RD Congo: Pigmei. Sempre nomadi, ma fino a quando?

Le nuove sfide della missione con i pigmei bambuti

Testo di Marco Bello | foto Archivio fotografico MC


I pigmei bambuti sono il popolo originario delle foreste nell’Est del Congo. All’arrivo di altre popolazioni si sono inoltrati sempre più nella selva. Ma da alcuni anni i cercatori d’oro invadono il loro territorio, portando molte problematiche. Intanto anche lo sfruttamento del legname e la deforestazione stanno distruggendo il loro habitat. Ai missionari la grande sfida di come salvare la loro cultura.

«I pigmei non sono guerrieri, ecco perché all’arrivo di altre popolazioni nella loro terra, hanno adottato la politica di ritirarsi nella foresta più folta. Purtroppo oggi assistiamo a un’invasione della selva, operata dai cercatori d’oro alla ricerca di nuovi siti». Chi parla è padre Flavio Pante, missionario della Consolata con una ventennale esperienza di lavoro tra le popolazioni pigmee del Congo, oltre che con esperienze in Costa d’Avorio e Italia.

Parla del Nord Est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), del distretto dell’Alto Uele, diocesi di Wamba: «I pigmei sono stati i primi abitanti di questa zona, tutti gli altri, quelli che chiamiamo genericamente bantu, sono arrivati in un secondo tempo». I missionari della Consolata lavorano da venti anni nell’area di Bayenga, dove c’è un’alta concentrazione di pigmei, in particolare la popolazione dei Bambuti. «La parrocchia lavora sulla realtà pigmea, e sulla realtà dei bantu e delle altre popolazioni».

Il «nuovo» flagello

La foresta è ricca di oro e altri minerali preziosi, che si trovano, in particolare, lungo i fiumi, un po’ ovunque. Così il popolo dei cercatori d’oro si inoltra sempre più nella foresta e costruisce vere e proprie città provvisorie di baracche nei pressi dei siti auriferi più promettenti. Dato che questi siti cambiano in continuazione, i villaggi di oggi potrebbero scomparire una volta esaurita la vena mineraria. Il risultato è una penetrazione della foresta sempre maggiore.

«Qualcuno paga la licenza di estrazione – racconta padre Flavio – e manda i più disperati a cercare l’oro. Questi sono i cercatori artigianali, lavorano manualmente e nessuno assicura loro il minimo di sicurezza. Si può dire che stanno peggio dei pigmei. Quello che trovano lo vendono per pochi soldi all’intermediario, che poi lo porterà al comptoir (ufficio di esportatori, ndr) in città dove sarà acquistato a un prezzo nettamente superiore.

Tutto quello che i cercatori d’oro consumano, come il cibo, gli attrezzi, viene da lontano, dalle città, e arriva con grossi camion. Per questo è molto costoso. In questi agglomerati di baracche circolano soldi, prostituzione, malattie, violenza. Tutti gli affari, in quest’area, seguono i siti di estrazione dell’oro».

Un fenomeno, che, pure se esisteva già 30 anni fa, come conferma padre Flavio che era in missione in Congo (all’epoca Zaire) nel 1978, negli ultimi dieci anni ha assunto una dimensione enorme, e tutto questo a scapito del territorio dei pigmei.

Legname pregiato

«Un altro fatto che sta contribuendo alla distruzione dell’habitat del pigmeo è il taglio degli alberi per il legname. I camion che portano mercanzie di ogni genere per i cercatori d’oro, ripartono carichi di tronchi. Spesso i pigmei stessi sono assoldati per trasportare gli alberi sezionati fuori dalla foresta, nei luoghi raggiungibili dai camion. I mezzi poi partono per l’Uganda, dove il legname sarà venduto e lavorato». Una foresta invasa dalle motoseghe, vuol dire non solo eliminare gli alberi, ma anche far fuggire la selvaggina, il principale sostentamento del pigmeo.

Si tratta anche di una invasione culturale, oltre che fisica: «Il pigmeo è entrato in contatto con un’altra realtà. Ha visto il mercato del villaggio bantu, ascoltato la radio, sperimentato gli alcolici. Ormai non riesce più a staccarsi da queste cose penetrando di più nel folto della foresta. Si avvicina alla popolazione di origine bantu e si accampa. Però è rimasto per indole raccoglitore e cacciatore, per cui può capitare che vada in un campo e raccolga del cibo: ma in questo modo, per la società bantu, diventa un ladro. Un comportamento dell’altro, non puoi criticarlo se non lo conosci. Devi cercare di metterti nei suoi panni. Il pigmeo ha rubato, o piuttosto, ha preso per fame?».

Il pigmeo che con la sua famiglia è uscito dalla foresta profonda e si è accampato nei pressi delle città, ha perso il suo habitat ed è a un passo dal perdere la sua identità.

«Una questione fondamentale – continua padre Flavio – è che le persone di altre etnie considerano i pigmei esseri inferiori. A causa di questo preconcetto si è creata una dipendenza perversa. Il bantu dice al pigmeo: “Io ti prendo come protetto. Tu coltiva il tuo campo e poi vieni a lavorare nel mio come mio servo”. Si crea una dipendenza servile che spesso è suggellata dal patto della circoncisione: “Io circoincido mio figlio con il tuo, per questo siamo quasi parenti”».

Ma nella mentalità del pigmeo coltivare è assurdo. Da cacciatore, lui si procura da mangiare nella giornata, abbastanza per quel giorno. Seminare, innaffiare e pensare di avere cibo dopo settimane o mesi è impensabile per la sua concezione. Occorre un cambiamento di mentalità, ma ci vuole tempo.

La scuola «inculturata»

Un aspetto che ha interrogato molto i missionari è stato quello dell’educazione. «Il contatto con le altre popolazioni impone che i pigmei imparino a leggere e scrivere – sostiene padre Flavio -. Dobbiamo però tenere sempre presente che vogliamo valorizzare quello che loro danno per scontato, ma che stanno per perdere, ovvero la loro cultura. Per questo occorre prepararli in modo che siano in grado di conservare le loro tradizioni».

I bantu si sono adeguati allo stile e ai costumi europei. Questo anche a livello di scuola, che è strutturata come quella dei paesi colonialisti. Ma se, ad esempio, per i belgi ci sono quattro stagioni, per i pigmei ce ne sono solo due, ovvero la stagione secca e quella delle piogge. Inoltre per loro non ci sono i mesi, ma le lune. Per la scuola del bambino pigmeo bisogna tenere in conto di tutto questo. Se da settembre a novembre può venire a lezione, da gennaio in poi è stagione secca, deve andare in foresta a cacciare e raccogliere il miele. Quindi partirà con i suoi genitori, tornando magari dopo tre mesi. Inoltre, quando frequenta, il bambino pigmeo non riesce a stare fermo tutta la mattina. La scuola deve essere diversa anche come tempistiche. Ecco perché i missionari della Consolata si sono inventati la «scuola itinerante».

Così la descrive padre Flavio: «È una scuola che si adatta ai periodi dell’anno e alla periodicità dei giorni. L’insegnante passa nell’accampamento dei pigmei e inizia a dare nozioni di base. Poi si integra con un cosiddetto “esperto” dell’accampamento, ovvero un adulto che tiene lezioni su elementi specifici, come la caccia, la tessitura, e tutti gli altri aspetti della vita pigmea».

Un’altra difficoltà nell’insegnare ai pigmei è il fatto che sono molto concreti e hanno difficoltà con l’astrazione. «È piuttosto complesso ad esempio insegnare i numeri. Per spiegare il numero 8, ad esempio, prendo otto pietre, otto unità. Ma non c’è il concetto di una entità che si chiama “8”. Quindi il calcolo resta molto difficile per loro. Così come per insegnare l’alfabeto occorre associare un suono a ogni lettera. Sono categorie che devono acquisire, non sono spontanee.

Noi ci prepariamo le lezioni in lingua kibutu, che è una lingua bantu parlata anche dai pigmei, simile al kiswahili. A volte proiettiamo qualcosa su un panno bianco. Abbiamo visto anche molto interesse da parte degli adulti, che lasciano le loro occupazioni per venire a vedere cosa stiamo facendo».

Il villaggio mobile

Il pigmeo non ha un villaggio stabile. La sua capanna si può costruire in un giorno e, normalmente, è un incarico delle donne. I gruppi sono composti da una trentina di persone, senza contare i bambini, e sono entità che si spostano.

Inoltre, tradizionalmente, fino a pochi anni fa, non c’era un capo. C’erano dei referenti, responsabili di alcuni ambiti della vita della comunità: chi per la caccia, chi per far nascere i bambini, chi per la tessitura, ecc. Adesso, che hanno contatti con i bantu, è nata l’esigenza di avere un capo, perché occorre un referente unico per il gruppo.

Un altro effetto della contaminazione è quello legato alla monogamia. «I pigmei sono tradizionalmente monogami, perché in foresta non puoi permetterti due mogli e tanti figli. Oggi, con il contatto con i bantu, stanno assumendo altre usanze. Anche per la dote. Il matrimonio veniva fatto tra due gruppi con scambio di ragazze. Se si porta carne è per la festa comune, ma una ragazza vale una ragazza. Per i bantu, invece, se tua figlia si sposa devi chiedere dei beni all’altra famiglia. Diventa quasi una vendita.

Tra i pigmei al servizio dei bantu iniziano a entrare le abitudini dei bantu».

Anche dare uno stipendio a un pigmeo è difficile: «Si pagano tutte le settimane, perché una volta al mese non riescono a tenere i soldi. Un funzionario si trova ad avere un salario, ma non sa gestirlo. Spesso beve. Oppure paga anche per gli altri, condivide, come se nel  giorno di paga avesse cacciato un grosso animale. Ci sono stati maestri elementari pigmei, ma sono stati un fallimento. È una perdita di identità al 100%: dicono di non essere più pigmei, però si accorgono di non essere nemmeno bantu, perché vengono discriminati. Rifiutano i loro fratelli e sono rifiutati da quelli con cui si identificano».

Il lavoro dei missionari

«Ci sono villaggi bantu nei pressi dei quali sorgono due, tre accampamenti pigmei. Noi andiamo al villaggio, lasciamo la moto e poi entriamo in foresta a piedi, fino all’accampamento.

Tre anni fa, si era creato un accampamento grosso, fusione di due gruppi. Lì mi avevano fatto una capanna e io vivevo con loro tre giorni alla settimana.

Per preservare la loro cultura cerchiamo di raccogliere e conservare tutto quello che è il loro mondo, sia a livello di medicina tradizionale, sia di narrazioni. Ma è un lavoro agli inizi. Quello che manca, guardando altri casi simili, come il popolo Yanomami in Amazzonia, è la mancanza di una sensibilità al riguardo. Penso sia frutto di un lavoro, ma forse anche di una sensibilità latinoamericana diversa. I pigmei non dicono “la nostra tradizione, i nostri costumi”. Devi essere tu che indichi loro: “I vostri costumi”. A volte il pigmeo ha vergogna dei suoi costumi. Questo perché quando sei considerato inferiore, dopo un po’ ti convinci di esserlo».

Padre Flavio Pante sostiene che occorre anche lavorare sulla popolazione bantu per un cambiamento di mentalità nei confronti dei pigmei. Ma si tratta di un lavoro molto difficile, «perché i bantu si sentono i padroni della gente». Inoltre il missionario è sempre uno straniero, e i bantu hanno troppi interessi da difendere. Noi cerchiamo di fare un discorso con i cristiani: non possiamo accettare questa logica.

«Per i sacramenti e la preghiera, cerchiamo di celebrare con la comunità unita, ovvero insieme bantu e pigmei. I pigmei vengono a messa. La partecipazione nel canto e nella danza è più difficile: i bantu ridono dei pigmei che danzano. Inoltre la musica pigmea non ha parole, ha suoni anche con la bocca».

E conclude: «C’è in noi la volontà di continuare ad occuparci delle popolazioni pigmee. Ma gli africani, in genere, non sono molto attirati a lavorare con loro».

Marco Bello


Archivio MC


Dalle elezioni alla formazione di un nuovo governo

Alternanza? Sì, no, forse

Le elezioni del dicembre 2018 hanno dato al Congo un nuovo presidente, dal cognome famoso, ma senza maggioranza parlamentare. Da allora sono passati otto mesi alla ricerca di un difficile consenso tra gruppi politici, per governare uno dei paesi più ricchi di materie prime del continente.

Forse ci siamo. La Repubblica democratica del Congo avrà, infine, il suo nuovo governo. La lista dei suoi 65 membri è stata resa pubblica il 26 agosto. Da ormai sette mesi, dal suo insediamento, il 25 gennaio scorso (in seguito a elezioni presidenziali, legislative e amministrative), il nuovo presidente della repubblica Félix Tshisekedi, tenta di costituire il governo (l’Rdc è una repubblica presidenziale). Tshisekedi è il figlio di Etienne, l’eterno oppositore che non è mai riuscito a conquistare il potere, se non per alcune brevi esperienze di governo come primo ministro. Etienne dopo aver perso l’ultima sfida nel 2011 contro Kabila, è morto il primo febbraio del 2017.

Félix ha vinto a sorpresa le elezioni presidenziali, molto contestate in realtà, alla testa del partito fondato da suo padre, l’Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale (Udps), facente parte del più vasto gruppo politico Cap pour le changement (Cach). Nel frattempo il Fronte comune per il Congo (Fcc), la coalizione dell’ormai ex presidente Joseph Kabila, ha vinto massicciamente le legislative e le amministrative, assicurandosi una maggioranza confortevole all’Assemblea nazionale e al Senato (le due camere del parlamento congolese).

Tshisekedi ha dunque dovuto intavolare un negoziato con gli ex padroni del paese per tentare di creare un governo.

«Il contesto politico è cambiato in Rdc – scrive il Gruppo di studio sul Congo dell’Università di New York -. Joseph Kabila anche se è ancora potente, con una maggioranza parlamentare schiacciante, non è più l’uomo forte di Kinshasa. L’ex presidente non ha più l’ultima parola su tutto».

Joseph Kabila era salito al potere il 26 gennaio del 2001, alla morte di suo padre Laurent-Désiré Kabila, ucciso da una sua guardia del corpo in circostanze ancora da chiarire. Era in corso la cosiddetta Seconda guerra del Congo (1998-2003). Laurent-Désiré aveva guidato una ribellione appoggiata da Burundi, Rwanda e Uganda, che aveva portato a rovesciare il presidente-padrone del paese Mobutu Sese Seko nel maggio del 1997, durante la Prima guerra del Congo (1996-1997). In questa occasione Kabila padre aveva cambiato il nome dello Zaire nell’attuale Repubblica democratica del Congo.

Joseph ha quindi mantenuto il potere, conquistato con la forza, confermandolo con due elezioni successive (2006 e 2011). Il suo ultimo mandato, non rinnovabile, sarebbe scaduto nel dicembre del 2016, ma lui ha rinviato progressivamente le elezioni, eliminando anche i potenziali oppositori, come Moise Katumbi, costretto all’esilio in Belgio, e limitando la libertà di stampa.

Una deriva anticostituzionale che ha causato reazioni della società civile che, a più riprese, ha chiesto al leader di lasciare il potere. In particolare la chiesa cattolica si è posta inizialmente come mediatrice, tra il presidente e l’opposizione, ottenendo la promessa di Kabila di organizzare elezioni a fine 2017. In seguito, visto che l’impegno non veniva mantenuto, la chiesa ha organizzato manifestazioni pacifiche a cui hanno aderito molti cristiani e i leader dell’opposizione, per chiedere il rispetto degli accordi.

Il 31 dicembre 2017 una di queste manifestazioni è stata prima ostacolata e poi repressa dalle forze dell’ordine. Si sono registrati 6 morti, 57 feriti e 111 arrestati, secondo la Monusco (Missione della Nazioni Unite in Congo). Il confronto tra il potere di Kinshasa e la chiesa cattolica congolese si era fatto duro.

Finalmente, con molte difficoltà, anche logistiche, in un paese di 2,5 milioni di km2 scarsamente collegato e con 45 milioni di elettori, le consultazioni si sono svolte nel dicembre del 2018. Le urne, come detto, hanno restituito una situazione complessa e le due coalizioni hanno faticato a trovare un accordo. Nel maggio scorso il presidente ha nominato Sylvestre Ilunga Ilunkamba primo ministro, e questi ha lavorato per produrre una lista di ministri gradita a entrambi i gruppi politici. Su 65 posti ministeriali (ministri e sottosegretari), 23 vanno alla coalizione di Tshisekedi, Cach, e 42 a quella di Kabila, Fcc. Alla prima vanno i dicasteri dell’Interno e Affari esteri, alla seconda Giustizia, Difesa e Finanze. Intanto la società civile denunica un incremento di casi di appropriazione indebita di fondi a livello dei ministeri, negli ultimi otto mesi.

Ma.Bel.

Felix Tshisekedi, nuovo presidente del RD Congo / Photo by ANDREW CABALLERO-REYNOLDS / AFP
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