Piano Mattei, le condizioni per farlo funzionare


Il Piano Mattei per l’Africa, varato dal governo Meloni nel novembre del 2023 e lanciato con il vertice Italia – Africa a Roma lo scorso gennaio, sta suscitando molto dibattito in vari settori della società. Abbiamo provato a riunire alcuni punti di vista.

Il Piano Mattei per l’Africa, per ora, consiste in un decreto legge@ del novembre 2023, convertito in legge il 14 gennaio del 2024, e in un vertice internazionale tenutosi il 28 e 29 gennaio 2024 che lo ha lanciato davanti ai rappresentanti di 46 Paesi africani. Durante l’evento, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha detto@: «L’Italia ha tutte le carte in regola per diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa: è un obiettivo che possiamo raggiungere se usiamo l’energia come chiave di sviluppo per tutti».

È a realizzare questo sviluppo che si rivolge il Piano, concentrandosi su «cinque priorità di intervento: istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia», intorno alle quali costruire una relazione di «cooperazione da pari a pari», non predatoria e non caritatevole, con i Paesi africani.

Il Piano, ha annunciato Meloni, potrà contare su una dotazione iniziale di oltre 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, dei quali circa 3 miliardi dal Fondo italiano per il clima e circa 2,5 miliardi dalle risorse della cooperazione allo sviluppo, oltre che sull’impegno del governo italiano a coinvolgere altri donatori e istituzioni finanziarie internazionali e a creare assieme a Cassa depositi e prestiti, entro il 2024, un nuovo strumento finanziario per agevolare gli investimenti del settore privato nei progetti del Piano Mattei.

In questa prima parte del 2024 è presto per dire se siamo davanti a un cambio di paradigma in grado di reimpostare le relazioni con l’Africa rendendole paritarie, a un’operazione di maquillage, o a una terza variante fra questi due estremi.

Fra le preoccupazioni principali emerse subito dopo il vertice c’era quella che la priorità di intervento relativa all’energia finisca per fagocitare tutte le altre e che si concentri sul gas e altri combustibili fossili invece che sulla promozione di energia da fonti rinnovabili. Altre perplessità sorgevano poi dalla poca chiarezza riguardo la dotazione finanziaria: che cosa significa, esattamente, che i 5,5 miliardi verranno destinati dal Fondo per il Clima e dalle risorse per la cooperazione? Verranno ridefiniti i Paesi prioritari per la cooperazione? Verranno spostati fondi, ne verranno aggiunti? O ci si limiterà a quello che il sito «info-cooperazione» ha definito re-branding, cioè l’apporre un’etichetta con il logo del Piano Mattei sulle iniziative già esistenti, senza però modificarne la sostanza@?

L’operazione più onesta, in attesa di risposte certe a queste – e molte altre – domande, è quella di spacchettare ciò che si sa del Piano e individuare le condizioni per le quali potrebbe funzionare. È in questo che si stanno cimentando le varie articolazioni della società, italiana e africana, che si aspettano di essere più coinvolte di quanto lo siano state finora nella definizione del Piano.

Campo di rifugiati nelal regione di Capo Delgado, Mozambico.

Che cosa ne pensano gli africani

Pochi giorni prima del vertice, infatti, la campagna Don’t gas Africa, che riunisce decine di associazioni della società civile africana, ha diffuso una lettera e un comunicato stampa@ per lamentare la mancata consultazione proprio di quelle organizzazioni che cercano di dar voce alle comunità nel continente, incluse quelle più marginalizzate. Secondo il responsabile della campagna, Dean Bhekumuzi Bhebhe, il Piano Mattei è «un simbolo delle ambizioni dell’Italia sui combustibili fossili» e «minaccia di trasformare l’Africa in un mero canale energetico per l’Europa», rinunciando a sostenere il continente in una equa transizione energetica verso le rinnovabili.

Durante il vertice, il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, ha poi usato parole di apertura ma anche di monito: dopo aver elencato le priorità africane – agricoltura, infrastrutture, ambiente, energia, sanità, istruzione, digitalizzazione – e le difficoltà che il continente deve affrontare per realizzarle – il peso del debito, il cambiamento climatico, l’estremismo violento e il terrorismo, l’instabilità, la mancanza di finanziamenti adeguati e i gravi errori di governance – ha commentato che il Piano Mattei, «sul quale avremmo voluto essere consultati, appare coerente» con le esigenze africane. «L’Africa è pronta a discutere i contorni e le modalità della sua attuazione», ha concluso Faki Mahmat, sottolineando però «la necessità di far corrispondere le azioni alle parole. Capirete che non possiamo accontentarci di promesse che spesso non vengono mantenute»@.

Maguga Dam in eSwatini

Che cosa ne pensa il mondo della cooperazione

Anche dalle parole di Ivana Borsotto, presidente della Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana (Focsiv)@, emerge una complessiva apertura di credito nei confronti del Piano Mattei: «Che l’Africa sia messa al centro del dibattito è un fatto positivo, mai avvenuto prima, e nelle parole della presidente Meloni ci sono alcune prese di posizione importanti: ad esempio, ha riconosciuto che il nostro destino è legato intrinsecamente all’Africa e che il modello di relazione non deve essere paternalistico». Gli organismi di volontariato, sottolinea Borsotto, sostengono e praticano questo approccio da sessant’anni ed è senz’altro positivo che ora risuonino anche nel discorso della premier.

Ma ci sono delle condizioni, oggettive e misurabili, da soddisfare perché il Piano sia efficace: «La prima è che le risorse finanziarie siano adeguate e garantite nel tempo». Borsotto è anche portavoce della Campagna 070@ per innalzare allo 0,70% del prodotto nazionale lordo i fondi destinati allo sviluppo, in linea con gli impegni presi dall’Italia in sede Onu. Fa notare che nel 2022 l’Italia è arrivata a destinare lo 0,32%: circa 6,15 miliardi di euro, cioè meno della metà dei 13 miliardi necessari per raggiungere l’obiettivo.

Famiglia di pigmei nelal foresta a Bafwasende, Congo RD

La seconda condizione riguarda la «condivisione a livello europeo». Il Global Gateway, la strategia dell’Unione europea per sviluppare infrastrutture e servizi in tutto il mondo, ha un valore complessivo di circa 300 miliardi di euro e il suo pacchetto Africa-Europa prevede investimenti per 150 miliardi: «L’iniziativa italiana deve armonizzarsi con questi strumenti e risorse messi a disposizione dall’Ue». Considerando la scala di grandezza del piano europeo, del resto, non è pensabile che l’Italia possa risultare davvero incisiva se mira ad agire da sola.

La terza condizione è quella di «evitare il superamento operativo della legge 125/14» (che ha riformato l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ndr): con questo, la presidente Focsiv si riferisce al fatto che il Piano Mattei prevede la creazione di una struttura di missione in capo alla presidenza del Consiglio, finanziata con 2,3 milioni di euro l’anno a partire dal 2024, che rischia di sovrapporsi all’operato dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, entità già esistente, legata al ministero degli Esteri e incaricata, appunto, di coordinare le iniziative di cooperazione.

Nel suo intervento al vertice Italia – Africa, Giorgia Meloni ha annunciato come inclusi nel Piano Mattei nove progetti pilota in Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Repubblica del Congo e Mozambico: «Noi organizzazioni della società civile» aggiunge Ivana Borsotto, «attendiamo fiduciose anche di essere coinvolte nella definizione di questi progetti». E conclude: «La politica estera dice chi siamo e come vogliamo stare al mondo: ricordiamo allora che è la legge 125 stessa a indicare nella cooperazione allo sviluppo una parte integrante e qualificante della nostra politica estera».

Che cosa ne pensa il mondo missionario

Anche padre Giulio Albanese, missionario comboniano oggi direttore dell’ufficio per le Comunicazioni sociali e di quello per la Cooperazione missionaria tra le Chiese della diocesi di Roma, appare cauto ma possibilista: accoglie come positiva la dichiarata volontà del Piano Mattei di andare oltre l’approccio caritatevole, se con questo si intende il superamento di quella «carità pelosa» alla quale padre Giulio da anni rivolge dure critiche. Ma, constata il missionario, il piano Mattei per ora è un contenitore di buone intenzioni: occorrerà vedere come si concretizzerà e su quante risorse potrà effettivamente contare.

Riflettendo poi sull’apporto che potrebbe venire dal mondo missionario, padre Giulio ricorda che questo ha fatto «senz’altro progressi nell’allontanarsi da uno stile paternalistico e da un modello emergenziale per concentrarsi di più sullo sviluppo sostenibile». Ma resta una certa frammentazione, una difficoltà a parlare con una sola voce, e questo rischia di rendere meno efficace il contributo dei missionari nell’eventualità in cui il Governo li interpellasse per delineare i contenuti del Piano.

«È mancata una reazione compatta e incisiva da parte del mondo missionario», aggiunge padre Antonio Rovelli, missionario della Consolata in servizio alla Casa generalizia di Roma. In effetti, non risulta a chi scrive che gli organismi missionari abbiano preso posizione in modo unitario e ufficiale, mentre farlo avrebbe aiutato a dimostrare che il mondo missionario è consapevole della necessità di vigilare sulla formazione delle politiche che riguardano l’Africa e si sforza di inserirsi nel dibattito per contribuire a determinarle.

Nigeria. Disastri da petrolio nel delta del Niger. Foto Sosialistik Ungdom, common credits

Il ruolo delle imprese

Il cuore del Piano Mattei riguarderà l’ambito imprenditoriale. Questa la previsione di Mario Giro, membro della Comunità di Sant’Egidio e sottosegretario, poi viceministro, degli Esteri fra il 2013 e il 2018, riportata sul numero speciale di gennaio 2024 della rivista «Africa e Affari» dedicato al Piano Mattei@. Si tratterà, a detta dell’esperto, di soft loans, cioè prestiti a tassi agevolati rispetto a quelli di mercato, «che verranno usati tendenzialmente per le imprese come tentativi di fare equity», cioè acquisto di azioni, «e di comprare imprese o parti di imprese africane e sostenere imprese o joint venture di imprese africane».

Giro giudica «intelligente, lungimirante» da parte del Governo, lo sforzo di rafforzare le relazioni con il sempre più vivace settore privato africano: operazione che altri membri Ue portano avanti da anni. Ma non manca di porre alcune domande cruciali: «Chi applicherà la teoria? Chi acquisterà tutta o parte di un’impresa africana? […] Esistono in Italia consulenti che conoscono talmente bene l’Africa da poter segnalare per un dato Paese quali sono le dieci imprese da finanziare e quali altre invece è meglio lasciare perdere?».

Se non si pone attenzione a questi aspetti, conclude l’esperto, si finisce per finanziare i progetti delle banche di sviluppo: scelta lecita, ma – aggiungiamo – che condividerebbe lo stesso limite mostrato negli anni dalla cooperazione allo sviluppo, per la quale l’Italia ha spesso usato il canale multilaterale – cioè le agenzie internazionali – molto più di quello bilaterale, di fatto delegando ad altri il ruolo e l’incisività in politica estera che nelle dichiarazioni di intenti rivendica per sé@.

Chiara Giovetti

Campo di rifugiati a Cabo Delgado, Mozambico

 




5 per mille 2022, più firme e più esclusi


Nel 2022, 16,5 milioni di contribuenti hanno destinato il loro 5 per mille generando un totale di 510 milioni di euro da distribuire fra enti di interesse sociale e comuni. Ci sono stati tanti esclusi, oltre 8mila, e secondo alcuni osservatori c’entrano gli effetti e i ritardi legati alla riforma del Terzo settore.

Si conclude con il mese di novembre il periodo per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi e, quindi, per la destinazione del 5 per mille, la quota di imposta Irpef che ogni contribuente ha facoltà di donare a enti che svolgono attività di interesse sociale o alle attività sociali del proprio comune di residenza.

Nel 2022, su un totale di 41,5 milioni di contribuenti in Italia, a destinare il proprio 5 per mille sono stati 16,5 milioni, circa il 40%. Benché le firme siano 193mila in più rispetto all’anno precedente, le persone che non donano ad alcun ente restano comunque sei su dieci. Le quote non assegnate rimangono a disposizione dello Stato, che le riceve con le imposte ma non deve poi distribuirle agli enti o ai comuni.

Il totale distribuito, riportava il comunicato stampa@ dell’Agenzia delle entrate lo scorso giugno, sarà intorno ai 510 milioni di euro: 324 milioni, cioè il 64%, andranno agli Enti del terzo settore e alle Onlus, quasi 81 milioni alla ricerca sanitaria, 68 milioni a quella scientifica. I comuni riceveranno 16 milioni di euro, le associazioni sportive dilettantistiche 17,4 milioni, gli enti per la tutela dei beni culturali e paesaggistici 2,3 milioni e gli enti gestori delle aree protette 814mila euro.

Il valore medio del contributo, riportava Sara De Carli sul periodico Vita.it lo scorso giugno, è di 31,69 euro@. A che reddito corrisponde questa quota di 5 per mille? I conti in realtà non sono semplici, perché nel determinare l’imposta netta Irpef (su cui si calcola il valore della donazione) concorrono diversi fattori, ad esempio le detrazioni a cui il contribuente ha diritto. Tuttavia, alcune organizzazioni, anche per invogliare le persone a donare aiutandole a farsi un’idea di che cosa sarà possibile fare con il loro contributo, hanno messo sui loro siti schemi o calcolatori automatici, specificando che si tratta comunque di approssimazioni. Usando il calcolatore automatico di Fondazione Airc@, ad esempio, una quota di 31,69 euro corrisponde a un reddito da lavoro dipendente pari a 25.700 euro. Nello schema proposto da Medici senza frontiere@, un reddito di 28mila lordi genera un 5 per mille pari a 33 euro.

Chi sono i beneficiari

A dividersi i 510 milioni di euro, riporta ancora il comunicato stampa, sono 71.674 soggetti: per il 70% (oltre 50 mila) sono enti del Terzo settore e Onlus, seguiti da 13mila associazioni sportive dilettantistiche, da quasi 8mila comuni e poco più di 700 fra enti impegnati nella ricerca scientifica, nel settore della sanità, nella salvaguardia dei beni culturali e paesaggistici e nella gestione delle aree protette.

Nella lista dei primi dieci beneficiari@ non ci sono grandi cambiamenti rispetto all’anno scorso: la Fondazione italiana per la ricerca sul cancro – Airc ha ricevuto quasi 1 milione e 600mila preferenze e un totale di 70 milioni di euro. La seconda della lista è la Fondazione piemontese per la ricerca sul cancro, con oltre 262mila firme e totali 12,4 milioni di euro, mentre Emergency, l’associazione fondata da Gino Strada, si conferma al terzo posto con più di 306mila firme e 12 milioni di euro. Seguono, con importi decrescenti da 9 a 5,4 milioni di euro, Lega del filo d’oro, Istituto europeo di oncologia, Medici senza frontiere, Associazione italiana contro le leucemie, Save the children Italia, la Fondazione italiana sclerosi multipla e la Fondazione dell’ospedale pediatrico Anna Meyer. Questi primi dieci enti raccolgono insieme oltre un quarto dei fondi e un quinto delle firme dei contribuenti.

Dal lato opposto della lista dei beneficiari ammessi, ci sono più di 9.600 organizzazioni – il grosso dei quali sono Enti del terzo settore e Onlus oppure associazioni sportive dilettantistiche – che non hanno ottenuto contributi. Fra questi enti, un po’ meno di metà non hanno ricevuto firme, mentre gli altri avrebbero ottenuto importi inferiori ai 100 euro che però, dal 2020, non vengono più liquidati ma «rimessi in palio» per essere ridistribuiti fra chi ad almeno 100 euro ci è arrivato. Un altro meccanismo di ridistribuzione è poi legato alle scelte generiche: se un contribuente mette la propria firma, poniamo, nella casella della ricerca sanitaria ma non indica un ente preciso scrivendone il codice fiscale, allora il suo contributo si sommerà alle altre scelte generiche, che verranno poi ridistribuite fra tutti gli enti di ricerca sanitaria in proporzione alle scelte dei contribuenti che invece hanno selezionato un ente specifico. Come se il contribuente dicesse: a me interessa aiutare la ricerca sanitaria, ma lascio scegliere agli altri contribuenti a quali enti andrà di più o di meno all’interno di quel settore.

Molte esclusioni, cause da chiarire

Ma il dato che colpisce di più, rilevava ancora De Carli nell’articolo su Vita citato sopra, è quello degli esclusi: 8.291 enti hanno ricevuto complessive 413mila firme per un totale di quasi 14 milioni di euro, ma non li riceveranno perché sono stati esclusi, né i fondi saranno distribuiti agli enti ammessi: resteranno a disposizione dello Stato. Le esclusioni ci sono ogni anno e le cause possono essere varie, ad esempio i ritardi delle organizzazioni negli adempimenti amministrativi. Ma nel 2021 i casi erano stati poco più di 1.600, un quinto.

Mario Consorti, presidente dell’azienda di servizi per il Terzo settore Np Solutions, scriveva su Vita lo scorso luglio@ che molte organizzazioni stanno ancora valutando la possibilità di diventare Enti del terzo settore (Ets) come richiesto dalla riforma avviata nel 2016, e per questo non si sono ancora iscritti al Runts, il Registro unico nazionale del terzo settore. L’iscrizione però è necessaria per poter partecipare alla ripartizione del 5 per mille: gli enti, quindi, hanno rinunciato al contributo ma, nel contempo, non hanno fatto una campagna per informare i donatori di questa rinuncia, in modo da non disperdere il bacino di firme che avevano costruito. Perché, sottolinea ancora Consorti, l’idea che sembra prevalente nell’orientare le scelte dei contribuenti è «fai come l’anno scorso»: per gli enti beneficiari, dunque, comunicare ai sostenitori un’interruzione, per quanto temporanea, della possibilità di donare loro il 5 per mille rischia di tradursi in firme perse poi molto difficili da recuperare. A proposito degli effetti della riforma@, il sito Cantiere terzo settore riportava lo scorso settembre che al Registro stanno ancora aspettando di iscriversi anche 22mila onlus, «in attesa che si definisca il quadro fiscale per scegliere se entrare o meno nel Runts». E questo quadro fiscale dipende anche dall’autorizzazione della Commissione europea, per ottenere la quale il governo guidato da Mario Draghi, nel 2022, aveva già riformato l’impianto normativo, semplificandolo@. A differenza degli enti esclusi, nel 2022 le Onlus erano state ammesse al 5 per mille con una proroga nella scadenza per l’iscrizione al Registro: proroga motivata, appunto, da questa attesa dei chiarimenti degli aspetti fiscali.

Breve storia del 5 per mille

Il 5 per mille fu istituito nel 2006, con la legge finanziaria per il 2007, e fu promosso dall’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nel governo Berlusconi III. In un’intervista a Nicola Saldutti su Corriere buone notizie, lo spazio del Corriere della sera dedicato al Terzo settore, nel dicembre 2020 Tremonti spiegava che l’idea alla base era quella di rompere la dicotomia Stato-individuo, per cui «i cittadini votano e lo Stato decide come spendere le entrate fiscali. Dal basso verso l’alto il voto, dall’alto verso il basso le decisioni su come utilizzare i soldi. C’era lo schema Thatcher: non esiste la società, esistono gli individui. Con il 5 per mille andammo all’opposto di questi due modelli: l’individuo può decidere, ha potere di scelta sulla destinazione delle imposte, in settori considerati meritevoli dalla legge».

Nel 2017 Gabriella Meroni su Vita@ ripercorreva la storia del 5 per mille a dieci anni dalla sua nascita: all’inizio, la misura doveva essere inserita nella finanziaria anno per anno e a volte i governi non lo facevano, oppure stanziavano somme insufficienti per finanziarla. Fra il 2010 e il 2013, poi, i governi imposero limiti di raccolta a causa dei quali vennero «persi 310 milioni». Nel 2014, il 5 per mille venne stabilizzato: la legge di stabilità del 2015, fatta dal governo Renzi, stabilì che le disposizioni «relative al riparto della quota del cinque per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in base alla scelta del contribuente, si applicano anche relativamente all’esercizio finanziario 2015 e ai successivi». Il governo, inoltre, autorizza la spesa di 500 milioni di euro per liquidare il contributo.

Dopo il 2017, fra i cambiamenti più rilevanti ci sono stati l’ulteriore innalzamento del tetto di spesa a fino agli attuali 525 milioni, e nel 2020, durante la pandemia, la liquidazione di due annate di contributo invece di una. In questo modo, oggi gli enti ricevono il 5 per mille raccolto l’anno fiscale precedente, mentre con le regole passate veniva loro liquidato quello di due anni prima, rendendo molto più complesso, ad esempio, valutare e calibrare le campagne organizzate per invogliare i contribuenti a firmare.

Gli omologhi all’estero

Esiste il 5 per mille negli altri Paesi? Secondo uno studio del 2020 dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), dal titolo Tassazione e filantropia@, la risposta è sì: anche Slovenia, Portogallo, Ungheria, Lituania, Romania e Slovacchia hanno metodi simili, che il rapporto chiama «sistemi di assegnazione» e che permettono ai contribuenti di indicare alle autorità fiscali a quali enti o cause filantropiche deve essere destinata una determinata percentuale della loro imposta sul reddito. Questi sistemi, dice il rapporto, decentralizzano la decisione affidandola ai contribuenti stessi.

Di gran lunga più diffusa come incentivo fiscale alla donazione per le persone fisiche è la deduzione, cioè la possibilità di sottrarre l’importo di una donazione dal totale del reddito su cui verrà calcolata l’imposta. La deduzione è presente in 22 paesi sui 39 considerati nel rapporto, mentre 12 Paesi utilizzano invece il credito d’imposta, del quale è un esempio il social bonus in Italia@ che è l’unico paese ad avere tutte e tre queste forme di incentivo a donare.

Vi è poi un quarto metodo, denominato matching nel rapporto, che prevede un’aggiunta percentuale da parte dello Stato per ogni donazione fatta da un contribuente. Ad esempio, nel programma Gift Aid del Regno Unito per ogni sterlina donata dal contribuente le organizzazioni beneficiarie possono reclamare ulteriori 25 pence che vengono aggiunti dallo Stato. Inoltre, i contribuenti che pagano l’imposta con l’aliquota più elevata – il 40% – possono richiedere uno sgravio fiscale pari al 20% dell’importo della donazione finale, compresa la parte aggiunta dallo Stato.

Chiara Giovetti

Com’è andata per MCO

Nel 2022, Missioni Consolata Onlus ha raccolto 84.624,67 euro grazie alle firme di 1.905 donatori. È stato il primo anno di crescita dei fondi ricevuti (+4.388,99 euro) dopo quattro di calo. Le firme invece sono diminuite di 88 unità.
La quota media è di circa 38 euro.


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Acqua e luce per gli alunni della Nomads children’s school di Camp Garba – Isiolo – Kenya

È la scuola dei figli dei pastori nomadi (Samburu, Turkana, Borana e altri) che, fuggiti dalle aree  ancestrali per scontri tribali, siccità e fame, gravitano attorno alla missione.

La scuola ha bisogno di installare pannelli solari che producano l’energia elettrica necessaria per:

  • far funzionare la pompa del vecchio pozzo e avere così acqua a sufficienza per i bisogni di circa 700 allievi e per irrigare l’orto della missione che fornisce cibo alla scuola;
  • dare luce alle aule scolastiche soprattutto per gli studi serali;
  • garantire illuminazione notturna del perimetro della scuola per una maggior sicurezza anche contro intrusione di animali selvaggi (iene, elefanti e simili).

È un progetto da 12mila euro per il quale si sono impegnati gli Amici Missioni Consolata.

Vuoi dare una mano a realizzare questo bel sogno?

Manda il tuo aiuto per «Amc – pannelli solari Camp Garba» attraverso Missioni Consolata Onlus

È un progetto sostenuto dagli Amici Missioni Consolata.

 




Argentina, contro le diseguaglianze

 


Il Paese, al voto per l’elezione del presidente della Repubblica il 22 di questo mese, conta diverse realtà di missione fra le più vivaci dell’America Latina. I progetti, in corso o in via di formulazione, dei Missionari della Consolata hanno tutti un tratto in comune: la lotta alle diseguaglianze.

Il 22 ottobre gli argentini andranno a votare per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. È probabile che ci sarà un secondo turno, il 19 novembre, se nessuno dei candidati avrà ottenuto il 45% dei voti oppure almeno il 40% e dieci punti di scarto rispetto alla forza politica che arriverà seconda@.

A queste elezioni, l’Argentina è arrivata con un risultato a sorpresa dalle primarie del 13 agosto scorso che hanno visto affermarsi il candidato di Libertad Avanza, Javier Milei, con il 30% dei voti, pari a oltre 7 milioni di preferenze sui 34,4 milioni di aventi diritto. Milei è un politico ed economista che sostiene ricette economiche ispirate al liberismo radicale: ha dichiarato di voler eliminare la banca centrale argentina e abbandonare il peso per introdurre il dollaro americano. È contrario all’aborto, favorevole alla vendita di organi e alla diffusione delle armi, dice che sopprimerebbe l’istruzione obbligatoria e gran parte della sanità pubblica e definisce il riscaldamento globale «un’altra menzogna del socialismo».

Secondo il giornalista e scrittore Martín Caparrós@ c’è una lezione da trarre dalla vittoria di Milei, e cioè che milioni di argentini si sentono esclusi dal sistema democratico instaurato nel paese 40 anni fa e cercano disperatamente qualcuno che dia loro uno spazio. Gli elettori di Milei, continua Caparrós, «non cercano una critica razionale, un tentativo di cambiamento, un progetto; vogliono qualcuno che gridi che sta per saltare in aria tutto».

Lo scrittore azzarda una previsione: le elezioni porteranno a un ballottaggio tra una candidata di destra, Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza del governo di Mauricio Macri (in carica dal 2015 al 2019), e un candidato di estrema destra, Milei, appunto. «Uniti dal rifiuto verso la falsa sinistra che governa, dall’intenzione di usare il “pugno di ferro” con criminali e manifestanti e, soprattutto, dal loro antistatalismo. Qui sta il nocciolo della questione», secondo Caparrós.

Dopo il risultato delle primarie, il peso si era svalutato di 18,3 punti percentuali rispetto al dollaro americano, passando da 298,5 pesos per un dollaro del venerdì 11 agosto ai 365,5 del lunedì successivo. Secondo diversi economisti, la ricaduta sui prezzi di questa svalutazione è stata praticamente immediata e, riportava ad agosto il quotidiano Clarín, le banche e le società di consulenza hanno corretto al rialzo le stime dell’inflazione su base annua, collocandola in un intervallo compreso tra il 180 e il 190%@.

La presenza Imc

«In questo momento i missionari sono preoccupati per la crisi economica del Paese», scriveva lo scorso agosto padre Marcos Sang Hun Im, sacerdote di origine coreana e superiore dei Missionari della Consolata in Argentina. «Poiché le nostre presenze sono nelle periferie urbane, succede spesso di incontrare situazioni estreme, che offendono l’umanità. Attraverso la Caritas o altri gruppi parrocchiali aiutiamo chi ha bisogno, ma non riusciamo a raggiungere tutti».

La presenza della Consolata in Argentina, racconta padre Marcos, comincia nell’Ottocento con i migranti piemontesi che arrivavano qui portando con loro la propria cultura e la devozione alla loro Madonna, la Consolata. Secondo gli archivi dell’istituto, il fondatore Giuseppe Allamano inviava la rivista Missioni Consolata ai suoi compaesani in Argentina. Fu poi negli anni Quaranta del Novecento che la presenza dei missionari divenne stabile con lo scopo di accompagnare i piemontesi nella loro fede e raccogliere donazioni per le altre missioni.

«Essere presenti e accompagnare è ancora oggi il carattere principale della nostra missione qui, soprattutto nelle periferie urbane e nelle situazioni di emarginazione. In qualche parrocchia i missionari hanno cominciato a seguire persone affette da dipendenze, un problema che tutte le presenze rilevano.

Negli ultimi anni, inoltre, c’è stato un aumento dei suicidi, soprattutto tra i giovani, e le comunità parrocchiali stanno cominciando a organizzare attività di contrasto coordinandosi con professionisti della prevenzione».

Tre poli di presenza

Le presenze in Argentina, spiega il superiore, si dividono in tre nuclei collocati nella capitale Buenos Aires, nella regione di Cuyo e nel Nord.

A Buenos Aires ci sono due comunità: la casa regionale, che si trova in città, e la parrocchia di Santo Cura Brochero, nell’area metropolitana della capitale e già sul territorio della diocesi di Merlo-Moreno.

Mentre la prima comunità ha funzioni organizzative e di accoglienza, compresa l’assistenza ai missionari anziani, la seconda si trova in una periferia con una forte presenza di migranti boliviani e paraguaiani e ospita il Caf, cioè la comunità di formazione per nuovi missionari, affinché il percorso formativo «non si limiti agli studi teologici ma si estenda all’esperienza vissuta con la gente del quartiere» che affronta ogni giorno le difficoltà tipiche di una periferia come la violenza, le dipendenze, la povertà.

Al Nord si trovano due comunità, quella di Alto Comedero, «zona molto popolata e dalla cultura e religiosità andina», e quella di Yuto, zona rurale e con popolazione di creoli e indigeni. In quest’ultima zona, Missioni Consolata onlus, grazie all’aiuto di diversi donatori, nel quinquennio scorso ha sostenuto  una serie di interventi: la risposta all’emergenza abitativa di nove famiglie, per le quali è stato possibile costruire altrettante case in legno, e il sostegno a giovani madri del popolo Guaraní a El Bananal@. Infine, il nucleo nella regione del Cuyo, nella parte centro occidentale del Paese, conta due comunità, una a Mendoza – nella zona di Las Heras, nota per l’insicurezza e la violenza – e una a La Bebida@, ultima cittadina suburbana di San Juan, circa 170 chilometri più a nord di Mendoza.

Terra e acqua pulita per gli Huarpe

Proprio a Mendoza, che con oltre un milione di abitanti è la provincia più popolosa della regione del Cuyo, lavora oggi padre Giuseppe Auletta, originario della provincia di Matera, uno dei missionari più impegnati ed esperti nella difesa dei diritti dei popoli indigeni@. Padre José ha passato 17 anni di lavoro con il popolo Tobas, nella regione nordorientale del Chaco, 13 anni a Oran a fianco dei popoli Tupí Guaraní, Kolla, Wichi, Tapiete, Chorote e altri, a nord ovest. Oggi sta ora lavorando con undici comunità del popolo Huarpe nel territorio del cosiddetto Secano lavallino, un’area di 780 chilometri quadrati nella zona delle lagune di Huanacache.

Padre José con leader indigeno con il cappello con la banda rosso: un rappresentante indigeno di Mendoza per una manifestazione contro una decisione del governo provinciale che non riconosce la preesistenza del popolo Mapuche in Argentina.

La prima delle lotte portate avanti dagli Huarpe riguarda il diritto alla terra: dall’agosto del 2001, la legge provinciale 6.920 riconosce la preesistenza@ etnica e culturale del popolo Huarpe, che viveva nel territorio di Huanacache già molti secoli prima dell’arrivo dei colonizzatori europei nelle Americhe, e sancisce il suo diritto a ottenere il titolo di proprietà comunitaria su quella terra. Ma la legge non è mai stata davvero applicata.

Vi è poi una lotta che riguarda l’ambiente e in particolare la disponibilità di acqua pulita: «Un tempo», racconta padre Auletta, «quello di Huanacache era un sistema idrologico composto da 25 lagune ed estensioni lacustri comunicanti, con molte isole, circondate da terra fertile su un’area di circa 2.500 chilometri quadrati. Dalla fine del XIX secolo, l’uso esagerato delle acque dei fiumi Mendoza e San Juan, la costruzione di dighe e le politiche discriminatorie hanno gradualmente prosciugato le lagune, che riappaiono solo in epoche di grandi disgeli che aumentano la portata dei fiumi».

L’irrigazione destinata alle grandi coltivazioni (vigneti, orticoltura e frutteti) e lo sfruttamento minerario, sottolinea il rappresentante di una delle comunità, Ramón Tello, contaminano le falde acquifere.

Esiste un acquedotto che serve 5.500 persone, ma la sua acqua non è adatta per il consumo umano. Le percentuali di arsenico, boro, manganese e altri metalli pesanti rilevate nell’acqua, infatti, espongono chi la consuma a gravi rischi per la salute. Ecco perché, spiega padre Giuseppe, si sta lavorando alla formulazione di un progetto per l’installazione di un depuratore a osmosi inversa@ che permetta a queste comunità di disporre di acqua pulita.

Anche la narrazione dei luoghi, e gli sforzi per correggerla, fanno parte del lavoro di difesa dei diritti dei popoli indigeni: «Per molti, a cominciare dai decisori che determinano le politiche pubbliche, questa terra è solo “deserto”: luogo senza vita, dove non c’è nessuno, privo di risorse e di utilità, dotato di valore solo per chi si occupa di speculazioni finanziarie legate alla compravendita di terreni. Ma per il popolo Huarpe questa è la terra ancestrale, il luogo dove si svolge la vita quotidiana, la sorgente della sua cosmogonia, e si chiama il “campo”», scrive padre Auletta.

La Bebida, periferia da nutrire e curare

San Juan è la seconda città della regione del Cuyo per numero di abitanti: circa 818mila secondo il censimento 2022. Qui, Javier Milei ha ottenuto il 34,17% dei voti alle primarie, quattro punti in più del suo dato nazionale.

I Missionari della Consolata sono presenti a La Bebida, un quartiere nella zona occidentale della città, nella parrocchia di Nuestra Señora del Rosario di Andacollo.

«È una parrocchia di periferia», spiega padre Daniel Bertea, missionario della Consolata originario della provincia di Córdoba, nella parte centro settentrionale dell’Argentina. «Una parte della popolazione vive lì da tanti anni, ma molte persone sono arrivate da altre zone periferiche di San Juan. All’inizio, chi arrivava si costruiva case di mattoni in argilla, poi il governo ha iniziato a costruire case popolari, in parte per eliminare gli insediamenti spontanei, in parte per risolvere le emergenze abitative, anche in risposta agli effetti dei terremoti, dal momento che questa è zona sismica».

La popolazione totale è di circa 30mila abitanti, per la maggior parte bambini e adolescenti, giovani coppie. Le attività economiche prevalenti sono stagionali, legate alla raccolta dell’uva, delle olive, dei pomodori. Molte persone lavorano nelle fornaci di mattoni, nell’edilizia, alcuni trovano impieghi nel settore minerario e altri hanno piccole attività in proprio, come forni o piccoli ristoranti.

«Con una popolazione proveniente da luoghi diversi e arrivate nella zona nel corso di molti anni è più difficile creare un senso di appartenenza, dove tutti si sentano parte di una stessa comunità che si interessa di loro».

A La Bebida il problema dei suicidi è particolarmente grave: nel 2022, 15 giovani si sono tolti la vita. Sono numeri elevati, se si considera che il più recente dato nazionale ufficiale disponibile@ era di 8,7 suicidi per 100mila abitanti nel 2021 e che il dato complessivo per San Juan arrivava a 10 ogni 100mila.

«Quello della salute mentale è certamente uno degli ambiti su cui vorremmo concentrarci nei prossimi mesi, collaborando con esperti del settore – psicologi, psichiatri, istituzioni sanitarie – che possano aiutarci a formulare interventi adeguati».

Altre iniziative che padre Daniel ha in mente per rispondere ai bisogni dei giovani di La Bebida riguardano il sostegno economico e l’orientamento per una decina di studenti, universitari o frequentanti scuole professionali, e l’aiuto a circa trenta giovani donne o adolescenti, incinte o già madri, spesso sole, che hanno difficoltà sia economiche che psicologiche nell’affrontare la gravidanza o la maternità.

Quanto ai bambini, l’idea sarebbe quella di portare avanti il lavoro dei cosiddetti merenderos, cioè gli spazi che forniscono assistenza alimentare gratuita a persone vulnerabili. «Spesso questi bambini hanno una dieta inadeguata, che non genera malnutrizione vera e propria ma comunque pregiudica il loro sviluppo. Per questo vorremmo continuare a sostenere i merenderos che già aiutiamo presso altre strutture e, in prospettiva, valutare l’avvio di uno nostro».

Chiara Giovetti

Immagini da La Bebida

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Mozambico e Angola: due paesi, uno stile


Raccogliamo in questo articolo le chiacchierate con padre Sisto Elias, superiore della regione Mozambico, e padre Fredy Gomez, responsabile del gruppo di missionari in Angola, che restituiscono un’immagine di un modo di fare missione basato soprattutto sulla collaborazione con le comunità locali.

Lo scorso 15 giugno è stata chiusa la sedicesima e ultima base della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), il gruppo militare, oggi partito politico conservatore, che fra il 1977 e il 1992, nella guerra civile mozambicana, ha combattuto il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), il partito al governo di ispirazione marxista. La base si trovava a Vinduzi, nei pressi del parco nazionale di Gorongosa (provincia di Sofala), storica roccaforte della Renamo, e la cerimonia ha visto Ossufo Momade, segretario della Renamo, consegnare l’ultima arma da fuoco, un mitragliatore AK-47, nelle mani del presidente mozambicano e leader del Frelimo, Filipe Nyusi@.

Con questo atto si è concluso il processo di disarmo, smobilitazione e reintegrazione (Ddr nell’acronimo portoghese, da Desarmamento, desmobilização e reintegração), che a cominciare dal giugno 2019 ha interessato un totale di 5.221 guerriglieri (257 donne e 4.964 uomini). Durante la cerimonia, il presidente Nyusi ha assicurato che si procederà ora al pagamento delle pensioni per gli ex combattenti, molti dei quali si trovano in condizioni economiche precarie dopo la smobilitazione, almeno secondo quanto dichiarato nel 2021 a Radio France International dal presidente della Renamo, André Magibire@.

Se questo conflitto è concluso – il prossimo 4 ottobre ricorreranno i 31 anni dalla firma, a Roma, del trattato di pace fra Frelimo e Renamo – lontano dalla fine sembra quello nel nord del paese, nella provincia di Cabo Delgado, dove dal 2017 è in corso un’insurrezione armata jihadista, alla quale però molti combattenti locali hanno aderito soprattutto perché si sentono esclusi dai benefici economici derivanti dalle scoperte di minerali e idrocarburi nella zona. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, a maggio scorso risultavano nel nord del Mozambico oltre 834mila sfollati interni, mentre altre 420mila persone avevano fatto ritorno nelle zone da cui erano fuggite, di cui quasi 392mila in località all’interno della provincia di Cabo Delgado, 27mila in quella di Nampula e un migliaio nel Niassa@.

Vi sono infine gli effetti del ciclone Freddy@, che tra febbraio e marzo ha colpito principalmente il Malawi e le regioni del nord del Mozambico, peggiorando le condizioni igienico sanitarie e aggravando l’epidemia di colera che era già in corso e che, secondo i dati dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), fra l’inizio dell’anno e il 15 maggio scorso aveva fatto registrare poco meno di 90mila casi e 1.900 morti solo fra Malawi e Mozambico@.

La nuova gestione della salina

Fra le aree danneggiate dal ciclone c’è anche Nova Mambone, dove si trova la salina di Batanhe, fondata alla fine degli anni Sessanta del Novecento da padre Amadio Marchiol e da allora gestita dai missionari della Consolata@.

«La ricostruzione è ancora in corso», racconta padre Sisto Elias, missionario della Consolata mozambicano e superiore regionale al secondo mandato, «ma sarà completata in tempo per la stagione di produzione, che va da agosto a novembre». Negli ultimi due anni, la salina ha vissuto nella propria gestione un cambiamento profondo, incentrato sul metodo di lavoro che i Missionari della Consolata in Mozambico si sono dati sotto la guida di questa direzione regionale: «Abbiamo deciso di decentralizzare e investire sulle risorse locali», spiega Sisto. «Da Maputo facciamo la supervisione, garantiamo costanti visite sul campo e rimaniamo noi i responsabili in ultima istanza. Ma a portare avanti le attività sono le persone della comunità locale, sul posto».

Ora alla salina sono legate due imprese, una per la produzione e trasformazione del sale e una per la vendita all’ingrosso, così da garantire una migliore divisione del lavoro oltre che rigore nella gestione economica e nelle procedure igienico sanitarie. Rigore, precisa padre Sisto, che è lo stato mozambicano stesso a chiedere e a verificare con controlli e ispezioni.

«Produciamo e commercializziamo all’ingrosso tre tipi di sale: il Sal do Índico, che è il nostro marchio per il sale alimentare comune, il Flor do Índico, che è il fior di sale, cioè il prodotto più pregiato, e il Sal de pesca, un sale di qualità inferiore che si usa nella zootecnia oppure nella conservazione del pesce». La salina ha venti lavoratori fissi, che arrivano fino a 80-90 durante la stagione della produzione. Ma la salina rimane, come è sempre stata, un’impresa il cui fine è prevalentemente sociale: «Innanzitutto, l’attenzione è per i lavoratori, per sostenerli nei momenti di difficoltà, per garantire a loro e alle loro famiglie l’accesso all’istruzione, alla sanità. Ma non solo: i fondi per costruire la scuola primaria di Lichinga, nel Niassa, e la secondaria di Nampula sono venuti in buona parte dalla salina». E le scuole stesse sono gestite in modo decentralizzato, appoggiandosi a personale di fiducia in loco: il ruolo dei missionari è quello di effettuare frequenti visite per verificare la trasparenza nella gestione economica e l’alta qualità dell’insegnamento. «E per gli studenti le cui famiglie si trovano in condizioni di povertà estrema dimostrate, la scuola ha un sistema di borse di studio finanziate con le rette delle famiglie in grado di pagare».

Lotta malnutrizione a Capalanca in Angola

Il centro nutrizionale di Cuamba

Una simile gestione decentrata si applica anche al lavoro del centro nutrizionale che si trova nella cittadina di Cuamba, nel Niassa. Fino a qualche anno fa, il responsabile dei progetti attivi al centro nutrizionale era uno dei missionari della Consolata presente nella missione e parrocchia di Cuamba. Con la cessione della parrocchia ai sacerdoti diocesani, da circa due anni i missionari non sono più lì. «Questo ci ha costretto evidentemente a ridimensionare le attività del centro», spiega ancora Sisto, «rinunciando ad esempio ad avere una persona incaricata che prestasse servizio costante». Ma la malnutrizione è ancora presente e il centro è importante nel contrastarla. «Abbiamo deciso di mandare avanti le iniziative in sostegno ai bambini malnutriti semplicemente acquistando e stoccando in un magazzino latte in polvere e altri cibi che si conservano nel tempo e organizzando le distribuzioni alle famiglie bisognose attraverso i cristiani locali».

La presenza del centro e le sue attività di lotta alla malnutrizione si sono rivelate molto importanti per affrontare due emergenze che si sono sovrapposte nell’ultimo anno: l’arrivo da Cabo Delgado di diverse famiglie di sfollati, e le inondazioni legate al ciclone Freddy. Così, in una relazione dell’aprile scorso, padre Sisto riportava che, per far fronte ai maggiori bisogni causati da questi eventi, il centro ha collaborato con gli agenti di salute e l’Ingd (Istituto nazionale per la gestione e la riduzione dei rischi da catastrofe) per fornire assistenza alle persone ospitate in due centri di accoglienza della zona: riso, zucchero, olio, sapone, latte e farina sono stati acquistati e distribuiti a 187 famiglie con una media di 5 figli ciascuna, per un totale di 935 bambini e adolescenti, ai quali è stato assicurato l’apporto nutrizionale indispensabile.

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi

Maúa, l’eredità di padre Frizzi

Il lavoro di padre Giuseppe Frizzi che, a partire dal 1987, ha studiato e sistematizzato il patrimonio etnolinguistico del popolo Macua Xirima@, continua a essere valorizzato e promosso dai suoi confratelli in Mozambico anche attraverso l’avvio di collaborazioni con entità come la Fondazione Fernando Leite Couto, dedicata al padre del noto scrittore e giornalista mozambicano Mia Couto. «Per prima cosa, la Fondazione ci aiuterà a far sì che tutto il materiale di padre Frizzi – libri e altri scritti – contenuti nel centro studi di Maúa ricevano i necessari riconoscimenti di legge riguardo alla proprietà intellettuale. Poi si cercherà di rendere più fruibili le parti del lavoro del Centro studi che hanno riguardato la filosofia e l’antropologia, separandole da quelle incentrate sulla teologia, in modo da creare testi, saggi, raccolte che possano essere usati per l’approfondimento in ambito accademico o della ricerca in generale».

Altra novità che riguarda il Centro studi Macua Xirima è il trasferimento della sua parte museale a Massangulo, dove c’è un’altra presenza dei missionari della Consolata. Massangulo è più vicina alla strada, meno isolata di Maúa, conclude padre Sisto, e lì un museo sarà più facilmente raggiungibile dai visitatori.

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi

Angola, potenziale inespresso

L’Angola è un paese dal potenziale enorme dal punto di vista economico: sedicesimo produttore al mondo di petrolio@, settimo di banane, ottavo di cassava@, l’Angola si trova però al 148° posto per indice di sviluppo umano e ha un prodotto interno lordo pro capite di 6.491 dollari americani (quello dell’Italia è di 46.385)@.

«Una parte del problema», spiega padre Fredy Alberto Gómez Pérez, missionario della Consolata colombiano e responsabile della comunità di sette missionari attivi in Angola, «è anche il fatto che molti angolani ritengono l’agricoltura un’attività non dignitosa, preferendole altri lavori come l’insegnante, il funzionario pubblico, l’impiegato». Questo approccio delle persone non è ovviamente la sola causa del mancato sviluppo socioeconomico del paese che, come il Mozambico, ha vissuto fra il 1975 e il 2002 quasi tre decenni di guerra civile, i cui segni sul tessuto produttivo oltre che sulla società e sull’ambiente richiedono molto tempo per essere cancellati.

Cappella di Luacano all’inizio dell’avventura missionaria in Angola

Giovane missione

Come in tutte le presenze della Consolata di più recente fondazione, il lavoro dei missionari procede in modo molto graduale e si colloca in zone ai margini, di confine, si tratti delle periferie urbane, delle aree a cavallo fra città e campagna o dell’entroterra più remoto. «I Missionari della Consolata sono arrivati in Angola nell’agosto 2014 e oggi lavorano in tre ambiti con caratteristiche molto diverse tra loro», racconta padre Fredy. «La prima parrocchia che l’allora vescovo della diocesi di Viana, monsignor Joaquim Ferreira Lopes, ci ha affidato è stata quella di Santo Agostinho, a Bairro Capalanca, alla periferia della capitale Luanda. Un anno e mezzo dopo abbiamo rilevato la parrocchia di Nossa Senhora da Consolata nella zona di Funda, che si trova poco fuori Luanda ed è una realtà per metà urbana e per metà rurale. La terza presenza è presso la parrocchia di Santa Maria Mãe de Deus, nel comune di Luacano», che si trova oltre 1.300 chilometri a est, a circa due ore dal confine con la Repubblica democratica del Congo: «Luacano è veramente una realtà ad gentes», sottolinea Fredy, «in mezzo alle savane intorno al lago Dilolo» (su Luacano vedi MC di maggio 2023@).

In questo momento il lavoro dei missionari, oltre che all’evangelizzazione, si rivolge agli ambiti della salute e dell’istruzione: piccoli progetti di assistenza ai bambini malnutriti, creazione di equipe di pastorale sanitaria, formazione per i giovani che non frequentano la scuola. A Luacano, inoltre, i missionari hanno cercato di migliorare i servizi di base anche fornendo acqua alla comunità locale attraverso pozzi e formando gli adulti con programmi di alfabetizzazione.

Per gli anni a venire, i missionari contano di riuscire a dare alle attività un carattere più strutturato. Un annoso problema che accompagna da sempre il loro lavoro è quello di doversi dotare di spazi dove sia possibile organizzare e dare continuità alle iniziative che portano avanti.

«Il progetto del Centro sociale Santo Agostinho» nel Bairro Capalanca di Luanda, spiega padre Fredy, «è nato come risposta più elaborata e sistematica alle sfide di cui parlavo sopra, perché per realizzare tutti gli altri progetti, sia di carattere sociale che di evangelizzazione, abbiamo bisogno di uno spazio adeguato». Servono uno studio medico per assistere i malati e monitorare lo sviluppo dei bambini, una cucina per preparare il cibo e un refettorio per servire il pasti offerti agli anziani seguiti dalla Caritas parrocchiale, stanze per la formazione e la catechesi.

«Dopo una lunga attesa si è deciso di iniziare i lavori con un fondo ricavato accantonando le offerte dei fedeli, ma da soli non riusciremo a terminare i lavori nei tempi desiderati per rispondere alle urgenze che abbiamo». Per questo padre Fredy si è rivolto a Missioni Consolata Onlus per ottenere aiuto nella ricerca di fondi, proponendo un progetto dal costo complessivo di circa 95mila euro.

Chiara Giovetti

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi




MCO. Il bilancio sociale, per conoscersi meglio


Lo scorso mese Missioni Consolata Onlus ha pubblicato il bilancio sociale 2022. Anche quest’anno, redigerlo è stata un’occasione per conoscere e far conoscere meglio il nostro lavoro, per migliorare la comunicazione interna e per soffermarsi su alcuni progetti significativi.

Il 2022 è stato un anno positivo per Missioni Consolata Onlus, che ha registrato un aumento di donazioni ricevute intorno al 6%. Lo si può leggere nel bilancio sociale 2022, pubblicato sul sito di Mco a fine giugno.

Scuola e sanità prima di tutto

La distribuzione delle donazioni per ambito di intervento ricalca abbastanza quella dei due anni precedenti, con le iniziative per sanità e istruzione a rappresentare da sole quasi il 40% del totale. Caratterizzata dal lavoro
dei quattro grandi ospedali (Ikonda e Makiungu in Tanzania, Wamba in Kenya e Neisu in Rd Congo) e dei due centri di salute (Dianra e Marandallah in Costa d’Avorio) in Africa, la sanità ha ricevuto 854mila euro (22,7% del totale), mentre l’istruzione – dall’asilo all’università – ha ottenuto quasi 657mila euro (17,5%).

Intorno al 3% si collocano poi le attività con i popoli indigeni, gli interventi che mirano a creare sviluppo economico e le iniziative che garantiscono alle comunità locali l’accesso a fonti d’acqua pulita e affidabile.

Questi tre ambiti hanno raccolto rispettivamente 124mila, 118mila e 117mila euro, mentre la formazione professionale, cioè quelle attività formative che forniscono competenze a persone che si trovano ormai al di fuori di un percorso scolastico – corsi di sartoria, informatica di base, gastronomia, e simili – hanno ottenuto 28mila euro, lo 0,8%.

Emergenze quotidiane

Una voce consistente è certamente quella che raggruppa ambiti non riconducibili a quelli già menzionati e che ha ottenuto un sostegno complessivo di 534mila euro, il 15% del totale.

All’interno di questa voce, il 2022 ha visto un robusto sostegno alle attività a carattere religioso, fra cui la costruzione o ristrutturazione di chiese, la copertura dei costi di formazione dei nuovi missionari nei seminari, la fondazione di una nuova missione, la formazione permanente dei missionari di ogni età. La maggiore novità del 2022 all’interno di questo gruppo di ambiti è invece la realizzazione di interventi di emergenza in sostegno ai rifugiati ucraini, prima solo in Polonia poi anche in Ucraina.

Le spese di amministrazione e funzionamento  della Onlus sono state pari al 12,5% del totale (469mila euro)

Il sostegno generico è stato di 314mila euro, l’8,4%. Si tratta, in quest’ultima voce, di un tipo di aiuto che è difficile ricondurre alla logica dei progetti o, comunque, degli interventi strutturati e organizzati, perché sostiene quella parte del lavoro dei missionari che consiste nell’assistenza immediata a persone che affrontano una difficoltà improvvisa e temporanea: un (o, più spesso, una) capofamiglia che perde il lavoro, un malato che non può pagare le cure mediche e tantomeno i farmaci necessari, un contadino o un pastore che ha perso tutto a causa della siccità o di razziatori. Piccole e grandi emergenze quotidiane che le persone affrontano anche bussando alla porta della missione per chiedere aiuto e, quasi sempre, cercando di ricambiare appena è loro possibile.

Congo, progetti salute

Ospedale di Neysu, Congo RD (AfMC)

La Repubblica democratica del Congo è, fra i Paesi di missione, il secondo per offerte ricevute: quasi 532mila euro, dopo i 955mila della Tanzania. È anche il paese in cui si sono svolti tre dei sei progetti in evidenza, interventi significativi che nel bilancio sociale illustrano ciascun ambito di intervento.

Il progetto dell’ambito salute è in realtà un insieme di interventi che si sono svolti all’ospedale di Neisu, nella provincia dell’Alto Uélé, Congo orientale. Hanno interessato la cardiologia, la maternità e l’ortopedia, oltre al trasporto di operatori e pazienti.

«La cardiologia è completa», confermava a maggio da Neisu il responsabile dell’ospedale, Ivo Lazzaroni, laico missionario della Consolata. «Facciamo una trentina di elettrocardiogrammi al mese mentre gli esami eco-doppler per ora sono meno e quasi solo per pazienti che vengono da Isiro», il capoluogo, 70 chilometri più a ovest: «Il costo dell’esame, 25mila franchi congolesi (circa 12 euro), dissuade tante persone dei villaggi qui in foresta».

Ma la sensibilizzazione dei pazienti sul ruolo della prevenzione nelle malattie del sistema cardiovascolare, che la dottoressa e le due infermiere formate a Kinshasa affiancano al lavoro di diagnosi e cura, sta iniziando a dare frutti: «Qui si usa tanto olio di palma e sale, per cui le ipertensioni sono frequenti. Le persone, però, stanno iniziando a capire: lo vediamo anche dal fatto che sempre più spesso decidono di comprare i farmaci per le malattie cardiovascolari che vengono loro prescritti, anche se hanno un costo elevato per il livello di reddito locale».

La maternità ha poi ricevuto una seconda incubatrice, «perché la precedente non funzionava più e non è stato possibile ripararla. È una grazia di Dio: ci sono dei bambini nati prematuri o sottopeso che ne hanno davvero bisogno». Ivo sta attivandosi per procurarne un’altra, perché quella attuale deve a volte ospitare più di un bambino.

Infine, la formazione in chirurgia ortopedica e traumatologia, che un medico e un infermiere dell’ospedale stanno seguendo a Kinshasa, permetterà di trattare con più efficacia i pazienti con fratture. «Molti di loro», dice Ivo, «se le procurano cadendo dalle palme, dove salgono a raccogliere i frutti per produrre l’olio. Se si rompe un ramo, o si incontra un serpente, si possono fare cadute disastrose. Se riescono a sopravvivere, i pazienti si trovano con fratture scomposte che non solo devono essere operate, ma richiedono mesi di fisioterapia». Il costo totale di questi interventi, che include anche l’acquisto di sei piccole moto per il personale sanitario dei centri periferici e per il trasporto dei pazienti, è stato di circa 44mila euro.

Baayanga, bambini pigmei a scuola (AfMC/Flavio Pante)

Scuola a Bayenga, mattonelle a Kinshasa

Sempre in Congo, padre Flavio Pante sta avviando la costruzione di una scuola a Bayenga, 140 chilometri circa a sud est di Isiro. Qui i Missionari della Consolata lavorano dagli anni Novanta con i Pigmei bambuti, per favorirne il dialogo, storicamente difficile, con la popolazione di etnia bantu e accompagnarne il percorso di ricerca di un modo di vita che rispetti la loro cultura e il loro legame con la foresta ma, allo stesso tempo, non li escluda dalla partecipazione alla vita della società congolese, fatta più di sedentarietà e di agricoltura che di nomadismo e caccia.

«Non sono uno da grandi progetti», scherzava in una lettera padre Flavio lo scorso maggio, «vado avanti con quello che ho, secondo la realtà del posto e i suoi tempi». Con l’aiuto di familiari, donatori privati, enti ecclesiali e organizzazioni amiche, padre Pante ha raccolto 9mila euro con cui costruirà nove classi che possono contenere fino a 80 allievi l’una, «limite posto dal regolamento scolastico del Congo. Ora più della metà del totale degli allievi è ospitato in un’altra scuola con orari a turni, ma stanno stretti e vivono diversi disagi». Le aule saranno in legno con tetti di lamiera e pareti in fango, rivestite di cemento per riparare le classi da vento e pioggia. «Sempre se il cemento sarà accessibile», precisa padre Flavio: perché «la situazione del Kivu», dove sono in corso violenti scontri fra l’esercito congolese e i ribelli del gruppo M23@, «porta per noi grosse difficoltà negli approvvigionamenti e un grande aumento nei prezzi».

A Kinshasa, nel quartiere di Mont Ngafula, padre César Balayulu ha infine realizzato con 2mila euro un microprogetto di recupero delle bottiglie di plastica, che vengono sciolte per produrre mattonelle da pavimentazione. «L’idea mi è venuta guardando un’iniziativa simile portata avanti dai gesuiti non lontano dalla nostra missione», spiegava a maggio padre César. «Vista la quantità enorme di bottiglie disperse nell’ambiente a Kinshasa, ho deciso di coinvolgere trenta persone fra giovani e donne della zona e cominciare». Questo potrebbe essere un progetto pilota, da ampliare almeno con l’acquisto di un apposito forno elettrico chiuso, per ridurre al minimo le esalazioni derivanti dallo scioglimento della plastica, spiega César. «I risultati sono incoraggianti: i torrenti d’acqua che si formavano nella zona intorno alla parrocchia con le violente piogge tropicali, prima scavavano il terreno. Da quando abbiamo messo il pavé fatto con la plastica delle bottiglie, l’erosione si è molto ridotta». Non solo, aggiungeva padre David Bambilikpinga Moke, superiore regionale del Congo: «Non trovando più le bottiglie a ostruire canali e fossi, durante le piogge, l’acqua defluisce più facilmente verso il fiume».

Distribuzione di cibo donato dai Missionari della Consolata in Polonia ai Frati Francescani Albertini di Zaporizia (AfMC/Luca Bovio)

La Polonia e l’emergenza Ucraina

Sin dai primi giorni di marzo 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina e la fuga di milioni di persone nei paesi limitrofi, i Missionari della Consolata in Polonia hanno cominciato a organizzare l’accoglienza per i profughi, in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita in Łomianki vicino a Varsavia e la Caritas. Nei mesi successivi sono poi cominciate anche le missioni per portare aiuti in territorio ucraino. Padre Luca Bovio, missionario della Consolata in Polonia, ha partecipato a queste missioni insieme a don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la Conferenza episcopale polacca: grazie anche ai 51mila euro raccolti da Mco, padre Luca, don Leszek e le tante persone che hanno collaborato con loro, sono riusciti a portare cibo, prodotti per l’igiene, generatori nelle città di Kijew, Charnichow, Karkiw, Dniepr, Zaporiza, Kherson, Mikolaj, Odessa, Leopoli@.

A maggio scorso padre Luca Bovio, confermava il persistere della situazione di emergenza, specialmente nelle zone prossime al fronte. «Non ci sono più spostamenti di persone verso la Polonia, ma continuano quelli interni all’Ucraina, anche perché il governo invita le persone che vivono vicine alle zone di scontri a spostarsi». Non tutti, però, raccolgono l’invito, perché non se la sentono di lasciare i luoghi dove sono nati e cresciuti, ma anche perché la primavera è tempo della semina, e mancarla significa trovarsi senza provviste il prossimo inverno. «Così, in occasione di un viaggio nei pressi del fronte mi è capitato di assistere a scene quasi surreali, con i missili russi che cadevano a 500 metri da me mentre, a due chilometri nella direzione opposta, un contadino arava la terra sul suo trattore». Non ci sono lati positivi nella guerra, conclude padre Luca, ma la solidarietà che è emersa in questi mesi con la mobilitazione di così tante persone fra Polonia, Italia, Usa, Canada, aiuta tanto e dà speranza.

Bambini a colazione nel Baixo Cotingo ( AfMC/foto Francesco Bruno)

Acqua e popoli indigeni

Fra i progetti per garantire alle comunità l’accesso all’acqua c’è lo scavo di un pozzo artesiano che si sta svolgendo a Baixo Cotingo, nella Terra indigena Raposa Serra do Sol (stato di Roraima, Brasile), dove la siccità degli ultimi anni priva la comunità di Camará dell’acqua durante l’estate, mentre d’inverno il sistema di canali che porta l’acqua a valle dalle montagne vicine è spesso bloccato da foglie e detriti.

«Il pozzo artesiano è già stato perforato a una profondità di 64 metri», scriveva a maggio padre Jean-Claude Bafutanga, missionario della Consolata, «e ha fornito acqua sufficiente per l’intera comunità indigena di Camará, che ora può bere e utilizzare acqua pulita e potabile, non contaminata dal mercurio usato nell’estrazione mineraria illegale ancora in corso nella zona»@.

Il lavoro con i popoli indigeni del Venezuela, infine, continua ad accompagnare i Warao nell’affrontare le tante difficoltà legate alla più generale situazione del Paese@ e alla particolare condizione di emarginazione delle comunità indigene (cfr. articolo pag 10).

«Lo Stato venezuelano ha praticamente abbandonato le scuole delle comunità che vivono nella zona del reticolo di canali e corsi d’acqua minori (caños) del fiume Orinoco», scriveva lo scorso aprile padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata nella missione di Nabasanuka e responsabile del progetto. Andare a scuola in queste zone è già peraltro molto complicato: «A causa delle grandi distanze, che devono essere coperte in curiara (canoa), insegnanti e bambini sono spesso assenti dalle lezioni».

A questo si aggiungono le difficoltà economiche di molte famiglie, costrette a rivolgersi alla missione per avere vestiti usati; e la mancanza di igiene combinata con l’assenza di strutture sanitarie adeguate e farmaci in grado di contrastare la diffusione di malattie come amebiasi e altri parassiti intestinali, infezioni della pelle, delle vie respiratorie, delle vie urinarie, micosi.

Il progetto Dignità per il popolo warao, si concentra su tre linee strategiche: alfabetizzazione, attività generatrici di reddito e salute. Finanziato da donatori privati con 5mila euro nel 2022, cerca di sopperire alle mancanze del sistema educativo con la distribuzione di materiale scolastico e la trasmissione del sapere tradizionale dagli anziani ai bambini. Fornisce inoltre formazione a 80 donne in tecniche sartoriali e sensibilizzazione su temi igienico sanitari per promuovere la prevenzione e la conoscenza delle piante officinali.

Chiara Giovetti

 




Scuola, ancora un sogno per troppi bambini


L’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 4 non sarà raggiunto entro il 2030. Questa è la conclusione a cui si giunge consultando i più recenti dati Unesco. La pandemia ha rallentato l’impegno per assicurare la scuola a tutti, ma di fatto il calo era già in atto.

Secondo le più recenti stime delle Nazioni Unite@, sono 244 milioni i bambini e ragazzi di età compresa fra i 6 e i 18 anni che non vanno a scuola. Il numero più alto di questi, circa 98 milioni, è in Africa subsahariana, mentre altri 85 milioni vivono in Asia centrale e meridionale. I quattro Paesi con i dati più negativi sono Pakistan e Nigeria, ciascuno con circa 20 milioni di bambini e adolescenti non scolarizzati, seguiti dall’Etiopia, con 10,5 milioni, e dalla Repubblica democratica del Congo, con 6 milioni.

Rispetto ai cicli di studi, la mancata scolarizzazione interessa 67 milioni di bambini della primaria (di età fra i 6 e gli 11 anni), 56 milioni della secondaria di primo grado (12-14 anni) e 121 milioni della secondaria di secondo grado (15-17 anni).

La prima scuola operata dai missionari della Consolata a Tuthu, Kenya, nel 1902 (AfMC/Filippo Perlo).

La situazione è senza dubbio migliorata rispetto all’inizio del millennio, quando i bambini che non andavano a scuola erano oltre 400 milioni, ma gli studi più recenti dell’Unesco@ rilevano che, di questo passo, nel 2030 ci saranno ancora 84 milioni di bambini e ragazzi non scolarizzati, il 5% del totale. Lo studio, che si basa sui dati forniti dagli Stati e sugli indici di riferimento che essi si sono dati in modo volontario per misurare il loro avvicinamento agli obiettivi, riporta anche che meno di due bambini su tre finiranno la primaria e raggiungeranno il livello minimo di competenze nella lettura: in altre parole, 300 milioni di bambini non sapranno leggere come dovrebbero alla fine del ciclo primario di studi. Secondo questi dati, è chiaro che l’umanità mancherà il quarto obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che mirava a «garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti».

Covid, collasso nascosto ma enorme

La pandemia da Covid-19 ha avuto un ruolo sia nel rallentare i progressi sia nell’impedire la raccolta dei dati per monitorarli. Secondo un rapporto della Banca mondiale di febbraio scorso@, nei paesi a basso e medio reddito, 1,3 miliardi di bambini hanno perso almeno sei mesi di scuola, 960 milioni hanno saltato almeno un anno intero e 711 milioni un anno e mezzo o più.

Le scuole sono state chiuse più a lungo in America Latina, nei Caraibi e in Asia meridionale, ma ci sono state notevoli variazioni nella durata della chiusura da un Paese all’altro all’interno della stessa subregione. Ad esempio, tra aprile 2020 e marzo 2022 le scuole sono state chiuse per 61 giorni in Tanzania, ma per 448 giorni in Uganda; per 107 giorni in Marocco, ma 326 giorni in Arabia Saudita; e 47 giorni in Vietnam, ma 510 giorni nelle Filippine.

Una volta entrata in vigore la chiusura delle scuole, quasi tutti i sistemi educativi sono passati alla didattica a distanza; ma, a livello globale, più di due terzi dei bambini di età compresa tra 3 e 17 anni (1,3 miliardi di persone) non hanno internet a casa.

Effetti da valutare

Arvaiheer, Mongolia (AfMC)

L’impatto sull’istruzione del Covid-19 e delle restrizioni collegate richiederà ancora anni per essere completamente valutato; tuttavia, avverte la Banca mondiale nel rapporto, alcuni danni sono già evidenti. Oltre a riportare 70 milioni di persone sotto la soglia della povertà, la pandemia ha determinato un collasso tanto nascosto quanto enorme nel capitale umano delle persone più giovani, colpendole in un momento cruciale del loro sviluppo. Milioni di bambini non hanno ricevuto adeguata assistenza sanitaria, ad esempio mancando gli appuntamenti per le vaccinazioni più importanti.

Hanno poi dovuto affrontare maggiore stress negli ambienti e contesti che sarebbero deputati alla loro cura, subendo a volte anche abusi domestici e vedendo peggiorare la loro nutrizione. Tutto questo ha comportato una diminuzione nel rendimento scolastico e un rallentamento dello sviluppo sociale ed emotivo: un mese di chiusura si è tradotto in un mese di conoscenze perdute, in alcuni casi anche di più, come è successo nel Bangladesh, dove 14 mesi e mezzo di chiusure si sono tradotti in 26 mesi di apprendimento perso.

Per dare una misura concreta di questi dati, il rapporto cita l’esempio di una bambina di 10 anni che all’inizio della pandemia sapeva fare somme e sottrazioni e avrebbe poi dovuto imparare moltiplicazioni e divisioni. A causa dei mesi di scuola persi, non solo non ha imparato queste nuove abilità, ma ha anche dimenticato come si somma e sottrae.

È difficile prevedere come questa mancata formazione, se non recuperata, si ripercuoterà sulle vite dei bambini; tuttavia, basandosi sull’analisi degli effetti di precedenti eventi catastrofici, la Banca mondiale stima che i ritardi nell’apprendimento, una volta che questi bambini entreranno nel mercato del lavoro, potrebbero tradursi per loro in redditi fino a un quarto più bassi di quanto sarebbero stati in assenza della pandemia.

Scuola per bambini yanomami al Catrimani, Roraima (AfMC/foto C. Giovetti)

Non solo pandemia

Eppure, dicono ancora le stime dell’Unesco@, i progressi verso l’obiettivo 4 erano già rallentati prima della pandemia, e questo soprattutto riguardo agli adolescenti. Utilizzando un modello che combina i dati amministrativi forniti dagli Stati con indagini a campione presso i nuclei familiari, l’agenzia Onu conclude che la riduzione dell’abbandono scolastico fra i ragazzi della scuola secondaria inferiore (più o meno le medie italiane) è stata del 9% nel primo decennio di questo secolo e solo del 2% dal 2010 al 2020.

L’Africa subsahariana non è solo la regione con il più alto numero di bambini non scolarizzati, ma anche l’unica regione in cui questo dato è in crescita. Dal 2009 la quota di bambini che non fre­quenta la scuola è aumentata di 20 milioni, raggiungendo i 98 mi­lioni nel 2021, e sfiora i 100 mi­lioni nelle proiezioni per il 2023.

La disparità di genere è quasi scomparsa a livello globale e, anzi, rispetto al dato della mancata scolarizzazione ora le proporzioni sono invertite: 125 milioni di bambini non vanno a scuola, a fronte di 118 milioni di bambine.

Ma gli ostacoli verso il raggiungimento dell’obiettivo di sviluppo sostenibile sull’istruzione continuano a essere molti, ad esempio i disastri legati al clima, che nel 2021 hanno causato 23,7 milioni di sfollati. Gli studi sull’accesso all’istruzione per gli sfollati a causa del clima, lamenta l’Unesco, sono ancora molto pochi e rendono queste persone una categoria invisibile@, nonostante affrontino difficoltà molto simili a quelle dei rifugiati.

Lo scorso aprile, per i paesi a basso e medio reddito, il deficit di finanziamento per raggiungere l’obiettivo 4 era di poco meno di 100 miliardi di dollari. Anche ipotizzando che i Paesi donatori onorassero la promessa di destinare all’aiuto allo sviluppo lo 0,7% del Pil e dessero priorità agli interventi nell’ambito dell’istruzione, due terzi di questo deficit resterebbero comunque scoperti. Per questo, ha precisato la vicedirettrice dell’Unesco, Stefania Giannini, è necessario lavorare con le realtà fiscali dei vari Paesi@.

Chiara Giovetti


Come cooperavamo

Mgololo, giugno 1973

Mgololo si trova nella Tanzania centromeridionale, quasi al confine fra le regioni di Iringa e Morogoro, e nel giugno del 1973 era una delle ventotto missioni della diocesi di Iringa. Ci lavorava padre Francesco Cravero, nato nel 1923 a Cavallermaggiore, Cuneo, e fondatore nel 1968 della missione di Mgololo. La scuola, come dice l’«Appello dal fronte»@ qui sopra, era una sua idea fissa. «Le lavagnette e i gessetti sono giunti sin qui prima del mio arrivo», scriveva nell’articolo che accompagnava l’appello, ed erano anche «nate alcune scuolette: un capannone, o il più delle volte un albero frondoso sotto il quale si teneva la lezione. Il maestro era un giovanotto munito di licenza elementare». Con il tempo, le scuole cappelle e altre strutture di fortuna si erano moltiplicate e, constatava il missionario, occorreva «fare un passo avanti».

Al momento dell’appello, padre Cravero aveva già messo in piedi due aule scolastiche grazie alla collaborazione di un gruppo di Torino e l’attività didattica si svolgeva da quattro anni. Ma lo spazio era insufficiente: occorrevano al più presto altre aule, per evitare che i ragazzi della quarta elementare fossero costretti ad abbandonare gli studi. Per l’ampliamento, scriveva il missionario, «è sufficiente presentare un piccolo progetto, assicurare la decisa volontà di cooperazione da parte della popolazione e il governo darà il suo benestare, inviando sul posto un maestro diplomato».

La popolazione avrebbe collaborato procurando le travi per il tetto e la legna per la cottura dei mattoni, mentre ai suoi benefattori il missionario chiedeva tre milioni di lire per costruire tre aule e una casa per gli insegnanti.

«Nel Tanzania di oggi», scriveva, «l’indirizzo programmatico dell’Ujamaa, che vuole fondare la vita del villaggio […] sulla corresponsabilità fattiva di tutti i membri, non può non concordare con il missionario che, mediante la scuola, si fa promotore del progresso comunitario. La scuola non sarà del missionario, come avveniva nel passato, ma del villaggio, ed i primi responsabili saranno i genitori degli allievi e tutta la comunità».

La scuola di Makungu a Mgololo, riporta padre Erasto Mgalama dalla Tanzania, fu poi ceduta dai missionari della Consolata al governo tanzaniano ed esiste ancora. È ora in costruzione un altro edificio, che sorge dove prima c’era quello eretto da padre Cravero, che era in cattive condizioni e purtroppo non è stato possibile ristrutturare per conservare la memoria storica: si è preferito demolirlo e costruirne uno nuovo. La scuola ha 569 studenti, che agli esami risultano sempre fra i migliori della zona.

Chi.Gio.

Mgololo 2023


20 giugno: Giornata mondiale dei rifugiati

Dei 20,7 milioni di rifugiati seguiti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), 7,9 milioni sono bambini in età scolare. Di questi, quasi la metà non va a scuola.

Due terzi dei rifugiati vengono da cinque Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. Oltre otto rifugiati su dieci sono ospitati da Paesi a basso e medio reddito, e in tre casi su quattro si tratta di Paesi confinanti con quello dai quali i rifugiati sono fuggiti.

Al 25 aprile 2023 il numero stimato di singoli rifugiati che sono fuggiti dall’Ucraina dal 24 febbraio 2022 ed erano presenti nei Paesi europei, era pari a poco meno di 8,2 milioni.

Considerando anche i 53,2 milioni di sfollati interni nel mondo, i 4,6 milioni di richiedenti asilo (cioè coloro che stanno aspettando una risposta alla loro richiesta di essere riconosciuti come rifugiati) e i 4,4 milioni di sfollati venezuelani, il totale delle persone che hanno dovuto lasciare le loro case superava alla fine del 2021 gli 89 milioni. Le cause dell’allontanamento sono persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico@. Questo 20 giugno sarà la 22a giornata mondiale dei rifugiati, che fu celebrata per la prima volta nel 2001, anno del 50o anniversario della Convenzione sullo statuto dei rifugiati, o Convenzione di Ginevra del 1951@.

Chi.Gio.

Il mondo visto dala scuola di Iguachanya, Tanzania (AfMC)




Malaria: meglio, ma non basta


Il 25 aprile è la giornata mondiale della malaria, malattia che, nei primi due mesi del 2023, ha già provocato la morte di circa 65mila persone. La pandemia da Covid-19 ha peggiorato le cose ma, anche dopo il ritorno dei servizi sanitari alla normalità, il mondo rischia di mancare l’obiettivo che si era dato per il 2030: ridurre i casi di malaria dagli attuali 60 a 6 ogni mille persone a rischio.

Secondo l’ultimo rapporto sulla malaria dell’Organizzazione mondiale della sanità, i decessi causati da questa malattia nel mondo non sono aumentati nell’ultimo anno considerato (2021): sono anzi diminuiti a circa 619mila, contro i 624mila del 2020@.

Il risultato non era scontato, perché la pandemia da Covid-19 ha determinato fra il 2020 e il 2021 l’interruzione di servizi di diagnosi, cura e prevenzione contro l’infezione, facendo tornare i decessi ai livelli del 2012, e interrompendo così un ventennio di decremento quasi ininterrotto che aveva visto il suo dato migliore nel 2018, anno in cui morirono per questa malattia poco meno di 567mila persone.

I casi di malaria, si legge ancora nel rapporto, sono continuati ad aumentare tra il 2020 e il 2021, anche se a un ritmo molto più lento rispetto al 2019-2020 e si sono attestati a circa 247 milioni nel 2021, rispetto ai 245 milioni nel 2020 e ai 232 milioni nel 2019.

Quasi la metà delle infezioni sono avvenute in soli quattro paesi: Nigeria (26,6%), Repubblica democratica del Congo (12,3%), Uganda (5,1%) e Mozambico (4,1%). Sempre quattro paesi hanno avuto poco più della metà delle morti per malaria a livello globale: ogni cento decessi, 31 sono avvenuti in Nigeria, 13 in Congo Rd, 4 in Tanzania e altrettanti in Niger.

Dei decessi globali fra i bambini di età inferiore ai 5 anni, 2 su 5 sono avvenuti in Nigeria.

A causare la malaria è un parassita trasmesso attraverso la puntura di zanzare del genere Anopheles (vedi box sul fondo). Un motivo di preoccupazione che il rapporto Oms segnala è la diffusione anche in Africa, negli ultimi dieci anni, della Anopheles stephensi, zanzara capace di adattarsi e diffondersi nei contesti urbani. Originaria dell’Asia meridionale e della penisola arabica, è in grado di trasmettere sia i parassiti P. falciparum che P. vivax e ed è resistente a molti degli insetticidi utilizzati nella prevenzione della malaria.

da www.paginemediche.it

Covid e cambiamento climatico

Secondo il rapporto dell’Oms, le interruzioni dei servizi essenziali contro la malaria durante la pandemia di Covid-19 hanno riguardato soprattutto la distribuzione delle zanzariere trattate con insetticida e il numero di diagnosi e di trattamenti della malattia.

Nel 2020, nei 46 paesi nei quali erano state pianificate campagne di distribuzione, i sistemi sanitari nazionali e i loro partner sono riusciti a distribuire solo poco più di 200 milioni di reti protettive contro i 270 milioni previsti.
In Congo Rd, Eritrea e India, la percentuale non ha raggiunto il 60%; in Kenya non ha superato il 2%, mentre Costa d’Avorio e eSwatini non hanno effettuato alcuna distribuzione.

Nel 2021, i paesi che avevano in programma tali distribuzioni erano 43 e le zanzariere da distribuire 171 milioni. Ne sono state distribuite 128 milioni, cioè solo tre quarti: otto paesi non hanno raggiunto il 60% (Benin, Eritrea, Indonesia, Nigeria, Isole Salomone, Thailandia, Uganda e Vanuatu) e sette paesi (Botswana, Repubblica Centrafricana, Ciad, Haiti, India, Pakistan e Sierra Leone) non hanno distribuito nessuna delle zanzariere previste.

Quanto alle mancate diagnosi, se nel 2018 e 2019 i test effettuati nei paesi dove la malaria è endemica erano stati rispettivamente 392 e 450 milioni, nel 2020 sono diminuiti a 398 milioni e nel 2021 si sono fermanti a 435.

Il calo registrato nel 2020, precisa il rapporto, è stato dovuto principalmente al minor numero di test effettuati nella regione africana (10,5 milioni in meno) e nella regione del sud est asiatico (38 milioni in meno, di cui 37 milioni in India).

Un altro elemento di preoccupazione, rileva il rapporto, è l’effetto potenziale del cambiamento climatico sulla diffusione della malattia. «Nonostante le incertezze su come inciderà sulla malaria, è certo che il cambiamento climatico avrà un effetto sulla distribuzione geografica e sull’intensità e stagionalità delle malattie trasportate da un vettore», come appunto le zanzare.

Lo scorso febbraio, il New York Times riportava uno studio realizzato dagli studiosi del «Centro per le scienze della salute globale e della sicurezza» dell’Università di Georgetown, negli Stati Uniti, secondo il quale «nel secolo scorso le zanzare che trasmettono la malaria nell’Africa subsahariana si sono spostate ad altitudini più elevate di circa 6,5 metri all’anno e si sono allontanate dall’Equatore di 4,7 chilometri all’anno»@.

Un ecologo dell’università della California a Los Angeles, intervistato nell’articolo, ha sottolineato l’importanza di raccogliere dati per capire esattamente come e quanto velocemente le zanzare e altri animali portatori di malattie si stiano muovendo nel mondo. Ci si aspetta che i climi più caldi siano vantaggiosi per le zanzare perché esse, così come i parassiti che trasportano si riproducono più velocemente a temperature più elevate.

© Yofre Morales – disinfestazione contro malaria

Malaria e anemia, la banca del sangue di Dianra

La malaria porta con sé diverse complicanze, che sono più gravi nei bambini e neonati, nelle donne incinte e nelle persone anziane. Fra queste c’è l’ipoglicemia, una riduzione patologica dei livelli di glucosio nel sangue, che dà sintomi come sudorazione, tremori, debolezza e, quando è grave, anche confusione, convulsioni e coma@.

C’è poi l’anemia che si manifesta perché il parassita invade i globuli rossi per riprodursi e ne provoca la distruzione. Nei casi di anemia grave, spiega il dottor Stéphane Gnanago – medico del centro di salute Joseph Allamano gestito dai Missionari della Consolata a Dianra, in Costa d’Avorio – la distruzione dei globuli rossi determina un ridotto «apporto di ossigeno agli organi e ai muscoli e può portare a insufficienza respiratoria, collasso cardiocircolatorio e arresto cardiaco». In contesti come quello di Dianra, uno dei motivi dell’aggravarsi degli effetti della malaria, come l’anemia, è la reazione tardiva da parte dei pazienti: «Le famiglie portano i bambini al centro di salute solo all’ultimo minuto», spiega il dottor Gnanago, «dopo aver tentato di curarli con rimedi tradizionali. E quando arrivano qui, i bambini sono già in condizioni gravi».

Il programma nazionale di lotta alla malaria in Costa d’Avorio, commenta padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata responsabile del centro di salute di Dianra, fornisce test e trattamenti per la malaria in modo gratuito. Ma se i pazienti aspettano troppo prima di andare al centro, le terapie di base non sono più sufficienti. Per questo, continua padre Matteo, «avere a disposizione le sacche di sangue e poter effettuare trasfusioni ci permette di salvare vite: delle 579 sacche di sangue di cui il nostro centro ha potuto disporre nel 2022, solo 9 sono state usate per le donne ricoverate in maternità mentre 570 sono andate ai pazienti del dispensario. Di queste, 556 sono state usate per curare bambini in anemia severa: un’enormità».

© AfMC / Dianrà, Costa D’Avorio

Neisu, ordinaria emergenza

Nel 2021 l’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Repubblica democratica del Congo, ha effettuato 2.778 test per la malaria, una media di oltre 7 al giorno. La malattia è risultata la prima voce fra le patologie diagnosticate sia in consultazione esterna – 2.482 casi su 4.885 pazienti, il 50,8% dei pazienti visitati – che in medicina interna: 220 pazienti ricoverati su 1.139, il 19%, dati 2021.

In pediatria, la malaria grave e la malaria grave anemica sono di gran lunga la principale causa di ricovero, con, rispettivamente, 732 casi (il 34%) e 520 (24%) su 2.155 bambini ospedalizzati. Su 30 bambini deceduti in pediatria nel 2021, per due la causa è stata la malaria grave e per 15 la malaria anemica grave. Circa tre donne su dieci fra quelle accolte in maternità avevano la malaria.

«L’ospedale», spiega il responsabile Ivo Lazzaroni, missionario laico della Consolata, «è integrato nella sanità pubblica congolese dal 2007, e aderisce ai programmi di prevenzione del sistema sanitario nazionale.

Ogni mese, i 12 infermieri titolari degli altrettanti centri di salute sul territorio vanno a Isiro, capoluogo della provincia dell’Alto Uélé, consegnano i dati sulla malaria e sulle altre patologie monitorate ai funzionari della zona di salute (zone de santé, in francese, articolazione territoriale del Ssn congolese, ndr) e ricevono zanzariere e farmaci (ad esempio il Coartem, a base di artemisina) da portare a Neisu per l’ospedale e i centri».

Le zanzariere sono destinate alle donne incinte, che le ricevono nel corso delle formazioni loro offerte durante le consultazioni prenatali, in cui le ostetriche spiegano alle donne che questi oggetti «non devono venire regalati ai bambini per farci le reti delle porte di calcio», scherza Ivo, «ma sono fondamentali per la loro salute».

E queste formazioni purtroppo non bastano: «Anche noi – spiega Ivo – siamo alle prese, come Matteo, con famiglie che vengono molto tardi a portare i bambini in anemia severa. Purtroppo non abbiamo l’autorizzazione dalla zone de santé a fare le trasfusioni direttamente nei centri e posti periferici, quindi le donne devono portare il bambino all’ospedale. Ma le distanze sono grandi: il nostro centre de santé più lontano è a oltre 60 chilometri dall’ospedale e non è facile per queste madri trovare un passaggio in moto per venire di corsa. Per questo accade a volte che il bambino muoia nel tragitto o poco dopo l’arrivo in ospedale».

Ikonda, restare comunque in guardia

«Qui nella regione di Njombe la malaria non è endemica», spiega padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, in Tanzania. «I pochi pazienti che abbiamo affetti da questa malattia vengono dalle zone calde, soprattutto da Mbeya e Morogoro. L’anno scorso abbiamo fatto il test a 4.660 pazienti e solo 134 sono risultati positivi», meno del 3%. «Ora che ci troviamo nella stagione delle piogge», continua padre Marco, «solo il mese scorso abbiamo avuto 14 casi: è una malattia molto legata a fattori climatici».

Non essendo Njombe una regione endemica, spesso il problema viene sottovalutato: «Si pensa prima ad altre malattie, poi, se la febbre non passa, si considera anche l’ipotesi di malaria. A volte invece non ci si fida dei test e, in presenza di sintomi compatibili vengono somministrate le terapie. Di recente abbiamo avuto un paziente con una patologia polmonare proveniente da questa regione. All’inizio non si è pensato alla malaria, poi invece è risultato positivo. Ora è guarito».

© AfMC – prelievo di sangue per test malaria al Catrimani, Roraima, Brasile

Aumento dei casi in Amazzonia

La malaria è fra le malattie protagoniste anche del peggioramento delle condizioni di vita del popolo indigeno yanomami, che vive nell’Amazzonia brasiliana e con il quale i Missionari della Consolata lavorano da metà degli anni Sessanta. Durante un’intervista con un’emittente televisiva brasiliana@ padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata che lavora nella missione di Catrimani, nella Terra indigena yanomami da quindici anni, ha ricordato che «nel 2022 si sono registrati 21mila casi di malaria fra gli indigeni yanomami, e l’anno prima erano circa 20mila. Ma nel 2013-2014 i casi erano duemila: sono decuplicati. E alla malaria vanno aggiunte le malattie respiratorie e gastrointestinali».

Fattori responsabili di questa emergenza sanitaria, così definita lo scorso 20 gennaio dal nuovo governo basiliano guidato da
Inacio Lula da Silva, sono l’invasione delle terre indigene da parte dei cercatori d’oro e la corruzione, che ha distratto le risorse finanziarie destinate ai servizi sanitari per le terre indigene: entrambi fenomeni favoriti dal disinteresse e dall’aperta ostilità del governo di Jair Bolsonaro nei confronti delle comunità originarie dell’Amazzonia brasiliana.

Chiara Giovetti

© AfMC / Trasfusioni di sangue a bambini affetti da conseguenze della malaria


Che cos’è la malaria e come la affrontiamo

La malaria è una malattia umana febbrile acuta causata dal parassita Plasmodium che viene trasmesso attraverso le punture delle zanzare femmine infette del genere Anopheles. Due delle cinque specie di plasmodi responsabili della malaria sono particolarmente pericolose: Plasmodium falciparum, il parassita che causa più morti e anche il più diffuso nel continente africano, e Plasmodium vivax, la specie dominante nella maggior parte dei paesi al di fuori dell’Africa subsahariana.

I primi sintomi – febbre, mal di testa e brividi – di solito compaiono da 10 a 15 giorni dopo la puntura infetta; possono essere lievi e per questo difficili da riconoscere. Senza trattamento, la malaria da P. falciparum può progredire in malattia grave o perfino causare la morte entro 24 ore.

La diagnosi avviene con l’individuazione al microscopio dei parassiti nel sangue del paziente (la cosiddetta goccia spessa) oppure, ove il microscopio non sia disponibile, attraverso test antigenici rapidi, che individuano appunto un antigene, cioè una sostanza estranea al nostro organismo – in questo caso una specifica proteina – prodotta dal parassita nel nostro sangue.

La prevenzione avviene attraverso la profilassi comportamentale, che mira a evitare il contatto con la zanzara vettore del parassita e che si basa sull’utilizzo di zanzariere trattate con insetticida e di insetticidi da spruzzare negli ambienti. C’è poi la profilassi con farmaci antimalarici, che prevede l’assunzione di un ciclo completo di questi farmaci nei momenti di maggiore esposizione al rischio di contrarre la malattia, che si sia o meno già infetti.

Infine, dall’ottobre 2021, l’Oms ha anche raccomandato l’uso del vaccino contro la malaria Rts, S/AS01 per i bambini nelle aree con trasmissione da moderata ad alta della malaria da P. falciparum. La prima parte della sperimentazione di fase 3 (2009-2014) del vaccino ha mostrato una diminuzione di oltre la metà dei casi di malaria nel primo anno dopo la vaccinazione e una riduzione del 40% nei 4 anni successivi. Nella seconda parte della sperimentazione di fase 3 (2017-2020) i partecipanti hanno ricevuto il vaccino appena prima del picco della stagione della malaria: la sua efficacia nel prevenire la malattia è stata intorno al 75%.

Il miglior trattamento disponibile indicato dall’Oms, in particolare per la malaria da P. falciparum, è la terapia combinata a base di artemisinina (Act). Altri principi attivi usati sono la clorochina, la meflochina e numerosi altri di cui l’Oms tiene una lista aggiornata nella quale indica anche quali sono consigliati nelle diverse regioni del mondo.

I motivi di preoccupazione relativi alla malaria – resistenze delle zanzare agli insetticidi e del parassita ai principi attivi nelle terapie, mutazioni genetiche nel parassita che inficiano l’affidabilità dei test e la diffusione delle zanzare Anopheles in zone in cui non erano presenti – sono monitorati dall’Oms e consultabili nella «mappa delle minacce»@.

Chi.Gio.

Fonte: Oms

 

 




Davos in calo, diseguaglianze in aumento


Il 53° Forum economico mondiale di Davos si è svolto dal 16 al 20 gennaio scorsi. Il titolo di quest’anno, «Cooperazione in un mondo frammentato», suggeriva una maggior attenzione ai temi dello sviluppo e della cooperazione. Ma, al di là di qualche iniziativa isolata e limitata, i risultati non sono incoraggianti, specialmente in un tempo in cui le diseguaglianze aumentano ancora.

Nella sua più recente edizione, il Forum di Davos sembra essere tornato alle origini, quando era un evento per manager concentrato sull’economia e sulla finanza e non un vertice su temi geopolitici a cui partecipavano anche capi di stato e di governo. Lo ha scritto Liz Hoffman, ex cronista del Wall Street Journal che oggi scrive per Semafor, la newsletter di notizie fondata da Ben Smith e Justin Smith, due noti giornalisti statunitensi ed ex direttori rispettivamente del sito Buzzfeed e del gruppo di media Bloomberg.

L’European management forum, come si chiamava all’inizio, fu fondato nel 1971 su iniziativa dell’ingegnere ed economista tedesco Klaus Schwab per aiutare le aziende europee a mettersi al passo con le tecniche di gestione usate negli Stati Uniti. Nel 1987 cambiò nome in Forum economico mondiale (in inglese: World economic forum, Wef) e cominciò ad assumere un ruolo sempre più rilevante come evento di politica internazionale: «I leader greci e turchi qui hanno firmato l’accordo del 1988 che ha evitato una guerra», scrive sempre Hoffman su Semafor@.

«I ministri della Corea del Nord e della Corea del Sud si sono incontrati di persona per la prima volta dalla fine del loro conflitto. Shimon Perez e Yasser Arafat si sono dati la mano per una foto. In poco tempo, Davos è diventato il luogo in cui discutere della scarsità d’acqua e della disparità di reddito, un’era che ha raggiunto l’apice con la marcia per il clima di Greta Thunberg nel 2020».

Lo scorso gennaio, a Davos erano assenti molti dei leader mondiali: per gli stati del G7 era presente solo il cancelliere tedesco Olaf Scholz, mentre mancavano sia il presidente Usa, Joe Biden, che quello cinese Xi Jinping. La lista dei partecipanti, riportava Euronews a gennaio@, contava «2.700 persone, tra le quali 52 capi di stato o di governo, 19 governatori di banche centrali, e 116 miliardari, il 40 per cento in più rispetto a dieci anni fa». Fra questi ultimi, tuttavia, non figuravano quest’anno Bill Gates e George Soros, e l’Italia ha mandato solo il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara.

Le iniziative lanciate a Davos

Negli anni, i dibattiti e gli incontri del Forum di Davos hanno anche portato al lancio di iniziative rilevanti nello sviluppo e nella cooperazione, come la nascita dell’Alleanza globale per i vaccini (Global alliance for vaccines and immunisation, o Gavi), che ha contribuito a vaccinare centinaia di milioni di bambini nel mondo.

Anche quest’anno, riporta il sito di approfondimento sui temi della cooperazione, Devex@, sono state avviate alcune iniziative di interesse per lo sviluppo. Una di queste è stata annunciata durante un evento dal titolo: «Sbloccare gli investimenti, non l’aiuto, per i mercati frontiera», cioè i mercati degli stati con sistemi economici più stabili rispetto ai paesi meno sviluppati, ma comunque più a rischio per gli investitori rispetto alle cosiddette economie emergenti.
Costa d’Avorio, Kenya e Tanzania sono tre esempi di mercati frontiera, mentre Sudafrica, Messico e Indonesia lo sono di mercati emergenti.

In questo evento, Samantha Power, che dirige l’agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, Usaid, ha annunciato@ il lancio di un fondo del settore privato che si chiamerà Enterprises for development, growth and empowerment fund (Edge) e che verrà finanziato dal governo Usa con 50 milioni di dollari.

Un’altra iniziativa emersa al Forum è la Coalizione dei ministri del commercio sul clima@, che è composta da 50 ministri di 27 giurisdizioni, con quattro capofila – Ecuador, Unione Europea, Kenya e Nuova Zelanda – e dovrebbe promuovere politiche commerciali utili a far fronte ai cambiamenti climatici attraverso iniziative locali e mondiali.

Grafico tratto dal rapporto di Oxfam sui trucchi dei ricchi per diventare più ricchi.
1. Compra un bene (asset), una compagnia che aumenti di valore e che non sia tassata almeno fino a quando non la vendi.
2. Usa la tua ricchezza per influenzare i politici e i media a tuo vantaggio.
3. Ignora le leggi sulle tasse, tanto le autorità non hanno la capacità di sfidarti.
4. Nascondi le tue entrate e ricchezze in paradisi fiscali.
5. Evita le tasse sull’eredità, ci sono tanti modi per passare senza imposte le tue ricchezze agli eredi.

Il rapporto Oxfam sulle diseguaglianze

Il 16 gennaio 2023, giorno dell’apertura dei lavori a Davos, la confederazione di organizzazioni non profit Oxfam ha pubblicato il rapporto Survival of the richest@ (Sopravvivenza dei più ricchi, ma nella sua versione italiana il titolo è La diseguaglianza non conosce crisi) e Gabriela Bucher, direttrice esecutiva di Oxfam international, il segretariato con sede a Nairobi che coordina la confederazione, ne ha presentato alcuni dei dati salienti proprio al Wef, durante la tavola rotonda dal titolo Reversing the tide of global inequality (Invertire l’ondata di disuguaglianza globale)@.

Il mondo sta assistendo a un’esplosione delle ineguaglianze, ha detto Bucher, la pandemia ha colpito un mondo già molto iniquo, ne ha esposto le fratture e le ha amplificate. Durante la pandemia c’è stata un’accelerazione nell’accumulazione nelle mani di quell’1% dell’umanità – ottanta milioni su otto miliardi – che detiene il 45,6% della ricchezza globale. Questa accelerazione si vede nella redistribuzione della nuova ricchezza creata nel biennio 2021-2022, in cui l’1% più ricco ha ottenuto il 63% di quella nuova ricchezza e il restante 99% della popolazione mondiale il 37%. Prima della pandemia, la proporzione era di circa metà ciascuno.

La soluzione non può venire solo dalla crescita economica, se la redistribuzione rimane così ineguale: «Che cos’è la prosperità e come la misuriamo? Ha a che fare con il Pil oppure con la vita delle persone? A San Paolo del Brasile, per esempio, due persone che vivono a pochi isolati di distanza possono avere un’aspettativa di vita di 22 anni diversa l’una dall’altra».

Occorre un intervento di tipo fiscale: un’imposta patrimoniale fino al 5% sui multimilionari e miliardari del mondo, si legge nel rapporto, permetterebbe di raccogliere 1.700 miliardi di dollari all’anno, sufficienti per far uscire dalla povertà due miliardi di persone e finanziare un piano globale per porre fine alla fame. E i super ricchi continuerebbero comunque ad arricchirsi: il tasso di accumulazione della ricchezza di cui hanno goduto, specialmente negli ultimi tre anni, è talmente elevato che l’aumento dei loro patrimoni sarebbe di gran lunga superiore alla quota che perderebbero per un prelievo del 5%.

Prendendo la lista dei miliardari del mondo stilata ogni anno dalla rivista Forbes e che quest’anno conta 2.668 nomi, Oxfam ha infatti calcolato due possibili scenari da oggi al 2030: nel primo, attraverso interventi fiscali e altre misure redistributive, la ricchezza totale dei super ricchi tornerebbe ai livelli del 2012, cioè a circa 5mila miliardi di dollari. Viceversa, se l’accumulazione dovesse continuare ai ritmi attuali, nel 2030 i membri della lista di Forbes controllerebbe un patrimonio netto complessivo pari a circa 30mila miliardi di dollari: il doppio di quello che, secondo le proiezioni dell’Ocse@, sarà il prodotto interno lordo dell’Unione europea fra sette anni. Già oggi, ricorda il rapporto, 81 uomini detengono più ricchezza del 50% più povero del pianeta e i 10 più ricchi fra loro possiedono di più di 228 milioni di donne africane messe insieme@.

Chiara Giovetti

 

Davos 2023, panel per sblocacre gli investimenti (da screenshot)

Davos 2023, panel sul ridurre le diseguagiianze (da screenshot)


28 marzo, Giornata mondiale della Tubercolosi

Il più recente rapporto sulla tubercolosi pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità stima che nel 2021 si siano ammalate di tubercolosi (Tbc) 10,6 milioni di persone, +4,5% rispetto al 2020. I decessi sono stati 1,6 milioni, di cui 187mila tra le persone sieropositive all’Hiv. È stata la prima volta in diversi anni che i casi di tubercolosi sono aumentati, dopo una diminuzione costante fra il 2005 e il 2020. La pandemia da Covid-19 ha ridotto i servizi sanitari per molte malattie, ma il suo impatto sulla risposta alla tubercolosi è stato particolarmente grave. La conseguenza più ovvia e immediata, si legge nel rapporto, è stata un forte calo globale del numero riportato di persone con nuova diagnosi di Tbc. Con la malattia non diagnosticata e non trattata, più persone sono morte e sono aumentate le nuove infezioni.

La tubercolosi è una malattia trasmissibile che fino alla pandemia da Covid-19 era la principale causa di morte nel mondo provocata da un singolo agente infettivo, anche più dell’Hiv/Aids. La Tbc è causata dal bacillo Mycobacterium tuberculosis, che si diffonde quando le persone malate espellono i batteri nell’aria, ad esempio con la tosse. Si stima che circa un quarto della popolazione mondiale sia stata infettata, ma la maggior parte delle persone non svilupperà la malattia. Senza trattamento, che consiste nell’assunzione di antibiotici, il tasso di mortalità è del 50%. Esiste una forma di Tbc resistente ai farmaci caratterizzata da batteri che sono resistenti almeno all’isoniazide e alla rifampicina, i due farmaci più potenti contro la malattia@. Oggi esiste un solo vaccino autorizzato, il Bcg: permette di prevenire le forme gravi di tubercolosi nei neonati e nei bambini piccoli, ma non protegge abbastanza gli adolescenti e gli adulti, che rappresentano quasi il 90% delle trasmissioni di tubercolosi a livello globale. A settembre 2022, c’erano 16 vaccini candidati nei trial clinici: 4 in fase I, 8 in fase II e 4 in fase III.

La Tbc, ha detto Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, al Forum di Davos lo scorso gennaio@, è la malattia dei poveri, non è più un problema di salute pubblica nei paesi ricchi, dai quali però vengono le risorse necessarie a finanziare gli studi su vaccini e terapie.

Lo schema che vediamo spesso all’opera, ha ricordato Tedros, è quello osservato, ad esempio, con Ebola nel 2014: è bastato che un solo caso arrivasse in un paese ad alto reddito perché anche i paesi ricchi cominciassero a preoccuparsi, tanto che nel 2018, quando vi è stata un’altra ondata di infezioni in Repubblica democratica del Congo, l’impegno per contenerla e trovare un vaccino è stato immediato. Quanto alla pandemia da Covid-19, che fin da subito ha interessato paesi emergenti o ad alto reddito, lo sforzo per contrastarla è stato senza precedenti. Occorre suscitare anche per la lotta alla tubercolosi un simile livello di impegno: per questo il direttore dell’Oms ha annunciato a Davos l’intenzione di istituire un nuovo Consiglio per l’accelerazione della ricerca, cercando di coinvolgere «finanziatori, agenzie globali, governi e utenti finali nell’identificazione e nel superamento degli ostacoli allo sviluppo del vaccino contro la tubercolosi».

Per cercare di creare la volontà politica necessaria a rendere più rapida ed efficace la lotta alla malattia, il direttore del Fondo globale per la lotta contro Aids, tubercolosi e malaria, Peter Sands, ha suggerito alcuni punti di discussione. Il primo è fare leva con i paesi donatori sull’«argomento morale»: anche la tubercolosi è una pandemia; eppure, le risorse investite per contrastarla sono pochissime. Le persone colpite da Tbc non valgono il denaro che andrebbe speso esattamente come quelle colpite da Covid? Un’altra strategia, ha aggiunto Sands, è quella della paura: la tubercolosi ha dei tassi di mortalità che fanno sembrare il Covid una malattia moderata e, anche se la sua trasmissibilità non è nemmeno lontanamente comparabile a quella del coronavirus, l’esperienza di questi ultimi anni ci ha insegnato proprio che non si può contare sul fatto che la trasmissibilità rimanga sempre uguale. Per questo occorre accelerare i tempi per eradicare questa malattia il prima possibile.

Chi.Gio.

Tedros Ghebremesyos direttore generale dell’OMS intervine a Davos 2023 sulla tubercolosi (da screenshot)




Terzo settore e media, un rapporto in costruzione


La relazione fra mezzi di comunicazione e non profit è stata un argomento della presentazione del rapporto dell’«OsservatorioTerzjus», avvenuta lo scorso 21 settembre a Roma. Ne è emersa l’immagine di un notevole potenziale che, per il momento, appare sfruttato solo in parte.

Il Terzo settore fa audience o no? È questa la domanda che Sara Vinciguerra, responsabile comunicazione dell’Osservatorio giuridico del Terzo settore «Terzjus», ha rivolto ai partecipanti della tavola rotonda di cui era moderatrice, durante l’evento di presentazione del secondo rapporto sul tema che l’Osservatorio ha organizzato a Roma lo scorso 21 settembre@.

Indifferenza?

Stefano Arduini, direttore di Vita, mensile dedicato al mondo no profit, ha risposto sì con convinzione@: facciamo questo da trent’anni, ha spiegato, e ora Vita è anche un’impresa sociale che non starebbe sul mercato se non avesse pubblico. Tuttavia, ha detto Arduini, l’audience da sola non basta, almeno non per provocare effetti concreti nella realtà. La pandemia ha generato picchi inediti di attenzione per il Terzo settore e per il suo operato nell’assistere le persone più in difficoltà a causa delle restrizioni; ora quell’attenzione è diminuita, ma è tutto sommato rimasta alta, eppure i media generalisti non sembrano aver raccolto questo spunto per tradurlo in una maggiore e più stabile copertura delle notizie nell’ambito sociale.

Il Terzo settore, ha commentato Arduini, «ha il vento in poppa, ma naviga contro corrente»: vale il 5% del Pil, ha 900mila occupati diretti e altri 400mila indiretti, eppure sia la politica che l’opinione pubblica sembrano rimanere nel complesso indifferenti rispetto a eventi e pratiche che rischiano di danneggiare le organizzazioni attive nel sociale.

Fra questi eventi e pratiche, Arduino ne cita tre:

  • la tentata riforma del servizio civile proposta lo scorso marzo dalla allora ministra per le politiche giovanili del governo Draghi, Fabiana Dadone, in un disegno di legge poi accantonato, ma inizialmente elaborato senza coinvolgere i diretti interessati, cioè gli enti e i giovani@;
  • il persistere dei bandi al massimo ribasso per la fornitura di servizi socia-assistenziali@ ai quali il mondo della cooperazione sociale si oppone con decisione;
  • il rientro di alcuni enti del Terzo settore (Ets) nel campo di applicazione dell’Iva in seguito alla procedura di infrazione n. 2008/2010, avviata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia per garantire il rispetto delle normative sulla concorrenza e che prevede per gli Ets non più l’esclusione dall’imposta sul valore aggiunto ma solo l’esenzione@.

Effetti concreti e produzione di senso

In parziale dissenso da Arduini si è espressa Maria Carla De Cesari, caporedattrice del Sole 24ore per la sezione «Norme e tributi»@. Proprio sulla questione Iva, ha detto De Cesari, i media sono stati capaci di rappresentare le esigenze e le posizioni del Terzo settore e, anche grazie a questa visibilità, «nel giro di poco tempo il legislatore ha preso una pausa», cioè ha inserito nella legge di bilancio 2021 un emendamento che rinvia al 2024 l’entrata in vigore della norma che riporta gli Ets nell’alveo Iva.

Il Sole24 Ore, ha concluso De Cesari, ha creduto nel racconto delle norme perché è il racconto di un mondo che cambia, ma anche nel valore economico di questo racconti. Il Terzo settore «movimenta professionisti che nel cambiamento devono accompagnare gli enti: creare conoscenza e competenza fa parte della mission del Sole, e di Norme e Tributi in particolare».

Di opinione molto diversa è invece Marco Girardo, responsabile dell’inserto di Avvenire «Economia Civile»@, che alla domanda della moderatrice ha risposto con un secco no: «Il Terzo settore non fa audience nell’attuale panorama dell’informazione, perché il “software” di questo panorama è la polarizzazione, che da un lato cerca di assecondare i consumatori per renderli sempre più soddisfatti e dall’altro sobilla cittadini sempre più arrabbiati».

Il Terzo settore sta in mezzo fra questi due poli e i suoi punti di forza sono l’autenticità e la capacità di creare relazioni. Su cento lettori generici di Avvenire, riferisce Girardo, quelli attivi – cioè i lettori che cercano un’interazione, fanno domande e creano una comunità di lettura – sono fra i venti e i trenta. Per il Terzo settore questo numero sale a sessantacinque o settanta su cento, segnando una richiesta di interazione molto più alta, da soddisfare poi attraverso i media più adatti: nel caso di Avvenire, la radio InBlu e i social network.

Nella sua rappresentazione da parte di un media, il Terzo settore in questo momento chiede «un orizzonte di approfondimento culturale forte»: un tempo di cambiamento e di difficoltà come quello attuale genera una forte domanda di senso e, conclude Girardo, «dove c’è una produzione forte di contenuti di senso c’è una riposta» in termini di audience.

Il rapporto con il servizio pubblico

Roberto Natale è intervenuto alla tavola rotonda@ a nome della neonata direzione Rai per la sostenibilità – Esg (= Environment, Social, Governance, ndr), che ha raccolto l’eredità di Rai per il sociale. Il Terzo settore, ha spiegato Natale, fa coesione sociale e questo già sarebbe sufficiente per giustificare l’attenzione da parte del servizio pubblico. A seconda di come viene trattato, poi, può anche fare audience, ma il racconto del Terzo settore è, a prescindere, un tratto costituivo dell’impegno di Rai per la sostenibilità. Quello che manca, constata Natale, è piuttosto il riconoscimento del ruolo politico del soggetto sociale.

Un esempio di questa mancanza è stato la copertura Rai delle consultazioni per la formazione del governo di Mario Draghi nel febbraio 2021, quando per la prima volta un presidente incaricato ha incontrato non solo le forze politiche ma anche i soggetti sociali. La Rai, ricorda Natale, ha seguito con varie dirette le consultazioni con i partiti, ma non quelle con sindacati, rappresentanze ambientaliste e forze sociali. Quella decisione su chi includere e chi escludere dalle dirette è stata indicativa di una sensibilità e la Rai ha bisogno che il Terzo settore la «aiuti a maturare questa sensibilità».

A questo proposito, il Forum del Terzo settore e il ministero del Lavoro, d’intesa con la direzione Rai, stanno cercando di costituire un tavolo di confronto proprio su servizio pubblico e Terzo settore. «Nell’attuale contratto di servizio – il testo che regola gli impegni Rai nei confronti dello Stato e in base al quale la Rai percepisce il canone – è rimasto solo il tema della disabilità e dell’accessibilità, un tema certamente importante ma che non può esaurire il significato del termine “sociale”».

Andare oltre l’immagine di «buoni»

Elisabetta Soglio, responsabile dell’inserto Buone Notizie in edicola il martedì con il Corriere della Sera, è più in linea con Stefano Arduini: se il Terzo settore non facesse audience, se al martedì non avessimo un aumento di copie vendute, ha detto la giornalista, Corriere Buone Notizie non esisterebbe. Si tratta anche di un’audience significativa, come ha dimostrato la presentazione, lo scorso 12 settembre, del libro di Claudia Fiaschi a conclusione del suo mandato come portavoce del Forum Terzo Settore@: nello stesso giorno del dibattito su Corriere TV fra la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e il segretario del Pd Enrico Letta, nei giorni della grande attenzione verso il Regno Unito per la morte di Elisabetta II, a seguire lo streaming sul libro di Fiaschi sono state 398mila persone. «Questo vuol dire che se proponi bene il prodotto, se lo spieghi e lo motivi, le persone ti seguono».

Corriere Buone Notizie, ha ricordato Soglio, è nato nel 2017 anche per andare oltre l’idea che il Terzo settore è quello dei «buoni a cui tirare la giacchetta quando c’è bisogno. Non parliamo solo di buone pratiche, ma proponiamo anche temi: questi temi arrivano poi anche sul quotidiano e prima non c’erano».

Cosa fa notizia e come comunicare

Sara Vinciguerra ha poi chiesto ai partecipanti quali aspetti del rapporto Terzjus si prestano a diventare notizie da pubblicare sulle varie testate.

De Cesari e Arduino hanno citato la sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 26 giugno 2020, che rappresenta una rivoluzione nel rapporto fra Ets e amministrazioni pubbliche. In quella sentenza, infatti, la Corte dà piena applicazione al principio di sussidiarietà contenuto nell’articolo 118 della Costituzione, affermando che gli enti riconosciuti come Ets hanno titolo a coprogrammare e coprogettare insieme alle amministrazioni pubbliche, cioè a partecipare alla definizione e realizzazione delle politiche pubbliche e non solo a fornire servizi in cambio di un corrispettivo, come era previsto dal Codice degli appalti@.

Girardo di Avvenire ha invece sottolineato che una notizia rilevante è emersa proprio durante la presentazione del rapporto, quando il presidente di Terzjus, Luigi Bobba, ha letto il messaggio del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Andrea Orlando, che annunciava l’avvio «dell’interlocuzione con la Commissione europea finalizzata all’invio della notifica delle norme fiscali soggette ad autorizzazione» da parte dell’Ue, autorizzazione necessaria per completare la disciplina fiscale introdotta dalla riforma@.

Roberto Natale della Rai ha individuato come elemento più interessante il valore economico del Terzo settore e il suo ruolo di pilastro dell’economia italiana. Ha poi sottolineato il bisogno di formazione dei giornalisti su temi del sociale: «Vi sento parlare con grande sicurezza, che ammiro, della coppia concettuale coprogrammazione e coprogettazione», ha scherzato: «Ma fermate due giornalisti, uno sono io, e chiedete loro che vi spieghino la differenza». Natale ha fatto presente che da alcuni anni i giornalisti hanno l’obbligo di seguire dei corsi che permettano loro di ottenere crediti formativi: anche per questo, ha sostenuto Natale, se il Terzo settore propone occasioni di formazione i giornalisti le coglieranno.

Elisabetta Soglio di Corriere Buone Notizie ha invece indicato l’impresa sociale come tema «più notiziabile», ma ha anche ricordato il commento, nella tavola rotonda precedente, di Chiara Tommasini della rete CsvNet, che unisce i centri di servizio per il volontariato in Italia. Tommasini ha insistito sull’importanza di dare attenzione agli enti più piccoli e alle difficoltà che si trovano ad affrontare a causa della riforma e anche alla necessità di chiedersi che cosa significhi davvero «piccolo», dal momento che ci sono organizzazioni di dimensioni molto ridotte che hanno però un ruolo fondamentale nel loro territorio.

Comunicare meglio

In chiusura, la moderatrice ha riferito che molti enti si chiedono come fare per comunicare meglio e ha girato la domanda ai partecipanti al dibattito. Fra le risposte, quella di Natale ha sottolineato l’importanza di una comunicazione unitaria da parte degli Ets e ha aggiunto che in questi mesi si definisce il nuovo contratto di servizio Rai, perciò è opportuno che gli «enti si facciano sentire in modo da poter contare negli assetti del servizio pubblico».

Arduini di Vita ha invece ricordato che le oltre 360mila organizzazione del Terzo settore possono aprire profili social a costo zero e ha esortato tutti a immaginare che potenza comunicativa emergerebbe se anche solo un decimo di queste organizzazioni agisse in modo coordinato su un tema al mese.

Chiara Giovetti

 




Siccità, fame e guerra: il mondo a un bivio


Dal punto di vista climatico, l’estate 2022 è stata complicata. La siccità si è aggiunta alla guerra in Ucraina, spingendo quasi 50 milioni di persone, specialmente nel Corno d’Africa, sull’orlo della carestia. Intanto, le negoziazioni per il clima in vista della Cop27 non fanno progressi e il Programma alimentare mondiale fatica a trovare i fondi per assistere chi è in difficoltà.

La Cop27, o Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si svolgerà a Sharm El-Sheikh, in Egitto, dall’8 al 17 di novembre@. Purtroppo, le premesse non sembrano per il momento incoraggianti.

Qualcosa di più potrebbe uscire dai lavori preparatori della Pre-Cop27 previsti questo mese, magari sulla spinta dei dati pubblicati a settembre dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc, nell’acronimo inglese) nel Rapporto di sintesi del suo sesto ciclo di valutazione@, ma anche la Conferenza sul clima di Bonn dello scorso giugno si era conclusa con pochi progressi.

Quella di Bonn è stata la prima occasione di incontro per le parti dopo la Cop26 di Glasgow del 2021. Uno dei suoi obiettivi principali era quello di definire un programma concreto per realizzare i tagli alle emissioni decisi dai paesi del mondo a Glasgow. Invece, riferiscono diverse fonti, fra cui la Bbc, la negoziazione ha subito uno stallo: sul tema delle perdite e dei danni, infatti, le parti non hanno trovato un accordo.

I paesi in via di sviluppo chiedono che Unione europea e Stati Uniti mettano loro a disposizione i fondi necessari a contrastare i danni che il cambiamento climatico sta già provocando nei loro territori. Essi ritengono le due potenze mondiali le principali responsabili delle emissioni che hanno portato all’attuale situazione. Dal canto loro, Usa e Ue respingono queste richieste, temendo che se accettassero di pagare per le emissioni storiche, potrebbero trovarsi costretti a farlo per decenni, se non secoli@.

A complicare il quadro vi è poi la posizione della Cina, oggi principale responsabile delle emissioni con dieci miliardi di tonnellate all’anno, un quarto del totale globale@. La Cina, infatti – ricorda Ferdinando Cotugno sul quotidiano Domani -, per la Convenzione Onu per i cambiamenti climatici, risulta ancora nell’elenco dei paesi in via di sviluppo, come nel 1992, e da quella posizione conduce le trattative sul clima «come (presunto) campione dei paesi in via di sviluppo».

Hunger map 2020 del World food programme

Il cambiamento climatico è già qui

«Il sistema», riporta il pezzo di Cotugno citando le parole dell’esperto della rete Climate action network, Harjeet Singh, «ha i soldi per te, paese in via di sviluppo, se vuoi mettere i pannelli solari, ha i soldi per te se vuoi migliorare l’efficienza termica della tua casa, ma non ha i soldi per te se invece i cambiamenti climatici distruggono la tua casa. Parliamo di azione per il clima, ma le persone stanno soffrendo già oggi, stanno annegando, e noi gli diciamo: non vi possiamo aiutare, ma se sopravviverete, forse vi aiuteremo a prepararvi meglio per la prossima volta»@.

Oggi, a essere distrutte, sono sempre più anche le «case» europee e statunitensi: nel nostro continente, l’estate scorsa è stata la più calda degli ultimi 500 anni@, mentre uno studio della rivista Nature, già a febbraio scorso, indicava il ventennio 2000 – 2021 come il più secco da 1.200 anni a oggi per gli stati sudoccidentali degli Usa@.

Quanto all’Africa, fra Etiopia, Kenya e Somalia, lo scorso agosto erano 22 milioni le persone che avevano difficoltà a trovare sufficiente cibo. Un numero quasi doppio rispetto ai 13 milioni in difficoltà a inizio anno, mentre le persone che non avevano accesso ad acqua pulita erano passati dai 9,5 milioni di febbraio ai 16,2 milioni di agosto.

La maggior parte degli abitanti del Corno d’Africa, riporta Unicef@, dipende dall’acqua fornita da venditori che la trasportano su camion o carretti trainati da asini, e nelle zone più duramente colpite dalla siccità molte famiglie non possono più permettersi di comprarla: ad esempio, il prezzo dell’acqua in Kenya ha subito fra gennaio 2021 e lo scorso agosto aumenti fino al 400% a Mandera, nel Nord del paese, e del 260% a Garissa, città a poco meno di 400 chilometri a Est della capitale Nairobi.

Angola, nel territorio di Luacano

Le difficoltà del Wfp

La regione del Corno d’Africa sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi quarant’anni perché, per quattro volte consecutive, la stagione delle piogge è stata troppo scarsa di precipitazioni e, secondo le previsioni, sarà così anche la prossima. «Ancora non si vede la fine di questa crisi», ha avvertito lo scorso agosto David Beasley, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (World food programme, Wfp), «perciò dobbiamo trovare le risorse che servono per salvare vite umane e impedire alle persone di arrivare a livelli di fame catastrofici».

Le risorse che servono sarebbero circa 418 milioni di dollari per i prossimi sei mesi, ma ottenerli è più difficile anche a causa della guerra in Ucraina, che sta avendo conseguenze dirette sulla capacità del Wfp stesso di ottenere il cibo da distribuire nelle emergenze umanitarie, innanzitutto, in termini di forniture. Nel rapporto sull’approvvigionamento di cibo del 2021@, infatti, si legge che sia Ucraina che Federazione Russa erano fra i primi dieci fornitori dell’agenzia Onu: su 4,4 milioni di tonnellate di cibo, quasi un quinto – principalmente grano e piselli – venivano dalla prima e il 5,5% dalla seconda, che forniva grano, farina di grano, olio vegetale e legumi.

Inoltre, il Wfp prevedeva a marzo scorso che l’incremento dei prezzi del grano causati dalla guerra avrebbero determinato su base mensile un aumento di circa 23 milioni di dollari nei propri costi di approvvigionamento, che si aggiungevano ai +6 milioni di dollari al mese per maggiori costi di trasporto e ai +42 milioni di dollari di costi in più che l’agenzia già stava registrando rispetto al 2019, per un totale di 71 milioni di dollari al mese di aumento@.

Per questo la partenza dal porto di Odessa della prima nave con 23mila tonnellate di grano diretta in Etiopia, resa possibile dall’accordo Black sea grain
initiative sottoscritto da Ucraina e Russia con la mediazione di Turchia e Nazioni Unite, è stata accolta con sollievo@.

«Per fermare la fame nel mondo non basterà l’uscita delle navi dall’Ucraina – dice Beasley -, ma con il grano ucraino di nuovo sul mercato globale abbiamo la possibilità di impedire a questa crisi di aggravarsi ancora».

Borodjanka

La guerra in Ucraina e l’insicurezza alimentare

Ma le conseguenze della guerra in Ucraina vanno oltre le difficoltà del Wfp, e si traducono in insicurezza alimentare per molti paesi in via di sviluppo. Alcuni di questi, riportava l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, in una nota informativa di giugno@, hanno una significativa dipendenza dal grano russo e ucraino. L’Eritrea, ad esempio, importa tutto il proprio grano dai due paesi, la Somalia dipende da questi per circa il 93%, il Pakistan importa circa la metà del suo grano dall’Ucraina e circa un quinto dalla Russia.

Al di là della dipendenza diretta dalle importazioni di cibo, che peraltro alcuni commentatori come Ibrahima Coulibaly, della Rete coltivatori dell’Africa occidentale (Roppa), giudicano irrilevanti@, le conseguenze del conflitto riguardano l’aumento dei prezzi e l’inflazione in generale.

La riduzione della produzione agricola e i blocchi nella zona del Mar Nero, si legge in un aggiornamento pubblicato dal Wfp a giugno@, insieme alle restrizioni commerciali, hanno portato a una ridotta disponibilità di prodotti essenziali e a un forte aumento dei prezzi globali dei cereali: rispetto ai prezzi di gennaio 2022, a maggio l’incremento era stato del 48,6% per il grano, del 28,7% per il mais e del 9,3% per il riso, con implicazioni sui prezzi in tutta l’Africa orientale.

L’aumento dei prezzi del carburante e dei generi alimentari ha, inoltre, spinto al rialzo il tasso di inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto di quelle più povere.

Sempre a causa di sanzioni e aumenti dei costi di produzione, i prezzi globali dei fertilizzanti sono aumentati di quasi il 30% dall’inizio del 2022. Si è così ridotta la quota di fertilizzanti importati in Africa orientale, in coincidenza, fra l’altro, con il picco della principale stagione di semina, quella di marzo-aprile-maggio. Secondo le stime del Wfp, questo potrebbe determinare una diminuzione dei raccolti del 16% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

La pandemia da Covid-19 aveva già fatto aumentare di 161 milioni il numero di persone che soffrivano la fame e, secondo la Hunger Map 2020 (mappa della fame) del Wfp, se l’attuale tendenza continua, nel 2030 le persone affamate saranno 840 milioni@.

Questi calcoli non tengono però in considerazione la guerra, il cui impatto può essere per ora solo stimato: nelle simulazioni della Fao, considerando il calo nelle esportazioni previsto dall’Ucraina e dalla Federazione Russa nel 2022 e 2023 e ipotizzando che la disponibilità globale di cibo non verrà compensata con derrate prodotte altrove, nel 2023 il numero di persone denutrite nel mondo potrebbe aumentare di quasi 19 milioni@.

Funerale di tre fratelli uccisi dalla guerriglia in Colombia

Clima e guerre, un nodo sempre più stretto

La guerra in Ucraina, spiega Champa Patel, che si occupa del futuro del conflitto con il gruppo di ricerca International crisis group, nel suo podcast War & peace@, spiega che la guerra ha anche un impatto negativo sulla lotta al cambiamento climatico, perché il ritorno parziale di molti paesi occidentali a fonti di energia fossili per liberarsi dalla dipendenza dal gas russo, rallenta il cammino verso il raggiungimento degli obiettivi climatici, a cominciare dalla riduzione delle emissioni.

Raggiungere questi obiettivi, spiega Patel, è a sua volta «necessario per evitare che il cambiamento climatico abbia effetti catastrofici, soprattutto in quei paesi che sono già fragili o in conflitto». Il clima non provoca le guerre in modo diretto, ma agisce da «moltiplicatore della minaccia e contribuisce al conflitto esacerbando tensioni che esistono già».

C’è poi un aspetto della guerra e del suo incidere sul clima che a oggi è misurato in modo impreciso: le emissioni del settore militare. Axel Michaelowa, fondatore dell’agenzia di consulenze tedesca Perspectives climate group, ha spiegato all’emittente pubblica Deutsche Welle che le emissioni militari possono raggiungere centinaia di milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno. «Le emissioni annuali dirette dei comparti militari in grandi paesi come Stati Uniti e Regno Unito raggiungono l’1% del totale nazionale», la maggior parte per il funzionamento di aerei da combattimento. Altre derivano anche dalla distruzione delle riserve di carbonio durante le guerre, mentre le emissioni indirette per ricostruire città e infrastrutture dopo un conflitto possono facilmente superare i 100 milioni di tonnellate di CO2: circa un quarto dei gas serra emessi dall’Italia@.

Chiara Giovetti

Campo di girasoli in Ucraina