NEISU (CONGO, RD): QUASI UN DIARIO «IO SONO LUCA»


   Ancora qualche… pennellata di vita missionaria, dal grande e
quasi inaccessibile Congo. Con i problemi di sempre (aggravati dalla
situazione di guerra), e piccoli fatti di speranza… che possono arrivare
anche da un bambino.

 

Un tempo, vedendo
certe ingiustizie in Congo, mi arrabbiavo molto; oggi lo faccio di meno,
non perché l’ingiustizia sia diminuita o io sia diventato insensibile, ma
perché mi vedo impotente. Soprattutto scopro tanta indifferenza. Alla
rabbia di una volta subentra il pianto del cuore.

 Che
delusione!

 Dalla missione di
Neisu (dove opero) penso anche a Gesù che, impotente, piangeva sulla città
di Gerusalemme… I potenti sono preoccupati a produrre e vendere armi, a
costruire scudi spaziali…

A Kisangani, terza
città del Congo, i soldati dell’Onu (sembra che l’Organizzazione si stia
finalmente «interessando» al paese) sono pagati 200 dollari al giorno per
«vedere la situazione» e stendere rapporti.

Ad Isiro (a pochi
chilometri da noi) di questi osservatori ne abbiamo quattro. Il mese
scorso è arrivato per loro un enorme aereo e ha scaricato due bancali
di… bottiglie d’acqua minerale.

Noi, per avere
medicine e quadei per la gente, dobbiamo fare giri impossibili: Kampala,
Butembo, Ariwara… In più, dobbiamo anche pagare tasse elevate, perché
c’è tutta una schiera di funzionari e impiegati che vuole mangiarci sopra.
D’altra parte, è da anni che lo stato non li paga e non sborsa il becco di
un quattrino per i loro salari!

Nonostante tutti gli
osservatori dell’Onu, oro e diamanti del Congo continuano ad arricchire
Uganda e Rwanda. Siamo alla fine dell’anno scolastico e gli alunni della
sesta elementare devono sostenere l’esame di ammissione alla scuola media.
Prezzo dell’esame: 100 franchi congolesi (un dollaro Usa ne vale 140). È
poca cosa, lo so. Ma i genitori non hanno neppure questo.

In questi giorni
alla missione di Neisu c’è una processione di ragazzi e ragazze con
galline, uova, banane da vendere; la speranza è di avere i 100 franchi per
l’esame.

Queste cose, quelli
dell’Onu & affini le sanno? E, se lo sanno, qual è la loro risposta?
Perché, con tutti i mezzi che hanno a disposizione, non potrebbero darci
una mano per il trasporto di medicinali, viveri e materiale scolastico?

Se questo è l’Onu,
non ci resta che piangere.

 Nel
ricordo di Oscar

 Toiamo alle
nostre vicende. Pochi mesi fa, a Egbita, centro protestante a sei
chilometri da Neisu, si è svolta la prima grande assemblea del popolo dei
mangbetu. Ci siamo radunati tutti, cattolici, protestanti, autorità civili
e tradizionali dei tre gruppi che costituiscono la nostra zona: Medje,
Mongomasi e Ndey (vedi box).

Dopo dibattiti e
lavori di gruppo, i capi hanno proclamato, davanti ad oltre 2 mila
convenuti, che i magbetu, durante i funerali, si comporteranno da
«cristiani», astenendosi da tutte le malversazioni e violenze cui erano
abituati. Per noi missionari, l’assemblea di Egbita è stata un successo
pastorale.

Abbiamo anche
celebrato il secondo anniversario della morte di padre Oscar Goapper,
medico dell’ospedale. La commemorazione è stata tenuta in chiesa dal
superiore, padre Rinaldo, con tantissima gente. Dopo la messa, siamo
andati alla tomba per inaugurare un semplice ricordo… La fotografia di
padre Oscar in ceramica, mandata da Vimercate (MI), è una novità assoluta
qui. L’abbiamo incoiciata in una leggera struttura di ferro battuto,
dipinta con i colori dell’Argentina: bianco e azzurro.

Per la popolazione
di Neisu il 18 maggio (giorno della morte di Oscar) è ormai una festa; si
organizzano quindi danze, canti e scenette. Si fa festa anche per Michele,
un infermiere che ha scelto questa data per sposarsi.

Jean Embuama, un
giovane ammalato di Aids, diventa cristiano. Mal ridotto e malfermo, viene
accompagnato da due infermieri al fonte battesimale. Si lascia alle spalle
una vita movimentata e disastrata: diventa figlio di Dio. Nonostante
tutto, lo vedo bellissimo nella sua camicia bianca. Oscar, suo medico, può
essee contento: ha ricevuto delle belle soddisfazioni.

L’ospedale ha un
nuovo medico congolese: è il dottor Joseph. Giovane, neolaureato, con
tanta voglia di rendersi utile: un altro punto in più per il nostro
centro.

Suor Angela vede con
piacere che le fondamenta della scuola matea sono ultimate e i lavori
procedono. Suor Gemma ha iniziato la scuola di taglio e cucito per 45
ragazze, mentre suor Luisa tiene l’ospedale sotto controllo.

Siamo stati tutti a
Isiro con il consiglio parrocchiale, per celebrare i cento anni di vita
dei missionari della Consolata. Durante la messa, sul luogo del martirio
della beata Anuarite, abbiamo pregato per tutti…

Ebbene: i problemi
in Congo non mancano e le delusioni pure; ma la speranza non muore.

Voglio allora
raccontare un episodio che ci aiuti a continuare a credere nella forza
dell’amore e a trovare la strada della vita. Un modestissimo fatto, ma che
mi ha aiutato tanto.


Senza
complicazioni

 Domenica mattina.
Esco di casa e vado in chiesa. Manca mezz’ora alla messa, ma c’è già gente
che aspetta per le confessioni. Mi sto abbottonando la veste bianca e vedo
un bambino, che gioca da solo nel prato. Si accorge di me e mi viene
incontro, stendendo la mano. Lo saluto in lingua kimgbetu: «Mingoru?» (ti
sei svegliato?). Di regola a questa domanda la risposta è: «Bu himmi?» (e
tu?). Lui invece non risponde; mi guarda e sorride. Penso che non abbia
capito; forse non è un mangbetu. Ha inizio così una specie
d’interrogatorio.

«Tu sei mbudu?».
Penso infatti che possa essere un figlio di qualche infermiere mbudu
dell’ospedale. Il bimbo scuote la testa e sorride di nuovo. «Allora sei
certamente zande?». Il mio interlocutore fa ancora cenno di no.

Faccio due o tre
conti mentali: se non è mangbetu, mbudu né zande, sarà il figlio di
qualche moyogo venuto da Isiro per il mercato della domenica, qui a Neisu.

«Tu allora sei
moyogo?» gli dico pieno di sicurezza. Il bambino scuote di nuovo la testa
e, preso da compassione per me, in un bel lingala (la lingua
intertribale), finalmente apre la bocca e mi risponde: «Ngai nazali Luc»
(io sono Luca).

Le tre parole mi
investono come uno scroscio d’acqua pura e fresca. Tutte le mie
complicazioni e congetture sono azzerate. La verità splende sovrana.

– «Io sono Luca».
Perché ti stai a scervellare, ragionando di tribù, catalogando le persone
in schemi precostituiti?

– «Io sono Luca».
Guarda all’essenza delle cose, instaura rapporti semplicemente umani. Non
ti ricordi quanto successe a Einstein quando arrivò in America?
L’impiegato dell’immigrazione gli aveva mostrato un modulo da compilare e,
tra le domande, ce n’era una che chiedeva la «razza»? Einstein non ebbe
alcuna esitazione e scrisse «umana».

– «Io sono Luca».
Parole semplici, ma che mi riconducono ad essere quello che sono, facendo
a meno di tutti i prefissi: ing, dott, prof, mons, don… La rivelazione
ci porta all’origine di noi stessi, senza troppe sovrastrutture che
soffocano e tengono gli altri distanti da noi. Dobbiamo finirla con
razzismo, tribalismo, nazionalismo e tutti i loro parenti.

– «Io sono Luca». È
stata per me, quella domenica mattina, la proclamazione giorniosa del
vangelo: «Ti ringrazio, o Padre, che hai nascosto queste cose ai sapienti
e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli»…

Dopo quell’incontro,
diverse volte ho cercato Luca, ma non l’ho più trovato. Sarà perché qui i
bambini sono tanti e s’assomigliano tutti.

O chissà…

 


Un
convegno su tradizione e modeità


 Antichi
e nuovi diritti

 Si è tenuta qualche
tempo fa, a Neisu, una tre-giorni sul tema: «Diritto civile e costume
tradizionale», organizzata dalla nostra Commissione di Giustizia e Pace.
Hanno presieduto l’incontro il sig. Mukobi, giudice presidente della corte
di Isiro, e il sig. Ntumba, procuratore della repubblica di Isiro. Si
tratta di due persone qualificate, che si sono prestate per parlare ad
un’assemblea «popolare», composta da intellettuali, «chefs coutumiers»
(capi tradizionali) e contadini delle nostre missioni, impegnati nel
settore della promozione umana e diritti dell’uomo.

Gli oratori hanno
discusso, innanzitutto, di diritto civile e organizzazione della giustizia
in Congo, presentando i punti più significativi e alla portata della
gente. Poi hanno parlato del diritto tradizionale, non scritto, mettendo
in luce alcuni aspetti in contraddizione col diritto civile. Si è
considerato soprattutto il codice della famiglia, del 1968, che è un primo
tentativo di unificare gli elementi del diritto tradizionale con quello
civile scritto.

I conferenzieri
hanno evidenziato che i due diritti sono stati unificati in base a tre
princìpi: legge scritta, ordine pubblico e «buoni» costumi. Tutte le
tradizioni contrarie a questi princìpi sono state escluse dal diritto
civile scritto. Essi stessi hanno riconosciuto che ci sono ancora
tradizioni che non concordano con il diritto civile congolese e hanno
esortato i capi (ancora molto influenti) ad abbandonarle.

Nella seconda parte
dell’incontro (quella che maggiormente ha interessato i convenuti) si è
parlato di alcuni comportamenti, espressione del costume locale. In
particolare ci si è soffermati sulle tradizioni riguardanti il matrimonio,
la morte, i funerali, il lutto e le relazioni tra capovillaggio e
popolazione. Sono stati stigmatizzati certi comportamenti come, ad
esempio, dissotterrare e sottrarre con violenza il cadavere, rubare o
distruggere i beni del defunto, malmenare il coniuge che sopravvive
(soprattutto se donna), perché accusato di aver provocato la morte del
defunto.

Circa il matrimonio,
si è parlato della cattiva usanza di pretendere dalla famiglia del marito
(dopo anni dalla celebrazione del matrimonio) un supplemento della dote
già pagata. Inoltre si è discusso della pratica, da parte dei parenti
della sposa, di estorcere denaro dal marito prima che la moglie ritorni da
lui; questo capita quando la moglie si reca dai suoi per il funerale di un
parente.

Sempre nel campo
matrimoniale, si è toccato il problema della poligamia e dello
sfruttamento delle donne da parte dei mariti.

Circa le relazioni
capo-popolazione, è stato affrontato il problema della corvée (lavoro)
obbligatoria nel campo privato dei capi; della tassa da pagare quando si
riceve una convocazione; degli arresti arbitrari e ammende, con somme
superiori alle possibilità del cittadino.

Alla conclusione
della tre-giorni, i partecipanti sono stati invitati a promuovere la
giustizia e la pace, spargendo i frutti dell’incontro in tutta la regione.
Il beneficio immediato è stato lo spirito d’amicizia che si è instaurato
fra i partecipanti, provenienti dalle nostre parrocchie.

Come missionari
della Consolata, pensiamo che questa iniziativa sia fonte di consolazione
per la gente e possa aiutarla a guardare al futuro con più speranza.

Una formula
indovinata, anche per celebrare i cent’anni di fondazione del nostro
istituto.


Rinaldo Do

 

 


I
giovani congolesi…


 parlano
del loro paese in guerra

 

Durante un incontro
con i giovani, Jean Pierre chiede: «Padre, che ne pensi della situazione
attuale del nostro paese? Qual è il destino che spetta a noi, giovani?
Credi tu che, tra questi bagliori di guerra, possa esserci ancora un
raggio di speranza e consolazione?».

Il prete rimanda la
domanda al gruppo: «Ma voi, che cosa rispondereste alla domanda di Jean
Pierre?».

 Daniel

interviene subito: «Ma quale avvenire, ora che è l’uomo col fucile a
dettare legge? Abbiamo solo la sfortuna di non avere un’uniforme e un
fucile come lui. Cosa vogliamo? Cosa pensiamo? Non sappiamo dirlo, ma ciò
che rigettiamo è questa “felicità” ottenuta con le armi: la filosofia,
secondo la quale il diritto e la legge vengono decisi da chi ha le armi».

 Christine
Lust
:
«Per me, la società non offre ai giovani ciò che si aspettano. Essi hanno
bisogno di condizioni favorevoli per costruire il loro avvenire, ma la
guerra blocca tutto. Le perdite, sia umane che materiali, sono pesanti; le
ferite fatte alla popolazione congolese sono dolorose. Da qui il desiderio
di fuga ed evasione, che portano alcuni alla droga e altri in miniera alla
ricerca di oro e diamanti. La scuola, l’insegnamento, il rapporto con i
professori non rispondono al bisogno dei giovani. Allora diventiamo
chiusi, arrabbiati e ci annoiamo…».

 Fiston
Karume
:
«Quando fumo la canapa, devo fare attenzione mentre attraverso le strade,
perché non vedo più le vetture arrivare. Sono due mesi che mi drogo, e
comincio ad avere tic nervosi».

 Charles
Bamba
:
«Da me le cose non vanno bene. Ho solo 13 anni e non sopporto la scuola.
Credo che vogliano rinchiudermi. Allora la mia salvezza è nel bere birra:
sono quasi sempre ubriaco. Ora sto cominciando anche con la droga. Non ho
motivi per farlo; so soltanto che, quando fumo o mi drogo, io fuggo. Fuggo
dalla società. Fuggo dal mio villaggio, dalla mia famiglia, da tutto… e
mi succede di sentirmi meglio. Quando fumo e bevo, sono felice e mi sento
l’uomo più realizzato del mondo. E, dopo una dose di droga, non sento
nemmeno più il bisogno di mangiare».

 Jeannette
Chima
:
«Ho 17 anni, e sono a scuola per preparare un diploma di educazione
pedagogica. Ho compreso che il mio paese è in guerra e io non faccio
niente di serio. Si parla sempre di chi fa la storia, mai di chi la
subisce… I “difensori” dei diritti dell’uomo cosa fanno? Dove sono? Non
sono i primi che boicottano i diritti che pretendono di difendere? Sono
loro stessi che armano rwandesi e ugandesi in Congo, i quali poi
saccheggiano e uccidono.

Portano delle
maschere, che fanno apparire i rwandesi e gli ugandesi; ma dietro le
maschere ci sono loro: americani e francesi. Come sono divertenti. L’Onu,
cosa ha fatto finora? Le crisi del popolo congolese non gli sono
pervenute? E la comunità internazionale non ha orecchi ed occhi? Tutto il
mondo tace la verità; ma perché? Noi vogliamo la pace, il rispetto dei
diritti dell’uomo congolese, la sua dignità di figlio di Dio. Abbiamo il
diritto di vedere il nostro avvenire disegnato all’orizzonte».

 


Dappertutto, nel
mondo,
poeti e scrittori
denunciano situazioni
di guerra e violenza,
le forme di sfruttamento
dell’uomo contro l’uomo.


Un amico di Gesù,
un amico del popolo di Dio
in Congo,
un amico dell’uomo,
sarà insensibile al grido
del popolo congolese?


Dappertutto,
a Kisangani e Goma,
a Bunia e Butembo,
uomini, donne e bambini
gridano, denunciando
le situazioni
di saccheggio e violenza,
di torture e massacro…


Un cristiano
sarà insensibile
a questo grido
che sale dal Congo?
Sarà insensibile al grido
di un giovane congolese
che non vede più
l’avvenire davanti a se?


           
            Jean-Baptiste Sengi

Antonello Rossi




CONGO, RD – Ambasciatori in scarpette e calzoncini

Dal 27 febbraio all’1 marzo, un gruppo di pacifisti
ha raggiunto la regione orientale della Repubblica democratica del Congo
per unirsi alle popolazioni martoriate dalla guerra civile e reclamare
pace e rispetto dei diritti umani.
L’iniziativa ha seminato forti speranze che attendono di diventare realtà.

Sembrava un’idea temeraria e irrealizzabile. È diventata realtà il 26 febbraio scorso, quando un piccolo esercito disarmato di 300 pacifisti sono riusciti a raggiungere il cuore dell’Africa, sfidando una guerra che, in due anni, ha già fatto oltre due milioni di morti. Guidato dalle associazioni «Beati i costruttori di pace», «Operazione colomba» e «Chiama l’Africa», il piccolo esercito disarmato, proveniente in maggioranza dall’Italia, ma anche da Spagna, Germania, Svezia, Norvegia, Francia, Belgio, ha raggiunto, dopo un viaggio di due giorni, la città di Butembo, nella regione del Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo, ricevendo un’accoglienza straordinaria da parte della popolazione. Il loro scopo, per una volta, non era portare aiuti materiali, ma riuscire a imporre, con la semplice novità della loro presenza, una tregua alle parti in guerra.
PROGETTO «VISIONARIO»
A volte la causa della pace ha bisogno di mente visionaria e passione per il gesto profetico: «Anch’io a Bukavu-Butembo» è stata un’azione fuori da ogni schema. All’inizio molti hanno cercato di scoraggiarla, compresa l’ambasciata italiana in Uganda, che alla fine ha dato un importante appoggio logistico ai pacifisti.
L’ispiratore di tale iniziativa, mons. Kataliko, vescovo di Bukavu, nel Sud Kivu, dove originariamente doveva svolgersi la manifestazione, è morto qualche mese prima di vedere l’impresa concretizzarsi: fulminato da un attacco di cuore lo scorso ottobre a Roma, dove era riparato dopo essere stato dichiarato dalle autorità di Bukavu «persona indesiderata», il vescovo ha passato il testimone ad altri, religiosi e laici, che si sono esposti in prima persona sia nella fase organizzativa che durante i tre giorni di incontri e manifestazioni varie.
Che i tempi fossero maturi per un’iniziativa del genere cominciammo a capirlo fin dal nostro arrivo a Kassese, dove peottammo presso il vescovado dopo il primo giorno di viaggio, e a Kasindi, la frontiera tra Uganda e Congo. I militari non ci ostacolavano, mentre la popolazione dei villaggi a cavallo della terra di nessuno ci accoglieva con tanta benevolenza.
Alla frontiera ugandese ci lasciammo alle spalle l’asfalto. A bordo di vecchi pullman, percorremmo a velocità ridotta 180 chilometri di pista in mezzo alla foresta. Su quella strada gli scontri armati erano all’ordine del giorno. In ogni centro abitato la gente salutava con calore al grido di «Amani!» (pace). Erano al corrente del senso della venuta degli europei, grazie al tam-tam delle radio locali. «Non siete osservatori dell’Onu, vero?» domandava qualcuno per sincerarsi. Qui l’Onu non gode di una buona fama: la chiamano «Organizzazione non utile».
Dopo una sosta a Beni, attraversammo Maboya, un villaggio fantasma dopo la calata dei militari ugandesi lo scorso gennaio, e nel tardo pomeriggio eravamo alle porte di Butembo: la sede scelta per la manifestazione, dopo che gli organizzatori sono stati costretti a rinunciare a Bukavu, a causa dell’ostilità del governo locale, in mano ai «ribelli» del Rassemblement congolais pour la democratie (Rcd) di Goma, appoggiati dai rwandesi.
A Butembo apparvero ancora più evidenti le aspettative generate dalla nostra missione tra la popolazione, che si sente abbandonata dal resto del mondo. Migliaia di persone erano ad attenderci, con un’incredibile banda di ottoni e vari gruppi di danze tradizionali. «È il grande cuore del Congo – disse commosso mons. Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, che a 78 anni non ha esitato ad aggregarsi alla nostra carovana della pace -. Ma saremo all’altezza della situazione, privi come siamo di vero potere e di mandati ufficiali?».
SIMPOSIO PER LA PACE
A Butembo i pacifisti hanno partecipato al «Simposio internazionale per la pace in Africa» (Sipa), organizzato dalla Société Civile (un cartello di organizzazioni che si battono per la pace, rispetto dei diritti umani e integrità territoriale del suolo congolese) e dalla chiesa cattolica e protestante; non sono mancati gli interventi di alcuni tra i principali attori politico-militari della regione.
«Simposio» è una parola che non rende esattamente l’idea della «tre giorni» di Butembo. Il Sipa è stato tutto, fuorché un evento accademico. La gente di questa parte del Congo aspettava da tempo di dirsi in faccia e con chiarezza ciò che pensa sul futuro del suo paese, sul processo di balcanizzazione in corso e sulle clamorose violazioni dei diritti umani, perpetrate da tutte le forze in campo, spesso colluse con le potenze occidentali e le multinazionali che sfruttano le straordinarie ricchezze del paese. Le parole pronunciate sono state di una durezza a cui gli osservatori occidentali non sono abituati. Proprio per questo l’evento è stato significativo.
All’apertura dei lavori, dopo il discorso di mons. Melkisedech Sikuli, del vescovo di Beni-Butembo, comparve improvvisamente in sala Jean Pierre Bemba, presidente del Fronte di liberazione del Congo (Flc), l’uomo-forte dell’Uganda nella regione. Sgargiante camicia gialla e rossa, scortato da una decina di militari, il capo del Flc ascoltò impassibile il discorso di Gervais Chiralwirwa, leader della «Società civile» di Bukavu, il quale ammoniva: «Le autorità dicono che siamo dei sovversivi, ma senza i cosiddetti sovversivi la Francia oggi sarebbe governata dalla monarchia assoluta».
La replica di Bemba non si fece attendere. «Per me, che sono un uomo d’affari, non è stato facile scegliere la strada delle armi; ma l’ho fatto per ridare dignità al mio popolo». Poi Bemba ironizzò sprezzante sul nuovo presidente della Repubblica democratica del Congo, Joseph Kabila, che attualmente controlla, con l’appoggio di Zimbabwe, Angola, e Namibia, circa il 50% del paese, paragonandolo a uno dei tanti Luigi della storia della monarchia francese; e concluse riconfermando il suo credo: «Per ottenere la pace a volte è necessario combattere».
Il Sipa chiuse i lavori giovedì 1° marzo, votando un documento solenne nel quale, tra l’altro, si chiede: il ritiro degli eserciti stranieri dal territorio congolese, il disarmo dei vari gruppi armati, oltre ai nazionalisti may may e a quel che resta degli interahamwe, gli estremisti hutu responsabili del genocidio rwandese del 1994; convocazione di una Conferenza intercongolese di pace.
Nonostante il moltiplicarsi dei gesti simbolici di distensione e i numerosi messaggi di incoraggiamento giunti al Simposio, tra cui quelli del presidente della Camera Luciano Violante e dell’Alto Commissario Onu Mary Robinson, nulla lasciava presagire il colpo di scena a cui avremmo assistito al termine della giornata conclusiva.
IL CAPO CHIEDE PERDONO
Lentamente, le circa mille persone presenti in sala defluirono all’esterno e scesero verso il centro della città, percorrendo la lunga e polverosa strada principale che conduce alla cattedrale. A parte il passaggio di un’autoblinda, con i soliti e stucchevoli soldati africani oati di occhiali a specchio e cartuccere a tracolla, l’atmosfera era quella di una festa popolare, in cui bianchi e neri davano in eguale misura il proprio contributo.
La cerimonia finale, che prevedeva una preghiera ecumenica a cui parteciparono anche musulmani e kimbanghisti, si prolungò per buona parte del pomeriggio, mettendo a dura prova la resistenza di tutti. Ma proprio al termine della lunga preghiera ecumenica, ecco l’evento inaspettato, che a buon diritto si può definire «storico»: Jean Pierre Bemba, sale sul palco e, rispondendo alla provocazione di mons. Sikuli e di una portavoce delle donne congolesi durante il Sipa, prende la parola e si rivolge alle decine di migliaia di persone stipate da ore sotto il sole e ammutolite dalla sua comparsa. «Chiedo perdono per tutte le atrocità, violenze e saccheggi commessi da noi militari – dice il giovane, ricco e corpulento signore della guerra -. Ordino immediatamente alle guaigioni dislocate a Kiondo, Musienene e Maboya di fare rientro alle caserme di Beni; invito i religiosi a fare ritorno alle loro sedi».
L’annuncio è accolto dalla folla con un bornato. In quell’oceano di africani, giunti da tutta la regione del Kivu e persino dall’Ituri, dalla disastrata Kisangani, da vari paesi africani come Tanzania, Burundi, Zambia, dopo aver percorso strade insicure e affrontato disagi di ogni sorta, c’è gente che ha perduto genitori, mariti, figli, in una guerra tanto sanguinosa. Ci sono persone incarcerate arbitrariamente, spogliate dei loro averi, costrette a vivere da rifugiati. Per tutti costoro la sorpresa non può essere più grande.
Stupore anche fra le fila di noi bianchi, una composita miscela di studenti, pensionati, obiettori di coscienza, giornalisti, religiosi, scouts, lavoratori d’ogni specie, accomunati solo dalla povertà dei mezzi con i quali abbiamo intrapreso quest’avventura.
SPERANZA APPESA A UN FILO
Solo il tempo dirà se il Sipa ha rappresentato davvero il primo passo per l’avvio di un processo di pace nella regione dei Grandi Laghi. È certo, però, che a Butembo, città di circa 300.000 abitanti, poco più che un gigantesco villaggio, pressoché privo di qualsiasi infrastruttura, assediato dalla violenza di gruppi armati e militari, si è aperto un tavolo per il dialogo. Un tavolo al quale si sono seduti non solo l’Flc di Bemba, la resistenza nazionalista may may e persino i tutsi banyamulenge, poco amati dai congolesi, perché usati dal Rwanda come pretesto per invadere a sua volta il paese, e ambigui alleati di Uganda e Burundi, ma anche la gente comune, quella che di solito è messa ai margini delle complesse trattative della diplomazia internazionale. E questa è forse la vittoria più grande.
Nessuno è così ingenuo da credere che le parole di Bemba pongano fine alla guerra. Ma sarebbe sbagliato credere che costui abbia semplicemente strumentalizzato la manifestazione. Di solito, ci hanno spiegato gli africani incontrati a Butembo, un capo militare non si umilia mai davanti al popolo, al punto da chiedere perdono, quali che siano i vantaggi che potrebbe ricavae. L’evento, insomma, mantiene tutto il carattere di eccezionalità.
Le ultime notizie che giungono dal Congo parlano di prosecuzione del dialogo fra i may may del Nord Kivu e Bemba, osteggiato, però, dai may may del Sud Kivu, i quali ritengono che non si debbano avviare trattative con gli alleati delle truppe straniere di occupazione.
La smobilitazione delle guaigioni dalle località menzionate da Bemba pare sia avvenuta parzialmente; ad ogni modo, i soldati non sono rientrati a Beni, come promesso dal signore della guerra. Inoltre i contatti diplomatici fra Kinshasa e Uganda si vanno intensificando, mentre nuove truppe dell’Onu (uruguayane, senegalesi) sono in arrivo in varie zone calde del paese.
Non è chiaro, infine, quali siano le intenzioni di colui che rimane il presidente ufficiale di questo paese, Joseph Kabila, che al pari di Bemba non ha ricevuto alcuna legittimazione democratica. Il primo ha semplicemente ereditato la carica dal padre, ucciso a gennaio da una guardia del corpo, il giorno-anniversario dell’uccisione di Lumumba, ci hanno fatto notare a Butembo. Il secondo ha conquistato il potere con le armi.
Il futuro rimane ancora incerto. Ne sono consapevoli anche i 300 pacifisti che, in scarpette e calzoncini, hanno animato questa grande azione di diplomazia popolare. Ma continuano la loro mobilitazione in Italia.
Marco Pontoni è giornalista a Trento. Articolo in esclusiva per M.C.

Marco Pontoni




CONGO, RD – Con le mani nel fango

Uno è italiano e l’altro congolese.
Entrambi missionari della Consolata,
alle prese con una nuova missione.
In un lembo di terra fuori del mondo.
E in guerra dal 1996.
Dove tutti sono poveri.
E i pigmei anche discriminati.

In mano a Piero e Clément

«Siamo pazzi o stupidi? O entrambe le cose insieme?». Ce lo domandiamo (senza risposta), mentre varchiamo la soglia della casetta di Bayenga, scuotendo l’abbondante fango dai piedi. Il vescovo di Wamba e i nostri superiori ci hanno chiesto di «far ripartire la missione»! Ma come?
Bayenga è un grosso villaggio, a 23 chilometri da Wamba, sulla strada Niania-Kisangani, nell’Alto Uele (repubblica democratica del Congo). La collettività è nata artificialmente nel tempo in cui si estraeva oro nelle miniere dei dintorni. La popolazione appartiene a diverse etnie bantu: wabudu, walika, waberu…
Bayenga, nel passato recente, è stato un centro importante, perché sede amministrativa della Forminière, una compagnia belga che estraeva l’oro nei villaggi di Mambati, Bolebole e Bonzunzu. La società ha chiuso i battenti già prima dell’indipendenza del Congo nel 1960.
Oggi le miniere sono sfruttate in modo artigianale da migliaia di persone, specialmente giovani, che vengono da ogni parte con la speranza di far fortuna. Purtroppo i cercatori d’oro e diamanti, nella maggioranza dei casi, si riducono ad una vita di miseria materiale e morale.
Dato il degrado sofferto dal Congo durante il regime-ladro del dittatore Mobutu, anche a Bayenga il collasso è totale: ad esempio, non esistono più strade. Ci si sposta a piedi, in bicicletta o al massimo in moto.
Finora la «parrocchia» di Bayenga si è potuta occupare solo saltuariamente della realtà umana. Tuttavia, poiché tanta gente frequenta la zona e gran parte della produzione agricola è destinata a chi lavora in miniera, come missionari ci sentiamo coinvolti direttamente.
Il territorio della missione, oltre Bayenga, comprende altre 16 cappelle succursali, già costituite. Altre due dovrebbero sorgere presto… fra i cercatori d’oro. Di regola queste cappelle sono seguite da animatori di comunità e volontari. La popolazione vive in abitazioni di fango e paglia, costruite lungo la strada. Si contano, complessivamente, 25 mila abitanti, di cui 3.500 cattolici.
La fondazione della missione risale al 1962. I missionari belgi del Sacro Cuore e le suore comboniane italiane, che vi lavoravano, nel 1964 dovettero abbandonarla a causa della ribellione dei Simba. Furono assassinati un sacerdote e un medico, che gestiva un piccolo ospedale.
Nel 1968 a Bayenga ritoò un altro missionario del Sacro Cuore, che lavorò fino alla morte (1980). Successivamente la comunità cristiana si è mantenuta viva grazie all’opera di un catechista, assistito di tanto in tanto da un missionario che veniva da Wamba.
Oggi Bayenga è in mano ai missionari della Consolata, cioè noi due: padre Piero, italiano di 65 anni, e padre Clément, congolese di 42.
Cercando casa
La parrocchia di Bayenga non ha strutture proprie. Finora si è servita dei locali che la società mineraria belga aveva, a suo tempo, concesso alla diocesi di Wamba perché li custodisse, permettendo così la continuazione dell’ospedale e delle scuole. Attualmente la Forminière è proprietà di un congolese.
La missione è costretta a cercarsi un’altra sistemazione, pur provvisoria. Però la nostra casa (tre stanzette) è ancora della Forminière. Ma prestissimo sloggeremo.
Dunque bisogna edificare la missione dalle fondamenta. È prevista la costruzione di un complesso con chiesa, scuole elementari e secondarie, ospedale, nonché locali per le attività parrocchiali e sociali. Le prime strutture saranno in fango. Il tutto poco a poco e in un mare di guai.
Tra le difficoltà, quella cruciale è senz’altro costituita dalla guerra in corso e dallo stato di incertezza che regna nella nazione. È difficile trovare il materiale da costruzione, come cemento, ferro, ecc. Dovendolo acquistare a Kampala, in Uganda, e trasportarlo con aerei privati, i prezzi diventano esorbitanti.
A Dio piacendo e, soprattutto, allorché il paese raggiungerà un minimo di stabilità, si potrà realizzare il grande sogno. Un sogno, però, che noi iniziamo già ora partendo… dal fango.
In barba alle ricchezze
La povertà è una realtà generalizzata, a dispetto delle ricchezze ingenti del paese. Da anni non arrivano più camion con mercanzie. Queste vengono trasportate in bicicletta da giovani, che vanno a Bunia, Butembo e Kisangani percorrendo oltre 1.000 chilometri in due o tre settimane. E spesso ci rimettono la salute.
Quanto alla scuola, su 6 mila ragazzi, solo un terzo ha la possibilità di ricevere un po’ d’istruzione. Noi missionari non possiamo sostituirci allo stato, ma non dobbiamo nemmeno rimanere a guardare. Pertanto la maggior parte delle scuole è gestita dalla chiesa.
A Bayenga abbiamo appena iniziato una scuola secondaria con 29 studenti del primo anno, con aule in fango naturalmente. Nel territorio della missione ci sono anche tre scuole primarie, complete, con un curriculum di sei anni; altre scuole succursali, specialmente per i primi due anni, sono disseminate in vari villaggi. Ma è pochissimo.
La poche scuole funzionano avvalendosi del contributo dei genitori degli allievi: circa 2.700 lire l’anno. Da tale entrata si ricava lo stipendio degli insegnanti. Questi a loro volta, per sopravvivere, si arrangiano coltivando i campi e, talora, «si fanno aiutare» dagli alunni.
La cronica penuria di mezzi impedisce alla maggioranza di studiare. Le più penalizzate risultano le bambine: devono anche dare la precedenza ai maschi, mentre loro restano in casa ad aiutare la mamma e accudire i fratellli più piccoli.
La missione gestisce pure un piccolo dispensario medico. Per la popolazione è un punto di riferimento importante, perché l’ospedale di Wamba è lontano e l’unico mezzo per arrivarci (per chi può permetterselo) è la bici. Nel dispensario lavorano due infermieri e tre ostetriche. Funziona con l’apporto economico (del tutto insufficiente) dei malati… C’è bisogno di materiale da laboratorio, medicine, letti e di riparare le strutture cadenti.
L’evangelizzazione, in senso stretto, viene portata avanti con la collaborazione essenziale degli animatori di comunità. Sono un centinaio di buoni cristiani, che lavorano come volontari a tempo parziale. La missione li aiuta per le cure mediche e in caso di estrema necessità. Per loro abbiamo programmato incontri di formazione della durata di quattro giorni, per altrettante sessioni annuali.
Ovviamente la missione si fa carico di vitto, alloggio ed altre necessità. Un sacrificio non indifferente, ma necessario per fare crescere la comunità che il Signore ci ha affidato.
ultimi i pigmei
Un’altra realtà importante, che ci ha spinto ad accettare la missione di Bayenga, è la presenza di alcuni accampamenti di pigmei (bambuti). Si calcola che, nel territorio, la popolazione pigmea sia di circa 2 mila persone. Spesso nomadi, i pigmei vivono di caccia e raccolta, in relativa simbiosi con i bantu. Di regola risiedono nella foresta e, dopo il tempo della caccia, ritornano agli accampamenti per scambiare i propri prodotti (carne affumicata, miele e frutti della foresta) con quelli agricoli dei bantu.
La convivenza con le etnie bantu non è né semplice né pacifica, perché queste ritengono i bambuti degli esseri inferiori e senza diritti: da alcuni sono considerati una specie intermedia tra la scimmia e l’uomo. Con la possibilità di fare confusione!
Anche nei loro accampamenti i pigmei non sono del tutto liberi, ma spesso vengono considerati «proprietà» di un capo o di un membro della famiglia regnante. Ad esempio: quando un’autorità ha bisogno di qualcosa, non ha che da dire al suo luogotenente: «Manda subito i tuoi pigmei a cercare carne e miele per me!».
Il baratto con i bantu si fa anche con alcornol e droga. Così i bambuti si abbrutiscono sempre di più.
I pigmei, rinomati per le danze, in molte occasioni vengono invitati nei villaggi per rallegrare le feste dei bantu. Questo li tiene occupati per mesi. Nel frattempo continuano a cacciare selvaggina nella foresta, pena la sopravvivenza.
C’è il problema dell’alfabetizzazione. Sono stati fatti dei tentativi per convincere i pigmei a mandare i loro figli a scuola; ma i risultati sono deludenti. Oggi si sta prospettando un «insegnamento speciale» con programmi e tempi adatti. Però le difficoltà sono tante (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2000).
Nel nostro lavoro missionario riteniamo prioritario stabilire rapporti di amicizia con i gruppi minoritari e discriminati e riconoscere la loro cultura. Fra i pigmei, oltre ad insistere affinché mandino a scuola i loro bambini, li assistiamo con cure mediche e li incoraggiamo a coltivare campi «propri», per rompere la dipendenza economica dai bantu.
Si sta pure valutando come introdurre i bambuti nel catecumenato cristiano. Forse ci vorrà un lungo periodo di pre-catecumenato per portarli ad accettare e vivere alcune esigenze fondamentali del vangelo.
Nella missione di Bayenga tutti sono poveri, ma i pigmei sono miseri. Veramente gli ultimi.

PIGMEI PROTAGONISTI

La diocesi di Wamba ha, da sempre, desiderato una vera integrazione dei suoi 35.200 pigmei (dei quali 7.500 bambini), che popolano una buona parte delle sue 18 parrocchie.
Popolo nomade che vive di pesca e caccia, i pigmei sono considerati i primi e più antichi abitanti della foresta dell’Uele e dell’Ituri; eppure, a causa del loro modo di vivere, sono sempre stati lasciati al margine e discriminati.
Di fronte a questa ingiustizia, ci sono stati diversi tentativi di avvicinamento e accoglienza. In modo timido, all’inizio, la diocesi di Wamba aveva sognato di integrarli nell’ambito della società modea; per questo era stata decisa la creazione della prima scuola per pigmei già nell’anno 1959, nella parrocchia di Nduye e, nel 1984, di un centro di formazione per pigmei a Imbau, diretto da padre Pedro (missionario spagnolo) e suor Docita (olandese).
Ma si è dovuto aspettare il 1989 perché l’idea si concretizzasse meglio e diventasse realtà. È nato il «Progetto diocesano pigmei», la cui espressione «visibile» sono state le scuole per pigmei nelle parrocchie di Mungbere, Bangane e Maboma.
Il progetto ha come obiettivo l’integrazione e lo sviluppo totale dei pigmei, rispettando le loro esigenze e abitudini. Per esempio, la scolarizzazione dei ragazzi (e, quindi, il… calendario) deve tener conto della realtà «della foresta»; le lezioni vengono interrotte durante la stagione secca (gennaio-marzo), essendo il periodo favorevole alla ricerca e raccolta di miele selvatico.
La scuola segue una metodologia speciale, rispettosa della cultura pigmea. Le lingue da insegnare, come swahili, lingala e francese, non devono annientare la lingua matea. Il metodo ORA (osservare-riflettere-agire), concepito e strutturato da fratel Antonio Huysman del Camerun, sembra essere il migliore finora adottato.

La scuola non è l’unica preoccupazione del progetto.
C’è anche la pastorale, che ha di mira una vera promozione dei pigmei, considerati alla stessa stregua degli altri gruppi etnici: è chiamata a collaborare in diversi ambiti, come l’agricoltura, il commercio, la salute, ecc. Nessuno ignora quanto i pigmei restino insuperabili in materia di caccia, pesca e uso di alcune medicine naturali. Forte di questi elementi, i pigmei si impongono come partners con cui si deve lavorare in uguaglianza, invece di considerarli esseri inferiori.
Secondo Laurent Badukanayaa, cornordinatore aggiunto del progetto diocesano, il vescovo Janvier Kataka ha rafforzato l’impegno verso i pigmei, inserendolo però nel piano più vasto di un cammino d’insieme, per assicurae la continuità. La pastorale mira all’integrazione dei pigmei e di altre etnie nell’unica chiesa, famiglia di Dio, e nell’unica società congolese di oggi.
L’iniziativa della diocesi di Wamba è lodevole per il fatto che questi nostri fratelli, «primi abitanti del paese», sono sempre rimasti ai margini della società modea, nonostante i mille tentativi fatti per la loro integrazione.
Ora è il loro momento di… entrare in scena e diventare protagonisti!

Piero Manca e Balu Futi




I balcani del Congo (RDC)

U na mano aveva scritto con un bastoncino carbonizzato: «Signore, mandaci subito papà Kabila! Altrimenti moriremo tutti!». Tale grido di aiuto in un paese in guerra compariva ad Isiro, nel nord della repubblica democratica del Congo (RDC), sul muro esterno della casa dei missionari della Consolata.
Sono le 7 del 18 aprile 2000. Un’ora dopo, la scritta viene cancellata dai soldati dell’Uganda, che occupano il territorio. Non sono i soli stranieri in Congo: a Kisangani e Bukavu spadroneggiano i rwandesi, cui si ascrivono persino atti di cannibalismo. Ugandesi e rwandesi, ieri alleati di Kabila per abbattere il famigerato Mobutu, oggi sono in guerra contro il nuovo presidente. E sono pure ai ferri corti fra loro.
Non mancano i «signori della guerra» locali: Ilunga, Wamba, Bemba… armati con i proventi dell’oro e dei diamanti. Oro e diamanti di cui fanno man bassa anche Uganda e Rwanda.
C’è lo stesso «papà» Kabila, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia che, tuttavia, non sono in Congo per «carità cristiana». E, infine, i ribelli congolesi appartenenti al movimento Mai-Mai. «Siamo pronti alla guerriglia su tutto il territorio, se divideranno il Congo come una torta» dichiarano. Nel frattempo non stanno con le mani in mano.
Il nuovo Congo nacque il 17 maggio 1998 sulle ceneri dello Zaire. Ma fra i nuovi padroni del ricco e vasto paese scoppiò subito la rissa, che ha portato all’attuale anarchia. O balcanizzazione del paese, mentre Stati Uniti e Francia stanno a guardare: gli uni strizzando l’occhio all’Uganda e l’altra ammiccando a Kabila.

P asqua nella missione di Pawa, a 60 chilometri da Isiro. Nella chiesa superaffollata, durante l’eucaristia un missionario domanda: «La guerra è peccato?». L’assemblea tace: forse il quesito l’ha colta alla sprovvista. Poi una voce mormora: «La guerra è peccato». «La guerra è peccato» ripete subito un altro. «La guerra è peccato» sentenzia alla fine tutta la folla in un crescendo drammatico.
«È la prima protesta pubblica contro questa guerra assurda – ci confida il missionario -. La gente finora l’ha esorcizzata con il silenzio».
Non lontano tre soldati ugandesi siedono all’ombra di un mango. Dopo alcuni convenevoli, accettano di parlare. «Noi non vogliamo la guerra. Il fucile uccide, uccide anche noi. Ma che possiamo fare contro i nostri capi?».

A eroporto di Fiumicino, 12 maggio. Dopo 28 giorni di assoluto digiuno giornalistico, acquistiamo un quotidiano per leggere in prima pagina: «Guerriglia degli ultrà laziali. Sconvolto il centro di Roma. Tifosi caricati dalla polizia con lacrimogeni: 12 feriti, di cui 10 agenti. Auto danneggiate e vetrine sfasciate».
Con noi c’è un congolese, che capisce l’italiano. «Povero Congo e povera Italia!» commenta.

Francesco Beardi




Rdc. Allagamenti in tutto il Paese

A inizio anno la piena del fiume Congo ha toccato 14 province sulle 26 totali. Il livello del fiume ha superato i 6 metri, quando 6,26 è il record assoluto. Il fiume è straripato in seguito alle piogge torrenziali del 4 gennaio scorso. Diverse strade e abitazioni di Kinshasa sono state colpite.

Le inondazioni sono state significative, soprattutto nei comuni che si affacciano sul fiume. Si tratta, in particolare, di Ngaliema, Bumbu, Limete e Maluku. Nel comune di Ngaliema, le acque hanno sommerso tutto, rendendo ancora più precarie le condizioni di vita già difficili della popolazione.

Nei comuni di Limete e Bumbu, dove le strade sono diventate impraticabili, le attività commerciali stanno affrontando molte sfide. Gli ambulanti sono i più colpiti da questa calamità. Inoltre, la maggior parte dei negozi non è più accessibile.

Vie e strade allagate, le persone usano le barche tradizionali o vanno a piedi per accedere alle loro attività quotidiane o ai loro affari, con il rischio di contrarre diverse malattie dalle acque inquinate.

Un magazzino divelto ha liberato il suo contenuto (bottiglie di bibite) nelle acque. Foto Archivio MC.

La popolazione cerca di costruire muri protettivi che possano aiutarla a prevenire il danneggiamento delle case: è l’unico modo per mettere in salvo le proprietà. Ma la situazione rimane insostenibile. La gente attende disperatamente che le autorità municipali intervengano in loro aiuto.

Kinshasa non è l’unica città colpita da queste piogge torrenziali. Anche molte altre province sono state coinvolte. Tra queste, la provincia del Kivu nella parte orientale del Congo, Boma, nella zona occidentale e Kananga nel centro. Tutte hanno dovuto affrontare gravi inondazioni e frane.

Trecento persone hanno perso la vita, circa 43mila case sono crollate. Inoltre, 1.325 scuole, 269 dispensari e 85 strade sono stati distrutti, e persiste un alto rischio di epidemie causate dalle acque.

Con la stagione delle piogge in corso, le popolazioni congolesi potrebbero affrontare ulteriori problemi di questo tipo, a meno che non vengano prese precauzioni urgenti. Kinshasa, come altre province, ha bisogno di un’adeguata pianificazione urbana per evitare disastri analoghi nel futuro.

Nel frattempo, le popolazioni colpite hanno bisogno di aiuto immediato.

Jean Kamuanga

In moto “sulle” acque, nei pressi di Kinshasa. Foto Archivio MC.




Denis Mukwege, l’uomo che vuole curare il Congo

C’è un nome, nella lista dei 26 candidati che il 20 dicembre si sfideranno per la presidenza della Repubblica democratica del Congo (Rdc), che colpisce più di ogni altro: quello di Denis Mukwege, ginecologo, attivista per i diritti umani e vincitore del premio Nobel per la pace nel 2018 (MC ne parla qui).

Originario di Bukavu nel Sud Kivu, Mukwege ha passato buona parte della sua vita a prendersi cura di bambine, ragazze e donne vittime di violenze e abusi sessuali. Atti brutali, diventati un’arma di guerra sempre più diffusa nelle regioni orientali della Rdc, da decenni dilaniate da continui conflitti armati. Soprannominato «il medico che ripara le donne», nel 1999 alla periferia di Bukavu, Mukwege ha fondato il Panzi Hospital, una struttura specializzata nella tutela della salute materna e sessuale, ma soprattutto nella cura fisica e psicologica delle vittime di violenze, abusi e stupri.

Ma Mukwege non è solo un medico, è anche un attivista, capace di far giungere le sue parole di condanna della violenza sulle donne alle Nazioni Unite e di vincere il premio Sakharov per la libertà di pensiero (2014) e il Nobel per la pace (2018). Tracciando un filo rosso tra diverse epoche e conflitti nel mondo, Mukwege ha denunciato l’uso sistematico dello stupro come arma di guerra e si è spinto fino a criticare duramente le istituzioni politiche di Kinshasa. Incapace di porre fine ai conflitti nell’Est e di garantire un adeguato accesso ai servizi di base tra cui quelli sanitari, secondo Mukwege, lo Stato congolese è responsabile, tanto quanto gli attori armati, di violenze, abusi e stupri nei confronti delle donne.

È per questo che la sua discesa in politica è stata accompagnata da un’ondata di entusiasmo, sia nel Paese sia a livello internazionale. Lo dimostra il fatto che, nell’assenza di un partito strutturato alle sue spalle, sia stata la società civile dell’Est – con le donne in prima linea – ad aiutarlo a raccogliere i 100mila dollari necessari per candidarsi. In uno Stato dove corruzione, povertà e sfruttamento di risorse e popolazione sono la norma, Mukwege, per i suoi sostenitori, rappresenta la speranza di un cambiamento.

Le parole con cui inizia il suo progetto sociale, dal titolo «Riparare e curare il Congo», sono emblematiche: «Non mi sono candidato per cominciare una carriera politica. Mi sono candidato per tre obiettivi: la fine della guerra, della fame e dei vizi». Mukwege evidenzia le principali problematiche del Paese e avanza proposte che spaziano dalla governance alle infrastrutture, dal clima all’accesso equo a educazione, sanità e nutrizione.

Prima, però, c’è un’elezione da vincere e gli ostacoli, come gli interrogativi sulla trasparenza del processo elettorale, non mancano. Mentre la presenza di ben 25 candidati di opposizione crea un concreto rischio di dispersione dei voti a vantaggio del presidente uscente, Félix Tshisekedi. Da qui, l’ipotesi di creare una coalizione che riunisca l’opposizione a sostegno di un solo candidato, il ricco uomo d’affari ed ex governatore del Katanga, Moïse Katumbi. Ma, per ora, Mukwege non sembra aver ancora rinunciato al sogno di provare a curare il suo Paese.

Aurora Guainazzi




Nord Kivu senza pace


Nell’est del secondo paese africano per superficie, tra i più ricchi di risorse, imperversano gruppi armati sostenuti da paesi confinanti. Gli stessi sono alleati della Rdc a livello regionale. Le contraddizioni sono forti. Come pure non si spiega la presenza della missione Onu per la pace che in 23 anni non ha dato risultati. Ce ne parla un attivista per i diritti umani di Goma.

Nell’est della Repubblica democratica del Congo, da circa un anno la milizia M23, sostenuta dal Rwanda, sta causando grandi spostamenti di popolazione. Secondo il sito umanitario Reliefweb, al 31 gennaio 2023, gli attori umanitari e statali hanno stimato in almeno 602mila unità il numero di persone sfollate a causa della guerra nei territori di Rutshuru, Nyiragongo, Masisi, Walikale, Lubero e nella città di Goma (capitale del Nord Kivu). Nel marzo 2023, il numero di sfollati solo intorno alla città di Goma è stimato in circa 200mila.

Julienne, residente a Goma nel quartiere di Ndosho, descrive la loro situazione: «Abbiamo sofferto nella Rdc orientale per molto tempo. Ho visitato alcuni campi di sfollati. Non hanno riparo dalla pioggia, né servizi igienici, né bidoni della spazzatura, né cibo o vestiti. Alcuni hanno preso il colera. Una volta arrivati a Goma, alcuni vengono accolti in famiglie allargate, ma non hanno mezzi per sopravvivere sul lungo termine. Sperano di tornare nel loro territorio dove hanno lasciato tutto. A Goma sono aumentati i prezzi dei prodotti alimentari al mercato. Le strade sono chiuse, la guerra ha bloccato tutte le aree da cui proviene il cibo. I negozi non hanno più nulla da vendere».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Kanyaruchinya. Pascal Martin 2022.

M23 alla ribalta

Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, i ribelli dell’M23 hanno paralizzato le strade principali che collegano Goma al resto della provincia.

In quella zona, a una trentina di chilometri dalla città, sono stati dispiegati i soldati burundesi presenti nella Rdc come membri della forza militare della Comunità dell’Africa orientale (Eac). Con base a Mubambiro, le truppe burundesi si sono unite a un contingente dell’esercito keniano, di circa mille uomini, schierati a Goma e dintorni dal novembre 2022.

Sempre a marzo, molto più a nord, nel territorio di Beni, anch’esso nella provincia del Nord Kivu, più di quaranta persone sono morte in un nuovo attacco attribuito ai ribelli dell’Adf (Allied democratic forces), affiliati al gruppo Stato islamico. L’Adf ha origine da ribelli ugandesi, in prevalenza musulmani, che sono arrivati nell’est della Rdc a metà degli anni ‘90 e sono accusati del massacro di migliaia di civili.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni Don Bosco. Pascal Martin 2023.

La voce dei diritti

Abbiamo intervistato Christophe Mutaka, attivista per i diritti umani e direttore del gruppo Martin Luther King a Goma.

Signor Mutaka, può riassumere il lavoro del gruppo Martin Luther King?

«Organizziamo le nostre attività con pochi mezzi. Realizziamo un lavoro di monitoraggio, che ci aiuta a sapere cosa avviene sul campo in modo che, in futuro, coloro che compiono gravi e massicce violazioni dei diritti umani, compresi crimini di guerra e crimini contro l’umanità, e persino atti di genocidio, non sfuggano alla giustizia internazionale.

Negli ultimi mesi, il gruppo Martin Luther King, al fine di evitare che la situazione degenerasse in atti di violenza etnica, ha fatto sensibilizzazione affinché le persone distinguano chiaramente e non confondano coloro che sono al fronte o sul campo di battaglia con le popolazioni civili che non sono responsabili di ciò che accade, indipendentemente dalla loro origine etnica.

Ma continuiamo anche a monitorare ciò che avviene in prima linea affinché gli autori di crimini di guerra, massacri e atti di genocidio siano identificati.

Sono un esempio i massacri di Kishishe e Bambu nel territorio di Rutshuru. Atti che non potranno rimanere impuniti perché i loro autori sono noti e identificati. La documentazione raccolta consentirà alle generazioni future di chiederne conto. Nella parte settentrionale della provincia del Kivu, le persone sono state massacrate per più di un decennio. Molte di esse appartengono alla comunità nande nel territorio di Beni.

Per quanto riguarda gli sfollati, ovvero persone che hanno lasciato i loro villaggi d’origine temendo per la propria vita e che si sono trovate in pericolo a causa dei disordini, anche nel loro caso gli autori delle violazioni dei diritti umani che hanno subito potrebbero essere perseguiti».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni a Mugunga. Pascal Martin 2022.

Perché e quando l’M23 ha ripreso i suoi attacchi nella parte orientale della Rdc?

«La ripresa degli attacchi, in particolare quelli dell’M23, risale al marzo 2022. Affermano di averli ripresi perché la comunità tutsi (etnia presente in Congo, Rwanda e Burundi, ndr) è minacciata. Ma non è vero: essi si trovano nel governo a livello nazionale, sono presenti nell’Assemblea nazionale, nel Senato, nelle aziende statali e parastatali, nelle aziende private strategiche, nell’esercito e nei servizi di sicurezza. È quindi inaccettabile che si descrivano come una minoranza minacciata o schiacciata del paese. I tutsi hanno tra i membri della loro comunità ministri, generali, alti ufficiali dell’esercito.

L’argomento della minaccia non regge. Come prova, i banyamulenge (tutsi congolesi, ndr) che l’M23 dovrebbe difendere, hanno dichiarato che preferiscono risolvere le loro questioni da soli, con gli altri congolesi.

Il secondo argomento è il rientro nelle loro terre dei rifugiati tutsi che sono ancora nei campi in Rwanda e Congo. Qui nessuno è contrario al loro ritorno, ma sarebbe necessario identificarli in anticipo, conoscere il loro luogo di origine e sapere da quale villaggio provengono. La contraddizione è che quando l’M23 attacca il Congo, crea insicurezza nelle loro zone di origine. Inoltre, c’è il timore che, nella confusione, approfittino del ritorno dei rifugiati per fare arrivare ruandesi non di origine congolese, che quindi non possono indicare il loro villaggio di provenienza.

Infine, questi gruppi richiedono di essere integrati nell’esercito. Anche questo non sta in piedi. Molti ufficiali tutsi, maggiori, colonnelli e caporali sono già nell’esercito, mentre la legge congolese proibisce il reclutamento collettivo di ribelli. Ognuno si fa arruolare individualmente.

Queste argomentazioni ci sembrano quindi infondate e noi pensiamo che le ragioni della ripresa delle ostilità siano altre.

In Rdc vivono circa 450 gruppi etnici che sono ciascuno una minoranza rispetto al resto. La minoranza tutsi non è la più piccola comunità del Paese. Ci sono gruppi etnici più piccoli dei tutsi che non usano questi argomenti di discriminazione. La tutela delle minoranze è garantita dalla Costituzione. Inoltre, non è corretto usare le armi per rivendicare diritti.

Occorre dunque operare una netta distinzione tra coloro che hanno preso le armi contro la Repubblica democratica del Congo (ad esempio l’M23) e i civili che non hanno nulla a che fare con il conflitto armato».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni a Mugunga. Pascal Martin 2022.

La Rdc fa parte della Comunità dell’Africa dell’Est (sigla inglese, Eac), come il Rwanda che però sostiene l’M23. Questa posizione non è contraddittoria?

«Rispetto all’impegno dell’Eac, ci sono cose che non si comprendono. Ad esempio, come sia possibile che la Rdc rimanga suo membro mentre un altro la attacca, e come mai gli altri membri non prendano posizione. Come società civile, avremmo trovato normale che la Rdc si ritirasse dall’Eac, perché non possiamo rimanere membri di una unione che mantiene un silenzio colpevole di fronte all’aggressione di uno dei suoi membri. Anche l’impegno delle truppe Eac a fianco delle Fardc (Forze armate della Rdc) è difficile da capire. Come le truppe burundesi abbiano attraversato il Rwanda per venire a combattere l’M23 in Congo è qualcosa che non possiamo comprendere. Tuttavia, il Rwanda è membro dell’Eac.

Quindi c’è un gioco di menzogne in questa alleanza, e questo spiega perché ci sono state manifestazioni qui a Goma per chiedere alla Rdc di lasciare l’Eac. Una volta fatto questo, il nostro Paese sarà in grado di cercare sostegno militare o di altro tipo da qualsiasi altro paese del mondo».

Alcuni capi di stato hanno recentemente visitato la Rdc. Possiamo ricordare la visita del sovrano belga, re Filippo, del presidente francese, Emmanuel Macron e del presidente dell’Angola, João Lourenço. Ma anche la visita di papa Francesco. Questo balletto diplomatico ha cambiato qualcosa sul terreno?

«A parte il Papa, le altre autorità che ha citato hanno un’agenda nascosta, che include interessi sulla guerra che si svolge nella Rdc. È quindi normale che il loro passaggio non possa cambiare molto sul terreno.

La Francia, ad esempio, in quanto membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dovrebbe essere in grado di influenzare i suoi membri per fermare la guerra in Congo. Ma, poiché ci sono altri interessi, le visite non hanno cambiato la situazione.

Neppure la popolazione congolese ha capito il significato di queste visite.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Kanyaruchinya. Pascal Martin 2022.

La visita del Papa, invece, è ben diversa. È stata un campanello d’allarme per la popolazione congolese in generale. Nel suo messaggio, Francesco ha detto ad alta voce ciò che tutti stanno sussurrando: ha parlato del coinvolgimento occidentale nella crisi che ha lacerato la Rdc per più di due decenni. Quando il Papa chiede di “togliere le mani dalla Rdc e dall’Africa”, denuncia queste ingerenze esterne.

Come in Burkina Faso, che non ha avuto una guerra prima che i suoi minerali fossero scoperti, o il Nord del Mali, dove sono state scoperte risorse naturali. Tutte risorse di interesse per l’Occidente, e quindi portatrici di guerre. Il commercio di armi è anch’esso un grande business.

Nessuno combatterà per la Rdc, a parte noi congolesi. Le autorità devono capire che gli unici amici del Congo sono i congolesi stessi. Tutte queste missioni esterne vengono nel Paese per interessi personali e non per quelli della Rdc e del suo popolo.

Ad esempio, la missione delle Nazioni Unite è qui da più di 20 anni, la più grande missione di pace delle Nazioni Unite nel mondo. Ma la pace è arrivata? C’è la guerra con scontri continui a soli 30 km da Goma. E i caschi blu dell’Onu sono sul posto.

Capiamo quindi, che tutte queste missioni, che si tratti dell’Eac o delle Nazioni Unite, non sono venute per il Congo, ma per qualcos’altro.

Dobbiamo identificare chi, nel nostro Paese, sostiene la guerra e chi la sostiene al di fuori del Paese. Sarà quindi necessario attaccare gli interessi di coloro che fomentano la guerra, in modo che capiscano che non vale la pena avere le risorse della Rdc passando dalla finestra, ma devono passare dalla porta. Ovvero ottenere le risorse dai congolesi stessi.

Se i paesi occidentali, le multinazionali vogliono sfruttare le risorse naturali del nostro territorio, stabiliscano una partnership alla pari con il Congo, invece di massacrare l’intera popolazione solo perché abbiamo minerali».

In questo anno elettorale, quali sono le correnti di opposizione che possono presentare un’alternativa e canalizzare le aspirazioni del popolo?

«In quest’anno elettorale la posta in gioco è alta. Non dimentichiamo che alcuni politici a caccia di poltrone vogliono approfittare di questa situazione di guerra per posizionarsi e ottenere il sostegno di alcuni Stati occidentali.

Abbiamo anche le nostre responsabilità come congolesi. Siamo in parte responsabili delle nostre disgrazie perché siamo noi che votiamo per le persone che governano il paese. Accettiamo cose inaccettabili e quindi dobbiamo anche lavorare molto sulla governance. Il buon governo consentirà di evitare ingiustizie e di organizzare un’equa redistribuzione delle risorse a livello della popolazione. Se le risorse andranno a beneficio del paese e saranno ben gestite, le persone vivranno in condizioni soddisfacenti.

L’anno elettorale viene osservato con molto interesse anche fuori del paese».

Quali leader democratici emergono per proporre alternative alla popolazione?

«Ci sono leader che hanno una visione diversa della Rdc e un’idea affinché la popolazione possa beneficiare delle risorse del Paese. Ma chi li sostiene? Dovremo sostenere questi leader in modo che possano cambiare qualcosa nel Paese. Sfortunatamente non hanno ancora mobilitato la massa. I congolesi si stanno mobilitando e combattendo per la loro patria, attraverso marce pacifiche, scioperi, giorni di blocco delle città, nonostante tutti i rischi che corrono durante questi eventi.

La popolazione congolese non si lascia abbattere. Resiste in maniera nonviolenta.

Chi sogna la balcanizzazione del Congo si sbaglia: se noi siamo umiliati oggi, domani non umilieranno i nostri figli e nipoti. Perché sono essi che stanno vivendo le disgrazie del popolo congolese: rimanere senza acqua, cibo, elettricità in un paese così ricco è una contraddizione. Un giorno tireremo fuori questo paese da questa vergogna a livello globale».

Quale segno di speranza vede in tutto ciò che il Congo sta attraversando oggi?

«I congolesi stanno combattendo contro diversi paesi contemporaneamente: Rwanda, Uganda e diversi paesi occidentali (Francia, Gran Bretagna e altri).

C’è un barlume di speranza se a livello di società civile continuiamo a sensibilizzare la popolazione affinché tutti capiscano che il futuro del Congo è nelle mani dei congolesi e soprattutto dei giovani. Il futuro dell’Africa è nelle mani degli africani. Non possiamo svendere la nostra dignità e la nostra sovranità. È una consapevolezza che deve aumentare.

Inoltre, è necessario esercitare pressioni sui nostri leader per una sana gestione degli affari pubblici. La liberazione del popolo passa anche attraverso questo. Altrimenti, continueremo a cadere nella miseria e a essere considerati come subumani usati da coloro che ne hanno bisogno. Dobbiamo anche lavorare sull’educazione civica degli elettori, in modo che le autorità che gestiranno questo paese possano essere degne di questo compito. Che lavorino per il benessere della popolazione.

C’è anche l’advocacy. Non lavoreremo da soli. Ci sono persone che vogliono sostenere il Congo, che si chiedono perché il popolo congolese sia schiacciato. Dobbiamo andare da queste persone per spiegare cosa sta succedendo e attivare una diplomazia che possa far capire la causa congolese al mondo.

Perché abbiamo visto paesi mobilitarsi per i terremoti mentre poco o per nulla è stato fatto a favore del nostro Paese? La causa congolese deve essere resa nota all’estero. Il popolo congolese non ha solo bisogno di aiuti umanitari, ma soprattutto di porre fine alle ostilità. In modo che tutti possano tornare a casa, nel loro territorio, e riprendere le loro attività».

Pascal Martin*

*Nato e cresciuto a Goma in una famiglia di volontari, ha poi lavorato per oltre 20 anni come cooperante in Africa, tra Congo Rd, Burundi, Madagascar e altri paesi. Ha già scritto per MC.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Rusayo. Pascal Martin 2023.

 




Otto miliardi


Questa è la soglia superata dalla popolazione mondiale lo scorso novembre. Un dato che va interpretato visto che nei paesi occidentali il numero si sta contraendo, mentre in quelli africani sta aumentando. Con importanti ricadute a tutti i livelli.

Non si conosce se si sia trattato di un nastro rosa o celeste, né su quale porta sia stato appeso, ma le Nazioni Unite sostengono che il 18 novembre 2022, da qualche parte nel mondo, c’è stata una nuova nascita che ha portato la popolazione globale oltre la soglia degli otto miliardi.

La popolazione cresce quando le nascite superano le morti, ma questo risultato può essere ottenuto attraverso una varietà di combinazioni che condizionano fortemente l’età media dei cittadini. Ad esempio, dove l’alto tasso di natalità convive con un alto tasso di mortalità degli adulti, la crescita della popolazione è caratterizzata da un’età media bassa: la popolazione è più giovane (come accade in gran parte dei paesi africani). Se, al contrario, la crescita è caratterizzata da una bassa natalità che si accompagna a una mortalità altrettanto bassa degli adulti, è probabile una prevalenza di popolazione adulta e anziana (come accade, ad esempio, in Italia).

Queste differenze si fanno sentire sul piano economico perché l’età condiziona la capacità di lavoro e, quindi, di produzione.

Storia della popolazione

Nel mondo, la popolazione ha cominciato a crescere in maniera significativa nel 1800 a partire dall’Europa.

Oltre a un’alta natalità (una media di 4 figli per donna feconda), varie altre ragioni hanno contribuito al fenomeno: una migliore alimentazione, città più pulite grazie alla costruzione di sistemi fognari più moderni, scoperte mediche e farmaceutiche che hanno iniziato a limitare la mortalità infantile e adulta. Si calcola che, fra il 1800 e il 1850, la popolazione europea sia passata da 187 a 266 milioni di abitanti, un aumento del 42% che ha fatto parlare di rivoluzione demografica. La crescita demografica, però, non è stata accompagnata da un’uguale crescita di posti di lavoro. Di conseguenza, sono stati tantissimi coloro che hanno scelto di cercare miglior fortuna all’estero. In totale, si stima che, fra il 1800 e il 1930, i migranti europei siano stati 60 milioni, soprattutto verso le Americhe e l’Oceania.

Intorno al 1910 la popolazione europea o di origine europea (includendo Stati Uniti, Canada, Oceania e anche paesi latino-americani di forte immigrazione, come l’Argentina) rappresentava più di un terzo di quella mondiale (contro il 20 per cento di un secolo prima), e cresceva più rapidamente di quella del resto del mondo. Ma poi la corsa è rallentata e, pur con un breve sussulto negli anni Sessanta (conosciuto come «baby boom»), il numero di nascite per donne feconde (tasso di fertilità) è sceso sotto il due: un livello cioè che porta la popolazione a contrarsi.

Nel frattempo, la popolazione stava cominciando a crescere nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo: pratiche come la bollitura dell’acqua, le vaccinazioni e le disinfestazioni con il Ddt nelle regioni malariche, riducevano la mortalità, mentre la natalità rimaneva a livelli sostenuti. Basti dire che nel 1950, in Rwanda, Kenya, Filippine, la media di figli per donna fertile era superiore a sette, mentre in Cina e India era attorno a sei. Fatto sta che, fra il 1950 e il 1987, la popolazione mondiale è raddoppiata passando da 2,5 a 5 miliardi di individui. Un raddoppio in 37 anni non si era mai visto nella storia dell’umanità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Eberhard Grossgasteiger – Unsplash.

Il caso Cina

Dopo il 1987 la popolazione mondiale ha continuato a crescere, ma non allo stesso ritmo perché il tasso di natalità si è ridotto quasi ovunque. A ogni latitudine, ma per ragioni diverse: dove per il diverso ruolo sociale conquistato dalle donne; dove per la maggiore istruzione che ha permesso a esse di avere un maggiore controllo del proprio corpo; dove per la promozione massiccia di anticoncezionali; dove, ad esempio in India, per l’istituzione di premi per tutti coloro che accettavano di sottoporsi a sterilizzazione; dove per il divieto alle coppie di oltrepassare un determinato numero di figli.

Quest’ultima pratica è stata assunta in particolare in Cina nel 1980 quando Deng Xiaoping ha proibito alle coppie di avere più di un figlio. Chi trasgrediva la regola rischiava di perdere il posto di lavoro e di pagare multe esorbitanti. Si poteva addirittura arrivare all’assurdo che il secondo o il terzo figlio non potesse essere registrato all’anagrafe condannando i malcapitati a non avere nessun riconoscimento sociale.

Nel 2015 la regola del figlio unico è stata tolta tornando a quella di due figli che era in vigore durante gli anni Settanta. Poi, nel maggio 2021, è stato addirittura introdotto il permesso di avere fino a tre figli. Troppo tardi. Nel 2022 la popolazione cinese è calata di circa 850mila persone. Secondo le Nazioni Unite, se dovesse persistere la tendenza alla perdita di popolazione, la Cina passerebbe dagli attuali 1,4 miliardi di abitanti a 1,2 nel 2050 e scenderebbe sotto il miliardo entro il 2075. Stando così le cose, già nel corso di questo 2023, l’India dovrebbe sorpassare Pechino come nazione più popolosa del pianeta. Nel frattempo, la Cina è diventato il paese con il più alto numero di anziani: nel 2019 le persone oltre sessanta anni erano 254 milioni; nel 2040  si prevede che saranno 402, il 28% dell’intera popolazione. Con gravi ripercussioni per il sistema economico: la riduzione del numero di persone in età lavorativa potrebbe provocare un calo della produzione, un aumento del costo del lavoro e una crescita vertiginosa della spesa sanitaria e sociale per l’assistenza ai più anziani.

Il caso africano

A livello mondiale il tasso medio di fertilità è di 2,4 figli per donna fertile, appena sopra il 2,1, detto «tasso di conservazione», perché considerato il livello minimo utile a impedire alla popolazione di contrarsi. Ma moltissime nazioni sono ormai sotto questa soglia. In Italia, ad esempio, siamo a 1,24, in Spagna a 1,23, in Corea del Sud addirittura a 0,85. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione di 61 nazioni si ridurrà di almeno l’1% fra il 2022 e il 2050.

Gli unici paesi in controtendenza sono quelli più poveri, soprattutto dell’Africa, continente con un tasso medio di fertilità di 4,3, lo stesso che avevamo in Europa nel 1800.

Secondo i dati della Banca mondiale, relativi al 2020, il primato spetta al Niger con 6,9 nascite per donna fertile. Seguono la Somalia con 6,4, la Repubblica Democratica del Congo con 6,2, il Mali con 6, l’Angola con 5,4, la Nigeria con 5,3. In conclusione, l’Africa subsahariana è l’area del mondo con il più alto tasso di crescita demografica, tanto da aspettarsi un raddoppio entro il 2040, passando da 1,1 a 2,1 miliardi di persone.

Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a raggiungere 10,4 miliardi nel 2100, poi dovrebbe stabilizzarsi o addirittura diminuire. Ma continuare a trattare il tema della popolazione mondiale come un tutt’uno non ci dà il vero quadro della situazione. In effetti in tema di popolazione il mondo va diviso in tre fasce: quella a rapida crescita demografica, quella a modesta crescita, quella a crescita zero o negativa. Ognuna di esse presenta i propri problemi e le proprie specificità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Sam Chen – Pixabay.

Paesi in denatalità

Nel 2021 si sono contati una quarantina di paesi con crescita negativa, guidati dalla Lituania che ha subito una riduzione demografica dell’1,19%. Fra essi compare anche l’Italia che nel 2021 ha avuto un calo complessivo di residenti dello 0,3% rispetto al 2020. Già nel 2008 il Parlamento europeo aveva lanciato grida di allarme precisando che la denatalità avrebbe voluto dire invecchiamento della popolazione, meno persone al lavoro e quindi meno soldi per sanità e previdenza sociale a causa delle minori entrate fiscali.

Nel 2021 gli over 65 in Italia erano 13,9 milioni e rappresentavano il 23,5% della popolazione totale. Nel 2050 la loro quota è attesa al 34,9%, e c’è chi trema pensando alle difficoltà che ci attendono. Una popolazione di vecchi non può badare a se stessa: senza un’adeguata base di giovani disposta a farsene carico è destinata a soccombere sotto il peso degli enormi bisogni economici, sociali, sanitari, assistenziali.

Nella situazione opposta si trova l’Africa con tre quarti della popolazione al di sotto dei 35 anni, 900 milioni di individui. Quasi metà di loro, 35% dei residenti, è in età da lavoro collocandosi fra i 15 e i 35 anni. E, tuttavia, un terzo dei giovani africani è disoccupato e un altro terzo sottoccupato. Solo il 17% ha un lavoro salariato regolare, ed è lontana la prospettiva che questa quota possa crescere. Ogni anno in Africa il mercato del lavoro vede l’ingresso di 10-12 milioni di nuovi giovani, ma l’offerta di nuovi posti non supera i 3 milioni. Di questo passo, avverte la Banca per lo sviluppo africano, nel 2025 i giovani africani senza alcuna prospettiva di lavoro saranno 263 milioni. Situazione destinata ad aggravarsi considerato che, nel 2050, le persone fra i 15 e i 35 anni in Africa sono attese a 850 milioni. In conclusione, l’unica prospettiva di vita per molti giovani africani è la migrazione, principalmente dalle campagne verso le città e dai paesi africani a più bassa capacità produttiva verso quelli a maggiore capacità produttiva. Già oggi 19 milioni di africani si trovano in un paese del continente diverso da quello di nascita. Ma altri 17 milioni si trovano in continenti diversi dall’Africa.

Il ruolo delle migrazioni

Considerato che il mondo è formato da aree con una penuria di giovani e altre con un eccesso,  sarebbe interesse di tutti un riequilibrio attraverso una maggiore libertà di movimento delle persone. I paesi che stanno invecchiando potrebbero ringiovanirsi e i paesi con molti giovani potrebbero migliorare la propria economia tramite le rimesse degli emigranti. Ma in Europa, e in particolare in Italia, solo pochi hanno messo a fuoco che questa è la strada da battere. Fra essi Tito Boeri che, da presidente dell’Inps, non ha perso occasione per ricordarci il ruolo insostituibile dei migranti: senza i due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che pagano le tasse e versano i contributi, il sistema previdenziale italiano non ce la farebbe. Chi invece sembra non averlo capito è la politica che pure avrebbe il compito di individuare i problemi e trovare le soluzioni. Il fatto è che i fenomeni si mettono in moto da soli, e quando la politica li intercetta, spesso succede che invece di gestirli in un’ottica di bene comune li cavalca per fini elettorali. Paradossi della democrazia.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

Siamo in otto miliardi. Foto di Humberto Chavez – Unsplash.

 

 




Dallo Zaire al Congo



Tra guerre e dittature, 50 anni di strada

Partire dalle minoranze

Primi anni ‘70, periodo di grande fermento. La Consolata cerca un’esperienza di missione molto vicina alla gente, nella quale coinvolgere i giovani missionari. In un contesto di periferia, magari di foresta. Un’occasione si profila all’orizzonte.

L’Istituto Missioni Consolata (Imc) ha visto nell’andare in Congo, all’epoca Zaire, una presenza missionaria nuova. Prima di allora avevamo un’esperienza di missione in foresta solo in America Latina, ma non in Africa. In Tanzania e Kenya lavoravamo in territori semi aridi e di savana. La domanda di base, pensando a un nuovo contesto ambientale e umano, era: quali sono le sfide che possono nascere? I pilastri su cui volevamo costruire la missione in Congo erano i seguenti tre.

Aprire l’Istituto a un’esperienza nuova, molto coinvolgente e vicina alla gente. Dal dopoguerra si notava che le missioni diventavano sempre più grandi ed estese. Le strutture – dispensari, scuole, cappelle, chiese – erano cresciute, ma mancava l’accompagnamento delle persone.

Mandare giovani missionari che facessero un’esperienza forte fin dalla loro prima destinazione. In effetti, quando sono arrivato io, nel 1982, la cosa che colpiva era vedere missionari tutti molto giovani che mostravano grande spirito di fraternità. Il Congo era diventato un punto di riferimento per tutto l’Istituto: molti di noi volevano andarci, era la missione più desiderata.

Infine, già allora l’Istituto aveva fatto la scelta preferenziale per le periferie, che veniva confermata.

Il pretesto

Il motivo concreto del nostro arrivo in Zaire è stato l’invito da parte dei vescovi del paese di padre Noè Cereda a Kinshasa, per insegnare sociologia all’università. Il Congo dopo la guerra civile degli anni ’60-’64 si è ricostruito intorno alla cultura. L’unità nazionale è stata data dalla chiesa cattolica, che ha rappresentato sempre l’unica istituzione che dava spazio ai giovani.

La chiesa a Kinshasa aveva aperto un’università cattolica, che era più importante della statale. Per fare questo, i vescovi avevano fatto specializzare alcuni preti, oppure li avevano fatti arrivare dall’estero, come padre Noè.

Quando il superiore è andato poi a trovarlo, ha incontrato alcuni vescovi che si sono mostrati sensibili alla nostra presenza. Così, nel 1972, abbiamo aperto, ma non in capitale, bensì a Nord, nella foresta. A Wamba e a Doruma. Una scelta della periferia.

A Kinshasa abbiamo avuto sempre un pied-à-terre, la piccola parrocchia Mater Dei, che ancora oggi è il nostro quartier generale in Congo.

Facciata della casa della missione di Mater Dei a Kinshasa

Wamba

Il 7 novembre del 1972 è partito dall’Italia padre Antonio Barbero, il primo (se non si conta padre Noè) a iniziare una missione della Consolata in Congo (vedi sotto).

La due prime missioni sono state Doruma e Wamba, che distano tra loro 400 km di strada sterrata. Wamba, nella diocesi omonima, si trova in piena foresta, dove ci sono anche i Pigmei. Fin da subito i nostri missionari hanno fatto l’opzione per i Pigmei, iniziando visite e accompagnamento. Questi sono sempre stati visti dagli altri congolesi come terza categoria, meno degli animali.

La missione a Wamba è stata caratterizzata da una presenza bella e semplice, senza grandi strutture. Abbiamo retto per tanti anni il centro catechistico, che è stato il cuore della diocesi. Lì i nostri padri formavano le famiglie, per tre o sei mesi, a essere animatrici nei propri villaggi di provenienza. C’era la scuola, la formazione delle donne, e molto altro.

Negli ultimi tempi (negli anni ’90-’91) abbiamo aperto una radio per fare alfabetizzazione. Anche i Pigmei la ascoltavano, in swahili o in kibutu, che è la loro lingua. Il centro è stato in seguito passato alla diocesi.

Segno di mitragliata sui muri della missione di Wamba

Dobbiamo ricordarci che Wamba è stato l’epicentro della ribellione dei Simba (1964-65), e che vi sono stati ammazzati il vicario apostolico, Joseph Pierre Albert Wittebols, con 250 altri europei tra cui tanti preti e suore. Prima c’erano i Dehoniani, che però non riuscivano più a reggere tutte le missioni. Noi siamo arrivati dopo la ribellione, nel 1972, quando Mobutu aveva preso il potere. Abbiamo cercato di dare speranza, impegnandoci molto sul piano sociale, e nel centro catechistico.

Padre Piero Manca è stato il pilastro dei catechisti, ha lavorato tantissimo alla promozione umana. Poi c’era padre Angelo Baruffi, che è stato per anni coordinatore di tutte le scuole cattoliche della diocesi. Padre Ivano Magnani, punto di riferimento per tanti giovani preti, anche locali, è stato vicario diocesano. Padre Enrico Casali è stato l’uomo spirituale, lui ha portato molta animazione e ha fondato il gruppo dei Focolarini. C’era pure padre Flavio Pante, che oggi è di nuovo lì, tornato per un secondo periodo, una presenza di spicco, molto apprezzato e molto vicino alla gente.

A Pawa, sempre nella diocesi di Wamba, avevamo il dispensario e seguivamo pure i lebbrosi. Un’altra missione era a Bafwabaka.

Ordinazione a Wamba di padre Stefano Camerlengo e padre Alvaro il 19/03/1984

Doruma

Più a Nord, sempre nel ’72, abbiamo aperto a Doruma, nella diocesi Dungu-Doruma, vicino al confine con il Sudan. Seguivamo anche alcuni villaggi in Sudan. Alla frontiera c’era un lebbrosario che accompagnavamo.

Doruma è un’altra regione, e vi vive un’altra tribù, gli Azande, gli antichi abitanti del Congo, con il loro sistema di re, e come lingua usano il lingala più antico.

Avevamo anche la parrocchia di Bangadi, e padre Giuseppe Ronco è stato in entrambe.

È una zona molto vasta e, se a Wamba la gente è concentrata, a Doruma è più dispersa.

Erano missioni ereditate dai padri agostiniani, e la presenza missionaria era caratterizzata dalla vicinanza alla gente.

Nelle missioni antiche c’era la vecchia idea della collina con la chiesa, la casa dei padri, la scuola, la falegnameria, ecc. E la gente si radunava attorno. Il cambio di stile missionario che abbiamo vissuto, è stato impostato dai padri Bianchi (i missionari d’Africa), grandi maestri della missione africana, che hanno rovesciato il paradigma: non è la gente che deve venire da noi, ma siamo noi ad andare nelle comunità. I missionari partivano per visitare i villaggi e stavano 10-15 giorni con i loro abitanti.

Quello che ci è mancato è stato lasciare traccia scritta, perché la riflessione è stata fatta. Quello che aiutava i nuovi arrivati, erano i diari della missione, che ancora si tenevano.

Quando i missionari tornavano alla sera – ai tropici viene buio presto – si trovavano seduti intorno a una candela, e si raccontavano quello che era successo nella giornata.

La chiesa di Doruma nel 1983

Ampliamenti e cambiamenti

A Wamba, negli anni ‘90, si è confermata e rafforzata l’opzione per i Pigmei, aprendo una missione a Bayenga, al centro del loro territorio.

A Doruma, durante la guerra di Kabila (prima guerra del Congo 1996-97), sono passati svariati eserciti e la missione è stata attaccata diverse volte, così si è deciso di lasciarla. Siamo andati ad aprire a M’bengu, nella stessa diocesi. Una località «fuori dal mondo», ancora più sfidante.

Lì abbiamo realizzato una scuola. È una convinzione dei Missionari della Consolata, infatti, quella di investire nella cultura: se aiuti le persone a pensare, il mondo cambia. Non è il pane che ti cambia, anche se è necessario.

Per essere presenti anche in capitale, a Kinshasa, si è deciso di aprire una nostra missione a Samukassa, con i padri Santino Zanchetta e Antonello Rossi. Vi siamo stati 25 anni, per poi passarla alla diocesi.

Nel Nord, nella diocesi di Isiro, avevamo già aperto nel capoluogo (nel ’75), e siamo andati a Neisu (nell’84), che era un piccolo villaggio a 70 km di distanza, dove si andava già a celebrare la messa.

Da Isiro partiva padre Antonello con padre Oscar Goapper. Oscar aveva un interesse particolare per la medicina: un giorno ha cercato di curare una bambina, che però è morta. Ha deciso che non poteva più permettere che questo accadesse. Ha quindi studiato medicina per poi aprire l’ospedale di Neisu. Il villaggio si è ingrandito e adesso è un grosso centro. È oggi un nostro fiore all’occhiello.

Durante la guerra di Kabila non si poteva viaggiare tra la capitale e il Nord, che si raggiungeva solo attraverso l’Uganda. Siamo stati costretti a separare le due realtà (1999). Io ero il superiore delegato a Kinshasa, dove abbiamo aperto due parrocchie e il seminario teologico. Solo quando sono partito nel 2005, destinato a Roma, ho capito tutto quello che avevamo fatto in quegli anni. Il cardinale Frédéric Etsou, aveva fatto un consiglio personale, nel quale aveva chiamato anche me e l’attuale cardinale di Kinshasa.

Padre Oscar Goapper a Neisu nel 1983, quando i malati erano curati in un capannone e l’ospedale era ancora da venire.

Verso quale futuro

Il Congo, oggi Rdc, ha bisogno di stabilità, perché è tormentato da sempre. È un paese ricchissimo con molte potenzialità e gente capace, ma ha una corruzione endemica, e tutti ci stanno bene o sanno conviverci. Come ottenere questa stabilità? Con la serietà nel lavoro, educazione alla giustizia e alla pace. È fondamentale. La chiesa, e il nostro Istituto in particolare, non possono tirarsi fuori, perché non si può benedire una situazione di ingiustizia. Onestà e trasparenza, sono priorità da perseguire a tutti i livelli. Insistiamo nel dare la precedenza a situazioni di minoranza o povertà, ecco perché riaffermiamo la scelta preferenziale per i Pigmei.

Nei pressi a Beyenga, esistono piste di atterraggio clandestine, dove arrivano aerei per portare via il coltan (minerale di cobalto e tantalio, ndr) e l’oro. I ragazzi vanno a raccogliere il minerale per i trafficanti, guadagnando 10 dollari alla settimana, quanto prende il papà in un mese di lavoro. Tutto questo complica la situazione sociale. Non si può stare in silenzio.

Sarebbe importante portare il tema dei Pigmei a un livello internazionale: c’è un gruppo di persone che non è rispettata, che va scomparendo, che non ha gli anticorpi per un raffreddore.

L’altra questione importante è la promozione umana, che deve essere portata avanti dalla gente. Anche la cooperazione non ha più senso farla con progetti nostri, ma va fatta con progetti che la popolazione prenda in mano e porti avanti.

Stefano Camerlengo

Da sx: i diaconi Stefano Camerlengo e Alvaro Dominguez, padri Magnani Ivano, Marcolongo Renzo e Mazzotti Giacomo a Wamba 1983


Dal diario del pioniere della Consolata in Congo

Prime lettere dallo Zaire

È una domenica di inizio dicembre del ‘72. Finalmente padre Antonio raggiunge la sua destinazione, a lungo sognata. Ha viaggiato 25 giorni e visitato diverse località del Nord Zaire. E inizia lì, a pochi passi dal confine con il Sudan, la sua avventura missionaria.

Padre Antonio Barbero è stato il primo missionario della Consolata inviato dall’Istituto per aprire una missione in Congo, all’epoca Zaire. A Kinshasa si trovava già padre Noè Cereda, invitato dalla Conferenza episcopale per impartire lezioni all’università cattolica della capitale.

Padre Antonio è partito il 7 novembre 1972 dall’Italia, aveva 44 anni. Arrivato in Zaire si è diretto nel Nord Est. A Doruma ha iniziato il lavoro della Consolata. È stato poi raggiunto da fratel Alberto Donizetti (partito il 16 dicembre) e dai padri Tiziano Basso, Enrico Casali e Pietro Manca, che avevano lasciato l’Italia il 19 dicembre.

Padre Antonio ha scritto un diario in forma epistolare che rimane un documento importantissimo per tracciare le prime fasi della presenza dell’Imc in Congo-Zaire. Ne riportiamo alcuni passaggi.

Sabato 18 novembre 1972.
Padre Antonio si trova a Kisangani, e sta per andare per la prima volta a Isiro, e poi a Wamba e Doruma, sua destinazione di missione.

Il Fokker copre la distanza Kisangani – Isiro in un’ora. Come al solito, sotto di noi si presenta la stessa panoramica: foresta interrotta ogni tanto da corsi d’acqua, da piste tracciate nel verde, villaggi disseminati lungo le piste e i fiumi. […].

La pista è in terra battuta, ma così solida che pare cemento. Il Fokker si ferma proprio davanti all’uscita: i bianchi sono invitati all’ufficio di controllo, solo io vengo scritto nel registro, perché è la prima volta che tocco questo suolo. Mentre attendo le valigie, vedo una suora e vado a domandare se per caso andasse alla procura. Mentre parlo con lei mi si presenta un italiano, signor
Casale dell’Aquila, macellaio a Isiro, il quale si offre di accompagnarmi a St. Anne, dove è parroco padre Colombo, comboniano, superiore regionale. L’accoglienza è più che fraterna […].

Lunedì 20 novembre.
Sono sempre in attesa di un’occasione per recarmi a Wamba. Finalmente se ne presenta una, il curato di Babonde che è venuto in città per compere. Faccio anche io una passeggiata attraverso la città, entro in qualche negozio […]. Molta gente siede oziosa a guardare i passanti. Altrove c’è qualche mamma seduta per terra con il proprio bimbo, davanti a lei una bacinella ripiena di una specie di polpette di manioca, di pane zuccherato […].

Verso le 16, a bordo di un pulmino Wolkswagen, carico un po’ di tutto, prendiamo la via di Wamba. La via diretta è interrotta perché alcuni ponti sono in via di ricostruzione in cemento, perché erano di tronchi d’albero. Quindi prendiamo per Ibambi, facendo così un lungo giro su una strada che non è degna di questo nome. Ci sono tratti in cui anche in prima pare di essere sulle montagne russe. La strada si snoda nella savana arborata, su di un terreno ondulato rossiccio, che qui chiamano «limenite» (laterite, ndr), un terreno di origine vulcanica, un po’ ghiaiosa. Spesso a destra e a sinistra compaiono villaggi formati da casette in mezzo al verde, di costruzione sempre uguale, davanti alle quali giocano molti bambini e prendono il fresco uomini e donne sulle proprie sdraio. Si notano spesso piantagioni di caffè […].

Nel viaggio ci sono molti fiumi da attraversare, ma spesso i ponti sono in totale rovina a causa della guerra e poi dell’incuria.

Martedì 21 novembre.
Il bac è una specie di chiatta fatta di piroghe (tronchi scavati) che sfrutta la corrente per fare attraversare persone, cose, camion e Land Rover. Le operazioni sono così lente che mettono a prova la nostra pazienza, ma non la loro… perché la fretta non è la loro virtù o il loro vizio.

La cattedrale di Wamba nel febbraio 1983

Wamba

Il secondo campo di lavoro della Consolata in Zaire è situato un grado sopra l’Equatore, 120 km da Isiro, ad una altezza media di 500 m, un pianoro ondulato nella savana arborata, per non dire foresta. Vicariato apostolico dal 1949, affidato ai padri dehoniani, diocesi dal ‘59, nel ‘64, il 2 novembre, eccidio del vescovo con 15 padri e altrettante suore, gettati poi nel fiume Wamba e non più ritrovati. In sede è rimasto solo il vescovo nero, mons. Olombe e padre Martin, parroco, con quattro suore vincenziane e tre africane. Diecimila abitanti circa, la metà cattolici […].

La missione doveva essere un gioiello. Costruzioni in mattone: scuole, case per i maestri, conventi, laboratori, tipografia, coltivazioni di caffè, ecc. Di nuovo c’è la cattedrale: opera originale iniziata prima della rivoluzione e terminata due mesi fa. Forma circolare, il tetto in lamiera […]. A me è parsa una nota stridente con le abitazioni del popolo, ma mi si rispose che i neri pretendono che la casa di Dio sia molto più bella e grande della loro, perché deve costituire un ideale, un punto di arrivo.

Mercoledì 22 novembre.
Ebbi una lunga conversazione con il vescovo, in merito alla nostra futura presenza nella sua diocesi. Monsignor Olambo si sente felice, gli pare di rivivere pregustando la gioia di avere del personale giovane, disponibile alla missione per fare rifiorire la cristianità rimasta senza pastori.

Con padre Martin visitai i diversi rioni della città e dovunque passavamo tutti uscivano incontro a salutare e a invitarmi a rimanere con loro. Con questa gente non bisogna elemosinare strette di mano perché sarebbe un insulto il rifiutare la mano. Ci fermiamo all’ospedale: ma non pensate che sia come da noi, ma all’africana. Le medicine sono provviste dallo stato, ma al cibo ci pensano i parenti, e allora quando la mamma è all’ospedale, tutta la famiglia vi si trasferisce e fuori nel cortile vedete tanti fuocherelli e gente seduta intorno a preparare il cibo […].

Doruma

Mercoledì 29 novembre.
Rifaccio i miei bagagli e, appena consumato pranzo alla procura di Isiro, a bordo di un camion ribaltabile carico di fusti di nafta e di provvigioni per il collegio di Dungu, abbordiamo i 220 km che ci separano da Dungu. I fratelli Richard e Fabien si alternano al volante, perché la strada non differisce da quelle descritte precedentemente. Il sole è arrabbiato, in cabina siamo un po’ scomodi: tre persone più gli oggetti delicati, che sono molti. […].

Facciamo sosta a Rungu dove lavorano i padri comboniani italiani […].

Riprendiamo il nostro viaggio, il paesaggio è quasi sempre uguale: foresta a destra e a sinistra, vegetazione lussureggiante […].

Dopo altre due ore di percorso arriviamo alla savana, con erbe che sorpassano i due metri di altezza. Pochissimi si contano gli alberi a basso fusto […]. Però per quasi tutto il percorso nella savana non si è notata la presenza di una capanna, e questo per 30 km circa. […]

Verso le nove finalmente arriviamo a Dungu.

[…]. Rimango ospite dei fratelli per tre giorni, sempre in attesa di una prossima occasione per Doruma. Nel frattempo, visito la missione di Dungu, diventata sede della diocesi, perché più centrale (diocesi di Dungu-Doruma), mentre Doruma è posta verso i confini della diocesi stessa. […].

Sabato 2 dicembre.
Raccolgo i miei effetti per la penultima tappa verso Doruma. Fratel Fabien deve recarsi a Bangadi in serata e il giorno seguente avrebbe fatto vela per Doruma. Ne approfitto anch’io. Si parte verso le due del pomeriggio. Carichiamo come si conviene il pulmino e tra le tante cose trovo un posto anche per la mia piccola persona.

Per la strada più stretta del solito, attraversiamo i fiumi Dungu e Kigali e tra due sponde di alberi e di erba altissima ci dirigiamo a una velocità discreta a seconda dello stato della pista (zairoise). In quattro ore copriamo la distanza di 110 km e giungiamo a Bangadi […].

Domenica 3 dicembre.
Era domenica e passando nei villaggi si notava un movimento insolito: mercato lungo i viali alberati, assembramenti di gente attorno alle scuole cappelle dove si erano radunati a fare la preghiera con il catechista. Al nostro passaggio tutti ci salutavano con la mano.

Dopo due lunghe ore di corsa giungemmo finalmente in vista della missione che da mesi cercavo di immaginarmi, senza avere alcuni elementi concreti a cui aggrappare la mia fantasia. Mi assalì una certa emozione che cercai di controllare senza riuscirci pienamente. Alla mia destra vidi subito spuntare tra i palmizi la cattedrale in mattoni rosa pallido, la facciata della missione e il complesso delle scuole primarie e secondarie. Ebbi subito la sensazione dell’ordine, della pulizia, del buon gusto. Erano le 11 del tre dicembre, festa di san Francesco Saverio, grande missionario, il quale impiegò sei mesi per raggiungere le Indie (e io impiegai solo 25 giorni per raggiungere la mia destinazione) […].

Verso le 22 raggiunsi la mia cameretta: ero stanco per tutte le emozioni provate e per il viaggio, tuttavia mi fu difficile prendere sonno. Ringraziai il Signore per avermi concesso di coronare il mio sogno missionario. Pregai san Francesco Saverio perché infondesse in me un po’ del suo spirito apostolico onde non deludere le aspettative di Dio e delle anime a cui ero stato inviato. […].

Antonio Barbero

 Padre Antonio ci ha lasciati prematuramente nel febbraio 1982, ma il seme che aveva gettato continua a dare frutto.
Selezione dai testi originali a cura di Marco Bello.


La nuova avventura della Consolata in Congo

Kisangani, ultima periferia

Kisangani è la più grande città del Nord del Congo. È snodo per l’Oriente e per le martoriate province dell’Est. Nel periferico quartiere Segama, in continua crescita, padre Honoré ha iniziato una presenza nel 2019. Quasi tre anni dopo è stato affiancato da padre Rinaldo Do. I progetti sono tanti e i bisogni pure.

Kisangani è la terza città del Congo dopo Kinshasa e Lubumbashi. Si affaccia sulle rive del fiume Congo a duemila chilometri dalla sua foce, nella zona equatoriale, centro Nord del paese. Padre Honoré Tsiditeta, congolese di 57 anni, vi è arrivato nel gennaio 2019. Raggiungiamo telefonicamente padre Rinaldo Do sul posto. Missionario della Consolata, in Congo dal 1991, ci racconta la genesi di questa missione, in una zona nuova per l’Istituto. Innanzitutto, ci spiega la scelta: «C’era il desiderio di uscire dalle nostre aree classiche, di Isiro e Kinshasa, e di avere un punto di riferimento, anche logistico. Ci sono, infatti molti problemi con gli aerei, per noi che lavoriamo al Nord. Si arriva qui da Kinshasa ed è importante avere una casa di passaggio, dove ci si possa fermare, per poi prendere un fuoristrada o una moto e arrivare nelle missioni. Così i superiori, qualche hanno fa, hanno cominciato a dialogare con il vescovo di Kisangani, il quale, ben contento, ci ha dato un terreno che era stato comprato dalla diocesi in vista dell’allargamento della città».

La nuova missione è nel quartiere Segama, a circa 10 chilometri dal centro di Kisangani. Si tratta di una zona urbana nuova, dove si stanno costruendo molte casette, senza alcuna pianificazione e senza servizi: non c’è acqua né elettricità.

«Vi abitano diverse tipologie di persone. Gente che lascia il centro città, altri sono rifugiati del Congo Brazzaville mandati lì chissà perché o scappati, poi ci sono gli sfollati dalle province di Ituri e Kivu, a causa della guerriglia che continua in tutta quella zona di frontiera con Uganda e Rwanda. Si parla di oltre 100 gruppi armati presenti».

Nell’area di Kisangani c’è pace, assicura padre Rinaldo, ma il quartiere non è così tranquillo, si registra molto banditismo notturno: «La gente desidera la nostra presenza anche perché la chiesa può rendere più stabile la situazione».

Piccoli passi

Nel momento in cui parliamo con padre Rinaldo, si stanno ultimando i lavori della casa, base della missione e anche punto di appoggio per missionari che lavorano in altre zone. Poi si inizierà a costruire la chiesa, e in seguito altri progetti. «Adesso abitiamo in centro presso i padri dehoniani e in procura (centro servizi della diocesi, ndr), e andiamo al cantiere tutti i giorni. Quattro volte alla settimana celebriamo l’Eucarestia (la prima è stata celebrata il 27 gennaio 2019, ndr), e questo lo facciamo sotto tendoni che sono montati e smontati per l’occorrenza. Finita la celebrazione vanno infatti tolti, altrimenti si rischia che li rubino. Ma quando potremo abitare sul posto cominceremo a conoscere la comunità, fare un progetto pastorale, i consigli, le commissioni, perché la chiesa è abbastanza viva. C’è una grande voglia di parrocchia. L’area è proprio in mezzo alla gente, e, per noi, è tutto da iniziare, da conoscere, creare i rapporti personali con gli abitanti. Abbiamo iniziato a visitare qualche malato»

E ancora: «Ci sono problemi per mancanza di elettricità, di acqua. Vengono realizzati pozzi artigianali. Noi ne abbiamo fatto uno e la gente viene a prendere acqua alla missione. Pensiamo di realizzarne anche altri nel quartiere, come anche altri progetti da decidere e portare avanti con la nostra gente».

Padre Rinaldo continua con le motivazioni della scelta: «La nostra è una scelta di periferia, dove c’è la gente che ha bisogno di una presenza della chiesa, di consolazione. Abbiamo poi la prospettiva, in un altro terreno, di costruire un centro sanitario, perché sulla salute la gente è abbandonata. Ci sono tanti piccoli centri nel paese. Anche qui a Kisangani ce ne sono alcuni, ma sono, spesso, gestiti dai missionari o dalla chiesa, oppure ci sono le cliniche private, che però hanno prezzi molto elevati».

Padre Rinaldo ha lavorato nella maggior parte delle missioni della Consolata in Rdc. È arrivato a Kisangani nell’ottobre del 2021, per affiancare padre Honoré. Prima era a Saint Hilaire, a Kinshasa, e prima ancora a Neisu, nella diocesi di Isiro.

«La notte di Pasqua abbiamo potuto accendere delle luci, usando un generatore, grazie alla casa quasi terminata. Cosa che a Natale non avevamo potuto fare. Un passo alla volta. La società elettrica dovrà elettrificare anche il nostro quartiere, ma non si sa quando.

A Kisangani, anche in centro, sovente ci sono tagli di elettricità. Anche se si potrebbe dare luce a tutti, perché passa il fiume Congo e ci sono delle cascate».

Infine ci regala qualche considerazione più generale: «C’è un grande abbandono di questo paese. Siamo stati a celebrare la Pasquetta in una zona della città dove c’è una fabbrica di tessuti. Fino a qualche anno fa impiegava duemila operai, adesso è praticamente chiusa. Ce ne sono un centinaio, ma sono in sciopero, perché da sedici mesi non ricevono salario. Questo succede anche in altre zone del Congo: fabbriche abbandonate, lavoratori non pagati. Vediamo situazioni analoghe di insegnanti, infermieri, agenti dell’amministrazione statale. E il governo fa la sua politica, ha regalato 600 auto, una per ogni deputato e senatore. Per tenerseli buoni, ma si dimentica della gente che lavora. Così, spesso, ci sono scioperi che durano settimane, mesi. La situazione è triste, un paese ricco che non è per nulla gestito».

Marco Bello


Il racconto di due decenni vissuti appassionatamente

Con il cuore, si vince

Un’esperienza particolare. Due decenni da missionario sul campo. Il primo in Zaire, il secondo in Rdc. Il primo da giovane alle prime armi, il secondo da veterano con la barba bianca. Tante diversità, altrettante similitudini, cristallizzate nel tempo. Ma sempre la gioia di essere amico, fratello di tanti.

Due decenni vissuti in tempi diversi, in un paese collocato nel cuore dell’Africa (e con due nomi differenti): gli anni più belli della mia vita missionaria, anche se mescolati a tanta fatica, sogni e non poche delusioni.

Un altro mondo

Era il 20 gennaio del 1980; ricordo che, partito da Roma, dopo solo sei ore di volo toccavo il suolo dello Zaire, e non ci volle molto tempo per rendermi conto di essere bruscamente arrivato in «un altro mondo». Con la prima, grande emozione: dopo neanche tre ore dall’arrivo, essendo domenica, la celebrazione della mia prima messa africana in una piccola cappella nella boscaglia (di eucaliptus), con i canti al ritmo dei tamburi, una lingua incomprensibile, i chierichetti con tanto di tuniche colorate e a piedi nudi che precedevano noi preti a passo di danza e tante facce nere (soprattutto di bambini) che guardavano incuriositi i nuovi venuti.

E, dopo pochi giorni, «l’impresa» di arrivare al Nord del paese, sorvolando l’immensa foresta equatoriale, e l’arrivo, su strade rosse e polverose, a Isiro, la modesta cittadina (sede della nostra casa provinciale) dove, la notte del primo dicembre del ’64, era stata uccisa Anuarite, una giovane suora, durante la tristemente famosa «Ribellione dei Simba» che, scoppiata qualche anno dopo l’indipendenza del Congo (1960), aveva prodotto centinaia di vittime tra i locali e tra i missionari stranieri.

Ricordo anche che al mio arrivo in Zaire, la gente era ancora sotto shock per «il regalo» di Natale 1979 del presidente Mobutu: la «demonetizzazione», cioè il cambio senza preavviso delle banconote, passate dal colore azzurro al verde (come la foresta e le foglie di manioca). Nonostante i missionari si fossero dati da fare per trasportare le persone, con i loro vecchi soldi, dai posti più lontani alle banche cittadine, la maggior parte della popolazione non riuscì a cambiare le ormai inutili banconote, che tenevano celate negli angoli più nascosti delle capanne.

Dopo mesi faticosi per imparare il kiswahili, cominciai a scorrazzare su una vecchia Land Rover per la quarantina di villaggi della nostra estesa parrocchia di Wamba, disseminati tra file di palme, campi di riso e manioca, bananeti e chiazze di alte erbe (con qualche serpente annesso). Sperimentavo, così, la gioia e la difficoltà di testimoniare il vangelo di Gesù, non solo in un’altra lingua e cultura diverse dalle mie, ma anche con «l’aiuto» dei catechisti, senza i quali non avrei potuto avvicinare, conoscere, capire e amare la gente dei villaggi. Mi appassionava lavorare con loro, valorizzando le loro conoscenze, il loro modo di vita, la fede semplice e severa di alcuni che, formati senza zucchero dai missionari belgi, erano passati attraverso il crogiolo della persecuzione (e anche del martirio). Fu questa mia passione per loro (forse) che spinse la mia nomina a responsabile del Centro catechistico diocesano, per sei anni, in cui tentai un’impostazione nuova, per formare non soltanto dei «bravi maestri nella fede», ma dei veri leader e animatori per lo sviluppo umano, l’insegnamento, la salute e, soprattutto, la giustizia e l’onestà in quel contesto difficile e così avaro di sogni per qualche cambiamento.

Padre Giacomo Mazzotti a Wamba

Ma fu proprio un cambiamento (non certamente da me sognato) a interrompere il mio lavoro missionario con i catechisti. Nel 1990 venivo, infatti, richiamato in Italia per lavorare nelle nostre riviste e nell’animazione missionaria. Confesso che avevo accettato con non poca fatica, perché dover lasciare l’Africa, dopo solo dieci anni, sembrava un’evidente ingiustizia nei miei confronti. Confidavo, però, nel fatto che la permanenza nel Belpaese non sarebbe stata troppo lunga, ma solo una parentesi da smaltire il più in fretta possibile. Invece, i pochi anni previsti si protrassero più del dovuto, fino a metà del 2005 quando, approfittando della nomina del nuovo superiore generale, feci la richiesta di poter ripartire. E così, il 12 gennaio 2006, riprendevo l’aereo per cominciare la seconda tappa della mia avventura missionaria.

Molti mi avevano ricordato che il Congo (ora si chiamava così) che avrei trovato non sarebbe stato sicuramente come l’avevo lasciato: lunghi anni di guerra, violenza e confusione politica avevano stremato la popolazione, rendendola più povera e sfiduciata. Era ormai scomparso dalla scena Mobutu (morto in esilio, in Marocco, nel 1997), lasciando il paese al collasso economico, in conflitto con i paesi vicini e la guerra civile al proprio interno.

Stavolta, ero stato nominato nientemeno che parroco nella periferia di Kinshasa, in una nostra parrocchia santuario (Mater Dei), dove si venera l’immagine della Madonna di Czestochowa, dono di Giovanni Paolo II, nella sua prima visita allo Zaire (1980). Avevo accettato l’incarico con molta riluttanza e timore, pensando a ciò che mi aspettava, anche se, un mese dopo il mio arrivo, avevo potuto condividere un momento epocale del nostro Congo: per la prima volta, dopo più di trent’anni, le elezioni libere e democratiche per la scelta del presidente e del nuovo governo. Ho rintracciato nel diario questa annotazione: «30 luglio 2006. Dopo tante voci negative, finalmente la gente può esprimersi anche se la scelta non è certamente libera e oggettiva per via dei troppi candidati e degli interessi immediati. Ma è un’occasione importante e cerco di spiegarlo nelle due messe che celebro qui in parrocchia, pur nel mio povero lingala. Il seggio del quartiere è proprio accanto a noi. Poco prima della chiusura delle urne, faccio una scappata a vedere com’è l’ambiente e a scambiare due chiacchiere con la gente […]». Fondamentale era stata l’opera di coscientizzazione che la chiesa aveva cercato di fare nei mesi precedenti le elezioni: una vera mobilitazione, soprattutto a livello delle piccole comunità di base, per informare, far discutere, capire e scegliere con un po’ di consapevolezza; dibattiti semplici, ma vivaci, sostenuti e guidati da persone preparate e che avevano coinvolto i nostri cristiani in quella svolta storica della loro democrazia.

Nel «cuore» della foresta

Ma l’esperienza di parroco cittadino non durò molto. Dopo tre anni, ricevevo una nuova destinazione, che fortunatamente veniva incontro anche al mio desiderio: il ritorno alla foresta, al Nord del Congo e a Neisu, un piccolo, ma vivace villaggio, diventato famoso per l’ospedale costruito dall’indimenticabile nostro missionario dottore, Oscar Goapper, morto – ahimè – troppo presto. Era il 16 agosto 2009 quando toccavo di nuovo – dopo vent’anni esatti – la pista di atterraggio dell’aeroporto di Isiro. Ma che cambiamento! Un’occhiata alla cittadina, un tempo vivacissima per la varietà di persone, il commercio, le numerose scuole primarie e superiori mi intristì il cuore. E anche quando arrivai a destinazione, Neisu (che in lingua kimgbetu significa cuore) mi sembrò che il tempo si fosse fermato: strade impossibili, case di fango e paglia, gente che si spostava con biciclette stracariche.

Kinshasa era ormai lontanissima e i ricordi dei pochi anni passati laggiù svanirono in fretta, perché ora il mio mondo era proprio questo: una parrocchia nata dal nulla, sapientemente accompagnata da missionari appassionati della gente, un centinaio (104, per l’esattezza) di villaggi, piccoli o modestamente grandi nei quali, accanto a rabbia e rassegnazione c’era ancora spazio per una timida speranza, la voglia di pace e ingarbugliati tentativi per il développement (sviluppo).

Ed è stato qui che, pure invecchiato e reso più fragile dagli acciacchi, dalla malaria (mai avuta prima) e dalla povertà di mezzi, ho gustato di nuovo la gioia di essere ancora fratello, amico, compagno di viaggio per tanti. Ho ripreso a scorrazzare (non più in Land Rover, ma in moto) sugli infiniti sentieri della foresta, costeggiando, magari, qualche tratto della linea ferroviaria costruita dai belgi e ormai invasa dalla vegetazione; sostando, senza fretta, nelle piccole cappelle di ogni villaggio per pregare, istruire i tanti catecumeni che ancora chiedevano di conoscere Gesù; organizzare progetti e iniziative soprattutto per i due «chiodi fissi» dei programmi pastorali di ogni anno: scuola e salute; e appisolarsi per la stanchezza alla sera su una sdraio, mentre bambini e giovani si scatenavano nelle danze in mio onore, attorno al fuoco.

Che sia questa la «missione nuova», o meglio, il modo nuovo di fare missione? E dov’è «il luogo di contatto» tra il Vangelo, i missionari e le persone? «La risposta è chiara: l’ordinarietà della vita di tutti, questo è il territorio della missione. Un cuore missionario riconosce la condizione reale in cui si trovano le persone reali, con i loro limiti, i peccati, le fragilità, e si fa “debole con i deboli e si mette a camminare al loro passo”» (Papa Francesco).

Con il cuore, allora… si vince sempre!

Giacomo Mazzotti


La repubblica democratica di Félix Tshisekedi

Un meccanismo ben oliato

Dopo 18 anni di presidenza di Joseph Kabila, dal 2019 l’Rdc è governato da un gruppo di potere solo in apparenza diverso. Nella realtà, il sistema è uno e collaudato da decenni. E anche le teste sono sovente le stesse.

«Dopo 25 anni di crimini di massa e saccheggio delle nostre risorse da parte dei nostri vicini,

l’autorizzazione del presidente (Félix Tshisekedi, ndr) all’Updf (Uganda people defence force, esercito ugandese, ndr) e gli accordi di cooperazione militare con l’Rdf (Rwanda defence force, ndr) sono inaccettabili. No ai piromani-pompieri! […]». Con questo tweet, il 28 novembre 2021, il medico Denis Mukwege, premio Nobel per la pace (2018), commentava l’ingresso in forma ufficiale di truppe ugandesi in Ituri, provincia dell’Est del paese, sancito poi da un accordo militare il 9 dicembre successivo.

Ma perché il presidente Félix Tshisekedi, in carica dal gennaio 2019, è sceso a patti con il nemico di ieri? Come sta gestendo la sicurezza nell’Est del paese, provato da una guerra che dura, praticamente, dal 1998?

Cerchiamo di fare il bilancio della presidenza del figlio del più noto oppositore politico congolese, Etienne Tshisekedi, scomparso nel 2017.

Democratic Republic of Congo (DRC) President Felix Tshisekedi speaks after he and his Kenyan counterpart, Uhuru Kenyatta (not seen) signed a treaty integrating the DRC into the East Africa trade block at State House in Nairobi on April 8, 2022. – (Photo by Tony KARUMBA / AFP)

Un mandato

Thisekedi è stato eletto il 30 dicembre 2018, in elezioni posticipate di due anni, senza motivazione ufficiale, da Joséph Kabila. Questi governava dal 2001, quando aveva preso il potere alla morte del padre Laurent Désiré Kabila, facendosi poi eleggere per due volte consecutive (2006 e 2011).

«L’arrivo al potere di Tshisekedi è, di fatto, il risultato di un accordo tra questi e Kabila, che avrebbe lasciato il campo libero, a patto che non si andasse a “frugare” nel passato. L’accordo sarebbe stato concluso a Nairobi», ci dice un nostro contatto congolese. Joseph Kabila resta di fatto un uomo molto ricco e potente in Congo, ha molti affari da seguire, anche nel settore minerario, per cui gradisce non essere disturbato.

Il primo governo dell’era Tshisekedi era in coabitazione con la coalizione di Kabila, il Fronte comune per il Congo (Fcc), che aveva riportato, alle stesse elezioni, una maggioranza all’Assemblea nazionale. Qui il Cach (coalizione facente capo a Tshisekedi), poteva contare su una cinquantina di deputati su 500. Si trattava, in qualche modo, di un governo di coalizione di 66 posti, dei quali 23 erano andati al Cach e 42 al Fcc (cfr MC ottobre 2019). Ma a inizio dicembre 2020 Tshisekedi rompe la coalizione, con la scusa che «non permette di mettere in opera il programma di governo». E poi affida a un fuoriuscito eccellente del Fcc, Modeste Bahati Lukwabo, presidente del Senato, la missione di «informatore» per verificare i numeri di una nuova coalizione, che chiama l’Union sacrée (l’unione sacra). Di fatto Tshisekedi aveva «operato» per assicurarsi il cambio di casacca di un buon numero di parlamentari.

«Il politico congolese, il parlamentare in generale, è come una prostituta, va con chi offre di più. Anche quelli che erano con Kabila, erano lì perché lui offriva di più. La coalizione dell’ex presidente esiste ancora, ma ha perso molti parlamentari. Con la maggioranza che ha adesso, Félix può fare molte cose». Il presidente è dunque riuscito ad «acquisire» una maggioranza confortevole e, dopo un paio di mesi di negoziazioni (perché accontentare tutti non era facile) ha varato, il 12 aprile 2021, il suo nuovo governo, questa volta a lui totalmente fedele. Il premier è Sama Lukonde Kyenge, e ne fanno parte, oltre a uomini e donne (sono il 27% su 57 posti) del Cach, gente di Moise Katumbi, di Jean-Pierre Bemba e molti transfughi del Fcc che hanno mollato Kabila.

A tutto campo

Continua la nostra fonte: «Tshisekedi è poi riuscito a modificare la Corte costituzionale, in modo da controllarla. Non è stato facile, perché l’ha cambiata senza usare le procedure costituzionali.

Inoltre, ha imposto anche il presidente del Consiglio nazionale elettorale indipendente (Ceni), in modo arbitrario». Il Ceni è un organo per il quale la neutralità è fondamentale, in quanto ha il ruolo di organizzare le elezioni. All’imposizione di Denis Kadima, un suo fedelissimo, ha cercato di opporsi la Conferenza dei vescovi cattolici del Congo (Cenco), ma senza grande successo.

«La corruzione è il sistema, per cui pagando, tra l’altro con soldi pubblici, si ottiene qualsiasi cosa. Lo scorso anno (2021) il presidente ha regalato un fuoristrada del valore di circa 50mila dollari a ognuno dei 500 deputati». Si parla di circa 25 milioni di dollari, sottratti a opere per la popolazione, come scuole, strade, centri di salute.

Secondo il nostro interlocutore, inoltre «il problema grosso è che Tshisekedi, si è circondato di nullafacenti, spesso disonesti, di cui molti vivevano all’estero da anni, e alcuni sono stati pure arrestati nei paesi in cui erano residenti».

Siamo verso la fine del mandato, in quanto le elezioni sono previste per il 2023, ma «per le questioni sociali ed economiche, le cose stanno peggio di quando c’erano Mobutu, Laurent
Désiré Kabila, o addirittura Joseph Kabila. Perché la cricca al potere è una sorta di gruppo mafioso, tribalista. Tshisekedi ha messo tutta gente della sua etnia nei posti chiave».

Fronte dell’Est

Torniamo a Est, dove la guerra non si è mai realmente fermata dal 1998. È la seconda guerra del Congo.

Uno degli obiettivi del presidente e del suo governo era riportare la stabilità nella regione. Qui imperversano un centinaio di gruppi armati e di sbandati, alcuni legati al Rwanda (come l’M23) altri ai ribelli ugandesi (come l’Adf, Allied defence force). C’è poi la presenza dei caschi blu dell’Onu, la Monusco (operativa dal febbraio 2000, con circa 17mila effettivi).

Qui, più precisamente nel Nord Kivu, il 22 febbraio 2021 sono stati uccisi in un’imboscata l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. Vittime eccellenti tra milioni di morti nell’area. L’inchiesta è ferma su un binario morto, come ha recentemente denunciato Salvatore Attanasio, il padre dell’ambasciatore, chiedendo verità e giustizia.

Il presidente Tshisekedi, nel maggio 2021, ha dichiarato lo «stato di assedio» in due province dell’Est, il Nord Kivu e l’Ituri. Il che vuol dire sospendere gli eletti e le assemblee locali, sostituire i governatori con dei militari, e dare all’esercito potere di controllo del territorio. Ovvero la militarizzazione dell’area. Nonostante questo, gli attacchi ai civili e gli scontri non sono cessati, anzi. A fine marzo scorso è riaffiorato l’M23, gruppo paramilitare appoggiato dal Rwanda, che era stato sconfitto nel 2013. Tale milizia è strumentale allo sfruttamento delle risorse minerarie della regione da parte del piccolo, ma bellicoso, paese guidato da Paul Kagame. Tra fine marzo e inizio aprile, ha condotto diversi massacri, in villaggi nella zona di Rutshuru, Nord Kivu, nei pressi del confine triplo con Uganda e Rwanda (cittadina a 70 km da Goma, la stessa zona dell’assassinio di Attanasio).

Relazioni internazionali

«Tshisekedi ha avuto un avvicinamento al regime di Kigali, dicendo che Kagame è un suo fratello. La moglie del presidente congolese ha parenti altolocati in Rwanda. Così, invece di mettere fine all’insicurezza all’Est, come aveva promesso, Tshisekedi ha fatto accordi con i carnefici. Gli stessi governatori militari, che ha imposto con lo stato di assedio, sono persone dal passato molto opaco».

Nel mese di maggio dello scorso anno, un’impresa ugandese ha vinto diversi appalti per la costruzione di strade nel Nord Kivu, verso l’Uganda. L’accordo punta anche a proteggere i cantieri, oltre a combattere l’Afd, ribelli ugandesi, di matrice islamista, attivi dal 1995 e basati in queste aree del Congo.

«Ma in queste terre così ricche, un’impresa che scava per fare strade, può facilmente portare via minerali».

Ricordiamo che l’Rdc è il primo produttore mondiale di cobalto, essenziale per le batterie e i dispositivi elettronici, con 174mila tonnellate all’anno (70% del totale). È il primo produttore africano di rame, e grande produttore di diamanti, oro, zinco. La ricchezza del suo sottosuolo è stata definita uno «scandalo geologico». Minerali che vengono sfruttati da altri: «Si calcola che su 41 miliardi di dollari prodotti ogni anno dalle miniere del Congo, solo un miliardo resti nel paese». Con un Pil pro capite di 540 dollari all’anno (Banca Mondiale, 2020), è come dire che l’intera popolazione, 90 milioni, sopravvive con 1,5 dollari al giorno.

Il 29 marzo scorso Félix Tshisekedi ha firmato per fare entrare l’Rdc nel East african community (Eac, il mercato comune Est africano), che comprende Kenya, Tanzania, Uganda, Sud Sudan, Rwanda e Burundi. Questi paesi vedono l’Rdc come un paese di enormi ricchezze (da sfruttare), ma anche un grande mercato per il loro export, che vedrà, grazie a questa firma, ridursi drasticamente i dazi doganali. Non è chiaro, invece, il beneficio che ne avrà il Congo, la cui fragile economia rischia contraccolpi negativi.

È del 14 aprile una notizia inquietante. Il Regno Unito ha firmato un accordo con il Rwanda per cui questo accoglierà i migranti e richiedenti asilo indesiderati sul suo territorio in cambio di 120 milioni di sterline. I militanti dei diritti umani hanno bocciato il progetto come inumano e barbaro. Anche l’opposizione britannica è contraria e l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu vi si oppone con fermezza, in quanto contrario alla convenzione di Ginevra sui rifugiati.

Il Rwanda è un paese piccolo e sovrappopolato, con una densità di quasi 500 abitanti al km2, 2,5 volte quella dell’Italia. «Dove pensate che Kagame voglia mettere i migranti deportati dal Regno Unito?».

Questo è il paese che Papa Francesco visiterà dal 2 al 5 luglio prossimo, fermandosi a Kinshasa e Goma, per poi proseguire per il Sud Sudan.

Marco Bello

Isiro cattedrale con tomba di suor Anuarite


Hanno firmato il dossier:

  • Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata.
  • Antonio Barbero. Nato a Marene (Cn), nel 1928, ha aperto le prime missioni della Consolata in Zaire. È scomparso prematuramente a Torino nel 1982. Ringraziamo padre Mario Barbero, fratello di padre Antonio, per averci messo a disposizione le lettere originali dalle quali abbiamo tratto alcuni stralci.
  • Giacomo Mazzotti. Missionario della Consolata in Zaire (1980-90) e in Rdc (2006-2016), redattore della rivista Amico (‘90-2005). Oggi postulatore per la causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano.
  • Marco Bello. Giornalista redazione MC.

Archivio MC

Luca Lorusso, Perché abbiano la vita, gennaio 2022.
Luca Pistone, Ripartire dalle donne, dicembre 2020.
Marco Bello, Pigmei. Sempre nomadi, ma fino a quando?, ottobre 2019.
Giusy Baioni, Quando il «re» decide di lasciare, novembre 2018.

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Ricordi personalissimi di 25 anni in Corea del Sud

La testimonianza di padre Paolo Lamberto dalla Corea


Padre Paolo Lamberto è partito per l’Estremo Oriente che era ancora sacerdote di primo pelo. Si è trovato in un mondo affascinante ed enigmatico che gli ha conquistato il cuore ma ha anche preso il meglio delle sue energie. Là ha imparato ad affidarsi all’unica forza che non si esaurisce mai.

Avete presente le case con i tetti ondulati e i paesaggi di quei quadri orientali in bianco e nero dove le nuvole danno il senso della profondità e tutto emana un senso di equilibrio e di pace? Ecco, questo era più o meno quello che mi aspettavo di vedere quando sono atterrato a Seul il 23 settembre del 1992. E invece, a perdita d’occhio, palazzi, palazzi e palazzi. Una foresta di cemento e traffico da far paura.

Apprendista missionario in Corea

Ad aspettarmi all’aeroporto insieme ai miei due confratelli c’era Monica. È stata la prima persona coreana che ho incontrato. Poi ho conosciuto altre due Monica e, siccome facevo fatica a ricordarne i nomi coreani, le chiamavo con nome del luogo in cui abitavano: Monica di Yokkok, di Pupyong, di Mansok. Tutte ci hanno aiutato moltissimo. E poi ricordo Jacinta, la prima presidente del gruppo dei nostri amici, piena di vita. E come dimenticare Rufina, sempre fedele ai nostri incontri ma anche per i servizi più umili? Ha avuto una vita difficile, ma anche adesso nei suoi ottant’anni, è sempre allegra e pronta ad aiutare.

Monica di Mansok è già in paradiso. Viveva a Mansok Dong, un quartiere povero della città di Inchon. I padri Diego (Cazzolato, italiano) e Luiz (Emer, brasiliano) vivevano là e lei, pur essendo un po’ disabile, li aiutava a trovare i più poveri del quartiere o i cristiani non praticanti.

Anche io ho vissuto là in tempi diversi. Qualche volta, in inverno, quando stavamo via per qualche giorno, Monica accendeva per noi il rudimentale riscaldamento a carbone della nostra casetta. Mi ricordo di quando venivano i topi in cucina e al mattino trovavamo i segni dei loro incisivi nel sapone. La cappella era un sottotetto dove si poteva stare solo seduti.
I bambini del quartiere ci visitavano spesso e c’era una bella cooperazione con i volontari di un doposcuola per i bambini svantaggiati del quartiere.

Tra le vecchiette che visitavamo ce n’era una che ci raccontava sempre di quando era scappata dalla Corea del Nord poco prima che scoppiasse la guerra.

Ricordo anche con molto affetto e gratitudine gli insegnanti di coreano che hanno faticato a insegnarmi la loro lingua per quasi due anni. Dopo un anno, appena sono stato in grado di leggere il testo della messa da solo, ho cominciato ad andare in parrocchia tutti i fine settimana. Il mio primo parroco, un sacerdote coreano, si chiamava Kim Venanzio. Mi ha insegnato molte cose sulla cultura coreana, ma mi ha anche fatto mangiare i cibi più strani che abbia incontrato nella vita: dal cane alle ginocchia di bue, da una razza, che eufemisticamente potremmo dire che sa di acido urico, a tutto ciò che si trova nel mare, a parte gli scogli.

Nella sua parrocchia ho cominciato a confessare in coreano. Un’anziana signora veniva e mi diceva: «Padre, ho saltato una messa». Ma io che non sapevo distinguere bene le sfumature della pronuncia capivo: «Padre, durante la messa mi sono mangiata una grossa pera». E un’altra: «Padre, mi sono mangiata l’orecchio» (cioè, ci sento poco). Tra me e me rimuginavo sulle strane abitudini alimentari delle nonnette coreane.

Il bello della vita comune

Padre Rafael Del Blanco, argentino, è stato uno tra i primi otto missionari arrivati qui. Intelligente e di gran cuore, era molto impulsivo, e spesso, testa e cuore non viaggiavano sullo stesso binario. Una volta ha comperato 200.000 won (circa 200 €) di pesce da un venditore ambulante. Gli abbiamo detto: «Ma Rafael, tu non mangi pesce, e qui ce n’è per 6 mesi». E lui: «Ma era un’occasione».

Con padre Benjamin (Martinez Solano, colombiano) ho vissuto per qualche anno. Una volta sono andato a trovarlo quando il nostro centro di dialogo interreligioso era ancora a Okkiltong, e con lui c’era un monaco buddista nostro amico. E lui mi ha detto: «Dai, andiamo al karaoke». E così ci siamo andati, io in clergyman e il monaco col suo abito grigio. E la gente guardava stupita lo spettacolo di un prete cattolico e di un monaco buddista che cantavano insieme in coreano. Quante discussioni teologiche ho avuto con padre Luiz Emer, ma stranamente sulle cose pratiche eravamo sempre d’accordo.

Padre Paco (Francisco López, spagnolo) veniva invece da un altro pianeta. Ci siamo aiutati molto e anche voluti molto bene. Ma una volta mi sono arrabbiato davvero con lui. Era di nuovo in ritardo per un incontro che dovevamo fare insieme. Non erano due volte, non dieci, ma sempre, e ogni volta erano almeno 30 minuti. Quanti rosari mi ha fatto dire quell’uomo. Così quel giorno non sono andato all’incontro e ho tagliato ogni comunicazione con lui. «Non ne posso più», mi sono detto, ma pregando in cappella dopo cena, ho letto queste parole: «Non lasciate che nessuna radice cattiva cresca in mezzo a voi» (Eb 12,15). Mi sono reso conto che quelle parole erano proprio per me, così quella notte l’ho chiamato al telefono, vivevamo in due comunità diverse, l’ho svegliato e ci siamo riconciliati.

Un aspetto simpatico della nostra comunità sono le vacanze estive che quasi tutti gli anni facciamo insieme. Per me le più memorabili sono state le prime, pochi giorni dopo essere arrivato in Corea. Andammo al Soraksan National Park. Io mi aspettavo qualcosa come le Alpi, dove tu cammini fino ai 3.000 metri e poi  sei solo a contemplare la natura. Ma no. Prima di salire in montagna abbiamo fatto la coda per comprare il biglietto, poi la salita e poi gente dappertutto, un bar, venditori di magliette e cibi vari. Addirittura, sulla cima dell’Ulsanbawi (una punta rocciosa alta circa 800 metri) un signore vendeva medaglie ricordo per chi era riuscito a fare tutti gli 888 scalini fino in cima. Ma la cosa più simpatica è stata che, il giorno prima di partire, siccome andavamo in montagna, padre Paco aveva raccomandato a padre Antonio (Domenech del Rio, spagnolo) e a me, appena arrivati, di portarci vestiti pesanti. Così noi due abbiamo riempito gli zaini con maglioni e giacconi come se dovessimo scalare l’Himalaya. Ma quello era il Soraksan a fine settembre e faceva un caldo boia. Un altro anno siamo andati sulle montagne del Jirisan (nel Sud della Corea tra i 1.600 e 1.900 metri di altezza). Avevamo comprato una succosa anguria da 9 kg e qualcuno aveva suggerito di andare a mangiarla in cima a qualche montagnola. Indovinate chi è stato il fortunato prescelto dalla sorte per portare l’anguria fino su? Arrivati in cima, però, nessuno aveva voglia di anguria, ed è toccato ancora a me riportarla giù.

Anche le ultime vacanze insieme sono state speciali. Avevamo preparato giochi, birra e stuzzichini per animare la prima sera, ma senza neanche accorgercene abbiamo cominciato a parlare tra noi spontaneamente e liberamente come vecchi amici che si ritrovano dopo anni, ed è stato solo verso le 2 del mattino che ci siamo allegramente resi conto che era ora di andare a nanna.

Corea, tra gioie e fatiche

Alla fine della scuola di lingua, il Signore aveva preparato per me una sorpresa e un’altra chiamata. Avevo messo tutte le mie energie nello studio del coreano ma dopo un anno e mezzo mi ritrovavo senza forze e non riuscivo più a concentrarmi. Mi ci è voluto un bel po’ a riprendermi, ma ogni due mesi rimanevo vuoto di energie per una settimana.

Dal 2000 sono stato incaricato della formazione dei nostri seminaristi coreani. Anche quello è stato un tempo bello, aiutando ognuno a crescere nella fede e nel nostro carisma missionario secondo la sua personalità. E ora i miei cinque seminaristi sono diventati sacerdoti e annunciano il Vangelo in tre continenti: Pietro Han Kyoung Ho in Corea, Martino Han Gyeong Ho in Mozambico, Giuseppe Kim Moonjung in Rd Congo, Benigno Lee Dong Uk in Kenya e Giuseppe Kim Myeong Ho in Colombia.

Alla fine del 2004 ero mentalmente esaurito. Sono dovuto tornare in Italia per un po’ per rimettermi in forma. Sono tornato nel 2005 e da allora non sono più riuscito a fare molte attività. A volte mi sentivo inutile. A volte mi pareva che non ci fosse futuro per me. Ho detto allora a Gesù: «Ero pronto a darti tutto, anche le cose più dure e difficili, ma questo è umiliante. Così non servo a niente! Ma se lo vuoi Tu allora lo voglio anch’io». Così, ciò che da un punto di vista materiale sembrava un tempo di non produttività, dal punto di vista spirituale mi ha aiutato a fare grandi progressi. Ora vedo che se offro immediatamente a Dio non solo le cose buone, ma anche quello che mi fa male, per amore suo ovviamente, tutto diventa sopportabile e ne seguono pace, serenità e gioia.

Ho imparato a cucinare per servire i confratelli della mia piccola comunità, di solito siamo in 2 o 3, e cerco di tenere allegro tutto il nostro gruppo della Corea.

Poi, l’anno scorso, sono andato a Taiwan a predicare gli esercizi spirituali ai nostri quattro confratelli che lavorano lì. Pensavo che mi sarei esaurito nel giro di tre giorni. E invece è andato tutto bene e per sette mesi il Signore mi ha concesso energia come da più di vent’anni non ne avevo avuta. Il Signore mi ha aperto una finestra di speranza per un lavoro missionario più fruttuoso, e gliene sono veramente grato. Ma adesso so che la cosa più importante è quello che Lui vuole, e voglio continuare a seguirlo con allegria, capiti quel che capiti.

Mentre ero in Corea ho perso entrambi i miei genitori. Prima mio papà nel ’93 e poi mia mamma nel 2005. Perlomeno sono riuscito a vedere mia mamma prima che morisse, anche se già non poteva né parlare né capire. Nella camera mortuaria, mentre aspettavamo che fosse messa nella cassa, eravamo alcuni familiari, e con lei lì presente tutti abbiamo sperimentato una grande pace e unità. E non solo, sentivamo come una pioggia di grazie su tutta la famiglia, e in me una grande gioia del tutto innaturale e inspiegabile. La cosa è durata tre mesi e mi sono ritrovato a dirle: «Grazie mamma ma adesso basta grazie».

Pastorale della pastasciutta

Nel 2012, per un progetto di urbanizzazione del governo siamo stati costretti a muovere la nostra comunità di dialogo interreligioso da Okkiltong a Tejon, una città 160 km a Sud. Padre Diego Cazzolato (il veterano del nostro gruppo) e io abbiamo vissuto per vari mesi in un appartamentino di 45 m2 mentre seguivamo la costruzione della nuova casa. Ma a fine anno, dopo neanche tre mesi di vita nella nuova casa, sono stato trasferito a Tongduchon con padre Tamrat (Defar, etiope). La cosa in realtà si è poi rivelata molto provvidenziale. Ci siamo molto aiutati e sostenuti a vicenda nella pastorale dei lavoratori stranieri. Ci sono stati momenti in cui dicevamo: «Beh, noi non siamo poi così speciali, ma il Signore sta radunando intorno a noi tanta brava gente che fa tanto buon lavoro. Il Signore ci sta usando come catalizzatori per la missione». Durante quei 3 anni insieme abbiamo sviluppato la «pastorale della pastasciutta». Con la scusa della cucina italiana abbiamo invitato a casa ogni tipo di persone, e in un ambiente caldo e familiare abbiamo parlato di problemi pastorali, di religione e di ogni altra cosa con preti, suore, cattolici, protestanti, non cristiani, nigeriani, filippini, latinos e coreani. E poi qualche sabato pomeriggio, Tamrat e io camminavamo insieme per un’ora fino a una montagna vicina, prendevamo una frittata e una brocca di vino di riso, e poi tornavamo a piedi, parlando di tutto.

E adesso bisogna proprio che vi parli della messa. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono detto: «Ma cosa faccio qui? Vale la pena stare qui o fare questa vita? Sono utile a qualcosa?», oppure: «Dai, impacchetta tutto e torna a casa». Solo la messa mi ha aiutato, giorno per giorno, a trovare forza e soprattutto significato per andare avanti in questa missione.

Ecco, questi sono alcuni ricordi «a caso» dei miei primi 25 anni in Corea, ma il ricordo più importante è: «Se il Signore non fosse stato con noi, tutto quello che siamo e facciamo ora, sarebbe stato impossibile».

Giovanni Paolo Lamberto


I giovani coreani

Di quali giovani parlare? Qui le cose cambiano rapidamente: chissà che tipo di giovani avremo fra 10 anni? Chi ha più di 50 anni quando era giovane ha dato tutto per il «miracolo economico» della Corea. I 40enni sono gli eroi della lotta contro la dittatura militare. I 30enni hanno avuto la vita più facile: la nazione era diventata ricca e le famiglie molto piccole. I 20enni hanno avuto la vita ancora più comoda ma adesso fanno fatica a trovare un lavoro e spesso rimandano matrimonio e figli perché l’economia non tira più come prima. Chi ha meno di 20 anni è sicuramente cresciuto con un telefonino in tasca e il computer davanti al naso.

Però c’è un’esperienza che li accomuna tutti, e per quanto ne so, lo stesso capita per i paesi di cultura confuciana (Cina, Giappone, Taiwan, Singapore, Hong Kong): la scuola.

In Corea, fino all’asilo i bambini possono fare quello che vogliono, nessuno li rimprovera. Ma dalla 1ª elementare vengono «intruppati» nel sistema e da quel momento è solo studiare, studiare e studiare. E fare tutto il possibile per essere ai primi posti. Qui l’educazione è intesa come: «L’allievo è un contenitore vuoto che deve essere riempito dal maestro». E la scuola normale non basta. Appena finito si va alle cosidette Accademie per approfondire inglese, matematica, piano, tae kwon do (taekwondo, un’arte marziale) ecc. È normale per uno studente coreano uscire di casa al mattino alle 7 e ritornare alla sera alle 10 o alle 11.

Molti anni fa, durante le mie prime esperienze di confessione in coreano, ho capito che quando mi parlavano in modo comprensibile erano peccati normali, quando invece parlavano difficile, con molti vocaboli di origine cinese, erano cose grosse. Un giorno è venuta una ragazza e mi ha detto: «Io sono ko sam». Per stare sul sicuro le ho raccomandato: «Quella roba non farla mai più». Che cantonata. Anche il più sprovveduto dei coreani sa benissimo che ko sam vuol semplicemente dire: «Sto frequentando il terzo anno delle superiori e mi preparo all’esame di entrata all’università per cui non esco di casa, non vado con gli amici, non vado a messa, e dal mattino alla sera è solo studio». Dal mattino alla sera è un eufemismo: sulle pareti di molte scuole c’è questa scritta: «Più di 4 e non ce la fai». Cioè: «Se dormi più di 4 ore per notte quando prepari questo esame non ce la farai a passarlo».

Questo esame determina tutta la tua vita futura, chi sarai, quanto guadagnerai, che amici avrai. Accedere a una università di prestigio è come entrare in un club esclusivo, e, indipendentemente dai risultati e dalle materie scelte, i membri della stessa università si aiutano tra loro, ti assumono nella loro ditta, ti aiutano a far carriera.

Pressione e competitività, a cui si è aggiunto di recente il fenomeno del bullismo, sono spesso causa di un grande numero di suicidi tra i giovani. Senza dimenticare che i giovani che escono da queste scuole saranno poi i dirigenti della Samsung, Lg, Kia, Hyundai, ecc. E che questi giovani, così legati alla loro terra e cultura, diventeranno quegli imprenditori che non esiteranno un attimo a trapiantare la loro piccola azienda, se qui non sarà più competitiva, in Cina, Indonesia o America Latina.

Vincenzo, missionario oblato di Maria Immacolata, italiano che lavora molto nel sociale, mi ha parlato dell’emergenza nascosta di almeno 200.000 ragazzi scappati di casa e mi ha descritto i cambiamenti avvenuti col tempo. All’inizio c’è stata la generazione del «doposcuola»: ragazzi poveri che avevano bisogno di essere aiutati con lo studio per uscire dalla povertà. Quando la società si è arricchita è arrivata la generazione del «rifugio»: ragazzini che magari scappavano di casa per conflitti familiari, ma ancora capaci di ascoltare l’autorità e di farsi aiutare. Solo cercavano un rifugio (shelter in inglese) dove poter stare.

Adesso c’è la generazione del «telefonino»: per loro è importante solo il momento presente. Perché studiare o sforzarsi di migliorare? Vivo adesso e il mio orizzonte è quello che posso godere in questo momento. Sì, questa è l’emergenza, ma non è lontanissima dal sentire del giovane medio.

Sone periferiche e povere di Seul

I giovani coreani amano lo sport: il baseball, lo sport più popolare, riempie gli stadi. Vanno alla grande le bands di teenagers che cantano e ballano, per non parlare delle telenovelas e dei film locali. Questi cantanti e attori sono popolarissimi anche nel resto dell’Asia, tanto che è stata coniata una nuova parola: Hallyu, cioè l’onda culturale coreana che si spande per l’Asia. E non dimentichiamo il karaoke (qui si chiama norepang), uno dei divertimenti più popolari in Corea. In questo momento quello che corrisponde alle nostre pizzerie sono i ristorantini di pollo fritto e birra, sempre pieni di giovani universitari.

In Italia tutti sono orgogliosi di sfoggiare la tintarella. Le ragazze coreane invece no. La sfida è essere più bianche delle altre. E allora quando splende il sole tutte in giro con l’ombrellino o un cappello a larghissime tese. E poi creme sbiancanti e creme antisolari. La bellezza qua è un valore importante, quindi le vedrete sempre truccate in modo impeccabile. Dal resto dell’Asia vengono in Corea per comperare i cosmetici locali che sono molto rinomati. E non parliamo della chirurgia plastica: molte volte il regalo dei 18 anni o per aver passato l’esame di ammissione all’università è proprio un ritocchino al naso, al mento o agli occhi.

E in Chiesa? Purtroppo, adesso sembra di essere in Europa: i giovani sono molto rari. Fino al 2000 non era così. Ma poi la denatalità (che è più alta di quella italiana: 9 nati ogni mille abitanti in Italia; solo 8 in Corea), il benessere, o forse «la notte della cultura occidentale» sono arrivate anche qui. Sta di fatto che dal 2000 le vocazioni religiose, una volta abbondanti, sono crollate drammaticamente, e anche quelle per il sacerdozio diocesano stanno mostrando segni di crisi. Ma mai disperare, i coreani possono essere tutto e il contrario di tutto, questo popolo ha fatto stupire il mondo in più di una circostanza, e sono sicuro che i nostri giovani ci stupiranno nuovamente.

G.P.L.


Corea del Sud su MC:

Crogiuolo di religioni, 11/2010
A Seul si dorme poco, 10/2010
Consolazione di frontiera, 11/2012
Una storia affascinante! 25 anni di presenza per gli IMC, 1-2/2013
Venerando Dio in te… buongiorno!, 4/2013
Speriamo non arrestino il batterista, 3/2014
Isaac e Cristina oggi sposi, 3/2014
La Consolata si è fatta coreana, 10/2015
Good morning Korea, 1-2/2017
L’ospite d’onore, 11/2017.