Coraggio e missione


All’inizio di giugno, i Missionari della Consolata in Europa (Italia, Polonia, Portogallo e Spagna), 230 in tutto (al 25 marzo 2021), si sono «radunati» online per riflettere insieme su cosa vuol dire essere missionari, oggi, in questo continente. I fattori in gioco non sono incoraggianti. Tra quelli interni al nostro Istituto ci sono l’invecchiamento dei missionari, l’assenza di nuove vocazioni europee, le strutture pesanti. Tra quelli presenti nella società europea ci sono la scristianizzazione e le conseguenze, ancora imprevedibili, della pandemia che hanno messo sottosopra un modo di vivere e chiedono nuove risposte dall’evangelizzazione.

Di fronte a tutto questo, ci si poteva aspettare un’assemblea scoraggiata e rassegnata. Invece il realismo degli interventi era carico di speranza, ottimismo e coraggio. Un bell’esercizio di fede, sostenuto dal motto del beato Allamano: «Coraggio, e avanti in Domino (nel Signore)!».

Condivido qui solo poche frasi rivelatrici dello spirito di questi giorni.

Padre Stefano Camerlengo, superiore generale, sì è domandato insieme a noi: «Che cosa facciamo ora? Che cosa siamo diventati? Che cosa resterà di tutto questo? [La pandemia] è solo una dolorosa – per molti, drammatica – interruzione, per ricominciare appena possibile da dove eravamo rimasti? Oppure avremo il coraggio di iniziare un percorso diverso? […] A quali condizioni sarà possibile fare cose nuove per davvero? Come sarà il nostro Istituto domani, fra qualche anno? Come continuerà la sua missione? Quale sarà il volto della missione futura?

Sono domande importanti, fondamentali, che richiedono tanta interiorità. Cerco di riassumerle in questo modo: a quale condizione ci potrà essere un vero e stabile cambiamento nel nostro stile di vita, di presenza e di missione? Rispondo: la novità può venire solo dal cuore, cioè dall’interiorità silenziosa della coscienza di persone che non si sottraggono ai perché della vita e alle esigenze della propria vocazione missionaria. Senza tenerezza, senza cuore, senza amore, non ci sarà profezia né testimonianza credibile!

Carissimi, mi piacerebbe che mettessimo più cuore in quello che facciamo. Mi piacerebbe che prima delle difficoltà e dei problemi lasciassimo parlare il cuore. Mi piacerebbe che cominciassimo ogni riflessione e discernimento avendo a cuore il nostro continente e la nostra gente. […]

La cosa più necessaria nella vita della Chiesa è tenere vivo il fuoco, non adorare le ceneri. È bello sentire la paternità del nostro caro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che aveva il cuore ardente e non era, in nessun modo, prigioniero della cenere; che ha saputo accendere profeticamente il fuoco del Vangelo attraversando confini, incomprensioni, vedute limitanti, concretizzando una visione missionaria innovativa. Carissimi, ricordiamoci che siamo presenti in Europa perché è luogo di missione e siamo chiamati a vivere e a operare da missionari anche qui. […] Non possiamo abdicare, ma dobbiamo rilanciare e tornare a entusiasmare».

Padre Daniele Giolitti, dalla Certosa di Pesio (Cn), prendendo spunto dalle parole del Signore rivolte a Paolo chiuso in prigione: «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così bisogna che tu dia testimonianza anche a Roma» (At 23,11), ha detto: «Il coraggio è fiducia ed è il contrario della paura. Coraggio è, sì, forza agonistica, ma è soprattutto una virtù del cuore. È la forza spirituale per andare avanti o, come dicono i Padri del deserto, la “forza per buttare il cuore oltre l’ostacolo”. Ancora: la paura è la mancanza di fede, il coraggio è la fede di vivere la vita fino in fondo, di viverla da vivi, non da morti. Il Signore dice a Paolo che “bisogna che dia testimonianza anche a Roma”. Cosa significa? Paolo dirà: per me è una necessità evangelizzare, non ne posso fare a meno (1 Cor 9,16). Bisogna è la parola che Gesù usa sempre quando parla della sua morte (cfr Lc 17,25), non per dire che lui è costretto a farlo, ma che il donarsi fino alla fine è un bisogno interiore. Come bisogna che l’acqua bagni, se no non è acqua, che il fuoco bruci, che la vita viva, così “bisogna che tu mi testimoni”, è la necessità di essere come Cristo. […] In conclusione, nei periodi di discernimento e di crisi, guardiamo al nostro futuro come Paolo, accogliendo la Parola e la missione: la prima ci consola e ci dà coraggio, la seconda ci spinge ad andare. Così facendo siamo spinti nel cammino verso un mondo altro: un cammino che diventa sogno e disegno di Dio per ogni uomo e donna». Anche in Europa.

 




Consolate il mio popolo


Un anno fa scrivevo l’editoriale del mese di giugno dal chiuso della mia stanza, nel bel mezzo di una clausura forzata durata ben oltre due mesi. Quei giorni dovrebbero essere un lontano ricordo, e invece la pandemia è ancora qui e sta manifestando la sua virulenza in tutto il mondo, in particolare in quei paesi già colpiti da povertà, guerre e deficienze strutturali croniche. E facciamo fatica a tornare alla «normalità» che rimpiangiamo.
Scrivo «normalità» tra virgolette, perché mi piacerebbe vedere nascere dalla tragedia del Covid una normalità diversa da quella di prima. Quella di cui abbiamo tutti nostalgia, infatti, era fatta di consumi eccessivi di risorse, di spreco e di ingiustizia sociale. Una normalità alla quale siamo stati abituati nei decenni da un sistema economico incentrato sul profitto immediato, che ora spinge perché venga ripristinata quanto prima quella stessa normalità.

La parte di normalità precedente al Covid che salverei e, anzi, amplificherei, è invece quella fatta di relazioni: scambiare un abbraccio, tenersi per mano, mangiare insieme, far festa, danzare, partecipare alla messa e quanto altro comunica amore, aiuta l’incontro, dona consolazione.
E di relazione con la natura, nella quale vivere da ospiti e non da padroni.

Per riprendere nel modo più forte e profondo quella normalità, un esercizio utile da fare è quello della contemplazione, del rintracciare nel mondo che abbiamo attorno i segni della presenza di Dio, i segni che riempiono il cuore e spingono alla comunione con gli altri, e alla consolazione.

Quando usciamo per le strade, allora, proviamo ad assumere lo sguardo di un mio confratello, padre Andrés Garcia, missionario della Consolata che vive tra i Warao a Nabasunuka sui canali del Delta dell’Orinoco in Venezuela, del quale condivido le parole, scritte dopo aver gridato con forza che non vuole rassegnarsi né abituarsi alla paura, alla povertà, all’ingiustizia e al dare sempre la colpa agli altri. Voglio condividere le sue parole con voi, in questo mese dedicato alla nostra Consolata, madre del vero Consolatore e modello di ogni missionario.

«Voglio rallegrarmi per ogni persona che si rialza, per ogni tentativo, per ogni sospiro di speranza.
Voglio sognare di nuovo con ogni sorriso, con ogni carezza, con ogni sforzo.
Voglio che si imprima a fuoco nella mia anima la gioia di quella bambina che dice alla mamma di sapere già le vocali e del suo fratellino più grande che, con espressione di trionfo, mi dice che lui sa già leggere e scrivere.

Voglio continuare ad emozionarmi nel vedere due anziani camminare per strada mano nella mano, innamorati, e nell’ascoltare quei giovani fidanzati che sognano come sarà la loro famiglia, la loro storia d’amore.

Voglio rimanere senza parole di fronte alla bellezza del fiore che cresce umilmente completando con il suo colore e profumo la sinfonia della giungla e anche davanti a quella (giungla) che cresce in città.

Voglio sentirmi una sola cosa con l’universo nel bel mezzo della tempesta e quando la leggera brezza mi accarezza.

Voglio fremere con ogni persona che sogna una nuova umanità e impegnarmi per ogni persona che costruisce giustizia e pace con il suo stile di vita e anche con chi lo fa attraverso i movimenti sociali e i tribunali.

Voglio gioire per tutti gli sforzi fatti in favore della riconciliazione delle persone e dei popoli.

Voglio cantare con ogni persona che si rialza dopo ogni caduta, cercando di essere migliore.

Voglio dirvi che oggi migliaia di persone si sono riconciliate, che sono nati migliaia di bambini, che centinaia di migliaia di innamorati si sono baciati (sì, anche nella quarantena), che centinaia di popoli continuano ad organizzarsi per riprendere i loro diritti, per recuperare la loro storia, le loro terre, la loro cultura, la loro dignità.

Oggi, anche oggi, come ieri e come domani, l’amore continua a vincere e a generare vita in tutto l’universo.

Voglio dirvi quello che già sapete: che Dio è Amore e che lui vince sempre e per sempre.
Non lo vedete?».

Foto di Piergiorgio Pescali dal Myanmar, dedicata alla gente di quel paese in questo momento così difficile e violento. Un augurio di pace.




South Africa Fifty (Il giubileo d’oro della Consolata in Sudafrica)

Indice

I tre aspetti salienti della consolata in Sudafrica

Nati in terra di frontiera

Sono gli anni dopo il concilio Vaticano II. Anche i Missionari della Consolata cercano un nuovo stile di evangelizzazione. Si aprono per loro nuovi paesi di missione, nuove culture con cui confrontarsi, ma anche nuove forme organizzative. Così si diffonde l’approccio delle piccole comunità missionarie, agili ad adattarsi alle situazioni. Fondamentale anche la componente formativa per i giovani che iniziano il cammino missionario.

La nascita della delegazione (chiamata così in quanto piccolo gruppo, ndr) del Sudafrica avvenne il 10 marzo 1971. Fu l’avvio di un cammino nuovo per l’Istituto, nella ricerca di nuove terre e di nuovi stili di evangelizzazione, e pertanto una vera «terra di frontiera». Erano gli anni che seguivano il concilio Vaticano II e la celebrazione del Capitolo generale del 1969. L’Istituto si sforzava di aprire nuove strade che potessero incarnare al meglio il carisma di Giuseppe Allamano in un’epoca di grandi cambiamenti nella Chiesa e nella società.

Terra di frontiera

Ai nostri primi missionari destinati al Sudafrica veniva affidato l’impegnativo compito di camminare su terre da noi non ancora esplorate, a contatto con nuove realtà missionarie e di evangelizzazione, capaci di arricchire il tradizionale stile missionario dell’Istituto.

Il 9 novembre del 1971, padre Mario Bianchi, superiore generale, a pochi mesi dall’inizio dell’avventura sudafricana, così scriveva in una lettera circolare all’Istituto: «[…] Ma già ora vi è uno sviluppo importante nell’Istituto, non di numero, ma di qualità; cioè di situazioni nuove in cui l’Istituto viene a trovarsi e a cui deve fare fronte: inserimento in nuovi campi di missione e quindi in confronto con popoli, culture e religiosità differenti (è il caso dell’Etiopia e Sudafrica); cambiamenti talora profondi nelle aree geografiche in cui già siamo inseriti, sotto il punto di vista di Chiesa, vita politica o sociale; cambiamenti e sviluppi anche nella sensibilità spirituale, vita comunitaria e organizzativa all’interno dell’Istituto. Queste nuove situazioni conducono a una crescita qualitativa e spirituale dell’Istituto se tutti noi sapremo affrontarle con coraggio, pazienza e saggezza».

Quanto padre Mario Bianchi proponeva all’inizio di questa avventura missionaria, penso che mantenga ancora oggi tutta la sua validità: l’invito a scoprire sempre nuove strade della missione nella comunione con il cammino delle chiese, nel cercare e trovare nuovi modi per rendere più efficace la comunicazione del Vangelo di Cristo e nel solidarizzare con i popoli. Nel fare tutto ciò in maniera efficace, è necessario che il nostro discernimento sia sempre accompagnato dalla preghiera costante allo Spirito Santo, e dal desiderio di rispondere al meglio allo spirito del nostro beato fondatore Giuseppe Allamano.

Piccoli gruppi

L’Istituto desiderò che le nuove aperture realizzate dopo il Concilio fossero tutte di piccole dimensioni. Simili a quella del Sudafrica furono le altre nuove aperture di quegli anni: Etiopia, Congo (Zaire) e Venezuela. Il fatto di andare in piccoli gruppi, sebbene possa apparire un elemento di fragilità e povertà, offre innumerevoli risvolti positivi: una maggiore agilità nell’attuare scelte nuove e migliorare situazioni, crescita costante nella comunione e fraternità comunitaria, ricambio facile di personale nelle nostre presenze pastorali, maggiori possibilità di collaborazione con la Chiesa locale evitandole inopportuni condizionamenti.

Siamo coscienti che l’elemento comunitario gioca un ruolo importante nella nostra crescita personale e nello svolgimento del nostro servizio.

Grazie alla ricorrenza dei 50 anni dalla nostra apertura in Sudafrica, abbiamo avuto l’opportunità di ripercorrere il cammino fatto dai confratelli negli anni passati, e le scelte da loro operate. Tutto ciò ci può servire a confrontare la situazione attuale della nostra missione con il sogno che l’Istituto ebbe nell’avviare la nostra presenza in Sudafrica e nel corso di questi cinquant’anni. Ogni celebrazione giubilare, come desiderava il Beato Allamano, deve attingere ispirazione dalle origini e alimentare gli impegni attuali con lo sguardo sempre aperto al futuro.

Una comunità formativa

Pensando alla delegazione attuale del Sudafrica, non posso dimenticare di sottolineare il privilegio che abbiamo avuto accogliendo la comunità del seminario di Merrivale, e la responsabilità che abbiamo nell’assicurare ai nostri giovani missionari l’ambiente migliore per la loro crescita e maturazione vocazionale. Li sentiamo come parte integrante e importante della delegazione. Gioiamo con loro per le varie tappe che ogni anno essi raggiungono. Li accogliamo volentieri nelle nostre comunità durante le loro esperienze pastorali. Sperimentiamo con loro la bellezza del fare missione in Sudafrica anche se poi la maggioranza emigrerà in altre terre di missione. La convivenza con i missionari li spinge a rallegrarsi per la scelta missionaria fatta e a un impegno sempre maggiore nella loro ultima fase formativa di base.

In conclusione, voglio riaffermare la convinzione profonda che l’efficacia apostolica, e quella missionaria in primo luogo, è basata sulla testimonianza dell’amore che lega le persone che proclamano il Dio della misericordia.

Stefano Camerlengo


Breve racconto di cinquant’anni di presenza

Le sei «fasi» della storia

Dai pionieri Jack Viscardi e John Berté a Piet Retief, e dal loro lavoro «ponte» con le famiglie dei migranti mozambicani, all’arrivo nelle townships di Newcastle e poi di Pretoria e Johannesburg. Con l’attività pastorale e di formazione di leader. E poi l’apertura del seminario di Merrivale, per arrivare alla «figliazione» con la nuova missione nel regno di Eswatini.

Alla fine degli anni Sessanta, il Capitolo generale dei Missionari della Consolata accettò la richiesta di iniziare una presenza missionaria nella prefettura di Volksrust (oggi diocesi di Dundee). I padri Giovanni (Jack) Viscardi e Giovanni (John) Berté furono i primi ad arrivare il 10 marzo 1971. La prima missione fu Piet Retief. Per 24 anni essi diffusero il Vangelo in diverse zone, nel territorio oggi conosciuto come diocesi di Dundee.

Giovanni Berté, durante un’intervista che gli feci nel 1996, per il venticinquesimo, divise in quattro fasi il lavoro dell’Istituto nei primi 24 anni passati unicamente nel territorio della diocesi di Dundee. Trovandoli attuali, voglio riportarli qui di seguito.

I primi quattro passi

Primo. La prima tappa in Sudafrica fu nella Prefettura di Volksrust, guidata dal vicario monsignor Marius Banks. I missionari iniziarono a Piet Retief, poi gradualmente andarono a Ermelo (Damesfontein), Evander, Secunda, Embalenhle, Kriel, Standerton e Bethal. Un importante atto di consolazione fu quello di diventare ponte tra alcuni mozambicani, lavoratori delle miniere del Transvaal, e le loro mogli e figli in Mozambico. Questo fu possibile perché i missionari della Consolata erano presenti anche nel paese di origine dei migranti.

Secondo. Al momento della creazione della diocesi di Dundee (anni Ottanta), i missionari andarono nelle aree rurali di Pongola e Pomeroy. Ci fu l’idea di andare a Amakhasi, ma non si materializzò. Tutte le attività erano volte a enfatizzare la presenza della consolazione tra i poveri. In quel periodo i missionari aiutavano anche il vescovo nella parrocchia di Dundee.

Terzo. Nel 1991 i Missionari della Consolata, incoraggiati dal vescovo Michael Paschal Rowland, andarono nelle townships (città riservate ai neri) di Newcastle. Le energie spese al centro pastorale di Damesfontein per la formazione di leader e catechisti, con la nuova area pastorale, iniziarono ad essere utilizzate a beneficio dell’area densamente popolata del decanato di Newcastle. Presto i segni dei tempi chiamarono i missionari a focalizzarsi su progetti, raduni di studio e ritiri in aiuto dei malati di Hiv.

Quarto. Il 20 giugno 1995 si iniziò una presenza missionaria a Waverley e Mamelodi West rispettivamente un sobborgo e una township di Pretoria, capitale del Sudafrica. Qui uno degli obiettivi era rafforzare la consapevolezza della responsabilità missionaria nella chiesa locale, e formare giovani a diventare missionari della Consolata dal Sudafrica al mondo.

Avendo lavorato per molti anni in aree rurali, dai primi anni Novanta, consapevoli del fenomeno di urbanizzazione, i missionari della Consolata iniziarono una presenza in diverse townships, inizialmente nella diocesi di Dundee e successivamente nell’arcidiocesi di Johannesburg (Daveyton 2004). Molti giovani furono accompagnati nel loro discernimento vocazionale, le comunità parrocchiali pregavano per le vocazioni e una squadra vocazionale diocesana fu attivata nella diocesi di Dundee, dove religiose e religiosi, preti e clero locale potevano incontrarsi e pianificare periodicamente. Una squadra simile fu realizzata pure in Eastern Deanery, Pretoria. Sfortunatamente queste due squadre dovettero sciogliersi per mancanza di nuove forze, dopo la tragica morte del padre comboniano Giorgio Stefani a Pretoria (20 ottobre 2005), e di suor Anna Thole, delle Nardini Sisters, nella diocesi di Dundee (1 aprile 2007).

Due passaggi ulteriori

Il padre John Berté (andato in Paradiso il 5 gennaio 2005), all’epoca, non mi aveva menzionato altri possibili passaggi storici.

Voglio però aggiungere due passaggi successivi che reputo importanti.

Quinto. Grazie all’intuizione del consigliere generale per l’Africa, padre Matthew Ouma, il primo settembre 2008 ha aperto i battenti il seminario teologico interculturale di Merrivale (Kwa Zulu Natal), e un anno dopo è stata pure aperta la parrocchia St. Martin de Porres, Woodlands, nell’arcidiocesi di Durban. Il seminario è composto dagli studenti religiosi professi della Consolata originari di diversi paesi dell’Africa, ma non ancora da sudafricani.

Sesto. Un nuovo capitolo della storia dell nostro istituto in Sudafrica è iniziato nel 2016, con l’apertura della missione nel piccolo regno di Eswatini (che si scrive pure eSwatini, ndr), dove il missionario argentino José Luis Ponce de León è diventato il vescovo della diocesi di Manzini, l’unica nel piccolo regno.

Passato remoto

Voglio ricordare qui due momenti storici che hanno anticipato la nostra presenza in Sudafrica e hanno legato l’istituto al paese.

Nel 1940, 89 missionari della Consolata furono portati dagli inglesi in Sudafrica dal Kenya, come prigionieri di guerra italiani. Furono rinchiusi a Koffiefontein, cittadina mineraria nel Free State al centro del paese, per tre anni.

Nel 1948 alcuni missionari, invece, furono mandati dall’Italia all’Università di Cape Town, per specializzazioni o per accreditare i loro titoli di studio secondo il sistema britannico, prima di partire per Kenya e Tanzania come insegnanti.

Devo infine ricordare che, anche se l’Istituto è presente nel paese da così tanti anni, non c’è ancora un missionario della Consolata sudafricano, perché inizialmente l’obiettivo fu lo sviluppo della chiesa sudafricana, attraverso la promozione del clero locale.

Rocco Marra


Un missionario «senior» fresco di Sudafrica

Riflessioni dell’ultimo arrivato

Padre Mario Barbero è un missionario della Consolata di lungo corso. Questo significa che conosce molti confratelli del passato e del presente. In Sudafrica era stato solo per brevi visite, quando lavorava in altri paesi del continente. Da poco più di un anno si è trasferito a Pretoria, dove si sente l’ultimo arrivato. Ci racconta le sue avventure con il calore che sempre lo contraddistingue.

Non è la prima volta che vengo in Sudafrica, ma adesso sono arrivato con un regolare permesso di lavoro e con visto di residente. La prima volta venni nell’ottobre 2003 proveniente dalla Repubblica democratica del Congo assieme a una coppia congolese per prendere parte all’incontro panafricano del Marriage encounter. Dal 1978, infatti, faccio parte del Wwme (Worldwide marriage encounter, in Italia Incontro matrimoniale), movimento familiare internazionale e, dovunque ho lavorato, mi sono sentito sostenuto da coppie, sacerdoti, consacrate e consacrati di questa associazione.

Andavo a Johannesburg con una coppia di Kinshasa per prendere parte a una settimana d’incontro con coppie e sacerdoti di nove paesi africani impegnati nella pastorale familiare. In quell’occasione avevo chiesto al superiore delegato, padre Ponce de León (ora vescovo di Manzini in Eswatini), di poter prolungare di una settimana il mio soggiorno per visitare le nostre missioni in questo paese. Così nel giro di una settimana visitai quasi tutte le comunità dei missionari della Consolata nel paese. Fu con grande emozione che nei pressi di Delmas pregai sul luogo dell’incidente mortale dei padri Paolino Ferreira e Alexius Lipingu.

Una seconda visita in Sudafrica, sempre con visto turistico, fu più lunga, da dicembre 2007 a giugno 2008, un soggiorno di sei mesi nella parrocchia di Daveyton, nell’arcidiocesi di Johannesburg, come aiuto al mio amico padre Ettore Viada, compagno di studi a Roma.

Sebbene fossi prete da oltre quarant’anni, era la prima volta che mi trovavo in una parrocchia a tempo pieno, e fu molto bello. Quasi ogni giorno, accompagnato da un parrocchiano, visitavo le persone malate e gli anziani nelle loro case, leggendo sui loro volti la gioia nel ricevere la visita di un sacerdote e soprattutto la Comunione. Indimenticabile la scena di una signora anziana che, vedendomi arrivare, esclamò: «I am so happy, father!». Sabato e domenica prestavo servizio nelle chiese succursali di San Martin e San Lambert.

Tre giorni dopo il mio arrivo a Daveyton, mi chiamò la responsabile della pastorale familiare di Johannesburg per invitarmi a pranzo e per farmi conoscere un salesiano impegnato nella pastorale giovanile e dei fidanzati, naturalmente non me lo feci ripetere due volte.

In quei sei mesi ebbi anche la possibilità di prendere parte alla celebrazione del trentesimo anniversario del Marriage encounter in Sudafrica (iniziò nel 1978 come in Kenya) e di animare due fine settimana del programma Retrouvaille.

Inoltre, con padre Tarcisio Foccoli, mio compagno di ordinazione e superiore delegato dell’epoca, vissi un’altra esperienza memorabile: andare a Merrivale, nell’arcidiocesi di Durban, per vedere una casa che sarebbe poi stata la prima residenza del seminario teologico che si progettava di aprire (e che di fatto si aprì il primo settembre 2008): una novità molto importante per la nostra presenza sudafricana.

Sorpresa gradita

Nel mese di novembre 2019, mentre da tre anni risiedevo nella nostra comunità di Rivoli (To), il padre generale, Stefano Camerlengo, mi propose una nuova partenza per il Sudafrica, questa volta con regolare visto di residenza. Era la terza destinazione in Africa dopo il Kenya e la RdC, inframmezzati da due «parentesi» di dodici anni ciascuna, in Usa e in Italia.

Mentre preparavo i documenti per richiedere il visto regolare, cercai di rinfrescare le mie memorie sull’Istituto in Sudafrica cominciando dalla sua preistoria.

Infatti la prima presenza di missionari della Consolata nel paese non era stata pianificata dai nostri superiori o da una decisione di un Capitolo generale, ma dal governo inglese che allo scoppio della guerra nel 1940, senza tanti complimenti, vi deportò ben 89 nostri missionari che lavoravano in Kenya (foto sopra), i quali da un giorno all’altro si trovarono con l’etichetta di nemici di sua Maestà britannica. Questi nostri confratelli, con la laboriosità tipica dei missionari, durante quasi quattro anni nel campo di concentramento di Koffiefontein pregarono, studiarono, si tennero aggiornati sulla Bibbia e sulla teologia, tessendo anche relazioni con altri prigionieri italiani confinati con loro, aiutandoli anche a rinfrescare la loro pratica religiosa. Scorrendo il loro elenco vidi che li avevo conosciuti quasi tutti in Italia o durante i miei dodici anni in Kenya, e alcuni di loro (in particolare fratel Guido Grosso, indimenticabile formatore al Consolata seminary di Langata) mi raccontarono come si erano tenuti occupati in quel periodo.

Nel 1948 c’era stata poi una presenza Imc programmata per il Sudafrica: l’apertura, a Cape Town, di una «casa di studi» per i missionari destinati a frequentare corsi di specializzazione per insegnare nelle scuole, soprattutto in Kenya. Tra i tanti, non posso non ricordare qui padre Giuseppe Bertaina (ucciso in Kenya nel 2009), che avrebbe lasciato memoria indelebile, e padre Carlo Capone che si laureò in medicina (cosa rara per un prete a quel tempo, per cui richiese un permesso speciale dal Vaticano) e svolse poi un grande lavoro nel coordinare i servizi del Catholic Relief Services (la Caritas degli Stati Uniti, ndr) in tutta l’Africa.

Mi ricordo bene quando l’Istituto, dopo il Capitolo del 1969, decise di programmare nuove aperture anche per snellire la presenza massiccia nelle nostre zone storiche d’Africa: Kenya, Tanzania e Mozambico.

E così vennero, nei primi anni ‘70, la riapertura in Etiopia, e le nuove aperture in Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo), e in Sudafrica. Conobbi i due pionieri, i padri Giovanni Berté e Jack Viscardi, fin da quando erano ancora studenti di teologia a Torino.

Quanti nomi conosciuti

Per prepararmi all’arrivo in Sudafrica, padre Rocco Marra, attuale superiore delegato, mi inviò la lista di tutti i confratelli che dal 1971 fino all’ultimo (che sarei io, credo) erano stati destinati a questa delegazione. Per me, scorrere quell’elenco fu come fare un pellegrinaggio nella storia del nostro Istituto. Essendovi entrato da ragazzino nel 1950, avevo avuto modo di conoscere buona parte di quei 68 nomi che erano sulla lista: missionari dapprima solo italiani poi di varie nazionalità, che avevano lavorato qui per brevi o lunghi periodi, ognuno con le proprie caratteristiche, dando ciascuno il suo contributo in questa Chiesa durante i passati cinquant’anni. Quattordici sono già stati «trapiantati» sull’altra sponda dal Signore.

Guardando alla lista dei missionari e alle zone dove l’Istituto aveva lavorato notavo una certa mobilità, sia di personale, sia geografica. Molte missioni erano state iniziate e poi cedute ad altri. All’inizio c’era stata una concentrazione nella zona del Kwa Zulu Natal e Mpumalanga, dove poi era nata l’odierna diocesi di Dundee. In seguito erano venute le aperture nelle arcidiocesi di Pretoria (1995) e Johannesburg (2004). Sono stati passaggi da una sola diocesi a varie diocesi, da zone prevalentemente rurali ad aree urbane.

Le novità più rilevanti negli ultimi quindici anni furono l’apertura del seminario teologico di Merrivale (2008) e l’apertura di una comunità nello Swaziland/Eswatini (2016), con il vescovo, monsignor José Luis Ponce de León (già dal 2013). Mi sembrano, ancora oggi, due segni di vitalità e di coraggio: l’impegno «ad gentes» in Eswatini, e l’impegno nella formazione di missionari per il mondo.

La decisione di aprire un seminario teologico internazionale e interculturale fu un dono per la nostra piccola delegazione, non solo per contribuire a formare missionari per l’Istituto, ma anche perché la presenza di seminaristi missionari, dà un volto giovanile e dinamico al nostro gruppo. I seminaristi infatti trascorrono dei periodi di servizio nelle varie parrocchie portando una testimonianza dell’universalità della Chiesa. In dodici anni, il seminario di Merrivale ha «prodotto» diciassette sacerdoti missionari, che ora servono in dieci paesi di quattro continenti, ognuno portando qualche impronta di quanto ricevuto dalla società e Chiesa sudafricana.

Negli ultimi vent’anni il nostro gruppo di missionari della Consolata ha cambiato visibilmente composizione sia come provenienza che come età. Nei primi trent’anni di presenza in Sudafrica i missionari erano europei e latinoamericani, dopo, la maggioranza ha iniziato a provenire da paesi del continente.

La nostra è una delegazione giovane, con un’età media dei sacerdoti di 45 anni, quella dei seminaristi di 30 anni.

Chissà se i nostri primi missionari, arrivati in Sudafrica nel 1940 come prigionieri di guerra dal Kenya, avrebbero mai immaginato che in pochi decenni vari confratelli proprio del Kenya sarebbero stati le nuove forze della Consolata ad annunciare il Vangelo nel paese.

Covid relief projects

«Lockdown in Pretoria»

Sono arrivato in Sudafrica il 26 febbraio 2020, con uno degli ultimi voli Alitalia, Roma-Johannesburg, in tempo per concelebrare con padre Rocco la messa serale del mercoledì delle Ceneri. Un mese dopo, anche qui è scattato il lockdown e le chiese sono state chiuse alla partecipazione dei fedeli. La quaresima si è interrotta alla terza domenica, quando avevo appena conosciuto alcuni parrocchiani. Ho vissuto questi lunghi mesi come un regalo del Signore per prepararmi meglio al ministero parrocchiale, ricordando che «la preghiera è il nostro primo dovere». Per me la chiesa non era chiusa e potevo, non solo celebrare messa ogni giorno, ma anche passare un po’ più di tempo a pregare per i miei parrocchiani. Anche se non li conoscevo ancora, il Signore sapeva dove indirizzare le mie preghiere! Ho cominciato a comunicare con loro con messaggi whatsapp e con video quasi settimanali di commento alle letture liturgiche. Ho potuto apprezzare anche la generosità di famiglie che (come i corvi per il profeta Elia, in 1 Re 17,6) mi portavano da mangiare. Con il passare delle settimane ho migliorato la mia competenza culinaria e sono diventato sempre più esperto a preparare gli spaghetti al dente.

La parrocchia dove mi trovo, Queen of the most holy Rosary di Waverley, Pretoria (capitale della nazione), è la prima nostra presenza in città dal 1995. Nel 2020 era in programma la celebrazione del Giubileo d’argento (25 anni dalla fondazione). Naturalmente, a causa della pandemia, non si è fatta nessuna festa, se non il ricordo nella preghiera.

Il primo parroco della Consolata è stato padre Jack Viscardi, che era in comunità con padre Alexius Lipingu, tanzaniano, responsabile di St. Mary’s Mamelodi West, una parrocchia della township a mezz’ora di macchina da Waverley. I due confratelli prestavano il loro servizio pastorale nelle due parrocchie come coparroci.

Padre Alexius lo avevo accolto in seminario a Nairobi nel 1978, e accompagnato all’ordinazione nella sua parrocchia nel 1987. Destinato al Sudafrica nel 1993, era diventato superiore della delegazione, e nel 1999, a 43 anni, è morto in un incidente stradale. Mai avrei immaginato di diventare suo successore in questa parrocchia dove egli è ricordato con simpatia e gratitudine.

In questi 25 anni, vari confratelli di varie nazionalità si sono succeduti qui nel servizio pastorale. Oltre a padre Lipingu, altri due sono già in Paradiso, Jesus Ossa, colombiano, e Jack Viscardi. Li ho frequentati in Italia negli ultimi anni della loro vita: padre Jesus lavorava con la comunità latinoamericana a Torino e padre Jack era nella casa di Alpignano (To). Quando prego il rosario passeggiando su e giù nella chiesa del Santo Rosario e quando celebro la messa, quasi sento la loro presenza fisica nel mistero della comunione dei Santi a intercedere per i loro (ora miei) parrocchiani.

Mario Barbero

St. Gabriela Healin Center, a Mtubatuba: centro di prevenzione e cura dell’Hiv/Aids,


Il vescovo di Manzini indica i fattori di successo

Piccole comunità, grandi greggi

Piccoli gruppi missionari, anziché presenze ingombranti. E la capacità di aderire con dinamismo al mutare delle esigenze del contesto. Ma anche un’attività pastorale dominante, che ha favorito la formazione di leader della chiesa locale. Questi gli aspetti determinanti nei cinquant’anni di missione appena trascorsi.

Era il 1992 quando ho scritto a padre Giuseppe Inverardi, prima della fine del suo secondo mandato come superiore generale, chiedendo di essere destinato altrove. Da sei anni ero in Argentina, dove sono nato. Ero entrato nell’Istituto «per essere inviato» e non per rimanere. È vero che avevo anche la curiosità di sapere se sarei riuscito ad imparare un’altra lingua (avevo fatto il noviziato e la teologia in Colombia), e a inserirmi in un’altra cultura, diversa di quella dell’America Latina.

Durante una sua visita in Argentina lui mi ha chiesto: «Dove vorresti andare?». Anche se mi ero reso disponibile per andare in qualsiasi nazione, ho detto: «Preferirei un gruppo piccolo». Dietro la mia risposta c’era l’immagine delle nostre presenze dove, dopo tanti anni di servizio missionario, siamo cresciuti nel personale ma anche nelle strutture, cose che possono rendere più difficile una nostra disponibilità a rispondere alle nuove sfide.

Lui aveva già un’indicazione: «Abbiamo pensato al Sudafrica». Mesi dopo, nel 1993 sono stato ufficialmente destinato al Sudafrica dove sono arrivato all’inizio del 1994 dopo alcuni mesi passati a Londra per migliorare la lingua inglese.

Quasi trent’anni dopo, penso che quella intuizione sia stata importante.

La nostra presenza in Sudafrica è stata marcata da due elementi particolari: è sempre stata «piccola» nel numero dei sacerdoti missionari (la delegazione non ha mai avuto fratelli) e non è mai stata legata a una infrastruttura. Questo ha permesso ai missionari di spostarsi con facilità per dare una risposta alle diverse sfide.

È stato così che nel 1991, in risposta al vescovo della diocesi di Dundee, l’Istituto ha preso in consegna le parrocchie del decanato di Newcastle, per sviluppare un lavoro d’équipe secondo il nostro carisma missionario.

Qualche hanno dopo, nel 1994, è stata decisa la prima presenza fuori della diocesi di Dundee: due parrocchie nell’arcidiocesi di Pretoria (Waverley e Mamelodi) e nel 2003 la prima presenza nell’archidiocesi di Johannesburg.

La comunità dei professi è nata nel 2008 seguita da una parrocchia «a fianco» nell’arcidiocesi di Durban nel 2009, e poi una seconda parrocchia a Mamelodi (Pretoria) nel 2015.

Più tardi, nel 2016, è iniziata la presenza dell’Istituto nella diocesi di Manzini, nel Regno di Eswatini(*).

Quando guardo indietro vedo una grande dinamicità in un gruppo così piccolo e una grande capacità di risposta ai bisogni della diocesi e alle proposte dei vescovi.

Una presenza pastorale

Un altro elemento di questi 50 anni è che la nostra è sempre stata una presenza «pastorale». In molti luoghi sono state costruite delle cappelle o delle chiese, ma non c’è mai stato il bisogno di costruire delle scuole o centri di salute (realizzati questi dal governo). La nostra chiamata è sempre stata quella di creare o consolidare delle comunità, nella visita alle famiglie e nella formazione dei loro leader.

Per tanti anni, la Conferenza episcopale ha offerto corsi di formazione per i laici attraverso il centro pastorale Lumko. Ancora oggi ricordo quella volta in cui una delle incaricate del centro ha incontrato padre Pietro Trabucco, in visita in Sudafrica, e gli ha raccontato: «Voi, missionari della Consolata, non soltanto avete curato la formazione dei laici ma, in tutti i corsi, i religiosi erano seduti in mezzo alla gente. Anche loro hanno voluto essere formati insieme al popolo». Ed è vero. Diverse generazioni di missionari sono passate in Sudafrica, arrivate dall’Europa, dall’America Latina e dal resto dell’Africa, ma la cura della formazione dei laici è stata sempre presente nel cuore di ciascuno, forse nella consapevolezza che noi siamo di passaggio e sarà la gente del posto a portare avanti la crescita della chiesa.

L’anno scorso, un sacerdote diocesano al quale è stata affidata una delle nostre missioni, mi ha scritto dicendo: «Sono io oggi a godere dei frutti del lavoro dei Missionari della Consolata. Posso contare su leader preparati con grande cura».

Anche se tutto questo è parte essenziale della nostra identità, non è sempre facile vedere dei frutti quando si lavora in un contesto dove le chiese cristiane si moltiplicano come funghi, il senso di appartenenza a una chiesa è spesso debole, o quando uno dei laici formati sceglie di andare via e di dare inizio alla propria chiesa.

Ho sempre il ricordo di un incontro del nostro gruppo di missionari, una ventina di anni fa. Nella condivisione riguardo al nostro essere in Sudafrica era presente, in quasi tutti, la sensazione di non essere stati di grande aiuto alla chiesa locale. Io ero superiore delegato e ho guardato tutti in silenzio senza dire una parola. Eravamo già presenti in tre diocesi e i vescovi parlavano benissimo di tutti i nostri missionari, ma eravamo noi stessi a non riuscire a vedere l’impatto della nostra presenza.

Il Sudafrica è sempre una realtà molto sfidante, ed è soltanto la convinzione che è lo Spirito di Gesù risorto che si occupa dei frutti, la forza che ci guida e ci sostiene.

José Luis Ponce de León

 (*) Nota: dal 2018 lo Swaziland ha assunto il nome regno di eSwatini, ovvero terra degli Swazi. In questo dossier si è scelta la scrittura alternativa Eswatini.

foto dell’icona della Consolata che secondo una nostra tradizione e` stata donata dal Fondatore ai suoi missionari, conservata nell’ufficio di Mons. Luigi Santa, il quale l’ha data ai primi missionari che sono arrivati a Cape Town nel 1948, quando abbiamo aperto una casa per missionari destinati a fare corsi di specializzazione. Da Cape Town e` stata portata a Damesfontein, probabilmente nel 1981 e infine nell’attuale casa della delegazione a Waverley-Pretoria in aprile 2004.


Il partito di Nelson Mandela è spaccato in due

Alta tensione,  tra i figli di Madiba

Il presidente Ramaphosa cerca di fare pulizia nel partito al potere. Ma non è cosa facile, perché la corruzione è radicata e lui ha una maggioranza interna ristretta. Intanto la xenofobia verso gli immigrati africani non sembra diminuire. Anche a causa della crisi economica dovuta alla pandemia da Covid-19. Riuscirà il presidente nel suo intento? Ne parliamo con un esperto di Cape Town.

«Il presidente Cyril Ramaphosa sta facendo un buon lavoro, ma lentamente. Penso che non ci sia nessuno nell’Anc (African national congress, ndr) che potrebbe fare un lavoro migliore del suo, ma allo stesso tempo, lui non può fare il migliore lavoro di cui avrebbe le capacità, a causa del fatto che è in un partito molto diviso». Chi parla è padre Peter John Pearson, dell’arcidiocesi di Cape Town, contattato telefonicamente. Padre Pearson è incaricato dalla Conferenza episcopale del Sudafrica dei rapporti con il parlamento, ed è coinvolto in una dinamica democratica che prevede la partecipazione della società civile nella definizione di policy e nell’osservazione del lavoro legislativo.

L’African national congress è il partito al governo dalla fine dell’apartheid e le prime elezioni libere nell’aprile 1994. «È uno dei principali partiti che hanno portato alla liberazione del Sudafrica, non l’unico – ricorda padre Pearson -, ma quello con la storia più lunga. È molto vicino alla gente». In quelle elezioni vinse Nelson Mandela che fu presidente fino al 1999. Gli succedette Tabo Mbeki, sempre storico personaggio dell’Anc, per due mandati. Nel 2009 venne eletto Jacob Zuma, controverso personaggio, già indagato per corruzione quando era vicepresidente di Mbeki.

Zuma fu poi obbligato a dimettersi prima della fine del secondo mandato, nel febbraio 2018, per le pressioni dell’Anc, perché eraè coinvolto in troppi casi di corruzione.

L’Anc scelse Cyril Ramaphosa, diventato segretario generale del partito nel 2017, per sostituirlo. Alle elezioni generali del 2019 Ramaphosa fu confermato.

South African President Cyril Ramaphosa is briefed by a nurse before getting inoculated with a Covid-19 vaccine shot at the Khayelitsha Hospital in Cape Town on February 17, 2021. (Photo by GIANLUIGI GUERCIA / POOL / AFP)

La corruzione, «benefit» del potere

«L’Anc è fortemente diviso – spiega padre Pearson – tra chi pensa che il potere sia l’occasione per approfittare [per arricchirsi], come fecero i bianchi prima, e chi ha una visione diversa. Il precedente presidente, Jacob Zuma, è accusato di molti casi di corruzione e irregolarità negli appalti. Secondo una stima, a causa della corruzione, sia nel pubblico che nel privato, il paese avrebbe perso tre trilioni di rand (circa 170 miliardi di euro, ndr), una cifra molto elevata per un paese a medio reddito come il nostro. Ogni atto di corruzione è un furto ai poveri. Rubando questi soldi si è sottratto un enorme investimento in servizi sociali per la gente, casa, educazione».

Nel mondo della politica è difficile togliere la corruzione, perché chi è dentro si è abituato a beneficiare dei suoi frutti.

La fazione del presidente attuale non è nel filone della corruzione, ma di chi lotta contro essa. Ramaphosa, sindacalista prima e poi uomo d’affari, è stato molto attivo nella lotta anti apartheid. «Purtroppo è arrivato al potere con una maggioranza molto piccola, per cui se vuole fare qualcosa, lo deve fare a piccoli passi, altrimenti mette a rischio il suo futuro politico».

Ramaphosa lavora molto con le commissioni, che si occupano dei casi di corruzione nelle diverse istituzioni di governance: «Verificano ad esempio i flussi di reddito di persone con incarichi importanti. Per cambiare le persone, il presidente usa le commissioni, in questo modo non può essere accusato di favoritismi. Però il processo ha bisogno di più tempo. Intanto almeno non sacrifica il suo avvenire politico nel breve periodo».

Suo feroce oppositore è Ace Magashule, segretario generale dell’Anc che guida una fazione del partito legata a Zuma. «Il presidente ha chiesto a Mashule e altri di dimettersi dai loro incarichi di partito. Ma questi non ne hanno intenzione. Si andrà allo scontro che potrebbe arrivare alle aule del tribunale. È un momento molto delicato», sostiene padre Pearson. «C’è un gruppo di persone nell’Anc che difende la democrazia. Ci sono alcuni veterani del partito che dicono: “Questa gente sta buttando tutto quello per cui abbiamo lottato e siamo finiti in carcere”. Per cui appoggiano Ramaphosa affinché faccia pulizia».

«Fortunatamente in Sudafrica abbiamo istituzioni molto indipendenti: il sistema giudiziario, la stampa, la libertà accademica, il diritto di organizzarsi e criticare il governo. Sono tutte cose che stanno ancora funzionando molto bene. E noi come chiesa stiamo appoggiando queste istituzioni, affinché la democrazia resti forte».

Migranti africani? No grazie

Il Sudafrica, essendo una delle economie più importanti del continente, attira molti africani dei paesi confinanti, e non solo, alla ricerca di lavoro e di una vita migliore. Padre Pearson si occupa della tematica: «La legislazione e la Costituzione in Sudafrica su migranti, rifugiati e richiedenti asilo è abbastanza liberale, sulla carta. Nella pratica c’è la tendenza a ridurre le possibilità e i diritti della gente che viene nel paese. Non sappiamo quanti siano, ma si stima intorno ai 4 milioni da altri paesi africani, dei quali la maggior parte ha passato la i confini di stato illegalmente, evitando i posti di frontiera».

Atti di xenofobia ricorrente occupano spesso le cronache. «Le cause sono molte, tra le quali complesse ragioni storiche. Uno dei motivi è il lavoro. Il tasso di disoccupazione nel paese è di circa il 32%, ovvero una persona su tre non lavora, senza contare i sotto occupati, che sono un’altra categoria. La gente pensa che i pochi lavori che ci sono siano minacciati dai migranti, i quali sono disposti a lavorare per salari più bassi e per più tempo, non appartenendo a sindacati. In realtà analisi e studi mostrano che non è esattamente così», sostiene Pearson.

«Anche a livello governativo, ci sono molti segnali, nelle politiche e nelle leggi, di chiusura verso gli stranieri, principalmente nei confronti degli africani. Per un europeo o un indiano, venire a vivere in Sudafrica non è così difficile, mentre per un nero africano sì. La chiamiamo esclusione strisciante, ovvero attuata poco alla volta».

Molti migranti fanno dei lavori, creano piccoli business, come la vendita di bevande e frutti per strada, altri hanno competenze e trovano lavoro in aree nelle quali i sudafricani non sono qualificati. «Vengono nella speranza che qui le cose siano un po’ migliori, perché nei loro paesi se la passano male, ad esempio in Zimbabwe. Sappiamo che ci sono circa due milioni di zimbabwesi che vanno e vengono dal Sudafrica. Alcuni lavorano sei mesi poi tornano indietro. Prendono i rischi per venire qui, perché nel loro paese non c’è nulla. Molti migranti però arrivano e non trovano lavoro, così aumentano il numero dei poveri», conclude padre Pearson.

La pandemia che preoccupa

Il lockdown a causa della pandemia è stato rigido in Sudafrica e solo adesso è meno restrittivo. «La pandemia è sotto controllo ma c’è molta preoccupazione per una terza ondata, a causa delle varianti e della stagione invernale che si avvicina», indica padre Pearson, «inoltre è chiaro che l’economia non può affrontare un altro lockdown duro».

Il nostro interlocutore termina con un monito: «L’anno prossimo ci sarà il congresso dell’Anc. Ramaphosa dovrebbe essere rieletto dal partito. In quell’occasione i falchi sperano di farlo fuori».

Marco Bello

Covid relief projects


Pennellate di Sudafrica

Il Sudafrica si trova all’estremo Sud del continente africano. I primi europei a toccare le coste di questo paese, grande quattro volte l’Italia, furono i portoghesi nel 1487. Da allora se ne servirono come scalo obbligato gli inglesi, i francesi e gli olandesi diretti verso oriente. I primi che ne rivendicarono il possesso, costruendo una base fortificata, furono i coloni olandesi che arrivarono a Città del Capo nel 1652. Essi cominciarono subito a espropriare la terra agli indigeni (Boscimani e Ottentotti).

Questi coloni, con 200 ugonotti francesi, formarono la comunità boera, che cercò poi l’indipendenza dall’Olanda.

Nel 1795 l’Olanda, occupata dalla Francia, chiese aiuto all’Inghilterra, e questa decise di occupare una parte del Sudafrica. Seguirono poi lunghe tensioni e guerre fra boeri e inglesi che si conclusero con la vittoria di questi ultimi. Nel frattempo in Inghilterra avveniva la rivoluzione industriale e le fabbriche necessitavano di molti minerali: l’Africa del Sud poteva darglieli.

I coloni, padroni di tutte le miniere, avevano però il problema della manodopera. La popolazione africana viveva ancora esclusivamente di agricoltura. Il governo locale, composto di soli bianchi, emanò delle leggi fatte apposta per costringere la popolazione a lasciare le terre e andare a lavorare in miniera. Così però i raccolti diminuirono e le famiglie s’impoverirono. Dall’Asia poi, soprattutto dall’India, arrivarono in cerca di lavoro numerosi immigrati.

Agli inizi del XX secolo, i bianchi decisero, sulla base di conquiste militari, di impadronirsi di quasi tutta la terra dei neri.

Nel 1951 si sancì la divisione dei bianchi dal resto della popolazione, e poi la separazione degli africani in gruppi linguistici. Nacque così l’apartheid: un’astuta struttura politica che assicurava alla minoranza bianca di avere il dominio su tutto il paese e sulla maggioranza nera.

Nel 1991, grazie anche alle pressioni internazionali, il governo del Sudafrica si aprì alla formazione di un governo di transizione multietnico e nel 1993 fu pubblicata una bozza della Costituzione per l’abolizione di ogni forma di discriminazione. Con le elezioni popolari del 1994, il paese iniziò a respirare una nuova aria di libertà e tranquillità, sotto la guida del presidente Nelson Mandela. La strada percorsa è stata lunga, ma il Sudafrica di oggi è un paese pacifico, affrancato dal suo passato e consapevole del suo potenziale economico.

Economia

Le potenzialità economiche del Sudafrica sono impressionanti. Tra di esse, una delle principali è il settore minerario che produce il 30% delle entrate totali di valuta straniera. Grazie a esso il Sudafrica è uno dei paesi più ricchi al mondo e le sue compagnie di estrazione sono molto importanti e di notevoli dimensioni (sono presenti vasti giacimenti di oro, zinco, uranio, platino, piombo, ferro, argento e miniere di diamanti).

Molto importanti sono l’industria chimica, della lavorazione della plastica e l’industria dei mezzi di trasporto. Quest’ultima ha registrato una crescita pressoché continua anche grazie alle società multinazionali dell’automobile attratte dagli incentivi del governo di Pretoria. La Fiat, ad esempio, ha avviato nel ’99 la produzione in Sudafrica delle sue automobili destinate ai mercati emergenti.

Un altro settore importante è quello agricolo che ha notevoli potenzialità, data la grande estensione di terreno coltivabile e un clima temperato. I prodotti del Sudafrica stanno ora conquistando i maggiori mercati africani, e non solo.

Altri due settori sono quello delle attrezzature mediche, in forte espansione grazie all’estensione dei servizi sanitari alla popolazione nera, e quello dei sistemi di sicurezza, provocato dalla piaga, purtroppo molto diffusa nella realtà sudafricana, della criminalità.

Il visitatore straniero è subito colpito dagli alti muri di recinzione e dai fili elettrici che circondano le abitazioni della popolazione bianca e delle fabbriche. Con la fine dell’apartheid, nel 1994, i bianchi hanno abbandonato i centri cittadini delle principali città andando a insediarsi nelle periferie che nel tempo si sono trasformate in confortevoli centri residenziali e commerciali. La popolazione di colore invece ha intrapreso il percorso inverso, uscendo dalle townships in cui era stata relegata (anche se tuttora esse sono vicine alle grandi città e mostrano dimensioni impressionanti) per occupare i centri città svuotati.

Il turismo è un’altra realtà importante e ancora poco sviluppata in rapporto al potenziale esistente: i parchi a Nord di Johannesburg, la natura tropicale e il mare dell’area di Durban, la bellezza di Città del Capo con i vigneti a perdita d’occhio, le montagne dolomitiche, una fauna e una flora che lasciano senza fiato, sono solo alcuni aspetti che testimoniano la varietà della bellezza di questo paese.

Alle prospettive positive esistenti nel campo economico e politico, si oppongono però aspetti negativi, che gettano un’ombra sulle speranze di sviluppo di questo paese: l’altissimo livello della disoccupazione (32%), diffusa soprattutto nella popolazione nera, la scarsa formazione dei lavoratori, una situazione sociale con una forte disparità, la criminalità dilagante, la piaga dell’Aids che pare colpisca circa il 18% della popolazione.

Pietro Trabucco

 

Padre Benedetto Bellesi che ha servito in Sudafrica per molti anni e poi redattore e direttore di MC

Hanno firmato il dossier:

Archivio MC

 

 

 




Non voglio abituarmi

Testo di García Fernández P. Andrés |


Non voglio abituarmi.

No, non voglio.

Quando ogni giorno si sentono sparatorie accanto alla casa;
quando ogni giorno vedi decine di persone mangiare accanto ai topi, letteralmente, dai sacchi della spazzatura rotti che giacciono sui marciapiedi della capitale;
quando nelle code degli uffici o dei negozi, o dei mezzi pubblici si vedono solo volti tristi e stanchi, vestiti rammendati;
quando, nella capitale, l’acqua arriva nelle case dopo una o due settimane;
quando lo stipendio mensile di un impiegatonon è sufficiente per comprare solo quattro pagnotte.

Giorno dopo giorno… al punto che sembra (che tutto questo debba) essere normale.

Distribuzione di cibo a Carapita, periferia di Caracas, Venezuela (foto AfMC / James C. Patias)

No, non voglio abituarmi.

Non voglio abituarmi alla paura di parlare, perché perdi il lavoro e la borsa di cibo che potresti ricevere una volta al mese (dopo aver trascorso vari mesi nei canali del Delta Amacuro) …

Non voglio che la mia coscienza veda normale il contrabbando come l’unica alternativa per ottenere sapone e dentifricio, se non vuoi passare una settimana a remare (da villaggio sul fiume alla città più vicina, ndr) per vedere se il bonus che il governo offre per questo è arrivato …

Non voglio abituarmi a veder morire di tubercolosi persone lasciate abbandonate perché non possono arrivare in città…
Non voglio abituarmi a vedere bambini, giovani e adulti privati della possibilità di studiare per mancanza di quaderni e altro materiale didattico, per mancanza di libri, per mancanza di un salario degno per gli insegnanti…

Non voglio abituarmi a sentire ogni giorno che “gli altri sono i colpevoli”, gli altri non ci lasciano, gli altri…

Non voglio abituarmi a pensare che il corona-virus sia da incolpare per tutto, anche di quello che continua a non funzionare come (non funzionava) prima (del virus)…

Né voglio abituarmi a vedere la resilienza di così tante persone.

Caracas, coda per comperare cibo (Jaime C. Patias /AfMC)

Voglio rallegrarmi per ogni persona che si rialza, per ogni tentativo, per ogni sospiro di speranza.

Voglio sognare di nuovo con ogni sorriso, con ogni carezza, con ogni sforzo.

Voglio che si imprima a fuoco nella mia anima la gioia di quella bambina che dice alla mamma di sapere già le vocali e del suo fratellino più grande che, con espressione di trionfo, mi dice che lui sa già leggere e scrivere.

Voglio continuare ad emozionarmi nel vedere due anziani camminare per strada mano nella mano, innamorati; e ascoltando quei giovani fidanzati che sognano come sarà la loro famiglia, la loro storia d’amore.

Voglio rimanere senza parole di fronte alla bellezza del fiore che cresce umilmente completando con il suo colore e profumo la sinfonia della giungla e anche davanti a quella che cresce in città…

Voglio sentirmi una sola cosa con l’universo nel bel mezzo della tempesta e quando la leggera brezza mi accarezza…

Voglio fremere con ogni persona che sogna una nuova umanità e impegnarmi per ogni persona che costruisce giustizia e pace con il suo stile di vita e anche con chi lo fa attraverso i movimenti sociali e i tribunali…

Voglio gioire per tutti gli sforzi fatti in favore della riconciliazione delle persone e dei popoli.

Voglio cantare con ogni persona che si rialza dopo ogni caduta, cercando di essere migliore.

Voglio dirvi che oggi migliaia di persone si sono riconciliate, che sono nati migliaia di bambini, che centinaia di migliaia di innamorati si sono baciati (sì, anche nella quarantena), che centinaia di popoli continuano ad organizzarsi per riprendere i loro diritti, per recuperare la loro storia, le loro terre, la loro cultura, la loro dignità …

Oggi, anche oggi, come ieri e come domani, l’amore continua a vincere e a generare vita in tutto l’universo.

Voglio dirvi quello che già sapete: che Dio è Amore e che lui vince sempre e per sempre. Non lo vedete?!

García Fernández P. Andrés, aprile 2021
da Nabasanuka Comunidad Apostólica, diocesi di Tucupita, Venezuela

Bambini Warao ( AfMC)




Viaggiare e rinascere

Viaggiare e rinascere

Questo mese affrontiamo il tema del viaggio attraverso tre libri molto diversi tra loro. Partendo dall’isola di Manus, a Nord della Papua Nuova Guinea, vero inferno dei migranti, passando dal Kenya, visto dagli occhi innamorati di un missionario, oggi vescovo di Asti, arriviamo alle nostre città che inquinano di luce il cielo della notte.

Nessun amico se non le montagne

L’isola di Manus è la quinta per grandezza della Papua Nuova Guinea. Gli australiani, com’è noto, in tema di accoglienza di profughi e immigrati, usano politiche al limite della barbarie, e hanno stretto un accordo con il governo papuano per fare di Manus un campo di detenzione.

Da quella prigione si esce solo se si accetta di tornare nel paese d’origine, diversamente si rimane lì. A tempo indeterminato, senza diritti, tutele, possibilità di riprendersi in mano la propria vita.

Le condizioni di detenzione sono disumane. Lo hanno certificato decine di indagini indipendenti, e il governo australiano fatica a mettere la polvere sotto il tappeto.

Il poeta curdo iraniano Behrouz Boochani ha passato a Manus cinque anni, finché la pressione internazionale gli ha fatto ottenere un visto temporaneo per la Nuova Zelanda.

Usando un vecchio telefonino e una singhiozzante copertura internet, Boochani, che oggi ha 37 anni, sms dopo sms, messaggio Whatsapp dopo messaggio, che inviava ad amici e colleghi, ha scritto un memoriale. Ha raccontato la sua vita nell’isola, la quotidianità del campo di detenzione, le storie dei compagni di viaggio e di prigionia.

La summa di tutto ciò è un libro che Add Editore ha pubblicato nel 2019 e che si intitola Nessun amico se non le montagne.

Quattrocentotrenta pagine molto dense, toste da leggere. E lo sono per due motivi: in primo luogo, Boochani è innanzitutto un poeta, e il suo sguardo, anche dal profondo degli inferi, rimane visionario, capace di crudezza e levità nello stesso verso. In secondo luogo, i versi di Nessun amico se non le montagne sono un lungo messaggio digitato dal telefonino: non c’è manoscritto, carta, penna, computer, stampante. Solo le sue dita su una piccola tastiera da tenere lontana dagli occhi delle guardie.

Un paradiso terrestre coperto di giungla e contornato da spiagge bellissime, può essere un inferno, e nessuno lo sa.

Dove Dio ha nome di donna

Avviciniamoci un po’, e arriviamo in Africa, nel Kenya di un sacerdote fidei donum torinese oggi vescovo di Asti, una diocesi con radici nel IV secolo d.C.

Monsignor Marco Prastaro è nato a Pisa nel 1968, ma è torinese d’adozione. È stato ordinato sacerdote nel 1988 dal cardinale Ballestrero, e inviato in Kenya, nella parrocchia di Lodokejek, dal card. Saldarini.

Ha lavorato nella diocesi di Maralal, 350 chilometri e 5 ore di fuoristrada a Nord di Nairobi. Un’esperienza africana che si è conclusa dieci anni fa, ma che ancora oggi porta i suoi frutti. Uno di questi è Dove Dio ha nome di donna, edito dall’Editrice missionaria italiana.

«Alcune esperienze […] segnano in modo permanente la vita – scrive mons. Prastaro -. La plasmano, la cambiano, a volte […] la trasformano completamente. Alla fine ci si ritrova un’altra persona. Questa è la resurrezione, che è sempre ingresso in una vita nuova».

A metà strada tra il diario e il recupero della memoria recente, il libro del vescovo di Asti ha un gran merito: è limpido, senza retorica, senza alchimie. È lo specchio di ciò che è la vita missionaria: un incontro tra culture lontane, che hanno bisogno di tempo per comprendersi, entrare in sintonia e dare frutto.

«Nel dicembre del 1997, per la prima volta pensai alla missione. Era appena rientrato per motivi di salute uno dei due preti della nostra missione diocesana di Lodokejek e, pensando a don Adolfo, rimasto lì da solo, mi dissi: “Qualcuno deve pur andare ad aiutarlo […]. Magari potrei andarci io”.

A volte le scelte sono più semplici di quanto uno possa immaginare. E così don Marco si ritrova tra i Samburu a condividere con loro una quotidianità molto complessa: il flagello della siccità che porta al limite la resistenza fisica e mentale, la diffusione dell’Aids, le centinaia di gravidanze indesiderate di donne bambine, il filo troppo sottile che separa la vita e la morte, il senso d’impotenza e rabbia di fronte a un bambino che muore di malaria perché non sei arrivato con quelle due pastiglie che gli avrebbero salvato la vita. E poi quella rassegnazione delle popolazioni locali, che impari a comprendere solo con il tempo.

Nel libro di Prastaro non ci sono risposte, ma il percorso di un uomo bianco che nel cuore dell’Africa cambia e rinasce.

Cieli neri

L’ultimo tratto del viaggio è a casa nostra, o quasi, e ha un altro orizzonte: il cielo.

Irene Borgna, giovane antropologa e guida montana con la passione per la scrittura, ha pubblicato da pochissimo Cieli neri. Come l’inquinamento luminoso ci sta rubando la notte, per Ponte alle grazie.

Savonese, trasferitasi in Valle Gesso, in provincia di Cuneo, con questo libro pone l’accento su un aspetto della nostra vita contemporanea, apparentemente marginale, ma legato al tema serio del cambiamento che la Terra sta subendo: se alziamo gli occhi al cielo non vediamo più le stelle.

A metà strada tra la lettura romantica della notte e l’analisi scientifica di un fenomeno naturale che scompare, Irene Borgna, a bordo di un camper, va a caccia delle aree del Nord Europa nelle quali, di notte, si può ancora essere travolti dal cielo stellato.

«La pianura Padana – scrive Irene – è tra le aree più abbagliate e abbaglianti dell’intero pianeta. […] Nessun italiano può dire di godere di una notte intatta […] otto italiani su dieci non riescono a scorgere la Via Lattea da casa propria».

La luce e il buio dettano i ritmi della vita, alterarli è una pessima idea. Esistono iniziative che cercano di portare il tema all’attenzione del grande pubblico. Irene Borgna invita il suo lettore: «Passa all’azione. Controlla che le luci di casa siano ineccepibili. Se quelle dei tuoi paraggi non ti convincono, consulta la documentazione e la normativa regionale […] sul sito cielobuio.org […], poi chiedi un consiglio su come iniziare a riconquistare la notte».

Il cielo più buio, e quindi luminoso, d’Europa, Irene lo trova. Per scoprire dove, vale la pena leggere il suo libro.

Sante Altizio




Marsabit: Da «maisha magumu» a «maisha mazuri»

testo di Giuseppe Inverardi e Gigi Anataloni |


Dal 30 ottobre scorso non abbiamo più la franca risata e gli occhi allegri di monsignor Ambrogio che è stato per 25 anni vescovo della diocesi di Marsabit in Kenya. Ora dal cielo continua l’opera di intercessione già iniziata nel santuario della Consolatrice sul monte di Marsabit.

Lo ricordo bene quel giorno. Ero in noviziato, quando il 9 febbraio 1957 ci fu comunicato che tre nostri confratelli venivano ordinati sacerdoti a Washington. Uno di loro era padre Ambrogio Ravasi. Erano stati i primi ad essere inviati a studiare teologia alla Catholic University of America. Un atto coraggioso e lungimirante da parte della Direzione generale di allora. L’interculturalità, anche teologico accademica, faceva capolino.

Ambrogio Ravasi, sacerdote, e missionario. Il sacerdozio missionario ha caratterizzato tutta la sua vita. Aveva cuore e spirito pastorale anche quando era occupato in altre attività e in uffici amministrativi. Sia a Buffalo, che a Somerset, tutti potevano contare sulla sua pronta disponibilità per vari servizi religiosi. Era gioia per lui.

Consacrazione e piscopale di mons Ambrogio Ravasi a bellusco, suo paese natale, da parte del card Otunga e dei vescovi Gatimu e Njenga dal Kenya.

Un uomo gioioso

Consacrazione episcopale di mons Ambrogio Ravasi a Bellusco.

Gioia, semplicità, serenità lo connotavano. Tutti ne venivano toccati e ne parlavano con ammirazione. Accoglieva e accomiatava con sorriso di cordialità.

Conosco pochi missionari poliedrici come lui, per obbedienza, o necessità, o carisma. Negli Stati Uniti è stato insegnante, maestro dei novizi, primo superiore e formatore del seminario di Buffalo, poi superiore delegato, quindi incaricato della direct mail (il servizio di corrispondenza con i benefattori, ndr), e anche direttore della rivista Consolata missions.

Visse un episodio drammatico come maestro dei novizi, fortunatamente senza conseguenze. Un novizio, veterano di guerra, all’improvviso impazzì. Brandendo un coltello minacciò padre Ravasi. Non so con quali convincenti parole lo dissuase, ma fu salvo.

1971, in Kenya

Nel 1971 raggiunse finalmente il Kenya, una destinazione attesa da anni, per svolgere esplicita attività missionaria. Il suo desiderio fu però tradito. Lo mandarono subito come insegnante e cappellano al Teacher’s college di Egoji, diocesi di Meru, dove svolse un apostolato significativo tra i giovani studenti che si preparavano a essere insegnanti.

Dopo soli tre anni, fu eletto vice superiore regionale dei missionari in Kenya, un servizio a tempo pieno. Rifiutata la rielezione nella speranza di poter finalmente essere inviato nei villaggi più remoti, dal 1977 al 1981, come l’Allamano, dovette accettare la «parrocchia più grande», e divenne superiore e formatore dell’incipiente seminario dei missionari della Consolata a Langata, alla periferia di Nairobi.

Erano i primi passi in Africa della formazione di missionari nativi del paese, attraverso gli studi di filosofia prima, e il noviziato e gli studi teologici poi.

Il «nuovo» doveva inserirsi sull’albero della tradizione del carisma, e la tradizione doveva accogliere il nuovo culturale. Un futuro inedito ma promettente di fecondità. Padre Ravasi ne era convinto.

La formazione nel nuovo contesto richiedeva discernimento, pazienza, fiducia, apertura, realismo. E se l’educazione, come afferma don Bosco, è un’arte dell’amore, tanto più lo era nelle nuove circostanze. Padre Ravasi possedeva i necessari requisiti, e li esercitava con intelligenza e cuore. Quante conversazioni e considerazioni assieme ai suoi cooperatori formatori, alle quali partecipavo pure io (padre Inverardi, allora superiore generale, ndr), per tracciare un cammino illuminato.

Mons Ambrogio Ravasi in dialogo con donne samburu all’inaugurazione e benedizione della nuova chiesa di Lodokejek.

Nel 1981, vescovo

Le voci della candidatura di padre Ravasi a vescovo di Marsabit già circolavano. La supposizione divenne certezza quando nel 1981 a Roma, durante il Capitolo generale dei missionari della Consolata, il cardinal Angelo Rossi, prefetto di Propaganda Fide, si appartò con lui e gli parlò a lungo. Doveva far breccia nella sua resistenza. Alla fine padre Ambrogio, per obbedienza, accettò. Vescovo di Marsabit.

La consacrazione avvenne il 18 ottobre, vigilia della giornata missionaria mondiale, al suo paese, Bellusco (allora nella provincia di Milano) per le mani di ben tre vescovi africani: il cardinal Maurice Otunga di Nairobi e i vescovi Cesare Gatimu di Nyeri e John Njenga di Eldoret.

2002 a Tuthu, mons Ravasi durante la celebrazione del primo centenario della presenza dei missionari della Consolata in Kenya.

La diocesi nata grande

Marsabit è la diocesi creata dal nulla nel 1964 per mons. Carlo Cavallera, quando lodevolmente si dimise da vescovo di Nyeri per passare la mano al primo vescovo keniano, mons. Cesare Gatimu, suo ausiliare dal 1961.

Il Marsabit del deserto, delle strade impolverate, delle distanze interminabili, degli shifta (banditi guerriglieri somali, ndr), dei gruppi etnici in conflitto tra loro per le scarse risorse, delle difficoltà a non finire. Lo zelo e l’intraprendenza di mons. Cavallera avevano fatto fiorire il deserto già a cominciare dal 1952. Allora, in piena ribellione Mau Mau, aveva incoraggiato i suoi missionari a entrare nelle terre del Nord, formalmente parte della sua diocesi di Nyeri, ma chiuse ai missionari dal potere coloniale inglese, per visitare i campi dei prigionieri politici a Baragoi. Più tardi entrarono per assistere le piccole comunità di cattolici che già esistevano nei centri principali dove c’erano funzionari governativi e commercianti originari da Goa in India.

Erano sorte, così, missioni in luoghi strategici con i loro addentellati di evangelizzazione e promozione umana: asili, scuole, dispensari, pozzi. Più tardi aveva iniziato a Maralal la scuola per catechisti e il seminario, il Good Sheperd seminary, per la formazione di sacerdoti dai popoli nomadi.

Inaugurazione e benedizione della nuova chiesa (ancora incompleta) della cappella di Lemsigiyioi a Suguta Marmar, voluta da padre Luigi Andeni e benedetta da mons Ambrogio Ravasi.

Impegno continuo

Non era facile subentrare a mons. Cavallera. Tuttavia, con personalità e stile diverso, mons. Ravasi continuò a far crescere la diocesi, sì da portarla alla sua «moltiplicazione». Nel 2001 nacque la diocesi di Maralal (circa 21mila km2), con mons. Virgilio Pante come primo vescovo, nel distretto Samburu a Sud, lasciando ancora a Marsabit un territorio di oltre 80mila km2 al Nord.

Il vescovo, ricco di umanità ed energia, era molto vicino ai missionari e missionarie e alla gente. Affrontava sfide e situazioni difficili con invidiabile serenità. Vedeva bene i problemi, e sapeva comprendere e accompagnare. Sempre dialogante, ma determinato ed energico quando necessario. Reagiva, agiva, decideva. Forte la sua voce, più forte il suo carattere.

Era un eccellente comunicatore. Scriveva moltissime lettere. Sia a Somerset quando, incaricato della direct mail, era a contatto con i benefattori, sia dopo. Le sue lettere non erano corte, perché ricche di notizie.

Io non ho mai convissuto con lui nella stessa comunità. Ma eventi, circostanze e attività ci hanno messi vicini sia negli Stati Uniti che in Kenya, e dopo. Vicini… è dire nulla. Vicini e fratelli. Abbiamo condiviso riflessioni, decisioni, cammini. La sintonia di convinzioni e valori era perfetta. Era sempre una gioia incontrarsi e ricordare. Askofu (vescovo) Ravasi, un autentico missionario dalla Consolata.

Vescovo emerito

Raggiunti i limiti di età, nel 2006, ha dato le dimissioni e la diocesi è passata sotto la cura di mons. Peter Kihara che, da buon missionario della Consolata, ha lasciato la più centrale diocesi di Muran’ga con i suoi agricoltori montanari kikuyu per stare con i pastori delle savane e deserti del Nord.

Il vescovo Ravasi, ormai emerito, ha chiesto allora, e ottenuto, di poter restare nella diocesi che ha tanto amato e, dopo un anno nell’episcopio, conscio del rischio di essere una presenza difficile per il suo più giovane successore, si è trasferito nel «Maria Mfariji house of prayer shrine» (Maria Consolatrice casa di preghiera e santuario), da lui fatto costruire in cima ai monti di Marsabit, per poter fare quello che sentiva ormai essere il suo servizio principale alla «sua sposa»: pregare.

Al Maria Mfariji shrine di Marsabit presso la tomba di padre Paolo Tablino.

Maria Mfariji Shrine

Il santuario della Consolata consolatrice (Mfariji è colei che dona consolazione, faraja, ndr), a 1.500 metri, è adagiato sulla montagna alle spalle della cittadina di Marsabit. È la realizzazione di un sogno di mons. Carlo Cavallera che voleva ringraziare la Consolata per le meraviglie operate in quella regione, a partire da quella che lui considerava la miracolosa apertura di quei territori «proibiti al Vangelo».

Diventando vescovo, mons. Ravasi aveva fatto suo quel progetto, ma per venti anni, altre priorità come scuole, acqua, salute, lotta alla fame e povertà, nuove missioni, i catechisti, il seminario e l’impegno per la convivenza pacifica tra i diversi gruppi etnici, avevano assorbito tutte le sue forze.

L’anno giubilare del 2000 ha dato un nuovo stimolo all’antico sogno. Trovato un architetto italiano disposto a sognare con lui, ha coinvolto i santuari in tutta Italia a dargli una mano e, intanto, ha maturato l’idea di costruire non solo un santuario per ringraziare la Madre di Dio, ma soprattutto un centro di preghiera e formazione per tutta la diocesi. Il tutto arricchito dal «safaria ya imani» (il viaggio della fede), quarantatre grandi quadri che presentano la storia della Salvezza e sono una calamita che attira tanti visitatori. Un luogo con una comunità residente che prega e insegna a pregare. Sia con l’esempio della vita che attraverso incontri, ritiri, lectio divina e quanto altro può aiutare a vivere più profondamente la propria fede.

Iniziata la costruzione nel 2002, il santuario è stato inaugurato nel 2006 e poi ampliato con una piccola casa del pellegrino per coloro che desiderano fermarsi per qualche giorno di ritiro.

Gennaio 2009, nel Consolata shrine di Nairobi al funerale di padre Giuseppe Bertaina.

Come Mosè sul monte

L’amore alla Consolata lo aveva indotto a costruire quel santuario, una meraviglia per l’ancora giovane chiesa del Marsabit.

Lui ci aveva creduto. Per questo nei suoi ultimi anni è rimasto lassù, su quel monte, come Mosè con le mani alzate a intercedere per il suo popolo. Là, accanto alla tomba di un altro grande pioniere del Nord, padre Paolo Tablino, il suo corpo ora dorme un sonno eterno di pace, ma veglia in intercessione per la chiesa del Marsabit, che ha servito con il prodigo amore del Buon Pastore.

«Maisha magumu»

Caro Ambrogio, con benevola facezia più volte esclamavi «maisha ni magumu» (la vita è dura). Vero. Tanti ripetevano scherzosamente il tuo ritornello. Vita dura: sfide, difficoltà, problemi. Ma pure sogni e progetti. Non ti arrendevi. Quante realizzazioni. Ora non farai più lunghi viaggi faticosi. Solo riposo. Non più deserto, ma i prati ubertosi di una «maisha mazuri» (vita bella e buona) che il Buon Pastore ti dona in premio. A te, servo umile e fedele.

Giuseppe Inverardi
a cura di Gigi Anataloni

Mons Ravasi ritratto ai piedi della croce in uno dei 43 grandi dipinti sulla storia della Salvezza al Maria Mfariji shrine di Marsabit.


Dai campi della Brianza alle savane del Kenya

  • 1929: nasce a Bellusco il 17/02, da Nazzareno e da Stucchi Maria.
  • 1935-1941: frequenta le scuole elementari a Bellusco.
  • 1941-1943: a Vimercate, la scuola di Avviamento al lavoro.
  • 1943-1945: sospesi gli studi, aiuta i genitori nel lavoro dei campi; sono gli anni più duri del secondo conflitto mondiale.
  • 1945-1947: a 16 anni entra, a Montevecchia, tra i missionari della Consolata per iniziare gli studi ginnasiali.
  • 1947-1952: prosegue gli studi alla Certosa di Pesio (Cuneo), con l’anno di noviziato e la professione religiosa il 10/11/1951.
  • 1952-1953: anno di filosofia a Torino.
  • 1953-1957: destinato agli Stati Uniti, si laurea in teologia presso l’Università Cattolica di Washington; il 9/02/1957 è ordinato sacerdote dal delegato apostolico Amleto Cicognani, sempre a Washington.
  • 1957-1971: nei 14 anni di permanenza in Usa, riveste diversi incarichi: dal 1957 al 1963 si dedica alla formazione nei seminari di Cromwel, Batavia e Buffalo; dal 1963 al 1968 ricopre la carica di superiore dei Missionari della Consolata negli Stati Uniti; dal 1968 al 1971 è incaricato della animazione missionaria e redige la rivista «Consolata Missions».
  • 1971: è destinato alle missioni del Kenya.
  • 1981: il 30 luglio, Giovanni Paolo II lo nomina vescovo di Marsabit.
  • 1981: il 18 ottobre è consacrato vescovo a Bellusco in Brianza.
  • 2006-2020: diventa vescovo emerito e si ritira in preghiera nel Maria Mfariji house of prayer shrine in Marsabit.
  • 2020: il 30 ottobre riceve la chiamata finale al Cielo.

 

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Camminiamo la speranza

Testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


Papa Francesco conclude il primo capitolo della nuova enciclica «Fratelli tutti» con un invito: «Camminiamo nella speranza» (Ft 55). È un invito coraggioso e bello in questi tempi duri, sofferti e contraddittori in cui la tentazione è quella di gettare la spugna e prendere quel che si può senza preoccuparsi del futuro e degli altri.

Questa pandemia, con cui volenti o nolenti siamo costretti a fare i conti, se da una parte può essere l’occasione per tirar fuori il meglio di sé (come molti ci stanno dimostrando pagando anche con la vita), dall’altra fa emergere modi di essere e agire perlomeno discutibili e decisamente dannosi per tutti. Alcuni di questi atteggiamenti negativi sono cronici e fanno parte da sempre della nostra stessa fragilità umana. Altri invece sono nuovi, alimentati ad arte dalla concezione idolatrica e materialistica del mondo che oggi sembra dominare quasi ovunque.

La nuova enciclica elenca un numero impressionante di situazioni negative («Le ombre di un mondo chiuso») che abbracciano sia la dimensione personale che sociale. Partendo dai sogni andati in frantumi e dalla mancanza di progettualità, evidenzia tutte le «ombre» analizzando la «logica dello scarto» (che esclude bambini e anziani, alimenta il razzismo e specula sul costo del lavoro) ai «diritti umani non uguali per tutti» (la dignità  calpestata dei poveri e delle donne, la schiavitù e il traffico di persone), i «conflitti e paure» e la «globalizzazione del progresso fine a se stesso»; le «pandemie e flagelli» della storia e le «frontiere discriminanti», «l’illusione di una vera comunicazione» e le «sottomissioni culturali ed economiche», arrivando a sottolineare il «disprezzo e disistima dei poveri e dei marginali della storia e dell’economia».

È una lista di «ombre» dettagliata che non vi presento nella sua completezza perché riempirebbe da sola tutta questa pagina, ma che vale la pena di affrontare per svegliarci dal torpore e riconquistare la libertà di essere autenticamente uomini. Benché papa Francesco presenti un quadro duro e impietoso, non cede al pessimismo o alla rassegnazione, e reagisce invitando a camminare insieme nella speranza. Perché «la speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale […] per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa».

Parole che mi hanno aperto il cuore, perché la speranza è l’anima della missione e ogni missionario (ogni discepolo) è un «camminatore di speranza».

 

E  la speranza non delude. È bello vedere in questi giorni persone audaci che continuano a non arrendersi alle «ombre», ma vivono fino in fondo la loro umanità, anche pagando di persona. Il nostro presidente Mattarella ha riconosciuto la bella testimonianza di Willy e don Roberto, ma accanto a loro ci sono le migliaia di infermieri e medici, insegnanti e volontari, sacerdoti e religiosi che si sono dedicati a servire gli altri e continuano a farlo con generosa dedizione anche a costo della propria vita. La loro testimonianza ci incoraggia ad andare avanti, anche se a piccoli passi. Noi oggi vinciamo «le ombre» non con azioni dirompenti, ma con la forza di innumerevoli piccole candele che brillano nel buio. Piccole candele di amore che ci permettono di guardare in faccia al nostro vicino («prossimo») per quello che è, chiamandolo per nome, creando relazione, scoprendolo come sorella o fratello, persona umana al di là degli stereotipi e degli slogan.

Camminare (nel)la speranza è scegliere e difendere la vita, soprattutto dei più indifesi e fragili come i bimbi non ancora nati e indesiderati e gli anziani. È accogliere ogni persona come persona, senza discriminazioni ed etichette (di «razza», di genere, di provenienza, di condizione sociale). È «gentilezza» e attenzione all’altro, passando dall’io al noi, senza mettere il «mio» diritto al primo posto sempre e a ogni costo. È fermarsi e staccare la spina dalla frenesia delle cose da fare e avere per essere all’altezza delle aspettative del mondo. È reagire all’informazione martellante, veloce, ossessiva, che gioca con i tuoi sentimenti e le tue paure invece di farti usare la testa.

È dare tempo al silenzio e alla preghiera, all’ascolto della Parola di Dio, contro il rumore che ci assorda. È andare a messa la domenica come atto di amore agli altri e dichiarazione di libertà contro la dipendenza dai riti idolatrici del divertimento e consumismo che svuotano le tasche ma non riempiono il cuore. Forti della speranza che non delude, camminiamo insieme per costruire un mondo secondo il sogno di Dio.

 




Noi e voi, lettori e missionari in dialogo

L’indimenticabile padre Silvano

Domani (23/09) ricorrono sei anni dalla morte di padre Silvano Sabatini (nella foto, ndr.)!

A padre Silvano io devo molto: la sua amicizia, la sua visione d’insieme, la ricerca della verità, l’amore per l’alterità, per la missione, per le popolazioni indigene, per la sua famiglia missionaria, tutte cose che mi hanno aiutato a crescere e a trovare un equilibrio.

Una volta gli dissi che, andandolo a trovare all’ospedale di Venaria, in verità, non andavo a trovare lui, ma me stesso! Infatti, quando uscivo da lì, la «nebbia», che a volte si addensa nelle nostre menti, nei nostri cuori, si diradava e sentivo che quelle visite frequenti mi facevano bene. Silvano comunicava interesse, vita, dinamicità anche in un reparto di lungodegenza per anziani!

A Silvano devo il fatto che leggo la mia vita in modo «unitario»: giovane ragazzo ero entrato nei missionari della Consolata per diventare prete. Sono stato in Brasile e ho avuto la fortuna di vivere un anno a Roraima. Poi mi sono sposato, ho avuto una figlia. Il mio matrimonio è entrato in crisi, anni dopo ho incontrato in J. la mia «dolce metà» (così la chiamava Silvano!) … ebbene potrei leggere la mia vita, come tanti fanno, come «cassetti separati», e invece no, Silvano mi ha aiutato a scorgere negli avvenimenti della vita un «filo conduttore», a cominciare da quell’amore per la missione che mi accompagna sin da piccolo e non mi ha mai lasciato.

Padre Silvano, intercedi presso Dio per il Brasile, per le popolazioni indigene, per i tuoi confratelli perché oggi il momento storico è «terribile».

Paolo Guglielminetti
Torino, 22/09/2020

Eccoci! Ora spetta a noi…

[…] Noi riviste, siti e realtà editoriali impegnate nell’informazione e nell’animazione missionaria ci sentiamo interpellati dalle parole che Papa Francesco scrive nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2020. «Eccomi, manda me» è un invito che sentiamo rivolto in maniera particolare al nostro compito di comunicatori in questo momento in cui tanti fratelli e sorelle sono alla ricerca di una parola vera di speranza per alleviare tante paure e chiusure rese ancor più evidenti dalla pandemia.

«Eccoci, manda noi». A raccontare che davvero «siamo tutti sulla stessa barca». Il Papa lo ripete oggi a noi, riproponendo le parole da lui pronunciate la sera del 27 marzo in una piazza San Pietro deserta. Perché l’esperienza del Coronavirus ha reso evidente quanto una malattia possa renderci ugualmente fragili, da una parte all’altra del mondo. Ora spetta a noi il compito di far vedere che anche in questa grande tragedia che ha già portato via più di un milione di vite sono sempre i poveri a pagare il prezzo più alto. Come tocca a noi mostrare che anche per tanti altri mali che affliggono il mondo di oggi è così. Che anche le guerre alimentate dai profitti dell’industria delle armi, la povertà prodotta da uno sfruttamento iniquo delle risorse e del lavoro di fratelli e sorelle, il dramma della fame già da alcuni anni tornata a crescere in troppe aree del mondo, la distruzione del creato che, in nome del profitto di pochi, spoglia la vita di intere comunità, sono virus davanti ai quali nessuno può sentirsi davvero immune.

«Eccoci, manda noi». […] E allora tocca a noi mantenere aperto lo sguardo sulle strade nuove che lo Spirito continua ad aprire nelle periferie. Narrare la fede testimoniata a prezzo della vita sulle frontiere più sofferte, la speranza seminata sui banchi delle scuole di ogni latitudine, la carità che trasfigura ciò che agli occhi del mondo sembrava piccolo e inutile. Tocca a noi far sì che la testimonianza che ci arriva dalle Chiese dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina scuota ancora le nostre comunità uscite quanto mai spaesate da un’esperienza che ci costringe a mettere da parte la comodità rassicurante del «si è sempre fatto così».

[…] Tocca a noi far scoprire che in missione, persone di culture e religioni diverse si incontrano per riconoscersi insieme figli e figlie dell’unico Dio. […] E che guardare negli occhi ogni persona è sempre il primo passo per costruire percorsi di riconciliazione anche là dove le ferite lasciate dai conflitti sono più profonde. […]

Dal messaggio dei Media missionari italiani (FeSMI)
 del 1° ottobre 2020

[testo integrale sul nostro sito e su quelli delle riviste associate alla Fesmi]

 




Tra persecuzioni e rinascite

testo di Giorgio Bernardelli |


Dall’Henan nel 1870 a Canton oggi. La missione che più di ogni altra ha segnato la storia del Pime (Pontificio istituto missioni estere) compie 150 anni. Dalla Cina colonia di allora alla Cina colonialista di oggi, seminare il Vangelo è sempre una sfida tra difficoltà e persecuzioni.

Mai come durante questo 2020 la Cina è stata al centro dell’attenzione del mondo: dalle notizie legate al Covid-19 fino allo scontro tutto digitale su 5G e Tik Tok, la geopolitica ha passato ai raggi X ogni mossa di Pechino. Mentre il duro confronto con i giovani dei movimenti pro democrazia a Hong Kong ha mostrato tutte le contraddizioni del modello cinese.

In Cina da 150 anni

In questi stessi mesi, anche il Pontificio istituto missioni estere si è trovato a guardare alla Cina, ma da un altro punto di vista: nel 2020 cadono, infatti, i 150 anni dall’arrivo dei primi quattro missionari dell’istituto nella Cina continentale.

Dall’Henan – la regione «a Sud del fiume (Giallo)», immenso territorio nell’area interna considerata la culla della civiltà cinese – cominciò, infatti, nel 1870, la missione che più ha segnato la storia del Pime. Un tessuto di uomini, strutture, diocesi create quasi da zero, ma soprattutto di relazioni con le persone che nel giro di qualche decennio diedero vita a quel legame profondissimo tra il Pime e la Cina che nemmeno il Calvario durissimo vissuto dai cristiani in questo grande paese durante tutto il Novecento sarebbe riuscito a interrompere.

Passando per Wuhan

Era stata Propaganda Fide a chiamare nel vicariato apostolico dell’Henan l’allora Seminario lombardo per le missioni estere, il primo nucleo milanese del Pime, fondato da mons. Angelo Ramazzotti nel 1850.

La guida ecclesiale di quel territorio era stata affidata al trentottenne padre Simeone Volonteri, un missionario cresciuto nella Milano dei fermenti risorgimentali e con una prima conoscenza del mondo cinese alle spalle, maturata in dieci anni di missione a Hong Kong, dove il Pime era già arrivato nel 1858.

Con lui, per la nuova missione nella Cina continentale, partirono anche padre Angelo Cattaneo, bergamasco, padre Vito Ruvolo, di origini campane, e il siciliano Gabriele Cicalese.

L’8 febbraio 1870 lasciarono Hong Kong alla volta di Shanghai; da lì, poi, risalito per un primo tratto lo Yangtze – il «fiume Azzurro» -, sbarcarono nell’Hubei, nel porto di Hankow, che è poi la parte più antica di Wuhan, la città che la pandemia di questi mesi ci ha fatto conoscere.

Fino a Jingang

Hankow a quel tempo era l’ultimo porto di approdo per i piroscafi e, per questo motivo, era il grande crocevia per quanti si addentravano nelle province interne della Cina. Da lì, dunque, i missionari italiani impiegarono altri venticinque giorni di navigazione sul fiume Han, un’affluente dello Yangtze, per raggiungere l’Henan. Lo fecero a bordo di due piccole barche trascinate da terra con le funi per risalire controcorrente, mentre loro trascorrevano il proprio tempo sottocoperta studiando il cinese.

Solo il 19 marzo sarebbero infine sbarcati a Lahoekou, da dove raggiunsero Jingang, la cittadina nei pressi di Nanyang dove aveva sede la missione ereditata dai missionari Lazzaristi.

Un’antica comunità

Che cosa trovarono allora i missionari del Pime nell’Henan?

Un territorio immenso, abitato da 30 milioni di persone tra i quali esisteva già una piccolissima comunità di circa tremila cristiani.

Erano stati i gesuiti nel XVII secolo a tornare in questa regione dopo che a Matteo Ricci era stato raccontato che, per secoli, a Kaifeng (a circa 300 km da Nanyang, ndr.), sempre nello Henan, erano rimasti degli «adoratori della croce», verosimilmente discendenti dei missionari siriaci giunti già nel VII secolo nel cuore del Celeste Impero (come testimoniato dalla celebre stele di Xi’an).

Nel Settecento, poi, ai Gesuiti erano subentrati i Lazzaristi che, nel difficile contesto cinese dell’epoca – ostile al cristianesimo per reazione ai tentativi di penetrazione coloniale delle potenze europee -, avrebbero pianto nell’Henan due martiri: Francesco Regis Clet nel 1820 e Giovanni Gabriele Perboyre nel 1840.

Nel 1860 la Francia, con la Convenzione di Pechino, aveva ottenuto dall’ormai debole dinastia Qing la libertà per la Chiesa di predicare e battezzare in tutto l’impero. Ma nelle province come l’Henan, lontane da Pechino, a dettare legge restavano amministratori e milizie locali il cui atteggiamento nei confronti dei cristiani non era mutato.

Un contesto difficile

I missionari dell’allora Seminario lombardo per le missioni estere sapevano quindi che la missione alla quale erano stati chiamati non sarebbe stata facile.

Vestiti con abiti cinesi, con la testa rasata e il codino secondo l’usanza locale, vivevano una vita poverissima: «Tre orride pareti di terra e paglia insieme impastate e una quarta di pura carta formata da me stesso, costituiscono la mia, per altro, cara stanza – scriveva da Jingang padre Angelo Cattaneo -. Eppure, sono arcicontentissimo, né cangerei per tutto l’oro del mondo».

Un altro dei primi missionari, padre Vito Ruvolo, sarebbe morto di tubercolosi a soli 28 anni a pochi mesi dal suo arrivo.

Da stranieri si trovavano inoltre a fare i conti con l’ostilità aperta dei letterati confuciani, incattiviti dalle mire coloniali delle potenze europee: padre Volonteri stesso, nel 1873, dovette affrontare una pubblica umiliazione quando, recatosi a Kaifeng per discutere con le autorità di una casa acquistata dai Lazzaristi a Nanyang, ma mai utilizzata a causa dell’avversione dei funzionari locali – si ritrovò in mezzo agli insulti di una folla minacciosa, sobillata dalle stesse autorità.

Carità e saggezza

In un contesto così difficile, fu il cuore generoso dei missionari a scardinare i pregiudizi.

Accadde in particolare durante una terribile carestia scoppiata nel 1877: le ancora povere strutture delle missioni diventarono rifugio e soccorso per tutti, grazie anche a una sottoscrizione promossa in Italia. Fu questo a cambiare radicalmente l’atteggiamento dei mandarini locali, oltre alla saggezza di Volonteri – dal 1873 ufficialmente vescovo della regione – che ebbe sempre molta cura nel tenere le giuste distanze dall’abbraccio ingombrante e pericoloso delle potenze coloniali. Per esempio, fu tra i primi vescovi cattolici in Cina ad alzare la voce contro la piaga del commercio dell’oppio, alimentato dagli interessi europei. Il missionario arrivò persino a scrivere a Propaganda Fide chiedendo un pronunciamento chiaro di condanna da parte della Santa Sede; una presa di posizione che sarebbe però arrivata solo dopo qualche anno.

Nello Shaanxi

Parallela a questa prima presenza nell’Henan, se ne aggiunse poi presto un’altra nel vicino Shaanxi. Una missione legata, questa volta, al Seminario dei Santi Apostoli Pietro e Paolo per le missioni estere, l’istituto romano fondato da mons. Pietro Avanzini che, nel 1926, Pio XI avrebbe unito al Seminario lombardo, dando vita al Pontificio istituto missioni estere.

Questo secondo gruppo di missionari giunse nel vicariato di Hanzhong nel 1887, sempre con il compito di far crescere una Chiesa dal volto cinese.

I primi martiri

Nello Shaanxi sarebbe però cominciata per il Pime anche l’esperienza del martirio in Cina. Capitò nel contesto della rivolta dei Boxer che nel 1900 scatenò in tutto il paese un’ondata gravissima di violenze contro i cristiani. Nel vicariato di Hanzhong fu colpito a morte padre Alberico Crescitelli, missionario campano originario di Altavilla Irpina, giunto in Cina dodici anni prima, e che sarebbe figurato tra i 120 martiri cinesi canonizzati da Giovanni Paolo II nell’ottobre 2000. Una morte violenta che non fermò la dedizione del Pime al popolo cinese. Al contrario: le chiese, le scuole, gli orfanotrofi, gli ospedali realizzati a servizio della gente, continuarono a crescere, accompagnati dall’attenzione alla formazione di sacerdoti e catechisti locali capaci di incarnare il Vangelo dentro la propria cultura, e anche da uno sguardo attento alla bellezza della cultura e delle tradizioni cinesi, come testimoniano – ad esempio – le splendide fotografie di padre Leone Nani, che ha lasciato con le sue lastre uno spaccato straordinario della Cina rurale dell’inizio Novecento.

Uccisi ed espulsi

Accanto a Crescitelli anche altri missionari del Pime in Cina sarebbero stati chiamati a donare la propria vita per il Vangelo: padre Cesare Mencattini nel 1941 nell’Henan, e poi mons. Antonio Barosi, vescovo di Kaifeng, nel 1942, ucciso insieme ai padri Girolamo Lazzaroni, Mario Zanardi e Bruno Zanella, straziati e gettati ancora vivi in un pozzo. E padre Emilio Teruzzi, sempre in quello stesso 1942, anno drammatico per la presenza del Pime in Cina.

Tutti e sei questi missionari caddero vittime di quella miscela esplosiva creata dall’intreccio tra la guerra civile combattuta tra nazionalisti e comunisti, l’invasione giapponese, e le scorribande di milizie sbandate che semplicemente approfittavano della situazione.

Uccisi prima della prova che sarebbe poi arrivata con la vittoria di Mao e della Cina comunista.

All’inizio degli anni Cinquanta, infatti, per tutti i missionari del Pime in Cina, arrivò il tempo più difficile: la persecuzione, i processi popolari, le violenze fisiche e psicologiche in carcere. Fino alle espulsioni a frotte tra il 1951 e il 1954.

Erano quelli gli anni in cui padre Ambrogio Poletti, missionario del Pime nella zona della diocesi di Hong Kong più vicina al confine tra l’ex colonia britannica e la Cina continentale, si recava quasi quotidianamente al ponte di Lo Wu ad accogliere i missionari di ogni congregazione e nazionalità scacciati dai comunisti. «Ne ho accolti più di tremila», avrebbe scritto nelle sue memorie ricordando quell’esodo.

I frutti che rimangono

Con il 1954 si chiuse dunque la presenza fisica del Pime nella Cina continentale. Ma che cosa sarebbe rimasto di quanto seminato dai 263 missionari dell’istituto che avevano svolto il loro ministero nelle province dell’Henan e dello Shaanxi nei 74 anni trascorsi dall’arrivo di padre Volonteri e dei suoi compagni?

Nonostante il tentativo del regime comunista di cancellare le tracce degli «stranieri», e la persecuzione ancora di più dura patita dai cristiani negli anni della Rivoluzione Culturale, i frutti della loro testimonianza non svanirono.

I primi ad accorgersene sono stati i confratelli che, a partire dagli anni Ottanta, quando da Pechino sono cominciate a giungere le prime aperture per le comunità cristiane, sono potuti tornare a visitare l’Henan e lo Shaanxi.

Figure come padre Giancarlo Politi (scomparso lo scorso anno) e padre Angelo Lazzarotto, con i loro viaggi, hanno potuto toccare con mano quanto, nonostante la tempesta immane abbattutasi su queste Chiese, la memoria dei missionari fosse rimasta viva.

Con emozione, per esempio, il Pime ha potuto apprendere che nella cittadina di Zhoukou – dove in un pozzo secco erano state nascoste le spoglie dei quattro missionari dell’istituto uccisi insieme nel 1942 -, i cristiani locali avevano costruito una nuova chiesa proprio in corrispondenza di quel luogo di cui non si era persa la memoria. Esattamente come nella Roma degli inizi del cristianesimo si costruivano altari sulle reliquie dei primi martiri.

Uscire dalle catacombe

La missione del Pime in Cina negli anni più recenti è stata quella di accompagnare nelle poche modalità concretamente possibili la vita delle comunità che, un passo alla volta, provavano a uscire dalle catacombe. Ad esempio attraverso il racconto delle storie dei tanti sacerdoti, religiosi e laici cinesi che avevano subito ogni sorta di persecuzione nel furore ideologico della Rivoluzione Culturale, ma anche aiutando la Santa Sede a ricostruire la fotografia di ciò che restava delle diocesi cinesi; premessa indispensabile per quel cammino di unità tra i cattolici in Cina che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno auspicato e che l’accordo voluto da Francesco con il governo di Pechino sulla nomina dei vescovi, pur con tutte le sue difficoltà, sta faticosamente cercando di promuovere.

Le suore di San Giuseppe

Anche dentro la cosiddetta «Chiesa ufficiale» – pienamente riconosciuta da Pechino – ci sono segni che parlano dell’eredità lasciata dai missionari del Pime.

Ne è un esempio la congregazione delle Suore Missionarie di San Giuseppe, un istituto femminile fondato nell’Henan da un missionario del Pime – padre Isaia Bellavite -, che quest’anno ha festeggiato il suo centenario.

Queste religiose, in origine, erano un gruppo di donne che nella zona di Anyang nel 1920 si erano prodigate per il servizio a chi aveva perso tutto durante un’alluvione devastante del fiume Giallo. In quel frangente, padre Bellavite intuì quanto preziosa sarebbe potuta essere per l’evangelizzazione una congregazione di suore cinesi: un ordine religioso locale, in grado di arrivare anche là dove il missionario straniero non avrebbe mai potuto accedere. Quando arrivarono gli anni della repressione comunista con l’espulsione dei missionari, le suore furono disperse, e ciascuna tornò alla propria famiglia; ma alcune di esse, in maniera nascosta, sono rimaste fedeli per decenni alla propria vocazione, e quando è stato possibile, hanno ridato vita alla loro comunità.

A quel punto la sorpresa dello Spirito è stata vedere anche giovani ragazze cinesi unirsi a loro.

Così oggi le Suore Missionarie di San Giuseppe sono una congregazione locale della diocesi di Anyang, un ordine che conta 127 religiose, impegnate nella pastorale ma anche nel servizio agli ammalati in una piccola clinica oftalmica che avevano aperto già negli anni Trenta e che è stata loro restituita dalle autorità locali.

Nel segno della carità

Nel segno della carità si inserisce anche un altro legame tra il Pime e la Cina continentale cresciuto negli ultimi anni: l’amicizia con Huiling, un’ong al servizio dei disabili, fondata e animata da una donna cattolica cinese, Teresa Meng Weina, e oggi indicata come un modello dalle stesse autorità cinesi.

In oltre trent’anni, Huling ha infatti aperto più di cento centri in tredici metropoli cinesi, con trecento operatori che assistono oltre mille disabili. Un cammino che i missionari del Pime da Hong Kong hanno costantemente sostenuto, in alcuni casi anche tornando per lunghi periodi in Cina a condividerne l’esperienza.  Da questa collaborazione sono nati anche progetti particolarmente significativi per la promozione della cultura della disabilità: una fattoria dove i portatori di handicap di Huiling lavorano alla periferia di Guangzhou (la città che in Occidente chiamiamo Canton), o una compagnia teatrale che porta in tutta la Cina il messaggio di questa realtà.

Per questo motivo, proprio al cammino di Huiling il Pime ha voluto che fosse legato il ricordo dei suoi 150 anni in Cina, attraverso una raccolta fondi intitolata «AvviCINAbili senza barriere» promossa in Italia. Un modo concreto per andare oltre la retorica sulla Cina come grande potenza, e per ripartire invece dal volto di chi è fragile, il più adatto a gettare ponti anche nei contesti più difficili.

Per tornare a incontrare – anche in un contesto così segnato da paure e contrapposizioni – un’altra Cina, più vicina al tesoro straordinario scoperto nel 1870 dai primi missionari nell’Henan, e provare a scrivere insieme alle comunità cristiane locali una nuova pagina di speranza per il mondo intero.

Giorgio Bernardelli




Cinquant’anni in Sudafrica


Breve presentazione del calendario 2021, dono ai lettori di MC.

I missionari della Consolata arrivano «per forza» in Sudafrica nel 1940 quando sono prelevati dal Kenya e internati a Koffiefontein. Dopo la guerra rimangono in contatto con i molti ex prigionieri italiani ormai stabiliti nel paese e nel 1948 aprono una casa a Città del Capo per missionari che devono fare gli studi di specializzazione necessari per essere riconosciuti come insegnanti nelle colonie inglesi.

Superiore è padre Lorenzo Maletto che lavora intensamente con la comunità italiana e prepara il terreno per le future missioni tra gli Zulu e gli Swati.

Con i missionari, a Città del Capo arriva anche un quadro della Consolata (nella foto). Una tradizione dice che sia stato un dono del fondatore, il beato Giuseppe Allamano, ai missionari in Etiopia, e che mons. Luigi Santa, già vescovo Gimma (fino al 1941), e poi di Rimini, lo abbia conservato come caro ricordo e poi dato ai pionieri di Città del Capo, dove la casa per studi è benedetta nel 1949. Quel quadro diventerà come la «bandiera» dell’Imc in Sudafrica.

Inizio della nostra presenza di evangelizzazione

Il 10 marzo 1971 arrivano in Sudafrica i padri Giovanni Viscardi e Giovanni Berté, rispettivamente dalle missioni del Tanzania e del Kenya. La prima missione è Piet Retief, al confine con lo Swaziland, dal 2018 chiamato Eswatini (in lingua locale: Umbuso weSwatini, regno degli Swazi). Da lì l’evangelizzazione prende due indirizzi: rurale e urbano.

Damesfontein (1972-2009) è il simbolo dell’evangelizzazione rurale attraverso la creazione di piccole comunità, l’accompagnamento spirituale, la formazione di catechisti e leader, il tutto unito alla promozione umana, all’impegno per la salute e la scuola.

Quella urbana comincia con un’équipe di quattro missionari nel 1991 nella vasta zona di Newcastle, Kwa-Zulu-Natal, e partecipa attivamente al cammino del nuovo Sudafrica, inaugurato da Nelson Mandela il 27 aprile 1994. Il ministero dei missionari è un lievito che forma catechisti, leader di settori e organizzazioni di comunità sia nella parrocchia che per la città.

Animazione missionaria e vocazionale

Nel 1995 i missionari della Consolata aprono nell’arcidiocesi di Pretoria, a Waverley e Mamelodi, con lo scopo di farsi conoscere di più in Sudafrica, dare un po’ di grinta missionaria alla chiesa locale e, possibilmente, accogliere anche giovani che vogliano condividerne la missione. Nel 2004 aprono a Daveyton (township), raggiungendo così il cuore politico e sociale del paese.

Il seminario di teologia

Pur non avendo vocazioni sudafricane, i missionari fondano un seminario teologico interculturale a Merrivale (Durban), che può ospitare una dozzina di seminaristi da varie parti del mondo. È il 1° settembre 2008, primo giorno di primavera in Sudafrica. I giovani seminaristi provenienti da diverse nazioni, sono un segno della primavera dell’evangelizzazione di questa nazione multirazziale e multireligiosa.

Un vescovo della Consolata

Il 18 aprile 2009, il padre argentino José Luis Gerardo Ponce De Leon, è ordinato vescovo del Vicariato di
Ingwavuma. Nel novembre 2013 diventa vescovo di Manzini (la capitale del regno di Eswatini) 2013. Dal 2016 gli Imc sono con lui nel piccolo regno.

Missione sempre nuova

Il movimento dei popoli della terra non finisce mai. L’immigrazione è all’ordine del giorno, e tanti rifugiati e migranti da vari paesi africani confluiscono in Sudafrica. La loro presenza è significativa nelle missioni della Consolata, specialmente a Mamelodi (Pretoria), Daveyton (Johannesburg) e Manzini. Sono sfide sempre nuove, rese più impegnative oggi da crisi economiche che aumentano la xenofobia, e dalla pandemia del Covid-19, che colpisce duramente il paese.

A volte si ha la sensazione di essere impreparati di fronte a sfide così grandi, ma la paura non può paralizzare la missione.

Con il continente africano per il mondo

Per i missionari della Consolata, celebrare 50 anni di presenza in Sudafrica è anzitutto ringraziare per il cammino fatto. Tanti dei missionari dei primi giorni ci hanno lasciato e sono in cielo a ricevere il premio dei servi fedeli e, da lassù, fanno il tifo per noi. Ma la missione continua e il Signore manda forze nuove che non solo sono servi di speranza e fraternità in Sudafrica, ma seminano consolazione in tante parti del mondo, Europa compresa.

Lode al Signore e alla nostra Madre Consolata.

da appunti di padre Rocco Marra,
superiore del gruppo in Sudafrica

PS: «Sanibonani» (significa «ti vedo, riconosco la tua presenza») è il tipico saluto in lingua zulu.