarmente importanti per la sanità pubblica per via del loro potenziale zoonosico, cioè la trasmissione dagli animali all’uomo. Data l’elevata trasmissibilità che li caratterizza, se fossero in grado di trasmettersi da uomo a uomo, essi potrebbero scatenare una pandemia influenzale (spillover o salto di specie). Questi virus sono classificati in sottotipi in base alle diverse combinazioni di due glicoproteine di superficie del virus, cioè l’emoagglutinina (HA) e la neuroaminidasi (NA). Allo stato attuale, solo i virus influenzali che presentano in superficie le molecole H1, H2, o H3 e N1 o N2 possono passare da persona a persona. Soltanto alcune combinazioni possono passare da persona a persona. Tutte le altre possono contagiare le persone, ma non trasmettersi da una all’altra.

I virus influenzali responsabili delle grandi pandemie o epidemie del passato sono stati quello della «spagnola», quello dell’«asiatica» e di «Hong Kong». Il primo, l’H1N1, l’agente eziologico della «spagnola», nel 1918-19 causò da 20 a 50 milioni di morti in tutto il mondo, con un’elevata mortalità tra i giovani adulti sani (quasi la metà dei deceduti) e con il decesso che sopraggiungeva nei primi giorni dall’inizio della sintomatologia o per complicanze. Il secondo, l’H2N2, virus responsabile dell’«asiatica», fu inizialmente identificato in Cina nel febbraio 1957 e si diffuse in tutto il mondo tra il 1957-58. In Italia provocò 70mila decessi. Questo ceppo subì una serie di modifiche genetiche a partire dal 1960 che lo portarono a produrre le epidemie periodiche fino alla sua scomparsa dopo una decina di anni. Fu sostituito con l’H3N2, che, nel 1968, diede origine alla pandemia influenzale «Hong Kong», che lì si originò per raggiungere gli Stati Uniti nell’arco di un anno. Quest’ultimo virus è tuttora presente e provoca epidemie stagionali, ma attualmente è possibile prevenirlo con il vaccino antinfluenzale. Peraltro la mortalità sia dell’«asiatica» che della «Hong Kong» è stata inferiore rispetto a quella della «spagnola» non solo grazie alla produzione di vaccini, ma anche grazie all’avvento degli antibiotici (la penicillina fu scoperta da Fleming nel 1928).

Nel 2009 comparve un nuovo sottotipo del virus A H1N1 (quello della «spagnola»), che diede origine, a partire dal Messico e poi in diversi paesi del mondo, all’influenza «suina» che causò tra i 100mila e i 400mila morti solo nel primo anno, soprattutto tra bambini e giovani. Del resto, una caratteristica dei virus pandemici è quella di colpire soprattutto persone giovani, o comunque al di sotto dei 65 anni, risparmiando gli anziani, che sono più facilmente colpiti dai virus stagionali.

RNT

Accortezze in cucina

Anche in cucina vanno adottati alcuni accorgimenti. Innanzitutto bisogna sapere che il congelamento lento intorno a -18/-20°C dei congelatori domestici non è in grado di debellare il virus dell’influenza aviaria eventualmente presente nei prodotti alimentari.

Per evitare contaminazioni, bisogna sempre separare la carne cruda e le uova dai cibi cotti o pronti da consumare.

Non si devono mai utilizzare lo stesso tagliere e lo stesso coltello usati per la carne cruda anche per altri alimenti, e la carne, una volta cotta, non va messa nello stesso piatto dove era stata posta prima della cottura.

È buona norma lavarsi sempre accuratamente le mani con acqua e sapone, sia prima che dopo avere maneggiato la carne cruda.

Lavare accuratamente tutte le superfici e gli utensili che sono stati a contatto con carne cruda.

RNT

 




Biogas, istruzione e salute: il 2023 di Mco


L’anno che sta per concludersi ha visto la realizzazione di diversi progetti, sia nei settori tradizionali per i Missionari della Consolata – cioè la sanità e l’istruzione – sia in settori nuovi, come la promozione di energia pulita. E l’Africa, anche quest’anno, è stata la grande protagonista.

Lo scorso settembre, durante il vertice del G20 a Nuova Dehli, India, diciannove paesi e dodici organizzazioni internazionali hanno lanciato la Global biofuel alliance (alleanza globale per i biocarburanti). L’obiettivo dell’alleanza, di cui fanno parte fra gli altri anche l’Italia, gli Usa, l’India e, fra le organizzazioni, il World economic forum, la Banca mondiale e la Banca asiatica di sviluppo, ha l’obiettivo di promuovere l’uso dei biocarburanti sostenibili@.

I biocarburanti sono un tipo di bioenergia; quest’ultima, si legge nella sintesi del rapporto 2011 sulle fonti energetiche rinnovabili del «Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico», può essere prodotta da una varietà di materie prime di biomassa, cioè materia organica, come i residui forestali, agricoli e zootecnici, alcune colture, la parte organica dei rifiuti urbani, eccetera. Queste materie prime, attraverso vari processi e tecnologie, possono essere utilizzate direttamente per produrre elettricità e calore, oppure per ricavare combustibili gassosi, liquidi o solidi@.

Vecchie delusioni, nuove prospettive

La bioenergia, spiega sul suo sito l’«Agenzia internazionale dell’energia» (Iea, nell’acronimo inglese), rappresenta il 55% dell’energia rinnovabile a livello globale e oltre il 6% della fornitura energetica complessiva.

La moderna bioenergia, riporta ancora la Iea, è un combustibile a emissioni quasi zero, perché – per dirla in modo molto semplificato – l’anidride carbonica che si libera durante la combustione della biomassa si compensa in larga parte con quella che le piante coltivate per creare la biomassa assorbono con la fotosintesi.

All’inizio di questo secolo, i biocarburanti – ad esempio il biodiesel – avevano già ricevuto grandi attenzioni e generato aspettative che si erano però rivelate troppo ottimistiche@.

Le emissioni di anidride carbonica imputabili ai biocarburanti, infatti, non erano poi così basse, considerando la quantità di terra, acqua ed energia necessarie a produrre le piante per formare le biomasse di base. Inoltre, queste piante spesso rimpiazzavano le coltivazioni destinate alla produzione di cibo, provocando aumenti significativi dei prezzi dei prodotti agricoli. Da qui il dibattito, tuttora in corso, sintetizzato dall’espressione food vs. fuel, cibo contro carburante. Si parla oggi quindi di bioenergia moderna e biocarburanti sostenibili proprio in contrapposizione a queste prime esperienze di vent’anni fa e al loro parziale insuccesso.

Biogas e biometano

Anche il biogas rientra fra le bioenergie. Esso, spiega la Iea in un rapporto del 2020, è una miscela di metano, anidride carbonica e piccole quantità di altri gas prodotta dalla digestione anaerobica di materia organica in un ambiente privo di ossigeno.

Una delle tecnologie in grado di produrre biogas utilizza i biodigestori, cioè contenitori o cisterne ermetici nei quali il materiale organico, diluito in acqua, viene scomposto da microrganismi presenti in natura. Altri modi di produzione includono poi la «cattura» del biogas che si forma per la decomposizione dei rifiuti solidi urbani nelle discariche e il recupero dei fanghi di depurazione degli impianti di trattamento delle acque reflue. I fanghi, infatti, possono contenere materia organica e sostanze come azoto e fosforo e, con un ulteriore trattamento, possono essere utilizzati come base per produrre biogas in un digestore anaerobico@.

Il biogas può poi essere trasformato in biometano attraverso un ulteriore processo che rimuove l’anidride carbonica e le impurità. Il 90% del biometano prodotto oggi nel mondo si ottiene con questo metodo, detto upgrading, traducibile con miglioramento, passaggio alla categoria superiore.

Il biogas a Kimbiji

Secondo la Iea, 2,7 miliardi di persone nel mondo non dispongono di energia pulita per cucinare e usano biomassa solida: legna da ardere, carbone, sterco bruciato all’aperto, oppure cherosene. Circa un terzo di queste persone vive nell’Africa subsahariana.

Se fossero raggiunti tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile, nel 2040 il biogas potrebbe fornire energia pulita per cucinare a ulteriori 200 milioni di persone, metà delle quali in Africa, riducendo così l’inquinamento domestico causato da fornelli inefficienti e inquinanti che, secondo i dati del 2018, è direttamente collegato a circa mezzo milione di morti premature annuali nell’Africa subsahariana e a 2,5 milioni a livello globale.

Anche a Kimbiji, villaggio a circa quaranta chilometri a sud di Dar Es Salaam, in Tanzania, i missionari della Consolata registrano questa mancanza di alternative al carbone e alla legna da ardere come combustibili per cucinare. Per questo, padre Domnick Otieno, missionario di origine
keniana che lavora a Kimbiji da quasi tre anni, ha proposto di realizzare un biodigestore da alimentare con gli scarti generati dalla piccola porcilaia realizzata nel 2022 con il contributo della Caritas italiana. Questa ne ha sostenuto la costruzione per permettere a un gruppo di giovani locali di avviare un’attività generatrice di reddito.

«Siamo consapevoli», scriveva padre Domnick lo scorso marzo, «che una parrocchia dovrebbe essere un luogo di trasformazione nella società, un luogo in cui le persone imparano anche a prendersi cura dell’ambiente. L’installazione del biogas nella missione ci permetterà di avere sufficiente gas per l’uso domestico e potremo abbassare la retta per l’asilo, così i genitori dei nostri ottantasei alunni non dovranno più portare legna e carbone per pagare la parte di retta che non possono coprire in denaro. Il sistema a biogas offrirà inoltre a coloro che verranno alla missione la grande opportunità di conoscere l’importanza di questa fonte per ridurre l’inquinamento».

Scuola ad Alaba

Etiopia, istruzione in affanno

L’Etiopia, riporta il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), ha fatto progressi significativi verso l’istruzione primaria universale, con l’88,7% dei bambini iscritti nell’anno 2021/2022@.

Ma alcuni studi del ministero dell’Istruzione etiope e i risultati degli esami per l’accesso all’università di quest’anno costringono a ridimensionare questo dato incoraggiante.

Secondo Africanews, il sito di notizie legato alla rete televisiva Euronews, solo il 3% degli studenti etiopi di scuola secondaria ha passato l’esame di ammissione all’università@, mentre il ministero fa sapere che l’85,9% delle scuole elementari e medie e il 70,9% delle scuole superiori in Etiopia sono «completamente al di sotto degli standard@».

«I risultati peggiori», riferisce padre Marco Marini, missionario della Consolata in Etiopia, «sono spesso nelle scuole private, anche se le scuole cattoliche continuano a mantenere un buon livello e quindi un buon nome».

Ad Alaba, 250 chilometri a sud della capitale Addis Abeba, i missionari della Consolata gestiscono una scuola con 730 alunni, seguiti da quattordici maestri; ci sono poi otto persone che svolgono altri servizi, dalla segreteria alla sicurezza. Le classi vanno dall’asilo alla quinta, ma i missionari intendono attivarne altre, fino all’ottava (equivalente alla nostra terza media, ndr), che è l’ultima del ciclo primario.

L’intervento realizzato ad Alaba ha permesso di fornire alla scuola quarantacinque banchi necessari per avviare la sesta classe e per sostituire quelli danneggiati nelle classi già esistenti. «In Etiopia – spiega padre Marco -, i banchi per la scuola sono pensati per tre studenti e hanno una struttura in ferro su cui sono poggiati i ripiani in legno che servono per scrivere e sedersi. I nuovi banchi possono quindi accomodare un totale di 135 studenti. Li ha realizzati la falegnameria della missione di Shashemane, a sessanta chilometri da Alaba».

Studenti in cortile della nuova scuola di Alaba

Kenya, la sanità fra riforme e vecchi problemi

Secondo i dati dell’Organizzione mondiale della sanità (Oms), il Kenya ha oggi un’aspettativa di vita di 66,1 anni, circa 7 anni sotto la media globale, ma 12,2 anni in più rispetto all’anno 2000@. Tuttavia, si legge nel rapporto 2022 dell’ufficio dell’Unicef in Kenya@, la povertà rimane alta e interessa 16 milioni di persone, cioè un keniano su tre. La metà della popolazione – 23,4 milioni di persone (o addirittura quasi 29 oggi, ndr), di cui 11,7 milioni sono bambini – non ha accesso a servizi di base come assistenza sanitaria, acqua potabile, servizi igienicosanitari, nutrizione e alloggio.

Il Kenya, continua il rapporto, si è impegnato a porre fine alla diffusione dell’Hiv/Aids, che è una minaccia sempre attuale per la salute pubblica, e alle gravidanze delle adolescenti entro il 2030. Se gli sforzi per garantire agli adulti l’accesso alle terapie per il trattamento dell’Hiv sono stati efficaci, tante infezioni nelle persone più giovani non vengono rilevate né trattate. Si stima che quasi 38mila bambini e adolescenti affetti da Hiv non siano in terapia.

Inoltre, secondo il ministero della salute keniano, come riportava lo scorso anno il giornale The Nation, una su cinque adolescenti fra i 15 e i 19 anni è madre o è incinta.

Uno studio pubblicato su Health economic review, rivista del gruppo anglo-tedesco Springer nature, rivela che solo un quinto dei keniani è coperto da una qualche forma di assicurazione sanitaria@ privata o pubblica (il Nhif, National health insurance fund del ministero della Salute, iniziato nel 1966, però collassato a causa della corrotta amministrazione di questi ultimi anni, ndr). Diverse testimonianze dirette da parte di missionari della Consolata, oltre a confermare sul campo questo dato, riportano che, di fatto, soltanto pagando è possibile ottenere cure adeguate.

Recentemente, il governo@ ha lanciato una riforma del fondo che però sembra peggiorare la situazione. Prima della riforma, i keniani pagavano dal loro stipendio o in forma volontaria cifre che andavano da 150 a 1.700 scellini keniani al mese (da poco meno di un euro a circa 11 euro) per il Nhif. Il nuovo fondo prevede un contributo minimo pari al doppio e, per i lavoratori dipendenti, un maggior prelievo percentuale sulla retribuzione.

Troppe persone oggi non hanno un lavoro regolare che dia loro diritto al Nhif o permetta loro di acquisirlo in forma volontaria e, tantomeno, di accedere alle cure sanitarie a pagamento.

Timbwani, la nuova clinica

Una delle zone in cui la povertà è più diffusa è la periferia di Mombasa, grande città portuale sull’Oceano Indiano, dove i missio-
nari della Consolata sono presenti a Likoni e a Timbwani, sulla costa sud oltre lo stretto che separa dalla città antica. Proprio a Timbwani, i missionari hanno di recente completato la costruzione di una nuova struttura sanitaria.

L’aiuto richiesto a Missioni Consolata Onlus dal responsabile, padre Joseph Waithaka, riguarda l’acquisto e installazione di mobilio e attrezzatura per la sala consultazioni, per il triage, per la sala delle cure prenatali e di materiale per le consultazioni pediatriche. La clinica di Timbwani lavorerà di concerto con il dispensario di Likoni, di cui è di fatto un’estensione, e avrà un bacino di utenza di circa 10mila persone. «Chi vive nella zona di Timbwani», scriveva lo scorso marzo padre Waithaka, «deve prendere il traghetto e attraversare lo stretto per raggiungere la struttura sanitaria pubblica più vicina. Questo nuovo centro sanitario ci permetterà di offrire assistenza ai malati e programmi di consulenza ai giovani tossicodipendenti e alcolisti». Mombasa si trova, infatti, su una delle nuove rotte del traffico mondiale di eroina e questo ha reso il Kenya un paese non solo di transito, ma anche di consumo@.

Chiara Giovetti




In volo con Camilla


Un po’ per caso, un’insegnante scrittrice s’imbatte in una storia su una malattia rara. Con grande sensibilità ne scrive un romanzo. Un’associazione di genitori di piccoli malati lo legge e lo fa suo. Invita l’autrice a un incontro nazionale, cambiando per sempre la sua vita.

A fine dicembre 2022 ho pubblicato un libro dal titolo «La farfalla nella bolla di sapone». L’idea di questo romanzo breve è nata quasi per caso meno di un anno fa, pensando a tanti bambini e bambine che soffrono di qualche malattia, e alle loro famiglie che ogni giorno con costanza e amore combattono affinché possano vivere una vita normale e soprattutto possano guarire.

Quella che ho raccontato è la storia di Matilde, una bimba dalla pelle fragile come le ali di una farfalla. Matilde rappresenta simbolicamente tutti i bimbi colpiti dall’epidermolisi bollosa (Eb), che vengono appunto chiamati «Bambini farfalla».

Dalle pagine del diario del protagonista, un ragazzo di tredici anni a cui nasce una sorellina bellissima, ma fragile come una farfalla, emergono la lotta, i momenti difficili, e anche i sorrisi, le gioie e le speranze di una famiglia unita e tenace, che non si arrende, perché deve vincere una battaglia molto importante, ovvero convivere e sconfiggere una malattia rara.

Il libro parla di una tematica intensa e commovente, volutamente trattata, attraverso gli occhi di un ragazzo, con leggerezza e ironia.

È una storia ambientata ai giorni i nostri, in cui la vita quotidiana di una famiglia si intreccia con la pandemia; una storia fatta di dolore e sacrifici, ma anche di tanto coraggio e speranza, che conduce a un lieto fine perché il motto dei protagonisti è: non arrendersi mai e non smettere mai di sognare e di sperare.

Un mondo che si apre

Dopo aver scritto il romanzo, mi si è aperto un mondo che non conoscevo, ed è per questo che il mio intento è di fare qualcosa per sensibilizzare (nel mio piccolo) su questa malattia per la quale, a oggi, non esiste ancora una cura risolutiva. Ma la scienza medica deve essere sostenuta nella ricerca ora più che mai, perché grandi passi avanti sono stati fatti nell’ambito della terapia genica, l’unica in grado di garantire una guarigione definitiva delle lesioni.

Ho quindi deciso di devolvere l’intero ricavato del mio libro all’associazione Le ali di Camilla, che ho avuto modo di conoscere a fine marzo, in occasione degli «Eb Days» organiz- zati a Modena per far incontrare ricercatori, medici e famiglie.

Voglio ringraziare la presidente Stefania Bettinelli (fino a gennaio 2023 responsabile delle relazioni esterne del Centro di medicina rigenerativa e di Holostem, e da molti anni vicina ai pazienti), per avermi invitata al loro incontro: una lezione di vita che vale più di mille pagine di studi.

Per me e mio marito sono stati due giorni molto intensi, ricchi di emozioni indescrivibili, che porteremo sempre nel cuore.

Lì ho avuto modo di conoscere ricercatori, medici, operatori, volontari e persone che si adoperano per supportare i pazienti (bambini, ragazzi e adulti) e le loro famiglie nel difficile percorso di cura. Come Giulia e Christian, i genitori di una delle due piccole Camilla da cui prende il nome l’associazione, che hanno coinvolto l’intero paese di Casina, in provincia di Reggio Emilia, nelle attività dell’associazione.

E abbiamo incontrato bambini e adulti meravigliosi, che non si lamentano delle difficoltà che ogni giorno devono affrontare, del dolore fisico e dell’incertezza del futuro. Abbiamo condiviso molti momenti, sono nate delle belle amicizie e soprattutto ci siamo sentiti accolti come in una grande famiglia.

Impatto emotivo

La partecipazione a quell’incontro ha avuto un impatto emotivo molto forte su di me. Ho visto i bambini con le mani e le braccia bendate e le ferite aperte, ho visto i giovani con le mani chiuse o con arti amputati. E se è vero che, in un primo momento, l’occhio cade sulle fasciature e sulle ferite, basta davvero poco per guardare oltre, per vedere la persona e non la malattia, perché, come ha detto Rebecca, una bimba goriziana di nove anni, «Io voglio che i miei compagni di scuola sappiano la verità, e solo io posso dirla: io sono una bambina normale come loro, ma semplicemente con una malattia che rende la mia pelle fragile come le ali di una farfalla. E loro mi hanno capita. Questo mi ha sorpresa e resa felice».

Rebecca ci ha colpiti per la sua forza, per il sorriso, per le riflessioni profonde e per l’impegno che lei e la sua famiglia portano avanti sia nel progetto “Camilla va a scuola”, con il libro Vuoi volare con me?, per l’inclusione scolastica, sia con il gruppo musicale i Trovieri, che ha dedicato la canzone «Mille colori» ai bambini farfalla.

Al progetto «Camilla va a scuola» ha collaborato anche la scuola dell’infanzia frequentata dalla vicentina Chiara, di tre anni, che indossa una maglietta protettiva e le fasciature alle manine. Vedere il video in cui ride felice e fa le attività insieme ai compagni è stato un momento di pura gioia. Per lei e per le compagne e i compagni le maestre hanno inventato la storia «Stella Caterina».

Un altro libro che è stato presentato, Perfettamente imperfetta, è quello in cui Claudia, collegata dalla Sardegna, racconta la sua vita e le difficoltà che ha dovuto affrontare. Il libro vuole essere un messaggio ai giovani e un aiuto di speranza per le persone fragili che si perdono nelle difficoltà e nei labirinti della vita. «So e sento che è bello amare la vita nella sua semplicità e nelle sue avversità; è bello non sentirsi mai inferiori a nessuno, perché ognuno di noi vale tanto», ha detto Claudia.

Una vita complessa

La «verità» a cui Rebecca si riferiva è che l’Eb rende la pelle fragile e propensa alla formazione di dolorose bolle in seguito a traumi anche minimi. Le lesioni facilmente si infettano comportando gravi rischi. Per questo è necessario proteggere con bendaggi speciali la pelle.

I pazienti impiegano circa tre ore al giorno per effettuare le medicazioni. L’esempio che ci è stato fatto, affinché si potesse capire la gravità e l’intensità del dolore è stato questo: è come mettere la mano su una piastra rovente e rimanere con la carne viva (cosa che con l’Eb si verifica sugli arti, ma anche nelle altre parti del corpo).

Nei casi gravi, le bolle possono manifestarsi all’interno del corpo, ad esempio nelle mucose interne di bocca, gola ed esofago e provocare anche dolorose lesioni alle cornee. Esse si possono prevenire con l’utilizzo di speciali lenti a contatto che l’associazione fornisce ai pazienti.

Strumenti importanti

Spesso le mani delle persone malate di Eb tendono ad atrofizzarsi e le dita a incollarsi tra loro, impedendo di compiere i normali atti della vita quotidiana. Ed ecco allora che il toscano Alessandro (che oltre al lavoro in ospedale, è iscritto al terzo anno di Scienze motorie per specializzarsi in riabilitazione motoria), insieme all’associazione sta portando avanti il «Progetto Eb Aid», con il quale è stato possibile brevettare un guanto multifunzionale (da lui progettato e realizzato), con tanti alloggiamenti stampati in 3D che permette ai pazienti con Eb e mani parzialmente o totalmente chiuse, di ancorare e utilizzare gli utensili di uso quotidiano (cucchiaio, forchetta, biro, spazzolino da denti, ecc.).

Poiché l’Eb negli adulti spesso provoca tumori della pelle, molti pazienti hanno subito amputazioni degli arti.  Purtroppo, però, essi non possono utilizzare le normali protesi perché la loro pelle non sopporterebbe l’effetto sottovuoto che è necessario creare per mantenerle ferme sui monconi. Sempre attraverso il «Progetto Eb Aid», Lucio, di Arezzo, con la stampa 3D ha realizzato protesi leggerissime ma funzionali con cui riesce a utilizzare anche il braccio amputato mantenendo una certa autonomia.

A fruire di questi ausili sarà anche Michela, che abbiamo conosciuto insieme a Nicola. Sono una coppia di ragazzi pugliesi che dimostrano come l’amore vada oltre la malattia. Un sentimento sbocciato a due mesi dall’amputazione di Michela e che prosegue da due anni.

Insieme a loro, a cena, abbiamo conosciuto Alessandro, arrivato da Roma con la mamma Valeria, Gianfranco di Alessandria e la famiglia della piccola Gaia di Torino, Michele, arrivato dalla Sicilia con la mamma, e la numerosa famiglia di Diego che ha viaggiato in treno dalla Campania.

Nel corso dell’incontro, non sono mancati alcuni momenti dedicati alla clinica e alla ricerca.

La professoressa Cristina Magnoni, coordinatrice del Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (Pdta) dedicato all’Eb, al Policlinico di Modena, insieme alla dottoressa Chiara Fiorentini e alla professoressa Manuela Simoni, ha dedicato una tavola rotonda al miglioramento del Pdta come percorso da costruire insieme attraverso la preziosa alleanza tra medici e famiglie, fondamentale in una malattia rara come l’Eb.

Il Pdta coinvolge oltre trenta specialisti (tra cui neonatologi, pediatri, genetisti, oculisti, chirurghi dermatologici, chirurghi della mano, gastroenterologi, anestesisti) e rappresenta un punto di riferimento per centinaia di pazienti, provenienti da tutta Italia. Questi, al momento vengono ospitati dall’associazione in hotel convenzionati nei pressi dell’ospedale, almeno fino a quando non si riuscirà a realizzare il progetto «Una casa per Camilla».

Terapia genica

Modena è anche un riferimento internazionale per la ricerca, in particolare per la terapia genica.

All’incontro abbiamo potuto conoscere il professor Michele De Luca, direttore del Centro di medicina rigenerativa «Stefano Ferrari» dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e socio fondatore e direttore scientifico dello spin-off universitario Holostem Terapie avanzate, uno dei maggiori esperti al mondo di biologia delle cellule staminali.

De Luca ha salvato la vita a un piccolo paziente con un intervento raccontato dai principali media italiani e internazionali nel 2017 in occasione della pubblicazione su Nature, la rivista scientifica più importante del mondo. Nel 2015 Hassan, un bambino siriano di sette anni, affetto da epidermolisi bollosa giunzionale, era stato ricoverato nel centro ustioni dell’ospedale di Bochum in Germania per le ferite causate dalla rara patologia genetica che colpisce gli epiteli, ulteriormente aggravate da un quadro clinico così severo da dovergli indurre il coma farmacologico per poter sopportare il dolore.

I medici, dopo aver fallito nel curare il piccolo paziente con le terapie disponibili, avevano contattato il professor De Luca che nel 2006 aveva pubblicato il risultato della prima sperimentazione al mondo di terapia genica a base di cellule staminali geneticamente corrette, eseguita a Modena su Claudio, un paziente torinese allora poco più che trentenne. Grazie a quel solido risultato, ripetuto su un secondo paziente in Austria, le autorità regolatorie tedesche avevano autorizzato il trapianto salvavita sull’80% della superficie corporea del bambino di lembi di epidermide geneticamente corretta coltivata in laboratorio. «Oggi Hassan sta bene e la sua nuova pelle cresce con lui», ha spiegato De Luca, che ha aggiunto: «Rimuovere le medicazioni dopo dieci giorni e vedere la pelle completamente rigenerata al posto delle lesioni è stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita». Da questa storia vera è nato il romanzo «Il bambino farfalla» scritto da Alessandro De Francesco.

Un’esperienza

Vivere i due giorni degli Eb Days di Modena mi ha fatta sentire incredibilmente piccola, e piena di gratitudine.

Per iscriversi alle Ali di Camilla basta una quota associativa simbolica di 10 euro all’anno. Il mio intento è di portare a conoscenza e sensibilizzare sulla realtà dei bimbi farfalla, e contribuire a sostenere qualche progetto, perché siamo tutti pezzi di un puzzle che si chiama vita e soltanto uniti e solidali lo potremo completare.

Cinzia Charrier*

*Insegnante di italiano, è diventata scrittrice durante il lockdown. Dopo il primo romanzo La neve sul mare, 2020, ha pubblicato La tigre e il colibrì, 2022, e La farfalla nella bolla di sapone, 2023. Tutti i libri di Charrier sono autoprodotti e sono reperibili su internet.


L’associazione che promuove la ricerca

Le ali di Camilla

Le ali di Camilla è un’associazione di promozione sociale fondata a Modena nel 2019 per promuovere la ricerca e la cura dell’epidermolisi bollosa (Eb) e di malattie rare degli epiteli di rivestimento, potenzialmente trattabili con terapie avanzate a base di cellule staminali epiteliali sviluppate dal Centro di medicina rigenerativa «Stefano Ferrari» dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

L’associazione, che porta il nome di due piccole bambine farfalla che sono volate in cielo, rispettivamente a tre e a dieci mesi, supporta anche l’ambulatorio multidisciplinare per l’Eb dell’Azienda ospedaliero universitaria Policlinico di Modena e assiste i pazienti e i loro familiari, provenienti da tutta Italia e dall’estero, in occasione di visite e ricoveri.

Ha inoltre sviluppato diversi progetti per migliorare la qualità della vita dei pazienti, come «Camilla va a scuola», per l’inserimento scolastico dei bambini farfalla, «Camilla va a cavallo», per consentire ai pazienti di familiarizzare con l’ippoterapia e «Una casa per Camilla», per realizzare una struttura di accoglienza nei pressi del Policlinico di Modena, dove i pazienti possano alloggiare in occasione di visite e ricoveri con tutti i comfort e gli adattamenti di una casa.

Le Ali di Camilla si finanzia attraverso il 5×1000, la realizzazione di bomboniere, la presentazione di libri, i concerti, le manifestazioni sportive, il sostegno di una squadra di pallavolo, di due equipaggi di rally e moltissime altre iniziative solidali. Per maggiori informazioni potete visitare il sito www.lealidicamilla.org.

C.Ch.


La storia di Claudio

La forza di credere nel futuro

Il primo paziente trattato al mondo con la terapia genica per l’Eb è Claudio, nato nel torinese (dove ancora vive) nel 1970. «L’avventura con la terapia genica», come la chiama Claudio, comincia alla fine degli anni ’90, quando il professor Michele De Luca lo contatta per chiedergli se è disponibile a una sperimentazione, la prima in assoluto. Claudio accetta e instaura subito un ottimo rapporto con il ricercatore, basato sulla chiarezza, sulla fiducia e sulla stima reciproca, un’amicizia che non si perderà più.

Anche supportato dalla sua fede profonda, comincia a pensare che questa possibilità non sia frutto del caso, ma un disegno superiore, in risposta a tante domande e a tanti perché che lo hanno attanagliato nel corso degli anni. Lo slogan di Claudio è: «Vivere l’attimo presente, senza entusiasmarsi troppo per i successi, ma anche senza demoralizzarsi se qualcosa va storto». Nel 2005, a Modena, a Claudio vengono trapiantati, sulla parte anteriore delle gambe, due lembi di epidermide geneticamente corretta. Sono due parti non molto estese, ma è un grande successo per la scienza perché su quei lembi di pelle non si formeranno più le bolle che caratterizzano l’Eb.

La sperimentazione su Claudio ha aperto la strada ad altri pazienti, come ad esempio Hassan, che Claudio ha incontrato a Modena nel 2019, e ad altri pazienti attualmente in sperimentazione clinica al Policlinico di Modena.

La vita di Claudio non è semplice. Ci sono le medicazioni quotidiane, i continui rischi di carcinomi, ma la sua tenacia e l’amore che dà e riceve sono più forti delle difficoltà. «Ho avuto un grande privilegio: il dono di aver conosciuto delle persone meravigliose con le quali ho instaurato un bel rapporto di amicizia».

Nel 2014, quando Claudio si è sposato, non ha potuto che scegliere Michele come suo testimone di nozze. Qualche anno dopo, come un raggio di sole, ad allietare la sua vita e quella di sua moglie Irene arriva una bimba che, come dice Claudio, non poteva che chiamarsi Emanuela.

C.Ch.

 




MCO. Il bilancio sociale, per conoscersi meglio


Lo scorso mese Missioni Consolata Onlus ha pubblicato il bilancio sociale 2022. Anche quest’anno, redigerlo è stata un’occasione per conoscere e far conoscere meglio il nostro lavoro, per migliorare la comunicazione interna e per soffermarsi su alcuni progetti significativi.

Il 2022 è stato un anno positivo per Missioni Consolata Onlus, che ha registrato un aumento di donazioni ricevute intorno al 6%. Lo si può leggere nel bilancio sociale 2022, pubblicato sul sito di Mco a fine giugno.

Scuola e sanità prima di tutto

La distribuzione delle donazioni per ambito di intervento ricalca abbastanza quella dei due anni precedenti, con le iniziative per sanità e istruzione a rappresentare da sole quasi il 40% del totale. Caratterizzata dal lavoro
dei quattro grandi ospedali (Ikonda e Makiungu in Tanzania, Wamba in Kenya e Neisu in Rd Congo) e dei due centri di salute (Dianra e Marandallah in Costa d’Avorio) in Africa, la sanità ha ricevuto 854mila euro (22,7% del totale), mentre l’istruzione – dall’asilo all’università – ha ottenuto quasi 657mila euro (17,5%).

Intorno al 3% si collocano poi le attività con i popoli indigeni, gli interventi che mirano a creare sviluppo economico e le iniziative che garantiscono alle comunità locali l’accesso a fonti d’acqua pulita e affidabile.

Questi tre ambiti hanno raccolto rispettivamente 124mila, 118mila e 117mila euro, mentre la formazione professionale, cioè quelle attività formative che forniscono competenze a persone che si trovano ormai al di fuori di un percorso scolastico – corsi di sartoria, informatica di base, gastronomia, e simili – hanno ottenuto 28mila euro, lo 0,8%.

Emergenze quotidiane

Una voce consistente è certamente quella che raggruppa ambiti non riconducibili a quelli già menzionati e che ha ottenuto un sostegno complessivo di 534mila euro, il 15% del totale.

All’interno di questa voce, il 2022 ha visto un robusto sostegno alle attività a carattere religioso, fra cui la costruzione o ristrutturazione di chiese, la copertura dei costi di formazione dei nuovi missionari nei seminari, la fondazione di una nuova missione, la formazione permanente dei missionari di ogni età. La maggiore novità del 2022 all’interno di questo gruppo di ambiti è invece la realizzazione di interventi di emergenza in sostegno ai rifugiati ucraini, prima solo in Polonia poi anche in Ucraina.

Le spese di amministrazione e funzionamento  della Onlus sono state pari al 12,5% del totale (469mila euro)

Il sostegno generico è stato di 314mila euro, l’8,4%. Si tratta, in quest’ultima voce, di un tipo di aiuto che è difficile ricondurre alla logica dei progetti o, comunque, degli interventi strutturati e organizzati, perché sostiene quella parte del lavoro dei missionari che consiste nell’assistenza immediata a persone che affrontano una difficoltà improvvisa e temporanea: un (o, più spesso, una) capofamiglia che perde il lavoro, un malato che non può pagare le cure mediche e tantomeno i farmaci necessari, un contadino o un pastore che ha perso tutto a causa della siccità o di razziatori. Piccole e grandi emergenze quotidiane che le persone affrontano anche bussando alla porta della missione per chiedere aiuto e, quasi sempre, cercando di ricambiare appena è loro possibile.

Congo, progetti salute

Ospedale di Neysu, Congo RD (AfMC)

La Repubblica democratica del Congo è, fra i Paesi di missione, il secondo per offerte ricevute: quasi 532mila euro, dopo i 955mila della Tanzania. È anche il paese in cui si sono svolti tre dei sei progetti in evidenza, interventi significativi che nel bilancio sociale illustrano ciascun ambito di intervento.

Il progetto dell’ambito salute è in realtà un insieme di interventi che si sono svolti all’ospedale di Neisu, nella provincia dell’Alto Uélé, Congo orientale. Hanno interessato la cardiologia, la maternità e l’ortopedia, oltre al trasporto di operatori e pazienti.

«La cardiologia è completa», confermava a maggio da Neisu il responsabile dell’ospedale, Ivo Lazzaroni, laico missionario della Consolata. «Facciamo una trentina di elettrocardiogrammi al mese mentre gli esami eco-doppler per ora sono meno e quasi solo per pazienti che vengono da Isiro», il capoluogo, 70 chilometri più a ovest: «Il costo dell’esame, 25mila franchi congolesi (circa 12 euro), dissuade tante persone dei villaggi qui in foresta».

Ma la sensibilizzazione dei pazienti sul ruolo della prevenzione nelle malattie del sistema cardiovascolare, che la dottoressa e le due infermiere formate a Kinshasa affiancano al lavoro di diagnosi e cura, sta iniziando a dare frutti: «Qui si usa tanto olio di palma e sale, per cui le ipertensioni sono frequenti. Le persone, però, stanno iniziando a capire: lo vediamo anche dal fatto che sempre più spesso decidono di comprare i farmaci per le malattie cardiovascolari che vengono loro prescritti, anche se hanno un costo elevato per il livello di reddito locale».

La maternità ha poi ricevuto una seconda incubatrice, «perché la precedente non funzionava più e non è stato possibile ripararla. È una grazia di Dio: ci sono dei bambini nati prematuri o sottopeso che ne hanno davvero bisogno». Ivo sta attivandosi per procurarne un’altra, perché quella attuale deve a volte ospitare più di un bambino.

Infine, la formazione in chirurgia ortopedica e traumatologia, che un medico e un infermiere dell’ospedale stanno seguendo a Kinshasa, permetterà di trattare con più efficacia i pazienti con fratture. «Molti di loro», dice Ivo, «se le procurano cadendo dalle palme, dove salgono a raccogliere i frutti per produrre l’olio. Se si rompe un ramo, o si incontra un serpente, si possono fare cadute disastrose. Se riescono a sopravvivere, i pazienti si trovano con fratture scomposte che non solo devono essere operate, ma richiedono mesi di fisioterapia». Il costo totale di questi interventi, che include anche l’acquisto di sei piccole moto per il personale sanitario dei centri periferici e per il trasporto dei pazienti, è stato di circa 44mila euro.

Baayanga, bambini pigmei a scuola (AfMC/Flavio Pante)

Scuola a Bayenga, mattonelle a Kinshasa

Sempre in Congo, padre Flavio Pante sta avviando la costruzione di una scuola a Bayenga, 140 chilometri circa a sud est di Isiro. Qui i Missionari della Consolata lavorano dagli anni Novanta con i Pigmei bambuti, per favorirne il dialogo, storicamente difficile, con la popolazione di etnia bantu e accompagnarne il percorso di ricerca di un modo di vita che rispetti la loro cultura e il loro legame con la foresta ma, allo stesso tempo, non li escluda dalla partecipazione alla vita della società congolese, fatta più di sedentarietà e di agricoltura che di nomadismo e caccia.

«Non sono uno da grandi progetti», scherzava in una lettera padre Flavio lo scorso maggio, «vado avanti con quello che ho, secondo la realtà del posto e i suoi tempi». Con l’aiuto di familiari, donatori privati, enti ecclesiali e organizzazioni amiche, padre Pante ha raccolto 9mila euro con cui costruirà nove classi che possono contenere fino a 80 allievi l’una, «limite posto dal regolamento scolastico del Congo. Ora più della metà del totale degli allievi è ospitato in un’altra scuola con orari a turni, ma stanno stretti e vivono diversi disagi». Le aule saranno in legno con tetti di lamiera e pareti in fango, rivestite di cemento per riparare le classi da vento e pioggia. «Sempre se il cemento sarà accessibile», precisa padre Flavio: perché «la situazione del Kivu», dove sono in corso violenti scontri fra l’esercito congolese e i ribelli del gruppo M23@, «porta per noi grosse difficoltà negli approvvigionamenti e un grande aumento nei prezzi».

A Kinshasa, nel quartiere di Mont Ngafula, padre César Balayulu ha infine realizzato con 2mila euro un microprogetto di recupero delle bottiglie di plastica, che vengono sciolte per produrre mattonelle da pavimentazione. «L’idea mi è venuta guardando un’iniziativa simile portata avanti dai gesuiti non lontano dalla nostra missione», spiegava a maggio padre César. «Vista la quantità enorme di bottiglie disperse nell’ambiente a Kinshasa, ho deciso di coinvolgere trenta persone fra giovani e donne della zona e cominciare». Questo potrebbe essere un progetto pilota, da ampliare almeno con l’acquisto di un apposito forno elettrico chiuso, per ridurre al minimo le esalazioni derivanti dallo scioglimento della plastica, spiega César. «I risultati sono incoraggianti: i torrenti d’acqua che si formavano nella zona intorno alla parrocchia con le violente piogge tropicali, prima scavavano il terreno. Da quando abbiamo messo il pavé fatto con la plastica delle bottiglie, l’erosione si è molto ridotta». Non solo, aggiungeva padre David Bambilikpinga Moke, superiore regionale del Congo: «Non trovando più le bottiglie a ostruire canali e fossi, durante le piogge, l’acqua defluisce più facilmente verso il fiume».

Distribuzione di cibo donato dai Missionari della Consolata in Polonia ai Frati Francescani Albertini di Zaporizia (AfMC/Luca Bovio)

La Polonia e l’emergenza Ucraina

Sin dai primi giorni di marzo 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina e la fuga di milioni di persone nei paesi limitrofi, i Missionari della Consolata in Polonia hanno cominciato a organizzare l’accoglienza per i profughi, in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita in Łomianki vicino a Varsavia e la Caritas. Nei mesi successivi sono poi cominciate anche le missioni per portare aiuti in territorio ucraino. Padre Luca Bovio, missionario della Consolata in Polonia, ha partecipato a queste missioni insieme a don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la Conferenza episcopale polacca: grazie anche ai 51mila euro raccolti da Mco, padre Luca, don Leszek e le tante persone che hanno collaborato con loro, sono riusciti a portare cibo, prodotti per l’igiene, generatori nelle città di Kijew, Charnichow, Karkiw, Dniepr, Zaporiza, Kherson, Mikolaj, Odessa, Leopoli@.

A maggio scorso padre Luca Bovio, confermava il persistere della situazione di emergenza, specialmente nelle zone prossime al fronte. «Non ci sono più spostamenti di persone verso la Polonia, ma continuano quelli interni all’Ucraina, anche perché il governo invita le persone che vivono vicine alle zone di scontri a spostarsi». Non tutti, però, raccolgono l’invito, perché non se la sentono di lasciare i luoghi dove sono nati e cresciuti, ma anche perché la primavera è tempo della semina, e mancarla significa trovarsi senza provviste il prossimo inverno. «Così, in occasione di un viaggio nei pressi del fronte mi è capitato di assistere a scene quasi surreali, con i missili russi che cadevano a 500 metri da me mentre, a due chilometri nella direzione opposta, un contadino arava la terra sul suo trattore». Non ci sono lati positivi nella guerra, conclude padre Luca, ma la solidarietà che è emersa in questi mesi con la mobilitazione di così tante persone fra Polonia, Italia, Usa, Canada, aiuta tanto e dà speranza.

Bambini a colazione nel Baixo Cotingo ( AfMC/foto Francesco Bruno)

Acqua e popoli indigeni

Fra i progetti per garantire alle comunità l’accesso all’acqua c’è lo scavo di un pozzo artesiano che si sta svolgendo a Baixo Cotingo, nella Terra indigena Raposa Serra do Sol (stato di Roraima, Brasile), dove la siccità degli ultimi anni priva la comunità di Camará dell’acqua durante l’estate, mentre d’inverno il sistema di canali che porta l’acqua a valle dalle montagne vicine è spesso bloccato da foglie e detriti.

«Il pozzo artesiano è già stato perforato a una profondità di 64 metri», scriveva a maggio padre Jean-Claude Bafutanga, missionario della Consolata, «e ha fornito acqua sufficiente per l’intera comunità indigena di Camará, che ora può bere e utilizzare acqua pulita e potabile, non contaminata dal mercurio usato nell’estrazione mineraria illegale ancora in corso nella zona»@.

Il lavoro con i popoli indigeni del Venezuela, infine, continua ad accompagnare i Warao nell’affrontare le tante difficoltà legate alla più generale situazione del Paese@ e alla particolare condizione di emarginazione delle comunità indigene (cfr. articolo pag 10).

«Lo Stato venezuelano ha praticamente abbandonato le scuole delle comunità che vivono nella zona del reticolo di canali e corsi d’acqua minori (caños) del fiume Orinoco», scriveva lo scorso aprile padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata nella missione di Nabasanuka e responsabile del progetto. Andare a scuola in queste zone è già peraltro molto complicato: «A causa delle grandi distanze, che devono essere coperte in curiara (canoa), insegnanti e bambini sono spesso assenti dalle lezioni».

A questo si aggiungono le difficoltà economiche di molte famiglie, costrette a rivolgersi alla missione per avere vestiti usati; e la mancanza di igiene combinata con l’assenza di strutture sanitarie adeguate e farmaci in grado di contrastare la diffusione di malattie come amebiasi e altri parassiti intestinali, infezioni della pelle, delle vie respiratorie, delle vie urinarie, micosi.

Il progetto Dignità per il popolo warao, si concentra su tre linee strategiche: alfabetizzazione, attività generatrici di reddito e salute. Finanziato da donatori privati con 5mila euro nel 2022, cerca di sopperire alle mancanze del sistema educativo con la distribuzione di materiale scolastico e la trasmissione del sapere tradizionale dagli anziani ai bambini. Fornisce inoltre formazione a 80 donne in tecniche sartoriali e sensibilizzazione su temi igienico sanitari per promuovere la prevenzione e la conoscenza delle piante officinali.

Chiara Giovetti

 




Daadab. La città dei tendoni


Da 32 anni è una città fatta di ripari di fortuna, in mezzo al deserto. Ci abitano 350mila persone, e gli arrivi continuano. Intanto la guerra in Europa ha dirottato in Ucraina parte delle risorse. Alcune Ong e agenzie Onu continuano a dare assistenza a una popolazione (di rifugiati) che non può farcela da sola.

Immaginate una città grande come Firenze. Senza però monumenti e strade asfaltate. Senza case in muratura. Senza un fiume che l’attraversa. Una distesa infinita di rifugi improvvisati, capanne, tende, circondata da un deserto arido dove a farla da padrona è una terra rossa che impregna l’aria e riempie i polmoni.

Di fronte a voi, ecco Dadaab, il più grande campo profughi dell’Africa che sorge nel Nord del Kenya, nell’Africa orientale.

Fondato nel 1991 dalla Croce rossa internazionale e gestito dal governo keniano e dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), da allora ha continuato a ospitare un flusso imponente di somali in cerca di rifugio, inizialmente dagli scontri tra le milizie claniche seguiti alla deposizione del presidente somalo Mohamed Siad Barre, poi dalla violenza delle milizie fondamentaliste di al-Shabaab (cfr. MC maggio 2018) e dalla siccità.

Sono trascorsi 32 anni e, nonostante Dadaab fosse stato concepito come un’infrastruttura temporanea, la maggior parte dei rifugiati che vivono nell’insediamento è nata qui e qui ha sempre abitato. Dadaab è la loro città e, spesso, è l’unico posto che conoscono.

Refugees stand in line at Kenya’s sprawling Dadaab refugee complex during a visit of Pakistani activist for female education and the youngest-ever Nobel Prize laureate Malala Yousafzai organised by the UN High Commissioner for Refugees, in Garissa on July 12, 2016. (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

I quartieri della «città»

Il campo si compone di cinque insediamenti principali, noti come Ifo, Dagahaley, Hagadera, Kambioos e Ifo 2. Ciascuno di essi ha il proprio centro sanitario, scuola e servizi di base. Negli anni scorsi, il campo ha ospitato fino a 500mila persone, scese poi a 250mila e risalite a 350mila negli ultimi sei mesi. Tanto è vero che il governo keniano ha ordinato la riapertura di due quartieri di Dadaab che erano stati chiusi nel 2019 a seguito della riduzione dei rifugiati per effetto di un programma di rimpatrio volontario in Somalia.

Il rapporto tra Kenya e Daadab è controverso. A più riprese i politici keniani hanno annunciato, anche a scopo di consenso elettorale, l’intenzione di chiudere il campo e rimpatriare i rifugiati in Somalia, ma l’Unhcr e altre organizzazioni umanitarie hanno sollevato preoccupazioni per la sicurezza dei rifugiati e per la situazione umanitaria in Somalia. Il campo di Dadaab è quindi rimasto aperto e, nel tempo, è diventato sempre più una questione urgente e complessa da gestire per la comunità internazionale.

Nel rapporto Emergency watchlist che ogni anno la Croce rossa internazionale stila per individuare quali sono i paesi a maggiore rischio di crisi umanitarie, la Somalia è al primo posto. Oltre duecentomila persone nel Paese stanno soffrendo le conseguenze di un aspro conflitto civile contro la milizia fondamentalista al-Shabaab, e questo numero, si prevede, triplicherà entro novembre 2023.

Al conflitto, che interessa soprattutto le regioni centrali e meridionali, si sta aggiungendo una forte siccità causata dalla quinta stagione consecutiva di scarse o nulle precipitazioni atmosferiche (le previsioni annunciano che anche il 2023 sarà asciutto). Ciò ha provocato una diffusa insicurezza alimentare e una forte dipendenza dalle importazioni di cibo dall’estero. Anche queste, però, si sono ridotte per l’instabilità causata prima dalla pandemia di Coronavirus e poi dalla guerra tra Russia e Ucraina (tra i maggiori esportatori mondiali di cereali).

Di fronte a questa situazione drammatica, migliaia di famiglie abbandonano le loro case cercando rifugio in altre zone del Paese o all’estero.

Fuga dalla Somalia

Le storie di chi arriva a Dadaab sono drammatiche. Dekow Derow Ali, padre di quattro figli, faceva affidamento sui suoi raccolti e sul suo bestiame per sostenere la famiglia. Ma tre anni senza pioggia hanno distrutto i suoi mezzi di sostentamento. «Si piantano i semi, ma poi non c’è nulla da raccogliere – ha detto in un colloquio con i responsabili dell’Unhcr, agenzia Onu per i rifugiati -. Le mie mucche sono morte all’inizio della siccità. Ho perso anche alcune capre». Allora Dekow ha venduto le capre rimaste e, con i soldi ricavati, ha pagato il trasporto per sé e la famiglia fino a Dadaab. «Sono venuto senza nulla, tranne i miei figli», ha detto.

Come lui, almeno 80mila somali hanno deciso di attraversare il confine e rifugiarsi a Dadaab negli ultimi due anni, di cui circa 45mila sono arrivati nel solo 2022. Molti di essi non hanno niente. Sopravvivono grazie agli aiuti internazionali e sono costretti ad abitare in sistemazioni di fortuna in attesa di ricevere lo status di rifugiato.

«Nelle grandi tende che li ospitano – spiega Andrea Bianchessi di Avsi, Ong italiana che da anni lavora nel campo – le condizioni di vita non sono ottimali. Una volta che hanno ottenuto il riconoscimento di rifugiati, viene loro assegnato uno spazio all’interno del campo e vengono dati loro strumenti e materiali per costruire abitazioni più confortevoli.

Young Somali refugees sit with their families, who have volunteered to be repatriated back to Somalia from the Dadaab refugee camp in northern Kenya, prior to a visit by the Canadian Minister for Immigration, Refugees and Citizenship and the UN High Commissioner for Refugees in Dadaab on December 19, 2017. (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Nutrire Dadaab

Per il cibo, i rifugiati possono far conto su quello distribuito dal Programma alimentare mondell’diale, un’agenzia Onu. «Ricordo le lunghe code per la distribuzione delle razioni sotto il sole, in mezzo alla polvere – osserva Angelo Pittaluga, ex direttore del Jrs Kenya (Jesuit refugee service, Ong di emergenza dei gesuiti, ndr) e ora responsabile dell’advocacy del Jrs -. Sono distribuzioni mensili che, nel tempo, si sono ridotte a causa della contrazione dei fondi a disposizione delle organizzazioni internazionali. La nuova emergenza umanitaria in Europa ha drenato fondi per l’Africa e a pagarne le spese sono state le popolazioni più svantaggiate come quelle che vivono nei campi profughi».

Hussein Ibrahim Mohamed è stato tra i primi ad arrivare nel 1992. Ora, in qualità di operatore comunitario, sta aiutando i nuovi arrivati ad ambientarsi. «Queste persone si trovano in una situazione difficile – ha detto in un colloquio con i responsabili dell’Unhcr -. Hanno viaggiato molto lontano. Così ho deciso di chiedere in giro dei contributi, in denaro o in vestiti. Ho una parte del denaro donato e ho intenzione di comprare delle lenzuola di plastica per loro».

Aiuti «distratti»

A Dadaab, l’Unhcr fornisce alle famiglie assistenza in denaro, acqua potabile e strutture igieniche, oltre a servizi mirati per i più vulnerabili, come i bambini malnutriti. Le risorse sono però limitate. «Per rispondere a questa situazione stiamo utilizzando solo le scarse risorse che abbiamo per i nostri programmi regolari – ha dichiarato Martha Kow Donkor, responsabile dell’Unhcr per la protezione delle comunità -. I bisogni sono molto elevati e stiamo facendo appello ai donatori affinché forniscano maggiori finanziamenti».

Attualmente i principali donatori sono gli Stati Uniti, l’Unione europea e i paesi del Golfo Persico, che garantiscono abitualmente il 40% circa degli 80-100 milioni di dollari necessari per gestire Dadaab ogni anno.

«I contributi sono però precipitati drasticamente nell’ultimo anno, con il mondo distratto dalla guerra in Ucraina – ha detto Guy Avognon, capo delle operazioni dell’agenzia per Dadaab in un’intervista al Wall street journal -. Quest’anno, si prevede che le donazioni copriranno solo il 27% dei 102 milioni di dollari necessari».

Di fronte alla mancanza di tutto scatta, però, una gara di solidarietà. Khadija ha raccontato di essere stata accolta a braccia aperte dai rifugiati che già vivono a Dadaab, compreso un parente che le ha costruito un rifugio. «Ma non abbiamo cibo, né un riparo, né latrine», ha detto. Lo scorso anno il sovraffollamento e la mancanza di strutture igieniche nel campo hanno contribuito a un’epidemia di colera, con quasi 500 casi identificati dalla fine di ottobre, molti dei quali bambini.

Tra i minori è molto diffusa anche la malnutrizione. In una nota diffusa a gennaio, Medici senza frontiere (Msf) ha affermato che la sua struttura sanitaria a Dagahaley, un campo nel complesso profughi di Dadaab, ha curato il 33% in più di pazienti – principalmente bambini – per mancanza o scarsità di cibo nell’ultimo anno, mentre il tasso di malnutrizione nei campi è cresciuto del 45% negli ultimi sei mesi del 2022. «Abbiamo dovuto estendere il reparto per ospitare questo numero di bambini – ha dichiarato Kelly Khabala, vice coordinatore medico di Msf -. Le condizioni di vita nel campo ora non sono accettabili».

Su Dadaab grava anche lo spettro di al-Shabaab. La milizia jihadista somala affiliata ad al-Qaeda effettua continui attacchi sul lato keniano del confine, che dista circa 45 miglia dal campo, piazzando bombe lungo la strada e sparando alle stazioni di polizia. Gli operatori umanitari si muovono a Dadaab scortati dalla polizia armata di fucili militari, anche se le stesse forze di sicurezza sono spesso bersaglio di attacchi fuori dai campi.

Dadaab è anche un luogo in cui i miliziani fondamentalisti arruolano ragazzi per ingrossare le loro fila.

A Somali refugee walks along a dirt road in nothern Kenya’s Dadaab refugee camp near a rehabilitation centre for refugee women-survivors of Gender-based violence (GBV) on December 19, 2017. – The sprawling Dadaab complex 100 kilometres (60 miles) from Kenya’s border with Somalia has housed Somali refugees for around 26 years. There were about 239,500 people in Dadaab at the end of September, according to UN figures. The population peaked at around 485,000 in 2012 following a new influx after famine in Somalia. (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Istruzione, arma di riscatto

A lanciare segnali di speranza sono le Ong che lavorano all’interno del campo. Avsi e Jrs da anni ormai seguono programmi formativi a Dadaab, ma anche nel campo «gemello» di Kakuma (che si trova più a nord, verso il confine con il Sud Sudan, in condizioni non dissimili rispetto a quelle di Dadaab).

L’educazione dei più piccoli e la formazione degli insegnanti sono una scommessa sul futuro. «Lavoriamo a Dadaab dal 2009 – osserva Andrea Bianchessi -. In questi anni ci siamo occupati della scuola primaria. Abbiamo seguito almeno 30mila ragazzi e ragazze e abbiamo formato 3.500 insegnanti. L’educazione di base è fondamentale per garantire un futuro meno duro a questi giovani. È per questo motivo che abbiamo offerto questi stessi servizi formativi anche alle popolazioni keniane che vivono nei dintorni del campo, per non creare disparità tra chi vive dentro e chi vive fuori».

Un progetto complesso quello di Avsi che prevede programmi scolastici elaborati in coordinamento con le autorità keniane e somale, in modo che i ragazzi e le ragazze somale che dovessero rientrare in patria possano comunque vedere i loro studi riconosciuti. Un progetto che prevede anche la nascita di gruppi scout che impegnano i più piccoli e gli adolescenti in attività extrascolastiche ricreative. «Gli scout impegnano utilmente il tempo libero, ma non solo – continua Bianchessi -. Si pensi che, grazie alle loro attività, sono riusciti a entrare in contatto con 5mila coetanei e a convincerli a tornare a scuola. Un lavoro preziosissimo».

Il Jrs invece si è concentrato sulla scuola secondaria, soprattutto a Kakuma. «La nostra organizzazione si è presa in carico la formazione superiore – osserva Pittaluga -. Sono servizi che dovrebbero essere garantiti a tutti. Ma, anche in questo caso, i finanziamenti delle organizzazioni internazionali non sempre sono sufficienti. Per pagare gli insegnanti e il materiale didattico stiamo quindi lavorando per raccogliere fondi e coprire le necessità di base delle scuole. Un compito non sempre semplice».

Il futuro per decine di migliaia di persone che vivono nel Corno d’Africa è ancora precario.

Il Kenya settentrionale e la Somalia sono stati duramente colpiti dalla peggiore siccità che abbia interessato l’Africa orientale negli ultimi 40 anni. La regione si sta preparando alla sua sesta stagione delle piogge con scarse o nulle precipitazioni. La guerra in Somalia non sembra essere alle battute finali. Difficilmente il campo sarà smantellato. Anzi. Dadaab, nella sua drammatica precarietà, sembra tuttora essere un’ancora di salvezza per molte famiglie.

Enrico Casale




Malaria: meglio, ma non basta


Il 25 aprile è la giornata mondiale della malaria, malattia che, nei primi due mesi del 2023, ha già provocato la morte di circa 65mila persone. La pandemia da Covid-19 ha peggiorato le cose ma, anche dopo il ritorno dei servizi sanitari alla normalità, il mondo rischia di mancare l’obiettivo che si era dato per il 2030: ridurre i casi di malaria dagli attuali 60 a 6 ogni mille persone a rischio.

Secondo l’ultimo rapporto sulla malaria dell’Organizzazione mondiale della sanità, i decessi causati da questa malattia nel mondo non sono aumentati nell’ultimo anno considerato (2021): sono anzi diminuiti a circa 619mila, contro i 624mila del 2020@.

Il risultato non era scontato, perché la pandemia da Covid-19 ha determinato fra il 2020 e il 2021 l’interruzione di servizi di diagnosi, cura e prevenzione contro l’infezione, facendo tornare i decessi ai livelli del 2012, e interrompendo così un ventennio di decremento quasi ininterrotto che aveva visto il suo dato migliore nel 2018, anno in cui morirono per questa malattia poco meno di 567mila persone.

I casi di malaria, si legge ancora nel rapporto, sono continuati ad aumentare tra il 2020 e il 2021, anche se a un ritmo molto più lento rispetto al 2019-2020 e si sono attestati a circa 247 milioni nel 2021, rispetto ai 245 milioni nel 2020 e ai 232 milioni nel 2019.

Quasi la metà delle infezioni sono avvenute in soli quattro paesi: Nigeria (26,6%), Repubblica democratica del Congo (12,3%), Uganda (5,1%) e Mozambico (4,1%). Sempre quattro paesi hanno avuto poco più della metà delle morti per malaria a livello globale: ogni cento decessi, 31 sono avvenuti in Nigeria, 13 in Congo Rd, 4 in Tanzania e altrettanti in Niger.

Dei decessi globali fra i bambini di età inferiore ai 5 anni, 2 su 5 sono avvenuti in Nigeria.

A causare la malaria è un parassita trasmesso attraverso la puntura di zanzare del genere Anopheles (vedi box sul fondo). Un motivo di preoccupazione che il rapporto Oms segnala è la diffusione anche in Africa, negli ultimi dieci anni, della Anopheles stephensi, zanzara capace di adattarsi e diffondersi nei contesti urbani. Originaria dell’Asia meridionale e della penisola arabica, è in grado di trasmettere sia i parassiti P. falciparum che P. vivax e ed è resistente a molti degli insetticidi utilizzati nella prevenzione della malaria.

da www.paginemediche.it

Covid e cambiamento climatico

Secondo il rapporto dell’Oms, le interruzioni dei servizi essenziali contro la malaria durante la pandemia di Covid-19 hanno riguardato soprattutto la distribuzione delle zanzariere trattate con insetticida e il numero di diagnosi e di trattamenti della malattia.

Nel 2020, nei 46 paesi nei quali erano state pianificate campagne di distribuzione, i sistemi sanitari nazionali e i loro partner sono riusciti a distribuire solo poco più di 200 milioni di reti protettive contro i 270 milioni previsti.
In Congo Rd, Eritrea e India, la percentuale non ha raggiunto il 60%; in Kenya non ha superato il 2%, mentre Costa d’Avorio e eSwatini non hanno effettuato alcuna distribuzione.

Nel 2021, i paesi che avevano in programma tali distribuzioni erano 43 e le zanzariere da distribuire 171 milioni. Ne sono state distribuite 128 milioni, cioè solo tre quarti: otto paesi non hanno raggiunto il 60% (Benin, Eritrea, Indonesia, Nigeria, Isole Salomone, Thailandia, Uganda e Vanuatu) e sette paesi (Botswana, Repubblica Centrafricana, Ciad, Haiti, India, Pakistan e Sierra Leone) non hanno distribuito nessuna delle zanzariere previste.

Quanto alle mancate diagnosi, se nel 2018 e 2019 i test effettuati nei paesi dove la malaria è endemica erano stati rispettivamente 392 e 450 milioni, nel 2020 sono diminuiti a 398 milioni e nel 2021 si sono fermanti a 435.

Il calo registrato nel 2020, precisa il rapporto, è stato dovuto principalmente al minor numero di test effettuati nella regione africana (10,5 milioni in meno) e nella regione del sud est asiatico (38 milioni in meno, di cui 37 milioni in India).

Un altro elemento di preoccupazione, rileva il rapporto, è l’effetto potenziale del cambiamento climatico sulla diffusione della malattia. «Nonostante le incertezze su come inciderà sulla malaria, è certo che il cambiamento climatico avrà un effetto sulla distribuzione geografica e sull’intensità e stagionalità delle malattie trasportate da un vettore», come appunto le zanzare.

Lo scorso febbraio, il New York Times riportava uno studio realizzato dagli studiosi del «Centro per le scienze della salute globale e della sicurezza» dell’Università di Georgetown, negli Stati Uniti, secondo il quale «nel secolo scorso le zanzare che trasmettono la malaria nell’Africa subsahariana si sono spostate ad altitudini più elevate di circa 6,5 metri all’anno e si sono allontanate dall’Equatore di 4,7 chilometri all’anno»@.

Un ecologo dell’università della California a Los Angeles, intervistato nell’articolo, ha sottolineato l’importanza di raccogliere dati per capire esattamente come e quanto velocemente le zanzare e altri animali portatori di malattie si stiano muovendo nel mondo. Ci si aspetta che i climi più caldi siano vantaggiosi per le zanzare perché esse, così come i parassiti che trasportano si riproducono più velocemente a temperature più elevate.

© Yofre Morales – disinfestazione contro malaria

Malaria e anemia, la banca del sangue di Dianra

La malaria porta con sé diverse complicanze, che sono più gravi nei bambini e neonati, nelle donne incinte e nelle persone anziane. Fra queste c’è l’ipoglicemia, una riduzione patologica dei livelli di glucosio nel sangue, che dà sintomi come sudorazione, tremori, debolezza e, quando è grave, anche confusione, convulsioni e coma@.

C’è poi l’anemia che si manifesta perché il parassita invade i globuli rossi per riprodursi e ne provoca la distruzione. Nei casi di anemia grave, spiega il dottor Stéphane Gnanago – medico del centro di salute Joseph Allamano gestito dai Missionari della Consolata a Dianra, in Costa d’Avorio – la distruzione dei globuli rossi determina un ridotto «apporto di ossigeno agli organi e ai muscoli e può portare a insufficienza respiratoria, collasso cardiocircolatorio e arresto cardiaco». In contesti come quello di Dianra, uno dei motivi dell’aggravarsi degli effetti della malaria, come l’anemia, è la reazione tardiva da parte dei pazienti: «Le famiglie portano i bambini al centro di salute solo all’ultimo minuto», spiega il dottor Gnanago, «dopo aver tentato di curarli con rimedi tradizionali. E quando arrivano qui, i bambini sono già in condizioni gravi».

Il programma nazionale di lotta alla malaria in Costa d’Avorio, commenta padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata responsabile del centro di salute di Dianra, fornisce test e trattamenti per la malaria in modo gratuito. Ma se i pazienti aspettano troppo prima di andare al centro, le terapie di base non sono più sufficienti. Per questo, continua padre Matteo, «avere a disposizione le sacche di sangue e poter effettuare trasfusioni ci permette di salvare vite: delle 579 sacche di sangue di cui il nostro centro ha potuto disporre nel 2022, solo 9 sono state usate per le donne ricoverate in maternità mentre 570 sono andate ai pazienti del dispensario. Di queste, 556 sono state usate per curare bambini in anemia severa: un’enormità».

© AfMC / Dianrà, Costa D’Avorio

Neisu, ordinaria emergenza

Nel 2021 l’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Repubblica democratica del Congo, ha effettuato 2.778 test per la malaria, una media di oltre 7 al giorno. La malattia è risultata la prima voce fra le patologie diagnosticate sia in consultazione esterna – 2.482 casi su 4.885 pazienti, il 50,8% dei pazienti visitati – che in medicina interna: 220 pazienti ricoverati su 1.139, il 19%, dati 2021.

In pediatria, la malaria grave e la malaria grave anemica sono di gran lunga la principale causa di ricovero, con, rispettivamente, 732 casi (il 34%) e 520 (24%) su 2.155 bambini ospedalizzati. Su 30 bambini deceduti in pediatria nel 2021, per due la causa è stata la malaria grave e per 15 la malaria anemica grave. Circa tre donne su dieci fra quelle accolte in maternità avevano la malaria.

«L’ospedale», spiega il responsabile Ivo Lazzaroni, missionario laico della Consolata, «è integrato nella sanità pubblica congolese dal 2007, e aderisce ai programmi di prevenzione del sistema sanitario nazionale.

Ogni mese, i 12 infermieri titolari degli altrettanti centri di salute sul territorio vanno a Isiro, capoluogo della provincia dell’Alto Uélé, consegnano i dati sulla malaria e sulle altre patologie monitorate ai funzionari della zona di salute (zone de santé, in francese, articolazione territoriale del Ssn congolese, ndr) e ricevono zanzariere e farmaci (ad esempio il Coartem, a base di artemisina) da portare a Neisu per l’ospedale e i centri».

Le zanzariere sono destinate alle donne incinte, che le ricevono nel corso delle formazioni loro offerte durante le consultazioni prenatali, in cui le ostetriche spiegano alle donne che questi oggetti «non devono venire regalati ai bambini per farci le reti delle porte di calcio», scherza Ivo, «ma sono fondamentali per la loro salute».

E queste formazioni purtroppo non bastano: «Anche noi – spiega Ivo – siamo alle prese, come Matteo, con famiglie che vengono molto tardi a portare i bambini in anemia severa. Purtroppo non abbiamo l’autorizzazione dalla zone de santé a fare le trasfusioni direttamente nei centri e posti periferici, quindi le donne devono portare il bambino all’ospedale. Ma le distanze sono grandi: il nostro centre de santé più lontano è a oltre 60 chilometri dall’ospedale e non è facile per queste madri trovare un passaggio in moto per venire di corsa. Per questo accade a volte che il bambino muoia nel tragitto o poco dopo l’arrivo in ospedale».

Ikonda, restare comunque in guardia

«Qui nella regione di Njombe la malaria non è endemica», spiega padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, in Tanzania. «I pochi pazienti che abbiamo affetti da questa malattia vengono dalle zone calde, soprattutto da Mbeya e Morogoro. L’anno scorso abbiamo fatto il test a 4.660 pazienti e solo 134 sono risultati positivi», meno del 3%. «Ora che ci troviamo nella stagione delle piogge», continua padre Marco, «solo il mese scorso abbiamo avuto 14 casi: è una malattia molto legata a fattori climatici».

Non essendo Njombe una regione endemica, spesso il problema viene sottovalutato: «Si pensa prima ad altre malattie, poi, se la febbre non passa, si considera anche l’ipotesi di malaria. A volte invece non ci si fida dei test e, in presenza di sintomi compatibili vengono somministrate le terapie. Di recente abbiamo avuto un paziente con una patologia polmonare proveniente da questa regione. All’inizio non si è pensato alla malaria, poi invece è risultato positivo. Ora è guarito».

© AfMC – prelievo di sangue per test malaria al Catrimani, Roraima, Brasile

Aumento dei casi in Amazzonia

La malaria è fra le malattie protagoniste anche del peggioramento delle condizioni di vita del popolo indigeno yanomami, che vive nell’Amazzonia brasiliana e con il quale i Missionari della Consolata lavorano da metà degli anni Sessanta. Durante un’intervista con un’emittente televisiva brasiliana@ padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata che lavora nella missione di Catrimani, nella Terra indigena yanomami da quindici anni, ha ricordato che «nel 2022 si sono registrati 21mila casi di malaria fra gli indigeni yanomami, e l’anno prima erano circa 20mila. Ma nel 2013-2014 i casi erano duemila: sono decuplicati. E alla malaria vanno aggiunte le malattie respiratorie e gastrointestinali».

Fattori responsabili di questa emergenza sanitaria, così definita lo scorso 20 gennaio dal nuovo governo basiliano guidato da
Inacio Lula da Silva, sono l’invasione delle terre indigene da parte dei cercatori d’oro e la corruzione, che ha distratto le risorse finanziarie destinate ai servizi sanitari per le terre indigene: entrambi fenomeni favoriti dal disinteresse e dall’aperta ostilità del governo di Jair Bolsonaro nei confronti delle comunità originarie dell’Amazzonia brasiliana.

Chiara Giovetti

© AfMC / Trasfusioni di sangue a bambini affetti da conseguenze della malaria


Che cos’è la malaria e come la affrontiamo

La malaria è una malattia umana febbrile acuta causata dal parassita Plasmodium che viene trasmesso attraverso le punture delle zanzare femmine infette del genere Anopheles. Due delle cinque specie di plasmodi responsabili della malaria sono particolarmente pericolose: Plasmodium falciparum, il parassita che causa più morti e anche il più diffuso nel continente africano, e Plasmodium vivax, la specie dominante nella maggior parte dei paesi al di fuori dell’Africa subsahariana.

I primi sintomi – febbre, mal di testa e brividi – di solito compaiono da 10 a 15 giorni dopo la puntura infetta; possono essere lievi e per questo difficili da riconoscere. Senza trattamento, la malaria da P. falciparum può progredire in malattia grave o perfino causare la morte entro 24 ore.

La diagnosi avviene con l’individuazione al microscopio dei parassiti nel sangue del paziente (la cosiddetta goccia spessa) oppure, ove il microscopio non sia disponibile, attraverso test antigenici rapidi, che individuano appunto un antigene, cioè una sostanza estranea al nostro organismo – in questo caso una specifica proteina – prodotta dal parassita nel nostro sangue.

La prevenzione avviene attraverso la profilassi comportamentale, che mira a evitare il contatto con la zanzara vettore del parassita e che si basa sull’utilizzo di zanzariere trattate con insetticida e di insetticidi da spruzzare negli ambienti. C’è poi la profilassi con farmaci antimalarici, che prevede l’assunzione di un ciclo completo di questi farmaci nei momenti di maggiore esposizione al rischio di contrarre la malattia, che si sia o meno già infetti.

Infine, dall’ottobre 2021, l’Oms ha anche raccomandato l’uso del vaccino contro la malaria Rts, S/AS01 per i bambini nelle aree con trasmissione da moderata ad alta della malaria da P. falciparum. La prima parte della sperimentazione di fase 3 (2009-2014) del vaccino ha mostrato una diminuzione di oltre la metà dei casi di malaria nel primo anno dopo la vaccinazione e una riduzione del 40% nei 4 anni successivi. Nella seconda parte della sperimentazione di fase 3 (2017-2020) i partecipanti hanno ricevuto il vaccino appena prima del picco della stagione della malaria: la sua efficacia nel prevenire la malattia è stata intorno al 75%.

Il miglior trattamento disponibile indicato dall’Oms, in particolare per la malaria da P. falciparum, è la terapia combinata a base di artemisinina (Act). Altri principi attivi usati sono la clorochina, la meflochina e numerosi altri di cui l’Oms tiene una lista aggiornata nella quale indica anche quali sono consigliati nelle diverse regioni del mondo.

I motivi di preoccupazione relativi alla malaria – resistenze delle zanzare agli insetticidi e del parassita ai principi attivi nelle terapie, mutazioni genetiche nel parassita che inficiano l’affidabilità dei test e la diffusione delle zanzare Anopheles in zone in cui non erano presenti – sono monitorati dall’Oms e consultabili nella «mappa delle minacce»@.

Chi.Gio.

Fonte: Oms

 

 




Per una salute che arriva al cuore


Le foreste del Nord Ovest del Congo sembrano l’ultimo posto al mondo dove ci sia bisogno di un centro di cardiologia. Eppure, povertà, violenze, guerre, cibo inadeguato, assenza di cure e uso di bevande acoliche tradizionali creano una situazione sanitaria che ha bisogno di risposte urgenti.

L’«Hôpital notre Dame de la Consolata» a Neisu, è un ospedale rurale situato nell’aerea della chefferie Ndey, territorio di Rungu, provincia dell’Haut-Uélé nella diocesi d’Isiro-Niangara in Rd Congo. Neisu (che nelle mappe si trova ancora con l’antico nome coloniale di Egbita) è a 33 km da Isiro, il capoluogo della provincia Nord orientale.

L’area è caratterizzata da un clima tipicamente tropicale con due stagioni: stagione delle piogge e stagione secca.
La popolazione di Neisu e dintorni appartiene principalmente all’etnia mangbetu e ai Bayogo, un gruppo minoritario di Pigmei. Vive principalmente di agricoltura (arachidi, mais, banane, riso) e allevamento di bestiame (capre, suini, pecore, pollame). L’insieme della popolazione è stimata a più di 80mila abitanti.

Nella parte settentrionale della provincia si trovano miniere di diamanti – perlopiù sfruttate artigianalmente – nelle quali lavorano prevalentemente giovani fra i quali, di conseguenza, è elevata l’incidenza di malattie polmonari e, a causa dell’inevitabile promiscuità, di malattie a trasmissione sessuale, incluso l’Aids.

Le sole vie d’accesso sono le strade, ma in uno stato di completa rovina. Ai tempi coloniali esisteva anche una ferrovia a scartamento ridotto, ora totalmente fuori uso.

Ospedale di Neisu

Nasce l’ospedale

L’ospedale inizia la propria attività a fine 1982 in un capannone vicino al luogo dove si sta costruendo la nuova chiesa con l’arrivo di padre Oscar Goapper, missionario della Consolata argentino che, prima della sua partenza, ha fatto un corso base da infermiere. Padre Oscar, che intanto studia con l’aiuto di un medico locale per migliorare le sue conoscenze sanitarie, fonda un primo dispensario per rispondere al grave abbandono sanitario di tutta la zona. Presto questo diventa «l’Ospedale Nostra Signora della Consolata».

Nel 1986 padre Oscar si iscrive all’università di medicina a Milano continuando a lavorare a Neisu, e riesce, nel 1994, a laurearsi in medicina a pieni voti. L’ospedale fiorisce, ma nel 1998, in piena guerra civile, tutti devono scappare in foresta per salvarsi. Ritornati all’ospedale all’inizio del 1999, riprendono in pieno il servizio per rispondere a una situazione disastrosa.

Contagiato da un’infezione di un paziente che stava curando, padre Oscar muore improvvisamente il 18 maggio 1999. Ma l’ospedale, così necessario in quella zona fuori del mondo, continua la sua attività. La sua fama si estende progressivamente, cosicché i pazienti vengono dalla città di Isiro e da altri centri della provincia per essere curati. Alcuni, attirati dalle infrastrutture e anche dalle possibilità di scolarizzazione per i figli, decidono di stabilirsi a Neisu dopo la propria guarigione.

Ospedale di Neisu – Dipinto con padre Oscar e suor Irene

Alcuni dati

L’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu ha una capacità d’accoglienza di 190 posti letto, più venticinque letti nella nuova maternità.

Impiega cinque medici, cinquanta fra infermieri e tecnici di laboratorio e radiologia, ed altri quaranta impiegati (servizio amministrativo, addetti alla lavanderia, alle cucine, alla manutenzione alle riparazioni tecniche ecc.).

I servizi offerti dall’ospedale comprendono: ambulatorio, farmacia ospedaliera, laboratorio analisi, radiologia, centro nutrizionale (Centre Bolingo), servizio di medicina preventiva di comunità, unità operative di medicina, chirurgia, pediatria, ginecologia, ostetricia e un nuovo reparto di cardiologia. Inoltre, garantisce terapie e cure preventive (salute materna e infantile, educazione sanitaria, salute comunitaria), oltre a cure per la malaria che diventa epidemica in alcuni periodi dell’anno.

Il bacino di utenza dell’ospedale è di 70mila persone, ma numerosi sono gli afflussi dalle zone confinanti.

Presenza sul territorio

L’ospedale assicura, inoltre, la supervisione del settore Ovest dell’area sanitaria di Isiro, nella collettività di Ndey, Mongomasi e Medje-Mango, circa 1.800 km2, per una popolazione di circa 60mila abitanti, con una rete di sei dispensari e sei postazioni sanitarie che coprono dieci aree diverse. Questi dispensari si trovano in piena foresta e sono un punto di riferimento e consolazione per la molta popolazione che vive lontana da Neisu. Vista l’impraticabilità delle strade, raggiungere questi posti diventa sempre più impegnativo per l’ospedale, e anche costoso per il mantenimento dei vari equipaggi, delle attrezzature necessarie, le medicine e il carburante.

L’ospedale non riceve energia elettrica da fuori e per il funzionamento delle attrezzature mediche viene utilizzato sia il generatore centrale, alimentato a gasolio, sia l’energia fotovoltaica autoprodotta. Segue le politiche e i programmi sanitari del paese, ma non riceve finanziamenti pubblici dal governo e quindi è interamente supportato, a livello economico, dai Missionari della Consolata, con l’aiuto di amici e benefattori. Le entrate dell’ospedale decisamente non bastano a coprire le spese per le medicine (acquistate in Uganda), per gli stipendi e gli alimenti per il centro nutrizionale e la manutenzione.

Ospedale di Neisu

Come vive la gente

La vita nel villaggio, qui a Neisu, in piena foresta, è molto diversa dalla vita nella cittadina d’Isiro. La gente è più povera, vive sulla soglia della sopravvivenza, fa tanta fatica a pagarsi alimenti, medicine, vestiti, e ancor di più a provvedere libri, quaderni e divise scolastiche per i bimbi. Spesso pagano le fatture e le medicine dell’ospedale, anziché in denaro, con prodotti agricoli locali: riso, fagioli, mais. Tutto questo serve poi per il centro nutrizionale e per i poveri che visitiamo ogni giorno. In molti casi, e sono troppi, vista la miseria di certe situazioni, concediamo dei crediti. Di fronte a situazioni d’urgenza, l’unica via possibile è dare un credito per poter salvare una vita. Questi crediti difficilmente si recuperano, ma in certe contingenze è sempre meglio «perdere» (denaro) che lasciare una vita abbandonata alla sua triste sorte.

Altri, non avendo la possibilità di pagarsi tutta la fattura dell’ospedale, lasciano in pegno qualche oggetto, casseruole, piccoli vestiti o una vecchia moto quasi inutilizzabile. Ogni anno, il nostro ospedale si riempie soprattutto di bambini, i più vulnerabili, ma anche di adulti e anziani, colpiti da malaria.

Molti arrivano dai villaggi vicini, ma anche da quelli distanti una sessantina di km. In troppi casi, i pazienti arrivano in situazioni d’emergenza, soprattutto i più piccoli, con anemia severa, per la quale serve subito una trasfusione. Purtroppo, anche in questi casi, molti non hanno i soldi per pagare il sacchetto di sangue, che resta così a carico dell’ospedale.

Il rapporto annuale 2021 documenta che abbiamo curato circa 2.500 persone colpite da malaria e fatto 1.260 trasfusioni.

Ospedale di Neisu

Cardiologia, perché

I malati di cardiopatia e d’ipertensione, in questi ultimi anni sono in continuo aumento e costituiscono una grande sfida a livello sanitario, vista la mancanza di ospedali e medici specializzati in cardiologia, anche nella più vicina città di Isiro.

Le cause principali delle malattie cardiache sono le seguenti:

  • Stress. Il livello socioeconomico basso e l’instabilità politica non permettono alla popolazione di assicurarsi una stabilità di vita, e sono diffuse la precarietà e l’incertezza.
  • La famiglia allargata. Essa domanda che ognuno si prenda cura di tutti i suoi componenti, per cui molti, già in giovane età, devono impegnarsi a cercare i mezzi per un futuro migliore.
  • Le abitudini alimentari. Povere in proteine e troppo ricche di grassi e sale. In primo luogo l’eccessiva consumazione di olio di palma, ricco di colesterolo.
  • L’eccessivo e sregolato consumo di bevande alcoliche di preparazione locale. Il metodo di produzione delle stesse non rispetta minimamente i principi della giusta distillazione, per cui è impossibile quantificare i gradi acolici presenti in esse, che sono spesso molto elevati.
  • Il consumo della noce di cola, che è un forte eccitante.

Queste sono alcune tra le cause più comuni, e sempre in aumento già in giovane età. Abbiamo ricoverato studenti tra i 13 e i 20 anni con problemi cardiologici. Purtroppo molti non sopravvivono.

Ospedale di Neisu

Il nuovo reparto

Grazie alla donazione di una famiglia torinese, nel maggio scorso, abbiamo terminato di costruire un padiglione per la cardiologia, composto da una stanza con una decina di posti letto per uomini, un’altra simile per sole donne, con servizi igienici esterni, lo studio medico e due stanze private con servizi igienici e doccia in camera. Tutto con una cinta di protezione.

Vista la mancanza di cardiologi e medici specialisti in generale, nello scorso mese di aprile abbiamo inviato a Kinshasa, la capitale del paese, per una formazione in cardiologia, una nostra dottoressa e due infermiere, che ad oggi sono ancora in formazione.

Questa è la situazione.

  • Nel 2020 abbiamo trattato 168 pazienti con problemi cardiaci e 108 con ipertensione.
  • Abbiamo ricoverato in medicina interna 64 pazienti con problemi cardiaci e 46 per ipertensione.
  • In terapia intensiva: 14 pazienti con cardiopatie e 13 ipertensione. In questo servizio, sui 72 decessi, 12 sono avvenuti per problemi cardiaci.
  • In medicina interna, su 1.234 ricoverati, 110 sono pazienti con problemi cardiaci e ipertensione. Il 30% dei decessi in medicina interna sono legati a cardiopatie.

Ospedale di Neisu

Ospedale di Neisu

Richiesta d’aiuto

Ora abbiamo bisogno di equipaggiare questa cardiologia.
Finora siamo riusciti a comperare un elettrocardiografo e un ecodoppler. Avremmo bisogno di un monitor, un concentratore d’ossigeno, un holter pressorio ed un piccolo gruppo elettrogeno che ci servirà per far funzionare tutte le apparecchiature mediche necessarie per le varie diagnosi di cardiologia. Più eventuali condensatori di ossigeno per quando il grosso gruppo elettrogeno dell’ospedale è spento. Visti i costi elevati del carburante per far funzionare il generatore centrale dell’ospedale, questo piccolo generatore è indispensabile soprattutto nel pomeriggio o nelle urgenze notturne.

Per il funzionamento saranno necessari 1.500 litri di carburante all’anno. Ci sarebbe utile anche un altro monitor per il reparto di terapia intensiva, visto che ne siamo tutt’ora sprovvisti. Tutte queste apparecchiature e il carburante (il cui prezzo è ormai imprevedibile anche qui da noi) saranno acquistate a Kampala (Uganda).

Come missionari siamo chiamati a essere portatori di speranza, quella speranza che è la tenera ala che sostiene la nostra fede, speranza che ci fa credere nei sogni di altre persone, sogni che non possono spezzarsi in giovane età.

Ivo Lazzaroni
amministratore dell’ospedale


Amici Missioni Consolata

Progetto cardiologia

Sosteniamo gli Amici Missioni Consolata che si impegnano a raccogliere i circa 15mila euro necessari all’acquisto dei macchinari per il reparto di cardiologia di Neisu.

Donazioni attraverso la  Fondazione MCO specificando: «Cardiologia Neisu».

Grazie.

 




Quel barattolo di latte in polvere

Il latte materno è migliore del latte in polvere. Eppure, soltanto il 44 per cento dei neonati è allattato al seno. Le colpe delle multinazionali e il ruolo delle nuove forme di pubblicità.

Nel febbraio 2022, la Food and drug administration (Fda), l’agenzia statunitense addetta alla vigilanza sanitaria, sospende la produzione di latte in polvere in uno stabilimento del Michigan appartenente alla multinazionale farmaceutica Abbott. La decisione è presa a seguito della morte per infezione batterica, negli Stati Uniti, di quattro neonati nutriti con latte artificiale proveniente dallo stabilimento posto sotto sequestro. Nel corso dell’indagine, durata alcune settimane, emergono numerose criticità, compresa la contaminazione dei macchinari con batteri pericolosi. In seguito, lo stabilimento viene riportato a norma, ma ci vogliono mesi prima che possa riprendere la produzione. Un periodo durante il quale il latte in polvere scarseggia, mandando in apprensione moltissime mamme che hanno deciso di nutrire i propri piccoli con latte artificiale piuttosto che al seno.

Latte in polvere. Foto silverson.com.

I pericoli del biberon

Eppure, le autorità sanitarie e pediatriche di tutto il mondo sostengono che il latte materno è il miglior alimento per i neonati. Avviato entro le prime ore di vita e continuato fino ai due anni di età, prima come alimento esclusivo, poi come alimento aggiuntivo, l’allattamento materno costituisce una potente linea di difesa contro tutte le forme di malnutrizione infantile compresa l’obesità. Inoltre, protegge i piccoli contro le infezioni più comuni mentre riduce nelle madri il rischio di diabete, obesità e certe forme tumorali. Per non parlare degli effetti benefici di tipo psichico e affettivo che l’allattamento al seno produce nei piccoli per lo stretto contatto con la madre. Ciò nonostante, nel mondo solo il 44% dei bambini sotto i sei mesi è allattato al seno. Lo sostiene l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Il grande concorrente è il biberon che però non si impone spontaneamente, ma come conseguenza di una potente macchina di persuasione occulta, che una recente indagine dell’Oms ha messo sotto la lente. Una pressione inaccettabile perché nelle famiglie più povere del Sud del mondo, l’allattamento artificiale espone i bambini addirittura al rischio di morte. Ogni anno muoiono 520mila bambini per complicanze dovute al biberon. Per assurdo la prima causa di morte è la denutrizione che si instaura quando le esigenze nutrizionali del bambino richiedono quantità di latte fuori dalla portata economica delle famiglie. E subito dopo vengono le complicanze igieniche per l’impossibilità di bollire i biberon e conservarli al riparo da contaminazioni. Mamme con pochi soldi, poche comodità, poche conoscenze igieniche, somministrano ai propri bambini latte eccessivamente diluito, in biberon a malapena sciacquati, con tettarelle esposte all’aria su cui si posano nugoli di mosche. L’inevitabile conseguenza sono infezioni intestinali che si rivelano mortali, non per la particolare gravità dei germi, ma per la perdita di acqua, sali e zuccheri dovuti alla diarrea. E molti dei bambini che sopravvivono mantengono per tutta la vita deficit cognitivi dovuti alla denutrizione infantile. Alcuni studiosi, amanti dei termini monetari, hanno stimato che le perdite cognitive dei bambini sottonutriti a causa dell’allattamento artificiale provocano alla comunità una perdita pari a 285 miliardi di dollari, lo 0,3% del Pil mondiale.

Nestlé e gli altri

Il latte in polvere della Abbott, multinazionale Usa.

La prima denuncia sulle conseguenze catastrofiche del biberon fra i bambini delle famiglie più povere fu fatta nel 1973 da parte della rivista britannica New Internationalist. All’inizio la reazione dell’opinione pubblica fu di sconcerto. Ma quando si scoprì che l’allattamento al biberon era indotto da una pubblicità ingannevole e da una macchina promozionale che, al momento di lasciare l’ospedale, regalava campioni di latte alle mamme, scoppiò l’indignazione che sfociò in campagne di boicottaggio verso le imprese più coinvolte. Famosa quella verso Nestlé che si protrasse per qualche lustro. Vista la gravità della situazione, nel 1981 l’Oms decise di intervenire, approvando un Codice di comportamento da fare rispettare alle ditte produttrici di latte in polvere. Il codice composto da una decina di punti è riassumibile in due concetti essenziali: «no» alla distribuzione di campioni gratuiti e «no» a qualsiasi tipo di comunicazione scritta, vocale o visiva che possa indurre le mamme a preferire l’allattamento artificiale a quello materno. Ma, nel corso degli anni, l’Ibfan (International baby food action network) e altre associazioni a difesa dell’allattamento materno, hanno denunciato numerose violazioni in tutto il mondo. Violazioni che, con l’avvento dell’era digitale, si sono fatte al tempo stesso più subdole e aggressive perché le donne sono raggiunte da messaggi pubblicitari non riconoscibili come tali. Ed è proprio per capire in quale misura le imprese del latte in polvere stiano utilizzando le tecnologie digitali e con quali effetti, che l’Oms ha condotto una ricerca in Bangladesh, Cina, Messico, Marocco, Nigeria, Sudafrica, Gran Bretagna, Vietnam, su un campione di 8.500 donne e 300 operatori sanitari.

Allattamento

Allattamento al seno. Foto Grisguerra – Pixabay.

Nel maggio 2022 sono stati pubblicati i risultati della ricerca e il primo dato emerso è che, in tutte le nazioni prese in esame, le donne nutrono una forte attrazione per l’allattamento materno, dal 49% in Marocco al 98% in Bangladesh. Nel contempo, però, hanno scarsa fiducia nella loro capacità di nutrire adeguatamente i propri piccoli per i dubbi insinuati dalla valanga di messaggi che circolano in rete: quasi tutti a favore dell’allattamento artificiale. Messaggi che consolidano credenze assurde come la necessità di somministrare latte in polvere nei primi giorni di vita, l’incapacità del latte materno di rispondere a tutti i bisogni nutrizionali dei neonati in crescita, la superiorità del latte in polvere integrato di tutti gli ingredienti che servono per una crescita equilibrata dei piccoli. Il rapporto conferma anche che la via digitale è il canale privilegiato utilizzato dalle industrie del latte in polvere come mezzo di persuasione. In alcuni paesi, oltre l’80% delle donne intervistate ha confermato di essere stata raggiunta dalla pubblicità sui sostituti del latte materno attraverso canali online. Del resto il 97% della popolazione terrestre gode di una qualche forma di connessione tramite telefonia mobile. Globalmente più di 3,6 miliardi di persone (all’incirca l’87% di chi naviga in internet) usa social media, una cifra destinata a salire a 4,4 miliardi per il 2025.

Spiate e sedotte

Le piattaforme digitali stanno diventando i canali pubblicitari più importanti. Nel 2019 più del 50% della spesa pubblicitaria globale si è diretta verso i canali digitali. Per il 2024 si prevede che la quota salirà al 68%, per un valore di 645 miliardi di dollari.

Le piattaforme digitali consentono alle aziende di diffondere i loro messaggi tramite più canali contemporaneamente: email, social media, siti specializzati in filmati, motori di ricerca, app. Per di più permettono agli inserzionisti di individuare con estrema precisione i loro possibili clienti. Ad esempio, quando le donne chattano via facebook con le loro amiche o parenti, possono essere spiate da algoritmi che, dal tenore delle conversazioni, possono stabilire se si tratta di donne incinte, magari per le informazioni fornite sulla propria salute, o per la richiesta di vestiario e altri oggetti necessari per l’arrivo di un nuovo bambino. Nel qual caso i dati sono immediatamente passati all’impresa di prodotti per l’infanzia che ha commissionato il servizio, affinché possa intraprendere l’attività di seduzione personalizzata via facebook, o altro canale comunicativo. Di solito l’approccio è soft e può basarsi sull’invio di messaggi affabulatori del tipo: «Vogliamo costruire una relazione con te in quanto madre, vogliamo sostenerti, vogliamo che tu ci veda come tuoi alleati, come degli amici che ti sostengono affinché tu possa avere una gravidanza felice e un parto sicuro». Poi può giungere l’invito a fare parte di un gruppo d’incontro, una sorta di club per mamme che si danno appuntamento per scambiarsi informazioni, consigli, sostegno. Così almeno viene presentata l’iniziativa. In realtà, si tratta di ciò che gli esperti chiamano «community marketing»: l’aggregazione di persone affini, per condizione ed esigenze di consumo, che, mentre interagiscono fra loro, sono bombardate da continui messaggi promozionali. Per di più, mentre chattano, ciascuna di esse è analizzata in dettaglio in modo da farne un bersaglio di proposte commerciali personalizzate.

Gli «influencer»

Altre volte la strategia commerciale è fondata sugli influencer, persone di spicco del mondo dello spettacolo, dello sport, della moda, della scienza, in contatto con migliaia, addirittura milioni di follower. Le imprese li ingaggiano affinché postino ai loro follower messaggi comprendenti riferimenti ai marchi che intendono reclamizzare. E poiché l’influencer invita i propri seguaci a rispedire essi stessi i messaggi ai propri conoscenti, si può ottenere una copertura pubblicitaria di milioni di persone. L’Oms ha appurato che le multinazionali del latte in polvere fanno largo uso degli influencer in particolare in Cina, Malaysia, Stati Uniti, Francia, Russia. E, dopo avere esaminato numerosi messaggi, è emerso che il marchio di latte in polvere che compare più frequentemente è quello di Danone (32%) seguito da Mead Johnson (15%) e
Abbott (6%).

Il rapporto ha appurato che un’altra formula molto utilizzata è quella che va sotto il nome di «promozione tra utenti», un metodo che prevede la partecipazione attiva del pubblico. In pratica, l’impresa promotrice chiede a chiunque accetti di far parte della sua rete promozionale di inventarsi messaggi pubblicitari che poi l’interessato invierà al proprio ventaglio di conoscenti. Il tutto stimolato da premi estratti a sorte fra i partecipanti. Il rapporto dell’Oms cita l’iniziativa di una multinazionale di prodotti per l’infanzia che ha indetto l’estrazione di smartphone di lusso fra tutti coloro che avessero accettato di inviare la foto dei propri bambini associate ai marchi da reclamizzare. E, allettandoli con la promessa di sconti, i partecipanti sono anche stati invitati a iscriversi a dei marketing club per l’approvvigionamento online di prodotti per l’infanzia. L’iniziativa è stata lanciata da diciassette influencer che hanno anche sollecitato i partecipanti a utilizzare hashtag affinché l’azienda promotrice potesse seguire più agevolmente l’andamento della campagna e, quindi, censire la presenza di nuovi utenti da ricontattare.

In conclusione, il rapporto dell’Oms dimostra che le multinazionali del latte in polvere ricorrono in maniera massiccia alla pubblicità online per fare crescere un settore che già vale 55 miliardi di dollari. È proprio arrivato il tempo di fare applicare regole minime affinché la vita non sia più sottomessa al profitto. Almeno nei primi mesi dell’esistenza.

Francesco Gesualdi

Gemelli (foto Gigi Anataloni)




L’invasione dei superbatteri


I microrganismi patogeni si evolvono (anche a causa dei nostri comportamenti) e resistono ai farmaci. Presto potrebbero causare più decessi del cancro. Già oggi alcuni superpatogeni fanno paura.

Da un secolo a questa parte, la medicina e la farmacologia hanno fatto continui progressi che hanno permesso di curare patologie dall’esito infausto fino ai primi quarant’anni del Novecento.

È del 1928 la scoperta da parte di Alexander Fleming della penicillina, una molecola prodotta da un fungo e capace di aggredire la parete cellulare dei batteri, provocandone la morte. I microrganismi (batteri, virus, funghi, protozoi, eccetera) sono spesso in competizione tra loro e una delle strategie più collaudate è proprio quella di produrre sostanze antibiotiche (a cui i produttori sono immuni) per sterminare gli avversari. In questa «guerra molecolare», in cui l’uomo è l’ultimo arrivato, antibiotici e fenomeni di resistenza sono le due facce di una stessa medaglia. Questo è il motivo per cui i microrganismi patogeni trovano spesso una strada per non soccombere sviluppando resistenza ai farmaci in uso (antimicrobico-resistenza o farmaco-resistenza). Oggi, uno dei principali problemi di salute pubblica è quello della nascita di superpatogeni, capaci di resistere a pressoché ogni forma di difesa di cui l’uomo dispone.

Batteri e resistenza: un problema serio

Solo nel nostro paese ogni anno muoiono circa 10mila persone a causa dell’antimicrobico-resistenza. L’Italia, con la Grecia e la Romania, è uno dei paesi europei con i maggiori tassi di antimicrobico-resistenza. In particolare, negli ospedali italiani i ceppi del batterio Klebsiella pneumoniae (Kpc) resistenti ai carbapenemi (classe di antibiotici ad ampio spettro, con struttura molecolare simile a quella delle cefalosporine e delle penicilline) sono già intorno al 50%, mentre quelli di Acinetobacter resistenti sono circa l’80-90%. E queste sono solo due delle specie di batteri che stanno creando seri problemi ai pazienti ospedalieri. Si stima che in Europa siano già circa 33mila i decessi annuali legati all’antimicrobico-resistenza con un impatto di circa un miliardo e mezzo di euro a livello economico sia per le spese sanitarie, sia per la perdita di produttività. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), se la tendenza attuale non verrà modificata, nel 2050 l’antimicrobico-resistenza sarà responsabile di circa 2,4 milioni di decessi all’anno solo nei 38 paesi dell’area Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) con un impatto economico da 3,5 miliardi di dollari annui. Secondo uno studio commissionato dal governo britannico, a livello mondiale i decessi annui legati a questo fenomeno potrebbero raggiungere i 10 milioni nel 2050 (superando gli 8 milioni di morti previsti per il cancro), con una riduzione del Prodotto interno lordo (Pil) stimabile nel 2-3%, che potrebbe tradursi in una perdita fino a 100mila miliardi di dollari a livello mondiale da qui al 2050. Oltre all’impatto sui singoli sistemi sanitari, infatti, un aumento delle resistenze ai farmaci avrebbe ripercussioni sulla forza lavoro in termini di mortalità e di morbosità e quindi sull’intera produzione economica. Di fatto, si sta diffondendo un panico silenzioso negli ospedali, ma per la maggior parte delle persone, dei gruppi politici e di quelli d’affari sembra essere un problema molto lontano. Del resto, governi e istituzioni di tutto il mondo, dopo aver ripetutamente ridotto i fondi a disposizione della ricerca, sono piuttosto riluttanti a rendere pubbliche epidemie di infezioni resistenti ai farmaci.

Batterio di Escherichia coli al microscopio elettronico. Foto WikiImages – Pixabay.

Pericoli e ricerca

L’Oms ha stilato una lista dei principali batteri che presentano antibiotico-resistenza, classificandoli in base alla loro pericolosità e alla loro resistenza, in modo da promuovere la ricerca e lo sviluppo di nuovi antibiotici. L’accento è posto in particolare sui batteri Gram-negativi resistenti a molteplici antibiotici. Questa lista è suddivisa in tre categorie, a seconda dell’urgenza di nuovi antibiotici: priorità fondamentale, elevata e media. I batteri appartenenti al primo gruppo sono quelli resistenti a più farmaci, rappresentando una particolare minaccia in ospedali, case di cura e tra i pazienti che necessitano di ventilatori e di cateteri. Tra questi ci sono Acinetobacter, Pseudomonas e vari componenti della famiglia delle Enterobacteriacee (tra cui Klebsiella, Escherichia coli, Serratia, Proteus). Essi possono causare gravi infezioni, spesso mortali, come setticemie e polmoniti e sono diventati resistenti a un gran numero di antibiotici compresi i carbapenemi e le cefalosporine di terza generazione, tra i migliori antibiotici attualmente a disposizione. La seconda e la terza categoria della lista comprendono altri batteri sempre più resistenti ai farmaci e capaci di causare malattie più comuni come gonorrea e salmonellosi.

La Candida auris, il fungo killer

Un altro superpatogeno, che desta sempre più preoccupazione come emergenza di salute pubblica, non è un batterio bensì un fungo, la Candida auris. Si tratta del cosiddetto fungo killer, che è molto resistente ai farmaci ed è capace di uccidere la metà dei soggetti colpiti in tre mesi. La sua diffusione, cominciata in sordina, ha raggiunto ogni zona del globo. Fu identificato per la prima volta nel 2009 nell’orecchio di una donna giapponese di circa 70 anni e da allora è stato rinvenuto in tutto il mondo, nelle Americhe, in Asia, in Africa, in Australia e in Europa, dove sono stati identificati 52 casi al Royal Brompton Hospital di Londra nel 2015 e 85 casi al Politecnic La Fe di Valencia nel 2016. Si rivela molto pericoloso per chi ha il sistema immunitario immaturo o compromesso come i neonati o gli anziani, i fumatori, i diabetici e le persone con patologie autoimmuni costrette ad assumere farmaci steroidei, che funzionano come immunosoppressori. I ricercatori che hanno studiato la Candida auris ritengono che essa sia comparsa in contemporanea e in modo indipendente negli stati di tre diversi continenti, in particolare in India, in Sudafrica e in Sud America e questo fatto singolare non può essere imputabile solo all’abuso di antibiotici e di antimicotici, quindi alla farmaco-resistenza.

Il riscaldamento globale

Un recente studio suggerisce che i cambiamenti climatici possano avere favorito la diffusione del fungo killer e la sua capacità di infettare gli esseri umani. Confrontando il comportamento di Candida auris con quello di altre specie micotiche strettamente imparentate dal punto di vista genetico, i ricercatori si sono resi conto che il fungo killer sa adattarsi molto bene all’aumento della temperatura e sarebbe perciò predisposto a infettare l’essere umano, a differenza della maggior parte dei funghi, che sono incapaci di sopravvivere alla nostra temperatura corporea e vengono quindi facilmente eliminati dai nostri meccanismi di difesa. Secondo uno degli autori di questo studio, Alberto Casadevall (John Hopkins Bloomberg School of public health) «il riscaldamento globale porterà alla selezione di lignaggi fungini, che sono più tolleranti alle alte temperature e che dunque possono violare la zona di restrizione termica dei mammiferi». Si tratta di un’ipotesi ancora da verificare, ma senz’altro suggestiva e meritevole di ulteriori approfondimenti. Sicuramente sono necessari migliori sistemi di sorveglianza per segnalare rapidamente nuove infezioni fungine come quella di Candida auris.

I batteri e i loro geni

Cosa causa l’antibiotico resistenza? Alla base di questo fenomeno vi è una serie di cause. Sicuramente la resistenza ai trattamenti è un fenomeno naturale presente in tutti gli organismi. I batteri, rispetto ad altri patogeni, hanno una marcia in più rappresentata dalla capacità di trasferimento genico orizzontale, che li caratterizza, cioè la capacità di trasmettere materiale genetico ai loro simili senza passare attraverso la riproduzione. Spesso nel materiale trasferito si trovano geni che conferiscono la resistenza a qualche farmaco. Questo consente ai batteri di essere più veloci nell’evolvere le loro difese. Dall’analisi di campioni di acque profonde un centinaio di metri è stata rilevata la presenza di batteri con geni della resistenza ad alcuni antibiotici. Questo dà un’idea di quanto sia diffuso questo fenomeno.

La «Candida auris», un fungo molto pericoloso. Foto notiziescientifiche.it.

Antibiotici vecchi e nuovi

Ci sono antibiotici nuovi, che generano resistenza già poco tempo dopo la loro immissione sul mercato, mentre alcuni antibiotici vecchi di decenni come le tetracicline si dimostrano ancora efficaci contro la filariosi, una malattia parassitaria dei cani veicolata dalle zanzare. Le case farmaceutiche si dimostrano un po’ restie a investire nello sviluppo di nuovi antibiotici, perché è sempre più difficile produrne uno che duri a lungo come le tetracicline. L’insufficienza degli investimenti nella ricerca di nuove terapie è un problema evidenziato anche dall’Oms.

L’uso sconsiderato ed eccessivo di antibiotici è sicuramente una parte del problema. Questi farmaci, infatti, sono inutili per la cura delle patologie di origine virale, dal momento che i virus non sono esseri viventi, a differenza dei batteri, dei funghi, dei protozoi e dei parassiti pluricellulari, quindi non possono essere uccisi dagli antibiotici.

Inoltre, spesso l’antimicrobico-resistenza si osserva in microrganismi isolati da pazienti con diagnosi effettuata in ritardo, che hanno avuto prescrizioni non adeguate, che hanno assunto farmaci qualitativamente scadenti o che non hanno effettuato per intero il ciclo di cura. È infatti molto pericoloso interrompere il ciclo di cura non appena si attenuano i sintomi della malattia. Queste variabili possono portare alla selezione di ceppi sempre più resistenti e la difficoltà di trattare le infezioni aumenta i rischi delle procedure mediche come la chemioterapia, gli interventi chirurgici e odontoiatrici.

Il problema allevamenti

Un’altra fonte di rischio di antimicrobico-resistenza è l’uso massiccio di antibiotici, che si è fatto finora in campo veterinario, soprattutto negli allevamenti intensivi, i quali massimizzano la resa economica, ma anche la diffusione delle malattie che necessitano di un trattamento antibiotico. Poiché è complicato curare i singoli individui malati di un allevamento, solitamente vengono trattati tutti gli animali presenti, malati e sani. Questo abuso di antibiotici per curare gli animali d’allevamento supera quello in campo umano. Inoltre, questi prodotti vengono anche usati per stimolare la crescita degli animali. I batteri farmaco-resistenti, che vengono selezionati negli allevamenti, hanno diverse possibilità di diffusione: possono infettare gli operatori del settore; essere ingeriti, se la carne viene consumata senza un’adeguata cottura; finire nelle feci usate come fertilizzanti e raggiungere i campi coltivati oppure passare i loro geni ad altri batteri secondo il meccanismo del trasferimento genico orizzontale già visto. A tal proposito, l’Agenzia europea per la regolamentazione dei farmaci (Ema) ha fissato una soglia per l’uso della colistina, che dovrebbe essere limitata ad un massimo di 5 mg per chilogrammo di bestiame.

Come prevenzione, va detto che sono senz’altro importanti le raccomandazioni sulle norme igieniche personali di base, come il lavaggio frequente delle mani, come abbiamo sperimentato durante la pandemia di Covid. Tuttavia, sono misure ampiamente insufficienti. È infatti indispensabile, da parte delle amministrazioni nazionali e locali prendere provvedimenti seri contro le infestazioni di roditori e di insetti ematofagi.

Negli allevamenti intensivi si fa un uso massiccio di antibiotici con gravi conseguenze. Foto Ralphs fotos – Pixabay.

Dalla storica peste ai superpidocchi

Non dimentichiamo che la Yersinia pestis, che ha più volte decimato le popolazioni europee nel corso dei secoli, è un batterio trasmesso all’uomo dalle pulci dei ratti e dei topi, roditori di cui purtroppo attualmente le nostre città sono piene. Proprio come capitò nel Medio Evo, quando il batterio si diffuse in comunità affollate e malnutrite di città fiorenti, uccidendo circa il 30% della popolazione europea. Cosa succederebbe se questo batterio si ripresentasse adesso, magari dopo avere acquisito qualche gene dell’antibiotico-resistenza? E che dire della diffusione dei pidocchi diventati resistenti agli insetticidi attualmente in uso, tanto da essersi meritati l’appellativo di superpidocchi? Questo fenomeno è la diretta conseguenza dell’abuso fatto per anni del Ddt, che colpisce il sistema nervoso dei pidocchi provocandone la morte. Dopo decenni di esposizione, in alcuni pidocchi sono comparse mutazioni genetiche, che li hanno resi insensibili a questo insetticida. Mentre i loro simili non resistenti venivano sterminati, la popolazione resistente è aumentata enormemente e a nulla è valsa la sostituzione del Ddt con insetticidi naturali a base di piretrine o dei loro analoghi sintetici, i piretroidi, che hanno un meccanismo d’azione simile a quello del Ddt. In Europa si sta ricorrendo a metodi alternativi come l’uso di siliconi e di oli sintetici per incapsulare i pidocchi e provocarne la morte; tuttavia, i casi d’infestazione sono in aumento. Oltre al fastidio rappresentato dall’infestazione, non dimentichiamo che i pidocchi potrebbero trasmettere il tifo petecchiale, essendo tra i vettori della Rickettsia prowazekii, il batterio che causa questa patologia.

Zanzare e superzanzare

Ritroviamo lo stesso fenomeno della resistenza a piretrine e a piretroidi nelle zanzare, che sono i vettori del plasmodio della malaria, malattia che, nel 2019, ha colpito 229 milioni di persone in tutto il mondo con circa 409mila morti, la maggior parte dei quali nell’Africa subsahariana. Naturalmente anche il Plasmodium malariae si è dato da fare ad acquisire la farmaco-resistenza nelle zone dove la malaria è endemica, per cui attualmente i ceppi ancora sensibili alla clorochina sono presenti solo più nell’America centrale, nei Caraibi e nel Medio Oriente, mentre la resistenza all’artemisina è stata osservata per la prima volta nel Sud Est asiatico nel 2008 e, da allora, si è diffusa in tutta la regione ed ha raggiunto l’India.

Oltre alla malaria, le zanzare sono responsabili anche della diffusione di altre gravissime infezioni come la febbre gialla, la chikungunya, la filariosi e la più recente zika. Da quanto abbiamo visto, risulta evidente che i molteplici agenti patogeni contrastati per decenni grazie alla scoperta e alla produzione di diverse classi di antimicrobici stanno riuscendo poco per volta ad aggirare l’ostacolo tornando a rappresentare un serio pericolo.

Rosanna Novara Topino