Dallo Zaire al Congo



Tra guerre e dittature, 50 anni di strada

Partire dalle minoranze

Primi anni ‘70, periodo di grande fermento. La Consolata cerca un’esperienza di missione molto vicina alla gente, nella quale coinvolgere i giovani missionari. In un contesto di periferia, magari di foresta. Un’occasione si profila all’orizzonte.

L’Istituto Missioni Consolata (Imc) ha visto nell’andare in Congo, all’epoca Zaire, una presenza missionaria nuova. Prima di allora avevamo un’esperienza di missione in foresta solo in America Latina, ma non in Africa. In Tanzania e Kenya lavoravamo in territori semi aridi e di savana. La domanda di base, pensando a un nuovo contesto ambientale e umano, era: quali sono le sfide che possono nascere? I pilastri su cui volevamo costruire la missione in Congo erano i seguenti tre.

Aprire l’Istituto a un’esperienza nuova, molto coinvolgente e vicina alla gente. Dal dopoguerra si notava che le missioni diventavano sempre più grandi ed estese. Le strutture – dispensari, scuole, cappelle, chiese – erano cresciute, ma mancava l’accompagnamento delle persone.

Mandare giovani missionari che facessero un’esperienza forte fin dalla loro prima destinazione. In effetti, quando sono arrivato io, nel 1982, la cosa che colpiva era vedere missionari tutti molto giovani che mostravano grande spirito di fraternità. Il Congo era diventato un punto di riferimento per tutto l’Istituto: molti di noi volevano andarci, era la missione più desiderata.

Infine, già allora l’Istituto aveva fatto la scelta preferenziale per le periferie, che veniva confermata.

Il pretesto

Il motivo concreto del nostro arrivo in Zaire è stato l’invito da parte dei vescovi del paese di padre Noè Cereda a Kinshasa, per insegnare sociologia all’università. Il Congo dopo la guerra civile degli anni ’60-’64 si è ricostruito intorno alla cultura. L’unità nazionale è stata data dalla chiesa cattolica, che ha rappresentato sempre l’unica istituzione che dava spazio ai giovani.

La chiesa a Kinshasa aveva aperto un’università cattolica, che era più importante della statale. Per fare questo, i vescovi avevano fatto specializzare alcuni preti, oppure li avevano fatti arrivare dall’estero, come padre Noè.

Quando il superiore è andato poi a trovarlo, ha incontrato alcuni vescovi che si sono mostrati sensibili alla nostra presenza. Così, nel 1972, abbiamo aperto, ma non in capitale, bensì a Nord, nella foresta. A Wamba e a Doruma. Una scelta della periferia.

A Kinshasa abbiamo avuto sempre un pied-à-terre, la piccola parrocchia Mater Dei, che ancora oggi è il nostro quartier generale in Congo.

Facciata della casa della missione di Mater Dei a Kinshasa

Wamba

Il 7 novembre del 1972 è partito dall’Italia padre Antonio Barbero, il primo (se non si conta padre Noè) a iniziare una missione della Consolata in Congo (vedi sotto).

La due prime missioni sono state Doruma e Wamba, che distano tra loro 400 km di strada sterrata. Wamba, nella diocesi omonima, si trova in piena foresta, dove ci sono anche i Pigmei. Fin da subito i nostri missionari hanno fatto l’opzione per i Pigmei, iniziando visite e accompagnamento. Questi sono sempre stati visti dagli altri congolesi come terza categoria, meno degli animali.

La missione a Wamba è stata caratterizzata da una presenza bella e semplice, senza grandi strutture. Abbiamo retto per tanti anni il centro catechistico, che è stato il cuore della diocesi. Lì i nostri padri formavano le famiglie, per tre o sei mesi, a essere animatrici nei propri villaggi di provenienza. C’era la scuola, la formazione delle donne, e molto altro.

Negli ultimi tempi (negli anni ’90-’91) abbiamo aperto una radio per fare alfabetizzazione. Anche i Pigmei la ascoltavano, in swahili o in kibutu, che è la loro lingua. Il centro è stato in seguito passato alla diocesi.

Segno di mitragliata sui muri della missione di Wamba

Dobbiamo ricordarci che Wamba è stato l’epicentro della ribellione dei Simba (1964-65), e che vi sono stati ammazzati il vicario apostolico, Joseph Pierre Albert Wittebols, con 250 altri europei tra cui tanti preti e suore. Prima c’erano i Dehoniani, che però non riuscivano più a reggere tutte le missioni. Noi siamo arrivati dopo la ribellione, nel 1972, quando Mobutu aveva preso il potere. Abbiamo cercato di dare speranza, impegnandoci molto sul piano sociale, e nel centro catechistico.

Padre Piero Manca è stato il pilastro dei catechisti, ha lavorato tantissimo alla promozione umana. Poi c’era padre Angelo Baruffi, che è stato per anni coordinatore di tutte le scuole cattoliche della diocesi. Padre Ivano Magnani, punto di riferimento per tanti giovani preti, anche locali, è stato vicario diocesano. Padre Enrico Casali è stato l’uomo spirituale, lui ha portato molta animazione e ha fondato il gruppo dei Focolarini. C’era pure padre Flavio Pante, che oggi è di nuovo lì, tornato per un secondo periodo, una presenza di spicco, molto apprezzato e molto vicino alla gente.

A Pawa, sempre nella diocesi di Wamba, avevamo il dispensario e seguivamo pure i lebbrosi. Un’altra missione era a Bafwabaka.

Ordinazione a Wamba di padre Stefano Camerlengo e padre Alvaro il 19/03/1984

Doruma

Più a Nord, sempre nel ’72, abbiamo aperto a Doruma, nella diocesi Dungu-Doruma, vicino al confine con il Sudan. Seguivamo anche alcuni villaggi in Sudan. Alla frontiera c’era un lebbrosario che accompagnavamo.

Doruma è un’altra regione, e vi vive un’altra tribù, gli Azande, gli antichi abitanti del Congo, con il loro sistema di re, e come lingua usano il lingala più antico.

Avevamo anche la parrocchia di Bangadi, e padre Giuseppe Ronco è stato in entrambe.

È una zona molto vasta e, se a Wamba la gente è concentrata, a Doruma è più dispersa.

Erano missioni ereditate dai padri agostiniani, e la presenza missionaria era caratterizzata dalla vicinanza alla gente.

Nelle missioni antiche c’era la vecchia idea della collina con la chiesa, la casa dei padri, la scuola, la falegnameria, ecc. E la gente si radunava attorno. Il cambio di stile missionario che abbiamo vissuto, è stato impostato dai padri Bianchi (i missionari d’Africa), grandi maestri della missione africana, che hanno rovesciato il paradigma: non è la gente che deve venire da noi, ma siamo noi ad andare nelle comunità. I missionari partivano per visitare i villaggi e stavano 10-15 giorni con i loro abitanti.

Quello che ci è mancato è stato lasciare traccia scritta, perché la riflessione è stata fatta. Quello che aiutava i nuovi arrivati, erano i diari della missione, che ancora si tenevano.

Quando i missionari tornavano alla sera – ai tropici viene buio presto – si trovavano seduti intorno a una candela, e si raccontavano quello che era successo nella giornata.

La chiesa di Doruma nel 1983

Ampliamenti e cambiamenti

A Wamba, negli anni ‘90, si è confermata e rafforzata l’opzione per i Pigmei, aprendo una missione a Bayenga, al centro del loro territorio.

A Doruma, durante la guerra di Kabila (prima guerra del Congo 1996-97), sono passati svariati eserciti e la missione è stata attaccata diverse volte, così si è deciso di lasciarla. Siamo andati ad aprire a M’bengu, nella stessa diocesi. Una località «fuori dal mondo», ancora più sfidante.

Lì abbiamo realizzato una scuola. È una convinzione dei Missionari della Consolata, infatti, quella di investire nella cultura: se aiuti le persone a pensare, il mondo cambia. Non è il pane che ti cambia, anche se è necessario.

Per essere presenti anche in capitale, a Kinshasa, si è deciso di aprire una nostra missione a Samukassa, con i padri Santino Zanchetta e Antonello Rossi. Vi siamo stati 25 anni, per poi passarla alla diocesi.

Nel Nord, nella diocesi di Isiro, avevamo già aperto nel capoluogo (nel ’75), e siamo andati a Neisu (nell’84), che era un piccolo villaggio a 70 km di distanza, dove si andava già a celebrare la messa.

Da Isiro partiva padre Antonello con padre Oscar Goapper. Oscar aveva un interesse particolare per la medicina: un giorno ha cercato di curare una bambina, che però è morta. Ha deciso che non poteva più permettere che questo accadesse. Ha quindi studiato medicina per poi aprire l’ospedale di Neisu. Il villaggio si è ingrandito e adesso è un grosso centro. È oggi un nostro fiore all’occhiello.

Durante la guerra di Kabila non si poteva viaggiare tra la capitale e il Nord, che si raggiungeva solo attraverso l’Uganda. Siamo stati costretti a separare le due realtà (1999). Io ero il superiore delegato a Kinshasa, dove abbiamo aperto due parrocchie e il seminario teologico. Solo quando sono partito nel 2005, destinato a Roma, ho capito tutto quello che avevamo fatto in quegli anni. Il cardinale Frédéric Etsou, aveva fatto un consiglio personale, nel quale aveva chiamato anche me e l’attuale cardinale di Kinshasa.

Padre Oscar Goapper a Neisu nel 1983, quando i malati erano curati in un capannone e l’ospedale era ancora da venire.

Verso quale futuro

Il Congo, oggi Rdc, ha bisogno di stabilità, perché è tormentato da sempre. È un paese ricchissimo con molte potenzialità e gente capace, ma ha una corruzione endemica, e tutti ci stanno bene o sanno conviverci. Come ottenere questa stabilità? Con la serietà nel lavoro, educazione alla giustizia e alla pace. È fondamentale. La chiesa, e il nostro Istituto in particolare, non possono tirarsi fuori, perché non si può benedire una situazione di ingiustizia. Onestà e trasparenza, sono priorità da perseguire a tutti i livelli. Insistiamo nel dare la precedenza a situazioni di minoranza o povertà, ecco perché riaffermiamo la scelta preferenziale per i Pigmei.

Nei pressi a Beyenga, esistono piste di atterraggio clandestine, dove arrivano aerei per portare via il coltan (minerale di cobalto e tantalio, ndr) e l’oro. I ragazzi vanno a raccogliere il minerale per i trafficanti, guadagnando 10 dollari alla settimana, quanto prende il papà in un mese di lavoro. Tutto questo complica la situazione sociale. Non si può stare in silenzio.

Sarebbe importante portare il tema dei Pigmei a un livello internazionale: c’è un gruppo di persone che non è rispettata, che va scomparendo, che non ha gli anticorpi per un raffreddore.

L’altra questione importante è la promozione umana, che deve essere portata avanti dalla gente. Anche la cooperazione non ha più senso farla con progetti nostri, ma va fatta con progetti che la popolazione prenda in mano e porti avanti.

Stefano Camerlengo

Da sx: i diaconi Stefano Camerlengo e Alvaro Dominguez, padri Magnani Ivano, Marcolongo Renzo e Mazzotti Giacomo a Wamba 1983


Dal diario del pioniere della Consolata in Congo

Prime lettere dallo Zaire

È una domenica di inizio dicembre del ‘72. Finalmente padre Antonio raggiunge la sua destinazione, a lungo sognata. Ha viaggiato 25 giorni e visitato diverse località del Nord Zaire. E inizia lì, a pochi passi dal confine con il Sudan, la sua avventura missionaria.

Padre Antonio Barbero è stato il primo missionario della Consolata inviato dall’Istituto per aprire una missione in Congo, all’epoca Zaire. A Kinshasa si trovava già padre Noè Cereda, invitato dalla Conferenza episcopale per impartire lezioni all’università cattolica della capitale.

Padre Antonio è partito il 7 novembre 1972 dall’Italia, aveva 44 anni. Arrivato in Zaire si è diretto nel Nord Est. A Doruma ha iniziato il lavoro della Consolata. È stato poi raggiunto da fratel Alberto Donizetti (partito il 16 dicembre) e dai padri Tiziano Basso, Enrico Casali e Pietro Manca, che avevano lasciato l’Italia il 19 dicembre.

Padre Antonio ha scritto un diario in forma epistolare che rimane un documento importantissimo per tracciare le prime fasi della presenza dell’Imc in Congo-Zaire. Ne riportiamo alcuni passaggi.

Sabato 18 novembre 1972.
Padre Antonio si trova a Kisangani, e sta per andare per la prima volta a Isiro, e poi a Wamba e Doruma, sua destinazione di missione.

Il Fokker copre la distanza Kisangani – Isiro in un’ora. Come al solito, sotto di noi si presenta la stessa panoramica: foresta interrotta ogni tanto da corsi d’acqua, da piste tracciate nel verde, villaggi disseminati lungo le piste e i fiumi. […].

La pista è in terra battuta, ma così solida che pare cemento. Il Fokker si ferma proprio davanti all’uscita: i bianchi sono invitati all’ufficio di controllo, solo io vengo scritto nel registro, perché è la prima volta che tocco questo suolo. Mentre attendo le valigie, vedo una suora e vado a domandare se per caso andasse alla procura. Mentre parlo con lei mi si presenta un italiano, signor
Casale dell’Aquila, macellaio a Isiro, il quale si offre di accompagnarmi a St. Anne, dove è parroco padre Colombo, comboniano, superiore regionale. L’accoglienza è più che fraterna […].

Lunedì 20 novembre.
Sono sempre in attesa di un’occasione per recarmi a Wamba. Finalmente se ne presenta una, il curato di Babonde che è venuto in città per compere. Faccio anche io una passeggiata attraverso la città, entro in qualche negozio […]. Molta gente siede oziosa a guardare i passanti. Altrove c’è qualche mamma seduta per terra con il proprio bimbo, davanti a lei una bacinella ripiena di una specie di polpette di manioca, di pane zuccherato […].

Verso le 16, a bordo di un pulmino Wolkswagen, carico un po’ di tutto, prendiamo la via di Wamba. La via diretta è interrotta perché alcuni ponti sono in via di ricostruzione in cemento, perché erano di tronchi d’albero. Quindi prendiamo per Ibambi, facendo così un lungo giro su una strada che non è degna di questo nome. Ci sono tratti in cui anche in prima pare di essere sulle montagne russe. La strada si snoda nella savana arborata, su di un terreno ondulato rossiccio, che qui chiamano «limenite» (laterite, ndr), un terreno di origine vulcanica, un po’ ghiaiosa. Spesso a destra e a sinistra compaiono villaggi formati da casette in mezzo al verde, di costruzione sempre uguale, davanti alle quali giocano molti bambini e prendono il fresco uomini e donne sulle proprie sdraio. Si notano spesso piantagioni di caffè […].

Nel viaggio ci sono molti fiumi da attraversare, ma spesso i ponti sono in totale rovina a causa della guerra e poi dell’incuria.

Martedì 21 novembre.
Il bac è una specie di chiatta fatta di piroghe (tronchi scavati) che sfrutta la corrente per fare attraversare persone, cose, camion e Land Rover. Le operazioni sono così lente che mettono a prova la nostra pazienza, ma non la loro… perché la fretta non è la loro virtù o il loro vizio.

La cattedrale di Wamba nel febbraio 1983

Wamba

Il secondo campo di lavoro della Consolata in Zaire è situato un grado sopra l’Equatore, 120 km da Isiro, ad una altezza media di 500 m, un pianoro ondulato nella savana arborata, per non dire foresta. Vicariato apostolico dal 1949, affidato ai padri dehoniani, diocesi dal ‘59, nel ‘64, il 2 novembre, eccidio del vescovo con 15 padri e altrettante suore, gettati poi nel fiume Wamba e non più ritrovati. In sede è rimasto solo il vescovo nero, mons. Olombe e padre Martin, parroco, con quattro suore vincenziane e tre africane. Diecimila abitanti circa, la metà cattolici […].

La missione doveva essere un gioiello. Costruzioni in mattone: scuole, case per i maestri, conventi, laboratori, tipografia, coltivazioni di caffè, ecc. Di nuovo c’è la cattedrale: opera originale iniziata prima della rivoluzione e terminata due mesi fa. Forma circolare, il tetto in lamiera […]. A me è parsa una nota stridente con le abitazioni del popolo, ma mi si rispose che i neri pretendono che la casa di Dio sia molto più bella e grande della loro, perché deve costituire un ideale, un punto di arrivo.

Mercoledì 22 novembre.
Ebbi una lunga conversazione con il vescovo, in merito alla nostra futura presenza nella sua diocesi. Monsignor Olambo si sente felice, gli pare di rivivere pregustando la gioia di avere del personale giovane, disponibile alla missione per fare rifiorire la cristianità rimasta senza pastori.

Con padre Martin visitai i diversi rioni della città e dovunque passavamo tutti uscivano incontro a salutare e a invitarmi a rimanere con loro. Con questa gente non bisogna elemosinare strette di mano perché sarebbe un insulto il rifiutare la mano. Ci fermiamo all’ospedale: ma non pensate che sia come da noi, ma all’africana. Le medicine sono provviste dallo stato, ma al cibo ci pensano i parenti, e allora quando la mamma è all’ospedale, tutta la famiglia vi si trasferisce e fuori nel cortile vedete tanti fuocherelli e gente seduta intorno a preparare il cibo […].

Doruma

Mercoledì 29 novembre.
Rifaccio i miei bagagli e, appena consumato pranzo alla procura di Isiro, a bordo di un camion ribaltabile carico di fusti di nafta e di provvigioni per il collegio di Dungu, abbordiamo i 220 km che ci separano da Dungu. I fratelli Richard e Fabien si alternano al volante, perché la strada non differisce da quelle descritte precedentemente. Il sole è arrabbiato, in cabina siamo un po’ scomodi: tre persone più gli oggetti delicati, che sono molti. […].

Facciamo sosta a Rungu dove lavorano i padri comboniani italiani […].

Riprendiamo il nostro viaggio, il paesaggio è quasi sempre uguale: foresta a destra e a sinistra, vegetazione lussureggiante […].

Dopo altre due ore di percorso arriviamo alla savana, con erbe che sorpassano i due metri di altezza. Pochissimi si contano gli alberi a basso fusto […]. Però per quasi tutto il percorso nella savana non si è notata la presenza di una capanna, e questo per 30 km circa. […]

Verso le nove finalmente arriviamo a Dungu.

[…]. Rimango ospite dei fratelli per tre giorni, sempre in attesa di una prossima occasione per Doruma. Nel frattempo, visito la missione di Dungu, diventata sede della diocesi, perché più centrale (diocesi di Dungu-Doruma), mentre Doruma è posta verso i confini della diocesi stessa. […].

Sabato 2 dicembre.
Raccolgo i miei effetti per la penultima tappa verso Doruma. Fratel Fabien deve recarsi a Bangadi in serata e il giorno seguente avrebbe fatto vela per Doruma. Ne approfitto anch’io. Si parte verso le due del pomeriggio. Carichiamo come si conviene il pulmino e tra le tante cose trovo un posto anche per la mia piccola persona.

Per la strada più stretta del solito, attraversiamo i fiumi Dungu e Kigali e tra due sponde di alberi e di erba altissima ci dirigiamo a una velocità discreta a seconda dello stato della pista (zairoise). In quattro ore copriamo la distanza di 110 km e giungiamo a Bangadi […].

Domenica 3 dicembre.
Era domenica e passando nei villaggi si notava un movimento insolito: mercato lungo i viali alberati, assembramenti di gente attorno alle scuole cappelle dove si erano radunati a fare la preghiera con il catechista. Al nostro passaggio tutti ci salutavano con la mano.

Dopo due lunghe ore di corsa giungemmo finalmente in vista della missione che da mesi cercavo di immaginarmi, senza avere alcuni elementi concreti a cui aggrappare la mia fantasia. Mi assalì una certa emozione che cercai di controllare senza riuscirci pienamente. Alla mia destra vidi subito spuntare tra i palmizi la cattedrale in mattoni rosa pallido, la facciata della missione e il complesso delle scuole primarie e secondarie. Ebbi subito la sensazione dell’ordine, della pulizia, del buon gusto. Erano le 11 del tre dicembre, festa di san Francesco Saverio, grande missionario, il quale impiegò sei mesi per raggiungere le Indie (e io impiegai solo 25 giorni per raggiungere la mia destinazione) […].

Verso le 22 raggiunsi la mia cameretta: ero stanco per tutte le emozioni provate e per il viaggio, tuttavia mi fu difficile prendere sonno. Ringraziai il Signore per avermi concesso di coronare il mio sogno missionario. Pregai san Francesco Saverio perché infondesse in me un po’ del suo spirito apostolico onde non deludere le aspettative di Dio e delle anime a cui ero stato inviato. […].

Antonio Barbero

 Padre Antonio ci ha lasciati prematuramente nel febbraio 1982, ma il seme che aveva gettato continua a dare frutto.
Selezione dai testi originali a cura di Marco Bello.


La nuova avventura della Consolata in Congo

Kisangani, ultima periferia

Kisangani è la più grande città del Nord del Congo. È snodo per l’Oriente e per le martoriate province dell’Est. Nel periferico quartiere Segama, in continua crescita, padre Honoré ha iniziato una presenza nel 2019. Quasi tre anni dopo è stato affiancato da padre Rinaldo Do. I progetti sono tanti e i bisogni pure.

Kisangani è la terza città del Congo dopo Kinshasa e Lubumbashi. Si affaccia sulle rive del fiume Congo a duemila chilometri dalla sua foce, nella zona equatoriale, centro Nord del paese. Padre Honoré Tsiditeta, congolese di 57 anni, vi è arrivato nel gennaio 2019. Raggiungiamo telefonicamente padre Rinaldo Do sul posto. Missionario della Consolata, in Congo dal 1991, ci racconta la genesi di questa missione, in una zona nuova per l’Istituto. Innanzitutto, ci spiega la scelta: «C’era il desiderio di uscire dalle nostre aree classiche, di Isiro e Kinshasa, e di avere un punto di riferimento, anche logistico. Ci sono, infatti molti problemi con gli aerei, per noi che lavoriamo al Nord. Si arriva qui da Kinshasa ed è importante avere una casa di passaggio, dove ci si possa fermare, per poi prendere un fuoristrada o una moto e arrivare nelle missioni. Così i superiori, qualche hanno fa, hanno cominciato a dialogare con il vescovo di Kisangani, il quale, ben contento, ci ha dato un terreno che era stato comprato dalla diocesi in vista dell’allargamento della città».

La nuova missione è nel quartiere Segama, a circa 10 chilometri dal centro di Kisangani. Si tratta di una zona urbana nuova, dove si stanno costruendo molte casette, senza alcuna pianificazione e senza servizi: non c’è acqua né elettricità.

«Vi abitano diverse tipologie di persone. Gente che lascia il centro città, altri sono rifugiati del Congo Brazzaville mandati lì chissà perché o scappati, poi ci sono gli sfollati dalle province di Ituri e Kivu, a causa della guerriglia che continua in tutta quella zona di frontiera con Uganda e Rwanda. Si parla di oltre 100 gruppi armati presenti».

Nell’area di Kisangani c’è pace, assicura padre Rinaldo, ma il quartiere non è così tranquillo, si registra molto banditismo notturno: «La gente desidera la nostra presenza anche perché la chiesa può rendere più stabile la situazione».

Piccoli passi

Nel momento in cui parliamo con padre Rinaldo, si stanno ultimando i lavori della casa, base della missione e anche punto di appoggio per missionari che lavorano in altre zone. Poi si inizierà a costruire la chiesa, e in seguito altri progetti. «Adesso abitiamo in centro presso i padri dehoniani e in procura (centro servizi della diocesi, ndr), e andiamo al cantiere tutti i giorni. Quattro volte alla settimana celebriamo l’Eucarestia (la prima è stata celebrata il 27 gennaio 2019, ndr), e questo lo facciamo sotto tendoni che sono montati e smontati per l’occorrenza. Finita la celebrazione vanno infatti tolti, altrimenti si rischia che li rubino. Ma quando potremo abitare sul posto cominceremo a conoscere la comunità, fare un progetto pastorale, i consigli, le commissioni, perché la chiesa è abbastanza viva. C’è una grande voglia di parrocchia. L’area è proprio in mezzo alla gente, e, per noi, è tutto da iniziare, da conoscere, creare i rapporti personali con gli abitanti. Abbiamo iniziato a visitare qualche malato»

E ancora: «Ci sono problemi per mancanza di elettricità, di acqua. Vengono realizzati pozzi artigianali. Noi ne abbiamo fatto uno e la gente viene a prendere acqua alla missione. Pensiamo di realizzarne anche altri nel quartiere, come anche altri progetti da decidere e portare avanti con la nostra gente».

Padre Rinaldo continua con le motivazioni della scelta: «La nostra è una scelta di periferia, dove c’è la gente che ha bisogno di una presenza della chiesa, di consolazione. Abbiamo poi la prospettiva, in un altro terreno, di costruire un centro sanitario, perché sulla salute la gente è abbandonata. Ci sono tanti piccoli centri nel paese. Anche qui a Kisangani ce ne sono alcuni, ma sono, spesso, gestiti dai missionari o dalla chiesa, oppure ci sono le cliniche private, che però hanno prezzi molto elevati».

Padre Rinaldo ha lavorato nella maggior parte delle missioni della Consolata in Rdc. È arrivato a Kisangani nell’ottobre del 2021, per affiancare padre Honoré. Prima era a Saint Hilaire, a Kinshasa, e prima ancora a Neisu, nella diocesi di Isiro.

«La notte di Pasqua abbiamo potuto accendere delle luci, usando un generatore, grazie alla casa quasi terminata. Cosa che a Natale non avevamo potuto fare. Un passo alla volta. La società elettrica dovrà elettrificare anche il nostro quartiere, ma non si sa quando.

A Kisangani, anche in centro, sovente ci sono tagli di elettricità. Anche se si potrebbe dare luce a tutti, perché passa il fiume Congo e ci sono delle cascate».

Infine ci regala qualche considerazione più generale: «C’è un grande abbandono di questo paese. Siamo stati a celebrare la Pasquetta in una zona della città dove c’è una fabbrica di tessuti. Fino a qualche anno fa impiegava duemila operai, adesso è praticamente chiusa. Ce ne sono un centinaio, ma sono in sciopero, perché da sedici mesi non ricevono salario. Questo succede anche in altre zone del Congo: fabbriche abbandonate, lavoratori non pagati. Vediamo situazioni analoghe di insegnanti, infermieri, agenti dell’amministrazione statale. E il governo fa la sua politica, ha regalato 600 auto, una per ogni deputato e senatore. Per tenerseli buoni, ma si dimentica della gente che lavora. Così, spesso, ci sono scioperi che durano settimane, mesi. La situazione è triste, un paese ricco che non è per nulla gestito».

Marco Bello


Il racconto di due decenni vissuti appassionatamente

Con il cuore, si vince

Un’esperienza particolare. Due decenni da missionario sul campo. Il primo in Zaire, il secondo in Rdc. Il primo da giovane alle prime armi, il secondo da veterano con la barba bianca. Tante diversità, altrettante similitudini, cristallizzate nel tempo. Ma sempre la gioia di essere amico, fratello di tanti.

Due decenni vissuti in tempi diversi, in un paese collocato nel cuore dell’Africa (e con due nomi differenti): gli anni più belli della mia vita missionaria, anche se mescolati a tanta fatica, sogni e non poche delusioni.

Un altro mondo

Era il 20 gennaio del 1980; ricordo che, partito da Roma, dopo solo sei ore di volo toccavo il suolo dello Zaire, e non ci volle molto tempo per rendermi conto di essere bruscamente arrivato in «un altro mondo». Con la prima, grande emozione: dopo neanche tre ore dall’arrivo, essendo domenica, la celebrazione della mia prima messa africana in una piccola cappella nella boscaglia (di eucaliptus), con i canti al ritmo dei tamburi, una lingua incomprensibile, i chierichetti con tanto di tuniche colorate e a piedi nudi che precedevano noi preti a passo di danza e tante facce nere (soprattutto di bambini) che guardavano incuriositi i nuovi venuti.

E, dopo pochi giorni, «l’impresa» di arrivare al Nord del paese, sorvolando l’immensa foresta equatoriale, e l’arrivo, su strade rosse e polverose, a Isiro, la modesta cittadina (sede della nostra casa provinciale) dove, la notte del primo dicembre del ’64, era stata uccisa Anuarite, una giovane suora, durante la tristemente famosa «Ribellione dei Simba» che, scoppiata qualche anno dopo l’indipendenza del Congo (1960), aveva prodotto centinaia di vittime tra i locali e tra i missionari stranieri.

Ricordo anche che al mio arrivo in Zaire, la gente era ancora sotto shock per «il regalo» di Natale 1979 del presidente Mobutu: la «demonetizzazione», cioè il cambio senza preavviso delle banconote, passate dal colore azzurro al verde (come la foresta e le foglie di manioca). Nonostante i missionari si fossero dati da fare per trasportare le persone, con i loro vecchi soldi, dai posti più lontani alle banche cittadine, la maggior parte della popolazione non riuscì a cambiare le ormai inutili banconote, che tenevano celate negli angoli più nascosti delle capanne.

Dopo mesi faticosi per imparare il kiswahili, cominciai a scorrazzare su una vecchia Land Rover per la quarantina di villaggi della nostra estesa parrocchia di Wamba, disseminati tra file di palme, campi di riso e manioca, bananeti e chiazze di alte erbe (con qualche serpente annesso). Sperimentavo, così, la gioia e la difficoltà di testimoniare il vangelo di Gesù, non solo in un’altra lingua e cultura diverse dalle mie, ma anche con «l’aiuto» dei catechisti, senza i quali non avrei potuto avvicinare, conoscere, capire e amare la gente dei villaggi. Mi appassionava lavorare con loro, valorizzando le loro conoscenze, il loro modo di vita, la fede semplice e severa di alcuni che, formati senza zucchero dai missionari belgi, erano passati attraverso il crogiolo della persecuzione (e anche del martirio). Fu questa mia passione per loro (forse) che spinse la mia nomina a responsabile del Centro catechistico diocesano, per sei anni, in cui tentai un’impostazione nuova, per formare non soltanto dei «bravi maestri nella fede», ma dei veri leader e animatori per lo sviluppo umano, l’insegnamento, la salute e, soprattutto, la giustizia e l’onestà in quel contesto difficile e così avaro di sogni per qualche cambiamento.

Padre Giacomo Mazzotti a Wamba

Ma fu proprio un cambiamento (non certamente da me sognato) a interrompere il mio lavoro missionario con i catechisti. Nel 1990 venivo, infatti, richiamato in Italia per lavorare nelle nostre riviste e nell’animazione missionaria. Confesso che avevo accettato con non poca fatica, perché dover lasciare l’Africa, dopo solo dieci anni, sembrava un’evidente ingiustizia nei miei confronti. Confidavo, però, nel fatto che la permanenza nel Belpaese non sarebbe stata troppo lunga, ma solo una parentesi da smaltire il più in fretta possibile. Invece, i pochi anni previsti si protrassero più del dovuto, fino a metà del 2005 quando, approfittando della nomina del nuovo superiore generale, feci la richiesta di poter ripartire. E così, il 12 gennaio 2006, riprendevo l’aereo per cominciare la seconda tappa della mia avventura missionaria.

Molti mi avevano ricordato che il Congo (ora si chiamava così) che avrei trovato non sarebbe stato sicuramente come l’avevo lasciato: lunghi anni di guerra, violenza e confusione politica avevano stremato la popolazione, rendendola più povera e sfiduciata. Era ormai scomparso dalla scena Mobutu (morto in esilio, in Marocco, nel 1997), lasciando il paese al collasso economico, in conflitto con i paesi vicini e la guerra civile al proprio interno.

Stavolta, ero stato nominato nientemeno che parroco nella periferia di Kinshasa, in una nostra parrocchia santuario (Mater Dei), dove si venera l’immagine della Madonna di Czestochowa, dono di Giovanni Paolo II, nella sua prima visita allo Zaire (1980). Avevo accettato l’incarico con molta riluttanza e timore, pensando a ciò che mi aspettava, anche se, un mese dopo il mio arrivo, avevo potuto condividere un momento epocale del nostro Congo: per la prima volta, dopo più di trent’anni, le elezioni libere e democratiche per la scelta del presidente e del nuovo governo. Ho rintracciato nel diario questa annotazione: «30 luglio 2006. Dopo tante voci negative, finalmente la gente può esprimersi anche se la scelta non è certamente libera e oggettiva per via dei troppi candidati e degli interessi immediati. Ma è un’occasione importante e cerco di spiegarlo nelle due messe che celebro qui in parrocchia, pur nel mio povero lingala. Il seggio del quartiere è proprio accanto a noi. Poco prima della chiusura delle urne, faccio una scappata a vedere com’è l’ambiente e a scambiare due chiacchiere con la gente […]». Fondamentale era stata l’opera di coscientizzazione che la chiesa aveva cercato di fare nei mesi precedenti le elezioni: una vera mobilitazione, soprattutto a livello delle piccole comunità di base, per informare, far discutere, capire e scegliere con un po’ di consapevolezza; dibattiti semplici, ma vivaci, sostenuti e guidati da persone preparate e che avevano coinvolto i nostri cristiani in quella svolta storica della loro democrazia.

Nel «cuore» della foresta

Ma l’esperienza di parroco cittadino non durò molto. Dopo tre anni, ricevevo una nuova destinazione, che fortunatamente veniva incontro anche al mio desiderio: il ritorno alla foresta, al Nord del Congo e a Neisu, un piccolo, ma vivace villaggio, diventato famoso per l’ospedale costruito dall’indimenticabile nostro missionario dottore, Oscar Goapper, morto – ahimè – troppo presto. Era il 16 agosto 2009 quando toccavo di nuovo – dopo vent’anni esatti – la pista di atterraggio dell’aeroporto di Isiro. Ma che cambiamento! Un’occhiata alla cittadina, un tempo vivacissima per la varietà di persone, il commercio, le numerose scuole primarie e superiori mi intristì il cuore. E anche quando arrivai a destinazione, Neisu (che in lingua kimgbetu significa cuore) mi sembrò che il tempo si fosse fermato: strade impossibili, case di fango e paglia, gente che si spostava con biciclette stracariche.

Kinshasa era ormai lontanissima e i ricordi dei pochi anni passati laggiù svanirono in fretta, perché ora il mio mondo era proprio questo: una parrocchia nata dal nulla, sapientemente accompagnata da missionari appassionati della gente, un centinaio (104, per l’esattezza) di villaggi, piccoli o modestamente grandi nei quali, accanto a rabbia e rassegnazione c’era ancora spazio per una timida speranza, la voglia di pace e ingarbugliati tentativi per il développement (sviluppo).

Ed è stato qui che, pure invecchiato e reso più fragile dagli acciacchi, dalla malaria (mai avuta prima) e dalla povertà di mezzi, ho gustato di nuovo la gioia di essere ancora fratello, amico, compagno di viaggio per tanti. Ho ripreso a scorrazzare (non più in Land Rover, ma in moto) sugli infiniti sentieri della foresta, costeggiando, magari, qualche tratto della linea ferroviaria costruita dai belgi e ormai invasa dalla vegetazione; sostando, senza fretta, nelle piccole cappelle di ogni villaggio per pregare, istruire i tanti catecumeni che ancora chiedevano di conoscere Gesù; organizzare progetti e iniziative soprattutto per i due «chiodi fissi» dei programmi pastorali di ogni anno: scuola e salute; e appisolarsi per la stanchezza alla sera su una sdraio, mentre bambini e giovani si scatenavano nelle danze in mio onore, attorno al fuoco.

Che sia questa la «missione nuova», o meglio, il modo nuovo di fare missione? E dov’è «il luogo di contatto» tra il Vangelo, i missionari e le persone? «La risposta è chiara: l’ordinarietà della vita di tutti, questo è il territorio della missione. Un cuore missionario riconosce la condizione reale in cui si trovano le persone reali, con i loro limiti, i peccati, le fragilità, e si fa “debole con i deboli e si mette a camminare al loro passo”» (Papa Francesco).

Con il cuore, allora… si vince sempre!

Giacomo Mazzotti


La repubblica democratica di Félix Tshisekedi

Un meccanismo ben oliato

Dopo 18 anni di presidenza di Joseph Kabila, dal 2019 l’Rdc è governato da un gruppo di potere solo in apparenza diverso. Nella realtà, il sistema è uno e collaudato da decenni. E anche le teste sono sovente le stesse.

«Dopo 25 anni di crimini di massa e saccheggio delle nostre risorse da parte dei nostri vicini,

l’autorizzazione del presidente (Félix Tshisekedi, ndr) all’Updf (Uganda people defence force, esercito ugandese, ndr) e gli accordi di cooperazione militare con l’Rdf (Rwanda defence force, ndr) sono inaccettabili. No ai piromani-pompieri! […]». Con questo tweet, il 28 novembre 2021, il medico Denis Mukwege, premio Nobel per la pace (2018), commentava l’ingresso in forma ufficiale di truppe ugandesi in Ituri, provincia dell’Est del paese, sancito poi da un accordo militare il 9 dicembre successivo.

Ma perché il presidente Félix Tshisekedi, in carica dal gennaio 2019, è sceso a patti con il nemico di ieri? Come sta gestendo la sicurezza nell’Est del paese, provato da una guerra che dura, praticamente, dal 1998?

Cerchiamo di fare il bilancio della presidenza del figlio del più noto oppositore politico congolese, Etienne Tshisekedi, scomparso nel 2017.

Democratic Republic of Congo (DRC) President Felix Tshisekedi speaks after he and his Kenyan counterpart, Uhuru Kenyatta (not seen) signed a treaty integrating the DRC into the East Africa trade block at State House in Nairobi on April 8, 2022. – (Photo by Tony KARUMBA / AFP)

Un mandato

Thisekedi è stato eletto il 30 dicembre 2018, in elezioni posticipate di due anni, senza motivazione ufficiale, da Joséph Kabila. Questi governava dal 2001, quando aveva preso il potere alla morte del padre Laurent Désiré Kabila, facendosi poi eleggere per due volte consecutive (2006 e 2011).

«L’arrivo al potere di Tshisekedi è, di fatto, il risultato di un accordo tra questi e Kabila, che avrebbe lasciato il campo libero, a patto che non si andasse a “frugare” nel passato. L’accordo sarebbe stato concluso a Nairobi», ci dice un nostro contatto congolese. Joseph Kabila resta di fatto un uomo molto ricco e potente in Congo, ha molti affari da seguire, anche nel settore minerario, per cui gradisce non essere disturbato.

Il primo governo dell’era Tshisekedi era in coabitazione con la coalizione di Kabila, il Fronte comune per il Congo (Fcc), che aveva riportato, alle stesse elezioni, una maggioranza all’Assemblea nazionale. Qui il Cach (coalizione facente capo a Tshisekedi), poteva contare su una cinquantina di deputati su 500. Si trattava, in qualche modo, di un governo di coalizione di 66 posti, dei quali 23 erano andati al Cach e 42 al Fcc (cfr MC ottobre 2019). Ma a inizio dicembre 2020 Tshisekedi rompe la coalizione, con la scusa che «non permette di mettere in opera il programma di governo». E poi affida a un fuoriuscito eccellente del Fcc, Modeste Bahati Lukwabo, presidente del Senato, la missione di «informatore» per verificare i numeri di una nuova coalizione, che chiama l’Union sacrée (l’unione sacra). Di fatto Tshisekedi aveva «operato» per assicurarsi il cambio di casacca di un buon numero di parlamentari.

«Il politico congolese, il parlamentare in generale, è come una prostituta, va con chi offre di più. Anche quelli che erano con Kabila, erano lì perché lui offriva di più. La coalizione dell’ex presidente esiste ancora, ma ha perso molti parlamentari. Con la maggioranza che ha adesso, Félix può fare molte cose». Il presidente è dunque riuscito ad «acquisire» una maggioranza confortevole e, dopo un paio di mesi di negoziazioni (perché accontentare tutti non era facile) ha varato, il 12 aprile 2021, il suo nuovo governo, questa volta a lui totalmente fedele. Il premier è Sama Lukonde Kyenge, e ne fanno parte, oltre a uomini e donne (sono il 27% su 57 posti) del Cach, gente di Moise Katumbi, di Jean-Pierre Bemba e molti transfughi del Fcc che hanno mollato Kabila.

A tutto campo

Continua la nostra fonte: «Tshisekedi è poi riuscito a modificare la Corte costituzionale, in modo da controllarla. Non è stato facile, perché l’ha cambiata senza usare le procedure costituzionali.

Inoltre, ha imposto anche il presidente del Consiglio nazionale elettorale indipendente (Ceni), in modo arbitrario». Il Ceni è un organo per il quale la neutralità è fondamentale, in quanto ha il ruolo di organizzare le elezioni. All’imposizione di Denis Kadima, un suo fedelissimo, ha cercato di opporsi la Conferenza dei vescovi cattolici del Congo (Cenco), ma senza grande successo.

«La corruzione è il sistema, per cui pagando, tra l’altro con soldi pubblici, si ottiene qualsiasi cosa. Lo scorso anno (2021) il presidente ha regalato un fuoristrada del valore di circa 50mila dollari a ognuno dei 500 deputati». Si parla di circa 25 milioni di dollari, sottratti a opere per la popolazione, come scuole, strade, centri di salute.

Secondo il nostro interlocutore, inoltre «il problema grosso è che Tshisekedi, si è circondato di nullafacenti, spesso disonesti, di cui molti vivevano all’estero da anni, e alcuni sono stati pure arrestati nei paesi in cui erano residenti».

Siamo verso la fine del mandato, in quanto le elezioni sono previste per il 2023, ma «per le questioni sociali ed economiche, le cose stanno peggio di quando c’erano Mobutu, Laurent
Désiré Kabila, o addirittura Joseph Kabila. Perché la cricca al potere è una sorta di gruppo mafioso, tribalista. Tshisekedi ha messo tutta gente della sua etnia nei posti chiave».

Fronte dell’Est

Torniamo a Est, dove la guerra non si è mai realmente fermata dal 1998. È la seconda guerra del Congo.

Uno degli obiettivi del presidente e del suo governo era riportare la stabilità nella regione. Qui imperversano un centinaio di gruppi armati e di sbandati, alcuni legati al Rwanda (come l’M23) altri ai ribelli ugandesi (come l’Adf, Allied defence force). C’è poi la presenza dei caschi blu dell’Onu, la Monusco (operativa dal febbraio 2000, con circa 17mila effettivi).

Qui, più precisamente nel Nord Kivu, il 22 febbraio 2021 sono stati uccisi in un’imboscata l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. Vittime eccellenti tra milioni di morti nell’area. L’inchiesta è ferma su un binario morto, come ha recentemente denunciato Salvatore Attanasio, il padre dell’ambasciatore, chiedendo verità e giustizia.

Il presidente Tshisekedi, nel maggio 2021, ha dichiarato lo «stato di assedio» in due province dell’Est, il Nord Kivu e l’Ituri. Il che vuol dire sospendere gli eletti e le assemblee locali, sostituire i governatori con dei militari, e dare all’esercito potere di controllo del territorio. Ovvero la militarizzazione dell’area. Nonostante questo, gli attacchi ai civili e gli scontri non sono cessati, anzi. A fine marzo scorso è riaffiorato l’M23, gruppo paramilitare appoggiato dal Rwanda, che era stato sconfitto nel 2013. Tale milizia è strumentale allo sfruttamento delle risorse minerarie della regione da parte del piccolo, ma bellicoso, paese guidato da Paul Kagame. Tra fine marzo e inizio aprile, ha condotto diversi massacri, in villaggi nella zona di Rutshuru, Nord Kivu, nei pressi del confine triplo con Uganda e Rwanda (cittadina a 70 km da Goma, la stessa zona dell’assassinio di Attanasio).

Relazioni internazionali

«Tshisekedi ha avuto un avvicinamento al regime di Kigali, dicendo che Kagame è un suo fratello. La moglie del presidente congolese ha parenti altolocati in Rwanda. Così, invece di mettere fine all’insicurezza all’Est, come aveva promesso, Tshisekedi ha fatto accordi con i carnefici. Gli stessi governatori militari, che ha imposto con lo stato di assedio, sono persone dal passato molto opaco».

Nel mese di maggio dello scorso anno, un’impresa ugandese ha vinto diversi appalti per la costruzione di strade nel Nord Kivu, verso l’Uganda. L’accordo punta anche a proteggere i cantieri, oltre a combattere l’Afd, ribelli ugandesi, di matrice islamista, attivi dal 1995 e basati in queste aree del Congo.

«Ma in queste terre così ricche, un’impresa che scava per fare strade, può facilmente portare via minerali».

Ricordiamo che l’Rdc è il primo produttore mondiale di cobalto, essenziale per le batterie e i dispositivi elettronici, con 174mila tonnellate all’anno (70% del totale). È il primo produttore africano di rame, e grande produttore di diamanti, oro, zinco. La ricchezza del suo sottosuolo è stata definita uno «scandalo geologico». Minerali che vengono sfruttati da altri: «Si calcola che su 41 miliardi di dollari prodotti ogni anno dalle miniere del Congo, solo un miliardo resti nel paese». Con un Pil pro capite di 540 dollari all’anno (Banca Mondiale, 2020), è come dire che l’intera popolazione, 90 milioni, sopravvive con 1,5 dollari al giorno.

Il 29 marzo scorso Félix Tshisekedi ha firmato per fare entrare l’Rdc nel East african community (Eac, il mercato comune Est africano), che comprende Kenya, Tanzania, Uganda, Sud Sudan, Rwanda e Burundi. Questi paesi vedono l’Rdc come un paese di enormi ricchezze (da sfruttare), ma anche un grande mercato per il loro export, che vedrà, grazie a questa firma, ridursi drasticamente i dazi doganali. Non è chiaro, invece, il beneficio che ne avrà il Congo, la cui fragile economia rischia contraccolpi negativi.

È del 14 aprile una notizia inquietante. Il Regno Unito ha firmato un accordo con il Rwanda per cui questo accoglierà i migranti e richiedenti asilo indesiderati sul suo territorio in cambio di 120 milioni di sterline. I militanti dei diritti umani hanno bocciato il progetto come inumano e barbaro. Anche l’opposizione britannica è contraria e l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu vi si oppone con fermezza, in quanto contrario alla convenzione di Ginevra sui rifugiati.

Il Rwanda è un paese piccolo e sovrappopolato, con una densità di quasi 500 abitanti al km2, 2,5 volte quella dell’Italia. «Dove pensate che Kagame voglia mettere i migranti deportati dal Regno Unito?».

Questo è il paese che Papa Francesco visiterà dal 2 al 5 luglio prossimo, fermandosi a Kinshasa e Goma, per poi proseguire per il Sud Sudan.

Marco Bello

Isiro cattedrale con tomba di suor Anuarite


Hanno firmato il dossier:

  • Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata.
  • Antonio Barbero. Nato a Marene (Cn), nel 1928, ha aperto le prime missioni della Consolata in Zaire. È scomparso prematuramente a Torino nel 1982. Ringraziamo padre Mario Barbero, fratello di padre Antonio, per averci messo a disposizione le lettere originali dalle quali abbiamo tratto alcuni stralci.
  • Giacomo Mazzotti. Missionario della Consolata in Zaire (1980-90) e in Rdc (2006-2016), redattore della rivista Amico (‘90-2005). Oggi postulatore per la causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano.
  • Marco Bello. Giornalista redazione MC.

Archivio MC

Luca Lorusso, Perché abbiano la vita, gennaio 2022.
Luca Pistone, Ripartire dalle donne, dicembre 2020.
Marco Bello, Pigmei. Sempre nomadi, ma fino a quando?, ottobre 2019.
Giusy Baioni, Quando il «re» decide di lasciare, novembre 2018.

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