Dieci anni in eSwatini


Dieci anni fa, il 27 gennaio 2014, il missionario della Consolata argentino José Luis Ponce De León «prendeva possesso» della diocesi di Manzini nel regno dello Swaziland, oggi eSwatini, proprio il giorno in cui si celebravano i 100 anni dell’inizio della evangelizzazione in quel piccolo paese immerso nel Sudafrica.

Raccontaci del tuo cammino come vescovo».

«Sono arrivato in Sudafrica dall’Argentina, mio Paese natale, nel 1994. Ero poco più che trentenne. Sono stato nelle parrocchie di Damesfontein, Piet Retief e Madadeni, e dal 1999-2004 superiore delegato dei Missionari della Consolata. Finito questo compito nel 2005 sono diventato parroco a Daveyton (Johannesburg). Da lì mi hanno inviato al capitolo generale della Consolata in Brasile e nel 2006 mi hanno chiamato a Roma, come segretario della Direzione generale dell’Istituto e procuratore presso la Santa Sede.

Non so se sia perché mi ero fatto un po’ conoscere in Vaticano o per la mia esperienza sudafricana, ma nel mese di novembre del 2008 sono stato nominato vicario apostolico di Ingwavuma (un vicariato apostolico del Sudafrica che era senza vescovo da tre anni). Da lì è cominciata la mia avventura.

Avevo tre mesi di tempo per organizzare l’ordinazione e l’entrata canonica nel vicariato. Ho però dovuto chiedere una dispensa perché a Ingwavuma nei primi mesi dell’anno è estate e fa davvero troppo caldo per poter fare una celebrazione «impegnativa» come un’ordinazione. Quindi questa è stata fatta il 18 aprile del 2009.

Ad ogni modo c’è un ricordo bello del mio ingresso nel vicariato ancora prima di essere ordinato. Era il 29 gennaio, anniversario della nostra fondazione come Missionari della Consolata, quando con padre Ze (José) Martins, che era venuto a prendermi all’aeroporto, abbiamo attraversato la frontiera di quella che sarebbe stata la mia terra, la mia missione, il vicariato. Assieme abbiamo fatto una preghiera al beato Allamano per benedire quell’impresa che era cominciata. Ingwavuma è un territorio molto bello, prossimo all’Oceano Indiano, immediatamente a sud del Mozambico e est dello Swaziland, oggi eSwatini».

Com’è avvenuto il tuo spostamento a Manzini, nell’unica diocesi cattolica del regno di eSwatini?

«È successo che il mio predecessore in eSwatini è morto improvvisamente all’età di 67 anni.
Evidentemente nessuno se l’aspettava e quindi a Roma hanno pensato bene di nominarmi amministratore della diocesi rimasta senza pastore.

Geograficamente, anche se una frontiera ci divideva, non eravamo lontani. Poi anche la lingua Siswati è molto vicina allo Zulu che è la lingua con la quale si celebra e si educa nei due territori, quindi molto conosciuta.

Bisogna comunque dire con chiarezza che eSwatini e il Sudafrica non sono la stessa cosa. Tutta la storia di apartheid e di violenza del Sudafrica non sono conosciute a eSwatini. Se in Sudafrica come bianco desti subito sospetti circolando fuori dalle zone dove dovresti stare, non succede lo stesso in eSwatini. Lì invece risulta strano se ti scoprono a girare da solo, non perché sei bianco, ma perché sei vescovo, e nella loro mentalità il vescovo va con la macchina e con l’autista.

Insomma, in poco tempo mi sono trovato a essere responsabile di due diocesi in due nazioni diverse. Ricordo che in una comunità cristiana una signora aveva detto che sarebbe stato perfetto se fossi rimasto per sempre a eSwatini perché loro erano contenti e non volevano che me ne andassi. La mia risposta era stata che un vescovo si sposa con una diocesi e che mia moglie era Ingwavuma. La sua risposta era stata lapidaria: “Monsignore, noi siamo una cultura poligama… se puoi avere tutte le donne che vuoi, non vedo perché un vescovo non possa avere tutte le diocesi che voglia”. Alla fine, è andata proprio così. In eSwatini sono stato prima amministratore, poi sono diventato vescovo titolare e sono diventato amministratore di Ingwavuma… insomma, il mio momento di poligamia l’ho anche avuto, aveva ragione la signora».

E come ti sei trovato nella nuova diocesi, tra l’altro unico vescovo cattolico?

«È vero, sono l’unico vescovo cattolico ma non sono solo. Unico in eSwatini, ma ben accompagnato dalla conferenza episcopale che riunisce i vescovi di tre paesi (Sudafrica, eSwatini e Botswana), e anche da un organismo nato nel 1976, il Consiglio delle chiese cristiane, che riunisce tredici Chiese che operano in eSwatini e che da quell’anno, ad esempio per affrontare assieme l’emergenza dei rifugiati provenienti dal Sudafrica dell’apartheid e dal Mozambico durante la guerra civile. Quando la violenza è arrivata anche in eSwatini nel 2021 (vedi MC gennaio 2023) questa solidarietà episcopale ed ecumenica è stata importantissima. Il Consiglio delle chiese è rispettato, ascoltato, indipendente. Insieme abbiamo sempre insistito riguardo la necessità di un dialogo nazionale che ci permetta di discernere insieme il nostro futuro. Come ho scritto in passato, c’è una situazione nella quale alcuni hanno tutto e si sentono sicuri e altri si domandano come fare per avere il minimo necessario per sopravvivere. E noi siamo pastori di tutti loro».

Cosa è successo nel 2021?

«Nel mese di maggio del 2021 è stato trovato barbaramente ucciso un giovane universitario. Tutti i sospetti ricadevano sulla polizia e la celebrazione del suo funerale è stata carica di rabbia e di tensione. I giovani, in modo particolare, hanno cominciato a presentare le loro aspettative ai rappresentanti eletti in Parlamento. A un certo punto il Primo ministro in carica (in realtà l’acting Prime minister – colui che fa la funzione di primo ministro) ha deciso di fermare la protesta.

Noi, Consiglio delle Chiese, abbiamo chiesto un incontro con il Governo e lo stesso giorno che siamo stati ricevuti sono scoppiata incontrollate e violente la rabbia, la frustrazione, la ribellione soprattutto dei giovani.

ESwatini ha sempre avuto un buon sistema educativo, anche dal Sudafrica molti sono venuti a studiare da noi nel tempo della segregazione razziale. Eppure, tutti questi giovani studenti sanno che almeno la metà di loro non troverà un lavoro. Come avere speranza riguardo il futuro? Come pensare a far nascere la propria famiglia?».

Che chiesa hai trovato quando sei arrivato in eSwatini?

«Una chiesa cristiana con radici profonde anche se frantumata in miriadi di sette. È presto detto: i cattolici, che sono la chiesa più numerosa, non superano il 5% della popolazione.

L’evangelizzazione di questo Paese è stata intrapresa dai Servi di Maria italiani che arrivarono, lo scoprii quando mi caddero fra le mani i tre volumi della storia della loro missione in questo territorio, nel 1914. Dopo di loro arrivarono i Salesiani, ma con un solo centro, poi nessun altro per più di 60 anni. Nel frattempo, la missione era diventata Prefettura apostolica il 19 aprile 1923.

Quando arrivai a eSwatini, senza saperlo, ero alle porte della celebrazione del centenario dall’inizio della missione. Abbiamo quindi cercato di rendere solenne la celebrazione perché bisognava riconoscere il grande lavoro fatto, che ha dato consistenza alle parrocchie e alle comunità cristiane. Sto parlando di 17 parrocchie e 120 comunità ben organizzate.

Una delle cose che feci al principio, per poter vedere la mia Chiesa non con gli occhi del vescovo ma con gli occhi dei miei sacerdoti, è stata quella di andare a celebrare l’eucaristia domenicale nelle diverse cappelle senza mai avvisare prima la comunità. Lo facevo con la complicità dei sacerdoti che mi hanno sempre assecondato. Ho trovato celebrazioni nutrite, partecipate, comunità accoglienti e cordiali anche se qualche volta un po’ sorprese di vedere questo nuovo sacerdote che le visitava».

E adesso hai chiamato in diocesi anche i Missionari della Consolata?

«Mi sembrava doveroso farlo. Ricordo di aver scritto una lettera al capitolo generale dell’istituto del 2017 nella quale parlavo di noi come l’ultima nata e riconoscevo il servizio carismatico e lo stile della mia stessa comunità nei giovani missionari arrivati un anno prima.

I missionari della regione del Sudafrica si erano già mossi, e devo ringraziare Dio non solo per la presenza ma per lo stile “consolatino” di lavorare, sempre vicini alle persone.

Quando sono arrivati, ho affidato loro una nuova parrocchia ricavata da quella della cattedrale. Ricordo che una comunità espressamente aveva chiesto di non essere separata dall’anteriore parrocchia, che loro stavano bene così com’erano. Io ai missionari che erano arrivati non avevo detto niente, avevo solo chiesto di cominciare la visita, casa per casa, delle famiglie. Forse è stata una fortunata coincidenza, ma loro, senza sapere niente, hanno cominciato precisamente dal settore che non li voleva. I cristiani non erano abituati a vedere i sacerdoti a casa loro e si sono subito affezionati e gli stessi che non volevano stare nella nuova parrocchia, poco tempo dopo e pubblicamente, hanno fatto sapere che quella era la parrocchia dove stavano meglio».

Durante seminario di studio e sensibilizzazione sul problema dell Aids all’Hope House, centro della Caritas diocesa di Manzini

Che sfide hai davanti?

«Non vedo una riflessione su quello che è successo nel 2021. Vedo più la tentazione di pensare che sia stato il problema di un piccolo gruppo e che non ci sia più bisogno di parlarne. Infatti, la nazione sembra sia tornata a una situazione di calma nella quale nessuno parla più di quello che è successo due anni fa.

Io ho sempre visto questo come chi ha un dolore nel corpo: se non capisce da dove arriva, può prendere un calmante ma il problema rimane. Il tempo ci permetterà di capire di più.

Poi a livello ecclesiale penso che l’esperienza del Covid, dalla quale siamo appena usciti, ha lasciato anche molti insegnamenti. Nel caso nostro, le chiese sono ancora piene, ma la vita parrocchiale gira troppo attorno alla figura del sacerdote. Nei prossimi anni avremo anche delle nuove ordinazioni ma poi da quattro anni nessun seminarista è entrato in seminario.

Papa Francesco vuole una Chiesa più sinodale, con maggiore partecipazione e presenza di ministeri e questa è una sfida che non possiamo non raccogliere.

Quando papa Francesco pochi anni fa ha voluto celebrare uno speciale mese missionario, noi abbiamo celebrato tutto un anno missionario. Poi abbiamo creato un sistema online per raccogliere le preoccupazioni, i sogni, i desideri delle persone… e abbiamo ricevuto dei riscontri che non possiamo lasciare cadere».

Mandato dei catechisti alla cattedrale di Manzini.

Questo è quindi un anno speciale.

«Sono dieci anni che sono vescovo di Manzini. Sono stato nominato 29 novembre 2013 ma fatto l’ingresso il 26 gennaio 2014 in occasione del centenario dell’arrivo dei primi missionari Osm, ordine dei Servi di Maria, detti anche Serviti, avvenuto il 27 gennaio 1914. Mai nella mia vita sono rimasto così a lungo in un posto. Sono anche 110 anni dell’arrivo dei primi missionari cattolici. Vorrei fosse un anno giubilare per la nostra diocesi che ci permetta – nello spirito del cammino sinodale – guardare insieme dove siamo arrivati e come rispondere alle sfide del presente».

Prime comunioni nella cattedrale di Manzini

Cosa ne pensi del sinodo?

«Quando papa Francesco ha annunciato un sinodo sulla sinodalità, l’ho accolto come un momento provvidenziale per la nostra diocesi. Quando nel 2019, abbiamo celebrato un intero anno missionario, di fatto non l’abbiamo mai chiuso a causa delle normative Covid-19. Quell’anno, all’insegna del motto «battezzati e inviati» (ancora oggi molto vivo), la nostra diocesi vide realizzarsi una serie di iniziative.

Sotto il Covid-19, ad esempio, i nostri social media si sono sviluppati e sono oggi il principale strumento di comunicazione tra di noi. Ci sono circa 1.500 persone sul nostro Whatsapp diocesano e molte altre ci seguono in particolare su Facebook.

Il cammino sinodale ha sfidato la nostra diocesi ad aprire spazi di “ascolto” alla gente. La nostra gente è abituata ad “ascoltare” il vescovo e i sacerdoti, ma difficilmente chiede spazi per parlare. Abbiamo preparato sondaggi cartacei e online, in inglese e in Siswati. La prima indagine si è occupata in particolare dei nostri punti di forza e di debolezza, con chi camminiamo e chi ci lasciamo alle spalle. La seconda si è occupata della liturgia: le nostre celebrazioni, le omelie, i ministri laici (condurre le funzioni senza sacerdote, i ministri dell’Eucarestia, i lettori).

È stato durante il primo sondaggio che abbiamo notato che molte persone parlavano delle difficoltà dei nostri giovani, in particolare dopo il Covid-19. Abbiamo deciso di continuare il cammino sinodale affrontando questa sfida. A febbraio del 2022 abbiamo avuto una sessione in cui quattro giovani (di diverse fasce d’età), provenienti da ciascuna delle 17 parrocchie, si sono riuniti e hanno risposto ad alcune domande sulle loro gioie e difficoltà. Il Consiglio pastorale diocesano si è riunito contemporaneamente in un’altra sala. Li tenevamo separati per paura che i giovani non si sentissero liberi in presenza degli «anziani». Poi, li abbiamo riuniti per condividere le loro risposte.

Un processo simile è stato fatto in ogni parrocchia. Poi, alla fine dell’anno, abbiamo chiesto a tutti i consigli parrocchiali di riflettere sul modo in cui noi, la Chiesa, dovremmo affrontare la situazione politica. Ho chiesto loro di individuare azioni concrete da intraprendere a livello locale (e non di dirmi cosa avrei dovuto fare). Solo tre parrocchie hanno risposto condividendo ciò che era stato detto, su ciò che si era deciso di fare e se era stato fatto o meno (e perché). Le persone partecipano, ma alle attività, meno alla riflessione. C’è bisogno di creare spazi di dialogo e di far dialogare.

Il nostro piano è quello di sviluppare “club per la pace” e “gruppi di Laudato si’” in ogni parrocchia (non è ancora chiaro se si tratterà di due cose diverse o dello stesso gruppo)».

Cosa sperate da questo anno giubilare?

«Celebrando i 110 anni dell’arrivo dei primi missionari cattolici e il decimo anniversario del mio insediamento, la nostra diocesi avrà un anno giubilare da gennaio a novembre.

Sarà un’opportunità per continuare il nostro cammino sinodale e celebrare il primo congresso delle scuole cattoliche (riflettendo sull’identità cattolica delle nostre 60 scuole).

Vogliamo poi sviluppare i “club per la pace” e i “gruppi Laudato si’” in ogni parrocchia.

Inoltre, dare forma a iniziative di cui si è parlato più volte, come lo sportello della famiglia (attuando iniziative di preparazione al matrimonio tenendo conto delle questioni culturali e del sostegno alle coppie dopo il matrimonio). C’è poi lo sportello della salute (coordinando il lavoro del nostro ospedale, delle cliniche, dell’hospice, degli infermieri parrocchiali, dell’équipe di consulenti traumatologici, ecc.).

Importante è anche il rilancio di Caritas eSwatini (l’ufficio nazionale della Caritas che coordinerà il lavoro delle 17 Caritas parrocchiali).

Sarà un anno nel quale daremo fondamento alle cose che vogliamo continuare in futuro e, naturalmente, un anno di rinnovamento personale e familiare. Il (possibile) motto «Lazzaro, vieni fuori», sarà una chiamata a una nuova vita in Gesù coinvolgendo ogni aspetto della nostra vita personale, familiare e ecclesiale.

Jaime C. Patias e Gigi Anataloni

Archivio MC

Siti

https://bhubesi.blogspot.com/ il blog del vescovo di Manzini

Cattedrale di Manzini

 




Tempo del creato. Contro la guerra al pianeta

Che il clima stia «impazzendo» è sotto gli occhi di tutti.
In Italia, anche quelli che si ostinano a negare le responsabilità umane della crisi ambientale hanno sentito sulla loro pelle il calore straordinario di questa estate 2023.
Nel resto del mondo, di eventi estremi se ne possono contare quotidianamente, benché ne compaia la notizia sui nostri schermi solo raramente. Uno tra questi è la recente alluvione in Libia (già dimenticata dall’informazione) che ha sbriciolato due dighe e travolto migliaia di persone.
Eppure, nonostante le evidenze, sembra che i decisori politici a livello mondiale non riescano ad andare oltre ad alcune vaghe dichiarazioni di intenti su come affrontare un necessario cambio di marcia prima che sia troppo tardi.

Da questa preoccupazione, e anche dal desiderio di approfondire quanto la Terra sia non solo la base necessaria per la vita, ma un dono di cui godere, si celebra annualmente il «Tempo del creato»: un’iniziativa ecumenica che mette insieme le diverse confessioni cristiane e quindi tutti i 2,2 miliardi di credenti che abitano il nostro pianeta. Dal 1 settembre al 4 ottobre, un mese di preghiera, riflessione e azioni concrete dedicate alla cura della casa comune.
In ogni diocesi, diversi gruppi, operatori pastorali, parrocchie, movimenti, si organizzano per la celebrazione, anche grazie agli strumenti messi a disposizione online dal Comitato direttivo, tra cui la «Guida alla celebrazione 2023».

Nel sito ufficiale, consultabile anche in lingua italiana, si possono trovare video e materiali utili. Per chi non è a conoscenza della storia di questa iniziativa, nella sezione «chi siamo» si trova una sintesi dei passi fatti dall’inizio fino a oggi: «Il Patriarca ecumenico Dimitrios I nel 1989 ha proclamato, per gli ortodossi, il 1 settembre giornata di preghiera per il creato. […]. Il Consiglio mondiale delle Chiese ha contribuito a rendere speciale questo tempo, prolungando la celebrazione dal 1 settembre al 4 ottobre».
«Seguendo la guida del Patriarca ecumenico Dimitrios I e del Consiglio mondiale delle Chiese, i cristiani di tutto il mondo hanno abbracciato questo tempo come parte integrante del proprio calendario annuale. Papa Francesco lo ha accolto nella Chiesa cattolica romana e reso ufficiale nel 2015».
Non a caso il 2015 è l’anno nel quale papa Francesco ha firmato la sua lettera enciclica «Laudato si’», documento fondamentale non solo per i cattolici e i cristiani, ma per tutti, fedeli di altre religioni, laici, governanti.

Lo scorso 30 agosto, alla vigilia del suo viaggio in Mongolia, il papa ha annunciato l’uscita di un nuovo documento, un’esortazione apostolica, il 4 ottobre prossimo, festa di san Francesco d’Assisi: «Dopodomani, primo settembre, si celebra la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato – ha detto durante l’udienza generale del mercoledì -, inaugurando il tempo del Creato, che durerà fino al 4 ottobre. In quella data ho intenzione di pubblicare un’esortazione, una seconda Laudato Sì. […] Uniamoci ai nostri fratelli e sorelle cristiani nell’impegno di custodire il Creato come dono sacro del Creatore. È necessario schierarsi al fianco delle vittime delle ingiustizie ambientali e climatiche, sforzandosi di porre fine alla insensata guerra alla nostra casa comune, che è una guerra mondiale terribile. Esorto tutti voi a lavorare affinché essa abbondi nuovamente di vita».

Luca Lorusso

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Rivista scomoda

Buonasera, quest’anno ho voluto aggiungere al bonifico per il vostro progetto natalizio (la cardiologia di Neisu) un secondo bonifico specifico per la vostra rivista, perché la vostra rivista è «scomoda».

La ritiro dalla buca delle lettere, la poso sul tavolino, la ignoro per un po’, voglio rimanere nel mio guscio di «sicurezze», non voglio sentire di altri guai, non voglio pensare (ci sono già le mille preoccupazioni del lavoro, figli, genitori anziani…), voglio solo pensieri leggeri. E poi?

Passa qualche giorno, faccio uno sforzo e riprendo in mano la rivista e poi la leggo dalla prima all’ultima pagina, mi appassiono perfino all’economia che, spiegata da Francesco Gesualdi, ha tutto un altro sapore! E quindi questa mail per dirvi grazie perché la vostra «scomoda» rivista rompe la cappa di comodità in cui vuole rifugiarsi la mia mente e vuole nascondersi il mio cuore, grazie perché mi portate lontano dal mio rassicurante piccolo mondo, mi fate conoscere realtà di cui l’informazione di massa si disinteressa come non esistessero, grazie e un incoraggiamento a continuare, sotto gli occhi amorevoli della Consolata, nonostante tutte le difficoltà che incontrate.

Manuela Pogliano
23/12/2022

 Trent’anni di penna

Nel febbraio del 1993, esattamente 30 anni fa, veniva pubblicato il mio primo articolo. Si trattava in realtà di due pezzi, la storia di una mia esperienza diretta, vissuta con l’amico Roberto Minetti, in alcune favelas di Rio de Janeiro, e una piccola riflessione personale sullo stesso tema.

Io e Roberto, nel 1992, eravamo in viaggio in Sudamerica e, in quel periodo, eravamo stati accolti da padre Claudio Fattor, missionario della Consolata, alla missione nel quartiere Benfica, area di Rio de Janeiro nel mezzo delle favelas (foto qui in basso): la famosa Mangueira, Morro do Telegrafo, Arará, Tuiutí e altre. Nonostante fossimo in viaggio già da mesi (avevamo attraversato la Patagonia in autostop, arrivando fino alla Terra del Fuoco), in quei giorni entrammo in contatto con una realtà assolutamente nuova per noi, scioccante, scomoda, che ci metteva in discussione. Una realtà che, decidemmo, si doveva raccontare, meglio, denunciare. E così fu.

Rientrati in Italia, Roberto mi portò alla Casa Madre dei missionari, in corso Ferrucci a Torino. Era la fine del 1992. Qui incontrammo per primo padre Franco Cellana, all’epoca superiore della comunità. Fu molto accogliente e, dopo i nostri racconti, non esitò ad alzare il telefono e chiamare il direttore della rivista Missioni Consolata, padre Francesco Bernardi.

Francesco ci ricevette subito. Ci ascoltò, e con i suoi occhi vispi, un mezzo sorriso incorniciato dalla barba che all’epoca aveva, manipolando una penna, ci disse che poteva pubblicare qualcosa, se gli avessimo proposto un testo.

Radunate le idee, di getto, iniziai a scrivere. In quei mesi mi capitava spesso di scrivere delle riflessioni, ero ancora pieno di immagini del Sudamerica e di sentimenti contrastanti. Mi sentivo un disadattato in Italia ed ero particolarmente ispirato. Roberto, invece, non mi seguì in questa iniziativa.

Fu così che nacquero quei due primi articoli, quasi spontaneamente, mentre dentro di me cresceva qualcosa, lo stimolo per un mio nuovo ruolo nella vita. Da un lato, occorreva fare qualcosa per ridurre le disuguaglianze di cui ero stato testimone e, dall’altro, bisognava far sapere alla gente di questa parte del Mondo che quelle situazioni esistevano.

A Rio avevo incontrato altri due personaggi particolari. Il primo era il giornalista Giuseppe Nava, che all’epoca lavorava per Missões Consolata, la rivista dei missionari in Brasile. Un giornalista che si occupava di temi sociali, in particolare di popoli indigeni, che affascinò me e Roberto con i suoi racconti e con il tipo di lavoro che faceva, dandomi sicuramente diversi stimoli.

E poi, monsignor Aldo Mongiano, vescovo di Boa Vista, di passaggio a Rio per andare in Italia, con il quale visitammo i cantieri preparatori della conferenza di Rio92. Lui ci parlò molto della sua missione e dei popoli indigeni. Ma ci fece anche riflettere sul nostro futuro. Voglio ricordare che eravamo neolaureati in ingegneria elettronica, con il massimo dei voti, e avevamo preso un periodo per visitare, in economia massima, il Sudamerica. Al nostro rientro tutte, o quasi, le strade ci erano aperte.

Questa è la storia del mio primo articolo con le prime foto pubblicate, per combinazione o per genesi, proprio su Missioni Consolata. In seguito, pubblicai su diverse testate italiane, e alcune estere.

Quindi iniziai a mettermi in testa l’idea di continuare a scrivere e a produrre immagini. Ma sempre con l’obiettivo di far conoscere e di denunciare realtà difficili.

La fotografia, che mi aveva appassionato fino dall’infanzia, la vedevo ora come il più potente mezzo per comunicare queste realtà. Il testo scritto avrebbe contribuito a descriverle.

Incontrai il mio primo giornalista in Italia, Sante Altizio, nella stanza della nostra comune amica Gabriella Roux, nel collegio femminile di via delle Rosine a Torino. Sante mi spiegò come funzionavano le cose per la professione giornalistica nel nostro paese.

Poi cercai altre storie, altri soggetti. Andai in Centro America e incontrai il movimento civile dei guatemaltechi, in particolare le Comunità di popolazioni in resistenza. Documentai la loro lotta.

In seguito, in Italia, mi presentarono il fotogiornalista Paolo Siccardi, il quale mi diede diversi consigli che si sarebbero rivelati preziosi.

Nel 1996 mi iscrissi all’Ordine dei Giornalisti, grazie a diverse collaborazioni che avevo messo in piedi negli anni precedenti. Fu per me un primo traguardo: ero ufficialmente giornalista.

Era deciso, avrei continuato anche su questa strada (intanto vivevo facendo il ricercatore nel settore delle telecomunicazioni), ma non sapevo ancora quanto spazio avrebbe preso nella mia vita.

Marco Bello
Torino, febbraio 2023

Energia e soffio vitale

Caro padre,
ho già scritto altre volte su queste pagine. In particolare, in uno dei miei scritti parlavo di Dio come fonte di energia. «Allora, il Signore Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). E commentavo: «Come non interpretare quel soffio come Energia?».

Ebbene, nella vostra rivista di novembre, ho apprezzato molto l’articolo su Albert Einstein e qui mi ha fatto ricordare la famosa formula: E=mc2. Da qualche tempo questa formula mi ronza nelle orecchie cercando di andare oltre la materia rappresentata in poche lettere per descrivere tutto l’universo. Pensavo: ma non è anche divina questa Energia che impregna tutta la materia?

Un giorno, in un «lampo» intravvidi qualcosa che va oltre la materia: «ED=mc2+F2».

Mi spiego: alla E di energia ho aggiunto la D di divino, alla mc2 ho aggiunto la F di fede col 2 inteso come fede al quadrato, ossia grande fede. Badi che non intendo dire che la formula di Einstein sia errata, assolutamente no! È solo un tentativo di comprendere l’universo per coloro che credono in qualcosa che va oltre la materia (e qui sono comprese tutte le forme di religione).

Lei cosa ne pensa? Mi piacerebbe segnalarla a Piergiorgio Pescali autore dell’articolo, ma non so come fare. La ringrazio anticipatamente per l’interessamento. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
14/12/2022

Ho passato questa email al nostro Piergiorgio Pescali, ovviamente. Ecco qui la sua breve email di risposta quasi immediata.

Gent.mo sig. Brugnoni,
capisco che il verso biblico da lei citato possa indurre a interpretazioni scientifiche; personalmente, però, ho sempre interpretato che il soffio vitale che Dio ha instillato nell’uomo sia l’unicità che Dio stesso ha voluto per l’essere umano, concedendogli un dono unico che altri esseri non hanno. Quel soffio divino, quindi, è assai diverso dalla materia.

Le formule scientifiche hanno significato perché utilizzano parametri matematicamente riconducibili a realtà concrete. Nella fattispecie, la formula di Einstein ha avuto conferme e continua ad averle nel nostro mondo fisico. Inserire in questa formula (ma il discorso vale anche per tutte le altre) indici non quantificabili dal punto di vista matematico, non avrebbe senso dal punto di vista scientifico. «E», «m» e «c» sono grandezze fisiche ben determinate, che trovano riscontro nelle sperimentazioni fisiche.

Quali valori e quale unità di misura si potrebbero dare a D e F? Penso che chi ha il dono della fede non abbia bisogno di formule matematiche per spiegare il mondo in cui viviamo, la sua natura, la sua genesi e il suo termine.

Con cordialità.

Piergiorgio Pescali
15/12/2022

Unità: cantiere di fraternità

A fine gennaio, come di consueto, si celebra la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Da noi in Italia, dove si è in gran parte cattolici, non si avverte il problema della divisione tra cristiani. Né si mostra grande sensibilità. Ma in terra d’Africa o d’Asia, dove sono stato come missionario, suonava invece come uno scandalo. «Portateci il Cristo e non le vostre divisioni!», sentivo implorare. Riunirsi in nome dello stesso Cristo da una parte protestanti e dall’altra cattolici – quasi due mondi separati – era, infatti, una ben triste testimonianza.

Ora i tempi stanno cambiando… In Marocco si è perfino costituita nel 2012 a Rabat, insieme, in corresponsabilità tra protestanti e cattolici, una originale Università di teologia, unica al mondo, dal nome «Almowafaqa» (significa accordo). Rappresenta una vera novità nel panorama teologico, includendo persino professori musulmani. La Chiesa cattolica in Marocco, d’altronde, accoglie fraternamente nei suoi luoghi di culto o di accoglienza comunità protestanti. Per gli ortodossi, ricordo quando qualcuno chiedeva a père Michel, cattolico, di celebrare la Pasqua ortodossa. Ma di fronte all’imbarazzo del sacerdote, si mostrava rassicurante. «Non si preoccupi, padre, faccia come il solito, metta solo un po’ più di candele sull’altare!». Gli ortodossi, infatti, nel celebrare adorano la luce, segno vivo del Risorto.

Come missionario ho avuto l’occasione di accompagnare comunità di migranti italiani a Londra, nel mondo anglicano e nella città di Ginevra, definita la «Roma di Calvino». Ricordo quando con due ragazze italiane siamo stati al culto nella centralissima St. Martin in the Fields a Londra e la loro viva sorpresa di vedere officiare una donna pastore in talare romana. Il sermone, poi, fu di una brevità, un’efficacia e un’ispirazione esemplari. La sorpresa più grande, alla fine, quando la donna pastore alla porta d’uscita saluta come sempre ad uno ad uno tutti i presenti. Arrivato il loro turno, sapendo che non erano anglicane ma italiane, con un sorriso inesprimibile le invitava a un caffè nel bar della cripta! Sì, distanza e prossimità, allo stesso tempo, sorprendenti.

A Ginevra, invece, ci venne l’idea di invitare alla preparazione della cresima dei nostri giovani, Philippe, il pastore calvinista della parrocchia accanto. Venne con tutta la preparazione dotta della Parola di Dio, con l’esperienza di padre di famiglia di ben cinque figli e con l’amabilità sorridente del vicino di casa. Il campo da trattare era precisato, anche se sconfinato: lo Spirito Santo nella Bibbia.

Quale, però, fu la nostra sorpresa nel vedere, alla fine del lungo incontro, i nostri ragazzi pronunciare disinvoltamente termini in greco o in ebraico come «pneuma», «ruah» dopo un bel percorso filologico! Ma entusiasti, soprattutto, della loro ultima scoperta: la creazione dell’uomo. Fu un bacio in bocca dato ad Adamo da Dio. È così che Dio stesso trasmise il suo soffio di vita. Evidentemente, il pastore era ricorso alla scioltezza di linguaggio dei suoi figli, ottenendo un vero e insperato successo!

In altra occasione, in una celebrazione funebre, ci si era divisi i momenti con un pastore calvinista: a lui la spiegazione della Parola e il percorso di vita di un migrante italiano che conosceva, a me i gesti del rito e il loro commento simbolico (che i protestanti non contemplano). Alla fine, non posso dimenticare come la moglie stessa del pastore, raggiante, ci venne incontro per ringraziare entrambi. La complementarità dei nostri interventi pare aver dato alla celebrazione senso, interiorità, fede convinta e condivisa. Anche allora il pastore aveva fatto brillare due qualità della tradizione protestante: l’essenzialità e l’efficacia della parola.

Un altro giorno, alla messa per una defunta italiana, notavo la presenza di un pastore protestante nell’assemblea. Durante il corteo verso il camposanto, allora, discretamente avvicinandomi gli chiedevo di improvvisare la preghiera al cimitero. Mi rispondeva con un’occhiata indecifrabile. Ma, poi, in quel luogo sacro che sembrava un giardino, mentre scendeva lentamente la bara nella terra, incominciava forte: «Tu ci hai fatti di terra, Signore, e alla terra noi ritorniamo…», improvvisando così una commossa preghiera finale. Con il suo linguaggio biblico ci inchiodò alla terra. Ci fece sentire tutti semplice argilla. E ci depose, allo stesso tempo, nelle palme accoglienti delle mani di Dio. Per i presenti fu un momento forte, indimenticabile, di speranza.

Per me sono occasioni incredibili di fraternità con pastori protestanti, da sempre appassionati della Parola di Dio. Parola che essi hanno conosciuto, elaborato e interiorizzato non da sessant’anni come noi, ma da ben cinque secoli!

Ecumenismo è costruire dei ponti, lanciare delle passerelle con quelli dell’altra riva. Sapendo che, un giorno, Dio stesso prosciugherà il mare che ci separa.

Renato Zilio, missionario scalabriniano
 a Casablanca, Marocco, autore di  «Dio attende alla frontiera», EMI, 30ª ristampa
11/01/2023

 




Brasile. Il tè del padre


Frei Gabriel è un giovane francescano della metropoli paulista. Con i suoi confratelli distribuisce pasti ad affamati e senzatetto che ogni giorno, a centinaia, fanno la fila davanti al suo convento.

San Paolo. «Questa città è estenuante. È più facile rubare che chiedere l’elemosina», dice un senzatetto a un altro, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto alla richiesta di una moneta.

Ci sono quarantamila senza tetto nella città di San Paolo del Brasile, la metropoli più grande d’America. Il suo centro storico è un posto dove nessuno ti raccomanda di andare.

Praça da Sé, il piazzale che si estende di fronte alla cattedrale neogotica, è il luogo di ritrovo di centinaia di senzatetto (população em situação de rua). In gran parte uomini, vivono accampati in tende o piccole baracche, avvolti nelle coperte grigie, tutte uguali, distribuite dal comune, chiedono l’elemosina, vendono oggetti recuperati chissà dove, giacciono stesi senza sensi sotto gli effetti del crack. Cenciosi, a volte, si accalcano attorno a un predicatore che declama versetti della Bibbia e alza la voce quando nomina «il diavolo, il male!».

Tra le tende, si scorgono anche persone che sono arrivate lì da poco, hanno portato con sé un comodino, o una pentola, ricordo di una vita di piccole comodità che hanno perso da poco. Ci sono anziani, migranti venezuelani, persone transessuali. Praça da Sé è il ritrovo di coloro che sono scivolati sotto la linea della povertà in una città che è il motore economico del Brasile, la più ricca d’America Latina. Una ricchezza che però lascia senza nemmeno un pasto al giorno quasi sette milioni di persone solo nello stato di San Paolo, 33 milioni in tutto il paese.

Celebrazione della messa all’interno della chiesa dei francescani. Foto Mauricio Zina.

Centinaia in fila per un pasto

A duecento metri dall’accampamento di Praça da Sé, si creano lunghe file di senzatetto. Si mettono in coda per ricevere i tre pasti al giorno che distribuisce il convento francescano di Largo São Francisco.

«Ma non è solo un pasto caldo. Offriamo assistenza sociale, giuridica e psicologica. E anche attività culturali, laboratori di musica e pittura. Questo è il “Tè del padre” (Chá do padre), un’attività che esiste dal 1640», spiega Frei Gabriel, 25 anni, frate del convento di Largo São Francisco, «un sostegno integrale, parte del progetto Sefras – Ação social franciscana, alle persone che vivono in strada, a tutti coloro che chiedono aiuto». Vengono distribuiti circa duemila pasti al giorno, spiega Frei Grabriel. Molti di coloro che vanno al Tè del padre, sono persone con dipendenze da sostanze chimiche, soprattutto crack.

«Il nostro lavoro non è solo allontanarle dalla droga, ma capire perché la cercano. Quasi sempre c’è un dolore, un divorzio, un figlio che abbandona il padre. Nel momento del pasto, parliamo. Una persona mi ha fatto un ritratto, un’altra mi ha dedicato una poesia. Certo, è un lavoro difficile perché è un accompagnamento personale. Sono tanti e non riusciamo a seguire tutti. Quando vado in giro per la città senza il saio, qualcuno di loro mi riconosce, “pace e bene” mi gridano e mi salutano con la mano. San Francesco diceva: “Prega sempre il Vangelo. E, se necessario, usa le parole”. Vuol dire che si può pregare ascoltando l’altro, è quello che cerchiamo di fare», racconta Frei Gabriel.

Conciliare studio e vocazione

Primo piano di frei Gabriel del convento di San Francesco, a San Paolo. Foto Mauricio ZIna.

Statura piuttosto bassa, i capelli ricci neri, la barba e un paio d’occhiali con la montatura rotonda, Frei Gabriel ha uno sguardo sereno e curioso. È il più giovane del convento, parla con molta calma, sceglie con attenzione le sue parole per spiegare perché un ragazzo della periferia di San Paolo ha deciso di essere frate francescano nel Brasile del 2022.

«Da bambino sognavo di fare l’insegnante, non immaginavo di diventare un frate. Sono sempre stato curioso verso i libri. A casa mia c’erano quelli che usava mio padre per studiare, ha completato la scuola da adulto, quando io ero già nato. E mi ricordo un suo libro di geografia, lui studiava le mappe e io già conoscevo tutte le capitali. A scuola ero il secchione. Alle superiori, ho fatto un istituto tecnico, una specializzazione in chimica, pensavo di studiare ingegneria chimica, o qualcosa di simile. Finché un giorno, la mia insegnante di portoghese mi disse “ma sei matto? Tu devi studiare materie umanistiche”. Così decisi di studiare psicologia, ma non mi vedevo a fare terapia, volevo fare ricerca. Poi ho conosciuto i frati francescani. Per circa un anno ho partecipato ai loro incontri qui a San Paolo e ho capito che potevo conciliare il desiderio di studiare con la vocazione religiosa».

«Sono entrato nel seminario di Santa Catarina, nel Sud del Brasile, ho girato alcune case francescane e da aprile 2021 vivo qui nella casa di Largo São Francisco. A fine 2022 andrò in un’altra casa, a Petropolis, a Rio de Janeiro, per studiare teologia. Ma ho deciso: non voglio essere prete. Voglio seguire il cammino religioso, ma desidero studiare anche altre cose, psicologia, scienze sociali e filosofia. Ho anche una tesi in mente», si entusiasma Frei Gabriel.

Momento di raccoglimento e preghiera di una fedele. Foto Mauricio Zina.

Meglio evitare le «letture binarie»

«Voglio studiare l’opera di un critico letterario francese in relazione con gli studi di Focault sulla follia, sulla saggezza dei matti. Nel medioevo i matti erano coloro che rivelavano il divino, mentre con l’uomo moderno si abbandona questa visione. I miei studi filosofici, le letture di Nietzsche, mi hanno insegnato che bisogna superare le letture binarie “male-bene, nero-bianco”, così si può avere una visione più positiva dell’uomo, come un essere complesso».

«Come si relaziona lo studio con la tua vita religiosa?», gli chiedo. «I miei studi mi hanno generato crisi esistenziali, non crisi vocazionali. Anzi, spesso mi chiedevo cosa ci stessi a fare al mondo, quale fosse la mia missione. Alcuni pensano che la filosofia vada contromano rispetto alla religione, ma per me è stato il contrario: lo studio della filosofia abbraccia il mio io religioso:
il Gabriel con il saio è lo stesso Gabriel che è nato nella periferia di San Paolo. In quella periferia, ho perso molti amici, quelli della scuola sono morti o sono in carcere. È triste, ma è quello che sarebbe potuto succedere anche a me se avessi preso un altro cammino. Siamo cresciuti nello stesso posto, frequentavamo le stesse persone. Ringrazio Dio e i miei genitori che mi hanno aiutato a scegliere, anche se forse in modo non cosciente».

Cosa significa essere francescano

Chiedo a Frei Gabriel perché abbia scelto l’ordine dei Francescani. «Innanzitutto, per la fratellanza. La vita fraterna significa che tutto è comune: il cibo, la cassa, il lavoro. Se io lavoro come insegnante, metto il salario nella cassa comune. Il ciabattino, che guadagna anche solo un centesimo, lo mette nella cassa comune. Tutti contribuiscono e tutti prendono solo quello di cui hanno bisogno».

«E poi, perché i Francescani sono l’ordine dei minimi: non sono il detentore della verità, non faccio qualcosa per gli altri, ma insieme agli altri. Per esempio, noi non abbiamo capi. Siamo tutti fratelli. Al massimo, c’è il primo tra i fratelli, il più anziano, il più istruito, ma non abbiamo leader. Qui, in questa casa, non c’è un superiore, c’è un fratello che coordina, che decide di ridipingere la parete», dice indicando la parete bianca del refettorio dove ci troviamo per l’intervista. «Le decisioni le prendiamo in assemblea, nel capitolo della casa, e quel che decide il capitolo è ciò che conta».

«Sono i valori che abbiamo ereditato dalla tradizione di San Francesco, che era un cavaliere medievale. La nostra cultura della semplicità viene dal cameratismo dei cavalieri, dall’uno per tutti, tutti per uno. E oggi riproduciamo e attualizziamo quei valori», afferma Frei Gabriel.

Chiedo se, a parte la crisi dei fedeli, ci sia anche una crisi vocazionale nel clero in Brasile. «Sì – risponde -, e per tanti motivi. Uno è storico: anticamente i religiosi erano gli unici che potevano accedere allo studio, avere opportunità di vita indipendentemente dal contesto sociale di nascita. Oggi non è così, ci sono più opzioni. Ma ci sono anche altri cambiamenti, nel modo di intendere la vita religiosa».

L’entrata del convento di San Francesco, a San Paolo. Foto Mauricio Zina.

«Ma questo Non è peccato»

«Per noi francescani, è cambiato anche il concetto di Chiesa. Con il Concilio Vaticano II, gli ordini sono tornati al carisma originale dei padri fondatori. Abbiamo ripreso a leggere i testi di San Francesco e di coloro che l’hanno conosciuto».

«Ti faccio un esempio – continua Frei Gabriel -. Il nostro convento è un punto di riferimento per le confessioni, le persone vengono qui da quartieri lontani. Ma perché vengono fin qui, se hanno una chiesa più vicina a casa? Perché, credo, noi francescani siamo “carne e ossa”, siamo comprensivi. A volte, ti capita un tipo molto rigido, puritano, che vuole confessarsi: “Perché non ho pregato la quaresima di San Michele all’alba”, dice, “ma se lavori tutto il giorno, non è peccato”, lo rincuoriamo noi. Mentre, magari, un altro confessore gli direbbe di fare qualche preghiera per recuperare, rafforzando così l’idea del peccato. Quando qualcuno ci dice che è posseduto dal diavolo, noi ci concentriamo innanzitutto sui problemi psicologici, prima che su quelli spirituali», conclude Frei Gabriel.

Federico Nastasi

Gli autori

  • Federico Nastasi, ricercatore e giornalista freelance, vive in America Latina, collaborando con media e centri studi, in italiano
    (Il Manifesto, Espresso) e spagnolo (El País, Brecha semanario). È coautore di Macondo, un podcast sull’America Latina prodotto da Treccani.
  • Mauricio Zina (Montevideo, 1987), fotogiornalista, lavora per vari media uruguayani e internazionali su temi di carattere politico e sociale. Il suo sito: www.mauriciozina.com

Un francescano benedice una fedele. Foto Mauricio Zina.


Chiesa cattolica e le nuove Chiese evangeliche

La sfida

In Brasile, il paese con più cattolici al mondo, da decenni vive un cambio religioso importante. Negli anni Settanta, i cattolici erano il 92%, oggi sono il 45%. Nello stesso periodo di tempo, gli evangelici sono passati dal 5% al 30%. Nel prossimo decennio, dicono le statistiche, saranno il primo gruppo religioso del paese. Il cambio avviene soprattutto attraverso le conversioni: si nasce cattolici, ci si converte al culto evangelico.

«In Brasile, come in tutta l’America Latina, chi crede diversamente, l’altro religioso, è uno di noi», scrive Gustavo Morelo, sociologo delle religioni. «Non è uno straniero che viene da un altro paese e che trasforma la nostra identità religiosa, come magari avviene in Europa. È un nostro prossimo, è mia sorella, mio fratello, un mio parente che si converte».

E generalmente, le conversioni avvengono in giovane età, prima dei 25 anni.

Secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 54% dei protestanti in Brasile afferma di essere stato battezzato cattolico. Ma perché si convertono? Secondo il sondaggio, la spiegazione più comune è che cercano una connessione più intima con Dio, un culto diverso, una chiesa più utile ai suoi membri.

«Quello pentecostale è un successo sociologico, non teologico», scrive Clara Mafra, antropologa, che ha studiato l’ascesa dei pentecostali in Brasile. La trasformazione religiosa del paese è conseguenza della trasformazione urbanistica: la crescita delle città e il contemporaneo abbandono delle campagne. A San Paolo vivono venti milioni di persone, sette a Rio de Janeiro. Le metropoli sono diventate immense, attorniate da gigantesche zone periferiche, dimenticate dallo stato e, a volte, anche dalla Chiesa cattolica. La segregazione sociale e urbana, non la povertà, è una chiave del successo pentecostale. E le chiese evangeliche hanno trasformato queste periferie da «terre di nessuno, in un luogo almeno abitabile», scrive Mafra.

Le persone che aderiscono alle chiese entrano in una comunità e si sentono valorizzate. A Vila Misionaria, periferia Sud di San Paolo, ho chiesto a una fedele neopentecostale cosa le piacesse del culto evangelico: «Mi piacciono le feste, i canti, gli incontri che altrove non potrei fare. Se non ci fosse la Chiesa, resterei da sola a casa a guardare la tv», mi ha detto. Il pastore che apre la chiesa in un garage o anche nel suo salotto di casa viene dal quartiere, ha dei figli che frequentano la (pessima) scuola pubblica della zona e nessun parco dove andare a giocare, una moglie che ha avuto a che fare con la sanità pubblica, e ogni giorno fa tre ore di viaggio su mezzi pubblici.

In Brasile, come nel resto dell’America Latina, quella evangelica è un’importante trasformazione religiosa e sociale. E una grande sfida per la Chiesa cattolica.

Fe.Na.

Momento di preghiera di una fedele. Foto Mauricio Zina.




ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

Dopo i disordini del 2021, gli insistenti appelli al dialogo lanciati da tutte le Chiese del paese sembravano aver aperto vie di speranza. In realtà, nuovi episodi di violenza ai primi di ottobre 2022, segnalano una situazione che sta degenerando, come scrive il vescovo in questo testo indirizzato alla sua gente, ma anche a tutti noi.

Alcuni di noi non hanno mai dimenticato la violenza sperimentata in eSwatini nel giugno 2021@. Nel mio caso perché non ero riuscito a raggiungere casa a Manzini dopo un incontro a Mbabane con il primo ministro in carica. I blocchi istituiti lungo la strada dai giovani mi avevano costretto a cercare un posto alternativo dove dormire. Avevamo trascorso quella notte ascoltando una sparatoria nelle vicinanze. La mattina seguente ci eravamo svegliati trovando pneumatici e veicoli bruciati e pietre sulla strada.

Le domande naturali che ci poniamo sono: a che punto siamo, un anno e mezzo dopo? Che cosa è stato fatto da allora?

Alcuni, probabilmente, speravano che fosse business as usual, tutto come prima, ma gli eventi degli ultimi mesi devono essere stati un brusco risveglio per loro.

Un dialogo nazionale

Sembra esserci un accordo comune sulla necessità di un dialogo nazionale. Credo che ogni voce che ha parlato dal giugno 2021 (il governo, le organizzazioni politiche, le Chiese, le Ong) abbia ripetuto lo stesso appello.

Molti, se non tutti, hanno anche sottolineato la necessità di avere «un dialogo sul dialogo». Ricordo che mons. Sithembele Sipuka (presidente della Sacbc – Southern african catholic bishops’ conference) ne ha parlato durante una conferenza stampa al termine della visita di solidarietà a eSwatini. Questo «dialogo sul dialogo» dovrebbe aiutare tutte le parti coinvolte a mettersi d’accordo su cosa si intende per dialogo e su come dovrebbe svolgersi.

Purtroppo, a parte la richiesta di un dialogo nazionale, non pare essere successo molto di più. Sembra che si senta parlare più del «no» («nessun dialogo in mezzo alla violenza») che del «sì» (una via da seguire). Non si dice nulla sulle misure adottate nell’ultimo anno e mezzo per attuarlo. Abbiamo sentito che il denaro per un dialogo nazionale è stato stanziato, ma non abbiamo mai saputo se sia mai stato usato e come.

Il fatto che i membri del parlamento abbiano chiesto al primo ministro di parlarne con Sua maestà Mswati III rafforza l’impressione che non sia stato fatto nulla.

Questo crea, almeno in me, la preoccupazione che la parola dialogo stia lentamente (o rapidamente?) perdendo ogni significato. Diventa più uno slogan che una realtà concreta.

Nel frattempo, probabilmente si è sviluppato un circolo vizioso. La violenza è giustificata dalla mancanza di passi concreti verso il dialogo, e il dialogo non ha luogo a causa della violenza che non si ferma nel paese.

Chi avrà il coraggio di romperlo?

Visita di solidarietà di FOCCISA (the Council of Churches for Southern Africa), foto davanti alla cattedrale di Manzini

Il paese sta cambiando

L’ultimo mese (ottobre 2022, ndr) ha visto chiaramente un aumento della violenza (che è sempre stata presente a livelli più bassi). È una nuova realtà per questo paese che si è sempre vantato di essere presentato come pacifico. È interessante notare che la popolazione sembra aver accettato che la violenza sia ormai diventata parte della nostra vita ordinaria. Come ho detto nella mia dichiarazione (del 19/10/2022)@, è molto probabile che la violenza aumenterà e continueremo tutti ad adattarci ad essa.

Giovedì 10 novembre la violenza ha colpito parti di Manzini. Mentre stavo lasciando la città per Mbabane, ho potuto vedere il fumo provenire dalla zona in cui erano stati dati alle fiamme il posto di polizia presso la stazione dei Satellite Bus e altri negozi. Tornato a Manzini ho visto che l’esercito era stato schierato. Vedere l’esercito e non la polizia è stata la prima cosa che mi ha sorpreso. La seconda sorpresa è stata di vederli con il volto coperto, un’indicazione della loro paura di essere identificati dai violenti e di esporsi al richio di essere uccisi in seguito o di avere le loro case date alle fiamme.

Chi avrebbe mai pensato che eSwatini potesse cambiare così rapidamente? Chi avrebbe mai pensato che questo (che vediamo in altri paesi in Tv) potesse accadere tra di noi?

Anche le nostre relazioni ne sono influenzate. Visto che quel giorno non c’erano mezzi pubblici a Manzini, la gente cercava buoni samaritani disposti a dare un passaggio. Qualcuno ha deciso che non doveva essere così, e le persone soccorse sono state costrette a scendere dai veicoli e a camminare, mentre ad altri è stato impedito di aiutare chiunque. Anche questa è violenza, quando alcuni decidono per gli altri.

Vandalismi e distruzione nella biblioteca di una scuola, Aprile 2022

La violenza

La paura è un altro elemento che sembra essere diventato parte della nostra vita quotidiana.

Dopo gli eventi dello scorso anno, ricordo che alcuni cattolici che conoscevo bene mi informavano della presenza di membri dell’esercito che «visitavano» le case di notte. Nulla era stato detto sui media al riguardo. Doveva essere un coprifuoco in cui tutti noi dovevamo rimanere a casa.

Non molto tempo fa, tornando a casa dopo la cena a casa di un prete, ho trovato un posto di blocco fatto dai membri dell’esercito. Erano pesantemente armati. Non ero a conoscenza di blocchi stradali che si svolgevano da parte dell’esercito di notte. Siamo riusciti a scherzare mentre volevano sapere perché ero in viaggio di notte. Non è stato annunciato alcun coprifuoco, ma sembra che dobbiamo giustificare il motivo per cui viaggiamo di sera.

Un nuovo tipo di paura è diventato parte della nostra vita. Proviene dalle Swaziland Solidarity Forces (Ssf). Esse rivendicano gli attacchi incendiari e le uccisioni. Minacciano di uccidere o incendiare le proprietà di coloro che non fanno ciò che viene loro detto. Non so se qualcuno sa chi siano e chi li sta finanziando. Queste domande – per quanto importanti – sono difficili da porre.

Stiamo progettando di costruire il nostro futuro sulla paura e su più violenza? Qualunque cosa seminiamo è ciò che abbiamo intenzione di raccogliere in seguito. Poiché la paura e la violenza sono attribuite al governo, stiamo progettando di sostituirle con la paura e la violenza di qualcun altro?

I media

Da un giornale locale di eSwatini

Quello dei mezzi di comunicazione è un altro settore in cui abbiamo assistito a cambiamenti. Ero solito dire in passato che si poteva trovare poco su eSwatini sui social media. C’era una sorta di autocensura in molti: «È meglio non parlare». Non è più così da giugno 2021. Molto di più può essere letto sui social media e sulle pagine web. La sfida è essere critici nei confronti di ciò che si legge. L’informazione è difficilmente «indipendente» e «imparziale», come proclamano i media.

Tutti noi dobbiamo interrogarci su ciò che viene e che non viene detto. Si può sottolineare che i media statali limitano ciò che viene riportato sulla violenza che ha luogo, ma la stessa cosa potrebbe essere detta di coloro che scelgono di non riportare nulla di positivo su quanto fatto dal governo perché potrebbe non piacere loro. Sembra importante dipingere l’altro come il nemico che deve essere affrontato.

Entrambe le parti dicono cose sui social media che non sono state provate e che l’altra parte nega che siano vere: «I mercenari sono entrati nel paese» e «ci sono stranieri tra i soldati del nostro esercito», sono due esempi familiari.

Violenza e media vanno insieme. L’informazione può essere usata come arma per instillare rabbia e paura. Anche qui bisogna chiedersi: chi paga per questo? A volte su Twitter è possibile trovare gli stessi post su profili di persone diverse che molto probabilmente non esistono. Tutto è impostato con un unico obiettivo: sostenere una parte o l’altra e influenzare il modo in cui le persone leggono la situazione.

In questi giorni è interessante vedere la mancanza di informazioni su eSwatini da fuori dei nostri confini. I media, che in passato parlavano così tanto dei nostri disordini, ora tacciono. Sembra che non ci sia alcun interesse per ciò che sta accadendo qui. Forse la nostra violenza non è abbastanza forte da renderla degna di essere denunciata.

Tentazioni

  • In mezzo a tutto questo, si possono individuare una serie di tentazioni che colpiscono ogni parte in causa:
  • «Questo passerà, le cose torneranno alla “normalità”. Tutto questo è solo il lavoro di pochi facinorosi».
  • «Non ci sarà corruzione una volta che avremo un sistema democratico».
  • «Possiamo distruggere il paese ora, lo ricostruiremo più tardi sotto un nuovo sistema politico».
  • La democrazia risolverà tutti i nostri problemi… in una notte.
  • Il pensare che chiunque può decidere per l’intera nazione.
  • Il pensare che combattere la violenza con la violenza le metterà fine.
  • Il pensare che la violenza di genere sia sbagliata ma la violenza politica sia giustificata.

Ignorare che:

  • eSwatini è una delle società più diseguali del mondo@;
  • nel paese manca formazione politica;
  • un futuro costruito sulla violenza innescherà solo altra violenza una volta che la popolazione sarà di nuovo infelice;
  • i nostri giovani provano rabbia, paura, frustrazione (ma non solo);
  • il 60/70% dei nostri giovani è disoccupato e potrebbe sentire di non avere nulla da perdere;
  • la maggior parte dei nostri giovani non ha mai fatto parte del processo che ha portato alla Costituzione del 2005 e potrebbe non identificarsi con essa.

È necessario inoltre:

  • Non ignorare quanto sia grande la necessità di un processo di guarigione già oggi a causa dei disordini dello scorso anno e quanto la violenza dividerà questa piccola nazione (famiglie e comunità) in futuro.
  • Non sentirsi superiori ad altri paesi senza imparare dalla loro esperienza di violenza e dai loro processi democratici.

Cattedrale di Manzini, preghiera per le vittime della violenza

Le chiese

Eswatini (già Swaziland) è conosciuto come un paese cristiano. Il numero di chiese, gruppi, profeti, pastori, apostoli e altri è molto grande. Ogni anno Sua maestà chiede un servizio di preghiera di ringraziamento a palazzo. Nonostante tutto questo, non riesco proprio a ricordare un momento in cui qualcuno di questi predicatori abbia mai aperto gli occhi della nazione sul fatto che questo tipo di disordini (che non erano mai stati visti prima) si sarebbero verificati. Tutti hanno rassicurato che tutto andava bene o sarebbe andato bene.

Tre sono i gruppi cristiani più conosciuti nel Regno, ciascuno dei quali riunisce un certo numero di chiese cristiane.Tra di essi c’è il Csc – Consiglio delle chiese dello Swaziland (di cui siamo padri e madri fondatori) che è il più piccolo (solo 13 Chiese). La cosa positiva è che la leadership di questi organismi fa del suo meglio per tenersi in contatto. La sfida consiste nel trovare un terreno comune su come affrontare la situazione. Ciò potrebbe essere dovuto a ragioni storiche e ai diversi modi in cui leggiamo la Bibbia.

Il Csc è stato il più visibile: ha rilasciato dichiarazioni, ha incontrato ogni possibile attore (governo, partiti politici, gruppi tradizionali …), ha coordinato visite di solidarietà nel paese, ha sostenuto le persone in prigione, ha fornito pacchi alimentari alle famiglie di coloro che sono morti durante i disordini.

La Chiesa cattolica, da sola, è stata attiva anche in diversi modi: ha rilasciato dichiarazioni, incontrato le parti interessate, riunito alcuni cattolici per riflettere sulla situazione e sul contributo che possiamo dare alla costruzione della pace, sostenuto le vittime della violenza, fornito pacchi di cibo, offerto consulenza, creato club per la pace nelle scuole superiori, dedicato giorni o settimane speciali di preghiera per la pace, aperto spazi per il dialogo locale, condiviso brevi dichiarazioni sui social media sull’importanza della nonviolenza.

Qualche settimana fa (in ottobre 2022, ndr) la polizia ha chiesto di utilizzare la nostra cattedrale per un incontro di preghiera. La violenza che l’ha colpita ha innescato direttamente questo bisogno di riunirsi per pregare. Abbiamo acconsentito. L’avevamo aperta in passato alle vittime di violenza da parte delle forze di sicurezza. Tutti abbiamo bisogno della guarigione e della guida di Dio.

Non ho potuto evitare di ricordare che nel febbraio 2013 (se la memoria non mi inganna), la polizia aveva fatto irruzione nella stessa cattedrale per fermare un incontro di preghiera per la pace nello Swaziland accusando gli organizzatori di mascherare un raduno per disturbare le elezioni nazionali dietro un incontro di preghiera.

Quello che stiamo facendo è una goccia nell’oceano. Sono necessarie molte più gocce. C’è sempre una sfida tra i cattolici (forse i cristiani in generale) su chi abbia la responsabilità di affrontare i disordini. Come dico sempre scherzosamente: «Quando la gente dice “la Chiesa è tranquilla”, quello che intende è che “il vescovo è tranquillo”, come se gli altri avessero il diritto di stare tranquilli».

Come ho scritto sui social media non molto tempo fa: «Il nostro paese è come una persona malata, che cura il dolore, ma non ciò che lo sta causando».

+ José Luis Ponce de León
vescovo di Manzini

Il vescovo José Luis visita una scuola vicino ai confini con il Mozambico per incoraggiare gli insegnati dopo le violenze, danni e incendi subitie dalla scuola.




Corridoi umani

testi di  Mario Marazziti, Marco Gnavi e Luca Lorusso |


Rifugiati siriani raccontano l’accoglienza ricevuta in Italia

«Grazie, fratelli italiani»

Giovani sposi di Houla, in Siria, nel 2012 fuggono in Libano dai massacri e dalla minaccia del carcere. Negli occhi, l’immagine di un’amica sgozzata insieme ai suoi quattro bambini. Per cinque anni vivono in un garage ai margini del campo profughi di Tel Abbas. Nel 2018 giungono in Italia grazie ai Corridoi umanitari. Oggi si dicono felici e grati per i loro «fratelli» italiani.

Arriviamo a Mondovì (Cn) alle 17. È fine ottobre e il sole è già basso. Amira e Farid (nomi di fantasia), sposi siriani con lo status di rifugiati, vivono qui da poche settimane con i loro gemelli di 5 mesi, Iman e Mahdi, al primo piano di una modesta palazzina. Prima sono stati un anno e mezzo a Cuneo e, prima ancora, nove mesi a Rosbella, frazione di Boves (Cn).

Ad aspettarci c’è Farid, uomo sui quarant’anni, grande e grosso, viso tranquillo e bonario, barba incolta, vestito con una tuta grigia. Tra le braccia tiene Iman: tutina rosa, orecchini ai lobi, occhi che sembrano chiari e molto vivaci.

Farid ci invita a entrare con modi molto cordiali. L’ingresso dà su un piccolo soggiorno occupato da una credenza e tre sofà disposti uno accanto all’altro. Al centro, un tavolino con un piatto di biscotti, uno di arachidi, e un cesto di frutta.

I tre vani che dal soggiorno portano agli altri ambienti, sono chiusi da tende di velluto verdi. Sentiamo dietro una di esse la voce di Amira che dà la pappa a Mahdi.

Farid ci fa accomodare e ci chiede se prendiamo un caffè o un tè, e va in cucina. Quando ricompare, porta un vassoio con due bicchieri di tè caldo, zucchero e cucchiaini. Intanto arriva Amira: occhi nerissimi in un viso giovane, sulla trentina, incorniciato da un velo nero. Tiene in braccio Mahdi, che ci guarda. Il Covid non ci permette contatti fisici, non ci stringiamo la mano, ma sorridiamo molto.

foto Luca Lorusso

Cinque anni in un garage in Libano

foto Luca Lorusso

Amira e Farid sono scappati otto anni fa dalla loro terra con le immagini negli occhi (e negli incubi) di un’amica e dei suoi quattro bambini sgozzati durante un’incursione di forze filogovernative nella loro città di Houla, vicino Homs.

L’uomo tranquillo che abbiamo di fronte, in Siria è considerato disertore, e per questo ricercato dalla polizia. Lui e sua moglie sono arrivati in Italia nel 2018, dopo cinque anni di apolidia in Libano, tramite i «Corridoi umanitari» organizzati dalla comunità di Sant’Egidio e dalla Papa Giovanni XXIII in accordo con lo stato italiano.

«In Siria ci sono problemi grandi», racconta Farid nel suo italiano semplice ma comprensibile. «Anche in Libano è molto pericoloso: i siriani non hanno documenti e sono sempre cercati dalla polizia. In Italia, invece, stiamo bene».

I due sposi, in Libano hanno vissuto in un garage appena fuori dal campo profughi di Tel Abbas. La loro condizione di rifugiati non è mai stata riconosciuta, e, con il tempo, è cresciuto il rischio di essere arrestati e rimandati in Siria.

Per un po’ di tempo hanno potuto vivere grazie ai soldi che Farid aveva messo da parte in Siria con la sua ditta, ma quando quelli sono finiti, ha dovuto cercare lavori in nero, mal retribuiti e pericolosi, per pagare l’affitto del garage, la luce, il cibo. Poi ha conosciuto i volontari dell’Operazione Colomba: «Ho incontrato tanti amici italiani in Tel Abbas. Loro sono molto forti e anche molto gentili». Farid sorride. «Loro venivano da noi, mangiavamo assieme. Anche quando c’era il ramadan. Conosci il ramadan?», ci chiede. Poi prosegue: «Per loro era difficile fare il digiuno», e sorride. «Lo facevano due giorni. Poi basta».

Una vita nuova in Italia

Chiediamo ad Amira e Farid come si trovano in Italia. «Per me, sono felice», risponde Farid, «perché non c’è il rischio che c’era in Libano. Poi in Italia ci sono tante persone amiche che sempre ci aiutano e sono molto gentili».

«Per me, quando sono arrivata in Italia, avevo paura», dice invece Amira, «perché pensavo che la gente era come in Libano. Ma poi, piano piano, ho visto che andava tutto bene». Amira ride e incrocia timidamente il nostro sguardo. «È cambiata la nostra vita. Ora non voglio più tornare in Libano e neanche in Siria».

Farid riprende il discorso degli amici, ed elenca alcuni nomi dei molti italiani che li hanno aiutati: «Giorgio e sua moglie Elisa sono molto bravi. Anche Alessandro, anche Abu Tony e tanti altri. Loro si preoccupano sempre per noi. Adesso in Italia la mia vita è nuova. Ci sono due gemelli: è una famiglia nuova, una vita nuova. Siamo felici!». Farid ci invita a guardare i suoi bimbi, pieno di orgoglio. «Dieci anni fa, eravamo già sposati, ma non c’erano figli. Era un problema», dice grave, poi sorride ironico: «Anche adesso è un problema: loro non dormono tutta la notte».

AFP PHOTO/HO/SHAAM NEWS NETWORK

«Tutti in Siria a fare guerra»

Quando chiediamo loro di raccontarci della Siria, si fanno entrambi seri: «Veniamo da Houla, Homs», la cittadina nella quale furono uccise 108 persone nel maggio 2012, tra cui molte donne e bambini inermi.

Farid si consulta in arabo con Amira: «Il presidente è un criminale di guerra», dice abbassando la voce, «un criminale di guerra. In Siria molte persone sono morte per le bombe. In strada ho visto un braccio così, un piede là». Farid ci mostra a gesti quello che ha visto dopo i bombardamenti e l’incursione delle forze sciite nella sua città. «Un uomo con la testa così», fa un segno all’altezza della tempia, «oh… mamma!».

«Anche l’Italia ha avuto la guerra tanti anni fa», prosegue, «ci sono stati tanti morti. Quanti anni è durata la guerra in Italia? Adesso, in Siria, da 10 anni. E poi sono arrivati Turchia, Russia, Iran, Hezbollah, Iraq: tutti in Siria a fare guerra», ride amaramente, «Morti, morti, morti».

«Io ho visto la guerra in Siria per due anni», aggiunge Amira. «Poi è arrivato l’aereo, sono arrivate le bombe, e io sono scappata in Libano. Poi è venuto anche Farid, perché era pericoloso. Io pensavo: questo mese finirà, poi un altro mese… però no! Anche la nostra casa è stata distrutta».

Si zittiscono entrambi. Amira e Farid sembrano a disagio, fanno fatica a raccontare della guerra.

Dopo un anno dal loro arrivo in Italia, Amira è andata in una scuola a parlare agli studenti: «Due volte. È stato difficile. I ragazzi hanno fatto tante domande. Mi hanno chiesto della guerra, cosa ho visto in Siria. Quello è difficile per me: raccontare cosa ho vissuto. Sono andata due volte, però la terza no. No. Basta». E conclude: «I ragazzi erano tristi per noi in Siria, per i bimbi, per tutti».

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L’accoglienza italiana

Lasciamo cadere il discorso della guerra. Amira e Farid preferiscono parlare della loro nuova vita. Soprattutto degli amici italiani, alcuni dei quali sono diventati come fratelli per loro. «Tutte persone italiane: cento per cento», dice Farid. «Giorgio è bravissimo», aggiunge Amira riferendosi a Giorgio di Rosbella che li ha accolti, grazie all’aiuto di altre cento persone, quasi in casa sua. «Quando siamo arrivati qua, piano piano, parlando con lui, l’ho sentito come mio fratello. Poi abitavamo uno sopra l’altro. Quando c’era qualche problema lo chiamavo, e lui ci aiutava».

«Per favore, scrivi grazie, grazie molte, grazie agli amici italiani che ci hanno aiutati. Molto molto gentili», aggiunge ancora Farid.

I due sposi parlano dell’Italia solo in termini positivi. Domandiamo loro se è proprio tutto bello, se non ci sono difficoltà: ad esempio con la lingua, con lo stile di vita, la cultura.

«Per la lingua», racconta Amira, «prima pensavo che è difficile, però ho studiato tantissimo grazie a un gruppo bellissimo di maestre: una veniva al mattino e poi l’altra al pomeriggio». «Tredici maestre», precisa Farid: «Io ho studiato tre mesi, poi ho iniziato a lavorare. Il problema è stato che nel primo lavoro come muratore non c’erano italiani: erano rumeni, albanesi. Anche per loro era difficile l’italiano. Ci dicevamo: “Va bene”, “ciao”, “grazie”, “vuoi caffè?”», Farid ride ricordando quel periodo. «Adesso, grazie a Dio, lavoro in un’azienda che fa porte qui vicino. Ho un contratto di tre mesi. Purtroppo in Italia non c’è tanto lavoro, e ho paura di rimanere senza».

Chiediamo se, oltre alla lingua, hanno avuto altre difficoltà: «Per me tutto bello», risponde Amira.

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Il futuro da costruire

«Io spero in un contratto lungo di lavoro», dice Farid quando chiediamo come vedono il loro futuro, «e spero di comprarmi una casa».

«Io spero di aprire un negozio per fare la sarta», aggiunge Amira, «mi piace molto cucire. Io per il futuro penso anche ai miei bimbi che conosceranno due lingue: arabo e italiano».

La piccola Iman si sta addormentando in braccio alla mamma. «Se in Siria finisse la guerra, tornereste?», chiediamo. «Io no, mai!», risponde decisa Amira: «No no no! Io ho visto il massacro: in cinque minuti sono morte cento persone. Bimbi e donne. Solo bambini e donne».

«Loro non sono morti per una bomba», aggiunge Farid, riprendendo il discorso della guerra che avrebbero voluto entrambi lasciare da parte, ma che forse è ancora troppo vivo, anche dopo otto anni. «Loro non sono morti per una bomba, ma con il coltello. Coltello! Tutti! L’ho visto: due bambini di due mesi. Perché con il coltello? Perché i bimbi?», Farid si commuove e ha la voce rotta. Anche per la rabbia.

«E così non voglio tornare in Siria», conclude Amira, ma Farid riprende: «La mia famiglia è quasi tutta in Siria. È difficile adesso per loro. Ho tre fratelli avvocati, ma non c’è lavoro per loro: solo guerra. È difficile. Difficile tanto: non c’è cibo, non c’è acqua, non c’è luce. Da nove anni è così. Non ci sono soldi, non c’è lavoro. Il lavoro è la guerra. Così lavorano».

«La gente qua in Italia è gentilissima», torna a dire Amira. «Per me, io voglio rimanere sempre qua. Abbiamo trovato una famiglia grande. Gli italiani sono grandi».

Un bicchiere di mate

foto Luca Lorusso

Ci rendiamo conto che fuori è oramai buio. La piccola Iman dorme, Mahdi invece è sveglio, ma irrequieto. È tempo di togliere il disturbo.

Mentre però iniziamo a salutare, Farid ci chiede se ci piace il mate. Rispondiamo di sì, l’abbiamo bevuto in Argentina diversi anni fa.

«Bravo», ci incalza lui, «io bevo il mate sempre», e aggiunge che poco fa ha bevuto il tè solo per cortesia nei nostri confronti. «In Siria, se vieni a trovarmi e non bevi il mate, per me è un problema. Come il caffè per gli italiani», si alza sorridente e va in cucina. Dopo poco, torna con un vassoio sul quale ci sono due bicchieri pieni di yerba mate, una teiera e due bombillas, le cannucce tradizionali.

Farid versa l’acqua bollente nel bicchiere. È molto contento che beviamo il mate insieme. «Tutti i siriani bevono il mate. Se io non bevo il mate, non vado al lavoro. È la mia colazione. Lo bevo sempre. Mattina, notte, pranzo».

Farid parla ad Amira in arabo per chiederle qualcosa, poi va di nuovo in cucina. Quando torna, ha un pacchetto di yerba mate tra le mani, e una bombilla. «È difficile trovare italiani a cui piace il mate», ci dice, e ce li regala.

Beviamo parlando del più e del meno: dove comprano la yerba mate, quanto costa, quanto è bella l’Italia, quanto era bella la Siria prima della guerra, con i monti, il mare, la gentilezza delle persone, luoghi pieni di storia come Palmira.

Quando salutiamo per andare, Farid ci ripete per la terza volta: «Per favore tu scrivi sul giornale: grazie ai miei fratelli. Grazie, grazie!».

Luca Lorusso


 

foto Luca Lorusso

Una famiglia e cento volontari per Amira e Farid

Accogliere come stile di vita

Rosbella è una bellissima frazione di Boves (Cn) a mille metri d’altitudine, abitata da 15 persone. Giorgio, Elisa e loro figlio Davide, vivono in comodato al primo piano della vecchia scuola addossata alla chiesetta di Santa Pazienza. Al piano terra, per nove mesi, hanno ospitato Amira e Farid, siriani fuggiti dalla guerra. Un’accoglienza corale, fatta assieme ad altre cento persone, che prosegue ancora oggi e fa parte di un percorso di vita tra parrocchia, nonviolenza, commercio equo, fraternità.

Ci troviamo a Rosbella con qualche minuto di anticipo. È un mattino di inizio autunno. Siamo a quasi mille metri e fa freddo. Il posto è splendido: un piccolo borgo di poche case molto ben tenute che sorgono ai due lati della strada.
La prima costruzione che incontriamo è la vecchia scuola parrocchiale addossata alla chiesetta di Santa Pazienza. Qui, al primo piano, vivono Giorgio ed Elisa con il loro bimbo Davide di 8 anni. Al piano terra hanno vissuto Amira e suo marito Farid per nove mesi.

Oltre la chiesa c’è un piccolo locale dal nome ironico, «RosBettola, osteria di infimo ordine». Pare che qui si beva una birra artigianale molto buona. Vediamo un Bed & Breakfast, abitazioni e, in fondo, un recinto con due cavalli.

Per arrivare a Rosbella bisogna fare qualche chilometro nel bosco, su per la montagna a Sud di Boves (Cn). L’isolamento del borgo, che d’inverno si accentua notevolmente, non ha spaventato le decine di volontari che si sono presi cura di Amira e Farid nei mesi della loro vita qua.

foto Luca Lorusso

Accogliere come stile

«Noi siamo arrivati a Rosbella nel 2005». Giorgio, infreddolito come noi, sta dentro un grosso maglione grigio, ha capelli ricci, lievemente brizzolati, mani sottili e calme, come il viso, sguardo profondo e accogliente. È appena tornato da Castellar dove suo figlio frequenta la scuola primaria. Lui è infermiere domiciliare: uno di quelli in prima linea contro il Covid. Sua moglie è educatrice e fa teatro: ora è in casa che lavora.

Ci accomodiamo nella cucina del piano terra, dove hanno vissuto Amira e Farid e dove si sono consumati pasti, svolte riunioni, a volte discussioni accese, sia prima dell’arrivo della coppia, sia insieme a loro.

«Questa casa è del 1910, era la scuola del paese. Qui sotto c’erano le aule. Sopra abitava la maestra. Quando don Gianni Riberi, allora parroco di Boves, ci ha chiesto di venire qua, era abbandonata da tempo. Inizialmente eravamo un gruppo di tre famiglie con il desiderio di fare fraternità. Quando gli altri ci hanno detto che non se la sarebbero sentita di venire a vivere qui, il parroco ci ha incoraggiati: “Va bene lo stesso. Una parte l’abitate voi, l’altra la usiamo per fare ospitalità”.

Don Gianni ha provato a dare nuova vita alle strutture abbandonate della parrocchia: qui a Rosbella, ad esempio, ma anche al santuario di Sant’Antonio (dove la famiglia Bovani offre da 20 anni percorsi di spiritualità domestica per famiglie, ndr), e a San Mauro, in una struttura che ora è gestita dalla comunità Papa Giovanni XXIII».

Fino al 2016, Elisa e Giorgio, attraverso la loro associazione «Sentieri di pace», hanno accolto in questi spazi gruppi parrocchiali, scout, campi del Mir (Movimento internazionale della riconciliazione). «Eravamo legati alla bottega del commercio equo di Cuneo, e facevamo anche iniziative di educazione alla mondialità. Abbiamo cercato di declinare la vita in questo luogo come occasione per costruire pace e nonviolenza». E l’accoglienza del Corridoio umanitario si è inserita in questo percorso: dal 2017, infatti, Elisa e Giorgio, insieme al parroco attuale don Bruno Mondino, hanno deciso di accogliere a Rosbella famiglie in difficoltà.

«La prima “ospite” nel 2017 è stata Carla, una donna senza tetto di Torino. È stata qui tre mesi. Poi ci è arrivata la richiesta dall’Operazione Colomba per una famiglia siriana. Io ero già legato a Operazione Colomba perché 20 anni fa ho fatto esperienze in Bosnia, Kosovo e Chapas con loro».

foto Luca Lorusso

Cento persone per un corridoio

Dopo aver accettato di buttarsi nell’avventura, Giorgio è andato in Libano con Matteo, un amico muratore che ha messo a posto gratuitamente l’alloggio per l’ospitalità. Era giugno 2017. Sono stati 10 giorni nel campo profughi di Tel Abbas, vivendo con i volontari di Operazione Colomba. In quei giorni hanno conosciuto Amira e Farid che sarebbero arrivati a Rosbella quasi un anno più tardi. «La mamma di Amira era malata di tumore, non aveva potuto curarsi, e stava morendo. Lei voleva aspettare».

Giorgio ci spiega come si organizza chi vuole accogliere una famiglia tramite i corridoi umanitari. «Funziona così: tu individui una casa; poi costruisci un gruppo per raccogliere i soldi per garantire alla famiglia un anno e mezzo di vitto, alloggio, scuola di italiano, cure, documenti, e così via. L’indicazione generale è di aiutare la famiglia a diventare autonoma nel giro di un anno e mezzo, però poi dipende dai percorsi: qualche famiglia arriva all’autonomia prima, altre non ci sono ancora dopo tre anni. I soldi, in ogni caso, si raccolgono in maniera privata, senza pesare sullo stato o gli enti pubblici».

Quando la mamma di Amira è mancata a fine 2017, Giorgio, Elisa e altri sei amici, hanno organizzato incontri e cene per raccogliere fondi e, soprattutto, aggregare volontari. «Le persone le abbiamo contattate tramite Facebook, altre associazioni, amicizie, e abbiamo raccolto tutti i soldi necessari per partire: 10mila euro».

Più avanti, quando l’esperienza di Rosbella era già in corso, Giorgio avrebbe partecipato all’avvio di altri due corridoi: uno a Cervasca, vicino Cuneo, nato da don Mariano Bernardi e dal gruppo giovani della parrocchia, e uno a Trinità, a Sud di Fossano, nato da Marina, membro del gruppo di Rosbella che voleva far partire un corridoio anche dalle sue parti. «Abbiamo costituito tre gruppi, ciascuno di circa cento persone. La ricchezza del gruppo è che ogni volta che c’è bisogno di qualcosa, un vestito, un mobile, un passaggio in auto, per fare scuola di italiano… arriva sempre una persona. Noi siamo partiti in otto, ma da soli non ce l’avremmo fatta. Quando ti manderò qualche foto, te ne manderò di collettive, dove si vede il gruppo. Infatti, quando si parla di questa esperienza, molte volte si dice che la famiglia di Elisa e Giorgio, insieme ad altri volontari, hanno accolto Amira e Farid, mi piacerebbe, invece, far capire che è stata un’esperienza e un’accoglienza corale. Se non fosse stata corale, non sarebbe esistita. È stato grazie al lavoro di tutti che l’esperienza è andata bene».

Chiediamo a Giorgio come hanno fatto con la lingua, soprattutto i primi tempi dell’accoglienza. «Nel gruppo ci sono una famiglia marocchina e una tunisina, migranti di lunghissimo corso. Sono parte del gruppo fin dall’inizio, e, parlando arabo, sono tra i protagonisti, perché sono quelli che fanno più lavoro di socialità, accompagnamenti, ecc. La sera in cui Amira e Farid sono arrivati, erano qua con del cibo arabo».

foto Luca Lorusso

La storia di Amira e Farid

Giorgio parla con grande affetto di Amira e Farid, con cui la sua famiglia ha vissuto a stretto contatto dal maggio al dicembre del 2018. «Loro sono di Houla, nel governatorato di Homs. Sono una bella coppia. Contenti. Lui aveva una ditta di piastrellisti. Dal punto di vista economico stavano bene. Lei racconta che si occupava dei nipoti: era la zia preferita, e preparava cibo per frotte di bambini. Vivevano in un nucleo di case che ospitava la famiglia allargata di lei.

Non hanno conservato nulla della loro casa: è finito tutto sotto le macerie».

Giorgio mette insieme i tanti pezzi del puzzle della storia di Amira e Farid raccolti qua e là negli ultimi due anni e mezzo. «Nel 2011 è arrivata la primavera araba e la crisi economica. La crisi ha portato le manifestazioni, le manifestazioni il disastro. Tutto questo, loro lo raccontano come qualcosa che è successo senza che se ne rendessero conto. Amira è venuta una volta a parlare a scuola: ha raccontato di questa loro vita molto bella e serena che a un certo punto è stata stravolta, perché, in quanto sunniti, hanno iniziato a essere perseguitati da governo e filogovernativi.

foto Luca Lorusso

Un giorno Houla è stata circondata dagli alawiti che hanno cominciato a bombardare per cercare i terroristi. Era il 2012, maggio.

 

Racconta Amira che a un certo punto si sono rifugiati nelle cantine, ma suo marito era rimasto fuori. Allora è uscita in mezzo al fumo e alle macerie per cercarlo, gridando a gran voce, finché non l’ha trovato. Poi si è resa conto che la casa della sua migliore amica era stata bombardata, però non era distrutta. Allora è corsa a cercarla. Quando è entrata in casa, l’ha trovata sgozzata con i suoi quattro bimbi.

Questo è il massacro di Houla: centootto persone, soprattutto bambini e donne, massacrate con la scusa di cercare i terroristi. A quel punto, Amira, davanti ai ragazzi a scuola, ha detto: “Io non capisco perché cercavano terroristi e hanno ammazzato una donna con quattro figli”.

Quell’immagine terribile, la sogna ancora adesso.

Farid ci manda ogni anno su WhatsApp il video di loro che portano i corpi dei bambini in braccio durante il funerale. Ce lo manda per condividere il ricordo, per non scordare da dove arrivano».

Dopo il massacro, Amira è partita per il Libano con la madre, attraversando di notte il confine a piedi, mentre Farid sperava che la guerra finisse presto, ed è rimasto a Houla. «Dopo sei mesi, è andato in Libano anche lui. Pare che in quel tempo lui sia stato arrestato, e che per tre mesi si siano perse le sue tracce. Di questa cosa, però, lui non vuole raccontare. Dice solo che tutti i sunniti dovevano arruolarsi per combattere i ribelli e i terroristi, ma che in realtà venivano mandati a massacrare i loro fratelli, come avevano fatto a Houla, e allora è scappato».

Amira e Farid sono arrivati in Libano nel 2012: un paese di quattro milioni di abitanti che ha accolto nell’arco di pochi mesi un milione e mezzo di profughi, ma non ha mai riconosciuto il loro status di rifugiati. «Essendo una famiglia benestante, per un po’ hanno ricevuto soldi dalla Siria. Poi però i soldi sono finiti, e allora Farid è andato a fare il muratore con degli amici libanesi: era una vita molto povera».

Vivendo in un garage non lontano dal campo di Tel Abbas, la coppia ha conosciuto i volontari di Operazione Colomba, il cui lavoro era quello di difenderli dagli arresti arbitrari, e di aiutarli dal punto di vista sanitario. «Stando fuori dal campo, il rischio di essere arrestati ed espulsi cresceva, quindi sono entrati nell’elenco dei corridoi, e sono stati fatti conoscere a Sant’Egidio. Il criterio principale con cui Sant’Egidio decide quali persone far venire in Italia, è quello della fragilità: problemi di salute, famiglie numerose e con figli piccoli, e poi persone che rischiano la vita. Amira e Farid erano tra questi ultimi».

foto Luca Lorusso

Dialogo interculturale

Giorgio ripercorre le tappe della vita di Amira e Farid come se stesse raccontando le vicende della propria famiglia, e ci racconta com’è stata la «convivenza» con loro: «Abbiamo potuto parlare molto, anche di religione. Noi siamo cattolici e lui ha sempre chiesto che gli spiegassimo le nostre usanze. La prima Pasqua, lui ha voluto sapere tutto sul triduo: cosa si faceva, perché si ricordava la morte di Gesù, perché poi risorgeva, cos’è la comunione. Ha sempre chiesto tanto senza mai giudicare, ad esempio il modo in cui stanno assieme uomini e donne. Diceva il suo pensiero: “Da noi funziona così, e penso che sia giusto così”. Ma non mi ha mai detto: “Tu con tua moglie fai delle cose che non sono giuste”.

Un po’ per volta abbiamo capito che rapportarsi con un’altra cultura è diverso dal dire: “Qui funziona così e, dato che ti accolgo, ho diritto di dirti che devi fare come me”. Quando accogliamo qualcuno, rischiamo di credere di poter pensare e decidere per lui, e di dire questo va bene, questo non va bene. Ma questa non è accoglienza».

Come fratelli

A gennaio 2019, Farid ha trovato un lavoro in un’azienda agricola difficile da raggiungere da Rosbella. La coppia ha quindi cercato, con l’aiuto del gruppo, una casa a Cuneo. «Lì era tutto più facile: fare la spesa, muoversi… e sono diventati autonomi su molte cose».

Finito il contratto di lavoro di un anno, Farid ha fatto poi diversi altri lavoretti. Ora è in prova per un’azienda di serramenti dalle parti di Mondovì, dove il gruppo li ha aiutati a trovare un’altra casa in affitto. «Adesso sono completamente autonomi, e pagano tutto loro. Poi Amira è rimasta incinta di due gemelli che sono nati a maggio, e questa è stata un’altra tappa importante del loro percorso per ritrovare la serenità».

Nonostante le difficoltà della lingua, spesso affrontate attraverso Google translate, Giorgio racconta del bel clima che si era creato con Amira e Farid quando vivevano a Rosbella. Una bella relazione che tutt’ora continua.

«Alla fine, il gruppo è diventato una famiglia. Lei, per esempio, si confida molto con una delle maestre d’italiano. E lui si confida con Guardini, l’amico originario del Marocco. Per Amira e Farid, noi siamo la loro famiglia: ci chiamano fratelli e sorelle. Ed è proprio così, nel senso che ci trattano così. Per noi è stata un po’ la realizzazione della convivenza che avevamo cercato quando siamo venuti qui nel 2005. È stato un bel trauma quando se ne sono andati. Poi loro sono proprio amabili, molto delicati, molto rispettosi dei rispettivi spazi, ma anche molto coinvolgenti. Loro erano contenti che ci fossimo noi qui sopra, si sentivano protetti, non si sentivano soli. La convivenza è stata proprio bella, una ricchezza enorme.

Penso che una delle persone che ha beneficiato di più di questa esperienza sia stata nostro figlio Davide, che non ha mai vissuto l’accoglienza come una cosa strana. Due persone diverse, con un modo di fare diverso, con una lingua diversa sono entrate dentro la sua famiglia in modo naturale: sono semplicemente arrivate, e basta.

Secondo me, la rivoluzione che possiamo fare attraverso l’accoglienza, è far vivere ai nostri bimbi, giovani, ragazzi, questa cosa come normale: non un’emergenza, un’esperienza eccezionale, un far fronte all’ondata che arriva; non una cosa eccezionale, super, per persone in gamba, ma una cosa normale.

Per la nostra famiglia è stato bello, e continuo a dire: vale la pena farlo».

Luca Lorusso


foto Marco Pavani

Storia e numeri dei corridoi umanitari

Un varco possibile

Una via legale e sicura per mettere in salvo i profughi in cerca di protezione umanitaria c’è. Una via che sottrae denaro ai trafficanti ed evita le morti in mare. Sono i Corridoi umanitari, immaginati dalla Comunità di Sant’Egidio e realizzati da migliaia di volontari, grazie anche alla collaborazione tra chiese, in dialogo tra loro e con le istituzioni.

Lampedusa, 5 ottobre 2013. Nell’hangar azzurro, all’aeroporto, c’era odore di disinfettante. C’erano la polizia scientifica e i corpi delle persone recuperate in mare nei sacchi neri, pronti per la sepoltura. Ricordo anche quelli di quattro bambini.

Un anno dopo, la Comunità di Sant’Egidio, sarebbe riuscita a dare almeno un nome a tutte le vittime, compresi i 350 e più che sono stati poi recuperati dal fondo del mare.

Erano partiti tutti dall’Eritrea e dal Corno d’Africa due anni prima. Duemila dollari e molti mesi di quasi schiavitù per raccogliere gli altri soldi necessari per il viaggio della morte o della vita.

Non era possibile che per vivere, non essere perseguitati, ricattati, minacciati, si dovesse morire così. Era inaccettabile che quello fosse, per i profughi, l’unico modo per raggiungere l’Europa, per ritrovare dignità e sicurezza. E non andava accettato. Ma dalla commozione collettiva italiana ed europea si sarebbe passati presto alla «globalizzazione dell’indifferenza», e all’impotenza.

È stato allora, lì a Lampedusa, che ho letto per la prima volta su un lenzuolo la scritta, metà grido e metà preghiera, «Corridoi umanitari».

foto Marco Pavani

Un modello che apre strade nuove

Il merito straordinario dei Corridoi umanitari creati nel 2015 da Comunità di Sant’Egidio, Tavola valdese e Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), è quello di avere aperto un varco nelle politiche migratorie europee, e di indicare un modello praticabile per un’immigrazione verificata, sicura, fuori dall’illegalità a dalle maglie dei trafficanti.

Essi offrono un modello anche per il «dopo approdo», cioè per l’accoglienza e l’integrazione delle persone dopo il loro arrivo. E forniscono una risposta al grande rischio che, per veti incrociati della politica, l’Ue rinunci al suo cuore, alla «democrazia inclusiva» e «umanitaria» che è alla base stessa della genesi e della necessità storica ed economica dell’Europa unita.

Il paradosso europeo

Se si guardano le nazionalità delle persone i cui corpi vengono recuperati nel Mediterraneo, risulta una verità asciutta e terribile: molti erano profughi, meritevoli di protezione internazionale.

Il sistema europeo per i rifugiati è paradossale: per accedervi è necessario presentarsi alla frontiera dell’Ue, ma alla frontiera si può arrivare solo come turisti – dissimulando quindi il proprio bisogno di protezione – oppure come irregolari.

Zygmunt Bauman scriveva: «Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti di “immigrati illegali”, e a dispetto di occasionali ed effimere ondate di orrore e indignazione provocate dalla vista di “emigranti economici” [morti] nel vano tentativo di raggiungere la terra in grado di sfamarli».

Il primo protocollo di apertura di «Corridoi umanitari» promossi dalla Comunità di Sant’Egidio sulla base di norme vigenti (l’art. 25 del Regolamento europeo n.810/2009 che prevede la possibilità per gli stati della Ue di emettere visti umanitari a territorialità limitata, cioè validi per un singolo paese), è stato firmato con i ministeri degli Esteri e dell’Interno, assieme alla Federazione delle chiese evangeliche italiane (Fcei) il 15 dicembre 2015. Successivamente, altri protocolli sono stati firmati anche con la Conferenza episcopale italiana (Cei) e la Caritas.

Oggi, dopo cinque anni, ci sono corridoi attivi anche in Francia, Belgio, Andorra e San Marino, nella speranza di creare un «Corridoio europeo».

foto Marco Pavani

Il «dopo approdo»

I Corridoi umanitari, che sarebbe meglio definire semplicemente «umani», rappresentano una buona pratica non solo per l’arrivo, ma anche per l’inclusione dei rifugiati. Quella dei percorsi di accoglienza e integrazione dopo l’arrivo è, infatti, la parte forse meno conosciuta del progetto, ma non per questo meno significativa.

Nel «modello italiano» dell’accoglienza, il «dopo approdo» è il punto più dolente: straordinari nella prima accoglienza, siamo deficitari nella seconda, mostrando scarsa capacità di promuovere autonomia e integrazione delle persone accolte. I Corridoi umanitari, invece, per loro natura, promuovono una rete di persone che accompagna i rifugiati passo dopo passo, senza lasciarli soli e smarriti in un mondo per loro sconosciuto e a volte ostile.

La grande avventura dei Corridoi inizia come una favola, anche se non la è: si sale su un aereo di linea, invece che su un barcone; si vede dall’alto il mare bello e amico; si scende a Fiumicino stralunati e col cuore che batte, e si è accolti come in una festa da volti che poi diventeranno amici. Due giorni dopo si viene già accompagnati da qualcuno che mostra come si raggiunge la scuola dove i bambini sono già iscritti, come si prende l’autobus, dove sono i negozi. Qualcuno che aiuta a fare la spesa e a essere conosciuti in paese, nel quartiere.

Lo stupore del «modello adottivo»

Di solito con i Corridoi, non arrivano singoli, ma gruppi, famiglie più vulnerabili di altre. Nonne con ragazzi che hanno perso i genitori in guerra, donne e adolescenti, chi ha bisogno di cure urgenti. Ciascuno con la sua storia già «verificata» prima di partire.

Il viaggio, l’accoglienza, l’accompagnamento all’autonomia, tutto è a carico della società civile. Su base volontaria. Viene così svuotato in radice l’argomento, miope ma popolare, che dice: «Basta spendere soldi pubblici per gli stranieri!». In più, si mettono insieme risorse umane, professionali, spirituali, civili altrimenti inutilizzate.

Invece di dare per scontata la frammentazione sociale, ci si mette insieme, si riduce la solitudine: giovani, adulti, pensionati, anziani, diventano il nerbo di un’esperienza che trasforma i problemi – di lingua, inserimento, diffidenza, paura – in una rinascita, spesso allegra, appassionante, di pezzi di società civile.

I gruppi che accolgono, si assumono gli oneri materiali e relazionali necessari per favorire l’inserimento sociale «simpatetico» dei rifugiati. Questo «modello adottivo» suscita spesso nelle persone accolte una risposta che va oltre le speranze di chi accoglie: è normale infatti che chi arriva da anni di inganni e di offerte di aiuto interessate, resti stupito del fatto che non c’è nessuna trappola nei Corridoi.

foto Marco Pavani

Burocrazia senza paura

Il parlamento italiano ha definito la «sponsorship» privata di questa esperienza «un modello esemplare di accoglienza diffusa». Papa Francesco l’incoraggia sottolineando l’«immaginazione» che ha aperto questo varco di umanità.

A differenza dei programmi di «resettlement» (reinsediamento), che si rivolgono a persone già riconosciute dall’Unhcr come rifugiate, i Corridoi umanitari prevedono che, al loro arrivo sul territorio italiano, i beneficiari presentino la domanda di asilo e seguano l’iter comune a qualsiasi richiedente. Le loro storie sono state già in larga parte verificate prima della partenza, e le domande superano presto l’esame delle Commissioni territoriali. Le persone vengono accompagnate dal gruppo anche in questo percorso, perché non si trovino sole davanti alla burocrazia, agli avvocati, e al tam tam dei passaparola.

I punti di forza dei Corridoi

I punti di forza di questo modello sono, quindi, diversi: innanzitutto la verifica delle storie personali prima della partenza; poi la creazione di un canale di fiducia nei rifugiati che viene confermato al loro arrivo in Italia (quello che è stato promesso prima del viaggio, si realizza davvero); la creazione di una rete di persone che accoglie e attiva un processo di integrazione che riduce il rischio di isolamento sociale; l’assenza di costi a carico dello stato e del bilancio pubblico; infine la sicurezza di tutto il processo, e lo svuotamento del potere dei trafficanti umani.

A ben pensarci, questo modello potrebbe essere utilizzato per riqualificare il sistema pubblico di assistenza, migliorandone l’efficienza e la capacità di integrazione con investimenti modesti.

Tremilacinquecento

Ad oggi quasi 3.500 persone sono arrivate in Europa in questo modo, più di quante ne abbiano accolte 21 stati europei con le ricollocazioni: 2.700 in Italia, di cui quasi 2.000 dai campi in Libano, 623 via Etiopia e Giordania e 67 dalla Grecia. Altri 659 sono in Francia e Belgio, 8 nella piccola Andorra.

Solo in Italia si sono coinvolti 162 «attori» in 18 regioni, famiglie, gruppi, associazioni, parrocchie, Caritas, Sant’Egidio, Migrantes, Tavola valdese, Federazione delle chiese evangeliche in Italia, collegi, congregazioni religiose, privati. Quasi 3.500 volontari e almeno altre 30mila persone danno convintamente un contributo.

A settembre 2020 è stato firmato un nuovo accordo con l’Italia che permette alla Comunità di Sant’Egidio di avviare ufficialmente il Corridoio da Lesbo e dalla Grecia per i primi 300 (si veda il reportage da Lesbo a pag. 59).

Per questo c’è bisogno di altre persone che mettano a disposizione quello di cui dispongono: una piccola cifra, del tempo, una casa inutilizzata, una professionalità. Chi aiuta non è lasciato solo: Sant’Egidio si assume anche questo ruolo, oltre all’ospitalità diretta.

Si può fare ancora molto

In un mondo attraversato dalla brutalità del Covid-19, in un’Europa spaventata dall’incertezza, c’è il rischio che questa risposta intelligente e umana alle migrazioni si fermi. Sarebbe un errore. Per l’Europa è di primario interesse la creazione di un Corridoio europeo per i profughi di Lesbo, che è già Europa, e dei lager libici.

In Italia andrebbe rinnovato il decreto flussi per gli ingressi legali, ormai ridotti quasi solo ai ricongiungimenti familiari.

È positiva la parziale apertura sul cambiamento del permesso di soggiorno, che può riavviare una integrazione oggi bloccata anche dai controproducenti «decreti sicurezza» che avevano creato da 30 a 70mila «irregolari» incolpevoli.

Sarebbe necessario introdurre permessi di soggiorno di un anno per la ricerca del lavoro, accanto a quelli di lavoro: sono più realistici.

Sarebbe opportuno fare emergere quanti sono diventati irregolari come «overstayers» (perché rimasti sul territorio italiano oltre il tempo consentito), attraverso il ravvedimento operoso, non solo con regolarizzazioni a ondate.

Ci vorrebbe un ampliamento dei ricongiungimenti familiari che tenga nel debito conto la diversa ampiezza dei legami familiari nei paesi di provenienza, non limitabili solo alla moglie, ai figli, ai nonni o ai fratelli.

E sarebbe sensata una riqualificazione professionale di profughi e rifugiati presenti da tempo in Italia, con investimenti in collaborazione con il settore privato: sarebbe una risposta anche al declino e all’invecchiamento della popolazione.

Ci si può arrivare. Intanto, i Corridoi umanitari ci aiutano a rimanere umani.

Mario Marazziti

foto Marco Pavani


Ecumenismo dell’accoglienza

La ricerca dell’unità dei cristiani ha attraversato stagioni diverse. Dal Vaticano II a oggi, si è conosciuto entusiasmo, ma anche crisi e nuove distanze, che hanno rallentato il cammino.

La stessa preghiera sacerdotale di Gesù e l’imperativo a essere una cosa sola, sgorga dal cuore della Passione, dentro un confronto agonico con il male. Il Male è anzitutto divisione. E i suoi frutti sono terribili. Il Concilio Vaticano II è stato una risposta dello Spirito, dopo la tragedia della II Guerra Mondiale.

La ricerca dell’unità si oppone alle derive centrifughe che lacerano i cristiani e i popoli. Oggi, in un tempo di rinascenti nazionalismi, appare necessario un sussulto di audacia, per porre la questione dell’unità in un mondo globalizzato e drammaticamente diviso. L’indifferenza o la disunione tra le Chiese suonano troppo simili alle chiusure nazionali di fronte alle migrazioni, ai conflitti, carestie, disastri ambientali.

Per questo i cristiani non possono condividere – anche se dolorosamente accade – il cinismo e il rifiuto opposto da populismi e paura.

Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, ha offerto un antidoto alla separazione e alla cultura dello scarto: la fraternità universale, sola medicina per le grandi piaghe dell’umanità.

Le stesse confessioni cristiane, «insieme», sono invitate a non conformarsi al pensiero corrente e a lavorare per un’umanità riconciliata e inclusiva, di cui loro stesse siano segno. Per questo, il tema dei rifugiati e dei migranti, del superamento delle barriere, dell’integrazione e dell’accoglienza, incrocia e provoca il cammino ecumenico per una risposta profonda e contagiosa alla «globalizzazione dell’indifferenza».

Il 6 marzo 2016, all’Angelus, papa Francesco citava come segno concreto di impegno per la pace e la vita, proprio «l’iniziativa dei Corridoi umanitari per i profughi, avviata ultimamente in Italia. Questo progetto pilota, che unisce la solidarietà e la sicurezza – diceva -, consente di aiutare persone che fuggono dalla guerra e dalla violenza, come i cento profughi già trasferiti in Italia, tra cui bambini malati, persone disabili, vedove di guerra con figli, e anziani». E concludeva: «Mi rallegro anche perché questa iniziativa è ecumenica, essendo sostenuta da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle chiese evangeliche italiane, Chiese valdesi e metodiste».

Si sarebbe aggiunta in seguito, tramite un accordo con la Comunità di Sant’Egidio, la Cei per un Corridoio dal Corno d’Africa.

Tutta l’esperienza dei Corridoi umanitari rappresenta un esempio evangelico e di ecumenismo della solidarietà e della giustizia. Un esempio per le persone di buona volontà, per non abbassare la soglia del nostro «rimanere umani», in un tempo difficile.

È l’immaginazione evangelica nella storia.

Conosco, con le sorelle e i fratelli valdesi, la fatica costruttiva di aprire varchi di disponibilità nella compagine delle Chiese in Europa.

Oltre all’Italia, la Francia ha visto la collaborazione della Chiesa riformata, mentre partner in Europa sono anche diversi vescovi luterani tedeschi.

A Lesbo, un protocollo di collaborazione è stato siglato con la Metropolia ortodossa di
Mitilene.

Si prosegue l’impegno perché in modo creativo e efficace, si possa ecumenicamente offrire il diritto al futuro e alla pace ai profughi siriani, eritrei, sud sudanesi, e a tutti coloro che soffrono violenza, persecuzione e tortura, e all’Europa una opportunità per non allontanarsi dall’umanesimo che è alle sue fondamenta.

mons. Marco Gnavi,
parroco di Santa Maria in Trastevere

foto Marco Pavani


Hanno firmato il dossier:

Mario Marazziti
Giornalista e scrittore, è stato editorialista per il «Corriere della Sera», «Avvenire», «Famiglia Cristiana», «Huffington Post» e portavoce della Comunità di Sant’Egidio. Presidente del Comitato per i diritti umani e poi della Commissione affari sociali della Camera dei deputati dal 2013 al 2018, è stato promotore e primo firmatario della legge di cittadinanza per i bambini immigrati (ius soli e ius culturae) e ha portato a termine la riforma delle professioni sanitarie, la legge di sostegno ai disabili gravi «Dopo di noi», e quella sul recupero degli sprechi alimentari. È cofondatore della Coalizione mondiale contro la pena di morte.

Monsignor Marco Gnavi
Parroco della parrocchia di Santa Maria in Trastevere e direttore dell’Ufficio per l’ecumenismo, il dialogo interreligioso e i nuovi culti del Vicariato di Roma, tra i responsabili internazionali della Comunità di sant’Egidio.

Luca Lorusso
Giornalista redazione MC curatore del dossier.

Archivio MC sui corridoi umanitari:
Enrico Casale, Per vincere il traffico (di migranti), MC novembre 2018.
Enrico Casale, Ecumenismo per le migrazioni, MC marzo 2019.

foto Luca Lorusso