Il pensiero oltre la siepe


Povertà e miseria non sono sinonimi. Anzi, la prima può coincidere con la virtù della sobrietà. La seconda è, invece, uno scandalo da combattere. Con l’intervento dello Stato.

Povertà e miseria non sono la stessa cosa: la prima è una virtù, la seconda uno scandalo. La povertà è uno stile di vita che sa distinguere tra i bisogni reali e quelli imposti. È la capacità di dare alle esigenze del corpo il giusto peso senza dimenticare quelle spirituali, affettive, intellettuali, sociali. È un modo di organizzare la società affinché sia garantita a tutti la possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali con il minor dispendio di materiali e di energia e la minore produzione di rifiuti.

La miseria, invece, è la condizione di chi non riesce a soddisfare nemmeno i bisogni fondamentali. L’una è espressione di rispetto, sostenibilità, armonia. L’altra di degrado, violenza, ingiustizia. Dunque, si tratta di due condizioni distinte. L’una da promuovere magari ribattezzandola con termini come sobrietà, frugalità, semplicità, tanto per non dare adito a fraintendimenti. L’altra da combattere perché disumana.

Dove vive la miseria

Le Nazioni Unite definiscono la miseria come povertà multidimensionale e, limitatamente ai Paesi del Sud del mondo (Cina esclusa), calcolano che in questa condizione vivano 1,1 miliardi di persone, il 20% della popolazione di questa porzione di mondo. Persone che non mangiano a sufficienza, non hanno un alloggio degno di questo nome, che non hanno accesso neppure ai primi gradi di istruzione scolastica, che non riescono a curare le malattie più banali come una dissenteria o una bronchite.

Secondo il criterio monetario utilizzato dalla Banca mondiale, vivono con meno di 2,15 dollari al giorno. Metà di loro sono bambini e adolescenti sotto i 18 anni.

L’Africa è il continente con la più alta concentrazione di miseria: metà di tutti i miseri del mondo si trovano nell’area subsahariana. Un altro terzo è in Asia. E, se guardiamo alla distribuzione fra città e campagna, scopriamo che la miseria è prevalentemente rurale: l’84% di tutti i miseri del mondo vivono nelle campagne.

Miseria e povertà. Foto Towfiqu Barbhuiya – Unsplash.

È sempre Nord e Sud

Le ragioni per cui nel Sud del mondo la miseria continua a mietere così tante vittime affondano le loro radici nel passato coloniale, tutt’altro che tramontato. Il Nord ricco continua a dissanguare il Sud non solo tramite il tradizionale scambio ineguale, oggi esteso anche ai manufatti in virtù della deloca- lizzazione produttiva basata su salari da fame, ma anche tramite il debito e varie altre strategie finanziarie legate alla fuga dei capitali.

La Banca mondiale certifica che, nel 2021, i governi dei 120 paesi del Sud del mondo a reddito basso e medio, avevano un debito verso l’estero pari a 3.500 miliardi di dollari, per il quale hanno sborsato, nello stesso anno, 120 miliardi per interessi. Considerato che, nello stesso periodo, hanno ricevuto in donazioni 108 miliardi di dollari, se ne conclude che il Sud del mondo è stato un finanziatore netto del Nord ricco per 12 miliardi di dollari. Un esborso che la popolazione ha pagato sotto forma di minore assistenza sanitaria, minor spesa scolastica, minori investimenti per elettrificazione e sussidi all’agricoltura. Le Nazioni Unite ci informano che 4 miliardi di persone vivono in nazioni dove la spesa per gli interessi sul debito è più alta di quella per sanità o istruzione. Come se non bastasse molte multinazionali presenti nel Sud del mondo si ingegnano in tutti i modi possibili per evadere le tasse ed esportare illegalmente le ricchezze ottenute nel Paese. La fuga illegale di capitali provoca all’Africa un salasso annuo di quasi 90 miliardi di dollari, mentre nel periodo 2004-2013 l’America Latina ha perso 765 miliardi. Parola di Unctad e di Un Eclac, due organi delle Nazioni Unite che si occupano di commercio internazionale l’una e di questioni economico sociali dell’America Latina, l’altra.

Corruzione e latifondo

Alle storture internazionali si aggiungono fenomeni interni ai singoli paesi del Sud che immiseriscono ulteriormente la popolazione. Fra essi la corruzione (che contribuisce a sottrarre risorse alle casse pubbliche) e la protezione dei latifondisti a danno dei piccoli contadini. Ovunque nel mondo si assiste all’avanzata dei grandi proprietari terrieri che sottraggono terra ai piccoli contadini, ma in certi angoli del Sud del mondo le sproporzioni sono gigantesche. Secondo l’ultimo censimento agrario condotto in India nel 2011 il 4,9% dei proprietari terrieri controlla il 32% di tutte le terre agricole, mentre 101 milioni di famiglie rurali, il 56,4% del totale, non ne possiedono affatto. La mancanza di terra è una delle ragioni principali per cui l’84% degli immiseriti si trova nelle campagne.

Detto questo, si capisce che il primo passo per ridare dignità a quel miliardo di miseri è una seria riforma agraria che deve essere accompagnata da tutti gli altri correttivi necessari a garantire ai governi i fondi necessari a realizzare investimenti nel campo dell’elettrificazione, della viabilità, della sanità, dell’istruzione.

E nei paesi ricchi

Di miseri ce ne sono anche nel Nord opulento. Li vediamo nei sottopassi delle stazioni o delle metropolitane, derelitti sdraiati su cartoni di fortuna. Li vediamo anche nelle file in coda per un piatto di minestra alle mense della Caritas. Nella sola diocesi di Roma, nel 2023 sono stati distribuiti 65mila pasti gratuiti. In Italia i conti nazionali ce li fornisce l’Istat che definisce la miseria con il termine di «povertà assoluta», precisando che considera povero assoluto chiunque sia incapace di permettersi un «paniere di beni e servizi considerati essenziali», comprendente prodotti alimentari, alloggio, riscaldamento, trasporto, spese sanitarie e altro.

Secondo le ultime statistiche del 2023 in Italia la povertà assoluta colpisce 2,18 milioni di famiglie, per un totale di 5,6 milioni di persone, quasi un abitante su dieci. A fare ancora più male è sapere che il 22% dei poveri assoluti (1,2 milioni) sono bambini e adolescenti. In effetti il 13,4% di tutti i minorenni in Italia si trova in povertà assoluta, con ripercussioni non solo sul piano materiale, ma anche scolastico. Nella scuola dell’obbligo il tasso di dispersione scolastica è al 14%. Come dire che 14 ragazzi su 100 abbandonano precocemente la scuola o, se vi rimangono, è come se fossero parcheggiati considerato che non riescono a raggiungere gli obiettivi formativi prefissati. Colpisce, inoltre, la sovrapposizione delle due cifre: 13,4% di povertà assoluta e 14% di dispersione scolastica.

Aumenti e servizi pubblici

In un mondo dominato dagli scambi monetari, la miseria è il frutto di due opposti fenomeni: redditi troppo bassi e prezzi di beni e servizi essenziali troppo alti. Ad esempio, dopo l’aumento vertiginoso delle bollette elettriche verificatosi nel 2022, anche famiglie che normalmente se la cavavano si sono avvicinate al baratro della miseria. Oltre alla bolletta energetica, anche affitti troppo alti e la demolizione di servizi pubblici come la sanità pesano sulle spalle delle famiglie fragili che, non potendo sostenere i costi imposti dalle strutture private, semplicemente rinunciano
a curarsi.
Dunque, un primo fronte su cui intervenire per arginare la miseria è la fornitura di servizi pubblici gratuiti in ambiti essenziali come sanità, istruzione, trasporti. E subito dopo politiche per calmierare i prezzi di altri servizi altrettanto essenziali come alloggio, energia, cibo, acqua, che un sistema di svliluppo ideologico ha ceduto al mercato. Ricordandoci che i prezzi sono una via potente di distribuzione della ricchezza: impoveriscono chi compra e arricchiscono chi vende.

Il secondo fronte su cui intervenire è quello del reddito. In prima battuta con interventi tampone, tipo reddito di cittadinanza, per garantire un introito minimo a chi ne è sprovvisto. E, subito dopo, creando le condizioni affinché tutti possano disporre in maniera autonoma di redditi sufficienti a vivere dignitosamente.
In un sistema in cui la principale fonte di sostentamento è rappresentata dal lavoro salariato, la categoria a maggior rischio di grave deprivazione materiale è quella dei disoccupati. La Caritas conferma che il 48% delle persone che si rivolgono alle sue strutture sono disoccupati o inoccupati che fanno fatica a trovare un lavoro. Ma aggiunge che stanno crescendo anche le persone che un lavoro ce l’hanno, ma riscuotono un salario troppo basso per arrivare alla fine del mese. Si tratta dei cosiddetti «working poors» (ne abbiamo già parlato su MC a dicembre 2021), persone che sono povere pur lavorando. In Italia sono 2,7 milioni, l’11,3% di tutti gli occupati.

Il ruolo dello Stato

Le misure più urgenti per combattere la miseria sono due: garantire un salario dignitoso a chi lavora e garantire un lavoro a chi un’occupazione non ce l’ha. In ambedue i casi il ruolo del potere pubblico è determinante. Per il primo obiettivo la strada da battere è l’introduzione, per legge, di un salario minimo al di sotto del quale non si può scendere. Che non significa depotenziare l’attività contrattuale del sindacato, ma soccorrere le categorie più deboli che un sindacato non ce

l’hanno o ne hanno uno troppo debole per imporre livelli salariali dignitosi. Quanto al secondo obiettivo lo stato deve smetterla di aspettare che siano le imprese private a creare occupazione. Il lavoro può e deve crearlo lo Stato che deve concepirsi come un datore di lavoro di ultima istanza. Ossia un soggetto che assicura a tutti un posto di lavoro. L’idea non è nuova ed è interessante notare che uno dei primi a proporla fu Martin Luther King che, fra le altre battaglie, conduceva anche quella contro la disoccupazione che era un vero e proprio flagello per la popolazione nera del tempo.

In un proclama del 1964, pochi giorni prima di essere assassinato, King si scaglia contro il governo degli Stati Uniti: «È l’ostinata insensibilità del governo nei confronti della miseria che alimenta la rabbia e la frustrazione. Benché la disoccupazione semini disperazione nei ghetti neri, il governo continua a cincischiare con misure senza efficacia. Soprattutto si rifiuta di diventare datore di lavoro di ultima istanza. Continua a buttare la palla nel campo delle imprese private come se i fallimenti occupazionali registrati fin qui possano fare da garanzia di successi futuri».

Martin Luther King si appellava al governo perché sapeva che lo stato è l’unica entità in grado di creare occupazione indipendentemente da qualsiasi altra condizione. Il mercato crea lavoro solo se vende. Lo Stato, in quanto tutore dei beni comuni e produttore di servizi a beneficio di tutti, può creare occupazione per decisione unilaterale. Il mercato stesso, quando si accorge si essere in una situazione di stallo, chiede allo Stato di intervenire per ridare impulso alla macchina produttiva.

Quello che dovremmo fare è smettere di concepire lo Stato solo come stampella del mercato e vederlo, piuttosto, come la casa comune dentro la quale tutti possono trovare rifugio e una tripla area di sicurezza. Prima di tutto la salvaguardia dei beni comuni (aria, suoli, fiumi, boschi, spiagge, mari) perché la nostra esistenza dipende da un ambiente in buona salute. In secondo luogo, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (acqua, alloggio, energia, salute, istruzione e altro ancora) affinché la vita non sia più un’angoscia, ma una gioia. Infine, la garanzia di un lavoro che dia a tutti la possibilità di sentirsi utili e socialmente apprezzati.

Miseria e povertà. Foto Dulana Kodithuwakku – Unsplash.

Immaginare e fare

Se vogliamo salvarci, dobbiamo cambiare progetto. Convincerci che oltre al vendere e al comprare, al competere e al gareggiare, al profitto e allo sfruttamento, all’arricchimento personale e alla proprietà privata, esiste anche la comunità, la solidarietà, la gratuità, i beni comuni. E come loro – multinazionali, signori della finanza, investitori – hanno il diritto di organizzarsi per arricchirsi, allo stesso modo noi, i piccoli, abbiamo il diritto di organizzarci per vivere. E l’unico modo possibile è la forma comunitaria perché la solidarietà collettiva è la sola ricchezza su cui possiamo contare. Ecco perché dovremmo avere il coraggio di riorganizzarci su una logica di doppia economia: quella dei bisogni fondamentali e quella degli optional. La prima, affidata alla comunità, funzionante con il lavoro di tutti per la dignità di tutti. La seconda, affidata al mercato, funzionante con il lavoro di chi ambisce a maggiori consumi. Fantasticherie? Può darsi. Ma quando l’impostazione corrente non è in grado di dare le risposte attese, bisogna sapere gettare il pensiero oltre la siepe.

Francesco Gesualdi

 

 

 




Amante della gioia


Anche chi non conosce molto dei Vangeli, di certo sa che Gesù ha compiuto il suo «primo miracolo» trasformando l’acqua in vino a Cana (Gv 2,1-11).
Chiunque abbia frequentato un po’ il Vangelo di Giovanni, però, è ben consapevole che esso è un’opera complessa, dove il messaggio più immediato è vero, ma rimanda anche a qualcosa di più profondo. D’altronde, è l’evangelista stesso a suggerirlo quando definisce i miracoli di Gesù non «prodigi», come fanno spesso gli altri vangeli, ma «segni». Un segno, si sa, non ha valore soltanto per se stesso, ma perché rimanda anche ad altro.

È possibile, allora, che anche un racconto che in apparenza è molto semplice nasconda insegnamenti ulteriori, come peraltro la sua posizione all’inizio del Vangelo potrebbe farci sospettare. Per coglierli, lasciamo che sia il racconto a guidarci. Innanzitutto, dobbiamo capire che cosa dice a un primo livello (che resta autentico e significativo), e quali indizi ci dà lo scrittore per scendere al secondo livello.

Non troppo ascetico

Tutte le tradizioni religiose, ma in fondo tutte le scelte di vita, anche quelle politiche o sportive o dello spettacolo, ci insegnano che per raggiungere un risultato dobbiamo fare grosse rinunce. Una certa tendenza ascetica c’è in ogni scelta di vita seria.

Può quindi stupirci un po’ (ma probabilmente anche farci piacere) che il primo gesto pubblico di Gesù è di andare a una festa di nozze. Il tono del Vangelo, finora, è stato molto solenne, tanto che difficilmente ci saremmo aspettati una svolta di questo tipo. In più, in questo banchetto, sembra di cogliere non poca improvvisazione. Ci viene detto, infatti, che a Cana di Galilea c’è una festa di nozze alla quale è presente Maria, mentre Gesù con i suoi discepoli è invitato quasi come aggiunta, come recupero pensato all’ultimo momento (v. 1-2). Le feste nuziali del Vicino Oriente, spesso ancora oggi, non assomigliano tanto ai nostri pranzi di matrimonio con il numero e la disposizione esatta degli invitati programmati in anticipo, quanto più a una festa di paese, dove qualche posto si può sempre aggiungere. Sembra che questa sia la situazione di Gesù, che si unisce a Maria e si porta dietro anche i suoi nuovi discepoli. Se Gesù ci mostra il volto del Padre, la prima istantanea che ci regala in questo passo è di un Dio un po’ diverso da quello dei filosofi (o dei catechismi, a volte). Se abbiamo in noi l’immagine di Dio come di un vecchio severo con la barba bianca e mai un sorriso, ecco, qui ci troviamo di fronte a un Padre giocoso, a cui non dispiace il clima umano della festa, anche se un po’ improvvisata e approssimativa. Pronto a divertirsi in semplicità e calore.

Ma se abbiamo parlato di improvvisazione, è perché il racconto ce la fa intuire tramite le parole di Maria rivolte a Gesù: «Non hanno vino». Che idea ci si può fare di qualcuno che per delle nozze non mette a disposizione abbastanza vino? Pazienza per il cibo, alla fine ce n’è sempre troppo, ma non si può fare festa senza bere. In più, non sono neanche stati capaci di rimediare con discrezione: infatti deve intervenire Maria, un’invitata, che ne parla al figlio.

Un secondo livello?

La risposta di Gesù all’osservazione di Maria («Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora») è tanto strana da costringerci a fermarci, rileggerla e poi chiederci, perplessi, che cosa sia successo o se voglia dire qualcosa di particolare. Probabilmente questa nostra reazione è esattamente quello che lo scrittore voleva suscitare in noi lettori, ossia che ci fermiamo e notiamo i particolari con stupore, così che non ci sfuggano. Come l’autore di un giallo, Giovanni vuole farci notare che ci sta dando un indizio.

Intanto ci domandiamo: ma davvero Gesù può parlare così a Maria? Lo sappiamo tutti che non si risponde con quel tono a una mamma.

Quel secco «donna», di certo, non suona brutale solo a noi: avrà scioccato anche i primi lettori del Vangelo.

È una parola che richiama la nostra attenzione. Per questo vale la pena soffermarcisi: può essere l’indicazione per intuire più in profondità il senso del versetto. Usata come appellativo rivolto a Maria, la ritroviamo in Gv 19,26 quando Gesù sta per morire in croce, cioè quando è arrivata la sua ora, e sotto la croce si trovano «la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava». Non è certo un contesto nel quale ci si possa lasciare andare a espressioni fuori luogo.

Qui però ci sembra quasi di dover spiegare un enigma con un altro enigma: ad esempio, chi è «il discepolo che egli amava»? Di solito si risponde Giovanni l’evangelista, come ci dice la tradizione. Questo perché si parla di questo discepolo solo nel suo Vangelo, quindi deve trattarsi di lui. Se però fosse davvero l’autore del Vangelo a definirsi così, di certo non sarebbe segno di umiltà e, senza dubbio, avrebbe deciso di usare una formula un po’ ambigua che pare suggerire il fatto che Gesù non amasse gli altri discepoli. La tradizione, per provare a mettere ordine, l’ha intesa come il «discepolo prediletto», nel senso che sì, ovviamente amava tutti, ma a Giovanni era più legato, come può lecitamente succedere tra gli esseri umani. Il Vangelo, però, non parla di predilezione, ma proprio del «discepolo che Gesù amava»; un discepolo che, altrove, è caratterizzato dal fatto di essere veloce a intuire, pronto di riflessi ma in piena umiltà, un discepolo che non guida gli altri ma è rapido a giungere alla fede (pensiamo a Gv 20,1-8 e 21,7). C’è allora da pensare che in questa espressione si nasconda il discepolo ideale, il modello di discepolo, quello che ognuno di noi è chiamato a essere, che magari non ha incarichi particolari nella Chiesa ma vive nella fede il rapporto con Gesù. Se sotto la croce, quindi, quel discepolo è un simbolo dei credenti cristiani, di ciascuno di noi, allora anche «la madre» probabilmente è un simbolo. Ma di cosa? Se ci pensiamo, sarebbe ben curioso che Gesù si ricordasse solo in quel momento di affidare sua madre a qualcuno, dopo tre anni che se ne andava in giro e non badava a lei. È ben difficile che, nel contesto teso e solenne della crocifissione, Gesù pensi a non lasciare in giro bollette non pagate.

Maria è il «luogo» dal quale viene Gesù. Egli nasce, come tutti, da una donna, ma anche da una tradizione (che peraltro erano le donne a dover trasmettere). Gesù è figlio di tutta la storia religiosa del popolo di Israele (che è un nome femminile nella Scrittura), spesso presentato come una donna in attesa dello sposo (Dio), simbolicamente raccolta nell’immagine della «figlia di Sion» (nei profeti, e poi in 2 Re 19,21; Sal 9,15, e anche in Gv 12,15). Interpretate simbolicamente, quelle parole di Gesù sulla croce sono ricchissime: mentre muore, Gesù invita la tradizione religiosa del Primo Testamento a riconoscersi nella Chiesa, e questa a essere riconoscente nei confronti di colei da cui viene: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26), proprio ciò che la Chiesa cristiana ha fatto accogliendo e onorando tra le proprie Scritture quelle ebraiche.

In continuità con il passato

Tutto questo ragionamento, ci riporta a Cana: già in quell’episodio la «madre di Gesù» è anche simbolo della comunità religiosa del Primo Testamento? Se così fosse, si capirebbe l’insistenza, altrimenti strana, sulle anfore in pietra (Gv 2,6), con l’allusione alla «purificazione rituale dei giudei»: a Giovanni sarebbe bastato scrivere che i servi avevano preso dell’acqua, ma l’evangelista voleva indirizzare lo sguardo del lettore sulla tradizione ebraica: è (anche) quella a segnalare che c’è una mancanza nell’umanità che fa festa, e a indicare Gesù come colui che è da ascoltare, per risolvere il problema. Non sa spiegare che cosa Gesù farà, ma sa dire che c’è da seguire lui.

I profeti e la legge contenuti nel Primo Testamento non «deducono» la figura di Gesù, ma sanno suggerire che Dio tornerà a prendersi cura dell’umanità, entrando nell’umanità stessa. Gesù compie le attese del Primo Testamento, pur in parte sorprendendole.

E non solo: è la madre a sollecitare Gesù a intervenire. Non pregandolo o comandandoglielo, perché non potrebbe. O meglio: Maria, madre fisica di Gesù, potrebbe chiederglielo o persino ordinarglielo (la tradizione ebraica è molto esigente per quanto riguarda i doveri dei figli, soprattutto maschi, nei confronti dei genitori), ma è evidente che qui Giovanni non sta pensando a lei, quanto al suo ruolo simbolico. La tradizione del Primo Testamento non è padrona di Gesù, che è totalmente libero di agire o astenersi dall’azione. Però lo inserisce in una storia in cui il Dio di Israele è pronto a commuoversi per la sofferenza umana, a farsi coinvolgere nella vita dei suoi e anche a violare le proprie norme per non perdere la relazione con l’umanità (ci porterebbe fuori strada affrontare questo tema, ma nel Primo Testamento accade spesso che Dio «minacci» il suo popolo di rompere la comunione con lui se non rispetta le sue «leggi», e che poi, però, faccia un passo indietro, preferendo perdere la faccia piuttosto che il rapporto con l’essere umano).

Non sarà ancora giunta la sua ora, ma Gesù, se vuole essere fedele a quel Dio del Primo Testamento, non può restare indifferente di fronte all’imbarazzo umano e, sia pure senza dire di aver cambiato idea (come pare umano anche in questo), di fatto si mette a disposizione di quella festa, «inventandosi» un modo di risolvere l’impaccio che è senza precedenti nella Bibbia.

Il volto del Padre

C’è qualcosa di nuovo che questo episodio ci mostra sul volto divino?

Prima di tutto Gesù ci mostra un Padre che non si vergogna dell’umanità anche nei suoi aspetti più «banali», di festa, di gioia semplice, persino disorganizzata e improvvisata. Non ci troviamo di fronte a un Dio rigidamente perfetto, che esige dei figli impeccabili, ma a un amante della vita, che ci potremmo immaginare sorridere al vedere il banchetto e le bevute e inquietarsi all’idea che la festa possa rovinarsi prima del tempo.

E poi ci troviamo di fronte a un Padre fedele e imprevedibile, che non abbandona mai la sua amicizia con l’umanità e, allo stesso tempo, sa anche inventare soluzioni nuove e impensate ai problemi che si presentano, anche quando, in sé, potrebbero non sembrare problemi vitali. Un amico capace di sorprese infinite, ma che gli amici non li abbandonerà mai.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 02 – continua)


Un dono specialissimo per voi

È disponibile in versione pdf la raccolta dei 38 articoli di Paolo Farinella su «Le nozze di Cana», pubblicati in questa rivista tra il febbraio 2009 e il gennaio 2013.

Un lavoro appassionante alla scoperta e approfondimento di uno degli episodi più belli e gioiosi dei Vangeli.
240 pagine da leggere con il cuore.

Cliccare sull’immagine per scaricare.

Augurandovi una proficua lettura, ci permettiamo di ricordarvi che un’eventuale donazione ci aiuterà a continuare a servirvi al nostro meglio.
Grazie.

 




Dare uno schermo alla pace


La prima edizione del festival di cinema e nonviolenza, «Give peace a screen», è stato un successo: 1.848 cortometraggi di registi da 111 paesi del mondo per raccontare drammi, gioie e modi per fare la pace.

Gli inizi sono sempre difficili, scriveva Chaim Potock. Ma sono anche strabilianti, entusiasmanti. Ispiranti. Specie se si tratta della nascita di un nuovo festival.

Il Centro studi Sereno Regis si occupa di cinema dal 2010 lavorando sulla relazione tra cinema e nonviolenza.

Esiste un cinema di pace? Che promuova la risoluzione creativa e nonviolenta dei conflitti? Si può educare alla pace con il cinema?

Abbiamo posto la domanda a registi di tutto il mondo, organizzando il festival Give peace a screen (Gpas), per capire se è possibile «dare uno schermo alla pace», darle voce, farla vivere nelle immagini di un film.

Non ci aspettavamo una risposta così importante: 1.848 cortometraggi da 111 paesi. Un panorama stupefacente sulla nostra contemporaneità: dalla guerra in Ucraina agli sfruttamenti minerari in Turchia, dal recupero dei bambini-soldato colombiani al dramma dell’utero in affitto scelto per sopravvivenza.

Mostrare un mondo che urla

Il lavoro di selezione è stato duro. Alla fine, abbiamo presentato al pubblico 137 lavori di giovani registi: la visione di un mondo che urla, lotta, si ribella, e, soprattutto, desidera la pace.

Il programma è stato presentato al pubblico dal 19 al 22 ottobre 2023 a Torino: un successo, ma soprattutto l’apertura di un canale di dialogo con il mondo tramite il racconto di drammi, gioie e diversi modi di fare la pace.

Perché fare un festival significa fare rete con il mondo. Significa sostenere il regista camerunese scappato da casa a causa delle scorribande delle milizie islamiste; aiutarne uno turco al quale la polizia ha sottratto i suoi hard disk; tradurre in italiano decine di opere di registi senza risorse economiche. Significa creare una rete di solidarietà per mostrare al pubblico come si può parlare di pace in mezzo ai conflitti.

Al Give peace a screen è andato in scena il mondo che vuole la pace, che si ribella al silenzio imposto dai regimi (è un caso che la nazione più rappresentata sia stata l’Iran, con 223 cortometraggi?), che cerca di far conoscere le ingiustizie affinché si possa partecipare, solidarizzare, intervenire.

La forza dei cortometraggi

La prima edizione del festival è stata dedicata alla «costituzione del mondo», per celebrare i 75 anni della Carta fondamentale italiana: i cortometraggi sono stati proposti secondo gli articoli delle Costituzioni attualmente in vigore nel mondo, per sottolineare come sia necessario dare loro un’attuazione completa, creare un nuovo patto tra gli esseri umani che contempli anche un nuovo «accordo» con la natura.

Un evento speciale l’ha inaugurato: l’opera Migrants, del pluripremiato regista iraniano Masoud Ahmadi, una lirica e coreografica visione del dramma delle migrazioni moderne.

Il festival ha ospitato anche il documentario di Lorenzo Muscoso, Io e Paolo, emozionante ricordo di Salvo Borsellino, fratello di Paolo, il giudice ucciso dalla mafia a Palermo nel 1992.

Give peace a screen è stato chiuso dall’ultimo lavoro di Adonella Marena, film maker ambientalista recentemente scomparsa, montato dal figlio Davide Balistreri: Gli altri animali, una riflessione sul nostro rapporto con i «non umani».

«Questo festival è la dimostrazione che il cortometraggio è uno strumento che sempre più persone usano per denunciare ingiustizie, documentare sfruttamenti e violenze, all’interno della società e sulla natura», afferma Loredana Arcidiacono, coordinatrice di Gpas per i documentari: «È uno strumento economico che si può girare con un telefono, e la sua brevità diventa risorsa, perché costringe alla chiarezza espositiva».

I premiati

Tre giurie diverse hanno attribuito alle opere in gara tre premi da 1.000 euro.

La prima ha assegnato l’ormai tradizionale premio Gli occhiali di Gandhi a La voix des autres, di Fatima Kaci, Francia, 2023: «Perché accade di rado di incontrare film come questo che incantano, inducono a riflettere e sono costruiti alla perfezione».

Il premio Aurora alla miglior sceneggiatura è stato assegnato a The borders never die, di Hamidreza Arjomandi, Iran, 2023, «per l’idea efficace di intrecciare crudo realismo e dimensione onirica».

Il premio Pertinace alla miglior regia è stato assegnato a Things unheard of, di Ramazan Kılıç, Turchia, 2023: «Per la grande capacità di dirigere attori giovanissimi e rendere lieve una situazione drammatica».

La giuria del premio, La pace preventiva, ha assegnato la vittoria a Out of the lines, di Sajjad Aslani, Iran, 2023, «perché interpreta perfettamente il concetto di pace preventiva e regala in un minuto il pathos e l’energia dei grandi film».

È stata attribuita una Menzione d’onore a Danpatra, di Abhijit Dagaduji Chavan, India, 2022, «per il coraggio di anteporre l’urgenza dell’educazione al rispetto dovuto alla religione». E una Menzione d’onore a Ezequiel Baraja, di Juan Fernández Gebauer, Argentina, 2021, «perché evidenzia il valore dello sport come motore di riscatto sociale, strumento di consapevolezza individuale e di libertà».

La giuria ha assegnato il Premio Adonella Marena sul tema della sostenibilità a Magos das plantas di Diogo Linhares, Portogallo, 2023, «perché attraverso le parole di un personaggio semplice e profondo, pone in evidenza il legame fisico che c’è, ma viene ignorato, tra piante e umani». Una Menzione d’onore a Dear Animal, di Younes Kafashian, Iran, 2023: «Una storia tenera e ironica che non ha bisogno di parole per illustrare un atto di amore, e insieme un insegnamento, da un anziano a un giovane». Altra Menzione d’onore a The Fledgeling, di Murtaza Ansari, Pakistan, 2023: «È sufficiente un minuto per esprimere il contrasto tra la violenza del gesto umano e la tenerezza delle creature indifese. Un flash semplice ed emozionante».

Un tesoro da valorizzare

Il festival non finisce: i 1.848 cortometraggi arrivati costituiscono un tesoro prezioso che sarà utilizzato per serate a tema e dedicate ai paesi che hanno partecipato.

Soprattutto, il Give peace a screen, ci auguriamo, diventerà un appuntamento fisso nel panorama cinematografico torinese.

Dario Cambiano

Centro Studi Sereno Regis




Allamano. Giubileo sacerdotale


Il 20 Settembre 2023 ricorrevano i centocinquanta anni dell’ordinazione sacerdotale del beato Giuseppe Allamano. Mentre stiamo ancora godendo la notizia dell’approvazione, da parte della commissione medica del Dicastero per le cause dei santi (manca ancora quella della commissione teologica), del miracolo che dovrebbe portarlo alla canonizzazione, è motivo di riflessione ricordare questo giubileo che segna la fedeltà di Dio nella vita del beato.

Il sacerdote è una persona che si dona generosamente nel servizio al popolo di Dio, che offre fedelmente il sacrificio eucaristico e la preghiera per il bene della Chiesa, portando speranza e consolazione alle persone nelle quali il calore dell’amore di Dio si è spento.

Giuseppe Allamano si era preparato a essere consacrato durante il tempo del seminario con un impegno sistematico verso la perfezione e la santità attraverso sacrifici ed esercizi ascetici quotidiani. La sua vita sacerdotale fu notevole: si distingueva per l’unità, l’armonia e l’equilibrio con cui teneva assieme contemplazione e azione. Era un riflesso della sua vita interiore e del suo intimo rapporto con Dio alimentato dalla preghiera. Era centrata nell’Eucaristia e nell’amore per la Consolata.

L’Allamano parlava del sacerdozio secondo la visione teologica del suo tempo che concepiva la dignità della vita ordinata come regale, angelica e divina; tuttavia, non ha mai espresso in senso trionfalistico il suo ministero, quanto piuttosto in una forma dinamica che si concretizzava nell’impegno per la santificazione personale prima, e per il lavoro pastorale in mezzo al popolo di Dio poi. Il nostro fondatore capì questo segreto, e continuava a ricordare ai suoi figli e figlie che se non fossero stati buoni religiosi, sarebbero diventati dei pessimi missionari: «Senza santità non sarete che ombre di missionari, e farete più male che bene».

Celebrando i 150 anni del suo giubileo sacerdotale, abbiamo ricordato come, per Giuseppe Allamano, la messa fosse «il tempo più bello» della sua vita: «Anche se dovessimo prepararci per 15 o 20 anni per celebrare un’eucaristia, come saremmo felici!». E aggiungeva: «Vi voglio sacramentini, uniti a Gesù sacramentato. Questo titolo dovrebbe valere per tutti i cristiani, religiosi e sacerdoti, e ancor più per i missionari». E, precorrendo i tempi, vedeva nell’apostolato missionario il grado superlativo del sacerdozio: «Ogni sacerdote è missionario di natura sua perché non c’è differenza tra la vocazione sacerdotale e quella missionaria. Tutto ciò che serve è un grande amore per Dio e per le anime. Non tutti potranno realizzare il desiderio di recarsi in missione, ma tale desiderio dovrebbe essere di tutti i sacerdoti».

padre Jonah Mulwa Makau


Una spiritualità feconda

Nella sua prima lettera ai Corinzi San Paolo scrive: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti» (1 Cor 12,4-6). Questa pericope paolina permette di parlare di frutti e di spiritualità al plurale in Giuseppe Allamano. San Paolo afferma che ci sono molti doni diversi, ma sempre lo stesso Spirito; quindi, una stessa persona animata dallo Spirito può vivere la spiritualità in molti modi, producendo molte spiritualità che si traducono in frutti diversi. Vediamo alcuni dei frutti che le spiritualità di Giuseppe Allamano hanno prodotto anche oltre i confini della vita religiosa missionaria.

La formazione e la direzione spirituale di sacerdoti

Le parole pronunciate dall’arcivescovo Lorenzo Gastaldi durante l’ordinazione sacerdotale di Giuseppe Allamano non solo sono entrate nella sua anima e nella sua mente, ma hanno anche costruito una casa permanente in esse. Nel suo sermone, l’arcivescovo disse: «Dedicatevi a Dio, a lavorare e a soffrire per la sua gloria e per la salvezza del vostro prossimo. Vi aspettano grandi sacrifici, ma con l’aiuto di Dio li supererete. E quale consolazione potete aspettarvi? Abbiate fede e siate generosi con il Signore; ora date solo un posto d’onore al duro lavoro; non pensate che questo sia il momento di riposare, il nostro riposo sarà in cielo».

La realtà di queste parole dell’Arcivescovo si riflette perfettamente nella vita del beato Allamano ed emerge come una delle caratteristiche principali della sua spiritualità espletata nell’impegno posto nella formazione e nella direzione spirituale.

Il primo incarico che Giuseppe Allamano ricevette subito dopo la sua ordinazione sacerdotale fu quello di tornare in seminario come primo assistente o prefetto, con il compito, quindi, di seguire individualmente gli studenti di teologia, nei loro studi e nelle loro altre attività, intervenendo anche per correggere errori e negligenze. Il secondo incarico arrivò poco dopo il primo, quasi completandolo, quando Giuseppe Allamano fu nominato direttore spirituale nel seminario.

Padre Igino Tubaldo riassumeva così la sua personalità: «Era molto dedito a tutto ciò che poteva servire a formare lo spirito degli studenti secondo le regole stabilite da Gesù Cristo e dalla Chiesa per i suoi ministri… per abituarli a giudicare tutto alla luce della fede, per mantenere l’unione con Dio ed essere pieni dello spirito di preghiera».

Domenico Agasso afferma che il suo stile è visibile perfino nella lettura di alcuni degli «avvisi» con cui Giuseppe Allamano richiamava l’attenzione degli studenti, come dovevano prestare attenzione durante le prediche o condividere con fede le preghiere in cappella o a Messa. I sacerdoti che formò furono sono uno dei frutti della sua spiritualità, e in loro si vide la nobiltà e la responsabilità con cui valutava l’idoneità di ognuno al sacerdozio.

Queste caratteristiche così spiccate dell’Allamano sono certamente frutto della sua spiritualità e lo distinguono come maestro di formazione e direzione spirituale.

L’accompagnamento spirituale dei laici

Nei dialoghi con i suoi missionari, l’Allamano ricordava un fatto accaduto nel 1881: una donna di Loranzè (diocesi di Ivrea), fu inviata alla Consolata dal suo vescovo nella speranza di vederla liberata da una «ossessione diabolica». All’Allamano fu chiesto di andare a esorcizzarla per ordine dell’arcivescovo Gastaldi. L’Allamano le mise la medaglia della Consolata contro la bocca e disse: «Riconosci il tuo amante!». La donna guarì e in seguito ogni anno faceva un pellegrinaggio al santuario Consolata per ringraziare la Madonna. Anche quella guarigione fu un frutto della spiritualità dell’Allamano che cercava l’incontro con persone che erano interiormente tormentate in vari modi.

Giuseppe Allamano fu anche rettore del santuario di Sant’Ignazio sulle colline di Lanzo Torinese: con la sua presenza il santuario divenne una casa di ritiro di «prima classe». «Non c’era mai una stanza vuota».

La causa di beatificazione di Giuseppe Cafasso

Rispetto al processo di beatificazione di Giuseppe Cafasso, l’Allamano diceva: «Non avrei mai fatto tutto questo se fosse stato solo perché don Cafasso faceva parte della mia famiglia. Invece posso dire onestamente che ho introdotto questa causa, non per motivi di affetto o di relazione, ma per il bene che può venire dall’esaltazione di questo santo sacerdote».

La Chiesa è immensamente grata all’Allamano, poiché è solo a lui che si deve la beatificazione di don Cafasso. Questa era l’opinione del cardinale Carlo Salotti, che aveva seguito tutto il processo. In risposta a ciò, l’Allamano ammise che, in alcune notti, era sfinito dalla fatica di frequentare gli uffici romani. L’avvenuta beatificazione di san Giuseppe Cafasso fu certamente frutto della spiritualità dell’Allamano.

La fondazione dei due istituti missionari

Come affermano le Costituzioni dei missionari della Consolata: «Un’intensa vita spirituale e un ardente zelo apostolico permisero al nostro Fondatore di accettare e approfondire il suo carisma». L’enfasi è posta sulla frase: «Vita spirituale intensa».

La fondazione dei due istituti è un altro frutto della spiritualità dell’Allamano e della centralità che in essa ha la vita apostolica con le sue due finalità: la santificazione dei membri e la cura del popolo di Dio. Da allora i Missionari e le Missionarie della Consolata si sono sparsi nel mondo portando la buona notizia della consolazione di Dio ai popoli e condividendo così i frutti spirituali dell’Allamano.

Possiamo ricordare particolarmente due missionarie della Consolata che sono state a loro volta beatificate: Irene Stefani e Leonella Sgorbati. Queste due suore portavano in sé i frutti spirituali dell’Allamano in modo così speciale che oggi tutta la Chiesa le celebra come «beate». Anche questo è un frutto molto significativo della spiritualità dell’Allamano.

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice ai suoi discepoli: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,7-8). I frutti spirituali di Giuseppe Allamano trovano pienamente il loro posto in queste parole di Gesù.

padre Charles Orero


L’Allamano e l’Addolorata

La festa della Consolata che si celebra il 20 giugno è preceduta dalla novena durante la quale i missionari e le missionarie si alternano all’ambone per offrire una riflessione sulla relazione del beato Allamano con la Madonna. Suor Tiziana Fabbri si è soffermata sull’immagine della Madonna Addolorata che il beato fondatore esortava a invocare per trovare aiuto nelle fatiche e sofferenze della missione.

L’Addolorata sostiene nella sofferenza

Nella conferenza tenuta alle suore il 14 aprile 1916, l’Allamano, a proposito della Madonna Addolorata, diceva: «Questa devozione è utile in vita e in morte. È utile in vita perché come missionari abbiamo tutti da soffrire, chi più chi meno, ma chi ci sosterrà? L’aiuto migliore è quello di questa madre che ci aiuterà a soffrire, ci sosterrà quando abbiamo dei sacrifici da fare che adesso sono piccoli, ma ne avremo di grossi».

Nei suoi incontri con le missionarie e i missionari ritornò più volte sul mistero dell’Addolorata. Suggeriva l’attenzione ai dolori di Maria come modello per essere poi in grado di sostenere le sofferenze fino al martirio connessi con la vita di missione.

Il 19 settembre 1920 disse alle suore: «Ricordate sempre che la devozione all’Addolorata serve tanto per aumentare nello spirito. Quando sarete insidiate contro la carità o da qualche altra passione e avrete ripugnanze o altre cose, la Madonna vi darà aiuto e vi dirà: “Ma sii un po’ generosa, io sono stata più generosa”, allora vi scuoterete».

Consolare la Madonna

L’Allamano, più che al sentimento mirava alla volontà, all’impegno coerente della vita. La sua pietà mariana era molto calda e delicata e in occasione di alcune celebrazioni dedicate a Maria Addolorata, ha suggerito di «consolare la Madonna».

Nella conferenza ai missionari il 25 marzo 1910 disse: «Noi, poi, che siamo figli della Consolata, abbiamo speciale dovere di consolare nostra madre perché sia da noi veramente consolata. Non è per nulla che portiamo sì bel nome». Consolare la Madonna per l’Allamano significava essere coerenti nei propri doveri. È per questo che ci diceva e ci ripete: «Il nome che portate deve spingervi ad essere quello che dovete essere».

Un’esperienza significativa

Quando ero missionaria in Argentina e lavoravo nella parrocchia della Consolata di Mendoza, in occasione della festa patronale si decise di celebrare la novena in un quartiere lontano dalla parrocchia in cui vi erano problemi di violenza e di droga, dove nessuno voleva andare per paura. Era una sfida per tutti. Cercammo delle famiglie disponibili ad accogliere la statua della Madonna nelle loro case, e queste, nella loro semplicità e povertà offrirono il meglio che avevano: un posto di riguardo ben preparato, con fiori, candele, tovaglie ricamate e altre cose.

Una mattina portammo la statua in una casa e, con mia sorpresa, la signora non aveva preparato nulla, anzi era occupata per cui non ci accolse neppure. Disse alla figlia di dirci di lasciare la Madonna davanti alla porta d’entrata su di un tavolino. Mi sembrava un affronto alla presenza di Maria, una mancanza di accoglienza, il tavolino spoglio, senza neppure una tovaglietta. Io guardavo le donne che mi accompagnavano e non riuscivo a dire nulla, ma dentro di me sentivo una grande tristezza. Tra di noi il silenzio regnava, ma ad un certo punto una delle signore che abitavano in quel quartiere mi chiese molto delicatamente: «Non sei contenta di aver lasciato la Madonna lì?». Non sapevo cosa rispondere e le dissi che sentivo qualcosa in me che mi provocava tristezza. E lei mi rispose: «Sai, questa è la tristezza di tante mamme di questo quartiere che vedono il proprio figlio o il proprio marito in carcere per ingiustizie o per essere stati vittime degli abusi degli spacciatori. Ciascuna di loro sente l’impotenza di non essere stata una buona mamma e che non hanno saputo proteggere il loro figlio».

Coraggio, ci sono io!

Questo mi scosse e mi resi conto che il Signore mi chiedeva di vivere quella novena in una maniera differente, non fatta di sentimenti, ma della richiesta a Maria di essere coerente con il nome che portavo, senza pregiudizi nei confronti degli altri, senza condannare, ma semplicemente facendo sentire loro che nonostante tutto sono creature amate da Dio.

La mia sorpresa fu alla sera quando andammo per la preghiera: la signora che aveva accolto la Madonna condivise il suo dolore e il dramma che portava nel suo cuore, e disse: Questa Madonna mi ha dato forza. La guardavo e sembrava che mi dicesse: «Coraggio, ci sono qua io che come te ho sofferto e so cosa vuol dire il dolore. Guardando questa bella statua ho incontrato una mamma al mio mio fianco che mi ha aiutato a rialzare la testa e andare avanti».

Questa esperienza che porto nel cuore mi ha fatto capire che dalla sofferenza nasce la consolazione vera, dall’accoglienza del proprio dolore nasce la possibilità di una vita nuova. Non importa se non ci sono i fiori, le candele e la tovaglia, perché ci siamo noi, sue figlie e figli che facciamo onore al suo nome.

suor Tiziana Fabbri

 

 




Donne. Perseguitate due volte


Le donne delle minoranze religiose sono la fascia più colpita dalle persecuzioni. La maggior parte sono cristiane, ma non mancano altri casi, come quello delle musulmane rohingya o delle yazide. Rapite, convertite forzosamente, picchiate, violentate, tenute segregate.

Rapite, violentate, schiavizzate. Le donne delle minoranze religiose sono spesso perseguitate due volte: innanzitutto perché appartenenti a gruppi tenuti ai margini della società, poi perché, appunto, donne.

Accade in Pakistan, Nigeria, Burkina Faso, Egitto, solo per fare qualche esempio, e per la gran parte si tratta di donne cristiane.

Non mancano, però, casi che riguardano altri gruppi religiosi.

In Myanmar, per esempio, Paese a maggioranza buddhista nel quale da anni viene perseguitata la minoranza musulmana dei Rohingya, una donna non può sposare un musulmano se non a rischio della vita.

Qualche anno fa a Pegu, una delle più grandi città del Paese, una folla impazzita incendiò l’intero quartiere di una ragazza buddhista per punirla della sua relazione con un musulmano.

Stesso destino di discriminazione spetta alle donne rohingya. «Nascere donna ed essere di origine rohingya significa, molto probabilmente, essere destinata a una vita fatta di privazioni e discriminazioni di natura etnica, religiosa e sessuale», sottolinea Amnesty international.

Amina, donna nigeriana fuggita in Niger dopo l’uccisione del marito da Boko Haram

Cristiane, le più perseguitate

Tornando alle donne cristiane che vivono in paesi nei quali la loro fede è in minoranza, come in molte zone dell’Asia, del Medio Oriente o dell’Africa, esse «sono le prime vittime», afferma la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) in un rapporto di novembre 2022: «Se credere in Gesù Cristo implica seri rischi in molte parti del mondo, essere una donna cristiana è ancora più difficile. In molti paesi in cui vige la persecuzione religiosa, la violenza contro le donne è spesso usata come arma di discriminazione».

Sulla stessa linea sono i dati emersi nella ricerca The 2023 gender report presentata, in occasione della giornata internazionale della donna dell’8 marzo 2023, da Porte Aperte/Open Doors, organizzazione internazionale che sostiene i cristiani perseguitati e che aggiorna ogni anno, con la sua World watch list, la classifica dei paesi dove si registrano le maggiori persecuzioni a causa della fede.

«Per le donne – sottolinea il rapporto – la violenza sessuale e fisica, il matrimonio forzato e la riduzione in schiavitù, uniti alle minacce e al controllo dei cellulari, sono elementi che le intrappolano in una ragnatela soffocante».

Il report presenta anche la classifica dei paesi nei quali le donne sono perseguitate sia per la loro fede che per il loro genere.

Al primo posto troviamo la Nigeria. A seguire Camerun, Somalia, Sudan, Siria, Etiopia, Niger, India, Pakistan e Mali.

Nelle regioni settentrionali della Nigeria, dove i cristiani subiscono i livelli più alti di violenza, le donne cristiane sono vittime di rapimenti, spostamenti forzati, traffico di esseri umani, uccisioni e violenza sessuale.

La punta di un iceberg

I casi di donne rapite, violentate, convertite forzosamente, uccise che emergono nelle cronache sono solo la punta di un iceberg. Spesso, infatti, le famiglie, per paura o per vergogna, non denunciano i crimini subiti.

È quanto emerge dalla ricerca Ascolta le sue grida, pubblicata da Acs Italia nel 2021, nella quale si evidenzia che, tra i membri delle minoranze religiose, le ragazze e le giovani donne cristiane sono le più esposte agli attacchi.

Secondo l’Associazione cristiana della Nigeria, per esempio, il 90 per cento delle donne e delle ragazze detenute dagli islamisti è di fede cristiana. In Pakistan, il Movimento per la solidarietà e la pace ha stimato che le cristiane costituivano, già dal 2014, fino al 70 per cento delle ragazze e delle giovani di minoranze religiose che ogni anno erano costrette a convertirsi e a contrarre matrimonio.

Ma le denunce non corrispondono mai alla reale entità del fenomeno.

Un altro dato chiave, che emerge frequentemente nelle ricerche sull’argomento, è la maggiore incidenza di persecuzioni sessuali e religiose ai danni delle donne in aree di conflitto.

Questo è stato particolarmente evidente durante la presa del potere da parte dell’Isis (Daesh) su alcune aree della Siria e dell’Iraq. In quelle zone, in quegli anni – secondo il dossier del luglio 2020 della Coalition for genocide response intitolato Without justice and recognition the genocide by daesh continues – vigeva «un sistema organizzato di schiavitù sessuale delle minoranze».

Rohingya women with kids are walikng to the camp with relief food. Near Block D5, Kutupalong extension Camp, Cox’s Bazar, Bangladesh
2 July 2018.

Nadia Murad e le schiave sessuali

A raccontare le atrocità subite in prima persona, perché yazida, cioè donna della minoranza religiosa che vive per lo più nella Piana di Ninive, in Iraq, è stata Nadia Murad, Premio Nobel per la pace 2018. Nel suo libro L’ultima ragazza. Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro l’Isis, edito da Mondadori, l’attivista per i diritti umani racconta: «A un certo punto non restano altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio». È il racconto dello stupro usato come arma di guerra. È la storia del rapimento e della prigionia che nel 2014 ha cambiato la vita di questa ventenne yazida che sognava una vita normale.

Nadia ha deciso di denunciare al mondo le violenze subite nella speranza di essere lei «l’ultima» del suo popolo ad aver vissuto quel genere di sofferenze.

La prassi di ridurre le donne delle minoranze religiose in schiave sessuali è presente anche altrove. Ad esempio in Mozambico e in altri paesi nei quali il fondamentalismo religioso ha gettato nel caos intere comunità.

Le violenze dei gruppi terroristici e islamisti hanno inoltre determinato una forte intensificazione del traffico di esseri umani.

C’è poi il caso della Nigeria dove si sono ripetuti diversi rapimenti di massa nei confronti delle donne cristiane da parte del gruppo jihadista di Boko Haram.

L’intento della milizia vicina all’Isis è, tra gli altri, quello di cacciare le comunità cristiane dai loro villaggi (cfr. MC 10/2016).

Asia Bibi e le altre

La persecuzione e le sofferenze non sono però solo numeri e dati, sono soprattutto storie di persone concrete.

Il caso che ha avuto maggiore rilievo sui media internazionali è stato quello della donna cristiana pachistana Asia Bibi che, dopo dieci anni di carcere duro e con una condanna a morte che pendeva sulla sua testa con l’accusa di blasfemia, ha ritrovato la libertà nel novembre 2018.

Oggi vive in Canada con la sua famiglia perché restare in Pakistan sarebbe stato per lei e i suoi familiari troppo pericoloso.

Ma ci sono tante altre Asia Bibi nel mondo. In Somaliland, ad esempio, due donne sono in carcere dal 2022 perché colpevoli di essere cristiane. Una delle due donne si chiama Hanna Abdirahman Abdimalik. Il 30 maggio 2022 è stata arrestata per essersi convertita al cristianesimo e per aver condiviso la sua fede attraverso un gruppo cristiano su
Facebook. La polizia non ha esibito un mandato d’arresto, ha interrogato la ragazza senza la presenza di un avvocato e le avrebbe ripetutamente domandato chi l’avesse convertita, aggiungendo che, qualora avesse rivelato l’identità della persona, oppure si fosse nuovamente convertita all’islam, sarebbe stata rilasciata. Hanna ha rifiutato di abiurare e il 27 giugno le forze di polizia del Somaliland hanno concluso le indagini presentando un fascicolo a suo carico al procuratore regionale di Hargeisa. Il procuratore ha quindi formalizzato le accuse di «crimini contro la religione dello stato» nei suoi confronti. I capi di accusa sono: blasfemia, oltraggio alla religione islamica e al Profeta dell’islam tramite social media, e diffusione del cristianesimo. Il 6 agosto 2022 il tribunale regionale l’ha condannata a cinque anni.

Il secondo caso riguarda la ventisettenne Hoodo Abdi Abdillahi, condannata a sette anni di carcere per essersi convertita, anche lei, al cristianesimo.

La donna è reclusa dall’ottobre 2022 presso il carcere femminile di Gebiley. Nel corso del processo non avrebbe avuto un avvocato difensore, mentre durante la reclusione non avrebbe potuto avere contatti con la famiglia.

Attualmente i due casi sono all’esame della Corte d’appello del Somaliland, in attesa di una sentenza definitiva.

Bangladesh, istruzione negata

Rahima Akter Khushi, 20 anni, è una giovane rifugiata rohingya, la maggiore di cinque fratelli nati nel campo profughi di Kutupalong a Cox’s Bazar, in Bangladesh. A raccontare la sua storia è Amnesty international.

Dopo aver completato gli studi superiori, a gennaio 2019 Rahima si era iscritta alla Cox’s Bazar international university con il sogno di conseguire una laurea in giurisprudenza. Dopo che un’agenzia di stampa internazionale l’aveva inserita in un video come una delle pochissime giovani donne rohingya in grado di raggiungere l’eccellenza accademica, il 6 settembre 2019, l’università le ha proibito di proseguire gli studi poiché «secondo le regole del governo del Bangladesh, nessun Rohingya può studiare in alcuna università pubblica o privata».

Negare l’istruzione alle giovani delle minoranze religiose è una delle armi di persecuzione: ad esempio in Nigeria è accaduto più volte che Boko Haram rapisse studentesse il giorno prima degli esami per negare loro un futuro.

Magda, rapita in Egitto

In Egitto, negli ultimi anni, la situazione dei cristiani è migliorata dopo l’ondata di attentati e vittime che c’erano stati nel periodo in cui era forte la presenza nel Paese del movimento dei Fratelli musulmani.

Se in generale nel Paese rimangono strascichi di emarginazione, ad esempio nel mondo del lavoro, situazioni nelle quali i cristiani continuano a essere penalizzati, è soprattutto nel Sud che si manifestano ancora oggi le forme più forti di persecuzione: una di queste è la piaga dei rapimenti di donne copte che avvengono lontani dagli occhi dei media, anche a causa del fatto che la maggior parte dei casi non viene denunciata.

Magda Mansur Ibrahim, cristiana copta ventenne, il 3 ottobre del 2020 è stata sequestrata mentre viaggiava dalla sua casa di Al-Badari verso il college di Assiut.

A riferire la sua vicenda è stato il portale Coptic solidarity. Sebbene la famiglia abbia denunciato il caso alla polizia, le autorità non hanno preso provvedimenti.

Tre giorni dopo il rapimento, è stato pubblicato sui social media un video in cui Magda appariva con indosso un hijab e dichiarava di essersi convertita all’islam sei anni prima, di essere fidanzata con un musulmano e, alla fine del filmato, chiedeva di non essere cercata.

I suoi genitori non si sono arresi e alla fine, poco meno di una settimana dopo, Magda è stata restituita loro. Dopodiché la famiglia ha chiuso ogni comunicazione senza fornire ulteriori informazioni circa il rapimento. Alcuni ipotizzano che tra le condizioni poste per la liberazione della ragazza vi fosse il divieto di parlare con i media, di sporgere denuncia o di cercare di scoprire l’identità del rapitore.

Rifugiata rohingya

Gli stupri in Pakistan

Era il 14 febbraio 2021 quando la trentenne Neelam Majid Masih, cristiana, è stata aggredita da Faisal Basra. Lui era armato quando è entrato in casa di Neelam nel villaggio di Nanokay, Punjab, Pakistan. Sotto minaccia della pistola la ragazza è stata trascinata nella camera da letto, picchiata e violentata. Poi un vicino e cugino di secondo grado della donna è intervenuto costringendo Basra alla fuga.

A raccontare la vicenda è il portale persecution.org: «Pretendeva che lo sposassi e che mi convertissi, ma io ho rifiutato dicendo che non ero disposta a rinnegare Gesù. Lui ha risposto che mi avrebbe uccisa se non avessi accettato», ha raccontato la ragazza. La giovane, che ha riportato ferite al viso, alla spalla e alle gambe, ha sporto denuncia contro Faisal Basra, accusandolo di stupro. L’avvocato della vittima, Sumera Shafique, chiedendo aiuto all’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha sottolineato: «Neelam è determinata a raccontare la propria storia per porre fine alle aggressioni contro le ragazze e le giovani donne cristiane».

Schiava in Mozambico

Nel rapporto Ascolta le sue grida già citato si racconta la storia di Aana (nome di fantasia), giovane cristiana del Mozambico, rapita da un gruppo armato.

La giovane, dopo la sua liberazione, ha riferito che alle ragazze cristiane veniva imposta una «scelta»: «Avevamo tre opzioni. Le prime due erano essere selezionate da uno dei soldati per diventarne la moglie oppure essere scelte da alcuni uomini, non per il matrimonio, ma per seguire le norme più radicali dell’islam. Loro istruivano le giovani donne a diventare vere islamiche e brave madri perché credono che la donna sia colei che educa la famiglia a seguire i precetti nel modo corretto. La terza opzione riguardava le cristiane che non volevano convertirsi. Queste sarebbero state scelte dai soldati per essere loro schiave».

Aana ha spiegato che il suo indottrinamento è iniziato non appena è stata presa in ostaggio: «Il giorno in cui siamo arrivate ci hanno letto dei passi del Corano e hanno parlato dell’ingiustizia nel Paese, degli abusi sociali e della corruzione. Una delle cose che ripetevano più spesso era che la democrazia era demoniaca, perché in Mozambico permetteva ai politici di rubare e alla gente di morire di fame senza alcun tipo di assistenza. Cercavano di indottrinare le donne perché accettassero la loro proposta». Alla fine, la pressione psicologica conduceva le ragazze a «cambiare parte», ha spiegato la giovane. In condizioni di riduzione in schiavitù, spesso è l’unica via d’uscita.

Aana è riuscita a scappare e a denunciare. Oggi non è più prigioniera.

Manuela Tulli

 

 




Vedere il Padre


«Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). È la preghiera, quasi lo sfogo, di Filippo, uno dei Dodici discepoli, rivolta a Gesù. Dopo aver tanto sentito parlare del Padre, sembra quasi che il discepolo si spazientisca e chieda al suo Signore una risposta chiara e definitiva. Non è una preghiera molto diversa da quella di Mosè: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18), ossia il volto di Dio (Es 33,20).

È una richiesta comprensibile: passiamo un’intera vita a cercare di cogliere il senso profondo di ciò che facciamo, viviamo, patiamo. I fedeli hanno creduto alla promessa che quel senso sta in una persona. Una persona che però non vedono, benché sappiano che sta loro di fronte, a fianco, alle spalle, come un sostegno (cfr. Salmo 139). E si può comprendere che, soprattutto in momenti di maggiore tensione (Mosè ha appena punito il popolo reo di essersi costruito un vitello d’oro, Filippo ha appena vissuto l’ultima cena con Gesù), si voglia avere una sentenza definitiva, uno sguardo ultimo, una risposta. La risposta di Dio a Mosè è parzialmente negativa: «Non puoi vedere il mio volto senza essere morto, ma passerò davanti a te e vedrai le mie spalle» (Es 33,20-23). Quella di Gesù a Filippo è apparentemente molto più positiva, benché in forma di domanda: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9).

Guardare a Gesù

Anche noi vogliamo vedere il volto di Dio, dobbiamo, allora, lasciarci condurre da Gesù che ci invita a guardare a lui. Senza fretta però. Ci predisponiamo ad accogliere l’invito avendo presente una domanda sempre più viva: in questi tempi confusi, duri, troppo spesso pessimisti, come possiamo vedere il volto di Dio, il senso di ciò che facciamo e subiamo?

Se Gesù ci invita a guardare a lui, noi proveremo a farlo in un percorso non breve, ma probabilmente affascinante, tramite il Vangelo di Giovanni, quello in cui con più costanza si parla del Padre, di cui il Figlio è l’immagine. Attraverso le parole e l’esempio di Gesù, secondo Giovanni, impareremo quindi, a scoprire e amare il vero volto di Dio Padre.

«Dio nessuno lo hai mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).

Il Battista

Sappiamo che gli esseri umani sono capaci di imprese straordinarie, eroiche, se soltanto capiscono che queste sono utili, servono a qualcosa, hanno senso. Abbiamo bisogno di un senso quando guardiamo al nostro futuro, e abbiamo bisogno di sciogliere i nodi irrisolti, se guardiamo al nostro passato. Altrimenti non viviamo più, ma ci limitiamo a sopravvivere comodamente.

Le religioni si concentrano spesso su questo aspetto: sulla risoluzione della disarmonia che l’uomo sente con la propria vita, con le persone, con ciò che lo circonda, con l’orizzonte ultimo della sua vita che fatica a cogliere.

Anche il Battista si concentra su questo. Egli è venuto ad annunciare un battesimo per il perdono dei peccati. La saggezza religiosa ebraica aveva colto un aspetto psicologico profondo esprimendolo in termini rituali e simbolici. Aveva capito che una persona può anche essere pentita dei propri errori, averne chiesto e ottenuto il perdono, ma sentire che questo non basta, che il nodo resta e il peso non svanisce.

Nella tradizione e liturgia ebraica per sciogliere quel nodo, per espiare i peccati, era necessario un sacrificio nel tempio, un rito per dire che non poteva bastare il pentimento, pur indispensabile, ma era necessario un intervento divino.

Un incontro oltre i riti

Giovanni il Battista viene ad annunciare un modo diverso di ottenere quell’espiazione, non con i riti ben codificati e sanciti dalla Parola di Dio e dalle tradizioni rabbiniche, ma con un gesto nuovo, antico nell’aspetto (le abluzioni erano ben note nel mondo ebraico) ma originale nel senso. Un rito che il Battista non può giustificare con testi biblici, ma solo, profeticamente, con la sua intuizione della volontà divina. Le persone che vanno a farsi battezzare, così, incontrano un Dio fuori dagli schemi, dalle sicurezze legali, dai riti consolidati. Un incontro giocato tutto sulla fiducia: in Dio, ma anche nel profeta, e nell’affidabilità dell’intenzione.

Che si tratti di una strada promettente e sensata lo attestano tutti i vangeli: Gesù va a farsi battezzare da lui (Mt 3,1-6), lo dichiara il più grande tra «i nati da donna» (Lc 7,28) e, stando al vangelo di Giovanni, inizia a battezzare anche lui, o almeno i suoi discepoli (Gv 4,1-2). In linea molto generale, l’intuizione del Battista sarà una parte dell’orientamento suggerito da Gesù stesso, che si mostra sempre più attento al rapporto intimo e personale con Dio che alle norme e ai riti.

È un primo tocco di pennello sul ritratto del Padre, che, all’inizio, è dipinto non direttamente da Gesù (che pure lo confermerà) ma dal Battista: il Padre ama farsi trovare fuori dagli schemi, fuori dai percorsi già segnati e delineati, sicuri, garantiti.

Il Battista, però, sa anche con certezza di non essere lui la parola definitiva di Dio. «Io battezzo con acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,26-27). È una tentazione totalmente umana, presente persino in tutti i fondatori di grandi movimenti, quello di richiamare l’attenzione su di sé. Il Battista sa di dover resistere, e lo dice da subito: lui è (solo) un dito che indica il regno, non è il regno.

L’agnello di Dio (Gv 1,29-36)

È passato solo un giorno dal battesimo di Gesù per mano del Battista, ci dice il Vangelo (Gv 1,29), quando Giovanni vede passare Gesù e lo indica: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo».

Il sacrificio di un agnello, animale mite e docile, promessa di lana e di carne per il futuro, era sempre parso, e non solo al mondo ebraico, l’offerta più gradita a Dio, più trasparente e generosa. Non era l’unico animale che si poteva offrire per ottenere l’espiazione dei peccati, ma era quello più utilizzato, più significativo e legato peraltro alla festa di Pasqua.

L’accenno del Battista è simbolico, poetico, ma chiarissimo. L’espiazione piena dei peccati passa non da lui o dal battesimo, ma da Gesù. Giovanni indica il Signore come colui di cui ha detto che è più importante di lui (Gv 1,30-31), rimarca di aver visto lo Spirito Santo posarsi come una colomba su di lui (1,32-33) e addirittura lo definisce, in modo solenne, il «figlio di Dio» (1,34).

Dai figli ai genitori

La nostra cultura sottolinea l’importanza delle scelte e delle esperienze dei singoli e prova a sganciarsi dall’idea che i figli siano i continuatori dell’opera dei padri. Anche nel nostro mondo, però, chi nasce da un re sa già, fin da quando comincia a capire qualcosa, che sarà destinato a succedergli, e continuiamo spontaneamente a pensare che i figli riprendano la sensibilità e le attitudini dei genitori. Di certo, siamo consapevoli che quel legame non può essere sciolto mai, neppure se lo si rinnega.

Il mondo antico legava ancora di più genitori e figli, i quali non potevano immaginarsi su strade diverse da quelle del loro padre senza una grave crisi. Il mondo arcaico, addirittura, pensava che un figlio che non corrispondesse al padre potesse subire la pena di morte (Dt 21,18-21).

Additare Gesù come figlio di Dio, non implica descrivere con precisione che cosa possa fare, ma lo segnala come colui che potrà proseguire l’opera del Padre, anche nell’espiazione dei peccati, come è suggerito dalla vicinanza con la formula di «agnello di Dio».

Gesù, però, è innanzitutto un essere umano. E l’indicazione del Battista, tramite il battesimo di Gesù e le parole dette a suo riguardo, ci fa intuire qualcosa sul Padre: Egli non si lascia incontrare direttamente, in estasi mistiche o in rituali astrusi, ma vuole essere conosciuto e accolto tramite altri.

Il Padre ci invita a coglierlo così, nella nostra vita ordinaria, senza l’eccezionalità di un’esperienza stupefacente e unica. Ci stimola a cogliere lo straordinario nel quotidiano. Proprio perché il volto del Padre potrebbe svelarsi nel volto di chiunque incontriamo, siamo chiamati a mantenerci attenti, aperti, disponibili a farci da lui stupire. Come sono stupiti i primi discepoli di Gesù, così sono già stati discepoli del Battista.

Venite e vedrete (Gv 1,37-39)

Due dei discepoli del Battista, infatti, sono presenti quando Giovanni vede di nuovo passare Gesù e lo indica come «agnello di Dio» (1,37), allora si avvicinano a Gesù e, forse per l’imbarazzo, alla sua richiesta di chiarimenti, rispondono con una delle domande più superficiali e fuori luogo che potevano immaginare: «Dove abiti?» (1,38). Gesù aveva opportunamente chiesto loro che cosa cercassero, e questa non è la risposta corretta. Ma anche di fronte a questa reazione, colui che è stato salutato come «rabbì», ossia come «maestro», sa a che cosa chiamarli: «Venite e vedrete».

Non dà loro indicazioni teoriche, non suggerisce che cosa dovrebbero indagare o meditare. Li invita invece a mettersi in gioco, a entrare in relazione, a giudicare in prima persona.

È un’altra delle prime caratteristiche del Padre che il vangelo di Giovanni ci fa scoprire tramite Gesù e, in questo inizio, anche attraverso il Battista: il Padre si fa incontrare fuori dagli schemi, per mezzo di persone inserite nel mondo e, coerentemente, chiede di entrare in una relazione personale. I nostri rapporti significativi non nascono in un momento né senza fatica. Anche il «colpo di fulmine», se esiste, è soltanto il primo istante di un percorso di crescita, di conoscenza reciproca, di approfondimento, di scoperta, che, nelle cose umane, ha bisogno di un’apertura progressiva, di imparare a capirsi, ad ascoltarsi, ad accogliersi.

Il Padre non si muove fuori dalle dinamiche umane più profonde. Non chiede di fare delle cose, di sapere delle formule, ma di conoscerlo, gradualmente, progressivamente, come facciamo con tutte le persone per noi più significative. Chiede di stare con lui, per imparare come ragiona, come pensa, come ama, come soffre. Ci domanda di lasciarci coinvolgere, di tirare noi le conclusioni, di interpretarne noi il volto.

E quel Figlio, che mostra il Padre anche a noi oggi, non suggerisce di comportarci in un certo modo (con ascesi, esercizi o discipline iniziatiche speciali) o di credere certe verità (conosciute tramite iniziazione), ma di conoscerlo: «Vieni e vedi».

Angelo Fracchia
(Il volto di Dio 01 – continua)


Un cammino di due anni

  • √ marzo 2024, Gv 2, 1-11,
    Il Padre amante della gioia
  • √ aprile 2024, Gv 2, 13-25,
    Il Padre autentico
  • √ maggio 2024, Gv 3,
      Il Padre datore della vita
  • √ giugno 2024, Gv 4,
      Il Padre che disseta
  • √ luglio 2024, Gv 5,
    Il Padre che fa vivere
  • √ ago-sett 2024, Gv 6, 1-59,
    Il Padre che sfama
  • √ ottobre 2024, Gv 6, 60-71,
       Il Padre che dona senso
  • √ novembre 2024, Gv 7,
       Il Padre che è casa
  • √ dicembre 2024, Gv 8, 12-59,
    Il Padre che genera
  • √ gen-feb 2025, Gv 9,
      Il Padre che è libertà
  • √ marzo 2025, Gv 10, 1-21,
    Il Padre signore del gregge
  • √ aprile 2025, Gv 10, 22-42,
      Il Padre che opera il bene
  • √ maggio 2025, Gv 11,
       Il Padre che riporta in vita
  • √ giugno 2025, Gv 12,
      Il Padre che glorifica il Figlio
  • √ luglio 2025, Gv 13,
    Il Padre che dona l’amato
  • √ ago-sett 2025, Gv 14,
      Il Padre ospite
  • √ ottobre 2025, Gv 15,
      Il Padre vignaiolo
  • √ novembre 2025, Gv 16,
       Il Padre che accoglie
  • √ dicembre 2025, Gv 17,
      Il Padre (s)conosciuto



La terra spremuta


Francesco continua il suo impegno per la salvaguardia della casa comune. Dopo la «Laudato si’» del 2015, a ottobre 2023 è uscita la «Laudate Deum». In essa si parla dei mutamenti climatici in atto e di cosa sarebbe indispensabile fare. Senza attendere domani.

«Sono passati ormai otto anni dalla pubblicazione della lettera enciclica Laudato si’, quando ho voluto condividere con tutti voi, sorelle e fratelli del nostro pianeta sofferente, le mie accorate preoccupazioni per la cura della nostra casa comune. Ma, con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti».

Inizia così l’esortazione apostolica di papa Francesco, Laudate Deum, resa pubblica il 4 ottobre 2023, in continuazione con la sua precedente enciclica Laudato si’, pubblicata nel 2015.

Un nuovo appello che scaturisce dalla constatazione di come l’umanità non stia facendo ciò che dovrebbe per arrestare i processi di degrado ambientale di cui è responsabile.

Allarme confermato dai dati sull’accumulo di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera che, assieme alla deforestazione, è alla base dei cambiamenti climatici. Secondo il Noaa, l’ente statunitense che si occupa di oceani e atmosfera, nel 2010 la concentrazione di CO2 era di 388 parti per milione; nel 2020 la troviamo a 412 parti per milione.

Intanto, anche la deforestazione è continuata a ritmi sostenuti. Benché oggi sia meno intensa rispetto al secolo scorso, la Fao ci informa che, fra il 2015 e il 2020, si è continuato a deforestare al ritmo di dieci milioni di ettari l’anno, un’area grande all’incirca come quella del Belgio.

Il paradigma tecnocratico

Rispetto alla Laudato si’, la nuova esortazione apostolica è molto più breve perché si limita a poche sottolineature essenziali. Fondamentalmente vuole richiamarci alla necessità di impegnarci di più per la soluzione dei problemi ambientali e sociali che abbiamo creato e vuole rimarcare alcuni concetti già espressi nell’enciclica di otto anni fa.

Un tema su cui torna con forza è il paradigma tecnocratico che papa Francesco indica come il principale responsabile dei guasti socio-ambientali nei quali ci stiamo dibattendo.

Il punto di partenza dell’analisi condotta da papa Francesco è che alla base degli squilibri ambientali ci sia l’uso distorto della tecnologia. Un passaggio della Laudato si’ precisa che «l’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse. Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi».

Presunzione di onnipotenza

Studiando la storia ci si accorge che il punto di rottura è avvenuto nel 1600 quando iniziarono le prime scoperte scientifiche. Constatando che, attraverso l’uso della ragione, l’essere umano poteva capire fenomeni prima avvolti nel mistero e che poteva trovare soluzioni in precedenza inimmaginabili, ci siamo montati la testa fino a sentirci padroni del mondo.

Un concetto che il filosofo Cartesio è giunto a teorizzare quando nel suo libro Discours de la méthode, apparso nel 1637, afferma: «Le nozioni di fisica mi hanno fatto vedere che è possibile giungere a conoscenze molto utili alla vita e che possiamo diventare gestori e padroni della natura».

Un senso di onnipotenza che è diventato catastrofico quando si è sposato con altri miti che hanno cominciato a strutturarsi, anch’essi attorno al 1700, con l’affermarsi della classe imprenditoriale e mercantile. In particolare, il mito della ricchezza e del progresso.

Per dirla con papa Francesco, da questi miti «si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia». Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a «spremerlo» fino al limite e oltre.

Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti». Per questo nella Laudato si’, papa Francesco sostiene che «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti».

Già il predecessore Benedetto XVI diceva che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».

Il cinismo del sistema

Se c’è un aspetto che il capitalismo non è disposto a discutere è la crescita e, lungi dall’idea di dover porre un freno a produzione e consumi, riduce la tematica ambientale a una mera questione di tecnologia.

L’assunto è che basti ottenere energia elettrica da sole e vento invece che da gasolio, alimentare le auto con batterie elettriche invece che tramite combustibili fossili, bruciare i rifiuti in termovalorizzatori invece che accumularli in discarica e la sostenibilità è garantita.

Sull’onda di questa febbre tecnologica c’è – addirittura – chi propone di produrre energia elettrica dal nucleare o di risolvere il problema climatico con tecniche di geoingegneria.

Imprese faraoniche, ancora allo stato sperimentale, come l’idea di seppellire l’anidride carbonica nel sottosuolo o di «sbiancare» le nuvole affinché riflettano parte della radiazione solare fuori dal sistema terrestre. Tecniche costose di cui non si conoscono le conseguenze e che, nel lungo periodo, potrebbero provocare più danni del male che intendono curare. Ma sono comunque perseguite perché rappresentano una grande occasione di guadagno per industrie del comparto chimico, satellitare, minerario, nucleare. Il che confermerebbe il cinismo di un sistema che ha sempre visto di buon occhio le distruzioni belliche e i disastri naturali come occasioni di rilancio degli affari.

Rispetto alla tecnologia, nella Laudate Deum papa Francesco è categorico: «Ritengo essenziale insistere sul fatto che “cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale”. È vero che gli sforzi di adattamento sono necessari di fronte a mali irreversibili a breve termine; anche alcuni interventi e progressi tecnologici per assorbire o catturare i gas emessi sono positivi; ma corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare con il filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare. Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto valanga».

Papa Francesco ritiene che la strada maestra per risolvere la crisi climatica sia la riduzione di anidride carbonica a livello planetario, individuando negli accordi multilaterali lo strumento principe per ottenere questo risultato: «Per ottenere un progresso solido e duraturo, mi permetto di insistere sul fatto che vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati».

Ricchi e poveri

Affinché gli accordi possano condurre a risultati tangibili, serve un altro atteggiamento da parte dei paesi ricchi. Di fondo devono convincersi che, avendo contribuito di più alla creazione del problema, debbono dare di più per la sua soluzione. Non a caso papa Francesco scrive: «La realtà è che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita oltre la metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?».

Oltre ad accettare di tagliare in maniera considerevole le proprie emissioni, i paesi ricchi dovrebbero acconsentire di sostenere economicamente i paesi più poveri, i quali, di fronte ai cambiamenti climatici, hanno tre tipi di spese: quelle per trasformare il proprio parco energetico, quelle per difendersi dai cambiamenti climatici e quelle per compensare i danni provocati dai cambiamenti stessi.

Somme enormi che, per il solo continente africano e limitatamente ai primi due tipi di spesa, ammontano a 2.800 miliardi di dollari, per il decennio 2020-2030. Un ammontare da utilizzarsi per il 70% per la transizione e il rafforzamento energetico e per il 30% per resistere meglio ai cambiamenti climatici. I governi africani hanno però ammesso di poter coprire appena il 10% del fabbisogno, ossia 264 miliardi di dollari. Tutti gli altri dovranno venire da altri soggetti. Ed è qui che dovrebbe entrare in gioco la solidarietà internazionale, la quale però fa acqua da tutte le parti.

Parole, fondi e danni

Dopo molti anni di negoziazione, i paesi ricchi hanno accettato di costituire un fondo a favore dei paesi del Sud del mondo, affinché possano avviare la transizione energetica e possano costruire le opere utili a proteggersi dai cambiamenti climatici.

In teoria dovrebbero essere 100 miliardi l’anno, ma la raccolta si è fermata a 85. Per di più, la maggior parte delle somme concesse dal fondo è sotto forma di prestito, peggiorando in tal modo il debito del Sud del mondo che già si trova a livelli preoccupanti. Tuttavia, il fondo non copre i danni che il Sud del mondo sta già subendo a causa dei cambiamenti climatici. Come esempi valgano la riduzione dei raccolti agricoli nell’Africa subsahariana, per la scarsità di piogge o, al contrario, i danni da straripamenti dei fiumi, dovuti all’eccesso di piogge, in Asia meridionale. Da un paio di anni i paesi più vulnerabili chiedono la costituzione di un fondo specifico per la copertura dei danni subiti. Tuttavia, alla data di pubblicazione della Laudate Deum, si era ancora al nulla di fatto.

Papa Francesco sostiene che «i negoziati internazionali non avanzano in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune» e indica come rimedio la partecipazione dal basso: «Le istanze che emergono dal basso in tutto il mondo, […] possono riuscire a fare pressione sui fattori di potere. È auspicabile che ciò accada per quanto riguarda la crisi climatica. Perciò ribadisco che “se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali”».

Parole chiare che ci impongono di convertirci a maggiore partecipazione.

Francesco Gesualdi

 

Nota: lo scorso dicembre, si è tenuta negli Emirati arabi uniti la Conferenza delle parti (Cop28). Su di essa rimandiamo al nostro sito web e al prossimo numero della rivista.




Troppo cibo sprecato


Il cibo perso o sprecato continua a essere troppo mentre guerre  e cambiamento climatico peggiorano la situazione. Ma qualcosa si sta facendo, sia nel Nord che nel Sud del mondo, per contrastare lo spreco. E anche le nostre missioni cercano di ideare soluzioni.

Il 13% del cibo prodotto a livello globale viene perso nella filiera produttiva, nelle fasi intermedie tra raccolto e commercializzazione, mentre un ulteriore 17% viene sprecato da famiglie, servizi di ristorazione e nella vendita al dettaglio: si tratta di una quantità di cibo che sarebbe sufficiente per nutrire oltre un miliardo di esseri umani@.

Secondo le ultime stime, nel mondo le persone affamate sono fra i 691 e i 783 milioni@.

Sono queste le più recenti statistiche fornite dalla Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, e l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Nella divisione del lavoro che le agenzie internazionali si sono date per valutare i progressi verso il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, la Fao è responsabile di misurare le perdite di cibo, mentre all’Unep spetta la misurazione dello spreco.

Misurare lo spreco

Si tratta infatti di due fenomeni diversi, il cui risultato è comunque quello di rendere non disponibile cibo che poteva esserlo.

La perdita avviene nella fase di produzione e trasformazione, mentre lo spreco si colloca nella fase della vendita e del consumo.

Se nelle pubblicazioni più recenti della Fao non si leggono dati che quantifichino i volumi di cibo perso, l’Unep si sbilancia un po’ di più, fornendo nel «Food and waste index report» del 2021 una stima del cibo sprecato, che sarebbe pari a 931 milioni di tonnellate, di cui 569 milioni a causa del consumo nelle famiglie, 244 nei servizi di ristorazione e 118 nella vendita@.

Se si cede alla tentazione di fare un calcolo piuttosto sbrigativo partendo dal presupposto che 931 milioni di tonnellate di cibo sprecato rappresentano il 17% del totale, allora il 13% – cioè il cibo perso – risulta pari a circa 712 milioni di tonnellate, per un totale di 1,6 miliardi fra cibo perso e sprecato. Un dato che trova conferma nelle rielaborazioni fatte dal Boston consulting group, una società di consulenze statunitense, che aggiunge: continuando ai ritmi attuali, nel 2030 arriveremmo a buttare via 2,1 miliardi di tonnellate, pari a un valore stimato di 1.500 miliardi di dollari, contro i 1.200 miliardi attuali@.

Si tratta di stime, ma negli ultimi dieci anni sono state comunque corrette al rialzo, se nel 2011 il cibo sprecato e perduto era quantificato in 1,3 miliardi di tonnellate totali.

La più aggiornata stima delle emissioni di gas serra imputabili a questo fenomeno non si discosta invece dalle precedenti: fra l’8% e il 10% dei gas serra globali sembrano legati al cibo che viene prodotto, trasformato e trasportato ma non consumato. Inoltre, gli alimenti gettati in una discarica e lasciati a decomporsi producono a loro volta metano che si aggiunge agli altri gas serra.

«Se la perdita e lo spreco di cibo fossero un Paese», scrive la direttrice di Unep, Inger Andersen, nella prefazione del Food and waste index report citato sopra, «sarebbe la terza fonte di emissioni di gas serra» del pianeta, dopo Cina e Stati Uniti, e prima dell’India@.

I disastri che «mangiano» il cibo

A far diminuire la disponibilità di cibo ci sono anche le catastrofi. Sempre la Fao, quest’anno, ha voluto dedicare particolare attenzione a questo aspetto con un rapporto dal titolo «The impact of disasters on agriculture and food security»@.

Le catastrofi sono definite come «gravi interruzioni del funzionamento di una comunità o di una società», e il rapporto si concentra su quelle connesse con cinque macrocategorie di rischi cui l’agricoltura è più esposta: rischi meteorologici e idrologici, fra cui siccità e inondazioni; rischi geologici, dai terremoti agli tsunami; rischi ambientali, come gli incendi, rischi biologici, ad esempio le infestazioni da locuste; e rischi sociali, principalmente i conflitti armati.

Gli eventi catastrofici, si legge nel rapporto, sono passati da circa 100 all’anno negli anni Settanta del secolo scorso ai 400 all’anno nel ventennio dal 2000 al 2021. A causa di questi eventi il mondo ha perso il 5% del Pil agricolo annuo globale per un totale di 3.800 miliardi di dollari. La perdita di Pil agricolo sale fino al 10-15% nei paesi a reddito medio basso e basso e al 7% nei piccoli Stati insulari in via di sviluppo@, che si trovano principalmente nei Caraibi, nell’Oceano Indiano e nel Pacifico.

Esempi di disastri

Gli esempi recenti di catastrofi non mancano: lo scorso maggio Reliefweb, il servizio informazioni dell’ufficio Onu per gli affari umanitari, riportava@ che il Corno d’Africa ha avuto cinque stagioni consecutive di piogge scarse o assenti, cioè un’ondata di siccità che ha superato negli effetti e nella durata quelle del 2016/2017 e del 2010/2011.

Più di 13,2 milioni di capi di bestiame erano già morti in tutta la regione, causando la perdita di oltre 180 milioni di litri di latte dall’inizio della siccità e privando 1,4 milioni di bambini sotto i 5 anni della possibilità di consumare un bicchiere di latte al giorno, con gravi conseguenze per il loro status nutrizionale.

A novembre 2023, la regione si preparava poi a possibili inondazioni dovute fra l’altro al previsto arrivo di El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che interessa in misure diverse quasi tutto il globo e che nel Corno d’Africa tende a provocare precipitazioni più abbondanti fra marzo e maggio.

Quanto poi alle catastrofi legate ai conflitti, un’infografica sui siti del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione europea@ mostra come la guerra in Ucraina ha ridotto di un terzo la produzione di cereali nel paese e ha duramente colpito quella dell’olio di girasole, di cui l’Ucraina era il primo esportatore mondiale prima dell’invasione russa. «Le esportazioni ucraine, in particolare di frumento», si legge sul sito del Consiglio, «rivestono un’importanza cruciale per alcuni paesi asiatici e africani, che dal 2016 al 2021 hanno ricevuto il 92% del frumento ucraino».

Nairobi, Kenia. Agosto 04/2020. Hogar Familia Ya Ufariji. Huerta en Ngomongo. © Bruno Cerimele

Campagne, app e tecnologia contro lo spreco

Le iniziative per affrontare fame e cambiamento climatico stanno emergendo in tutto il mondo, scriveva nell’ottobre del 2022 Somini Sengupta sul New York Times in articolo dal titolo «Inside the global effort to keep perfectly good food out of the dump»@.

A Seoul, riportava Sengupta, i bidoni della spazzatura pesano automaticamente la quantità di cibo gettato nella spazzatura. A Londra, i negozi di alimentari non mettono più le etichette con la data di scadenza su frutta e verdura per evitare confusione su ciò che è ancora commestibile. La California impone ai supermercati di regalare il cibo invenduto ancora buono da mangiare invece di buttarlo.

E ancora: la Cina aveva lanciato nel 2020 la campagna «Piatto pulito» per ridurre lo spreco di cibo, incoraggiando le persone a evitare di ordinare di più di quello che consumano e invitando i video blogger che si riprendono mentre mangiano grandi quantità di cibo a non farlo più.

Esistono poi diverse applicazioni per cellulari che aiutano a limitare lo spreco: una di queste è Too good to go, azienda fondata in Danimarca nel 2015, che nel suo Impact report del 2022@ sostiene di aver impedito lo spreco di circa 79 milioni di pasti. L’app permette di vedere quali esercizi mettono a disposizione cibo avanzato a un prezzo molto più basso di quello iniziale ed è possibile prenotare il cibo per poi passarlo a ritirare nella fascia oraria indicata. A ottobre 2023, Too good to go ha lanciato la campagna «Salva il pianeta in ogni angolo di Roma» che ha permesso di recuperare nella capitale mezzo milione di pasti, come riferiva ai microfoni di Askanews Mirco Cerisola, il direttore per l’Italia dell’azienda di Copenaghen@.

Nei paesi in via di sviluppo

Anche nei paesi in via di sviluppo ci sono iniziative contro lo spreco e la perdita di cibo: in Kenya, riporta ancora l’articolo di Sengupta, un imprenditore ha costruito frigoriferi a energia solare per aiutare gli agricoltori a conservare i prodotti più a lungo. Si tratta di Dysmus Kisilu, trentunenne keniano che a 27 anni, dopo gli studi all’Università della California, a Davis ha fondato Solar Freeze, l’azienda che ora gestisce insieme a un team composto da una decina di coetanei.

Nel video per Fast Forward, un’organizzazione che promuove aziende startup capaci di combinare tecnologia e sostenibilità, Kisilu racconta che ha capito l’importanza di fornire ai piccoli agricoltori africani un sistema di refrigerazione sostenibile vedendo la nonna, contadina del Kenya orientale, perdere metà del raccolto prima ancora di raggiungere i banchi del mercato a causa della mancanza di un frigo dove conservare i prodotti@.

L’esperienza nelle missioni

Proprio nella capitale del Kenya, Nairobi, su un appezzamento di terreno di 21 acri (circa 8 ettari), i Missionari della Consolata gestiscono una fattoria, la Njathaini farm, che garantisce la sicurezza alimentare alla scuola che si trova sullo stesso terreno, alla casa per ragazzi di strada Familia ya Ufariji e alla comunità della zona.

Le attività agricole, riporta Naomi Nyaki, responsabile dell’ufficio progetti Imc a Nairobi, riguardano la coltivazione di mais, fagioli e diversi tipi di colture orticole come la belladonna africana, o managu in lingua locale, l’amaranto (terere) e una varietà di cavolo che nella lingua locale si chiama sukuma wiki, traducibile, in modo approssimativo, come «spingi settimana» (un cavolo di origine sudafricana che i missionari della Consolata hanno portato in Kenya di ritorno dagli anni di prigionia durante la Seconda guerra mondiale, ndr), cioè il cibo che serve per sopravvivere durante la settimana. Alla fattoria i missionari allevano anche capre, pecore e polli. «Alla Njathaini farm», prosegue Naomi, «le difficoltà principali riguardano lo stoccaggio dei prodotti agricoli dopo la raccolta, in particolare delle verdure deperibili, ma anche le possibili infestazioni da parassiti». A Familia ya Ufariji, invece, l’allevamento di vacche e maiali permette di garantire ai bambini ospitati – che possono arrivare fino a 90 – di avere una dieta adeguata.

Ma, spiega Naomi, stiamo cercando di creare un sistema più razionale per usare i prodotti dell’allevamento, «ad esempio comprando più frigoriferi che ci permettano di tenere separati latte e carne e di conservarli più a lungo. Anche fare lo yoghurt aiuterebbe a sfruttare meglio il latte, ma ancora non abbiamo una macchina a disposizione per produrlo in modo sistematico».

Anche in Tanzania i missionari cercano soluzioni per sfruttare al meglio il cibo. «Il problema qui riguarda più la perdita di cibo che lo spreco», scrive da Iringa Modesta Kagali, la responsabile dell’ufficio progetti dei Missionari della Consolata.

Nelle diverse case dei missionari, soprattutto in quelle che ospitano molte persone, come le case di formazione, si usano diversi modi per proteggere il cibo dal deterioramento: dalla conservazione del pesce sotto sale all’essiccazione, dall’uso del miele per isolare la carne dall’umidità all’utilizzo di celle frigorifere solari. Un metodo interessante è quello del refrigeratore fatto con il carbone (charcoal cooler). «La camera funziona senza bisogno di elettricità, secondo il principio del raffreddamento evaporativo. È costituita da un telaio in legno aperto con i lati riempiti di carbone trattenuto da reti metalliche. Il carbone viene costan- temente inumidito e quando l’aria calda e secca passa attraverso il carbone umido produce un notevole effetto rinfrescante. L’efficacia di conservazione dipende dal tipo di alimento: nel caso della verdura, questo refrigeratore ha mostrato di riuscire ad allungarne la conservazione di circa dieci giorni».

Chiara Giovetti




Inizia il Triennio dedicato al Beato Allamano


All’attenzione di chi è interessato a conoscere di più del Beato Giuseppe Allamano.

Fra pochi giorni inizieremo il Triennio dell’Allamano che le due Direzioni Generali dei Missionari e Missionarie della Consolata hanno proposto come preparazione al Centenario della morte del Fondatore che cadrà nel 2026.

Dalla Casa Natale dell’Allamano vorremmo offrire ai confratelli, consorelle e laici missionari la possibilità di riscoprire, un pezzo alla volta, porzioni della grande mole di riflessioni e studi sul Fondatore e sul nostro carisma. I Missionari e le Missionarie del passato ci hanno lasciato tale grande ricchezza che però non è sempre facile rintracciare nei nostri siti e archivi. Accogliamo anche studi e riflessioni più recenti che ci saranno segnalati…

Apriamo ora un “gruppo mail” chiamato: “Dalla casa natale”. Chi desidera ricevere tale materiale, oppure avere indicazioni per accedere ad esso, ce lo segnali al seguente indirizzo mail: casanatale.allamano@consolata.net
Inizieremo con 2-3 invii settimanali di materiale, poi vedremo se l’iniziativa funziona ed è utile…

I Missionari e le Missionarie della Consolata – Castelnuovo Don Bosco


Qui trovate la lettera che lancia il triennio dell’Allamano: Giuseppe Allamano. Cuore di Padre

Clicca qui per il sito ufficiale del sul Beato  Giuseppe Allamano


Il beato Giuseppe Allamano nella casa di Rivoli, fotografato dagli studenti diel seminario durante una loro visita. – 1920 ca. (AfMC)




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

La freccia della pace

Anche a Dar es Salaam (Tanzania), dove opero, i ragazzi vanno a scuola zaino in spalla. Persino i bambini dell’asilo indossano lo zainetto, decorato con paperette e caprette. Pochi bimbi, però, perché la scuola materna è un lusso da queste parti.

A questi zaini e zainetti ho pensato, cari missionari della Consolata, visitando il vostro «Polo culturale» Cam, Cultures and Mission, di Via Cialdini 4, Torino. Già. Iniziando la visita, sono stato «accolto» proprio da uno zaino e da un paio di sandali. Corredo essenziale per chi affronta un viaggio a piedi.

Un viaggio, quello nel Cam, attraverso reperti culturali di valore assoluto, esperienze di missionari e missionarie, danze e musiche coinvolgenti, che mi hanno avvicinato ai Kikuyu del Kenya, ai Wahehe del Tanzania, ai Pigmei del Congo, agli Amara dell’Etiopia. Senza scordare gli Yanomami del Brasile e altre popolazioni dell’America Latina. Realtà affascinanti, documentate da foto dell’«archivio Missioni Consolata». E l’Asia? L’Asia non manca nel «Polo culturale». Così ho attraversato le steppe gelide e sterminate della Mongolia…

Anno 1241, Cracovia (Polonia). Dal campanile della chiesa di Santa Maria un trombettiere lancia l’allarme: «I Mongoli sono alle porte!». Ma un arciere mongolo colpisce a morte quel trombettiere polacco. Ancora oggi, a Cracovia, ogni ora un trombettiere suona quell’allarme del 1241.

E dalla Mongolia il 10 giugno 2018 Paola Giacomini è partita a cavallo con nello zaino una freccia simile a quella dell’arciere mongolo che trafisse il trombettiere polacco. Paola ha cavalcato per 15 mesi, fino al 16 settembre 2019, allorché entrò nella basilica di Santa Maria, a Cracovia, per deporre la freccia della … pace.

Grazie Mongolia, grazie Polonia. Grazie Paola, ambasciatrice di pace.

Francesco Bernardi,
Dar es Salaam, 13/10/2023

In memoria di padre Paolo Tablino

Don Paolo Tablino, prete della diocesi di Alba, è stato missionario fidei donum e poi missionario della Consolata a Marsabit, nord del Kenya, dalla fine degli anni Cinquanta al 2009.

Per ricordare la sua opera e il suo impegno pastorale che negli anni ha favorito l’istruzione, l’accesso alla sanità, l’inculturazione del Vangelo nella valorizzazione della cultura locale, lo scorso 28 ottobre è stato inaugurato ad Alba un monumento, opera del giovane artista albese Samuel Di Blasi.

L’installazione dal titolo «Marsabit», opera d’arte alta più di quattro metri che rappresenta un albero, è stata posta nell’area verde che l’amministrazione comunale aveva già dedicato al missionario, in prossimità della chiesa Cristo Re, tra via Romita e via san Teobaldo.