Missione AMO, quattro ruote per servire

Progetto sostenuto dagli Amici Missioni Consolata


Aiuto migranti Oujda

Esteso poco meno di mezzo milione di chilometri quadrati (una volta e mezzo l’Italia, ndr.), il Marocco è un paese montagnoso al Nord e desertico al Sud. La popolazione conta circa 37 milioni di abitanti, dei quali il 58% vive nelle città. Rabat, capitale politica, e Casablanca, capitale economica, sono le due più importanti. Le lingue ufficiali del paese sono l’arabo, il berbero e il francese.

L’economia è fondamentalmente agricola e di allevamento, ma il paese dispone anche di importanti miniere di argento, fosfato, piombo e zinco, e oggi ha un’industria turistica fiorente.

La religione dominante è l’Islam. La presenza cristiana è minima, anche se ha origini antichissime risalenti al terzo secolo d.C.

Oggi il paese conta due diocesi, Rabat e Tangeri, 35 parrocchie e 50 sacerdoti residenti.

Il paese è stato visitato da papa Francesco nel marzo del 2019 e in quello stesso anno, a ottobre, il vescovo Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat, è stato nominato cardinale.

Il numero totale dei cristiani è comunque molto esiguo, circa 25mila in tutto, e tra le comunità cristiane che vivono oggi in Marocco, si possono censire quasi novanta nazionalità, soprattutto studenti che provengono in gran parte da altri paesi dell’Africa subsahariana.

Dormitorio accanto alla chiesa di Oujda, Marocco

Crocevia di migranti

Il Marocco che nella seconda metà del Novecento ha esportato circa cinque milioni di emigrati, soprattutto verso i paesi industrializzati dell’Europa, oggi, con l’economia in forte crescita (almeno fino allo scoppio del

Covid), è diventato punto di attrazione e transito per migranti provenienti dall’Africa subsahariana.

Questo perché la fascia del Sahel, regione con radici antichissime e un tempo agognata da mercanti e viaggiatori, è ora un territorio complesso. Tutti i numerosi paesi che vi si affacciano, Senegal, Mali, Burkina Faso,
Niger, Ciad, Sudan e altri, infatti, si trovano in una situazione di grande precarietà a causa della crisi ambientale che provoca desertificazione e grave impoverimento.

Tutta l’area, poi, è anche uno snodo della politica internazionale sommersa. Qui avviene il traffico dei nuovi schiavi verso l’Europa, il commercio illecito di armi e droga, il terrorismo. Il tutto aggravato da cattivi governi e corruzione che impediscono lo sviluppo economico e, quindi, le misure per combattere il terrorismo jihadista che fa leva sulla povertà per reclutare nuovi seguaci.

Da anni si susseguono irruzioni nei villaggi, massacri e reclutamenti forzati di giovani. Questi sono costretti a diventare terroristi o a fuggire, e il Marocco è una delle vie di fuga preferite, perché più sicuro della Libia.

I Missionari della Consolata a Oujda

Entrata ufficiale del Missionari della Consolata nella parrocchia di St Louis a Oujda – La Messa è stata presieduta da S.E. Cristobal card. Lopez Romero, arcivescovo di Rabat

Negli ultimi anni, i Missionari della Consolata in Spagna hanno cercato un maggiore impegno nell’opera di accoglienza degli immigrati, la quale è un’opzione ad gentes della congregazione in Europa. Così hanno aperto una comunità a Oujda su invito del cardinale Cristóbal López.

Lo scopo della missione è di accogliere i migranti in questa città che si trova all’estremo Est del paese, a circa 15 km dal confine con l’Algeria, e a 60 km a Sud del Mar Mediterraneo.

Oujda è un luogo di transito per molte persone provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana che vogliono raggiungere l’Europa. Qui vi arrivano dopo aver attraversato il deserto e sofferto molte difficoltà.

Nella parrocchia di Saint Louis, già cattedrale al tempo del protettorato francese, chiesa enorme per una settantina di cristiani, quasi tutti di origini subsahariane, nel 2020 è arrivato padre Edwin Osaleh, keniano,
e nel 2021 padre Francesco Giuliani, in attesa che un terzo missionario riesca a ottenere tutti i necessari permessi per stabilirsi con loro e completare la comunità.

Dal 26 settembre 2021, giorno in cui la Chiesa ha celebrato la Giornata mondiale dei migranti e dei rifugiati, la parrocchia di Saint Louis è stata consegnata alla piena responsabilità dei  Missionari della Consolata.

L’impegno con i migranti

Padre Edwin sintetizza in quattro verbi l’impegno con i migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.

ACCOGLIERE significa innanzitutto offrire a migranti e rifugiati possibilità più ampie di ingresso sicuro e legale nei paesi di destinazione. Questo impegno comune è necessario per non accordare nuovi spazi ai mercanti di carne umana che speculano sui sogni e i bisogni dei migranti.

PROTEGGERE vuole dire assicurare la difesa dei diritti e della dignità dei migranti e dei rifugiati, indipendentemente dal loro status migratorio. Guardando la realtà di questa regione, la protezione va assicurata anzitutto lungo le vie migratorie, che sono spesso, purtroppo, teatri di violenza, sfruttamento e abusi di ogni genere.

PROMUOVERE significa assicurare a tutti, migranti e locali, la possibilità di trovare un ambiente sicuro dove realizzarsi integralmente. Tale promozione comincia con il riconoscimento che nessuno è uno scarto umano, ma è portatore di una ricchezza personale, culturale e professionale che può recare molto valore là dove si trova. Ma non dimentichiamo che la promozione umana dei migranti e delle loro famiglie inizia anche dalle comunità di origine, là dove deve essere garantito, insieme al diritto di emigrare, anche quello di non essere costretti a emigrare, cioè il diritto di trovare in patria condizioni che permettano una vita degna.

INTEGRARE vuole dire impegnarsi in un processo che valorizzi al tempo stesso il patrimonio culturale della comunità che accoglie e quello dei migranti, costruendo così una società interculturale e aperta. Sappiamo che non è facile entrare in una cultura che ci è estranea – tanto per chi arriva, quanto per chi accoglie -, metterci nei panni di persone diverse da noi, comprendere i loro pensieri e le loro esperienze. Così, spesso, rinunciamo all’incontro con l’altro e innalziamo barriere per difenderci.

Quattro verbi che qualificano la «Missione Amo» (Aiuto migranti Oujda).

Amc – Gigi Anataloni

Nella sala dove i migranti apprendono la lingua (lezione di francese) a Oujda

«Quattro ruote per… »

Gli Amici Missioni Consolata (Amc) si impegnano ad aiutare la «Missione Amo» provvedendo un mezzo essenziale per il servizio: un furgone multiuso, un Renault express intens, dal costo pari a 16.500 euro.

Il furgone verrà utilizzato per

  • recuperare i migranti che giungono nella zona malati, affamati ed esausti, e portarli al Centro di accoglienza della parrocchia, ai centri sanitari o al pronto soccorso per le cure necessarie;
  • trasportare e distribuire prodotti alimentari, per l’igiene o di protezione individuale, sia per il fabbisogno del Centro che per individui in necessità in varie parti della città;
  • accompagnare i migranti ai centri di formazione professionale e ogni altro bisogno prevedibile o imprevedibile.

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È possibile sostenere questo progetto visitando il «Punto missioni Consolata» di fronte al Santuario della Consolata a Torino o inviando offerte per «AMC progetto 4 ruote per servire» utilizzando i dati trovati a questo link.


Leggi il testo completo che illustra le attività di MCO nella pagina di Cooperando 2021, un anno di progetti, nonostante la pandemia

 

 




2021, un anno di progetti, nonostante la pandemia

 


Dopo il 2020, anche il 2021 è stato un anno difficile a causa del persistere della pandemia di Covid-19, che ha colpito in modo particolare tutti quei paesi che non hanno né le infrastrutture né i mezzi per adeguate campagne vaccinali.



20 Natali di solidarietà

Missioni Consolata Onlus è il braccio operativo del Missionari  della Consolata in Italia per sostenere i progetti dei loro confratelli  nei tre continenti dove annunciano il Vangelo con opere e parole.

È grazie all’aiuto generoso di voi, amici e benefattori, persone normali, che conoscete la fatica del vivere e del guadagnarsi il pane quotidiano se in centovent’anni (di cui 20 con la nostra Onlus) siamo riusciti  a realizzare scuole, ospedali, dispensari, centri per bambini abbandonati e donne vittime di violenza; se abbiamo «vestito gli ignudi, dato da mangiare agli affamati, consolato i prigionieri, dato l’acqua agli assetati, accolto gli stranieri», difeso la vita e l’ambiente, formato leader e quanto altro la creatività dell’amore è stata capace di inventare; se abbiamo fatto nascere  comunità cristiane vivaci e gioiose, costruito cappelle e chiese.

Grazie – Thank you – Asante sana – Ace olen – Akiba – Sobodi  – Matondo – šukran – Merci – Gracias – Obrigado.

Le sfide davanti a noi sono ancora tante, aggravate dalla pandemia,  dal cambiamento climatico e dall’irresponsabile attitudine dei potenti che non hanno occhi né cuore per i più poveri e i più indifesi.
Con il vostro aiuto potremo continuare a essere testimoni e servitori della misericordia di Dio e della tenerezza della nostra Consolata.
In queste pagine vi presentiamo solo alcuni dei progetti in corso. Ogni anno Mco pubblica il suo bilancio sociale sul sito missioniconsolataonlus.it nel quale sono presentati tutti i progetti e i conti relativi al periodo.

Per dare il vostro contributo trovate le informazioni necessarie
cliccando qui.

Vedi 20 Natali di solidarietà sul sito della Onlus



I Missionari della Consolata, che vivono in molte di quelle nazioni, per rispondere alle tante situazioni di difficoltà che il Covid-19 ha determinato, hanno avviato diversi progetti in favore delle fasce più fragili della popolazione.

Quella del Messico è una realtà molto dura per le donne. Padre Ramón Lázaro Esnaola, che da circa due anni lavora a San Antonio Juanacaxtle, stato di Jalisco, ne racconta le difficoltà e i drammi nei resoconti che condivide con confratelli e amici: «In questi mesi ho incontrato persone in situazioni davvero difficili: un’adolescente abbandonata quando aveva due anni alla quale la pandemia ora ha portato via anche la madre adottiva; una giovane donna a cui i cartelli del narcotraffico hanno ucciso il marito e di cui ora non sa nemmeno dove sia il corpo; tante donne, ragazze, bambine che subiscono maltrattamenti e abusi da parte padri, patrigni, compagni occasionali delle madri, parenti. E tante che il marito abbandona per un’altra e che si trovano sole, in condizioni economiche precarie, a crescere figli senza un compagno che le aiuti».

La violenza sulle donne è uno degli aspetti della violenza che permea di sé tutta la società messicana, dove gli omicidi sono 36mila all’anno, 29 ogni 100mila abitanti@. Per avere un metro di paragone, secondo i dati Istat, l’Italia nel 2019 ha avuto 315 omicidi, pari a 0,53 ogni 100mila abitanti@. In un simile contesto, è chiaro che «la violenza in tutte le sue espressioni – sui minori, familiare, di genere, giovanile, istituzionale … – è il nostro pane quotidiano», continua padre Ramón. «Ci sono giorni in cui, di fronte a certe storie, ci si sente davvero sobrepasados, sopraffatti. Poi, però, ci ricordiamo del motivo per cui siamo qui: per stare vicini alle persone, consolare e seminare speranza, e ritroviamo la forza per costruire il Regno».

Per sostenere padre Ramón e i suoi confratelli in Messico nello sforzo di offrire un’alternativa alle donne vittime di traumi, lutti e violenza, gli Amici Missioni Consolata avevano dedicato la mostra di solidarietà e la connessa raccolta fondi dell’8 dicembre 2020 al progetto Promuovi la vita difendi la donna@. Il progetto che padre Ramón ha seguito e realizzato in collaborazione con Mati, un’associazione locale di psicologi, ha avuto un costo di circa 16.498 euro, ha interessato circa 500 famiglie ed è quasi concluso, ma le attività della Casa Hogar Florecitas Madre Naty e di Mati continueranno a raggiungere decine di donne in condizioni di vulnerabilità.

Casa Hogar Florecitas Madre Naty

Acqua e allevamento per la Tanzania

Alla fine del 2020, i missionari della Consolata in Tanzania, in uno dei villaggi dalla missione di Pawaga, nella municipalità di Itudundu, Iringa, hanno realizzato un piccolo impianto idrico che serve 108 famiglie, una scuola e un dispensario. Fondi donati da privati, pari a circa 7.800 euro, hanno permesso di acquistare una pompa alimentata da un impianto fotovoltaico per connettere una fonte d’acqua con quaranta punti di distribuzione nel villaggio, in modo da garantire a tutte le famiglie di potersi procurare l’acqua senza dover percorrere chilometri a piedi. Il contributo degli abitanti del villaggio è consistito in venti giornate di lavoro volontario per installare la pompa e i tubi, montare i pannelli solari e piantumare alberi nel mezzo ettaro di terra che circonda la fonte d’acqua. Ora le oltre 750 persone del villaggio possono contare su un punto di distribuzione di acqua a meno di un chilometro dalla propria abitazione, in più la scuola primaria e il dispensario hanno impianti idrici adeguati.

Un altro progetto è a Kimbiji, nella diocesi di Dar es Salaam, dove, grazie al sostegno di Caritas italiana, si è avviata una piccola attività di allevamento generatrice di reddito per alcuni giovani per i quali la pandemia ha reso ancora più complicato trovare lavoro. La Banca Mondiale riporta che nel 2020 circa mezzo milione di tanzaniani è sceso sotto la soglia di povertà a causa delle restrizioni e delle conseguenze della diffusione del virus@. A Kimbiji, ora, diciassette giovani sono direttamente coinvolti nell’avvio di un allevamento di suini. A beneficiare della formazione fornita nell’ambito del progetto sulle tecniche di allevamento suino saranno fino a sessantacinque persone.

Una banca del sangue a Dianra

Al centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa D’Avorio, è in corso un progetto, sostenuto da un donatore privato e seguito da padre Matteo Pettinari, che si concentra sulla formazione del personale, sul miglioramento dei servizi del dispensario, come il trasporto dei pazienti, e sul sostegno delle attività legate alla salute infantile. Ma la parte del progetto che aggiunge al centro di salute un servizio fondamentale è quella della banca del sangue e delle trasfusioni. Avviata lo scorso settembre – dopo che ad agosto era arrivato il frigo per la conservazione delle sacche di sangue ed era stata completata la necessaria formazione del personale del centro -, la banca del sangue ha un ruolo fondamentale nel contrastare patologie, come l’anemia infantile strettamente legata alla malaria che è endemica nella zona.

Prima di questo intervento, spiegava nel progetto padre Matteo, era necessario andare nei centri trasfusionali più vicini, dai 30 ai 200 km di distanza su strade spesso impraticabili. «Ora, dal 14 settembre, data della prima trasfusione, a oggi», scriveva padre Matteo il 27 ottobre, «abbiamo già utilizzato 50 sacche di sangue: di queste, tre per trasfusioni a donne nel reparto maternità, le altre 47 sono tutte andate a bambini fra 0 e 5 anni».

Trasfusioni nel centr osanitario di Dianra

Progetti ancora aperti

In Mongolia si è concluso l’intervento che mirava a dotare il centro per i bambini di Chingiltei, nella periferia della capitale Ulan Bator, di uno spazio giochi con campo sportivo. Il centro è attivo dal 2017 e offre attività creative, ludiche e sportive, oltre al doposcuola per una trentina di bambini. Ora è pronto per tornare in funzione – la pandemia ne aveva imposto la chiusura – e per farlo deve acquistare materiale scolastico, identificare i bambini in condizioni di maggiore vulnerabilità per offrire loro borse di studio, e stipendiare il personale docente. Connesso con il lavoro del centro c’è anche un programma di sostegno per le famiglie più in difficoltà, alle quali vengono forniti beni di prima necessità.

veduta di Chingiltei, alla periferia della capitale Ulan Bator, Mongolia

Un posto sicuro per studentesse

Inhangoma è una missione che dista circa 30 chilometri da Mutarara, una cittadina di 60mila abitanti nella provincia di Tete, Nord del Mozambico. Ha un centro educativo che comprende una scuola secondaria frequentata da 1.250 alunni fra la ottava e la dodicesima classe. Gli studentati maschile e femminile, dove alloggiano gli allievi provenienti da zone lontane, sono sotto la responsabilità del ministero della Pubblica istruzione, ma la struttura per le studentesse è in uno stato fatiscente. Così, la mancanza di un alloggio sicuro e di condizioni igieniche adeguate scoraggia le ragazze che spesso abbandonano la scuola, in un contesto dove sono pochi gli studenti che arrivano alla fine del ciclo secondario. Il Mozambico ha un tasso di completamento della scuola secondaria inferiore al 24%, venti punti in meno della media dell’Africa subsahariana@.

«Da un po’ di tempo», spiega monsignor Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata e vescovo di Tete, «la diocesi ha ricevuto la richiesta di farsi carico di questo studentato femminile, a cominciare dal rifacimento del tetto fino alla tinteggiatura dei muri, dalla sostituzione di porte e finestre danneggiate, all’approntamento di servizi igienici adeguati». Questo primo intervento, per il quale monsignor Antunes ha chiesto sostegno a Missioni Consolata Onlus (Mco), ha un costo pari a circa 7.300 euro e offrirà un’ospitalità dignitosa e sicura a 45 ragazze che potranno così continuare i propri studi senza paure.

La scuola di Cantagalo

Una biblioteca per la scuola in terra indigena

La scuola indigena Shiminiyosi si trova nella comunità di Cantagalo nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Amazzonia brasiliana. È nata, come altre scuole indigene, in reazione all’imposizione da parte dello stato brasiliano di un sistema educativo che non tiene in considerazione le peculiarità storiche, linguistiche, ambientali e culturali dei popoli indigeni e tenta di omologarli alla cultura dominante.

Padre Joseph Mugerwa, che si occupa in particolare delle attività della comunità di Cantagalo, dove si trova la scuola, scrive:

«Nel dicembre 1988, le famiglie e le comunità di questa zona decisero, di propria iniziativa, di creare una scuola che fosse anche un luogo di valorizzazione della cultura indigena. Furono le famiglie degli studenti di allora e la comunità stesse, accompagnate dai missionari, che scelsero un luogo adatto e costruirono questa scuola, che oggi accoglie 120 alunni delle elementari. Su richiesta dei leader locali, la scuola è stata riconosciuta e approvata dal decreto del dipartimento dell’Istruzione dello stato di Roraima, ha un corpo docente di sedici insegnanti e il numero di studenti è in continua crescita».

Ma nonostante il riconoscimento ufficiale, la scuola non ha ricevuto alcun sostegno dallo stato per migliorare le proprie strutture. «Le piogge del 2019 hanno distrutto il tetto: con il progetto che presentiamo a Mco, dal costo di 9.749 euro, chiediamo assistenza per sistemare la struttura», precisa padre Joseph, «e per creare una biblioteca per gli studenti».

Lo stato dei bagni della scuola di Cantagalo

Oujda, al servizio dei migranti

Dal novembre 2020 i Missionari della Consolata sono attivi in Marocco, nella città di Oujda a 15 km dal confine con l’Algeria@.

Dal 26 settembre 2021 hanno la responsabilità piena della parrocchia di Saint Louis.

Qui sotto trovate i dettagli di questa nuova avventura missionaria che gli Amici Missioni Consolata vogliono sostenere con le loro iniziative di dicembre, in alternativa a quello che, prima del Covid-19, era la mostra dell’Immacolata.

Chiara Giovetti


 



Aiuto migranti Oujda | per dettagli clicca sul link qui sotto

Missione AMO, quattro ruote per servire

Padre Edwin di fronte alla chiesa di Saint Louis a Oujda

«Quattro ruote per… »

Gli Amici Missioni Consolata (Amc) si impegnano ad aiutare la «Missione Amo» provvedendo un mezzo essenziale per il servizio: un furgone multiuso, un Renault express intens, dal costo pari a 16.500 euro.

Il furgone verrà utilizzato per

  • recuperare i migranti che giungono nella zona malati, affamati ed esausti, e portarli al Centro di accoglienza della parrocchia, ai centri sanitari o al pronto soccorso per le cure necessarie;
  • trasportare e distribuire prodotti alimentari, per l’igiene o di protezione individuale, sia per il fabbisogno del Centro che per individui in necessità in varie parti della città;
  • accompagnare i migranti ai centri di formazione professionale e ogni altro bisogno prevedibile o imprevedibile.

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È possibile sostenere questo progetto visitando il «Punto missioni Consolata» di fronte al Santuario della Consolata a Torino o inviando offerte per «AMC progetto 4 ruote per servire» utilizzando i dati trovati a questo link.

 

 




Ragazzi dimenticati

Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.


testi e foto di Daniele Biella; dossier a cura di Luca Lorusso |


Sommario

Fantasmi in carne e ossa

I minori migranti senza famiglia in cerca di un approdo

Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.

«Ogni giorno e ogni notte attraversano i confini degli stati membri dell’Unione europea, premio Nobel per la pace, che continua a chiudere gli occhi di fronte alle violenze che sono costretti a subire». Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children Italia non parla di fantasmi, ma di persone, di minorenni stranieri non accompagnati.

Sono ragazzi soli, che lasciano l’inospitale madrepatria muovendosi, senza documenti validi, per mesi o anni, lungo rotte precarie e malsane. Si fermano ogni tanto per svolgere lavori di fortuna utili a guadagnare il pezzo successivo del viaggio. Magari hanno in testa una meta precisa: Inghilterra, Germania, Belgio, Francia, Olanda, ma il loro futuro è incerto. La loro condizione di migranti e di minori lontani dalla famiglia originaria, li espone alle leggi spesso anacronistiche degli stati che attraversano, e a persone senza scrupoli che lucrano sulle loro speranze.

Un disastro umanitario nero su bianco

Save the Children Italia, che ha come mission la salvaguardia dei minori e delle loro famiglie, ha compiuto di recente un passo importante per far uscire allo scoperto il tema della condizione dei migranti minori non accompagnati, portandolo sui tavoli del potere in Italia e in Europa: ha chiesto a due giornalisti – a chi scrive, e al fotoreporter Alessio Romenzi – di seguire le rotte percorse a piedi dai minori non accompagnati lungo le frontiere Nord dell’Italia, oggi più interessate dalle migrazioni forzate, ovvero quelle di Trieste e Udine in entrata e di Ventimiglia e Oulx/Claviere in uscita. Ad accompagnare i due giornalisti, per quasi due mesi di ricerca sul campo, Antonella Inverno, responsabile infanzia e adolescenza dell’Ong fondata a Londra nel 1919 da Eglantyne Jebb.

Lo scopo? Realizzare un report che mettesse nero su bianco il disastro umanitario in atto nelle strade e dentro i confini d’Europa – dove i riflettori accesi sono pochi -, che avesse come protagonisti i più vulnerabili, i ragazzini soli.

«Nascosti in piena vista» è il titolo del report, uscito il 17 giugno 2021, tre giorni prima della Giornata mondiale del rifugiato e alle porte del Consiglio d’Europa. Una cinquantina di pagine (consultabili e scaricabili dal sito: www.savethechildren.it/storie-di-minori-migranti) con un forte j’accuse verso le istituzioni europee che, appunto, lasciano diventare fantasmi persone che invece hanno diritto a un’accoglienza immediata e a una vita dignitosa.

Nascosti in piena vista

Sono 9.131 i minori stranieri non accompagnati censiti in strutture di accoglienza in Italia a fine agosto 2021 (in forte aumento rispetto al 2020 quando sono stati 7.080 quelli registrati nell’intero anno). Per il 97% sono maschi, l’87% ha 16-17 anni. Le nazionalità più frequenti sono Bangladesh, Tunisia, Egitto, Albania, Pakistan, Costa d’Avorio, Guinea Conakry e Afghanistan. Uno su tre si allontana dalla struttura dopo pochi giorni, con punte del 70% in alcune zone.

Altri dati interessanti emergono dall’analisi sul campo sulle frontiere meno monitorabili, quelle cui arrivano i migranti dalla cosiddetta «rotta balcanica», ossia quelle oggetto del report di Save the Children: i boschi tra Slovenia e Friuli Venezia Giulia, e i valichi e le montagne tra Liguria, Piemonte e Francia (come il «Passo della morte» tra Ventimiglia e Mentone): quasi nessuno si ferma in Italia, che siano minori soli o adulti e famiglie.

Nonostante la possibilità di fare domanda di asilo nel nostro paese, o, nel caso del minore, quella di venire accolto subito in comunità protette (come accade ai minori italiani, possibilità introdotta dalla Legge Zampa n. 47/2017, unica del suo genere in Europa), essi non si fermano, perché il loro progetto migratorio prevede di arrivare dove si trovano i loro famigliari, o comunque un numero maggiore di connazionali.

Tanti ragazzi afghani e pachistani, ad esempio, privilegiano l’Inghilterra o la Germania. Chi proviene dall’Africa subsahariana ed è francofono, vuole andare in Francia. Mentre iracheni e iraniani – nazionalità in crescita lungo le frontiere, anche famiglie con bimbi piccoli al seguito – puntano a diverse zone del Nord Europa.

L’aspetto più sconcertante che la ricerca mette in evidenza è che questi ragazzi in viaggio sono in balia di loro stessi. Se non fosse per il terzo settore (Ong, fondazioni, associazioni di volontariato, cooperative sociali, parrocchie) e per semplici cittadini che li intercettano rendendosi disponibili anche solo a dare loro un pasto caldo, un cambio di vestiti, o suggerire dove trovare un giaciglio per la notte, i rischi per loro aumenterebbero a dismisura.

Muri anacronistici e illegali

Il rifugio di Oulx, gestito dalla Fondazione Talità Kum; il presidio di Ventimiglia, nella sede di Caritas Intemelia, dove operano anche Save the Children, Diaconia Valdese e WeWorld; la postazione mobile della Croce Rossa Italiana a Claviere; i volontari dell’associazione Linea d’Ombra, con le associazioni Ics e StradaSiCura, nella piazza della stazione di Trieste dove i migranti arrivano con piedi e gambe devastati da settimane di cammino lungo la rotta balcanica, dopo privazioni e botte subite dalle forze dell’ordine di confine, soprattutto tra Croazia e Bosnia (si veda La dignità sotto i piedi, MC marzo 2021, ndr.). Ecco alcuni capisaldi di solidarietà in mezzo a un’indifferenza istituzionale che è capace di tramutarsi in un muro anacronistico, se non illegale.

Il muro di cui parliamo non è fatto dalle sole violenze fisiche subite dai migranti lungo alcuni confini d’Europa, come, appunto, quello croato o quello bulgaro, ma anche di atti illegittimi all’interno dei confini dell’Ue: diversi minori incontrati durante la ricerca hanno raccontato, ad esempio, di respingimenti subiti dalla polizia francese senza ricevere alcun documento in merito. Trattati come fantasmi, appunto. Altri si sono visti la propria data di nascita modificata dagli ufficiali di frontiera perché risultassero maggiorenni e quindi espellibili. Ci si chiede il motivo di questo accanimento, ma la risposta non arriva. Save the Children e tanti altri enti chiedono all’Unione europea per quale motivo non adotti leggi comuni per i minori, come per esempio un «lasciapassare» che permetta loro di chiedere aiuto dove si sentono più al sicuro.

I ragazzi migranti, invece, sono costretti a passare notti nei boschi o in mezzo alla neve delle montagne, vengono respinti e costretti a ritentare il passaggio. Nessuno di loro torna indietro. Tentano e ritentano non appena recuperate le forze, finché non ci riescono.

L’immagine è quella di un gioco dell’oca in cui tutti perdono: i migranti in termini di serenità mentale (quanto peserà dentro di loro la sensazione di essere considerati numeri e non persone?), le autorità che spendono milioni di euro in personale e attività di monitoraggio utili solo a tardare l’ineluttabile passaggio di frontiera, l’umanità stessa che vede quanto sia facile vanificare il messaggio ecumenico di papa Francesco sulla fratellanza tra i popoli.

L’ingresso in Italia: la fine del «game»

«Quando sbuchi dai boschi della Slovenia, ti può capitare di vederla all’improvviso. L’Italia. Trieste, il suo mare. La fine della rotta balcanica, il game over di settimane di cammino e mesi di attesa, preoccupazione, paura. Puoi ritrovarti nel paesino di Dolina, lungo la ciclabile della Val Rosandra, a Basovizza, o nella miriade di altri luoghi del Carso da cui puoi immetterti su una strada italiana e da lì proseguire il tuo viaggio migratorio nell’Europa che fa finta di non vederti o, quando ti trova, ti trattiene valutando se e quando può respingerti». Inizia così la parte del report di Save the Children dedicato all’ingresso in territorio italiano dal confine sloveno: in tutto, 232 chilometri impossibili da monitorare. Da qui passa almeno il 50% dei minorenni non accompagnati che transitano sul territorio italiano.

Nei boschi si trovano gli oggetti del passaggio delle persone: pettini, dentifrici, documenti, vestiti. Tutto viene lasciato nel bosco perché ora inizia una nuova vita nella quale si può e si deve lasciare il passato alle spalle.

Mauro Caputo, videomaker che abita proprio dalle parti di Dolina, ha realizzato su questi oggetti un intenso docufilm, No Borders. Flusso di coscienza. Lui, come molte altre persone, tentano di capire le esigenze dei profughi in cammino che arrivano a piedi alla stazione di Trieste, dove cercano di prendere treni per attraversare il Nord Italia.

Violenze impunite

Fino a un anno fa, come raccontano testimoni diretti, anche l’Italia si macchiava delle riammissioni di persone in Slovenia, a volte anche minori che raccontano di non avere avuto la possibilità di dire la propria l’età. Queste riammissioni sono state poi interrotte anche grazie all’opera di pressione legale di Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione.

Ora, chi viene intercettato, per esempio dai militari dell’Operazione strade sicure che pattugliano le vie tra i boschi, viene ospitato in un centro di quarantena, a Trieste come a Udine.

Adulti e minori non accompagnati vanno in strutture diverse tra loro. A gestire le strutture per minori, ci sono enti del privato sociale come la cooperativa Aedis a Udine, Casa dello studente sloveno e Duemilauno agenzia sociale a Trieste.

Dopo il periodo di isolamento, per i minori c’è l’ingresso in una comunità, ma i ragazzi, a questo punto, spesso fuggono per altre destinazioni.

«Voglio diventare informatico in Inghilterra, dove ho un cugino. Mi piacerebbe avere i miei genitori vicini, ma in Afghanistan non si può vivere bene e non è possibile studiare (già prima del ritorno al potere dei talebani, ndr.)», racconta Nadir, 16 anni. «Ai miei fratelli però dico di non fare il viaggio che ho fatto, perché in Bulgaria sono rimasto in prigione tre mesi, sono stato picchiato. Se dici che sei un minorenne, non ascoltano. Quando sono arrabbiati, picchiano e basta».

Testimonianze come la sua si moltiplicano, in particolare su quanto accade lungo il confine croato in ingresso dalla Bosnia. A metà ottobre, un video dell’equipe d’indagine giornalistica Lighthouse Reports ha mostrato scene di violenza ai danni di migranti anche molto giovani.

Svariati appelli all’Unione europea arrivano da più parti, ma finora sono rimasti inefficaci, dato che le autorità croate non hanno fatto nulla di più dell’avvio di una «commissione di monitoraggio» che avrebbe lo scopo di verificare i fatti, più che di processare i responsabili.

Nel frattempo, i «game» («giochi», come vengono chiamati dagli stessi migranti i tentativi di superamento delle frontiere) continuano, e ragazzi e adulti provano il passaggio di confine anche 10-15 volte prima di riuscire.

La psicologa Lorena Fornasir e il marito filosofo, Gian Andrea Franchi, fondatori dell’associazione Linea d’Ombra – a cui Missioni Consolata ha dedicato un reportage nel numero di marzo 2021 – molto attivi alla stazione di Trieste nel medicare le ferite dei migranti procurate dal viaggio, a metà ottobre sono ritornati a Velika Kladusa e Bihac, in Bosnia, dove hanno documentato con foto e racconti le condizioni di bambini, famiglie, adulti, anche in difficoltà psicofisiche, che rischiano la vita per superare la frontiera.

 

Ventimiglia, respingimenti dalla Francia

«Ho una ferita nella gamba di una pallottola che mi ha sparato un poliziotto libico quando sono scappato dal centro di detenzione», ci ha raccontato Gyasi, 17enne ciadiano. Durante l’intervista che gli abbiamo fatto, si trovava davanti alla struttura della Caritas Intemelia a Ventimiglia, di fianco ai binari della stazione ferroviaria da cui partono ogni giorno treni per la Francia.

Quei treni, Gyasi e tanti altri come lui, non li possono prendere, perché, seppure si trovino già sul suolo europeo, per effetto della sospensione dell’accordo di Schengen, non passerebbero al controllo: sono considerati irregolari.

Lui era arrivato un mese prima dalla Libia, dove era stato trattenuto e schiavizzato per venti mesi dalla malavita che sfrutta i migranti, e in quel momento voleva andare a Parigi. La notte prima era stato respinto dalla polizia francese: «Ho detto la mia data di nascita, 2004, quella con cui sono stato registrato allo sbarco in Sicilia. Ma non mi hanno creduto e mi hanno riportato in Italia scrivendo sul refus d’entrée una data che mi fa risultare maggiorenne». Sul suo certificato di nascita, che aveva con sé, era scritta la data del 2004. Ma non è bastato. La notte successiva, Gyasi ha ritentato, e non ha fatto ritorno. Qualche tempo dopo sul suo profilo Facebook ha messo la geolocalizzazione su Parigi: ce l’ha fatta, perlomeno ad arrivare alla meta.

Altri, invece, non ce la fanno, e sono messi a dura prova, rimanendo come «fantasmi» sospesi tra un luogo e l’altro.

A Ventimiglia, del resto, per tutto il 2021 non c’è stato nessun centro di accoglienza temporanea (prima della pandemia anche i minori soli potevano accedere temporaneamente all’hub della Croce Rossa), e questo ha significato una vita complicata all’addiaccio.

Ragazzi soli e allo sbando

Gli arrivi sono giornalieri, così come, del resto, le «ripartenze». Sono svariati, infatti, i modi in cui le persone cercano di passare a Mentone: a piedi via ferrovia o autostrada, o via sentiero, attraverso il temibile Passo della morte, sulla montagna a ridosso del mare. Per il Passo della morte si parte dal paesino di Grimaldi superiore. Lì vive Enzo Barnabà, storico e saggista che ha scritto, nel 2019, assieme a Viviana Trentin, un libro intitolato proprio così: Il Passo della Morte. Storie e immagini di passaggio lungo la frontiera tra Italia e Francia, nel quale narra la storia di questo passaggio attraverso i tentativi dell’ultimo secolo di superare la rete di confine.

I minori che arrivano a Ventimiglia sono reduci sia degli sbarchi in Sicilia sia del viaggio lungo la rotta balcanica. Vi arrivano in proporzioni simili, che variano a seconda del periodo: durante la ricerca erano maggiori gli arrivi dal «game». Ad aprile 2021, per esempio, dei 453 minori non accompagnati passati dal centro Caritas in cui Save the Children ha un Child friendly space (Spazio a misura di bambino), 149 erano stati registrati agli sbarchi. Il resto, 304 ragazzi, erano arrivati nella cittadina ligure dopo essere entrati in Italia in Friuli Venezia Giulia.

È un colpo al cuore incontrarli lungo il fiume Roja, alla periferia Nord della città. Lì vanno di sera per la distribuzione di viveri e per ricaricare i cellulari. Questi servizi sono offerti da attivisti di associazioni italiane e internazionali (per esempio 20K, Medecins du Monde e Kesha Nyia, che ha anche una cucina presidio vicino al punto di confine di Ponte San Luigi).

Li si può incontrare anche sui binari morti della stazione: spesso sono molto stanchi, alcuni in preda all’alcol che, in qualche modo, «lenisce le ferite» di quello che stanno vivendo, incalzati dai trafficanti che, nonostante i controlli, imperversano offrendo modi costosi e sempre più pericolosi per passare il confine.

Questi ragazzini sono davvero allo sbando: la loro presa in carico istituzionale, a livello europeo, ancor prima che italiano, dovrebbe avvenire al momento del primo ingresso in Europa. Invece sono qui, perché al posto dell’accoglienza hanno ricevuto dinieghi, e, in alcune frontiere, percosse.

La speranza supera il Monginevro

«C’è un pullman di linea che parte tutte le sere alle 19.45 da Oulx, operosa cittadina piemontese di montagna a pochi chilometri dal colle del Monginevro, confine tra Italia e Francia. Ogni persona che sale paga i 2,20 euro del biglietto che la porterà in 20 minuti al massimo a Claviere, ultimo centro italiano a quota 1.760 metri, meta sciistica incuneata nella Francia per tre dei suoi quattro lati. Dalla piazza Europa, nomen omen, dopo quattro chilometri di cammino su un piacevole sentiero senza troppo dislivello, si arriva a Mongénevre, territorio francese nel dipartimento Hautes-Alpes. Ma non tutte le persone che salgono sul pullman per Claviere potranno percorrere liberamente quel sentiero. Non ne hanno diritto, dice la Paf, la polizia di frontiera francese: devono chiedere asilo politico in Italia, non in Francia, se vogliono rimanere in Europa». A differenza di Ventimiglia, qui può succedere che un ragazzo minorenne venga respinto e riconsegnato alla polizia italiana senza alcun foglio di via, come se non fosse mai passato di lì. Non gli viene chiesta l’età – perché altrimenti dovrebbe essere preso in carico dalle istituzioni – e non gli viene consegnato nessun refus d’entree così che le associazioni francesi non abbiano prove per fare ricorso contro il respingimento.

Ancora una volta, quindi, ci troviamo di fronte a giovani vite sospese nel mezzo della Fortezza Europa, la quale, seppure sia tutt’altro che inespugnabile (anche in queste montagne, dopo qualche tentativo, si passa, spesso anche perché a fronte di poliziotti transalpini più duri, se ne possono trovare in altre notti di più «solidali») erige muri anche fra gli stati fondatori dell’Unione. E questo non accade solo alle frontiere orientali, dove la reticenza ad accogliere è maggiore, come in Ungheria, Polonia e, appunto, Bulgaria, oltre alla già citata Croazia. Meno male che da queste parti, nell’alta Val Susa, nota per la tenacia della sua gente, l’aiuto non manca: sono tanti i volontari che danno una mano, offrono un pasto o un alloggio, chiedono conto alle autorità (che, a volte, vedi il Comune di Oulx con l’attuale sindaco Andrea Terzolo, si dimostrano attente alle necessità dei profughi e collaborano con la società civile). L’antropologo Piero Gorza, ad esempio, in un momento di emergenza, ha accolto diversi migranti in casa propria. Il parroco don Luigi Chiampo e la fondazione che ha creato, Talità Kum, gestisce una casa rifugio modello a Oulx dove le persone sostano, si rifocillano e si preparano per il viaggio notturno sulle montagne. Proprio qui, nel Rifugio Massi, le persone che capiscono di trovarsi, forse per la prima volta dopo mesi, in un ambiente in cui si riceve rispetto e si può dare fiducia, si aprono e raccontano di sé.

Esemplare la vicenda di Ahmad, 16enne afghano, da tre anni in viaggio, passato attraverso lo sfruttamento lavorativo in Turchia, l’approdo sulle isole greche e la rotta balcanica: il giorno dell’arrivo al rifugio è carico di vita, sente vicina la meta, dato che, una volta in Francia, vuole raggiungere la Germania.

Accade che la notte viene respinto, senza alcun foglio di via. La Croce Rossa italiana, meritevole nel suo servizio da queste parti anche attraverso il progetto Migralp, lo intercetta a lo riporta al rifugio la mattina dopo.

Ahmad ha perso completamente la serenità, è arrabbiato perché molti compagni di strada ce l’hanno fatta, e lui no.

Ci riprova la sera dopo, questa volta il tentativo va a buon fine.

Chissà dove sarà ora. Di lui ci rimangono nella memoria parole d’oro: «Come il diamante diventa forte grazie alla durezza, si può crescere solo grazie alle difficoltà. Ho viaggiato per tanti paesi, ho avuto un percorso difficile per poter arrivare fin qui, però non mi sono mai arreso. Vorrei dire alla mia mamma che le voglio bene, mi manca tanto e andrò a trovarla».

Daniele Biella

Abdel, 19 anni

Pachistano, incontrato a Trieste a maggio 2021, ne aveva 17 all’epoca dei fatti*.

«Siamo scesi dalla montagna in Croazia e abbiamo viaggiato per due giorni e ci siamo seduti, sdraiati tutti, il trafficante ci ha fatto riprendere fiato. Eravamo all’incirca cento persone. Ed è arrivata la polizia. Quindici, venti persone sono scappate e anche il trafficante è stato catturato con noi. Loro prima ci hanno spruzzato lo spray negli occhi. Sai? Lo spray per gli occhi. Poi sono arrivati due furgoni. Ci hanno fatto salire su quelli e ci hanno portati verso la frontiera della Bosnia. Lì c’era un fiume, una specie di fiume, ci hanno portati lì, picchiati molto e hanno bruciato i nostri zaini, ci hanno fatto togliere i vestiti e hanno bruciato anche quelli e ci hanno fatto tornare indietro in mutande.

[…] Poi dopo quindici giorni ci abbiamo riprovato. Abbiamo proseguito, siamo arrivati in Slovenia. Gli sloveni ci hanno presi e tenuti in prigione e da lì ci hanno riportati indietro: gli sloveni ci hanno consegnati ai croati. I croati sono arrivati e ci hanno riportati indietro. E ci hanno portati di nuovo al fiume dove ci hanno fatto ritogliere i vestiti. Tolti i vestiti, ci hanno picchiati, uno ci teneva le braccia e uno le gambe, e ci buttavano nel fiume. L’acqua era fredda, faceva freddo, avevano un bastone nero, era tipo così, e picchiavano con quello uno ad uno e lo buttavano nell’acqua. L’acqua scorreva veloce, tanto che la persona non riusciva ad uscire, e le pietre ci ferivano i piedi
[…]. I poliziotti ci hanno circondati da tutti e quattro i lati. I ragazzi che avevano cercato di scappare li hanno presi e picchiati. Poi ci hanno riportati indietro, dove c’è una montagna molto alta. C’era un “billa” [inteso come un uomo con gli occhi chiari], era il loro capo, era cattivo, era molto violento, ci picchiava, dava calci. Tra loro c’era un brav’uomo, gli diceva di non picchiare, lo diceva in inglese, e l’altro si arrabbiava anche con lui, e lui allora rimaneva zitto. […] Era arrivato un tagliaboschi, stava facendo la legna nei boschi. Il trafficante è andato a chiedergli se poteva andarci a prendere del cibo se gli avessimo dato i soldi. Lui ha preso i soldi e non si sa se lui o qualcun altro ha chiamato la polizia, e la polizia è arrivata. I piedi erano feriti e non siamo riusciti a scappare, avevano i cani. Quando abbiamo riprovato di nuovo a scappare, uno di noi è stato bastonato dalla polizia alla testa ed è morto sul colpo. L’hanno preso e buttato nel fiume, l’hanno buttato nel fiume, la polizia, il suo corpo non l’abbiamo ritrovato neanche noi».

D.B.

* Abel e Nadir, interviste raccolte nel report di Save the Children, Nascosti in piena vista, giugno 2021.

Nadir, 16 anni

Afghano, incontrato a Trieste nel maggio 2021.

«Ho trascorso due mesi in Turchia, sei, sette mesi in Bulgaria, dove sono arrivato a inizio 2021, poi in Moldavia, e quattro mesi in Serbia. Non ho incontrato la polizia croata né la polizia slovena. Non ho avuto problemi di cibo o acqua. Avevamo cibo e cose da bere nelle borse nei boschi. Sono entrato direttamente in Italia. La parte più difficile del viaggio è stata in Bulgaria. Non si comportano bene con i migranti. Non importa se uno ha 15-16 anni, se è un bambino o un adulto, comunque lo portano in prigione e lo picchiano. Non ero stato mai in prigione prima della Bulgaria. Sono rimasto in prigione per tre mesi. Per quindici giorni non ho visto l’aria aperta, il cielo, solo la cella. E poi alla fine mi hanno dato un foglio e mi hanno detto: “Vai!”. Mi hanno chiesto “Quanti anni hai?”, ma non ascoltano niente. Ci hanno picchiato. Non guardano dove ti picchiano: la testa, le gambe, la schiena, gli occhi. Non guardano neanche, picchiano e basta, i migranti e i rifugiati. Dicevano: “Perché sei venuto? Perché sei venuto qui?”. E poi ci picchiavano. […] Eravamo dodici amici, ma non so adesso dove sono gli altri. […] Sai, in Afghanistan, c’è la guerra. Ci sono i talebani, picchiano la gente e la uccidono. La situazione è molto brutta in Afghanistan. Tutti vogliono venire in Europa, vogliono una vita, vogliono studiare, e in Afghanistan non è possibile. Va tutto male là. Ma in Italia le persone sono buone, hanno cura di noi, ci danno tutto. Ho un cugino in Gran Bretagna, a Birmingham. Lui studia lì. A me piace l’informatica. Per imparare l’inglese prima di tutto ho guardato film, ho imparato le parole e poi le frasi. Poi ho iniziato a parlare alle persone in inglese e molto lentamente ho imparato. Ora prima di tutto vorrei studiare e poi trovare un lavoro legato ai miei studi. Mi piacerebbe avere i miei familiari vicino. Tutti desiderano avere il loro papà o la mamma con sé e trascorrere una vita felice. Ma la situazione è critica là. […] Ai miei fratelli direi: “Non venite in questo modo, è troppo pericoloso”. Non lo rifarei, mai nella vita».

D.B.

Famiglie, speranza cercasi

Le condizioni dei giovani genitori e dei loro bambini

Sui confini italiani, accade d’incontrare famiglie con bimbi anche molto piccoli, in fuga da contesti pericolosi. Giovani genitori, pieni di speranza per un futuro migliore, e di amarezza per un presente lacerante, fatto di muri e di botte, di dignità negata.

«Di chi avete paura? Di me e mio figlio?», urla un giovane padre iraniano, con un bimbo in braccio, avvolto in un giaccone più grande di lui. Lo fa puntando lo sguardo verso la montagna, rivolgendosi a due punti neri a lato di un pilone della seggiovia. Lì è già territorio francese.

Quei due punti neri sono poliziotti – della Paf, polizia di frontiera francese – che pattugliano a piedi i sentieri attorno a Claviere.

Oltre alla realtà dei minori soli, c’è quella di centinaia di famiglie con figli, anche molto piccoli, al seguito. Giovani genitori e bambini che passano anni lungo le rotte migratorie in condizioni a dir poco devastanti.

Con un rapido calcolo sulla base delle osservazioni fatte dal vivo a Trieste, Ventimiglia e soprattutto Oulx, Save the Children stima il passaggio di sessanta nuclei familiari al mese, ovvero almeno 240 persone, dato che i figli al seguito sono quasi sempre due o più. Le provenienze sono soprattutto Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, qualcuna dal Nepal e, ancora, ma più di rado rispetto al passato, qualche famiglia siriana. Tutte risolute ad arrivare a destinazione, nonostante le difficoltà: colpisce la loro forza di volontà, la determinazione di portare i loro figli in un luogo dove possano crescere con più speranza rispetto alla patria lasciata alle spalle.

Un rifugio sul confine

Il rifugio Massi a Oulx è un luogo neutro nel quale si incontrano famiglie migranti che riposano qualche ora. Queste famiglie vengono accolte dagli operatori della fondazione Talità Kum e da volontari che si alternano portando scarponi, vestiti, viveri, fermandosi spesso a condividere un po’ di tempo con le persone, riconoscendo loro quella dignità che era stata cancellata dal «game» lungo la rotta balcanica, negli hotspot sulle isole greche, sui gommoni, nei camion e in tutte le altre situazioni di privazioni e violenze che sono costretti a vivere, loro malgrado, molti migranti.

«Le indegne esperienze traumatiche vissute dai bambini in questi viaggi si affiancano a un altro aspetto: spesso sono i figli, soprattutto nella fascia d’età dagli 11 ai 16 anni, a diventare portavoce delle famiglie. Parlano più lingue, sanno usare gli smartphone e la tecnologia, si orientano bene e capiscono al volo chi può essere più utile tra le persone che si trovano davanti. Allo stesso modo, a volte, le autorità sono meno vessatorie nei respingimenti quando hanno davanti dei bambini», spiega il rapporto. «Tutte queste ragioni fanno sì che i bambini siano un elemento strategico per la famiglia, una sorta di salvavita. Come nelle favole settecentesche», specifica Piero Gorza, antropologo e ricercatore di On Borders che vive proprio a Oulx e studia da decenni i flussi migratori.

Solidarietà sulla strada

Il sorriso dei più piccoli dà forza ai più grandi, anche se i più grandi vedono quanto è pesante il fardello dell’esperienza migratoria sulle spalle dei bimbi. Al rifugio, ad esempio, due sorelline afghane giocano a guardie e ladri e raccontano a mamma e papà: «Stiamo giocando al poliziotto che picchia il migrante» (vedi box a pag. 47, ndr.).

Ci vorranno mesi, se non anni, per superare i traumi del viaggio una volta giunti – si spera – a una destinazione sicura.

Tra famiglie che si incontrano e si conoscono lungo il viaggio, succede che scatti la solidarietà: si uniscono, fanno un tratto di viaggio assieme, si aspettano e, in alcuni casi, se per qualche motivo un nucleo viene diviso a una frontiera, si prendono cura di chi ha bisogno.

Questo accade anche per i minori non accompagnati: nel loro viaggiare «soli», spesso percorrono tratti di strada con nuclei familiari ai quali si affezionano e con cui poi rimarranno in contatto.

Anche per la situazione delle famiglie in viaggio, una soluzione dovrebbe essere cercata con un accordo interfrontaliero tra paesi europei, per capire dove i migranti hanno familiari, così da metterli in contatto e garantire un ricongiungimento sicuro, al riparo dai rischi del viaggio e dal traffico di esseri umani.

Daniele Biella

Porta d’Europa, opera di Mimmo Paladino

 

Lampedusa, frontiera Sud

Due giorni nell’Isola. sbarchi e memoria del 3 ottobre 2013

Quarantatrè sbarchi in 48 ore. Adulti, ragazzi, bambini accolti e trasferiti dal molo ai centri di accoglienza. Senza turbare i turisti. Mentre decine di migrant arrivano con piccole barche, a otto anni dal naufragio del 3 ottobre 2013, alcuni sopravvissuti e parenti delle vittime ricordano i loro morti e l’urgenza della ricerca di verità e giustizia.

Se nel Nord Italia il movimento tra frontiere è continuo, altrettanto succede al Sud, dove ogni giorno nuove persone, compresi minori stranieri non accompagnati, sbarcano sulle coste.

Molti ragazzini, proprio come gli adulti, una volta arrivati in Italia in una regione meridionale, prendono la via del Nord. Spesso hanno Ventimiglia come tappa successiva.

La frontiera Sud, il mare di mezzo, il Mediterraneo, vede nelle sue acque centinaia di migranti che provano a raggiungere l’Europa per iniziare da zero una vita con più prospettive. Loro malgrado lo fanno nel modo più pericoloso.

Sbarchi, trasbordi e quarantene

Missioni Consolata ha potuto riscontrare, direttamente a Lampedusa, ben 43 sbarchi in 48 ore, almeno mille persone in tutto nelle sole due giornate del 2 e 3 ottobre 2021. Erano soprattutto «barchini» provenienti dalla Tunisia, ciascuno con una ventina di persone a bordo, ma anche dalla Libia con 50-60 migranti ognuna.

La settimana prima era arrivato un peschereccio con 600 persone. Tra esse, numerosi minori soli, in gran parte, come è logico geograficamente, provenienti dai paesi del Nord Africa e dell’Africa subsahariana.

I ragazzi non accompagnati, quando arrivano, normalmente vengono condotti dal porto di sbarco, il molo Favaloro, all’hotspot. Dato, però, che per legge non potrebbero stare in strutture per adulti, nel giro di pochi giorni vengono portati in Sicilia. Trasferiti su navi di linea, separati dai passeggeri, devono fare 7-10 giorni di quarantena.

Nei due giorni di visita a Lampedusa, abbiamo assistito alle operazioni di salvataggio e poi di trasbordo. Queste venivano effettuate dalle autorità competenti – Guardia costiera, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia, ministero della Salute per le pratiche mediche – con contingenti tali che, di fatto, creavano una sorta di militarizzazione dell’isola.

Soccorrere ricordando il 3 ottobre 2013

Durante la nostra visita, Lampedusa stava vivendo un boom del turismo: l’estate 2021 è durata fino a fine ottobre, con strutture pressoché piene. I turisti non vedevano alcun migrante. Le persone sbarcate, infatti, venivano portate con pulmini dal porto all’hotspot, senza mettere piede nelle vie cittadine.

Save the Children, Diaconia Valdese, Fcei (Federazione delle chiese evangeliche in Italia) sono presenti agli sbarchi, assieme alle agenzie dell’Onu, Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), per controllare la giusta presa in carico dei minori e delle famiglie.

L’alto numero di arrivi sull’isola è coinciso con la commemorazione del naufragio del 3 ottobre 2013, in cui avevano perso la vita 368 persone, in gran parte eritree, al quale era seguito quello dell’11 ottobre, con 268 vittime – di cui 60 bambini – in gran parte siriani.

La commemorazione è stata molto sentita. Il Comitato 3 ottobre ha organizzato eventi per un gran numero di studenti arrivati sull’isola da tutta Europa allo scopo di capire le migrazioni forzate raccontate dalla voce dei protagonisti, compresi diversi dei 47 superstiti e dei familiari delle vittime delle due stragi citate.

Alcuni superstiti, salvati con le loro mani da alcuni pescatori isolani, tra cui Vito Fiorino e Costantino Baratta, insediatisi nel frattempo soprattutto in Germania e Svezia, si sono sposati e hanno avuto figli.

Erano presenti anche madri di giovani tunisini dispersi durante il viaggio, accompagnate dai volontari di Carovane migranti e di altre associazioni che cercano verità e giustizia per le vittime. Dopo otto anni, infatti, non sono ancora state fugate le ombre sui ritardi e sulle omissioni di soccorso delle autorità in quelle circostanze.

Daniele Biella

Famiglia afgana

Zalmai e Jamila, marito e moglie di30 anni, con due bimbe di sei e quattro anni. Incontrati a Oulx a maggio 2021, hanno provato il «game» dieci volte.

«Lasciai l’Afghanistan perché mia moglie era stata promessa a qualcun altro. Lei fuggì con me. Fummo poi minacciati. Arrivammo in Iran, ma quegli uomini riuscivano a mandarmi minacce perché avevano soldi. […] Dalla stazione di polizia mi fecero rimanere e mi presero quattro volte il telefono, i croati. Mi presero i soldi. Mi inflissero tanta sofferenza. Mi picchiarono. Mentre mi stavano respingendo mi chiedevano “maani”, cioè chiedevano soldi, “money”. Ci perquisivano, cercavano soldi e prendevano tutti i soldi che trovavano. Ci trattennero, ci misero una maschera sulla faccia mentre ci espellevano. Presero i soldi da qualunque famiglia che conoscessi. Avevano questi bastoni di plastica: ci colpirono con quelli. In qualunque paese tu dicessi loro che saresti andato, Francia, Germania, ti avrebbero picchiato. Menzionavano un paese e poi ci colpivano. Uno, due, tre… a loro non importava quanto ci picchiassero. Ci sedemmo e basta. Quindi ci diedero un calcio o ci dissero: “Alzati!”, e ci tolsero tutti i vestiti e ci picchiarono. Ci arrestavano sempre. Ecco perché abbiamo così sofferto. Mia moglie era malata, ma era riuscita ad arrivare. Fu colpita dal freddo. Aveva nevicato e il corpo le faceva male ovunque. Era stata arrestata e aveva le sue figlie con lei. Alla fine arrivarono due poliziotti. La trascinarono come un cadavere. Continuavano a trascinarla e a trascinarla. […] Quando partimmo con il gruppo di 35 persone verso la Croazia, la bambina aveva paura della polizia e avrebbe avuto paura ogni volta che la polizia sarebbe comparsa. E l’altro problema è che quando diventa ansiosa, si colpisce, sul muro, sul terreno, su qualsiasi cosa. Si colpisce molto duramente, che sia la testa o altro. Si fa male da sola. Non capisce nulla in quei momenti. Una volta che si riprende, ovvero quando si sente meglio, allora piange da quel momento in poi. Ma il fatto è che rimane a disagio. Si rattrista per 5, 10, 15, o 20 minuti, tutto qui. Abbiamo sofferto lungo la strada e speravamo che tutto il ricordo della sofferenza venisse cancellato rapidamente dalla sua memoria, altrimenti sarebbe rimasto nel suo cervello. Sai, è una bambina e le piace giocare. Così quando si siede con la sorella, assegnano a ciascuno ruoli come “Io sono un rifugiato” e l’altra dice “Io sono la polizia”. Poi si alzano e quella che fa il poliziotto viene colpita dall’altra, si inseguono a vicenda e poi combattono. È così che si ricordano. Quindi, non stanno dimenticando quelle cose. Tutti i ricordi, le cose nella loro mente, quelle cose sono ancora nella loro mente».

D.B.

Con gli occhi dei minorenni

Raccomandazioni di Save the Children all’Unione europea.

Un minore è, prima di tutto e sopra ogni cosa, un minore, e i suoi diritti vanno protetti e promossi indipendentemente da ogni altra circostanza relativa alla sua condizione o status suoi personali o dei suoi genitori, ad esempio l’origine nazionale, etnica o sociale o, ancora, lo status legale.

Il principio di non discriminazione è un valore fondante della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Crc), stella polare in tema di diritti dei minori che, applicandosi a tutti i minori in ogni circostanza, è centrale anche quando si parla di bambine, bambini e adolescenti coinvolti nella migrazione. Come recentemente riconfermato dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’Infanzia, in nessun caso un minore straniero non accompagnato può essere espulso o respinto alla frontiera, in base alle norme di diritto internazionale poste a tutela dei diritti umani, dal diritto umanitario e sui rifugiati, e, in particolare, all’articolo 33 della Convenzione sullo status di rifugiato del 1951 e dall’articolo 3 della Convenzione Onu contro la tortura.

Ciascuno degli stati alla cui frontiera e nel cui territorio arriva un minore, coinvolto più o meno consapevolmente in un percorso migratorio, ha la responsabilità di prendersene cura, in base a una serie di norme vincolanti volte ad assicurarne la protezione e il riconoscimento di uno status legale.

L’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea conferma la centralità del superiore interesse dei minori in tutte le azioni o decisioni che li riguardano intraprese dalle autorità pubbliche o da istituzioni private.

[…] Come è evidente dalla lettura delle testimonianze, di fronte alla mancanza di un sistema di protezione e accoglienza europeo per i minori migranti, all’assenza di procedimenti rapidi e ben funzionanti di ricongiungimento familiare, alla necessità sinora disattesa di riforma del
Regolamento di Dublino e al quasi totale abbandono dell’esperienza della relocation fra stati membri, fatte salve sporadiche e quanto mai limitate iniziative su base volontaria, ai minori e alle loro famiglie non rimangono alternative che affidarsi ai passeur per proseguire nel proprio percorso migratorio attraverso le frontiere interne dell’Unione. Una scelta obbligata che si accompagna alla necessità di essere invisibili, con il rischio di restare intrappolati nelle maglie del traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo e di subire violenze e vessazioni o di esserne testimoni.

In questo quadro, le violazioni dei diritti dei minori migranti continuano a consumarsi all’interno e all’esterno dei confini dell’Ue, con uno specifico allarme per le zone di confine, sia lungo il perimetro delle cosiddette «frontiere esterne» dell’Unione europea, sia in corrispondenza delle frontiere tra stati membri, luoghi di particolare criticità e pericolo per i minori, nonostante l’Allegato VII del Codice Schengen preveda che sia prestata particolare attenzione nei confronti del minore che attraversa la frontiera e che siano adottate particolari modalità nei confronti dei minori accompagnati o non accompagnati.

I minorenni in particolare – come ci ricorda il Comitato sui diritti dell’infanzia – non dovrebbero mai essere respinti verso un paese dove vi siano fondate ragioni di ritenere che essi siano a rischio di danni irreparabili o verso un altro paese dal quale essi potrebbero essere lì respinti, anche in considerazione delle loro esigenze primarie di sopravvivenza e sviluppo, tenuto conto dell’età e del sesso.

[…] Il caso delle frontiere Nord dell’Italia è, per alcuni versi, emblematico del vuoto politico e giuridico lasciato dalle istituzioni dell’Unione europea e dagli stessi stati membri in tema di movimenti migratori: prassi delle forze di polizia impegnate nella gestione dei confini diverse da territorio a territorio, mancanza di un coordinamento locale e tra i territori dove insistono le diverse frontiere, mancanza di un’indicazione strategica che tenga conto della necessità di gestire i flussi in arrivo dalle diverse frontiere – Sud e Nord – e di distribuire l’accoglienza sull’intero territorio, assenza di mediatori che possano veicolare informazioni ai valichi di frontiera, le principali criticità riscontrate.

Di fronte alla situazione attuale serve guardare alle politiche europee, compresa la riforma degli atti legislativi nell’ambito del Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo emanato a settembre 2020, e a quelle nazionali, con gli occhi dei minorenni che ogni giorno provano ad attraversare i nostri confini.

Save the Children Italia




Welcome to El Paso

testo di Paolo Moiola |


Sorta nel deserto, El Paso è ulteriore dimostrazione che l’immigrazione non può essere fermata da un muro. Per questo, nella città texana, operano varie organizzazioni cattoliche d’aiuto ai migranti. «Benvenuti a El Paso» è la nuova tappa del nostro cammino lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico.

Capita spesso di sentire parlare di El Paso e Ciudad Juárez come di città gemelle. In realtà, lo sono soltanto in quanto si dividono uno stesso spazio geografico: il deserto di Chihuahua, la catena dei monti Franklin e il Rio Grande (o Rio Bravo). Per il resto, le due città sono diverse in tutto.

La prima è una città texana di 700mila abitanti al confine con il New Mexico. La seconda, capitale dello stato messicano di Chihuahua, è famosa nel mondo per essere la città dei femminicidi e delle maquiladoras (fabbriche straniere con manodopera locale ed esenzioni fiscali).

Unite da quattro ponti – Bridge of the Americas, Ysleta-Zaragoza International Bridge, Paso del Norte Bridge e Stanton Street Bridge – che scavalcano il Rio Grande e un’autostrada, El Paso e Ciudad Juárez sono separate da barriere (fences) costruite nel 2008 per frenare l’immigrazione illegale e i traffici illeciti. Queste barriere sono state, in parte, sostituite o rinforzate dal muro di Trump, la cui costruzione è stata oggi bloccata dal nuovo presidente Joe Biden.

Vecchio o nuovo muro che sia, come quasi sempre accade, niente riesce però a fermare il flusso di migranti. Per esempio, a giugno, soltanto nel settore di El Paso, gli agenti di frontiera Usa hanno intercettato 21.500 migranti. In dieci mesi (da ottobre 2020 a luglio 2021), sul confine Sud le autorità statunitensi hanno fermato un milione e 332mila migranti. Un numero effettivamente enorme, ma di questi ben 850mila sono stati immediatamente espulsi (dati Customs and border protection, Cbp, del 4 agosto 2021).

Una panoramica dal Ranger Peak di El Paso e Ciudad Juárez che evidenzia il paesaggio desertico in cui sorgono le due città. Foto Nick Amoscato.

Chi aiuta i migranti

A El Paso e in altre città texane di confine lavorano varie organizzazioni cattoliche. Le due più grandi sono «Annunciation House» e «Catholic Charities of the Rio Grande Valley» (a San Juan e Browsville).

La prima, fondata nel 1978, si occupa principalmente di migranti ed è diretta da padre Ruben Garcia. La seconda, con uno spettro d’intervento più generale, è diretta da suor Norma Pimentel, figlia di messicani (nel 2020, eletta da Time tra le cento persone più influenti al mondo).

A queste organizzazioni d’aiuto immediato, dal 1987 la diocesi di El Paso affianca un ufficio di consulenza legale per i migranti («Diocesan migrant and refugee services», Dmrs). Inoltre, il «Hope border institute» (Instituto fronterizo esperanza), partendo dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica, svolge un lavoro di studio e ricerca «per costruire giustizia e approfondire la solidarietà attraverso le terre di confine».

Nel suo ultimo rapporto, l’istituto è molto duro nei confronti del nuovo presidente. Visto che la vicepresidente Kamala Harris aveva dichiarato di essere «impegnati a garantire che il nostro sistema di immigrazione sia ordinato e umano», allo studio è stato dato un titolo esattamente opposto: Disorderly and inhumane, disordinato e disumano (giugno 2021).

«L’amministrazione Biden – vi si legge tra l’altro – continua a impedire alle persone in fuga da persecuzioni di accedere al sistema di asilo degli Stati Uniti e continua a espellere migranti e richiedenti asilo che attraversano il confine».

In effetti, finora l’amministrazione Biden ha respinto oltre il 70 per cento dei migranti, soprattutto sulla base del cosiddetto «Title 42», reso operativo da Trump a inizio pandemia (21 marzo 2020). Il titolo 42 è una norma del Codice di sanità pubblica degli Stati Uniti, risalente al 1944, che consente l’immediata (cioè nell’arco di poche ore) espulsione di una persona per questioni sanitarie. Questa norma ha preso il sopravvento sul «Title 8» del Codice federale sulla migrazione (Aliens and nationality), una norma ben più complessa e soprattutto più garantista, in particolare nei confronti dei richiedenti asilo (asylum seekers).

Border Patrol Agents (BPA) assigned to El Paso Sector, El Paso Station (EPT/EPS) apprehended a group of approximately 127 illegal aliens.

Le suore di Chapparal

A El Paso, attorno alle principali organizzazioni d’aiuto, ne ruotano altre più piccole, ma egualmente significative. Una di esse è quella delle suore dell’Assunzione (Assumption sisters) di Chapparal, piccola comunità rurale sul confine tra New Mexico e Texas, a circa 30 chilometri da El Paso.

Contattata via web, ci risponde suor Anne Salaun. «Siamo una comunità internazionale di quattro suore – spiega la religiosa -. Assieme a me, ci sono suor Chabela, Maria Teresa e Nha Trang».

Suor Norma Pimentel, direttrice di «Catholic Charities of the Rio Grande Valley». Foto Mose Buchele / Kut / Npr.

«Nella comunità di Chapparal la maggioranza della popolazione è di origine ispanica. Si tratta soprattutto di famiglie emigrate dal Messico con figli nati qui. Noi facciamo il nostro ministero tra loro. Da un paio d’anni lavoriamo però anche sull’emergenza derivante dai nuovi arrivi, sempre in collaborazione con le organizzazioni di El Paso, in particolare con Annunciation house. Portiamo i pasti in uno dei loro centri e diamo una mano in un altro».

Le suore collaborano anche con l’Hope border institute». «Gli Stati Uniti – ricorda suor Anne – sono un paese d’immigrazione che, nel corso della sua storia, ha accolto diverse ondate di immigrati. Oggi però il sistema vigente è diventato inadeguato. Occorrerebbe fornire percorsi legali per entrare e per ottenere la cittadinanza. Detto questo, allo stesso tempo, devono essere affrontate nei paesi di origine dei migranti le cause profonde dell’immigrazione».

Dopo aver sperimentato la «tolleranza zero» di Donald Trump, suor Anne non boccia Joe Biden: «La situazione è un po’ migliorata, ma c’è spazio per ulteriori miglioramenti».

«Per esempio?», le chiediamo. «Il fatto che il confine sia ancora chiuso, è un incentivo per i trafficanti che depredano i migranti. La riforma delle nostre leggi sull’immigrazione e l’apertura delle frontiere è il modo migliore per combattere lo sfruttamento umano sopprimendo la necessità del contrabbando».

Padre Ruben Garcia, direttore di «Annunciation House». Foto The Texas Observer.

Suor Anne si riferisce allo smuggling di esseri umani (in spagnolo, coyotaje, da cui il termine coyote, trafficante di persone), un fenomeno diventato normalità che genera un giro di denaro inferiore soltanto a quello della droga e che, soprattutto, produce drammi umani. Come avvenuto lo scorso 30 giugno, quando gli ufficiali della Border patrol di El Paso hanno scovato 35 migranti – provenienti da Guatemala (in maggioranza), Messico, Ecuador, Nicaragua e Honduras – nascosti in una casa. Dramma nel dramma, tutti e 35 sono stati immediatamente rispediti fuori dai confini statunitensi in base al citato Title 42.

A suor Anne facciamo presente che paura e cattiva informazione non aiutano a comprendere la complessità del fenomeno migratorio. «È proprio per questo – risponde – che abbiamo bisogno di educazione: per aprire le nostre menti e i nostri cuori ai benefici e alle benedizioni che i nuovi arrivati portano con sé. Ricordiamoci che la migrazione fa parte del tessuto della storia umana. Quindi, è meglio coglierne i benefici piuttosto che combatterla».

Così la pensa suor Anne. Tuttavia, in Texas come negli Stati Uniti e nel mondo, la questione migratoria divide la società in maniera netta e apparentemente inconciliabile.

Tre delle quattro suore della comunità di Chapparal in un centro d’accoglienza di El Paso. Foto Assumption sisters – Chapparal.

Fermare «l’invasione» (a ogni costo)

Don Huffines, ex rappresentante repubblicano nel senato del Texas, che si definisce «100 per 100 pro-life», è candidato alla carica di governatore dello stato nelle elezioni del novembre 2022.

Nel suo programma ultra conservatore, un posto di rilievo è occupato dal tema dei migranti.

Su questo gli argomenti per raccogliere consensi elettorali sono sempre gli stessi. Per esempio, quello dei soldi: «I texani stanno attualmente pagando miliardi [di dollari] ogni anno per alloggio, scuola e assistenza medica in favore di stranieri illegali».

Huffines promette che, se eletto governatore dello stato, fermerà l’«invasione» a ogni costo, schierando tutte le forze della Guardia nazionale del Texas, completando il muro di Trump, attuando misure di pressione economica sul Messico, rendendo impossibile l’assunzione di migranti illegali sui posti di lavoro.

A quanto pare il programma di Huffines non contempla un «Benvenuti in Texas».

Paolo Moiola

A demonstrator holds up placards to protest against MPP (Migrant Protection Protocols), outside of U.S. Customs and Border Protection building in Brownsville, Texas, U.S., January 12, 2020. REUTERS/Go Nakamura

Le suore di Chapparal effettuano una distribuzione di alimenti. Foto Assumption sisters – Chapparal.

Il ponte delle Americhe, uno dei quattro che unisce El Paso (Usa) con Ciudad Juárez (Messico); si confronti la fila di auto in entrata e quella in uscita. Foto James Tourtellotte.

QUESTA SERIE:

«L’uragano migranti (e la frontiera liquida)», MC, giugno 2021;
«Bienvenidos a Tijuana», MC, luglio 2021.

 




Con altri occhi

testo e foto di Daniele  Biella |


Portare a scuola le migrazioni in carne e ossa. Per far conoscere ai ragazzi la concretezza delle vite dei protagonisti di un fenomeno troppe volte descritto in modo ideologico. Un rifugiato che si racconta in aula vale più di mille video su YouTube.

Siamo in un paesino della Brianza, in un pomeriggio d’autunno del 2019, quando ancora la pandemia non è entrata nelle nostre vite. Una bambina che sta per finire la scuola primaria, vede da lontano una persona e corre ad abbracciarla. La nonna, rimasta indietro, guarda la scena sbalordita e preoccupata: non conosce, infatti, quella persona, che ha anche il colore della pelle diverso dal suo. Ma la preoccupazione dura pochi attimi, perché la bambina risolve tutto con un sorriso e poche parole. «Nonna, è Wilfrid! È venuto nella nostra scuola a raccontarci la sua vita. È molto bravo e simpatico». La nonna si avvicina al giovane, che è nato nel 1996 in Camerun, e dal 2017 è rifugiato in Italia, e poco alla volta inizia a parlargli.

Una domanda dopo l’altra, la signora è sempre più a suo agio e, al momento dei saluti, la tensione iniziale non ha lasciato alcuna traccia.

«Quando ha saputo che stavo lavorando come aiuto cuoco in un ristorante non lontano da dove abitava, mi ha detto che sarebbe venuta una volta a mangiare. E dopo qualche tempo è accaduto», spiega Wilfrid qualche mese dopo agli alunni di una classe di seconda media mentre io, accanto a lui, osservo i volti divertiti dei ragazzi e della professoressa presente. «Per questo è importante conoscere la storia delle persone. La conoscenza è il primo passo per superare i pregiudizi», aggiungo.

In carne e ossa

Perché mi trovo dentro un’aula scolastica assieme a un giovane rifugiato, davanti a studenti curiosi che, per tutto il tempo dell’incontro, ci riempiono di domande? La risposta si chiama progetto «Con altri occhi».

Ogni anno, come giornalista che si occupa di tematiche migratorie, incontro nelle scuole migliaia di ragazze e ragazzi, in Brianza, ma anche in altre zone d’Italia, per far toccare loro con mano «le migrazioni in carne e ossa», e mostrare come sia possibile guardarle con altri occhi.

Il progetto, iniziato nell’anno scolastico 2016/2017, permette un incontro tanto eccezionale quanto normale: quello tra una persona che si trova in Italia dopo una migrazione forzata e ragazzi che, attraverso il suo racconto, possono capire meglio quello di cui i mass media parlano da anni, quasi sempre con toni accesi: «Gli sbarchi», «le carrette del mare», «l’accoglienza dei richiedenti asilo».

Quello delle migrazioni è un tema complesso che, se non affrontato in modo approfondito e adeguato, può generare disinformazione e luoghi comuni nocivi. Come è avvenuto in diverse situazioni, la persona migrante può diventare il capro espiatorio dei problemi delle comunità.

Narrazione e dialogo

«Il migrante che arriva in Italia dopo la fuga forzata dal suo paese non deve essere trattato con pietismo, non è un “poverino”, ma una persona con le sue caratteristiche che la rendono diversa dagli altri, proprio come me. Più sfortunata, certo, perché, a differenza mia, chi chiede asilo in Italia, o in una nazione non sua, ha dovuto abbandonare controvoglia i luoghi di una vita», dice Sergio Saccavino, direttore di Aeris Cooperativa sociale, storica realtà della provincia di Monza che oggi ha settecento soci lavoratori (soprattutto in ambito di assistenza educativa scolastica). È lui che mi ha chiesto, nel 2016, di diventare formatore per Aeris sulle migrazioni, portando con me persone rifugiate in Italia che la stessa cooperativa ospita in appartamenti della zona secondo il modello dell’accoglienza diffusa aderendo a progetti della prefettura e del ministero dell’Interno.

«C’è bisogno di un racconto diretto di quello che accade. Devono parlare i protagonisti. Noi abbiamo il dovere di fare un investimento culturale in tal senso», aveva aggiunto Saccavino. Detto, fatto: il progetto – che per le scuole è stato gratuito per i primi quattro anni, e che, con l’arrivo della pandemia, è stato strutturato in doppia modalità, online e in presenza, a seconda della situazione specifica – già nel primo anno ha coinvolto 5mila alunni e, a fine anno scolastico 2020-2021, ha raggiunto quota 15mila.

In ogni classe sono proposti due incontri: durante il primo si affrontano con i ragazzi le motivazioni e le dinamiche che spingono gli esseri umani a lasciare la propria casa. Lo si fa anche attraverso un gioco di ruolo e la narrazione diretta di alcuni viaggi giornalistici (su una nave di salvataggio, alle frontiere d’Italia e d’Europa, nei paesi di provenienza di chi arriva nel nostro continente). Nel secondo incontro, accompagno in classe una persona accolta in Italia, allo scopo di instaurare un dialogo a tu per tu con gli studenti.

Il libro

Ultimamente il progetto è diventato anche un libro, dal titolo Con altri occhi. Viaggio alla scoperta delle migrazioni (Fabbrica dei Segni editore, 2020), proprio perché l’ottimo riscontro di interesse verso il progetto ha convinto Aeris e Fabbrica dei Segni ad accordarsi per pubblicare un testo capace di raggiungere chiunque voglia approfondire, adulti compresi.

Ho scritto il libro raccogliendo le testimonianze dei quattro giovani rifugiati che mi hanno accompagnato in classe in questi anni (oltre a Wilfrid, c’è Harris, ghanese, Bourama, maliano, e Mamadou, della Guinea Conakry), ma anche le domande e le considerazioni degli studenti. Queste ultime rappresentano – e lo dico senza alcuna retorica – il modo più efficace per capire quanto le ragazze e i ragazzi (ma anche i bambini, dato che il progetto si rivolge a studenti dagli 8 anni alle scuole secondarie di primo e secondo grado) siano pronti a ragionare su quanto sta accadendo e, soprattutto, a «dire la loro» con responsabilità e senso della realtà.

Le relazioni (e la conoscenza) superano i muri

Andando nelle classi e dialogando in modo fitto con gli studenti, ho riscontrato una conferma non da poco: il concetto di multiculturalità, oramai, è pregnante. Il compagno di classe di origini straniere ha un nome e un carattere, prima di avere una nazionalità, e le relazioni che i ragazzi creano superano «muri» che invece a volte si instaurano nel mondo degli adulti.

Ci possono essere situazioni specifiche di intolleranza o bullismo, ma, in generale, si dice il vero quando si afferma che la scuola è più avanti del resto della società a livello di «gestione delle diversità». E non solo le diversità date dalle provenienze.

Quello che serve agli alunni (e, a volte, anche ai professori, che hanno bisogno formazione specifica per rispondere alle domande dei loro studenti senza trovarsi spiazzati), è avere tutti gli elementi per capire di che cosa si parla quando si discute di migrazioni. A cominciare dalle parole «giuste» (profugo, richiedente asilo, rifugiato, migrante economico, protezione umanitaria) e dalla conoscenza dei luoghi e delle situazioni di partenza delle persone.

«Quali sogni hai?»

«Perché sei partito?», è spesso la prima delle decine di domande che gli studenti pongono alla persona rifugiata durante gli incontri.

Le domande arrivano sempre come un fiume in piena: «Come è stato il viaggio con il barcone?», «quanti soldi ricevi dall’accoglienza in Italia?», «cosa fai durante la giornata?», chiedono gli studenti per capire i meccanismi concreti della migrazione. «Quali sogni hai?», «sei stato trattato male qualche volta, anche per le tue origini?», «cosa pensi del razzismo?», per capire a livello più profondo quello che ha dentro di sé una persona che viene da lontano. «Che squadra tifi?», «che musica ti piace?», «quale città italiana vorresti visitare?», «quale cibo preferisci?», «che numero di scarpe porti?», chiedono per stabilire una relazione orizzontale di normalità.

Le domande trovano sempre una risposta, e spesso fanno scattare confronti e discussioni anche profondi.

«Ho visto emergere ragionamenti e aspetti dei miei alunni che non avevo mai notato», mi hanno detto tante volte maestre, maestri, professoresse e professori.

Coinvolgimento emotivo

Un valore aggiunto del progetto è il fatto che i giovani rifugiati coinvolti parlano bene l’italiano. Si evitano, quindi, incomprensioni e difficoltà di dialogo: le loro storie, i loro racconti, arrivano diritti a destinazione, e spesso sono coinvolgenti a 360 gradi.

Ci sono, infatti, momenti di forte emozione, soprattutto quando i rifugiati parlano, con gli studenti più grandi, dei viaggi difficili e pericolosi che hanno affrontato nel deserto del Sahara o nel Mare Mediterraneo, o delle dure condizioni che devono sopportare le persone migranti e dei trattamenti cui sono sottoposte da parte dei trafficanti di esseri umani nelle prigioni illegali in Libia e nelle altre situazioni di violazioni dei diritti umani.

Uno dei momenti più coinvolgenti è quello nel quale Wilfrid racconta ai ragazzi di una canzone gospel che si è messo a cantare assieme ai compagni di gommone quando l’imbarcazione aveva iniziato a imbarcare acqua dopo la rottura del motore.

Durante il racconto, spesso, Wilfrid ne intona una strofa, creando un’atmosfera di forte empatia.

Empatia che trova sollievo quando il giovane camerunese racconta il miracoloso salvataggio da parte di una nave commerciale di passaggio che poi ha consegnato i naufraghi alla Guardia costiera italiana.

Messaggi su carta

«Quando ci ha raccontato quello che ha passato, si poteva percepire che era molto triste e aveva nostalgia del suo paese, ma nonostante tutto era sempre sorridente e per questo lo ammiro. Questa esperienza mi ha fatto capire molte cose e mi sono emozionata», scrive una ragazza di terza media su un foglietto al termine dell’incontro.

Ogni volta chiedo ai ragazzi, in forma anonima se preferiscono, un pensiero a caldo su quanto vissuto: ne ho raccolti migliaia. Sono diretti, a volte taglienti, mai scontati, veri.

«Dei ragazzi come noi hanno delle storie che meritano di essere ascoltate». «Ho imparato che se vedi una persona in difficoltà devi aiutarla perché ogni persona può fare la differenza». «Non sono una persona che prova pregiudizi verso le persone, ma questa esperienza mi ha chiarito le idee, e penso che gli immigrati siano persone come noi, alcune buone altre di meno». «Quando bisogna giudicare un libro si guarda il contenuto, non la copertina».

Nel libro che nasce dal progetto, una sezione è dedicata a molti di questi messaggi. Un’altra, invece, è dedicata a esempi di contaminazione positiva: piccoli fatti capitati dopo gli incontri in classe (come quello tra Wilfrid, la bambina e sua nonna) che aiutano ancora di più a superare le barriere invisibili del pregiudizio.

Per il resto, il testo riporta con ricchezza di esempi le leve che rendono valido un progetto sulle migrazioni proprio partendo da questa esperienza. L’intento è di spronare altre persone, altri enti, altri giornalisti, altre persone rifugiate a replicarlo in altre zone d’Italia.

Serve guardare il mondo con altri occhi, pur rimanendo se stessi: la conoscenza diretta delle storie di vita, oggi più che mai, è necessaria per fare evolvere questa nostra società nella giusta direzione, ovvero con un’identità forte perché aperta verso il mondo. Una società dove le fake news, le notizie false, non devono trovare terreno fertile.

«Come sta Harris?»

«Non è stato semplice, all’inizio, incontrare gli studenti e raccontare di me e della mia vita. Sono riuscito a farlo, ho preso in mano il coraggio e mi sono aperto, confrontandomi e soprattutto imparando molto da loro», ragiona Harris, il primo testimone coinvolto nel progetto di Aeris. «Ho 20 anni e non ho avuto una vita facile. Conoscere così tanti ragazzi ed essere ascoltato pur essendo giovane, è stata per me una grande scuola di vita. Spero davvero sia stato utile anche a tutti loro, uno per uno».

L’esempio che l’utilità c’è stata, e non solo quella, è arrivato direttamente a me a inizio 2021, ovvero quattro anni dopo l’incontro tra Harris e uno studente di prima media che ora affronta le superiori: «Ciao, mi fa piacere rivederti. Ma soprattutto, come sta Harris?», mi ha chiesto il ragazzo in un incontro fortuito per strada. Aggiungendo: «Sai che, nonostante sia passato tanto tempo, ricordo tutto di quello che ci siamo detti in classe? È uno dei ricordi più incisivi che porto dietro dalla scuola media».

Daniele Biella




Venezuela – Colombia: le donne dell’esodo

Sommario

La migrazione femminile dal Venezuela alla Colombia

Uno zaino di sofferenza

Oggi si stima che la maggioranza dei migranti venezuelani in Colombia sia costituita da donne («migrazione femminizzata»). Per loro, conosciute come simbolo di bellezza, ci sono pericoli e insidie aggiuntive. Inclusa la morte violenta.

Bogotà. «Venezuela duele», il Venezuela fa male. Utilizzando un’espressione che l’indimenticato Eduardo Galeano aveva coniato con riferimento a Cuba («Cuba duele»), si riesce a rendere l’idea del dramma che sta vivendo il paese sudamericano, la sua gente e tutte e tutti coloro che a quella terra tengono particolarmente. Secondo l’Onu, sono più di 5,6 milioni le persone che hanno abbandonato la patria del Libertador Simón Bolívar, un paese in preda a una crisi umanitaria complessa della quale non si vede all’orizzonte una pronta risoluzione. Milioni di venezuelani hanno dato forma a un vero e proprio esodo, il più grande che la regione latinoamericana abbia sperimentato negli ultimi anni. Almeno due milioni di migranti si trovano nella vicina Colombia, un milione in Perù, e altre centinaia di migliaia sparsi tra Ecuador, Cile, Argentina, Brasile, Repubblica Dominicana, Panama, Costa Rica, Messico e anche fuori dalla regione, soprattutto negli Usa, in Spagna e, con una nutrita comunità, anche in Italia.

Il migrante venezuelano

Il trattamento ricevuto dai migranti venezuelani non è omogeneo e risponde a una serie di variabili e considerazioni che vanno dal loro status politico, sociale ed economico, all’età, al genere, al momento storico della migrazione, al titolo di studio o professionale che possiedono e al paese nel quale sono emigrati. Gli ultimi, coloro che appartengono a quella che gli esperti definiscono la terza ondata migratoria (iniziata nel 2015 ed esplosa nel 2018), sono i più vulnerabili. Hanno lasciato il paese solo con quello che sono riusciti a caricarsi sulle spalle iniziando a camminare, letteralmente a camminare. A piedi hanno attraversato ponti, fiumi, selva e montagne. Con la determinazione della ricerca di un futuro migliore per loro e per i loro figli, hanno fatto quello che nessun venezuelano avrebbe mai pensato di poter fare: lasciare la propria casa. Quella venezuelana non è infatti una comunità nella quale la migrazione faccia parte di un processo sociale e storico. Al contrario, il paese sudamericano è stato, fin dal 1800, una terra che ha accolto chiunque scappasse da fame, guerra e miseria. Per questo il Venezuela è, ad oggi, uno dei grandi esempi mondiali di meticciato etnico e culturale. Ora, però, le cose sono cambiate e da paese di accoglienza, il Venezuela si è trasformato nel più grande generatore mondiale di migranti, superato solo dalla Siria.

Migranti venezuelani attraversano il fiume Tachira, che segna il confine tra Venezuela e Colombia (19 novembre 2020). Foto Schneyder Mendoza – AFP.

Donna venezuelana, immagine e mito

In questo immenso e costante flusso migratorio le donne rappresentano quasi il 50% del totale, a volte arrivando anche a superare, come nel 2019 per il caso colombiano, questa percentuale. In questo senso, se pur è necessario riconoscere che la situazione migratoria rappresenta di per sé una sfida, è innegabile che per le donne sia il processo migratorio sia l’inserimento sociale nel paese di destinazione presentino delle insidie e dei pericoli aggiuntivi.

L’immagine della donna venezuelana nella regione latinoamericana (e non solo) è ipersessualizzata e, per decenni, è stata venduta come lo standard di bellezza da eguagliare. Se a questo aggiungiamo la situazione di estrema vulnerabilità e necessità con la quale la maggior parte di loro lascia il Venezuela e l’onnipresente machismo che permea le società latinoamericane, diventa purtroppo facile intuire a quali pericoli siano più esposte. Nello stesso Venezuela il traffico di esseri umani al fine dello sfruttamento sessuale è esploso negli ultimi anni, soprattutto verso Trinidad e Tobago, lo stato caraibico che si trova a soli undici chilometri dal porto venezuelano di Güiria (stato Sucre). La situazione è però particolarmente grave in Colombia, paese sul quale si concentra questo dossier. Già nel 2019, attraverso l’innovativo progetto di ricerca «Mappa interattiva dei casi di donne migranti e rifugiate venezuelane morte e scomparse all’estero», promosso dall’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’Università Carlos III di Madrid, la Colombia emergeva come il paese più pericoloso per le donne venezuelane. A seguito di quel progetto, la pubblicazione «Violencia contra mujeres migrantes venezolanas en Colombia, 2017-2019: Estado de la cuestión, georreferenciación y análisis del fenómeno» (luglio 2020) approfondisce e chiarisce i dettagli della particolare situazione di emergenza vissuta in Colombia dalle donne venezuelane migranti. Nel triennio oggetto di studio (2017-2019), i dati parlano di una «migrazione femminizzata», giacché a dicembre 2019, il 52% dei migranti nel paese erano donne. In termini geografici, la più alta concentrazione di migranti venezuelani in Colombia alla fine del 2019 si trovava nel distretto della capitale Bogotá: 352.431 persone, cioè il 19,9% delle 1.771.237 registrate nel paese dall’ente nazionale Migración Colombia. Analizzando i casi di morte scopriamo che, dal 2017 al 2019, nel paese si sono registrati 349 decessi di donne venezuelane: più di un terzo assassinate. In quel triennio si è registrato un femminicidio di una donna venezuelana in Colombia ogni 11,5 giorni e, se teniamo conto della cifra totale di decessi (morti violente dovute a incidenti, suicidi e morti naturali) osserviamo che, nei tre anni analizzati, in Colombia è morta una donna venezuelana ogni 3 giorni. I casi di morte però non seguono specularmente la concentrazione geografica della migrazione. Infatti, nonostante fosse il distretto della capitale Bogotà il luogo con la più alta concentrazione di migrazione venezuelana in Colombia, in relazione alle morti violente, osserviamo che i dipartimenti di confine di Nord di Santander e La Guajira rappresentano il 46,21% del totale, rispettivamente 38 e 23 casi. Il dato aumenta ancora di più se si considerano solo gli omicidi: in questo caso, i dipartimenti già menzionati, sommano il 52,17% del totale degli omicidi di donne migranti venezuelane nel triennio 2017-2019 in tutto il paese. Questi due dipartimenti corrispondono ai punti di origine delle rotte migratorie del Nord (frontiera di Maicao) e del Sud (frontiera di Cúcuta) della Colombia: rotte che, ad oggi, continuano a essere percorse e continuano a essere estremamente pericolose.

Un cartello dell’organizzazione «Hermanos caminantes», che ha istituito vari punti di aiuto lungo i percorsi dei migranti venezuelani. Foto Diego Battistessa.

Violenze, femminicidi e «sesso di sopravvivenza»

Le cifre relative alle donne migranti venezuelane morte in Colombia, analizzate nella pubblicazione del 2020, provengono da rapporti ufficiali dell’Istituto nazionale di medicina legale e scienze forensi della Colombia, dalla Direzione delle indagini criminali e Interpol – Polizia nazionale della Colombia (Dijin) e da rapporti di organizzazioni non governative e agenzie dell’Onu. Proprio partendo da un’analisi dei dati raccolti dalla Dijin, si può costruire un profilo tipico della donna venezuelana vittima di femminicidio in Colombia nel triennio 2017-2019: si tratta di una donna di circa 27 anni, con almeno studi elementari, non legata a gruppi illegali, non sposata e con una situazione lavorativa precaria.

Come visto, la situazione delle donne venezuelane migranti a fine 2019 presentava già un grado di estrema emergenza e, con l’arrivo del Covid-19 nel primo trimestre 2020, la loro condizione ha subito un notevole peggioramento. L’impossibilità di raccogliere i dati per le stringenti misure di confinamento, l’invisibilizzazione dei casi e l’impunità dei carnefici, hanno reso le donne ancora più vulnerabili.

Si è diffuso massivamente quello che è conosciuto come «sesso di sopravvivenza» e che consiste nel baratto del proprio corpo in cambio di beni di prima necessità: trasporto, alloggio, alimenti o medicinali vengono «pagati» con sesso.  In altre parole, questo diventa moneta di scambio in una pratica di violenza estrema che mira a togliere qualsiasi tipo di dignità all’altro, approfittando di un privilegio circostanziale. Troppo spesso le donne venezuelane non hanno scelta: con figli a carico (insieme a loro in Colombia o in attesa delle rimesse in Venezuela), subiscono questa brutale aggressione strutturale, sacrificando i loro corpi sull’altare del bene maggiore: il sostentamento dei loro figli e delle loro famiglie.

Lungo le rotte migratorie (le descriveremo più avanti), non è strano incrociare migranti venezuelani che provano a fare ritorno in patria (chiamati retornados) dopo un’esperienza fallimentare in un altro paese. Tra di loro molte donne che, oltre al faticoso e lungo processo migratorio, portano addosso il vissuto di esperienze traumatiche e umilianti, di sofferenza e di vergogna che non potranno mai condividere con i loro cari.

La mossa della Colombia

Il 2021 si è aperto però con una luce di speranza. Nonostante la recrudescenza della pandemia e dell’emergenza migratoria, qualcosa in Colombia si è mosso. Lo scorso 8 febbraio, il presidente del paese Iván Duque ha presentato una bozza di decreto che mette in moto lo «Statuto temporaneo di protezione per i migranti venezuelani» (Etpv, nella sua sigla in spagnolo). Questa misura copre legalmente quasi un milione di venezuelani che si trovano in Colombia in condizione di irregolarità migratoria e che sono entrati nel paese prima del 31 gennaio 2021. L’Etpv consiste in un meccanismo di protezione legale temporanea rivolto alla popolazione migrante venezuelana che integra il regime internazionale di protezione dei rifugiati con l’obiettivo di registrazione della popolazione migrante venezuelana nel paese e concede un beneficio temporaneo di regolarizzazione a chi possiede i requisiti stabiliti. L’Etpv sarà valido per 10 anni con possibilità di proroga o risoluzione anticipata a seconda del contesto futuro.

Un primo passo dunque verso la legalizzazione della permanenza delle persone venezuelane migranti in Colombia, condizione però che non risolve tutte le altre vulnerabilità intersezionali che pesano come macigni specialmente sui corpi delle donne.

Diego Battistessa

Folla di migranti al ponte internazionale Simón Bolivar, trecento metri che attraversano il fiume Tachira e collegano Venezuela e Colombia. Foto Cristal Montañéz.

La migrazione: la via di Cúcuta

Al di là del ponte Simón Bolívar

Passare in Colombia costa soldi e rischi e non risolve i problemi. In aiuto dei migranti è scesa in campo anche la diocesi di Cúcuta.

San José de Cúcuta, attuale capitale del dipartimento colombiano del Nord di Santander, è stata ed è una citta nevralgica del Sud America. Il nome stesso di questa città rispecchia l’incontro-scontro di due mondi, essendo composto da San José (in onore alla figura biblica di Giuseppe, padre putativo di Gesù) e Cúcuta, nome del cacique del popolo indigeno Barí che dominava quelle terre prima dell’arrivo dei conquistadores spagnoli. Un luogo di lotta e insorgenza, una città nella quale, oltre alle numerose placche commemorative del passaggio del Libertador Simón Bolívar, sono presenti due statue in ricordo di donne che ne hanno segnato le vicende e la storia: una è dedicata a Doña Juana Rangel de Cuellar, che nel 1733 donò 782 ettari di terreno al sindaco della città di Pamplona per promuovere la fondazione di Cúcuta; l’altra, all’interno del parco che porta il suo nome, è dedicata all’indipendentista Mercedes Abrego.

Una placca commemorativa racconta la sua storia: «Doña Mercedes Abrego de Reyes. Dama cucutegna, sarta che cucì e omaggiò al Libertador la sua elegante uniforme di Brigadiere con motivo del trionfo di Bolívar su Ramón Correa, nei pressi di Cúcuta. Quando le truppe realiste riconquistarono la città nell’ottobre 1813, fu condannata a morte per aver aiutato i ribelli. Fu giustiziata il 21 di ottobre del 1813 per ordine di Bartolomé Lizon. Fu portata di notte, in vestaglia e scalza, dalla sua casa in Urimaco fino al luogo dell’esecuzione. Camminò per le strade della città sotto forte scorta. Una volta giunta nel luogo predisposto, l’ufficiale a capo della scorta chiese a chiunque si sentisse capace di tagliare con un solo colpo la testa ad una donna, di fare un passo avanti. Ignacio Salas fu il suo assassino, che riversò la sua sete di sangue sulla donna, decapitandola con un solo colpo di sciabola: suscitando in quel modo gli applausi e gli encomi dei suoi compagni d’armi».

Più a Sud, nell’area metropolitana di Cúcuta, troviamo Villa del Rosario. Si tratta della città natale del generale José de Paula Santander e sede dello storico congresso del 1821 nel quale, sotto l’egida di uno dei grandi padri della patria colombiana, Antonio Nariño venne redatta quella che è passata alla storia come la costituzione di Cúcuta. A Villa del Rosario, in quello che oggi è il Parco Grancolombiano, oltre alla casa di Santander, si trova ciò che resta del Tempio del Congresso, semidistrutto dopo il terremoto del 18 di maggio 1875, passato alla storia come «il terremoto delle Ande».

L’entrata della «Casa de paso Divina Providencia», istituita dalla diocesi di Cúcuta e coordinata dal padre José David Cañas Pérez, a La Parada. Foto Diego Battistessa.

«Trochas» e «trocheros»

Proprio in questa cittadina così emblematica, oggi parte del conglomerato urbano di Cúcuta, si trova il quartiere chiamato «La Parada» (la fermata), punto di inizio della traversia di migliaia di venezuelane e venezuelani migranti. Si tratta del punto zero dell’esodo, uno dei luoghi simbolo del più grosso fenomeno migratorio che la storia recente dell’America Latina ricordi. Il rito di passaggio avveniva attraversando il ponte Simón Bolivar, costruito sul fiume Tachira, frontiera naturale tra due paesi che alternano amore e odio, fin dai tempi dell’indipendenza. Scaramucce diplomatiche prima, ed esigenze sanitarie poi, hanno reso terra desolata quei pochi metri di asfalto che uniscono due mondi così simili ma allo stesso tempo così diversi.

Se i ponti sono chiusi (ma la situazione è in cambiamento, ndr), non è così però per le frontiere informali. Decine infatti sono le trochas, stretti passaggi tra la selva e il fiume Tachira che permettono quotidianamente a centinaia di persone di passare illegalmente da un lato all’altro del confine. A guidare i gruppi di migranti in questi sentieri della speranza attraverso acqua e foresta, sono i trocheros, persone che conoscono la zona e che hanno ottenuto il beneplacito dei gruppi criminali che controllano il contrabbando di merci e persone. Chiunque voglia passare dal Venezuela alla Colombia (e viceversa) deve scendere a patti con i colectivos (gruppi armati al margine della legge, spesso conniventi con la polizia) nella città venezuelana di San Antonio del Tachira.

Una volta pagata la tariffa concordata e trovato un trochero, si può passare, pagando dal lato colombiano un’altra tariffa di «destinazione». A marzo 2021 i prezzi per il passaggio erano relativamente bassi, questo era dovuto soprattutto alla gravissima crisi economica del Venezuela, alla chiusura delle frontiere e alle misure di confinamento stabilite nel paese da Nicolás Maduro. Per passare da Sant’Antonio del Tachira a La Parada erano necessari 5mila pesos colombiani da ambo i lati (un totale di 10mila pesos che equivale a circa 2,5 euro). Il problema però per la maggior parte dei migranti venezuelani è arrivare a Sant’Antonio del Tachira, cosa per niente ovvia e potenzialmente molto pericolosa. Ecco, dunque, che per garantire un transito sicuro da Valencia, Barquisimeto, Merida o San Cristobal, bisogna sborsare l’equivalente di centinaia di dollari ai colectivos. Questo ovviamente vale anche per un eventuale viaggio di ritorno.

Padre José David Cañas Pérez alla «Casa de paso Divina Providencia». Foto Cristal Montañéz.

I problemi in territorio colombiano

Considerato quanto detto fino ad ora, ci si potrebbe immaginare che una volta arrivati dalla parte colombiana del fiume Tachira, il peggio sia passato e invece i problemi per i migranti venezuelani non faranno che moltiplicarsi. La Parada non è un luogo nel quale pensare di poter rimanere permanentemente e di fatto quasi nessun venezuelano considera questa opzione come un piano percorribile. L’idea è rimanere giusto il tempo necessario per racimolare qualche soldo e poi andare a Cúcuta. Da lì, diventa più facile trovare delle opportunità di guadagno e pianificare il resto del viaggio che passerà per la rotta stradale di 202 km che unisce la capitale del dipartimento del Nord di Santander con Bucaramanga. Una volta giunti a Bucaramanga, ogni scelta diventa possibile: rimanere in Colombia e dirigersi verso un’altra grande città o continuare il viaggio verso un altro paese (Ecuador, Perù, Cile e Argentina) più a Sud.

Nonostante ciò, negli ultimi anni La Parada si è trasformata in una sosta transitoria a medio termine, dove le famiglie venezuelane spendono oramai settimane o mesi. La pandemia ha poi peggiorato le cose, limitando la mobilità e costringendo diversi nuclei familiari a cercare una sistemazione semistabile. In questo contesto è sorta un’«architettura del migrante», promossa da persone locali che hanno visto la possibilità di fare business, trasformando degli stabili fatiscenti in case provvisorie per i venezuelani migranti. Stabili di un solo piano sono stati compartimentati con stanze di dieci metri quadrati ciascuna, nelle quali vivono intere famiglie, condividendo un patio e un bagno in comune. In queste misere, insalubri e promiscue soluzioni abitative, possono vivere anche 5 o 6 famiglie (una per stanza), fino a 30 persone condividendo una doccia e un bagno. Ogni nucleo familiare cucina nella stanza nella quale vive con una bombola di gas noleggiata, che deve pagare giornalmente: anche l’affitto è giornaliero (circa 10 pesos al giorno) e viene pagato ogni sera, chi non paga viene sbattuto fuori.

Per il corpo e per lo spirito

In tutta questa tenebra c’è però un punto di luce: la «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» della diocesi di Cúcuta. Questo spazio di ristoro, per il corpo e per lo spirito, è stato inaugurato il 5 giugno del 2017 e da allora si è trasformato in un luogo di speranza e sollievo per quanti arrivano a La Parada. L’idea della diocesi di Cúcuta era quella di provvedere un appoggio integrale alla popolazione migrante in transito e non, garantendo alimentazione, medicinali e cure mediche, attenzione psicosociale e assistenza legale. La chiesa cattolica di Cúcuta ha messo in marcia un incredibile progetto, appoggiato dallo stesso papa Francesco, che ha visto sommarsi alla causa il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur / Unhcr), Caritas internazionale, Adveniat (il programma della Conferenza episcopale tedesca che sostiene e finanzia progetti pastorali in America Latina e Caraibi), Caritas Colombia, Caritas spagnola, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America e la catena di radio spagnola Cope. Con l’aumento del flusso migratorio nel 2018 e, successivamente, con l’arrivo del Covid-19 a inizio 2020, l’attività della «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» è stata però fortemente rallentata. Negli ultimi mesi si è deciso di ridurre l’accesso alla struttura (che prima offriva servizio a 3.500 persone al giorno) dando la priorità all’alimentazione di bambini, donne e anziani: oggi vengono serviti 350 pasti quotidiani, cifra che non soddisfa la grande richiesta di cibo e assistenza integrale che continua a esistere nel quartiere.

Migranti venezuelani in cammino (si noti il cartello con le distanze). Foto Cristal Montañéz.

Cúcuta e prostituzione come necessità

A 15 minuti in auto da La Parada, tragitto che la maggior parte dei migranti venezuelani percorrono a piedi, si arriva a Cúcuta. La situazione in città è critica e questo non è dovuto solo al coronavirus (a partire da aprile 2020). Secondo i dati di Migración Colombia al 31 dicembre 2019, nella capitale del dipartimento del Nord di Santander si trovavano circa 105mila cittadini venezuelani su una popolazione totale di 700mila persone (e in tutto il dipartimento più di 200mila venezuelani, che corrispondeva all’11,5% del totale nazionale).

La saturazione degli spazi abitativi e lavorativi ha prodotto in città una precarietà senza precedenti, accompagnata da una situazione di grande vulnerabilità, specialmente per le donne e le bambine. Gli uomini, in mancanza di un’alternativa lavorativa, si dedicano al rebusque: un’attività di riciclaggio attraverso la quale, perlustrando tutte le strade delle città e ispezionando la spazzatura, riescono a raccogliere plastica, alluminio, vetro, cartone e metalli che poi rivendono nei centri preposti al riciclaggio. Per le donne la prima alternativa e la più remunerativa è la prostituzione. Alcune cercano di dedicarsi ad altre attività, come la vendita di caffè nella zona del Terminal dei bus, ma la pressione sociale e la promessa di facili guadagni spesso fa pendere la bilancia verso la vendita dei loro corpi. Oramai a Cúcuta è quasi impossibile trovare una donna in situazione di prostituzione che sia colombiana: «la piazza» è stata occupata completamente dalle donne venezuelane che hanno ridotto della metà le tariffe vigenti prima del loro arrivo. La maggior parte di queste ragazze (spesso di età compresa tra i 18 e 30 anni) non esercitavano la prostituzione in Venezuela ed è qui, lontane da casa, sole e senza alternative che cadono nella rete dei locali notturni che popolano la Septima avenida (Strada numero 7). Molte di loro hanno già svariati figli e alcune li hanno portati con loro nel viaggio. I bambini e le bambine passano le giornate in stanze d’albergo accanto a quelle dove le madri ricevono i clienti che trovano nei locali o per strada. Quasi nessuno di questi bambini è scolarizzato. Passano le giornate dormendo per ingannare la fame o guardando la televisione. Le madri sono coscienti che questa non è la situazione ideale, ma sanno che è l’unico presente che possono offrire, almeno per il momento, ai loro figli.

Sono centinaia le donne venezuelane che riempiono la «settima», e per le misure adottate in Colombia per contenere i contagi, sono costrette a scendere in strade fin dalla mattina per poter lavorare fino all’orario del coprifuoco, ogni giorno sempre più stringente. La polizia spesso entra nei locali facendo ronde e retate, soprattutto per assicurarsi che nessuna minore d’età venga prostituita.

Verso altre piazze

In Colombia, il commercio sessuale è tollerato e in ogni città esistono dei quartieri di tolleranza (veri gironi dell’inferno) dove, a volte, la polizia cerca di fare atto di presenza ricordando che la prostituzione minorile è un reato. A Cúcuta le tariffe sono bassissime e sono le stesse ragazze a pagare la pieza (la stanza d’hotel). Un cliente paga 30mila pesos (7,5 euro) per trenta minuti e considerando i costi che le venezuelane devono sostenere quotidianamente (cibo per loro e per i figli e la stanza dove dormire), molto spesso devono riuscire a trovare almeno tre clienti al giorno. Un’impresa davvero ardua di questi tempi e per questo, molto spesso, sono costrette a negoziare il prezzo fino quasi alla metà.

Però anche Cúcuta, come La Parada, è un luogo di passaggio, soprattutto per le donne che ascoltano le storie di altre compagne d’avventura che raccontano meraviglie, di Cali, Bogotà, Cartagena e Medellin: città dove si può lavorare di più e meglio, dove i clienti sono europei e statunitensi e, dunque, si può inviare più denaro alla famiglia rimasta in Venezuela. Ragione quest’ultima, che rappresenta il vero scopo del processo migratorio per molte di loro.

Per raggiungere queste città via terra da Cúcuta, (la stragrande maggioranza di loro non ha documenti d’identità validi e non può prendere l’aereo) bisogna però arrivare prima a Bucaramanga.

Le tende e la «lavanda» dei piedi

Sono 202 i km che separano Cúcuta-Villa del Rosario da Bucaramanga, capitale del dipartimento di Santander e circondata dalla cordigliera orientale delle Ande. Il cammino verso questa città è pieno di insidie e pericoli ma nonostante ciò, ad oggi, sono migliaia i migranti venezuelani che hanno realizzato a piedi (a volte scalzi) questa traversata. Lungo quella che è già stata ribattezzata la ruta de los caminantes («la rotta dei camminanti») sono stati installati nel corso degli ultimi anni almeno 13 punti di aiuto e supporto. I primi 9 si trovano nel primo tratto di 75 km (circa 16 ore di cammino) che collega Villa del Rosario con la cittadina di Pamplona. Si tratta di punti di ristoro, alberghi dove poter pernottare, tende nelle quali ricevere assistenza medica e cibo: un sollievo fisico e spirituale.

Sono molte le organizzazioni, confessionali e non, dedicate ad aiutare i camminanti. Tra queste spiccano sicuramente: Samaritan’s Pursue, con l’albergo situato nella località Don Juana a 35 km da Cúcuta, e la Carpa esperanza Jucum (Tenda speranza della gioventù), situata a pochi km da Pamplona, dove giovani volontari si dedicano alla «lavanda» dei piedi dei migranti, alla cura delle piaghe e a distribuire nuovi calzari.

Una volta giunti a Pamplona, i migranti devono riposare e recuperare energie perché li aspetta la parte più dura e pericolosa del viaggio: la scalata del «paramo de Berlin», un passaggio di montagna a più di 3mila metri d’altezza. Da Pamplona a Bucaramanga ci sono altri 4 punti di appoggio che cercano di provvedere i migranti con acqua, cibo e indumenti pesanti per far fronte al freddo delle Ande che alle volte raggiunge gli zero gradi. Le persone provenienti dal Venezuela sono abituate ad un clima caldo. Per loro la traversata di questo passaggio di montagna è qualcosa di sovrumano. Uomini e donne, spesso con bambini piccoli in braccio, in pantaloni corti e t-shirt, con ciabatte o scarpe sportive non adatte a quel clima. Questa è la scena che si ripete costantemente nel «paramo de Berlin», e che più di una volta ha rappresentato una condanna a morte per le persone più fragili, sfiancate dalle lunghe ore di cammino, già malate, o per i più piccoli. Superato il passo, inizia la discesa verso Bucaramanga, un punto di luce e speranza prima di decidere verso dove e come proseguire il cammino. Nel 2020 la pandemia da Covid-19 e le relative restrizioni alla circolazione hanno ridotto il flusso di camminanti, ma – nel primo semestre 2021 (specialmente tra gennaio e marzo) – si è tornati a vedere un fiume di persone che, in fila indiana, la maggior parte con lo zaino con i colori della bandiera bolivariana in spalla, camminano e camminano. Senza sosta.

Diego Battistessa

La migrazione: la via della Guajira

Quando il destino è la strada

Anche la penisola colombiana della Guajira è territorio di transito per molte migranti venezuelane. Tappa di un percorso verso altre città dove curarsi o partorire. O prostituirsi con i turisti del sesso.

La Striscia, «la Raya», così si chiama popolarmente lo spartiacque che, nella penisola della Guajira, divide ufficialmente la Repubblica bolivariana del Venezuela dalla Colombia. Si tratta di pochi metri che per migliaia di venezuelane e venezuelani rappresentano la possibilità di un nuovo inizio. Per lungo tempo questa frontiera (mentre scriviamo la situazione è in evoluzione, ndr), così come le altre tra Venezuela e Colombia, è rimasta chiusa. Le autorità permettevano solo il passaggio, a piedi, dei membri delle comunità transnazionali indigene Wayuú, nativi della penisola della Guajira, che vivono a cavallo dei due stati. Per tutti gli altri l’unico passaggio era attraverso las trochas (i sentieri), che comunque si trovano a pochi metri da «La Raya». Non esiste infatti un vero e proprio controllo militare di questa frontiera dal lato colombiano: gli unici funzionari presenti sono quelli di Migración Colombia, che non hanno funzione di ordine pubblico. È così che, nonostante la pandemia da Covid-19 e le restrizioni, centinaia di persone continuano ad arrivare in Colombia dal fluido confine nel Nord del paese.

Prima tappa a Maicao, Colombia

Una volta entrati in Colombia, nel dipartimento della Guajira (che prende il nome dalla stessa penisola), la prima sfida per i migranti è riuscire a raggiungere la città più vicina: Maicao. Sì, perché «la Raya» si trova nella frazione di Paraguachón, appartenente a Maicao, ma distante 12 km dall’urbe. A Paraguachón, esiste un primo centro di attenzione al migrante gestito da Acnur e dalla Croce rossa colombiana, ma si trovano anche decine di intermediari informali che offrono, a chi se lo può permettere, ogni tipo di servizio: trasporto, merce di contrabbando e cambio moneta, tra gli altri. Chi arriva a Paraguachón spesso viene dalla città venezuelana di Maracaibo (stato Zulia) e ha affrontato un lungo viaggio di più di 100 km con mezzi di fortuna (spesso sul sedile posteriore di una moto) e pagando i colectivos per avere «garanzia» di un passaggio sicuro. Una volta superata la frontiera, molti migranti decidono di proseguire a piedi per Maicao, sotto il sole inclemente della Guajira. Non è solo il sole però a costituire una sfida e un pericolo (soprattutto per le persone anziane e le donne incinte), ma sono anche le bande di predoni che popolano questa terra di nessuno. I taxisti che percorrono la rotta di collegamento tra la frontiera e Maicao sono sempre in allerta e, quando possono, viaggiano in convoglio per dissuadere possibili attacchi armati con fine di rapina.

Da questa frontiera, così come da quella di Cúcuta, solevano passare due tipi di migranti. I commercianti, che venivano per pochi giorni o settimane in Colombia per acquistare merci da poter poi introdurre in Venezuela, e coloro che, invece, zaino bolivariano in spalla, erano decisi ad abbandonare la terra di Bolívar. Dal 2018 in avanti, anno del totale collasso della moneta nazionale venezuelana (il bolívar), il potere d’acquisto dei venezuelani si è ridotto all’osso e il paese è ormai de facto dollarizzato. Questo, e la lunga chiusura delle frontiere, ha ridotto tantissimo il flusso di commercianti e oramai gli unici venezuelani in arrivo sono quelli che scappano da una delle peggiori crisi umanitarie della regione. Come succede per la rotta Sud a Cúcuta-Villa del Rosario, l’idea è quella di fare un breve stop a Maicao per continuare poi lungo la costa per Riohacha, Santa Marta, Barranquilla e, a volte, Cartagena.

Sulla strada di Cúcuta migranti venezuelani con mascherina attendono in fila per avere cibo e medicine dalla Croce rossa (2 febbraio 2021). Foto Schneyder Mendoza – AFP.

A Riohacha, capitale della Guajira

Riohacha è la capitale del dipartimento della Guajira ed è una cittadina che riunisce un crogiolo di etnie, tradizioni e conflitti sociali. Mestizos, afrodiscendenti e indigeni Wayuú abitano lo spazio urbano e rurale (in modo direttamente proporzionale al loro status economico e sociale), vivendo ora gomito a gomito con l’incipiente migrazione venezuelana. Acnur ha aperto in città un grande ufficio vicino al lungomare, cercando di supportare sia l’amministrazione locale che le organizzazioni che appoggiano i migranti. Il dipartimento della Guajira è però uno dei dipartimenti più depressi a livello economico di tutta la Colombia e, in questo contesto, sviluppare azioni di mitigazione della vulnerabilità dei migranti venezuelani, diventa molto difficile. Per questo anche Riohacha per la maggior parte dei migranti non rappresenta una meta, ma una tappa transitoria verso città economicamente più attive e che presentano maggiori opportunità. Inoltre, per quelle donne venezuelane che vedono nella prostituzione l’unico mezzo di sostentamento, Riohacha è un’ambiente ostile e inospitale, dove non è possibile prostituirsi per la strada alla luce del sole. In città prevale una mentalità proibizionista e anche se la prostituzione è implicitamente tollerata, non può però essere esibita in bella vista. Questo e la mancanza di un turismo internazionale, che nel Nord si concentra a Santa Marta e Cartagena, spingono le donne a continuare il loro viaggio verso Ovest.

Santa Marta, capitale del dipartimento di Magdalena, è una città conosciuta per le sue coste ed è meta di turismo nazionale e internazionale. I samari (questo il gentilizio per gli abitanti della città) sono molto fieri della loro tradizione e cultura, e di uno dei grandi figli della città: Carlos Alberto Valderrama (El Pibe Valderrama) famoso calciatore dalla folta capigliatura ossigenata che impressionava il mondo negli anni Novanta. A Santa Marta la migrazione venezuelana è molto presente, e il lungo mare è tristemente popolato da donne venezuelane in situazione di prostituzione. Da Riohacha a Santa Marta ci vogliono almeno tre ore e mezza di bus ma, anche in questo caso, per alcuni la rotta viene fatta a piedi. In questa città le donne venezuelane in situazione di prostituzione raccontano di una particolare dinamica che le vede impegnate in quelle che loro stesse definiscono «stagioni lavorative». Prima della pandemia e della conseguente chiusura delle frontiere e difficoltà di movimento, solevano venire a Santa Marta direttamente dalla zona di Maracaibo e qui si fermavano per circa due mesi. Con il denaro raccolto prostituendosi, tornavano in Venezuela dove le aspettava la famiglia (soprattutto madri e figli). Rimanevano in Venezuela fino a quando il denaro raccolto non cominciava a scarseggiare, momento nel quale diventava necessario tornare a Santa Marta per una nuova «stagione». Questa dinamica, come detto, si è interrotta con l’arrivo del Covid-19, quando decine di donne venezuelane sono rimaste bloccate in Colombia, senza poter vedere la loro famiglia da più di un anno.

In questo senso, oltre allo stile di vita estremamente logorante, l’aspetto psicologico sta passando loro una fattura molto salata. Lontane dai figli che avevano salutato pensando di poterli vedere solo dopo qualche settimana, molte di loro hanno perso familiari morti per la pandemia, persone care alle quali non hanno potuto dire addio. A Santa Marta la prostituzione è tollerata e accettata, tanto che si esercita fin dalle prime ore del giorno lungo tutto il lungomare, soprattutto nel centrale parco Bolívar e anche di fronte all’edificio dell’amministrazione centrale del dipartimento.

Due donne migranti allattano i loro piccoli in un punto istituito da «Hermanos caminantes». Tra le migranti venezuelane ci sono mamme e donne incinte. Foto Cristal Montañéz.

Le Ong di Barranquilla

Cento chilometri a Ovest di Santa Marta si trova Barranquilla, conosciuta anche come «la arenosa», capitale del dipartimento dell’Atlantico. Qui la situazione della migrazione venezuelana è completamente differente rispetto alle altre città che formano la rotta Nord: le persone che hanno lasciato il Venezuela cercano in questa città la possibilità di stabilirsi in modo permanente. Barranquilla è la quinta città più grande della Colombia, con una popolazione di un milione di abitanti, il 10% dei quali sono migranti venezuelani.

Si tratta di un polo commerciale importante dove, prima della pandemia, abbondavano le opportunità di lavoro e di commercio. Il clima costiero è un altro elemento di confort per i migranti venezuelani che, nel corso degli ultimi anni, hanno visto Barranquilla come una reale opportunità di ricostruzione di un futuro di speranza. In questa città si trova uno dei più brillanti esperimenti di supporto locale integrale alla popolazione migrante di tutta la Colombia: il «Centro di integrazione per i migranti», creato nel novembre 2019 dall’amministrazione comunale della città. Questo punto di supporto si trova tra la Carrera 45 e Calle 45, alle porte del centro storico della città. Adriana Padilla è la coordinatrice della struttura, che lavora in costante coordinamento con la direzione del Gruppo interagenzia sui flussi migratori misti (Gifmm) e con le diverse organizzazioni che lo compongono. Questo centro è davvero il fiore all’occhiello dell’assistenza alla migrazione venezuelana in Colombia. Al suo interno vengono svolte attività polivalenti portate avanti tra le altre da Oim, Acnur, Unicef e Croce rossa colombiana. Inoltre, la risposta alle diverse esigenze delle persone che accedono al centro è legata ad un accordo quadro con un’altra dozzina di Ong nazionali e internazionali (Plan international,  Danish refugee council e World vision), che svolgono attività specialistiche per rispondere a particolari situazioni di vulnerabilità. Nella struttura, grazie al finanziamento di Acnur e al lavoro svolto da alcune Ong locali (come De Pana Que Si e Fuvadis), si sono aperti anche canali di appoggio per rispondere alle particolari situazioni delle donne venezuelane migranti (in special modo gravidanze e situazioni di violenza familiare) e delle persone appartenenti al gruppo Lgbtiq+ (persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer).

La prostituzione a Barranquilla

Barranquilla è stata la meta di centinaia di donne venezuelane migranti che cercavano un posto sicuro dove partorire o dove poter essere visitate e accompagnate durante la loro gravidanza. Negli ospedali colombiani sette migranti venezuelani su dieci sono donne; a Barranquilla, città di riferimento della costa colombiana, il 70% dei parti è di madri venezuelane.

Per quanto riguarda le donne venezuelane in situazione di prostituzione, esse si concentrano nei locali che popolano il centro storico, nella zona del Parque de los enamorados (parco degli innamorati), lungo la Carrera 40, tra le strade 45 e 42. Camminando per quella zona, estremamente pericolosa nelle ore notturne, si possono intravedere decine di donne migranti venezuelane «ammassate» dentro i locali in attesa dei clienti di turno. A Barranquilla però, così come in altre città economicamente più attive (come, ad esempio, Medellin), la prostituzione si muove anche attraverso internet. Sono decine infatti le pagine di incontri dove le donne venezuelane offrono i loro servizi in appartamenti, centri di massaggi erotici, bar o direttamente a domicilio. Un «mercato» cresciuto in maniera esponenziale, soprattutto con le restrizioni per evitare i contagi da Covid-19 che hanno portato alla chiusura di molti locali e all’attivazione del coprifuoco a partire dalle venti.

«Io proteggo le donne», promette la frase sul cappellino. Foto Diego Battistessa.

… e a Cartagena de Indias

Come detto, per la maggior parte dei migranti venezuelani la rotta Nord si interrompe a Barranquila, ma non mancano coloro che, percorrendo altri 120 km verso Ovest, decidono di arrivare alla città di Cartagena de Indias, vero grande polo turistico internazionale del «Caribe colombiano». In questa città si vive praticamente solo di turismo e sono centinaia i venezuelani che lavorano per le strade come promotori di ogni tipo di servizio. Una delle grandi piaghe di Cartagena è però il turismo sessuale, dovuto in gran parte a uomini statunitensi ed europei che arrivano nella capitale del dipartimento di Bolívar solo alla ricerca di droga e prostituzione. Le autorità locali hanno combattuto, soprattutto nel 2018, questo fenomeno, ma ad oggi la situazione non è cambiata molto. Alla sera, la zona della torre dell’orologio, giusto all’entrata della cinta muraria della città, si popola di donne in situazione di prostituzione a caccia del turista di turno. Anche in questo caso, la maggior parte di loro sono venezuelane, giovani, avvenenti, con diversi interventi di chirurgia plastica per incarnare quello stereotipo così mercificato ed esportato in tutto il mondo dalla fabbrica della bellezza di Osmel Sousa (il padrino di Miss Venezuela). Le tariffe variano: si può passare dai 100 dollari per 30 minuti ai 500 dollari per tutta la notte. È per questo che Cartagena, soprattutto per le giovani migranti venezuelane che rispondono ai parametri del mercato del sesso, diventa il luogo dove i turisti sessuali sono disposti a comprare il loro corpo pagando in dollari sonanti.

Diego Battistessa

Ritratto di un giovane migrante venezuelano. Foto Diego Battistessa.

Inserti

Una baracca costruita da migranti. Foto Diego Battistessa.

«Ranchitos»

Capita spesso che famiglie di migranti venezuelani, trovandosi nell’impossibilità di pagare un alloggio nelle località colombiane nelle quali giungono, decidano di occupare un pezzo di terra in periferia e costruire un «ranchito» (baracca). Si tratta di costruzioni fatte di cartoni, lamiere, teloni e coperte. Luoghi senza acqua ed elettricità, insalubri, spesso in zone rischiose (come il costato di una montagna), ma che per i migranti sono ciò che di più può somigliare alla parola casa. Dopo l’arrivo di una o due famiglie si sparge la voce ed è così che altre decine di persone giungono per occupare il loro pezzetto di terra e potersi mettere un tetto sopra la testa. Di solito, gli abitanti delle città dove avvengono le invasioni non vedono di buon occhio questa pratica e le amministrazioni locali provano, spesso con la forza, a sfrattare gli occupanti non fornendo loro però nessuna soluzione alternativa. Questo è quello che sta succedendo nel quartiere San Matteo, periferia di Cúcuta, dove è sorto da due anni un insediamento di migranti venezuelani ribattezzato «Nuova Speranza». Si tratta di una ventina di baracche costruite su di un suolo argilloso e sull’orlo di un crepaccio: un accampamento dove vivono circa 70 persone (18 famiglie), metà delle quali minori d’età. Gli «invasori» hanno trovato il modo di collegarsi alla rete elettrica cittadina e anche per l’acqua hanno trovato il modo di diventare autosufficienti con un sistema (precario) di tubature. Non sono ben accetti dai vicini del quartiere San Matteo, specialmente dal centro di addestramento della polizia che si trova giusto sopra di loro, in cima alla collina. Ad oggi l’amministrazione della città di Cúcuta ha intimato lo sgombero della zona per motivi legati alla sicurezza e alla salute degli stessi migranti (soprattutto dei minori) ma senza offrire alternative, nessuno lascerà «Nuova Speranza».

Di.Ba.

Torturatori

Prostituzione venezuelana per le strade della Colombia. Foto Diego Battistessa.

A Bogotà esiste un quartiere dove ad ogni ora del giorno è possibile «comprare» un corpo di una donna venezuelana migrante. Si tratta di Santa Fe, zona di tolleranza della capitale colombiana, fiera della spoliazione dei diritti, luogo nel quale si commercia approfittando della miseria altrui. Donne e ragazzine (molte sono minorenni), praticamente nude, aspettano sui marciapiedi delle strade dalle 15 alla 22, il torturatore di turno. Sì perché, come ricordano María Galindo e Sonia Sánchez nel libro Ninguna mujer nace puta, una donna in situazione di prostituzione si incontra con prostituenti, stupratori e torturatori, non con clienti. Camminando per quelle strade, ciò che si vede è la nudità dei loro corpi, ma quello che molti non vedono (non vogliono vedere) è la nudità di diritti. Donne e bambine vestite solo di forza di spirito e dignità, tenute spesso in piedi dalla droga (che aiuta anche a non sentire la fame), mentre deambulano in una strada che oramai è tutto il loro mondo, tutto il loro inferno. Vivono negli hotel della zona (spesso con i loro figli), pagando una quota giornaliera. Inviano settimanalmente soldi ai parenti rimasti in Venezuela, che quasi mai sono al corrente della non vita che fanno queste donne nel quartiere di Santa Fe. Ombre, fantasmi di ciò che erano un tempo: in Venezuela molte di loro prima del collasso del paese, avevano davanti una promettente carriera professionale oppure stavano frequentando l’università.

 Di.Ba

I morti di Sonia

Si chiama Sonia Bermúdez Robles, ha 65 anni e per tutta la vita ha avuto a che fare con la morte essendo una tanatologa forense. Sonia è originaria di Riohacha e proprio nella capitale della Guajira ha lavorato per più di 40 anni nell’istituto di medicina legale, realizzando circa 5mila autopsie. Nel 1996, a dieci chilometri dalla città, sulla via per Valledupar, Sonia occupa un terreno di cinque ettari di proprietà del comune e inaugura il cimitero «Gente como uno» (Gente comune, come noi). Inizialmente il cimitero rispondeva all’esigenza di dare sepoltura agli N.N. e alle persone di bassa o nessuna capacità economica (persone che non sarebbero state sepolte nel cimitero centrale della città), ma con l’esplosione della crisi migratoria venezuelana le cose sono cambiate drasticamente. A partire dal 2018, sono state decine le richieste ricevute da Sonia per poter dare sepoltura ai migranti venezuelani morti nella Guajira: persone le cui famiglie non disponevano di risorse economiche per il funerale e delle quali né lo stato venezuelano, né quello colombiano, erano disposti a farsi carico. Di fronte a questa situazione Sonia ha risposto «presente», e da quel momento ha dato cristiana sepoltura a più di 500 migranti venezuelani nel suo cimitero, la maggior parte infanti e persone anziane. Il lavoro di Sonia è oggi riconosciuto internazionalmente, e anche l’Onu ha celebrato il suo esempio di solidarietà e costruzione della pace.

Di.Ba

Sonia Bermudez Robles, tanatologa forense, davanti ai loculi del cimitero. Foto Diego Battistessa.

 

 

 

 




Stati Uniti. L’uragano migranti (e la frontiera liquida)


Da cinque mesi alla Casa Bianca, il presidente Joe Biden sta ancora cercando soluzioni per una delle questioni più ostiche, quella migratoria. Se per gli immigrati già sul territorio statunitense una via d’uscita sembra possibile, per le migliaia – compresi moltissimi minori non accompagnati – che spingono alla frontiera Sud, la soluzione è lontana. Ammesso che una soluzione esista.

Sono oltre quattro metri d’altezza, ma ai trafficanti non importa. Uno a terra dal lato messicano, un altro a cavalcioni sulla barriera del confine, si passano due piccoli corpi che fanno cadere sul lato opposto, sul terreno desertico del New Mexico, Stati Uniti. La scena notturna è ripresa da agenti della polizia di frontiera statunitense (Cbp), che dopo non molto accorrono sul posto. Scopriranno poi che i migranti illegali sono due sorelle ecuadoriane di 3 e 5 anni.

Altra zona, altro deserto: quello del Texas. Un bambino, coperto dal cappuccio della tuta, si aggira con fare sperduto. Incontra la macchina di un agente di frontiera. «Me puede ayudar?», gli domanda in lacrime. «Che è successo?», chiede l’uomo parlando in spagnolo. «Il gruppo mi ha abbandonato». L’agente si mostra molto comprensivo: «Ti hanno lasciato solo? Non sei venuto con mamma e papà?».

Il ragazzino si chiama Wilton Gutiérrez, un nicaraguense di 10 anni, separato dalla madre, Meylin Obregon, sequestrata in Messico da uno dei vari gruppi di banditi che fanno affari sulla pelle dei migranti. Oggi figlio e madre si sono riuniti negli Stati Uniti e fiduciosi attendono di conoscere se il paese li accetterà.

Il Rio Grande (chiamato Rio Bravo in spagnolo) è il fiume che funge da confine naturale tra Stati Uniti e Messico per circa duemila chilometri. La lancia di pattuglia scorge due ragazzini in acqua, aggrappati ad alcune piante, nel tentativo di passare sulla sponda statunitense. Gli agenti li caricano a bordo della barca, salvandoli da una situazione complicata. I due bambini hanno 7 e 13 anni e vengono dall’Honduras.

La bandiera Usa sulla gru della barriera costruita al confine di McAllen, in Texas (30 ottobre 2020). Appena entrato alla Casa Bianca, il nuovo presidente Biden ha sospeso i lavori per il prolungamento del muro. Foto Jerry Glaser / CBP-U.S. Government.

Numeri straordinari

Quelli qui brevemente ricordati sono soltanto alcuni dei tanti episodi accaduti tra marzo e aprile. Lungo i 3.145 chilometri della frontiera che divide il Messico dagli Stati Uniti i drammi umani sono infatti all’ordine del giorno, come probabilmente accade su tutti i confini «caldi» del mondo.

Secondo i dati della polizia di frontiera (Customs and border protection, Cbp), lo scorso marzo hanno attraversato il confine Sud degli Stati Uniti 171.700 migranti e tra essi 18.890 minori non accompagnati. Cifre record e, tra l’altro, inferiori a quelle reali, visto che molti riescono nell’intento di passare negli Usa senza cadere nelle mani degli agenti.

Il cambio d’amministrazione a Washington è soltanto uno dei motivi dell’incremento degli arrivi. Ci sono vari fattori che hanno prodotto questo trend crescente: le devastazioni causate dagli eventi naturali (alcuni uragani hanno colpito duramente, soprattutto in Honduras e Nicaragua), le difficoltà economiche esplose con la pandemia e, al solito, la violenza e la corruzione imperanti nei paesi centroamericani e in Messico.

Inutile negare l’evidenza: i numeri sono enormi e difficilmente gestibili senza costi, umani, materiali e politici. La circostanza che più colpisce è l’elevato numero dei minori non accompagnati.

Qui sorge immediata una domanda: com’è possibile che i loro cari permettano questo? È la disperazione: le famiglie sono disposte a mettere a rischio la vita dei loro figli pur di cercare una speranza migliore – il «sogno americano» – per il loro futuro.

Una pattuglia di agenti CBP controlla un gruppo di immigrati. Foto CBP-U.S. Government.

I migranti e Trump

L’ex presidente Donald Trump aveva usato tre politiche anti migratorie: quella del muro di confine da costruire o rafforzare, quella basata sul «Title 42» e quella del «Remain in Mexico» (formalmente, Migrant protection protocols, Mpp).

Il muro lungo i 3.145 chilometri della frontiera meridionale è lo strumento dissuasivo di sempre, tanto semplice quanto inefficace. Applicando il concetto introdotto da Zygmunt Bauman (1925-2017), si potrebbe dire che anche il confine è diventato «liquido» come la società umana. Attualmente ci sono circa mille chilometri di barriere (doppie, di solito). Sotto la precedente amministrazione, sono stati completati 24 chilometri di muro e altri 290 sono (o erano, vista la sospensione decretata dal nuovo presidente) in costruzione.

La seconda misura anti migratoria si fonda sul «Titolo 42» (salute pubblica) del Codice statunitense: vista l’emergenza pandemica, chiunque superi la frontiera senza permesso può essere immediatamente espulso per evitare la diffusione del virus.

Infine, il «Rimanete in Messico» riguardava i richiedenti asilo e prevedeva che le persone restassero in territorio messicano in attesa della decisione delle autorità Usa rispetto alla loro richiesta. Questa misura, varata da Trump a gennaio 2019, ha costretto migliaia di persone (si parla di oltre 70mila) ad accamparsi nelle città di confine del Messico (Tijuana, Nogales, Ciudad Juárez, Nueva Laredo, Reynosa), in condizioni di precarietà e di violenza.

Si trattava probabilmente di una delle misure più disumane tanto che Joe Biden l’ha cancellata appena entrato alla Casa Bianca (21 gennaio 2021). Allo stesso tempo, è stata subito affrontata la delicata questione degli immigrati minori, trattati da Trump alla stregua di adulti.

Biden ha annunciato la formazione di una squadra per esaminare i casi delle famiglie d’illegali separate alla frontiera (adulti da una parte, minori dall’altra). E la costruzione di nuovi centri d’accoglienza per non ripetere l’esperienza del campo di detenzione temporanea di Donna (Donna soft-sided processing facility), nella Valle del Rio Grande, in Texas, divenuto tristemente famoso per inadeguatezza e sovraffollamento.

Un’immigrata e la sua bimba in attesa di essere identificate nel centro per famiglie e minori non accompagnati di Donna (Donna Soft-Sided Processing Facility), in Texas (25 febbraio 2021). Foto Jerry Glaser / CBP-U.S. Government.

I migranti e Biden

Rispetto a Trump, l’approccio al fenomeno migratorio da parte della nuova amministrazione pare improntato più al rispetto dei diritti umani che alla mano dura.

Biden ha subito espresso appoggio al programma «Deferred action for childhood arrivals» (Azione differita per gli arrivi infantili, in sigla Daca), contro il quale aveva lungamente combattuto l’ex presidente Trump. Il Daca, introdotto da Obama nel 2012, sospende l’espulsione dal paese dei migranti entrati illegalmente quando erano ancora bambini. Sono circa 700mila e sono conosciuti come «dreamers», sognatori.

Nell’ordine esecutivo del 2 febbraio (uno dei tanti dedicati all’immigrazione), il presidente ha precisato la sua filosofia: «Proteggere i nostri confini non ci impone di ignorare l’umanità di coloro che cercano di attraversarli». Nel frattempo, il numero degli arrivi ha continuato a crescere, costringendo Biden a frenare.

Il 17 marzo, nel corso di un’intervista televisiva (Abc News), è stato costretto a fare un appello ai migranti: «Non venite» («Don’t come over»). Infine, lo scorso 12 aprile la Casa Bianca ha annunciato un accordo con Messico, Honduras e Guatemala per una maggiore sorveglianza di questi paesi alle loro frontiere. Insomma, anche per Washington regolare gli (inevitabili) flussi migratori rappresenta una sfida molto difficile perché priva di soluzioni facili e indolori. Detto questo, gli Stati Uniti sono e rimangono un paese d’immigrazione che con gli immigrati (vale a dire con le persone nate in un paese straniero, U.S. foreign-born population) ha costruito il proprio successo.

Immigrati sia legali che illegali. Rispetto a questi ultimi, l’amministrazione Biden ha optato anche per un cambio di linguaggio (19 aprile), avvertendo le due agenzie federali che si occupano di migranti – l’Ice (Immigration and customs enforcement) e la Cbp (Customs and border protection) – di non utilizzare più termini come aliens, illegals o illegal aliens.

Un’addetta della Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) accoglie un piccolo migrante a El Paso, in Texas (26 febbraio 2021). Foto Glenn Fawcett / CBP-U.S. Government.

Genitori espulsi, figli cittadini

Si calcola che, negli Usa, vivano 44,8 milioni di immigrati (Pew research center, 2018). Tra questi 10,7 milioni sono gli illegali («indocumentati»), provenienti soprattutto da Messico e America Centrale, in primis da Guatemala, El Salvador ed Honduras, tutti paesi con enormi problemi sociali, economici e politici. Ben il 66 per cento degli indocumentati vive negli Stati Uniti da più di 10 anni. Tuttavia, indipendentemente dalla lunghezza della permanenza nel paese, la spada di Damocle della deportazione non scompare, generando situazioni paradossali.

Edith Espinal, messicana di 44 anni, madre di 3 figli già maggiorenni, è stata rifugiata per oltre tre anni (dal 2 ottobre 2017 al 18 febbraio 2021) nella Columbus Mennonite Church, a Columbus, in Ohio. Arrivata negli Stati Uniti nel 1995, la donna non ha mai ottenuto il permesso di permanenza legale nel paese. Nel 2017, dopo 22 anni, gli agenti dell’Ice le hanno recapitato un ordine di esplusione. Edith si è allora rifugiata nel luogo di culto, considerato un santuario inviolabile dalle forze dell’immigrazione in base a una disposizione introdotta da Obama nel 2014.

Sempre a Columbus, la signora Miriam Vargas, immigrata dall’Honduras nel 2005, 44 anni e 2 figlie minori, nel giugno 2018 si è rifugiata nella First english lutheran church per evitare la deportazione. Anche lei ha potuto lasciare il suo rifugio soltanto lo scorso febbraio, dopo 31 mesi.

Sia Edith che Miriam non hanno risolto il loro problema legale, ma hanno trovato un compromesso con l’Ice (divenuta più ragionevole dopo il cambio di amministrazione a Washington) e non saranno espluse.

Il paradosso è che i cinque figli delle due donne, essendo nati negli Usa, in base allo «ius soli», sono cittadini statunitensi, mentre i loro genitori, privi di uno status legale, rimangono invece degli immigrati illegali.

Anche per evitare simili paradossi, il progetto di Biden prevede un percorso graduale di otto anni per arrivare alla concessione della cittadinanza agli indocumentati.

Come ovunque nel mondo, sulla questione migratoria anche negli Stati Uniti ci sono correnti di pensiero opposte: da una parte i democratici, dall’altra i repubblicani, oltre ai gruppi estremisti. E sempre, come idea diffusa ma inespressa, un senso di praticità («Gli immigrati ci servono») e di ottimismo («Il nostro sistema reggerà comunque»). Qualche esempio per capire meglio.

L’esempio di New York

New York è uno degli stati Usa con più immigrati, sia legali che illegali. Sarebbero tra 3,2 e 4,4 milioni su una popolazione totale di 20 (American immigration council) con un numero di indocumentati pari a 500-750mila. È a beneficio di queste persone che lo stato guidato dal democratico Andrew Cuomo lo scorso 6 aprile, nell’ambito di un bilancio con interventi straordinari per affrontare le conseguenze della pandemia, ha varato una misura umanitaria molto coraggiosa sia dal punto di vista economico che da quello politico.

Alla voce «Support excluded workers», sostegno ai lavoratori esclusi, si stabilisce la creazione di un fondo di 2,1 miliardi di dollari in favore dei lavoratori «che hanno subito una perdita di reddito a causa del Covid, ma che non sono idonei per l’assicurazione contro la disoccupazione o gli specifici benefici federali a causa del loro stato migratorio». In pratica, i lavoratori senza documenti legali potranno ricevere fino a 15.600 dollari in contanti. Lo stato di New York non è comunque nuovo a norme progressiste. Ad esempio, va ricordato che, dal 14 dicembre 2020, esso consente di richiedere la licenza di guida («Green light law», legge della luce verde) anche agli immigrati illegali.

Un cartello di supporto per Edith e Miriam, immigrate a rischio espulsione: «Let them stay!» (Lasciate che rimangano!). Foto NBC4i.com.

Speranze

Il nuovo responsabile dell’Us Department of homeland security, il ministero dell’Interno statunitense da cui dipendono le agenzie federali che si occupano d’immigrazione, si chiama Alejandro Mayorkas. Lo scorso 16 marzo ha raccontato: «Sono venuto in questo paese da bambino, portato da genitori che avevano capito la speranza e la promessa dell’America. Oggi, altri bambini piccoli stanno arrivando al nostro confine con la stessa speranza».

Nato a L’Avana da padre cubano e madre rumena, Mayorkas è un immigrato che si occuperà di altri immigrati.

Paolo Moiola

Una mappa del confine Sud, con gli stati e le città principali. Immagine Creative Commons – modificata Rivista MC.

Archivio MC:

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«Buon vento, ResQ»


Negli ultimi anni la società civile ha riempito il vuoto lasciato nel Mediterraneo dalle istituzioni. Le navi umanitarie hanno salvato migliaia di vite finendo nel mirino della propaganda anti Ong. Ora, la «ResQ – People saving people» sta per salpare grazie a una grande mobilitazione.

«La storia la fanno le persone semplici, gente comune, con famiglia a casa e un lavoro ordinario. Che si impegnano per un ideale straordinario come la pace, per i diritti umani, per restare umani». Questo scriveva Vittorio Arrigoni nel 2008, tre anni prima della sua morte nella Striscia di Gaza.

Di persone semplici che si impegnano, oggi più che mai, il mondo ha un gran bisogno. Per arginare la deriva dell’umanità e la decrescita dell’empatia verso il diverso, lo sfortunato.

Il compianto attivista non immaginava che il suo motto, «Restiamo umani», sarebbe diventato un baluardo contro l’indifferenza di chi volta la testa dall’altra parte ogni volta che una barca cola a picco nel mare Mediterraneo portando con sé decine, centinaia di vite che cercavano solo un futuro migliore.

È successo il 3 ottobre 2013 con i suoi 366 morti, l’11 ottobre dello stesso anno con altre 268 persone annegate, il 18 aprile 2015, quando sono state non meno di 800. E continua ad accadere. Tanto che dal 2013 a oggi si calcolano almeno 20mila vittime.

Anche negli ultimi mesi i drammi non hanno dato tregua: a fine marzo sono state oltre 60 le vittime accertate dall’Helpline alarm phone, 41 il 16 aprile, e il 22 aprile, proprio mentre scriviamo, altre 120, per ricordare solo i naufragi più rilevanti.

Persone salvano persone

Come si può restare umani in quel mare che è diventato un enorme cimitero?

«È possibile e doveroso». Parola di Gherardo Colombo, ex magistrato che non si tira mai indietro e che, con un gruppo di amici, nell’estate 2020 ha lanciato una sfida enorme: mettere in mare una nave di salvataggio della società civile italiana: «Un’imbarcazione battente bandiera italiana, finanziata grazie alle donazioni dei cittadini. Pronta ad andare a soccorrere, perché salvare vite umane è la priorità», spiega Colombo presentando ResQ – People saving people, progetto che, sebbene sia nato in piena pandemia, sta raccogliendo continue adesioni e donazioni che probabilmente metteranno in acqua la nuova nave in estate.

In meno di 10 mesi, ResQ (gioco di parole del termine inglese rescue, soccorso) ha raccolto 900 soci, 425mila euro e, a oggi, una cinquantina di associazioni sodali, in quella che è chiamata la Rete degli amici di ResQ, a cui qualunque ente interessato può aderire (www.resq.it).

«Si tratta di un’iniziativa non solo moralmente giusta, ma assolutamente indispensabile», ha sottolineato Filippo Grandi, capo dell’Unhcr, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel prendere la parola durante il lancio ufficiale del sodalizio di ResQ. L’iniziativa è stata promossa all’inizio da Colombo con amici avvocati, giornalisti ed esperti di migrazioni, e aperta subito dopo alla libera adesione di chi ne condivide i valori.

Il vuoto istituzionale

«Siamo persone, proprio come te, stanche di restare a guardare. Crediamo nell’importanza di colmare il vuoto che si è creato nel Mediterraneo», si legge nel sito di ResQ.

«Dovrebbero essere le istituzioni a salvare le persone e poi garantire loro dignità», riprende Gherardo Colombo. «La Costituzione è chiara e le leggi ci sono. Vanno attuate. Noi ora svolgiamo una supplenza che in futuro non dovrebbe più esserci».

Così come non c’era tra la fine del 2013 e il 2014, quando l’Italia, proprio sulla scorta della commozione e del dolore del naufragio del 3 ottobre, aveva promosso l’Operazione di soccorso Mare Nostrum, salvando decine di migliaia di persone in poco più di un anno di attività.

Successivamente si era sostituita all’Italia l’Unione europea con l’Operazione Triton, che però non si era rivelata per nulla la stessa cosa: promossa tramite l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere Frontex, aveva visto una diminuzione progressiva dei dispositivi di salvataggio in un’Europa sempre meno salda e unità dal punto di vista politico sul tema dell’immigrazione.

Le Ong criminalizzate

È stato allora che la società civile europea ha messo in mare le proprie navi dopo avere raccolto i fondi necessari, fino ad arrivare a una dozzina d’imbarcazioni di Ong presenti nel Mediterraneo tra il 2015 e il 2017: tra esse ricordiamo Moas, Sos Mediterranée – sulla cui nave Aquarius è salita anche «Missioni Consolata» per un reportage pubblicato a inizio 2018 -, Proactiva open arms, Sea eye, Save the children, Medici senza frontiere, Emergency, Jugend rettet, Sea watch, a cui è seguita la nascita della prima compagine italiana, Mediterranea.

Cosa è successo dopo quel momento di massima presenza?

È iniziata la campagna di «criminalizzazione della solidarietà»: nel momento del graduale ritirarsi delle navi militari, le imbarcazioni delle Ong hanno iniziato a finire nel mirino di alcuni procuratori e della propaganda politica di alcuni partiti, e lo sono ancora oggi, sebbene non si sia mai arrivati a sentenze sfavorevoli al salvataggio umanitario in mare.

Tale criminalizzazione nel tempo ha colpito navi delle Ong, attivisti per i diritti umani e altre persone che, in nome dei valori umani, cercano di togliere dal pericolo i migranti forzati. Osteggiati da una parte del mondo politico, dei mass media e, di conseguenza, dell’opinione pubblica, l’accusa nei loro confronti è quella di «favoreggiamento dell’immigrazione irregolare».

Dal Codice di condotta del ministro dell’Interno Marco Minniti ai «porti chiusi» del successivo titolare del ministero, Matteo Salvini, i salvataggi in mare hanno avuto una brusca riduzione senza soluzione di continuità.

Una nave in più

«C’è un atteggiamento ostruzionistico che continua da anni, con inchieste sul nulla, blocchi delle navi con fermi amministrativi di mesi che di fatto lasciano il mare sguarnito di soccorritori: per questo una nave in più serve eccome», indica Luciano Scalettari, giornalista di lungo corso e primo ideatore di ResQ assieme al cooperante internazionale Giacomo Franceschini. «Un giorno, di fronte all’ennesimo naufragio, ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso che dovevamo fare qualcosa in più: abbiamo radunato tutti gli amici chiedendo loro di coinvolgere i propri contatti, e così ha preso il via l’esperienza di ResQ», ricorda Scalettari.

I due hanno colpito nel segno: dopo pochi giorni, una ventina di persone, tra cui alcuni avvocati di Asgi, (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), ovvero Luca Masera, Livio Neri e Alberto Guariso, si sono aggregate.

In breve tempo è nata l’associazione ResQ – del cui consiglio direttivo, oltre ai già citati, fanno parte anche Lia Manzella, Sarah Nocita, Cecilia Guidetti, Emiliano Giovine, Corrado Mandreoli e Francesco Cavalli – e si è pensata una tempistica per allargare la base e mettere in atto in primi passi per acquistare un’imbarcazione.

Entro l’estate 2021

L’obiettivo iniziale era di avere la nave a disposizione per la primavera 2021. La pandemia ha rallentato il processo, ma «contiamo di averla per l’inizio dell’estate», sottolinea Scalettari, nominato presidente dell’associazione (Gherardo Colombo ne è il presidente onorario).

Nonostante le limitazioni causate dal coronavirus, la raccolta fondi sta raggiungendo ottimi traguardi, e, in particolare un evento alle porte del Natale 2020, «Tra il dire e il mare», ha portato in sole 8 ore di maratona mediatica in diretta facebook ben 189mila euro raccolti grazie a oltre 1.500 donatori e al contributo di 100mila euro annunciato in diretta dall’Unione buddhista italiana.

Nella diretta, che ha raggiunto 150mila persone con 10mila interazioni tra commenti e apprezzamenti sul social network, si sono alternati oltre 80 ospiti, molti dei quali volti noti che hanno pubblicamente aderito a ResQ.

«Vorrei che i principi di ResQ mi rappresentassero per tutta la vita», ha detto Paolo Maldini, ex calciatore e ora direttore tecnico del Milan. «L’accoglienza è la prima cosa. Diamo possibilità di muoversi anche agli animali, perché non agli esseri umani che vivono diseguaglianze che ha creato l’Occidente?», ha domandato Giovanni Storti, attore del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. «Avevamo pensato di mettere in mare personalmente una nave, quando ci hanno invitati a salire a bordo di ResQ lo abbiamo fatto subito. Dobbiamo cancellare l’indifferenza», sono state le parole delle sorelle Paola e Giulia Michelini, attrici della televisione italiana. Ancora, il velista Giovanni Soldini: «L’idea che a pochi chilometri dalle nostre coste succedano simili tragedie è un’idea pazzesca. Buon vento a ResQ».

Non fanno più notizia

È proprio il pensiero rivolto alle persone morte nei naufragi che rende Luciano Scalettari così determinato nel voler portare la nave di ResQ in acqua il prima possibile. «Oggi la necessità è ancora di più che in passato, le navi che operano sono pochissime. Il problema è che sia l’Italia che l’Europa non fanno più nulla per evitare le vittime in mare, addirittura consentono alla Libia di riportarsi indietro i malcapitati che vengono “salvati” dalla Guardia costiera libica. Una volta tornati in Libia, per i migranti ricomincia la discesa all’inferno», conclude Scalettari.

Per il presidente di ResQ, uno dei problemi maggiori di questo periodo è legato anche all’indifferenza che si è insinuata nella società: «Le morti in mare non fanno più notizia», e questo, per Scalettari «non è dettato solo dall’assuefazione, c’è anche una componente di razzismo, ed è un problema molto più serio di qualche anno fa». Un razzismo che le persone in fuga dalla Libia conoscono già molto bene, dato che in quel paese rapimenti e schiavismo sono da anni all’ordine del giorno.

Salvare più vite possibili

In Libia anche le locali istituzioni hanno le loro colpe. Ad esempio, di negligenza, come illustrano le carte di alcune intercettazioni giudiziarie eseguite su giornalisti esperti di tematiche migratorie. Queste intercettazioni, come riportato dal giornalista Lorenzo Tondo sul quotidiano inglese The Guardian, hanno portato alla luce, ad esempio, un episodio nel quale la Guardia costiera libica, dopo aver negato il suo intervento, richiesto dall’omologa italiana, per soccorrere un gommone che aveva lanciato un Sos, rispondendo di non essere in servizio quel giorno, in seguito, si è dimostrata ostile all’azione di salvataggio da parte di una nave umanitaria.

Di fronte a questo scenario, la ResQ è pronta a mollare gli ormeggi e chiede a ogni cittadino di salire a bordo effettuando donazioni. «Persone, gruppi informali, fondazioni, aziende e ogni altro componente della società civile: ci rivolgiamo a tutti e in particolare suggeriamo una donazione continuativa, con una quota mensile che permetta a ResQ di avere le risorse per continuare», spiega Scalettari.

L’obiettivo della raccolta fondi, infatti, non è solo quello di mettere in mare la nave, ma quello di rendere sostenibile il progetto nel tempo tenuto conto che i costi per l’equipaggio, il cibo, il carburante, sono alti.

«Puntiamo a operare in mare almeno per un anno, nella speranza che gli stati abbiano un sussulto di coscienza e ritornino protagonisti dei salvataggi». Una speranza oggi più che flebile, ma che va mantenuta ostinatamente viva. «L’esempio da seguire è dato dalle migliaia di persone che, in tempi difficili di preoccupazioni, dolore e paura causati dalla pandemia, non si dimenticano che c’è chi muore in mare e danno il proprio contributo per salvare più vite possibili».

Daniele Biella




Il «game» infinito dei respingimenti

testo e foto di Simona Carnino |


Perseguitati in patria, vendono tutto e partono. Obiettivo Germania. Dai Balcani alle Alpi, tenteranno di attraversare diverse frontiere, anche a piedi, nella neve. Ma sono più volte respinti. Abbiamo seguito una famiglia in fuga per la vita.

Oulx. La sera del 31 dicembre, Nadim, sua sorella Tamkin e la madre Fawzia arrivano a Oulx, in alta Valle di Susa, con uno degli ultimi treni da Torino.

Davanti alla stazione ferroviaria, è parcheggiato l’autobus di linea che li porterà a Claviere.

Fawzia ha 61 anni, è una maestra d’asilo e vedova di un dentista. Nadim ha 24 anni e Tamkin 18, ma alle spalle un’esperienza di vita di gran lunga superiore all’età anagrafica. In questa notte a cavallo tra il 2020 e il 2021, il loro obiettivo è solo uno: superare la frontiera con la Francia, attraverso i sentieri montani, e arrivare a Briançon. Se ci riusciranno, la Germania, traguardo del loro viaggio, sarà più vicina.

Nadim alza lo sguardo verso il cielo. Le nuvole basse e dense non lasciano dubbi. Nevicherà. Anche nel loro paese di origine, l’Afghanistan, le strade sono spesso ricoperte da una pesante coltre di neve durante l’inverno. Sanno bene cosa significhi addentrarsi tra i boschi, con il rischio di perdersi o di essere vittime di ipotermia.

Ma l’urgenza di arrivare dall’altra parte supera la paura, in particolare ora che non hanno più un soldo e sono riusciti a lasciarsi alle spalle la Serbia e la rotta balcanica, dove sono stati intrappolati per un anno, continuamente respinti dalla polizia croata e rumena nei loro tentativi di oltrepassare i confini dell’Europa.

La vita in Afghanistan

Nadim è un attivista per i diritti umani. «Tutto è iniziato nel 2015, quando Farkhunda Malikzada è stata lapidata da una folla imbestialita, accusata ingiustamente di aver bruciato il Corano – racconta Nadim -. Quella brutalità mi ha spinto a scendere in piazza per chiedere giustizia e da quel giorno sono diventato un attivista e membro del Civil society human rights network, un consorzio di organizzazioni per i diritti umani in Afghanistan. Partecipavo spesso a programmi radiofonici per parlare di diritti delle donne e degli sfollati».

Qualche tempo dopo, un gruppo di persone armate e a viso coperto ha fatto irruzione in casa di Fawzia, minacciando di uccidere tutta la famiglia se Nadim non avesse chiuso la bocca. «Mia madre ha smesso di lavorare e mia sorella di andare a scuola, per paura di essere uccise in strada – continua Nadim -. Abbiamo lasciato il quartiere, ma ci hanno ritrovati. La cosa che mi rattrista di più è che non ho mai capito chi fossero quelle persone, se affiliati del governo o militanti Talebani. Scappare era l’unica possibilità che vedevamo. Abbiamo barattato la casa, l’automobile e i gioielli di mia madre con un nostro cugino, in cambio dei soldi per il viaggio».

E così, una mattina di inizio dicembre 2019, Nadim, Tamkin e Fawzia si sono lasciati alle spalle Kabul. Con un biglietto aereo e il loro passaporto sono volati a Dubai, ma dagli Emirati Arabi non c’era modo di arrivare liberamente in Germania. Il passaporto afghano permette di viaggiare unicamente in 30 paesi al mondo, e nessuno di questi è uno stato europeo.

«Abbiamo speso 45mila dollari per acquistare tre passaporti di nazionalità inglese – spiega Nadim -. Quasi tutti i nostri soldi sono andati in fumo così, ma non vedevo alternativa». Il passaporto inglese permette ancora oggi di muoversi senza richiesta di visto turistico in 130 stati, nonostante le restrizioni di movimento imposte dal Covid-19.

Acquistati tre biglietti per Francoforte, durante uno scalo a Budapest, la polizia ungherese si è resa conto che i passaporti della famiglia erano falsi. Senza dar loro la possibilità di richiedere asilo politico e, contravvenendo al principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra, la polizia di frontiera ha trasportato Fawzia e i suoi figli di fronte alla recinzione innalzata dall’Ungheria sul confine con la Serbia. Aperto il cancello, li ha scaricati nel paese dell’ex Jugoslavia.

I Balcani

Il governo di Viktor Orbán, da anni, si distingue per una politica xenofoba e aggressiva nei confronti dei migranti. Il 17 dicembre 2020, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Ungheria per non aver rispettato l’obbligo di garantire l’accesso alla procedura di richiesta d’asilo in particolare alle persone in arrivo dalla frontiera serba.

Nadim, Tamkin e Fawzia sono rimasti un anno in Serbia, tra i campi per migranti di Vranje, nel Sud del paese, a Šid, a pochi chilometri dal confine croato, e a Krnjača, Belgrado.

«Niente era umano, neppure il cibo – continua Nadim -. Non potevamo lavorare, non avevamo assistenza legale, e la gente ci chiamava terroristi. Abbiamo provato a scappare dalla Serbia a piedi dieci volte, ma siamo sempre stati respinti. Le prime quattro volte abbiamo provato a entrare in Romania, ma all’ultimo tentativo la polizia di frontiera mi ha picchiato e rotto il naso. Siamo tornati in Serbia dove sono stato operato. Poi abbiamo provato a passare sei volte in Croazia, ma siamo stati respinti. All’undicesima volta abbiamo pagato uno smuggler (trafficante, ndr) per arrivare in Italia. Il viaggio è costato 15mila euro per circa 650 km».

Nessun migrante si mette in cammino con i contanti in mano. In genere, così come ha fatto il cugino di Nadim, un parente nel paese di origine paga in maniera telematica un’organizzazione criminale che si occupa di gestire il viaggio a prezzi esorbitanti, approfittando delle restrizioni imposte dall’Europa e della disperazione delle persone. Di solito il trasporto avviene in automobile e furgoncino, ma le frontiere più spesso vengono attraversate a piedi.

Proprio durante il passaggio a piedi del confine tra Croazia e Slovenia, Fawzia, stremata dal viaggio, è svenuta. Abbandonati dal trafficante, Nadim e Tamkin hanno cercato aiuto, consegnandosi alla polizia slovena intenta a intercettare i migranti nel bosco per respingerli in Croazia. Dopo il ricovero all’ospedale di Lubiana, Fawzia e i suoi figli sono stati trasferiti a un campo per migranti e registrati nel sistema Eurodac, il database europeo per l’identificazione delle impronte digitali di coloro che richiedono protezione internazionale.

Senza volerlo, Nadim, Fawzia e Tamkin hanno fatto domanda d’asilo in Slovenia, l’unico modo possibile per non essere deportati nuovamente in Croazia.

«Appena mia madre si è ripresa, abbiamo ricontattato la persona con cui eravamo arrivati in Slovenia, perché ci trasportasse fino a Udine», spiega Nadim. Infine, dalla città friulana, un treno li ha portati a Oulx, dove giungono dopo più di un anno dalla partenza da Kabul.

Alle 19.50 Fawzia e i suoi figli acquistano tre biglietti e prendono posto sull’ultimo autobus per Clavière. Dopo pochi minuti la corriera parte, lasciandosi indietro la cittadina.

I sopravvissuti alla rotta balcanica

A partire da maggio 2020, a Oulx è aumentato il numero di passaggi dei sopravvissuti alla rotta balcanica. Chi riesce a fuggire dalla Bosnia e dalla Serbia, scampando fisicamente ai respingimenti a catena attuati da Croazia, Slovenia e anche dall’Italia a Trieste e Udine, si dirige a Ventimiglia o a Oulx per superare il confine italo-francese. La frontiera tra Slovenia e Austria è quasi del tutto inaccessibile da tempo, per cui, chi vuole andare in Germania e in Nord Europa è costretto ad allungare il viaggio verso l’Italia e la Francia.

Come Fawzia, Nadim e Tamkin, molte persone che transitano per il valico transfrontaliero del Monginevro sono afghane, ma anche pachistane, iraniane e del Nord Africa. Queste ultime preferiscono evitare la Libia, provando a raggiungere l’Europa attraverso la Turchia e i paesi dell’ex Jugoslavia. Secondo i dati del Danish refugee council, l’85% sono famiglie, a volte con bambini piccoli o nati durante il viaggio.

Continuano a tentare la sorte anche persone provenienti dall’Africa subsahariana, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, e richiedenti asilo in Italia, ma che puntano verso la Francia.

Secondo i dati raccolti dal Refuge solidaire di Briançon, il primo ricovero per migranti in transito in territorio francese, tra luglio 2017 e dicembre 2020, sono arrivate in Francia dal Monginevro 11.632 persone. È probabile che il numero sia superiore, perché non tutti i migranti si fermano al rifugio.

La frontiera tra la neve

Alle 20.20, l’autobus su cui viaggiano Fawzia, Nadim e Tamkin si ferma sulla strada principale di Clavière. L’abitato, nota meta sciistica della Via Lattea, è immerso in un silenzio inusuale per una vigilia di Capodanno. Le restrizioni nazionali per ridurre il contagio di Covid-19 hanno imposto la chiusura degli impianti sciistici e dei ristoranti. Il termometro del centro di informazione turistica segna i sette gradi sotto zero.

Insieme a Fawzia e i suoi figli, scendono a Clavière quattro ragazzi iracheni. Davanti alla chiesa del paese, i volontari della Croce Rossa, con il progetto MigrAlp, fin dall’inverno del 2017, si occupano di informare i migranti delle difficoltà del cammino nella neve, oltre a fornire assistenza sanitaria in caso di emergenza.

«Tra gennaio e il 15 febbraio abbiamo assistito 420 persone, tra chi prova ad attraversare la frontiera e chi è stato respinto dalla polizia francese – dichiara Michele Belmondo della Croce Rossa di Susa -. Ogni sera consegniamo ai migranti un volantino con i numeri di emergenza da chiamare se si trovano in difficoltà».

Fawzia e gli altri spariscono dietro alla chiesetta di Clavière, verso le piste da sci di fondo, e iniziano a camminare in direzione Francia. Le seggiovie sopra di loro si ergono immobili contro la luna quasi piena, che appare e scompare dietro le nuvole gravide.

Come previsto, inizia a nevicare. Fawzia sente che le forze la stanno abbandonando e si appoggia a sua figlia Tamkin. La fitta nevicata non le permette di proseguire il cammino. Nadim ha già visto questa scena sulla frontiera tra Slovenia e Croazia e, per evitare che la situazione della madre si complichi, prende una decisione. La famiglia torna indietro e chiede aiuto alla Croce Rossa, che la soccorre e la trasporta al rifugio Fraternità Massi, a un centinaio di metri dalla stazione di Oulx.

«Aperto da settembre 2018, il rifugio è gestito operativamente dalla Fondazione Talità Kum negli edifici dell’ordine dei Salesiani, con il supporto della prefettura, del comune e il finanziamento della Fondazione Magnetto e della Curia – spiega don Luigi Chiampo, fondatore di Talità Kum -. Abbiamo una capienza di 30 posti letto e in quest’ultimo periodo ospitiamo circa 20-30 persone a notte. Al momento stiamo presentando un progetto con la prefettura per poter continuare a fornire assistenza».

Dalle 4 del pomeriggio alle 10 del mattino, gli operatori del rifugio forniscono un pasto caldo, abbigliamento pesante e un letto ai migranti in transito, bloccati dalle condizioni meteorologiche o respinti dalla polizia francese. Qui l’associazione Rainbow for Africa fornisce assistenza sanitaria e l’Associazione di Studi giuridici per l’immigrazione consulenze legali, così come fanno gli operatori della Diaconia Valdese in un ufficio a pochi passi dalla stazione di Oulx.

Oltre al rifugio Fraternità Massi, da dicembre 2018, a Oulx è stata occupata una casa cantoniera, attualmente a rischio di sgombero, che offre accoglienza 24 ore su 24, diventando un punto di riferimento per numerosi migranti in transito che possono sostare nelle ore diurne, prima di tentare l’attraversamento notturno. La chiusura della casa limiterebbe l’assistenza ai migranti, che non avrebbero un ricovero dove ripararsi di giorno.

Il game infinito

Alle 16.40 di alcuni giorni dopo il primo tentativo di superamento del confine nella neve, Fawzia, Nadim e Tamkin provano a lasciarsi alle spalle l’Italia in Flixbus, la compagnia internazionale di autobus low cost. Pur avendo acquistato un regolare biglietto fino a Lione, la traversata dura meno del previsto. Infatti, arrivati in prossimità del tunnel del Frejus, la polizia di frontiera francese procede al controllo dei documenti. In pochi istanti Fawzia e i suoi figli si ritrovano fuori dall’autobus. Senza fornire maggiori spiegazioni, la gendarmerie rifiuta l’ingresso alla famiglia, affidandola alla polizia italiana che la scarica a Oulx, a pochi passi dal rifugio Fraternità Massi. «Chi arriva dalla rotta balcanica sa che la logica dei respingimenti da parte della polizia si ripete sulle successive frontiere. Una sorta di “game infinito”, un gioco al massacro che, in maniera più o meno violenta, inizia da quando i cittadini extracomunitari arrivano ai confini dell’Unione europea fino al paese di destinazione – dichiara Davide Rostan, il pastore valdese di Susa -. Dopo decine e decine di tentativi di attraversamento, i migranti spesso riescono a superare le frontiere, ma il costo in termini economici, fisici e psicologici è incalcolabile».

Fawzia, Nadim e Tamkin sono stati respinti lungo tutto il viaggio, dall’Ungheria, dalla Romania, dalla Croazia e infine dalla Francia.

Da novembre 2020, in seguito all’attentato terroristico di Nizza del 29 ottobre, il governo francese ha investito nella militarizzazione del valico transalpino, stanziando 60 nuovi gendarmi sulla frontiera, per intensificare i controlli migratori. La Police aux frontières perlustra anche i sentieri montani, in cerca dei migranti che attraversano il confine camminando nella neve, spesso rincorrendoli per fermarli e respingerli al Monginevro.

«Dai dati raccolti emergono profili inquietanti sulle violazioni compiute dalla polizia francese – dichiara Giulia Spagna, responsabile dei programmi regionali per l’Europa del Danish refugee council -. I richiedenti asilo vengono respinti senza alcuna procedura ufficiale, ma in tacito accordo con la polizia italiana, con cui è in atto una collaborazione informale per aggirare le leggi internazionali sulla protezione e asilo, che prevedono invece il controllo dell’avvenuta registrazione delle impronte digitali delle persone migranti in un paese dell’Unione europea prima di attuare un respingimento. Di recente ci siamo abituati alle immagini scioccanti di persone e famiglie al freddo, derubate e picchiate lungo la rotta balcanica. Il Piemonte e la Liguria sono le tappe successive di quella rotta, e vi troviamo le stesse persone, ancora più stremate, nuovamente umiliate nei loro diritti umani».

Verso la Germania

Di fronte all’impossibilità di superare il valico transalpino, Nadim, Fawzia e Tamkin cambiano strategia e si dirigono verso la frontiera di Ventimiglia, per provare a raggiungere la Francia da quel versante.

«Dopo un controllo dei documenti, la polizia ci ha fatto scendere dal treno prima di raggiungere Nizza – racconta Nadim al telefono -. Il giorno dopo ci abbiamo riprovato e, incredibilmente, abbiamo avuto fortuna e siamo arrivati a Mentone».

A molti, invece, è andata peggio.

Finalmente in Francia, la famiglia prende l’ennesimo bus e arriva a Parigi. Da lì, pagando 1.100 euro a un ultimo passeur, il viaggio termina ad Amburgo, in Germania. È il 18 gennaio del 2021. Un anno, un mese e circa 15 giorni dalla partenza da Kabul.

«Abbiamo speso intorno ai 65mila dollari per il viaggio – racconta Nadim -. A volte mi sembra impossibile che non abbiamo più un soldo e che siamo sopravvissuti a quest’anno. Ma so anche che siamo fortunati. Ho visto persone in Serbia che viaggiavano da tre anni e non riuscivano a trovare i soldi per superare la frontiera».

Nadim, Fawzia e Tamkin richiedono asilo politico ad Amburgo, ma la registrazione delle impronte digitali in Slovenia mette la famiglia di fronte a una grande incertezza. Secondo il regolamento di Dublino, le procedure di richiesta di asilo devono essere gestite nel primo paese europeo di ingresso. L’eventuale ricollocazione in un altro stato dell’Unione europea avviene in un secondo tempo e non sempre con successo.

«Abbiamo un permesso di soggiorno di tre mesi in Germania, ma non sappiamo se la nostra pratica di asilo può essere gestita qui o se siamo obbligati a tornare in Slovenia», racconta Nadim.

A oggi, la famiglia di Fawzia si trova in un campo per migranti in attesa di capire cosa ne sarà del loro futuro.

«Le restrizioni delle frontiere arricchiscono solamente i trafficanti – spiega il pastore valdese Rostan -. Se ai migranti venisse concessa l’opportunità di ricevere un visto per raggiungere l’Europa, potrebbero investire i loro soldi per affittare una casa, acquistare un corso di lingua e avere il tempo di cercarsi un lavoro, invece di essere costretti a pagare organizzazioni criminali per raggiungere la propria meta».

L’umanità del confine

Nel libro di Marco Balzano «Le parole sono importanti», l’autore spiega che il termine «confine», dal latino cum e finis, è letteralmente il luogo dove si finisce insieme, la soglia dell’incontro, la frontiera nel suo senso etimologico, uno spazio dove si sta di fronte e si intravvede l’altro.

Il confine tra Francia e Italia è un muro difficile da valicare, ma è anche il luogo dove organizzazioni e persone italiane e francesi cooperano per assistere i migranti in transito, dando loro cibo, vestiario e cure mediche. Una sorta di gestione umana delle frontiere, che si oppone di fatto alla militarizzazione dei confini imposta dalle istituzioni europee.

Dal 2017 a oggi, quattro persone sono morte durante l’attraversamento del confine del Monginevro. Eppure le temperature rigide, i sentieri impervi, la neve, la mancanza di indumenti pesanti e l’inesperienza dei viaggiatori avrebbero potuto provocare un numero di vittime superiore. Dietro a disgrazie scampate ci sono i ragazzi della casa cantoniera, gli operatori della Fondazione Talitá Kum, la Croce Rossa, il Soccorso alpino, il personale medico di Rainbow for Africa, Medici per i diritti umani, i volontari del Refuge solidaire di Briançon, ma anche singoli cittadini.

La società civile ha saputo creare un cordone di umanità così organizzato che spesso sfugge anche alla comprensione dei migranti, ma che permette a persone come Fawzia, Tamkin e Nadim di non perdere i loro sogni e neppure la loro vita sulla sottile linea di frontiera.

Simona Carnino




La regina dei container

testo e foto di Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio |


Elettrodomestici, apparecchi elettronici e beni di ogni tipo, buttati via in Europa, sono riutilizzati in Africa. In Italia, alcuni immigrati di lungo corso si sono specializzati nelle spedizioni. Il passo verso il commercio di rifiuti tecnologici però è breve.

«Liberate i nostri container! Stiamo morendo dentro! Basta discriminazioni», sfilano gli striscioni. È un 19 agosto dal cielo coperto, il traffico è paralizzato e la via Gramsci di Genova è invasa da un fiume di magliette rosse, grida, musica e bandiere del Ghana.
Sono più di settecento i ghanesi che, da tutto il Nord Italia, hanno raggiunto la città per manifestare. Circa quattrocento dei container da loro spediti sono fermi, senza nessuna spiegazione, da più di un anno presso la dogana di Genova. «Non capiamo perché, non sappiamo perché, noi siamo oggi qui a chiedere il perché. Non possono bloccare i nostri container, la gente sta male, sono un sacco di soldi quelli che abbiamo speso». Queste le parole di Nanà Pomaah, pronunciate con rabbia al microfono di un giornalista. A guidare il corteo c’è lei. Un passo avanti a tutti, avvolta in un vestito rosso, cammina con fierezza.

Nanà Pomaah nel villaggio ghanese di Dormaa Ahenkro, luogo di origine della madre, ha ricevuto il titolo onorifico e tradizionale di regina. Un riconoscimento che le fa sentire la responsabilità di rappresentare il suo popolo, di sostenerlo nelle sue battaglie anche in Italia, con tutta la sua grinta e determinazione.

Il blocco dei container rappresenta un grande problema per la comunità ghanese, dentro di essi, infatti, ci sono generi alimentari, vestiti, macchine, beni di ogni tipo che gli immigrati raccolgono e spediscono ai loro familiari e soci. La stessa Nanà spiega di avere una fondazione a Dormaa Ahenkro, grazie alla quale aiuta bambini di strada e vedove. Per questo è per lei importante che il suo container arrivi a destinazione. Dopo dieci giorni di fermo del container al porto, inoltre, viene richiesto il pagamento di 130 euro al giorno a chi spedisce.

A seguito della manifestazione, i funzionari della direzione interregionale di Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, si sono resi disponibili a incontrare i ghanesi che si occupano delle spedizioni, per spiegare loro le motivazioni del blocco, e soprattutto quali regole dovranno rispettare in futuro affinché non se ne ripetano altri.

A corte, dalla regina

Nanà, alcuni giorni dopo la manifestazione di Genova, ci accoglie nel salotto di casa sua a Como dove vive da ormai 22 anni. Ha indossato per noi gli abiti e i gioielli tradizionali, quelli delle cerimonie ufficiali nelle quali riveste il suo ruolo di regina. Un turbante dorato le copre il capo, e un grande tessuto bianco decorato con melograni d’oro le cade morbido sulla spalla sinistra. A ciascun polso indossa tre bracciali d’oro, e per ogni mano tre grandi anelli, anch’essi d’oro. Sono abiti che un tempo erano esclusivi dei reali ma che ora vengono utilizzati anche nei matrimoni della gente comune. In passato questi gioielli erano d’oro vero, oggi non più. Questo significa essere regina in Ghana oggi: vestiti importanti da indossare, ma che non portano nessuna ricchezza materiale, solo responsabilità.

Nanà ci racconta che dopo essere stata nominata regina nel 2016 non le è stato dato nulla se non qualche appezzamento di terra e il rispetto, quello sì, di grandi e piccoli. «Quando sei regina devi lavorare per il tuo popolo, devi creare qualcosa per il tuo popolo», ci dice. Il suo sogno è infatti quello di costruire, per mezzo della sua fondazione, una scuola tecnica e una clinica per donne incinte, per creare competenze, posti di lavoro e sicurezza sociale.

Nanà non è sempre stata una regina e la sua vita in Italia non è stata sempre facile. Arrivata a Palermo molto giovane, è stata costretta a cambiare più volte città e lavoro. Ha iniziato come parrucchiera, e dopo aver ottenuto il diploma Asa (ausiliario socio assistenziale, ndr), si è dedicata alla cura degli anziani. Nanà sostiene che siano i loro racconti, i loro ricordi, che lei definisce la sua vera «università di vita», ad averle fatto maturare l’esperienza giusta, per farle affrontare con forza e consapevolezza anche i momenti più difficili. Sa bene infatti che solo il confronto e il dialogo potranno aiutare il cambiamento.

Grazie all’incontro tra gli spedizionieri ghanesi e i funzionari delle dogane, la situazione è stata chiarita: il blocco era stato causato da irregolarità nel carico dei container. I controlli avevano fatto emergere la presenza di merci come bombole, batterie usate, motori di frigoriferi, che, secondo le leggi e le convenzioni internazionali come quella di Basilea, non possono essere spediti, perché considerati rifiuti pericolosi e altamente inquinanti.

Nanà ci racconta che in Ghana si trovano principalmente prodotti provenienti dalla Cina di scarsa qualità. Per questo i beni che arrivano dall’Europa sono tanto ambiti e apprezzati. Anche se usati e talvolta rotti, possono comunque essere riparati e durare di più di quelli nuovi cinesi.

Uniti si può

Per gestire le spedizioni nella maniera più corretta, la comunità ghanese ha dato alla luce un’associazione, l’African shipment association. Guidata da Nanà, in quanto portavoce, e presieduta da Yusuf Amoudou, spedizioniere con esperienza quasi trentennale, è stata un’iniziativa molto apprezzata dai doganieri genovesi. Chi vuole farne parte deve infatti conoscere e rispettare le regole. «Adesso anche io insegno alla mia gente», ci dice Yusuf che nel frattempo ci ha raggiunti a casa di Nanà. «Le spedizioni sono diminuite perché prima ognuno mandava qualsiasi cosa, anche i rifiuti. Adesso non più».

Lo spedizioniere

Yusuf sfoggia la sua dentatura bianchissima mentre ci rivolge un sorriso. Ha indossato una cravatta con dei piccoli cavalli in corsa e lucidato le scarpe per la nostra chiacchierata. Yusuf viene dal Ghana, ed è in Italia dal 1989. Lavora come manutentore a Caverago, nella provincia di Bergamo. Negli anni ‘90 ha spedito il suo primo container e, piano piano, si è costituito una solida rete di connazionali che lo pagano per mandare beni, nuovi o usati, in Ghana. Frigoriferi, televisori, pompe, macchine da cucire, ma anche dentifricio, medicinali chiusi dentro grossi bidoni di plastica. Tutti beni che l’uomo raccoglie porta a porta, con il furgone, durante il weekend, e poi ammassa dentro un grande magazzino.

La logica sottostante a questa attività, nelle comunità africane in Italia, è quella di mandare ai propri familiari delle rimesse sotto forma di beni e non di soldi, perché questi ultimi vengono facilmente tassati dallo stato. «Nel container ci sono i miei oggetti più quelli di altre 20 o 30 persone», dice Yusuf definendo quello che in dogana viene chiamata una spedizione «groupage» (mettere in gruppo, ndr). Per Yusuf, questo è diventato il suo secondo lavoro. Una volta al mese, per 3.500 euro, affitta e spedisce un container da 40 piedi.

Riciclo e circolazione

Come Yusuf, molti altri immigrati presenti nelle nostre città, barcamenandosi tra lavori precari, portano avanti questo genere di attività informali di riciclo e riutilizzo, non senza contraddizioni. Spesso, i beni di seconda mano vengono recuperati da chi sgombera le cantine e, invece di portare gli oggetti all’isola ecologica, li rivende agli spedizionieri. Altra fonte sono donazioni di privati, mercati dell’usato, marketplace di Facebook, marciapiedi o rubati all’aziende di smaltimento rifiuti. Nelle comunità di origine intere famiglie ricavano gran parte del loro reddito dalla rivendita dell’usato europeo in piccoli negozi, o dal suo riutilizzo in diverse attività. Le auto, ad esempio, diventano taxi, i forni permettono di aprire delle panetterie, e i frigoriferi di vendere il ghiaccio lungo le strade accaldate delle capitali africane. Con un investimento modesto, si attivano piccole economie locali.

Non prima di aver ricevuto un bacio da parte di Nanà, usciamo di casa per andare con Yusuf nel luogo in cui i suoi collaboratori stanno caricando un container.

Dentro al container

Ci inoltriamo lungo una stradina immersa nel bosco punteggiata da sedie di plastica malridotte usate da prostitute con lo sguardo cupo. Sotto nubi dense, finiamo nel cortile di un grande capannone dove troneggiano cinque container aperti e montagne di oggetti ben incellofanati e accatastati, con i nomi dei proprietari accuratamente scritti sopra. Questa è la condizione necessaria per evitare che, in caso di apertura del container, i doganieri pensino che il carico sia destinato al traffico di rifiuti. Con grande maestria, da ore, quattro uomini stanno incastrando i pacchi nel container in modo da non lasciare neanche una fessura libera. Alcuni, vedendoci arrivare, mostrano un po’ di diffidenza, non sembrano contenti della nostra visita. Ci fermiamo pochi minuti, giusto il tempo per vedere alcuni pneumatici usati ammucchiati. Probabilmente non è ancora ben chiaro a tutti quali sono gli oggetti la cui esportazione è vietata dalla Convenzione di Basilea del 1992.

Per via di questa convenzione risulta molto difficile esportare, per esempio, gli oggetti elettronici. «Le apparecchiature elettroniche di seconda mano, possono essere esportate a condizione che abbiano la certificazione di funzionalità», ci spiegherà Florindo Iervolino, responsabile della dogana di Genova. In poche parole, è necessario che un tecnico compia dei test sull’elettrodomestico e certifichi il suo funzionamento o la possibilità di ripararlo. Ma questa operazione costa circa 60 euro.

Lo stratagemma usato dagli spedizionieri africani è quello di non dichiarare il materiale che necessiterebbe di certificazione. Inoltre, i beni vengono spediti con la dicitura «effetti personali o masserizie», che però dovrebbe essere al seguito di una persona che trasloca. Questo genere di spedizioni viene sottoposta a forme di controllo minori in dogana, e non permette di esportare e commerciare, ma solo di traslocare i propri beni. (questo è uno dei dettagli che indica che è   una pratica illecita).

L’ambiguità si gioca sul fatto che i beni presenti nei container sono di varia natura: oltre a quelli destinati esplicitamente alla rivendita in negozi dell’usato europeo che possono essere definiti merci, ci sono beni inviati come aiuto alle proprie famiglie, oppure spediti su richiesta: cioè oggetti già proprietà del destinatario al momento della spedizione e che quindi non rientrano in un vero e proprio commercio.

Piccoli commerci

Il recupero dei beni, lo stoccaggio, l’organizzazione del container richiedono fatica, pazienza e una capacità logistica non indifferenti. La motivazione che anima questo lavoro è la consapevolezza di poter dare ad altri e a se stessi delle nuove opportunità economiche.

Abu ha 26 anni ed è arrivato in Italia 5 anni fa. Per diverso tempo ha lavorato come rider, senza coperture assicurative. Nei week end vendeva e comprava vestiti ai mercatini dell’usato, e con il tempo è riuscito, assieme ad altri, ad affittare un container e a spedire beni di vario genere alla sorella in Gambia, permettendole così di aprire un negozio dell’usato. Tra i beni più richiesti dai clienti vi sono i frigoriferi. Abu allora ha iniziato a recuperarli da un italiano che effettua sgomberi, e che rivende a basso prezzo ciò che trova. Abu rivende i frigoriferi al triplo del prezzo, riuscendo così ad avere un margine di guadagno che lo aiuta a vivere. Il piccolo commercio del giovane ha un effetto positivo sull’economia della sua famiglia: la sorella rivende i beni, mentre la madre prepara e vende ghiaccioli alla frutta, che conserva in un grande frigorifero speditole dal figlio. Sebbene scelga quelli più nuovi e funzionanti, Abu non effettua nessun test di funzionamento, e come questi vengano spediti, nemmeno lui lo sa bene, è un suo socio a occuparsi della documentazione.

Forse, il motivo di quella certificazione, costosa e insostenibile per chi vorrebbe solo spedire oggetti con buone intenzioni, è chiara a chi lavora nelle grandi discariche a cielo aperto, come quella di Agbobloshie, nei sobborghi di Accra, capitale del Ghana. Lì, ogni giorno, uomini, donne e bambini bruciano apparecchiature di ogni genere per estrarre a mani nude rame, ferro, metalli di valore e guadagnarsi così la giornata.

Tutti in discarica

Mike Anane, giornalista ambientale, vive ad Accra e, da vent’anni, si occupa di documentare la tremenda situazione in cui versano i territori delle discariche e loro suoi abitanti. In questi luoghi vi è un’altissima incidenza di malattie respiratorie, della pelle e tumori. L’esposizione a fumi nocivi e tossici porta le persone a non respirare più, a non riuscire a dormire la notte. «In questi vent’anni, le persone sono diventate più consapevoli – dice Mike -, ma l’arrivo di rifiuti elettronici non si è mai fermato, nonostante le diverse convenzioni e regole che ne impedirebbero la spedizione. Ricevere un frigorifero che potrebbe smettere di funzionare in breve tempo è problematico laddove non vi sono infrastrutture adatte a un consono trattamento e smaltimento». Mike è categorico: «Per impedire che questo inferno continui a bruciare, i paesi dell’Occidente devono rispettare gli accordi, effettuare i controlli e smaltire i beni che non funzionano all’origine».

Le persone da noi incontrate non hanno intenzione di spedire beni non funzionanti, ma solo far arrivare alle proprie famiglie oggetti di qualità, ai quali non avrebbero accesso altrimenti. D’altra parte, il traffico illecito di rifiuti, spesso gestito dalle ecomafie, è un fenomeno che provoca grossi problemi ambientali e sociali in Africa e che va combattuto con fermezza. Come coniugare la volontà di offrire un’opportunità migliore ai propri familiari, con la sostenibilità? Un sistema che agevoli la certificazione del funzionamento dei beni usati, prima della loro partenza – evitando dunque che si trasportino rifiuti – che sia semplice ed economicamente accessibile agli immigrati, potrebbe essere un primo passo per rendere le esportazioni più trasparenti. Inoltre, vi è la necessità di un sistema in Italia che si preoccupi di agevolare pratiche di valorizzazione di beni già esistenti e prepararli al loro riutilizzo e commercializzazione.

Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio


Le autrici

Martina Ferlisi, ama scrivere, studia economia.
Sarika Strobbe, artista, studia antropologia.
Amarilli Varesio, cantautrice, studia antropologia.
• Le foto del servizio sono delle tre autrici e di Marta Lombardelli, videomaker.
• Sono state finaliste della nona edizione del Premio Morrione 2020, per la categoria video inchiesta con «Un’altra rotta». Qui il trailer: www.premiorobertomorrione.it/inchieste/unaltra-rotta/