Apocalypse now?

testo di Gigi Anataloni, direttore di MC |


Nel tempo dopo Pasqua il breviario offre a chi prega l’ufficio delle letture un testo estremamente intrigante: l’Apocalisse, con i suoi angeli, cavalieri e dragoni che riversano sulla terra pestilenze, terremoti e altri terrificanti disastri che falcidiano il mondo. Il tutto accompagnato da una constatazione ripetuta più volte: invece di ravvedersi, gli uomini «bestemmiarono il Dio del cielo».

Con questo non voglio avvallare le interpretazioni punitive di questi nostri giorni sostenute da visionari, predicatori e «influenzatori» più o meno credenti. Un dio che manda disastri per punire gli uomini, non è il mio Dio, perché non è quello di Gesù Cristo. Però Gesù ci ha ammoniti più volte e ci ha invitati a «leggere i segni dei tempi» (cfr. Mt 16,1-4) almeno quanto sappiamo interpretare le previsioni meteorologiche.

E di segni, in questi ultimi anni, ne abbiamo avuti molti. Due i più evidenti: il cambiamento climatico e, ora, questa pandemia che ha trovato tutti impreparati, anche i grandi «re nudi» della politica, dell’economia e della scienza.

In questi mesi molte voci, a cominciare da quella di papa Francesco, hanno incoraggiato con parole e gesti significativi a vivere questo tempo come tempo di grazia, come opportunità per ripensare il nostro modo di vivere e le nostre relazioni con noi stessi, con gli altri e con il creato. Creato che da tempo aspetta con impazienza che ci svegliamo e ritroviamo la nostra vera umanità (cfr. Rm 8,19).

Molti hanno colto questa opportunità e ovunque troviamo persone che hanno tirato fuori il meglio di sé mettendosi al servizio degli altri, a volte fino a sacrificare la vita.

Ma le notizie quotidiane ci hanno fatto vedere anche la faccia degli uomini che «bestemmiano». Dall’indifferenza e ostilità verso i migranti, ai traffici loschi su mascherine e forniture sanitarie; dalle speculazioni finanziarie al prospero traffico di armi; dalla violenza fanatica dei jihadisti a quella senza scrupoli dei mafiosi e dei narcos; dall’ininterroto traffico di persone allo sfruttamento dei poveri e degli impoveriti; dall’alienazione spirituale offerta dai moderni santoni all’uso massiccio dei social per alimentare sfiducia, menzogne e odio… una lista che potrebbe riempire tutta la pagina.

«Niente di nuovo sotto il sole», ma che tristezza vedere tante «bestemmie». Soprattutto ora che la situazione ci domanda una rinascita di autentica umanità, una nuova solidarietà, un «I care» che prediliga i più poveri e vulnerabili e tutto il creato.

Dall’Apocalisse di Giovanni, scritta per rivelare l’infinito amore di Dio alla comunità cristiana di fine I secolo perseguitata soprattutto a Roma, non ricaviamo un messaggio di paura, ma di speranza: la vittoria non è della «morte», ma della Vita, il futuro è di coloro che scelgono di vivere secondo lo stile dell’Agnello, Gesù, che ha «consegnato» la sua vita per noi, «servo per Amore».


Per i nostri cari, vittime del Covid-19

Carissimi missionari, parenti, amici e benefattori tutti,

in questi giorni di quarantena forzata, […]  mi fermo con l’immaginazione davanti alle bacheche delle nostre case dove sono esposti i necrologi dei nostri missionari morti qui in Italia a causa del coronavirus.

Un numero considerevole, un mistero doloroso, mai successo prima, un primato che ci spezza il cuore. Ci conforta il ricordo di questi missionari pienamente identificati con il carisma ad gentes, autori di pagine straordinarie di amore per la gente e di dedizione alla missione e all’Istituto. […]

Voglio ricordare anche tanti amici e benefattori che sono morti a causa della pandemia, uomini e donne che, con la preghiera e il sacrificio, hanno accompagnato e sostenuto l’Istituto nelle varie attività di evangelizzazione.

In questi giorni difficili, nel dolore per la perdita dei nostri cari, dobbiamo sostenerci a vicenda e trovare consolazione nella certezza della fede e nello spirito di famiglia che tanto voleva il nostro Fondatore.

Allora, in risposta al dolore per questi numerosi lutti e nello spirito di famiglia che ci caratterizza, voglio invitare tutte le nostre comunità a celebrare il 16 giugno 2020 (giorno in cui facciamo memoria del nostro amato padre Fondatore) una messa straordinaria con l’intenzione speciale di ricordare tutti i nostri cari […] vittime del coronavirus: missionari, missionarie, famigliari, amici e benefattori.
(sarà possibile seguire le celebrazione in streaming connettendosi a www.consolata.org)

La Consolata ci aiuti a vivere l’insegnamento del beato Allamano che diceva: «La comunità sarà sempre formata dai vivi e dai defunti, né questo vincolo si scioglierà più, neppure in paradiso».

A tutti e a ciascuno: coraggio e avanti in Domino!

padre Stefano Camerlengo
superiore generale Imc / Roma, 05/05/2020

1ª fila da sinistra: Mons Silas Njiru | p. Antonio Roberti | p. Fedele Crippa | p. Francesco Pavese | p. Gabriele Goletto
2ª fila: Giovanni Medri | p. Giovanni Viscardi | p. Lorenzo Cometto | p. Mario Baseggio | p. Silvestro Bettinsoli
3ª fila: p. Virgilio Panero | Suor Pier Giacomina Bagnati | Suor Giulia Vanzetto




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Omaggio al «nonno vigile»

Un salone della scuola materna della missione della Consolata di Modjo, in Etiopia, è stata intitolata l’11 febbraio 2020 al trentino Giovanni De Marchi (nella foto qui sotto tra padre Angheben e il vescovo di Meki).

Dopo aver lasciato la divisa di maresciallo dei carabinieri, ha indossato quella di «nonno vigile», per oltre 20 anni, per i bambini delle scuole medie ed elementari di Borgo Valsugana; ma i suoi impegni non gli hanno impedito di dedicarsi alla raccolta di fondi pro Etiopia con la collaborazione di amici, associazioni ed istituzioni locali.

Grande amico del missionario padre Paolo Angheben di Vallarsa, che si trova in Etiopia da circa 45 anni, De Marchi si è recato nel paese africano più di 10 volte a partire dal 2006, per portare i contributi raccolti, i quali sono serviti per realizzare diverse opere importanti:
– nel paese di Daka Bora per costruire una scuola per 300 bambini e per pagare le condutture necessarie per collegare il paese all’acquedotto comunale;
– a Weragu per promuovere la costruzione del ponte sul fiume Minne, fiume che divide la vallata in due e, durante la stagione delle piogge, isola la popolazione dal resto del mondo;
– per contribuire alla costruzione della biblioteca del centro giovanile a Debre Selam;
– per costruire il reparto maternità nella clinica di Modjo;
– per aiutare diversi giovani nel loro corso di studi;
– per costruire il salone della scuola materna di Modjo che ospita attualmente 350 bambini.

Nell’attesa che il buon De Marchi, nonostante l’età che avanza, torni in Etiopia, a lui è stato intitolato il salone della scuola, per ringraziarlo di tutto il lavoro di sostegno a lungo effettuato affinché i giovani possano costruire il loro futuro e la gente etiope possa vivere con dignità nella propria terra.

In Etiopia si dice: «God bless him» (Dio lo benedica) e tutti coloro che lo hanno aiutato.

da Eleonora Arlati
06/03/2020

 

Ricordando un caro amico

Signor Direttore,
ho letto con piacevole sorpresa, nel numero del mese di aprile 2020, sotto il titolo «Ricordando padre Silvano Cacciari» la lettera di un’insegnante, la dr. Brigida Pastorello, che elogia e ringrazia per l’opera di assistenza spirituale ricevuta e il servizio sanitario specie ai più bisognosi, in terra di missione in vari continenti, e singolarmente a Torino e provincia, del padre Silvano Cacciari, improvvisamente  mancato il 18 gennaio scorso all’affetto dei suoi cari, una solida e unita famiglia dell’interland bolognese.

Conobbi padre Cacciari a metà degli anni ‘60: un brillante missionario, docente e giurista, molto noto in città, alla cui intraprendenza imprenditoriale furono legate per alcuni decenni le sorti lusinghiere dell’ospedale Koelliker di Torino, fiore all’occhiello della sanità piemontese. Ebbi modo di apprezzarne le spiccate virtù umane oltre che di religioso e missionario esemplare, quando nel 2015 ho accettato di assisterlo, come avvocato, nella vicenda giudiziaria, resa pubblica dalla stampa nazionale, ormai acqua passata dopo il suo decesso.

Ma non è di questa che intendo parlare, […] ma della grande amicizia, sorta nei miei confronti da parte sua e cordialmente ricambiata, dalla quale mi sento sinceramente gratificato, per l’impareggiabile esempio di onestà intellettuale e professionale, per la profonda sensibilità umana, per l’umile accettazione del ritiro in Casa Madre come custode del santuario del beato Allamano.

Padre Cacciari non fu lapidato alla maniera giudaica, come scrive la dr. Pastorello, né può essere paragonato al Cristo crocifisso, non oserei arrivare a tanto! Tuttavia, ricordandolo nella preghiera di fraterno suffragio mi auguro sinceramente che il Padre Celeste, accogliendo
padre Cacciari nel suo regno di luce e di pace, gli abbia reso giustizia, cosa cui non sono arrivati in tempo o non hanno potuto perfezionare i tribunali di questo mondo.

Sac. prof. Valerio Andriano,
03/05/2020, Torino

A Giulietto

Lo scorso 26 aprile è morto Giulietto Chiesa, giornalista, scrittore e parlamentare europeo. Aveva 79 anni. Grande esperto del mondo sovietico, aveva lavorato per quotidiani e televisioni. La sua collaborazione con MC era iniziata nel dicembre 2002 con un articolo nel dossier dedicato all’Iraq di Saddam Hussein, ma era durata soltanto lo spazio di qualche numero. Troppe le polemiche con i lettori. La sua rubrica – dal titolo emblematico di «Luoghi comuni» – era sempre un pugno allo stomaco. Aveva anche contribuito con un capitolo al fortunato saggio «La guerra, le guerre. Viaggio in un mondo di conflitti e di menzogne» (Emi, 2004), lavoro curato da Benedetto Bellesi, compianto ex direttore di MC, e dal sottoscritto.

A Giulietto Chiesa vada il mio personale grazie. Che riposi in pace.

Paolo Moiola
01/05/2020

Un incontro indimenticabile

Incontrai dom Aldo Mongiano la prima volta a Rio de Janeiro. Era la primavera del 1992. Lui era in transito da Boa Vista per un rientro in Italia, io ero in viaggio per il Sud America con un amico, ed eravamo in quei giorni ospiti alla parrocchia Nossa Senhora Consolata, che i missionari della Consolata gestivano nei pressi delle favelas Mangueira, Morro do telegrafo, Tuiutí, Arará. Padre Claudio Fattor ne era il parroco.

Mongiano aveva un giorno libero e ci propose di fare una visita con lui ai padiglioni in costruzione di Rio92, la conferenza sul clima che sarebbe diventata famosa.

E così andammo. Mi ricordo quel vescovo così semplice e allo stesso tempo così profondo e diretto. Ci parlò di Roraima, della problematica indigena. Per noi, giovani alla scoperta del mondo, fu non solo interessante, ma entusiasmante.

A un certo punto ci disse: «Ricordatevi sempre che bisogna essere in pace con quattro cose: con se stessi, con gli altri, con la natura e, infine, ma non per ultimo, con Dio». Questa semplice regola, che può dar adito a profonde meditazioni e a verifiche personali, me la porto dietro da allora. Chiese poi, a noi giovinastri in cerca di avventura se, nel nostro futuro, pensavamo di dare priorità alla formazione di una famiglia. La domanda ci stupì e ci colse impreparati.

Mentre visitavamo lo spazio dove si sarebbe svolto Rio92, nel quale operai montavano i diversi padiglioni, il vescovo ci lanciò una sfida: «Perché non venite qualche tempo a lavorare con noi a Roraima, per la causa indigena?».

Mesi dopo, rientrato a Torino, scrissi a dom Mongiano una lettera (non c’erano mail, né tanto meno programmi di messaggistica e chiamate con internet): ero disponibile a passare un periodo di volontariato con lui. Alcune settimane dopo arrivò l’attesa busta con le insegne vescovili: «Mi dispiace la situazione è notevolmente peggiorata, non possiamo prenderci al responsabilità di inserire delle persone nuove». Purtroppo la tensione a Boa Vista era molto alta, i fazendeiros avevano minacciato di morte il vescovo. La difesa dei popoli indigenti e della loro terra da parte della chiesa aveva dato fastidio. Ne fui deluso. Ma la causa indigena mi restò dentro. Anni dopo sarei andato a Roraima e ci sarei pure tornato. Caro dom Aldo, grazie e buon viaggio.

Marco Bello
24/04/2020

PREGHIERA (a modo mio)

Signore Dio,
Liberaci dal coronavirus, da chi specula su di esso e sulle normative anti contagio.
Liberaci dal tormento dei vigili urbani avidi e arroganti.
Liberaci dall’oppressione dei carabinieri infedeli e dai poliziotti corrotti.

Sgombera i tribunali dai giudici adoratori di se stessi e collusi con la mafia.
Liberaci dalla tirannia del petrolio, di chi ne fomenta le guerre e di chi distrugge le foreste naturali per le piantagioni di palma da olio.

Liberaci dalla piaga dell’evasione fiscale ma anche dal rigorismo criminale, dalle manovre di chi per risanare, si arroga il diritto di perseguitare e depredare.
Liberaci, o Signore, dalla piaga del neoliberalismo rampante, dall’egemonia di coloro per i quali, «con il denaro» è complemento di compagnia e non di mezzo; da quelli che onorano la moneta come se questa fosse la loro madre, la loro sposa, la loro prole.
Liberaci da tutti quelli che pensano di poter trattare le persone per cui il denaro è solo uno strumento di sussistenza e non un fine, come merce di infima qualità.

Liberaci dall’ossessione antropocentrica di quanti sopravvalutano la scienza umana e la sua ricerca tecnologica e in nome di corona-management, corona-economy, corona-bond, pensano di poter umiliare e perseguire amministrativamente, se non addirittura penalmente, la preghiera di riparazione, la corona del rosario, l’adorazione eucaristica, la cena eucaristica, e il sacramento della riconciliazione.

Yury Skarfenko
Fano, 30/04/2020

Condivido il fatto che viviamo tempi difficili e che probabilmente noi li rendiamo ancora più difficili con i nostri comportamenti sbagliati, la nostra arroganza e la nostra idolatria del potere, del successo, del denaro e della sicurezza. Ma ho qualche riserva su questa preghiera. Sa tanto di «lista della spesa» o di promemoria di cose che Lui deve fare. Forse ci siamo dimenticati che Lui, in Gesù, ci ha già offerto un modello di vita e dei criteri di relazione umana che contestano tutti gli atteggiamenti elencati. Forse, invece di dire a Dio di fare le cose al posto nostro, dovremmo ascoltare di più quello che Lui ci ha già detto e piuttosto chiedergli la forza di mettere in pratica quello che preghiamo nel «Padre nostro».

Nel vivo desiderio che possiamo passare presto da una fase in cui la priorità è «non morire» a quella in cui «vivere» (non per pochi privilegiati, ma per tutta l’umanità e il creato) diventi il centro di tutto.

Riflessione su questo tempo

Si lamentano quasi tutti tranne i giovani cui è chiesto il sacrificio più grande, pur essendo, statisticamente, i meno coinvolti in questa epidemia.

Si lamentano gli anziani, i più a rischio, che pensano di essere immuni per averne affrontate tante, comprese guerre e fame. Si lamentano i cattolici che vorrebbero tornare alla normalità senza riflettere sull’opportunità che questa quaresima prolungata ci offre con il digiuno. Si lamentano gli pseudo sportivi manco dovessero allenarsi per le olimpiadi e li vedi correre senza fiato, pur di uscire di casa.

Invece i giovani hanno accettato di veder sospesa la loro vita e lo hanno fatto con responsabilità e altruismo; per molti dovrebbe essere l’anno della maturità, della prima vacanza con i compagni, dei primi amori, della patente, dei sabati sera, degli abbracci, delle risate per qualunque cosa.

E invece è l’anno della scuola online. È l’anno in cui le risate si fanno nelle chat di gruppo. È l’anno in cui la maturità si fa online, non si fa, si fa con uno scritto o due, … E per molti è anche l’anno della solidarietà, essendosi messi a disposizione, numerosi, come volontari, per portare viveri agli anziani.

Si sono adattati a questa nuova realtà meglio di tutti quanti noi che abbiamo trovato da lamentarci davvero su qualunque cosa. A nostra discolpa, il fatto che non abbiamo più molti treni da prendere e la sensazione che perso uno, persi tutti. Ma credo che dovremmo davvero imparare da loro più di quanto non avremmo pensato.

Rita Ruotolo
Torino, 28/04/2020

Grazie padre Pavese

La domenica del Buon Pastore (3 maggio 2020), è deceduto padre Francesco Pavese, Imc. Abbiamo appreso con dolore la notizia della sua dipartita, che lascia un vuoto denso di gratitudine e di nostalgia. Padre Pavese era un fratello di cui abbiamo potuto apprezzare la ricchissima eppur semplice personalità, il suo amore profondissimo alla Consolata e la sua passione per la conoscenza e l’approfondimento della figura del nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano […].

Grazie, padre Pavese! La Consolata, che hai amato con vero amore di figlio, ti accolga tra le sue braccia!

suor Simona Brambilla, MC
03/05/2020

 

Padre Francesco Pavese e diversi altri confratelli sono stati vittime del virus. Torneremo a parlare di loro nei prossimi numeri. Pregate con noi. Grazie.

 




Benin: Una Striscia tra terra e mare

testo e foto di Valentina Tamborra |


Strano paese, che si allunga tra il golfo di Guinea e il Sahel. Dove la religione tradizionale ha ancora  un’influenza importante sulle persone. Non sempre positiva. Dove un popolo vendeva l’altro come schiavo,  ora si celebra la porta del non ritorno. Dove chi ha un difetto fisico è spesso emarginato.

Il Benin, paese dell’Africa occidentale francofona, confina a Ovest con il Togo, a Nord con il Burkina Faso e il Niger, a Est con la Nigeria e si affaccia a Sud sull’Oceano Atlantico.

Qui l’età media è 45 anni: fame, malattie come l’Aids, la malaria o il colera sono fra le principali cause di morte.

Il Benin, insieme alle aree limitrofe della Nigeria, è la culla della religione vudù, riconosciuta ufficialmente dallo stato (e dalla quale, in parte, deriva anche il vudù haitiano, ndr). In lingua Fon, la più parlata nel Sud del paese, la parola «vudù» significa «anima, forza». Più precisamente è la città di Ouidah che viene definita «capitale vudù». Il 90% degli abitanti, infatti, pratica questa religione.

Arrivati a Ouidah ci si imbatte in un forte contrasto: nella tranquilla cittadina costiera infatti, il «Tempio dei pitoni», sacro al dio Dangbe, sorge proprio dinnanzi a una chiesa cattolica, la basilica dell’Immacolata concezione.

All’interno del tempio sono custoditi centinaia di pitoni reali, considerati sacri.  A prendersene cura sono sacerdoti della Tribù dei serpenti, facilmente riconoscibili grazie alle scarnificazioni sul volto rappresentanti, in forma stilizzata, i denti dei pitoni.

La religione vudù è sopravvissuta alla colonizzazione europea, e gli antichi riti e cerimonie continuano a essere celebrati grazie ai dignitari del culto che sono stati in grado di trasmetterne la memoria.

Nato allo scopo di propiziarsi i favori degli dei per ottenere felicità e prosperità, il vudù mantiene ancora oggi un lato oscuro che offusca la bellezza di tradizioni, canti, e memoria.

È a Cotonou, città più popolosa del Benin, che ci imbattiamo per la prima volta nell’anima nera di questo credo.

Molte sono le donne che fuggono dai paesi che circondano la città portando con sé bimbi appena nati affetti da labbro leporino o malformazioni del volto e degli arti.

È la fame, e dunque la carenza di sostanze come l’acido folico, uno dei motivi principali per cui molti bambini nascono con gravi malformazioni.

Purtroppo però questi «segni» sul volto o sul corpo vengono visti da chi pratica il vudù come simboli del male e spesso il bimbo che li porta è allontanato dal villaggio o, nel peggiore dei casi, ucciso.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Victoria, madre coraggio

È questa la storia di Victoria. La sua Miracle, una bimba di pochi mesi, affetta da labbro leporino, è stata condannata a morte dallo stregone del villaggio.

Quando Victoria arriva in ospedale davanti all’equipe di Emergenza Sorrisi (Ong romana che opera in ambito sanitario, vedi box) appare disperata. Ha percorso decine di chilometri, scappando di notte dal proprio villaggio per non essere vista e poter così raggiungere l’ospedale.

Nonostante i chirurghi sconsiglino vivamente l’operazione, (Miracle infatti è davvero minuscola e denutrita, c’è il forte rischio che non sopporti l’anestesia), Victoria insiste perché la sua piccolina venga operata.

La scelta è tra affrontare il tavolo operatorio e mettersi nelle mani di uno stregone: se nel primo caso c’è almeno una speranza, nel secondo non c’è nemmeno quella.

La seguiamo a casa di un’amica, la sera prima dell’operazione. Operazione ancora in forse, infatti i chirurghi dovranno riunirsi da lì a poche ore per emettere il verdetto: operare o non operare.

Victoria vuole mostrarci dove si è nascosta, dopo la fuga dal proprio villaggio, per concedere almeno una possibilità alla sua piccola Miracle. La sua amica la ospita, pur sapendo il potenziale rischio delle azioni di Victoria.

Raggiungiamo così un piccolo gruppo di case in mattoni crudi e terra battuta in una zona rurale.

Ciò che ci colpisce, entrando nella modesta abitazione, è la presenza di una libreria.

Questa immagine ci seguirà spesso anche in altri casi: i bambini da queste parti, come ovunque, sognano un futuro e non è raro vedere in case modeste, poco più che baracche, libri conservati con cura e attenzione come tesori preziosi.

La mattina seguente Victoria raggiunge l’ospedale di buon’ora. I chirurghi hanno deciso: l’operazione si farà. Miracle ce la farà. Il palato verrà chiuso, consentendole di nutrirsi normalmente, e il labbro sistemato così da eliminare il «difetto».

Tensione, sollievo, il sorriso e le lacrime di una madre quasi certa di non poter più stringere la sua piccola. Una ninna nanna cantata a bassa voce e una sola frase «c’est magnifique» (è magnifico).

Un’infermiera scoppia a piangere, i chirurghi sorridono. Ma è solo una delle tante sfide da qui alla fine della missione.

In Benin è così ogni giorno. Per un bimbo che viene operato, e dunque salvato, un altro muore o viene allontanato dalla società diventando un reietto. Diffuse sono le campagne di sensibilizzazione promosse da équipe medico sanitarie con l’aiuto di Ong come Emergenza Sorrisi. Nei villaggi tentano di diffondere una conoscenza che porti a un nuovo approccio verso i problemi sanitari.

Qui bisogna agire sull’aspetto socio culturale del problema. La chirurgia infatti può annullare alcune malformazioni, diminuire difetti fisici, ma alla base c’è la necessità di spiegare alle persone la vera origine di queste problematiche.

Una storia simile per alcuni aspetti, anche se meno drammatica, è quella di Didier.

Un bimbo di appena 10 anni costretto a studiare a casa, lontano dagli altri bimbi, a causa di una malformazione al braccio.

Didier si è procurato un libro di inglese e uno di spagnolo e ora, oltre alla sua lingua madre e al francese, parla altre due lingue.

Dopo l’operazione Didier potrà tornare a scuola, non sarà più esiliato. La realtà del Benin ad oggi è impietosa con chi presenti un «difetto fisico».

Benin. Foto Valentina Tamborra

L’operazione «miracle»

Esiste ovviamente un protocollo severo da seguire quando si opera. La sala chirurgica deve essere sterile, il personale sanitario usa guanti, mascherine, camici: la preparazione a un intervento è la medesima nella prima clinica di lusso o nel paese più povero del mondo.

Vista da fuori, la preparazione è un atto preciso che non lascia spazio al sentimento, all’emozione.

Quando la piccola Miracle viene portata in sala operatoria tutto si ferma per un attimo: uno degli anestesisti si passa una mano sulla fronte, un’infermiera fa il segno della croce. E uno dei chirurghi che sta per sciogliere il nodo di un nastro che lega al pannolino una piccola conchiglia, ferma per un momento la mano: «È un portafortuna, ha un’energia importante. Lo toglierò io».

E sembra un piccolo gesto quello che compie questo chirurgo anziano, con anni di esperienza, migliaia di operazioni alle spalle, eppure con un’attenzione all’essere umano e alle sue necessità sempre viva.

Esiste un protocollo, e deve essere seguito. Ma in sala operatoria si può, anzi talvolta si deve, dar spazio all’emozione.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Le spose bambine

In questo paese è purtroppo ancora fortemente presente la realtà delle spose bambine.

Bimbe e adolescenti vengono promesse in sposa a uomini molto più anziani, dovendo così rinunciare alla propria infanzia, all’educazione scolastica e vivendo in una realtà di abuso.

La ragione è socio culturale e ancora una volta strettamente connessa alla povertà e alla conseguente mortalità.

Se è vero che l’età media è 45 anni, e che il tasso di mortalità infantile è elevatissimo, è dunque «ricercata» una ragazza giovane e fertile che possa garantire una progenie.

I bambini in Benin sono l’anello debole e più sottoposto a vessazioni.

Riti vudù, spose bambine, lavoro minorile, elevata mortalità, tutto questo contribuisce a far sì che il Benin sia un paese antico, per storia cultura e tradizione, ma giovanissimo.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Piccola Venezia d’Africa

Ganvié è la più importante città lacustre dell’Africa Occidentale. Situata sul lago Nokouè, a Nord di Cotonou, viene soprannominata «la Venezia d’Africa».

L’origine della città risale al XVIII secolo quando, a causa delle razzie schiaviste, le popolazioni si rifugiarono nelle paludi del lago al fine di sfuggire ai cacciatori di schiavi.

Qui troviamo qualche migliaio di case in legno, erette su pali infissi nel terreno paludoso. In tutto la città conta circa 30mila abitanti. Si vive principalmente di pesca e ultimamente anche di turismo.

Di Venezia però troviamo ben poco: anche a Ganvié infatti, la condizione di povertà della popolazione è evidente. Le condizioni igienico sanitarie purtroppo sono critiche.

Anche qui il vudù è molto presente nonostante ci sia anche una una parrocchia cattolica.

Per muoversi a Ganvié è necessario l’utilizzo di piccole imbarcazioni, chiamate piroghe. Ogni abitante ne possiede una con la quale si sposta da un isolotto a un altro. Non è raro vederle quasi affondare a causa del carico eccessivo di persone, merci, animali. Le piroghe hanno poi un altro ruolo essenziale: solo con esse infatti è possibile raggiungere le due fontane che garantiscono acqua potabile alla popolazione. L’acqua del lago infatti è salmastra, dunque non potabile.

Benin. Foto Valentina Tamborra

La via degli schiavi

La già citata Ouidah non è famosa solo per il vudù. Qui troviamo infatti anche «la strada degli schiavi». Il passato di questa città è tristemente legato alla tratta degli schiavi.

Sorgeva proprio a Ouidah un importante mercato di esseri umani. Il dolore per l’ingiustizia subita è oggi celebrato a imperitura memoria con questo percorso che ci guida attraverso l’intera cittadina.

A Ouidah è possibile camminare, come in una vera via crucis, lungo i quattro chilometri che migliaia di uomini e donne hanno fatto incatenati, partendo dal mercato degli schiavi, lasciandosi alle spalle le proprie famiglie a la propria libertà.

Lungo la strada si trovano cinque tappe che raccontano la storia della marcia degli schiavi. Il percorso culmina alla Porta del non ritorno. Il monumento sorge su una bellissima spiaggia, la stessa nella quale gli schiavi venivano caricati sulle scialuppe che li avrebbero portati alle navi. I più combattivi o disperati preferivano suicidarsi lasciandosi affogare piuttosto che partire verso l’ignoto.

Oggi la colossale porta affaccia su quello stesso mare blu intenso.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Quotidianità della morte

Lungo le strade che conducono a Cotonou la morte va in scena con una normalità impressionante. Minimarket, bar, benzinai e bancarelle di cibo si alternano a negozi che espongono sulla strada polverosa i feretri d’occasione.

Trasportati poi con mezzi di fortuna (legati a motorini talvolta, o su traballanti ape car) dal negozio agli ospedali o alle case, ricordano in ogni momento come il confine fra la vita e la morte in questo luogo sia estremamente labile.

Negli ospedali, spesso male attrezzati a causa delle condizioni del paese, le camere mortuarie straripano. Il rapporto con il corpo di un caro defunto pare essere assai meno «forte» di quello che abbiamo noi occidentali, e i lavoranti delle camere mortuarie trattano i corpi con meno cura di quella che noi ci aspetteremmo.

Sebbene a un primo sguardo possa essere scioccante, qui forse l’essere umano, anche se non per scelta, ha meglio compreso l’idea di caducità della vita.

I funerali vengono seguiti in  modo composto, da una folla vestita di bianco, che accompagna il proprio caro al luogo della sepoltura fra canti e silenzi. Una foto a grande formato, come un quadro, viene posta davanti al corteo, a memoria del defunto.

La vita, poco dopo, può riprendere il proprio corso.

Valentina Tamborra

Benin. Foto Valentina Tamborra


L’Ong dei miracoli

Emergenza Sorrisi è una Ong che si occupa di bambini affetti da labbro leporino, palatoschisi, malformazioni del volto, esiti di ustioni, traumi di guerra, cataratte e altre patologie invalidanti nei paesi del Sud. Unisce 375 medici e infermieri volontari, grazie ai quali vengono realizzate missioni chirurgiche in 23 paesi nel mondo, dove fino a ora 4.863 bambini sono stati operati e hanno ritrovato il sorriso. Uno dei pilastri della loro attività è la formazione e l’aggiornamento dei medici e degli infermieri locali.

Tutti i progetti di Emergenza Sorrisi nei paesi del Sud del mondo prevedono un’ampia partecipazione locale: allo stato attuale sono cinque le sedi autonome dell’associazione aperte in Benin, Congo, Iraq, Pakistan e Afghanistan.

I medici e tutto il personale sanitario che accetta di partire per le diverse missioni sono volontari. Spesso utilizzano le proprie ferie, momenti normalmente dedicati al riposo, per raggiungere luoghi remoti e sovente pericolosi.

Intervistando questi volontari durante le loro missioni in Iraq e Benin, abbiamo constatato che tutti concordano su una cosa almeno: ogni viaggio dà loro molto più di quello loro danno. Per utilizzare le parole di un’infermiera ormai alla sua decima missione, «è quasi un bisogno egoistico. Quando parto per una missione sto bene, sono felice. Mi sento utile. E quando torno, tutta quell’energia me la porto addosso per mesi. Mi fa sentire che il mio, il nostro lavoro, ha un senso profondo».

Valentina Tamborra

Benin. Foto Valentina Tamborra




Missione Madagascar: «sembra di essere nell’ottocento»

testo di Marco Bello | foto Archivio fotografico MC |


Da circa un anno un gruppo di giovani missionari della Consolata è presente in Madagascar. Le sfide non mancano ma l’entusiasmo è alle stelle. E mentre i «nostri» stanno studiando la lingua e il contesto, arriva il coronavirus. Ma le autorità sembra riescano a circoscriverlo.

È il 29 gennaio 2019. padre Godfrey Msumange, detto Baba Godfrey, sbarca all’aeroporto di Nosy Be, Madagascar. È l’anniversario della fondazione dell’Istituto Missioni Consolata di cui Baba Godfrey è consigliere generale per l’Africa. Oggi non è un giorno come un altro, l’arrivo del sacerdote tanzaniano sancisce l’apertura di una nuova presenza per l’Istituto di Torino fondato dal beato Giuseppe Allamano nel 1901. Si tratta del decimo paese sul continente africano. Padre Godfrey è accolto dal vescovo di Ambanja (si legge Ambanza), monsignor
Rosario Vella, salesiano (oggi trasferito alla diocesi di Moramanga), e da una folta rappresentanza della diocesi.

Siamo sull’isola di Nosy Be, costa Nordorientale del paese. Il tempo è stupendo, il mare bellissimo. Ma le sfide che aspettano i missionari sono enormi. Il gruppo raggiungerà Ambanja al di là dello stretto, con un motoscafo da Hell-Ville (Andoany), capoluogo del distretto di Nosy Be. Qui c’è la sede della vasta diocesi.

Il viaggio di padre Godfrey rappresenta l’apertura ufficiale della missione, ma i missionari che vi lavoreranno devono ancora arrivare, problemi burocratici di permessi e visti li hanno trattenuti a Nairobi (Kenya). Sono i padri Jean Tuluba (Rd Congo), Kizito Mukalazi (Uganda) e Jared Makori (Kenya). Loro sbarcheranno sull’«Isola rossa» il 13 marzo, iniziando, di fatto, la nuova avventura.

Ma come si è arrivati a questo giorno? Facciamo un passo indietro.

AfMC foto Godfrey Msumange

Il precursore

Fin dal 1999, padre Noè Cereda, missionario della Consolata innamorato dell’isola, aveva ottenuto dai suoi superiori un permesso speciale, ad personam,  per poter lavorare nel paese, pur non essendoci missioni dell’Istituto. Passò alcuni anni proprio a Hell-Ville, poi, dal 2005, si trasferì in capitale, Antananarivo. Padre Cereda ha lavorato con le suore Ancelle (o discepole) del Sacro Cuore, fondate a Lecce e arrivate sull’isola nel 1988. Nel settembre del 2010, padre Stefano Camerlengo, attuale superiore generale e all’epoca vice superiore, fece una visita a padre Noè. Restò molto colpito dalla bellezza dell’isola, ma anche dalle difficili condizioni di vita.

Due anni più tardi, il vescovo italiano di Ambanja, monsignor Vella, scrisse una lettera ufficiale chiedendo ai missionari della Consolata di aprire una missione nella sua diocesi. La risposta tardò, ma la riflessione fu portata avanti. Nel giugno 2016 una nuova visita del consiglio generale, composta dai padri Dietrich Pendawazima, Hieronimus Joya e Marco Marini, accompagnati proprio da padre Noè, sancì infine la decisione. Il vescovo propose tre possibili missioni: Ankaramibe, sulla direttrice stradale verso Sud tra Ambanja e Antsohihy; la seconda nei pressi della stessa città di Antsohihy; la terza più all’interno, a 15 km da Bealanana, una località chiamata Beandrarezona. La decisione cadde proprio su quest’ultima.

La scelta

«Questa scelta, seppure la più complessa, è sicuramente quella più ad gentes rispetto alle altre – ci spiega Baba Godfrey -. Nelle altre due località c’era già la presenza di sacerdoti, mentre a Beandrarezona ci andavano una volta ogni due anni. Inoltre la zona è di difficile accesso, durante la stagione delle piogge la strada diventa un letto di fango. Anche sul versante della promozione umana le esigenze sono moltissime. Dal punto di vista missionario, in questa zona solo tre persone ogni cento sono cristiane».

In Madagascar, a livello nazionale, i cristiani sono circa il 45%, e metà di questi sono cattolici. I restanti praticano religioni tradizionali, che sono molto importanti sull’isola. I musulmani sono invece una minoranza. La popolazione è di circa 24,2 milioni di abitanti su una superficie di 587.041 km2, poco meno del doppio dell’Italia. Nel paese le infrastrutture stradali sono basiche e restano enormi le difficoltà per collegare le diverse regioni.

La popolazione è composta da diciotto etnie, ma la cosa più interessante è la compresenza di gruppi di origine africana (bantu) e di altri di origine asiatica. I primi sono legati ai popoli delle coste del Mozambico e della Tanzania. I secondi, hanno tratti indonesiani e malesi, in particolare la lingua malgascia è simile a quella parlata nel bacino del fiume Barito, nel Kalimantan, il Borneo indonesiano. Vi sono poi influenze arabe, indiane ed europee. Nella diocesi di Ambanja la popolazione maggioritaria è di etnia Sakalava, di origini tipicamente bantu.

Il paese ha indici di sviluppo molto bassi, e permane intorno al 160 su 189 paesi della classifica delle Nazioni Unite sull’indice di sviluppo umano.

Continua Baba Godfrey: «Una delle cose che noti nell’area di Beandrarezona sono i coltivatori di riso. Si è in mezzo alle colline e alle risaie: c’è una grande riserva di acqua in questa zona. Ho visto una natura rigogliosa, cascate, fiumi, tante potenzialità. Pare una terra ancora vergine, soprattutto in queste zone remote. La gente è molto semplice. Sembra di essere nell’Ottocento. Collaborando con le autorità locali potremmo fare grandi cose per questa gente».

Inoltre, una comunità di suore francescane malgasce si è da poco installata a  Beandrarezona. «Sono molto contento di questo. Noi uomini andiamo fino a un certo punto, ci vuole sempre la donna».

I primi tre

Padre Jean Tuluba è di Wamba (Rdc), è un giovane missionario che ha già lavorato cinque anni a Roraima, nel Nord del Brasile, tra i popoli indigeni di quella regione. Lo raggiungiamo per telefono, nonostante le difficoltà. È pieno di entusiasmo per questa nuova missione. «Siamo a 1.000 km dalla capitale, a 300 da Ambanja, sede della diocesi, e a 15 km, di strada terribile, da Bealanana, la città più vicina. Abbiamo fondato una nuova parrocchia perché prima il territorio era vastissimo». E l’estensione della parrocchia continua a essere molto grande, anche a causa delle strade, poche e in pessime condizioni. Padre Jean continua: «Le sfide sono tante, e sono simili per tutta la chiesa del Madagascar. Prima di tutto la povertà. Il paese non è povero, ha molte risorse, ma a causa della geopolitica il popolo viene impoverito ogni giorno. Abbiamo constatato, dopo un anno di studio e comprensione della realtà, che la povertà è quasi ovunque. L’attività principale è l’agricoltura e la produzione di riso in particolare. A livello politico la storia del Madagascar è fatta di colpi di stato e sconvolgimenti, ma adesso con il nuovo presidente Andry Rajoelina, che è giovane e capace la situazione sembra stabilizzarsi».

Padre Jean ci racconta come sia difficile lavorare con la gente, molto occupata nei campi. Gran parte delle famiglie non riesce a mandare i figli a scuola a causa del basso reddito e molte persone, se ci sono problemi di salute, devono mettersi in cammino per 15-20 km per raggiungere un dispensario o un ospedale. «Queste preoccupazioni sono impellenti e occorre dare loro qualche risposta. La prima attività evangelica della chiesa in Madagascar è la lotta alla povertà. Materiale oltre che spirituale. E intellettuale, perché  molti giovani non studiano».

Ecco che numerose, a livello nazionale, sono le scuole cattoliche di vario ordine e anche i dispensari e i centri di salute. «Per lottare contro queste povertà – continua padre Jean – bisogna istruire la gente, perché fin tanto che il popolo è ignorante qualcuno continuerà a sfruttarlo e a mantenerlo in questa condizione. Se invece è armato della conoscenza sarà più facile che sappia difendersi e rivendicare i propri diritti». Questa è la posizione della chiesa del Madagascar. Quindi occorre investire nella formazione di bambini e giovani, ma anche delle famiglie, per aiutarli a formarsi a una gestione di famiglia e di comunità completa, sotto tutti i punti di vista.

AfMC foto Godfrey Msumange

Missione vera

Dopo oltre sei mesi ad Ambanja a studiare la lingua malagasy, i «nostri» tre missionari sono andati a installarsi a Beandrarezuma il 20 ottobre 2019, in occasione della Giornata missionaria mondiale. «La nostra prima attività è fare osservazione e conoscenza del popolo, delle sfide, delle realtà locali, per vedere come posizionarci come missionari della Consolata in mezzo a questa gente», continua padre Jean.

Oltre alle sfide generali che ritroviamo in tutto il paese, qui ne abbiamo altre. Nella diocesi di Ambanja non ci sono molti cristiani. Si stima che solo il 9-11% sono credenti e nella nostra missione ancora meno. L’attività principale è andare al campo e coltivare il riso, ogni giorno. Anche la domenica. Diventa difficile proporre delle attività pastorali. L’unico momento è domenica dopo la celebrazione dell’eucarestia, perché si ha un po’ di gente. Quello che riusciamo a fare lo facciamo subito dopo la messa».

Poi c’è tutta la problematica della logistica che pesa pure sull’attività pastorale.

«Qui non abbiamo una casa, ma siamo ospiti presso una famiglia, siamo tre in una piccola casa. C’è un terreno della diocesi, dove speriamo di costruire.

Le strade, e questo vale per tutto il paese, sono terribili. Mi ricordano le strade del Congo. Durante la stagione delle piogge (che terminano a maggio), sono impraticabili e non danno accesso a nulla. È difficile uscire di casa, perché non c’è posto dove andare, c’è fango ovunque, è difficile andare a piedi, in bici, moto o anche in auto. Noi abbiamo un’auto ma è ferma a Bealanana, nell’altra parrocchia, e dobbiamo fare a piedi i 15 km per arrivarci se dobbiamo viaggiare verso altre città.

Ci sono difficoltà di comunicazione, di movimento. Si passa tra montagne e valli in cui si produce riso: tutto è pieno di fango».

E continua fiducioso: «Poco a poco entriamo nella realtà e vediamo cosa si può fare per il nostro popolo qui.

La nostra sfida principale è dunque l’educazione. A Bendrarezona c’è una scuola costruita dal nostro ex vescovo Rosario Vella, che è gestita dalle suore. Ma i genitori hanno difficoltà a pagare la retta. Devono coltivare, vendere il riso e quindi pagare la scuola dei figli. Molti giovani non possono studiare perché le famiglie non hanno i soldi. Inoltre, terminata la primaria, dalla classe delle medie devono andare altrove, a Bealanana, Antsohihy o Ambanja, lontano dalla famiglia. Qui non ci sono scuole secondarie».

Il Presidente del Madagascar, Andry Rajoelina, alla cerimonia di lancio del “Covid Organics” in Antananarivo, il 20 Aprile 2020. / Photo by RIJASOLO / AFP

Madagascar e coronavirus

Anche la salute è un grosso problema e una priorità. I dispensari sono lontani dalla gente.

Il coronavirus è arrivato nel paese, ma grazie a diversi fattori e alle politiche intraprese dal presidente Andry Rajoelina, ad oggi, mentre scriviamo, i dati ufficiali parlano di 186 persone positive, di cui più del 50% i guarite (al 13/05/2020). Non c’è stato ancora alcun decesso.

«Il coronavirus è arrivato anche qui. Quando è cominciato in Europa le persone erano un po’ distratte. Il traffico aereo è continuato ed è così che è entrato nel paese il primo caso, verso la metà del mese di marzo. Qualche viaggiatore in arrivo dalla Francia. In quel momento noi tre eravamo a Antananarivo per rinnovare i nostri visti di residenza.  Il presidente stesso ha annunciato alla televisione i primi quattro casi. Noi siamo stati allertati e siamo rientrati velocemente alla missione. Tutto era chiuso».

Padre Jean apprezza il modo con cui è stata gestita l’emergenza: «Il presidente stesso era il primo sulla linea del fronte, insieme al governo per sensibilizzare la popolazione sui pericoli del Covid-19, mostrando cosa succede negli altri paesi. È stato costituito un centro operativo di risposta contro il virus. Hanno chiuso tutto il traffico aereo e stradale. Hanno cominciato a seguire i casi. Sono stati molto attivi. E la popolazione ha obbedito. Anche se non è facile. Ogni due giorni il presidente presentava la situazione alla televisione. I casi di contaminazione non si moltiplicano qui in Madagascar. Poi il 20 aprile, il presidente Rajoelina ha presentato un rimedio tradizionale, che ha chiamato Covid-organics che l’Istituto malgascio di ricerca ha studiato sulla base della pianta di artemisia (molto efficace e largamente usata nella cura della malaria, ndr). Hanno trattato due casi di malati e sembra che siano guariti. È un prodotto locale.

Ha dichiarato il deconfinamento parziale, e la ripresa parziale di alcune attività, come le classi finali della scuola, che hanno ripreso mercoledì 22 aprile, rispettando sempre le distanze. A ogni scuola si inviano mascherine prodotte sul posto e anche la medicina locale, Covid-organics distribuita gratuitamente a tutti gli alunni e gli insegnanti. Il Madagascar è sulla strada giusta. Se si riprendono le attività poco a poco, vuol dire che va meglio. Avevamo paura, ora la situazione non sembra grave, ma non abbassiamo la guardia, occorre sempre rispettare le consegne del ministero della Salute.

A livello di chiesa non facciamo attività, anche su indicazioni del cardinale, monsignor Désiré Tsarahazana, presidente della Conferenza episcopale malgascia. Preghiamo a casa, senza messe e raggruppamenti. Ho speranza che il Covid-19 non farà molte vittime qui».

AfMC foto Godfrey Msumange

 

Tante missioni, tante sfide

Chiediamo a Baba Godfrey se, secondo lui, c’è differenza con le sfide in altre missioni di recente apertura, come l’Angola.

«Le sfide si assomigliano. Qui gli esperti dicono che occorre studiare almeno anno la lingua, senza la quale non riesci a parlare e quindi a fare missione. Occorre inoltre lavorare tanto in comunione, come ci insegna il Concilio Vaticano II, che definisce la missione come comunione. Oggi più di ieri ci chiedono di lavorare in stretta comunione con diversi enti sul territorio.

Si tratta di uno dei paesi più poveri del mondo, noi siamo all’inizio e vogliamo fare un progetto con la gente locale».

A proposito, ci racconta padre Jean «la popolazione di Beandrarezona ha iniziato a rimettere a posto la strada di collegamento con Bealanana, che è la più importante per il villaggio. Noi ci siamo dati disponibili e parteciperemo direttamente ai lavori». Anche questa è missione.

E padre Godfrey parla di futuro: «Come prospettiva abbiamo quella di aprire altre missioni nel paese nei prossimi anni, non molte, si parla di due o tre. Piccole comunità, ma grandi segni».

Marco Bello
(1-continua)

AfMC foto Godfrey Msumange

Madagascar in pillole

  • Popolazione: 26,26 milioni
  • Superficie: 587.041 km²
  • Pil pro capite: 527,50 Usd (2018)
  • Indice di sviluppo umano (classifica): 0,521 (162 su 189, 2018)
  • Tasso di fecondità: 4,78
  • Speranza di vita: 66,3 (2017)
  • Lingue ufficiali: Malgascio, Francese
  • Capitale: Antananarivo
  • Moneta: Ariary
  • Etnie: 18 etnie principali. Altipiani centrali (origine asiatica): Merina (3 milioni) e Betsileo (2 milioni). Costa (origine bantu), dei quali i maggiori sono: Betsimisaraka (1,6 milioni), Tsimihety (700mila), Sakalava (700mila).
  • Religioni: circa metà della popolazione malgascia è dedita a culti tradizionali locali, che tendono a essere centrati attorno all’idea del legame con i defunti. Il 45% dei malgasci sono invece cristiani, suddivisi circa in parti uguali fra cattolici e protestanti.

AfMC foto Godfrey Msumange

AfMC foto Godfrey Msumange




Quando abitare è missione

testo di Luca Lorusso |


Cresciute entrambe con i missionari di Bevera (Lc) e passate per Guayaquil, oggi vivono la missione in Italia. Sono due famiglie che mostrano un volto diverso di Chiesa attraverso «l’abitare» un oratorio per giovani e una canonica per bisognosi.

Abitano a Monza, nell’oratorio di San Rocco, da quattro anni. Il loro «vicino di pianerottolo» si chiama don Luca Magnani, un giovane sacerdote diocesano.

Sono Corinna Melighetti e Mattia Longoni, del ‘78 lei, del ‘77 lui, laici missionari della Consolata legati alla casa Imc di Bevera (Lecco) con un’esperienza di tre anni in Ecuador alle spalle.

Insieme ai loro figli, Pietro di 10 anni, Letizia di 8 e Benedetta di 5, fanno parte del gruppo delle Famiglie missionarie a km0 che, nella diocesi di Milano, conta 27 nuclei famigliari in canonica: sposi che annunciano il Vangelo attraverso il loro stesso essere famiglie cristiane (si veda il dossier MC di dicembre 2019).

«Fin dal principio, la cosa chiara del progetto è stata di non avere incarichi precostituiti – ci dice Mattia -: no portinai, no custodi, ma nemmeno famiglia per i giovani. Ci è stato chiesto semplicemente di abitare qui nell’oratorio, in modo che il nostro contatto con le persone non si sviluppi solo nelle riunioni, ma soprattutto nel nostro vivere quotidiano: portando i bambini a scuola, facendo la spesa…».

A causa del Covid-19 incontriamo Corinna e Mattia solo per via telematica. «Io sono originaria del bergamasco», ci dice lei, insegnante di religione in due licei di Monza. «Lì ho dei parenti e conosco persone che sono mancate per il virus. Anche a Monza. È una cosa che toglie il fiato».

Mattia è avvocato e lavora per l’Asst (Azienda socio sanitaria territoriale) della zona Brianza Nord: «Francamente non ce l’aspettavamo – dice -. Nessuno si aspettava una cosa così lunga».

Casa accogliente

Trecento chilometri più a Est, a Bavaria, frazione di Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso, un’altra famiglia di laici missionari della Consolata «originaria» di Bevera, vive da due anni l’esperienza dell’abitare una struttura parrocchiale. In questo caso con uno scopo preciso: accogliere temporaneamente persone con disagio abitativo.

Pur essendo brianzoli, Chiara Viganò, del 1973, e Riccardo Colombo, del 1972, vivono a Nervesa dal 2006. Prima dell’attuale esperienza, infatti, hanno abitato dodici anni in comunità con i missionari a casa Milaico, a soli 5 km da dove sono ora.

Anche la loro famiglia ha fondamenta che poggiano sulla spiritualità missionaria della Consolata e su un’esperienza in Ecuador. Sono stati dal 2001 al 2002 nella stessa missione di Guayaquil nella quale poi sarebbero stati i Longoni dal 2007 al 2010: «Quando eravamo là – racconta Chiara -, è venuto Mattia a fare un campo estivo, e mi ha detto: “Mi piacerebbe venire qui”».

Chiara e Riccardo hanno tre figli: Paola di 17 anni, Silvia di 15 e Marco di 11. Chiara lavora come commessa in un minimarket vicino a Milaico, Riccardo insegna matematica al liceo del collegio vescovile di Treviso.

Raggiungiamo anche loro tramite videochiamata: «L’idea della “Casa accogliente Giovanna” dove viviamo, chiamata così in memoria di una catechista, è di ospitare persone in difficoltà che possano fermarsi per un certo tempo, risolvere la loro difficoltà e poi ripartire – spiega Chiara -. All’inizio pensavamo di ospitare i migranti che uscivano dai centri di prima accoglienza». «Poi invece – interviene Riccardo -, il primo caso è stato di una famiglia tunisina: una coppia con una bambina, e un cugino. Loro lavoravano e abitavano in affitto, ma il padrone li aveva sfrattati. Il secondo caso era un italiano senza fissa dimora. Oggi i nostri ospiti sono due italiani che non trovano casa perché disoccupati, e poi un ghanese e un togolese che, pur lavorando, non trovano chi dia loro una casa in affitto».

La Consolata nel cuore

«Noi ci siamo conosciuti nel 2000 a Bevera – racconta Corinna -. La missione è stata sempre il filo conduttore della nostra storia. Ci siamo sposati nel 2005, e nel 2007 siamo partiti per Guayaquil, per aiutare nella scuola professionale della missione nel quartiere El fortin.

A Bevera c’era padre Ernesto Viscardi, un missionario capace di aprirti gli orizzonti e di invitarti a prendere in mano la tua vita».

«Io mi sono avvicinato alla Consolata – interviene Mattia -, perché sentivo il bisogno di “fare qualcosa”, di mettere le mie mani a disposizione. Quando l’ho spiegato a padre Ernesto, lui mi ha detto: “Benissimo, se vuoi questo, vai dagli alpini!”. Mi ha aiutato a scoprire che la vocazione missionaria non è segnata dalla logica del fare, ma da quella dell’essere, dello stare.

Quando poi io e Corinna siamo partiti, ci siamo detti: “Portiamo a Guayaquil la nostra gioia di cristiani attraverso il nostro essere coppia, il nostro volerci bene”».

«A dire la verità, sono cose che capisci piano piano – aggiunge Corinna -, e noi le abbiamo capite con più chiarezza alla fine della nostra presenza a Guayaquil, quando è nato Pietro. Fino a quel momento, infatti, eravamo, sì, attenti alle persone, però eravamo iperattivi: il professore la mattina, il bidello al pomeriggio, l’animatore, il catechista. Invece, quando abbiamo sperimentato la fragilità dell’essere genitori di un bimbo appena nato, allora abbiamo capito la debolezza di cui parla san Paolo: più sono debole più sono forte. Molte persone si sono date da fare per noi, e ci siamo scoperti davvero fratelli. È stato un dono bellissimo».

«Un altro aspetto bello dei tre anni in Ecuador è stato quello della fraternità missionaria – aggiunge ancora Mattia -. Eravamo in un quartiere della periferia urbana, sempre sotto tiro. È stato bello sentirsi fraternità con i padri della Consolata, sia nello spalleggiarci, che quando eravamo in disaccordo con loro. Quando penso a questo, ricordo sempre il vangelo dell’invio dei 72 discepoli: quel “non portate niente con voi”, vuol dire “spogliatevi di ogni cosa, di ogni proposta e programma, perché le persone vedano in primo luogo l’intesa che c’è tra di voi”.

In Ecuador abbiamo capito che, al di là dei programmi e delle cose che fai, la gente, per prima cosa, vede come vivi, il rapporto che c’è tra i missionari. E qui a Monza, oggi, questo lo viviamo in pieno, è il nostro primo obiettivo. Fare squadra con i preti della comunità pastorale e con le persone della parrocchia, è l’aspetto che ci dà più gioia».

Missionari in Italia

Anche per Chiara e Riccardo, quello che vivono ora è frutto del cammino iniziato a metà anni ‘90 dai missionari di Bevera. Dopo un’esperienza di Riccardo in Kenya nell’estate 1996, i due hanno avviato una riflessione sul laicato missionario, e così, dopo essersi sposati nel ‘99, sono partiti per l’Ecuador.

Al loro rientro nel 2002, Riccardo è tornato a fare l’ingegnere ambientale, mentre Chiara aiutava a Bevera per l’animazione missionaria nelle scuole.

«L’esperienza in Ecuador ci aveva segnato – racconta Riccardo -, e volevamo ripartire. Dato che nel frattempo erano nate Paola e Silvia, ci siamo resi disponibili per andare dove c’era bisogno, e dove c’era posto per una famiglia». Così, nel 2005, padre Franco Gioda, allora superiore dell’Imc in Italia, ha proposto ai Colombo la casa Milaico: una partenza vera e propria, sebbene entro i confini nazionali.

Vita di comunità a Milaico

«Nel maggio 2006 siamo arrivati a Nervesa – racconta Chiara -. Paola aveva tre anni, Silvia uno e mezzo, Marco sarebbe nato nel 2008». L’obiettivo era di far tornare Milaico un punto di riferimento per l’animazione missionaria sul territorio: «Abbiamo iniziato con campi estivi di due giorni, adesso si fanno settimane intere, e l’estate di Milaico è piena. Oltre ai campi estivi, poi, Milaico propone attività tutto l’anno: la preghiera del martedì, la preparazione dei campi in missione per i giovani, attività nelle parrocchie, il gruppo laici…».

La caratteristica originale di Milaico, fin dalle sue origini nel 1996, è sempre stata la vita comunitaria e la corresponsabilità tra laici e religiosi: «L’idea era quella di creare un clima famigliare. Volevamo una casa a misura di famiglia, magari un po’ più disordinata di una normale casa di religiosi, ma dove le persone si sentissero a casa loro». In dodici anni, i missionari che hanno fatto comunità con Chiara e Riccardo sono stati diversi, tra questi, i padri Renato Martini, Godfrey Msumange, Ermanno Savarino, Osorio Citora Afonso, Piero Demaria, Juan Carlos Araya Carmona, Handino Daniel Mathewos, Moreno Noé João. «Nel 2012 sono arrivate anche Cristina Martignago con la figlia Noemi, che tutt’ora vivono lì. La comunità è vissuta mantenendo una certa indipendenza, e allo stesso tempo condividendo i tempi, gli spazi, e i soldi con la cassa comune».

Cultura dell’accoglienza

Prima del trasferimento a Bavaria, già da un po’, Chiara e Riccardo avevano maturato la decisione che l’esperienza di Milaico per loro dovesse concludersi: «Iniziava a essere un po’ faticoso – confessa Chiara -. Ma soprattutto c’era il rischio che Milaico diventasse troppo a misura Colombo. Era giusto mettere uno stop. Nel novembre 2016, poi, ci era capitato di accogliere alcuni profughi a Milaico per alcuni mesi. Da quel momento ci siamo resi conto che nei dintorni tanti avevano problemi di casa. Allora abbiamo iniziato a riflettere con don Giovanni Kirschner, referente diocesano per la pastorale famigliare con cui collaboriamo da anni, e dopo diverse ipotesi, alla fine abbiamo realizzato questo progetto insieme alle sei parrocchie della comunità pastorale Giavera-Nervesa, alla comunità di Milaico, e grazie all’appoggio deciso della diocesi di Treviso».

Nella scelta di andare in una canonica e non in un altro luogo, la conoscenza delle Famiglie missionarie a km0 è stata fondamentale. «Sono stati Mattia e Corinna a farci conoscere la realtà di Milano – dice Riccardo -. Per me è un’esperienza profetica. Il nostro contratto di comodato è lo stesso usato da loro».

La canonica di Bavaria è una piccola costruzione di due piani più una mansarda. I Colombo vivono al primo, gli ospiti si autogestiscono nelle tre stanze e cucina al piano terra.

«Fin dall’inizio, uno degli obiettivi, oltre a offrire un’abitazione, è stato di aiutare gli ospiti a farsi delle amicizie – racconta Chiara -: cerchiamo di portare qui le nostre molte relazioni, così si crea fiducia reciproca.

Qui abbiamo solo quattro posti letto, quindi non risolviamo i problemi della provincia di Treviso, però vorremmo creare un po’ di cultura dell’accoglienza. Questo è il nostro compito».

Il primato della vita

Corinna e Mattia abitano nell’oratorio, staccato dalla chiesa e in  posizione appartata. Al piano terra ci sono diverse salette, al primo piano, oltre agli alloggi dei Longoni e di don Luca, ci sono gli spazi per i giovani: un soggiorno dove studiano o s’incontrano, una cucina, una sala, e alcune stanze con letti a castello.

Quando sono tornati dall’Ecuador, Corinna, Mattia e Pietro di pochi mesi, sono andati a vivere a Calco, paesino del lecchese. Lì sono nate Letizia e Benedetta. «Ci domandavamo se la missione fosse stata una parentesi», racconta Corinna. «Poi abbiamo avuto un incontro provvidenziale con Eugenio ed Elisabetta, una delle coppie che stavano formando il gruppo delle Famiglie missionarie a km0. Era il 2013. A giugno 2016 siamo arrivati qua».

«Siamo stati presentati alla parrocchia come una famiglia per la “pastorale del caffè” – aggiunge Mattia -, cioè dell’incontro, della relazione. Come ci insegnano i sacerdoti che ci accompagnano, il primato è quello della vita, non del programma. La sfida, quindi, è di decostruire la mentalità dei programmi, per partire dalla vita e aiutarla a crescere. Poi, una volta arrivati, avendo figli, essendo ancora abbastanza giovani, è venuto da sé che il primo contatto sia stato con la pastorale giovanile, e subito dopo con le persone della nostra età».

Il cuore dell’esperienza della famiglia Longoni, comunque, rimane l’abitare: «L’abitare dice molto di come una persona, una famiglia, una comunità vogliono essere». «L’abitare è fare casa – aggiunge Corinna -. Se io abito un luogo, faccio sì che esso diventi la “mia casa”. Gli dò un certo stile, ma poi non è solo casa mia, è la casa di tutti, dove uno può entrare, trovare un volto amico, sentirsi accolto».

«Don Luca ci dice che apprezza la nostra apertura – riprende Mattia -. È lo stile che abbiamo imparato dai missionari della Consolata: quello di non stringere amicizie a gruppetti ma in un unico grande gruppo che è la comunità, dell’attenzione a chi è in difficoltà, dell’avere la porta di casa aperta, dell’accogliere senza formalismi persone a pranzo o a cena, quando capita».

«Anche il fatto di considerarsi sempre un po’ stranieri – prosegue Corinna -, del sentirsi dentro tenendosi un passo indietro, la capacità di dire: “Non è mio”. A questo proposito mi viene sempre in mente padre Giuseppe Ramponi che ci aveva detto: “A Guayaquil ricordatevi di sentirvi come a casa vostra sapendo che non è casa vostra”. Io credo che dobbiamo essere un po’ leggeri. Sapere che niente ci appartiene, che tutto è grazia di Dio da non considerare “roba nostra”. Altra cosa bella che abbiamo imparato dai missionari è che, dovunque vai, la presenza del Signore c’è prima di te, oltre te. Che non sei tu il protagonista di tutto».

Prospettive missionarie

Corinna e Mattina sono al loro quarto anno su cinque a San Rocco. Sta arrivando il tempo di pensare al futuro: «Oggi, con i figli di 5, 8 e 10 anni, siamo nella dimensione dell’avventura – riflette Mattia -. Quando però saranno adolescenti, gestirli in una realtà del genere, francamente, non siamo certi che vada bene. Ci stiamo interrogando. C’è chi fa delle esperienze bellissime, c’è chi invece fa fatica». «Dobbiamo interrogarci sul senso che avrebbe rimanere qui, sulla necessità di prolungare, piuttosto che di offrire l’opportunità a qualcun altro di venire al nostro posto», aggiunge Corinna.

«L’esperienza delle Famiglie missionarie a km0 sta prendendo piede – continua Mattia -. Per noi questa esperienza vuol dire mostrare un volto diverso di Chiesa rispetto alla secolarizzazione da una parte e al clericalismo dall’altra. Però con altri cinque anni qui, rischieremmo di far diventare questo luogo “roba nostra”».

Tra i sogni di Corinna e Mattia, ci pare di capire, c’è quello di una nuova partenza, e quello di lasciare il testimone di San Rocco a qualcun altro, magari una famiglia della parrocchia.

Chiediamo anche a Chiara e Riccardo cosa pensano del loro futuro, benché l’esperienza attuale sia iniziata da poco. In particolare chiediamo loro se pensano di ritornare un giorno o l’altro nella loro Brianza. Mentre poniamo la domanda, passa loro vicino Paola, la figlia più grande, che, con l’accento veneto, dice decisamente di no: «Boh, chi lo sa», risponde Chiara sorridendo, «qui c’è mia figlia che dice no!». «Noi qui abbiamo cinque anni di contratto che potrebbe rinnovarsi, quindi abbiamo davanti un orizzonte di dieci anni… e poi non lo so. Si vedrà».

Luca Lorusso




Brasile. Fratello indigeno, Sorella Amazzonia

testi di Roque Paloschi e Silvia Zaccaria |


Nato a Moncalvo (Asti) più di 100 anni fa (era il 1919), monsignor Aldo Mongiano ci ha lasciati lo scorso 15 aprile. Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, ricorda l’incontro con lui e le sue battaglie nel cuore dell’Amazzonia brasiliana.

Arrivai a Boa Vista, capitale di Roraima, il 13 luglio 2005, per essere ordinato vescovo della diocesi dello stato amazzonico.

Il 15 luglio, al mattino, in una celebrazione eucaristica nella Casa regionale delle suore della Consolata, feci la mia professione di fede alla presenza di dom Servilio Conti e dom Aldo Mongiano, entrambi vescovi emeriti di Roraima.

Il 17, dopo l’ordinazione episcopale, i due vescovi mi condussero in mezzo al popolo che aveva partecipato alla celebrazione. Dom Aldo rimase a Roraima per alcuni mesi, fino a metà ottobre. Di solito ci incontravamo tre volte alla settimana per parlare e condividere le grandi sfide che la diocesi aveva. Conversazioni che mi aiutarono a capire la vita e la missione in quella terra. Ho visto lì, chiaramente, che il cuore e la vita di dom Aldo avevano il marchio delle popolazioni indigene.

Il 7 settembre, pur avendo già 85 anni, insistette per camminare con i gruppi di pastorale sociale e i movimenti popolari nell’ambito delle manifestazioni per il Grido degli esclusi (Grito dos excluídos). All’inizio della camminata, il vescovo emerito mi disse: «Dom Roque, è importante sostenere la lotta dei gruppi pastorali e dei movimenti popolari».

Il 17 settembre di quello stesso 2005 fu bruciata e distrutta la missione di Surumu, sede delle grandi assemblee dei tuxawa (capi indigeni) e della scuola di formazione di insegnati e leader indigeni. Tutto, in poche ore, fu trasformato in ceneri da un gruppo di persone potenti e contrarie al diritto alla terra e all’autonomia dei Macuxi, Wapixana, Ingaricó e degli altri popoi indigeni di Roraima. Potevo vedere la sofferenza, il dolore che provava dom Aldo. La settimana seguente andammo a Surumu e, in mezzo alle ceneri e alle macerie, disse: «È dalle ceneri che costruiremo il futuro dei popoli indigeni con la forza e il coraggio che Dio ci darà».

A quei tempi la compagnia e la presenza di dom Aldo furono molto importanti per me, giovane vescovo, e per gli indigeni, generando in noi sicurezza e coraggio.

Accanto alle vittime

Alcuni anni dopo, era il 2011, avemmo un’altra piacevole sorpresa: senza alcuna comunicazione, a febbraio dom Aldo tornò a Boa Vista a visitarci. Stavo facendo una visita pastorale di 45 giorni nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, visitando centri e comunità. Quando queste vennero a sapere dell’arrivo di dom Aldo, lo pregarono di far loro visita. Pertanto, organizzammo il suo viaggio in coincidenza con la fine della visita pastorale.

Il suo arrivo alla missione Maturuca si trasformò in una vera festa, con balli e tanta gioia. Nella settimana che trascorsi lì, io ebbi modo di sentire la grande gratitudine delle comunità per la missione, per i missionari e in un modo molto speciale per lui.

Alla celebrazione dell’addio, arrivò una donna anziana per regalargli un ricordino, una piccola pentola di terracotta fatta dalle donne macuxi di Maturuca. Nella sua lingua l’indigena disse: «Dom Aldo, sappiamo che non puoi portare molte cose nel tuo viaggio in aereo, ma accetta e prendi questa piccola pentola. È stata creata con questa terra che tu e la missione ci avete aiutato a preservare e riconquistare, è piena del sangue dei nostri capi che sono stati assassinati, del nostro sacrificio e della dedizione dei missionari. Ecco il nostro riconoscimento per il tuo coraggio nel lottare per i diritti delle popolazioni indigene». Le lacrime scorrevano nel silenzio di una notte che i libri di storia non racconteranno.

Papa Paolo VI, oggi santo, coniò questa espressione resa nota dalla sua Evangelii Nuntiandi: «L’uomo contemporaneo ascolta i testimoni meglio dei maestri». A Roraima, ho compreso quanto dom Aldo fosse stato testimonianza vivente di un uomo innamorato della missione. Era consapevole che essa si coniuga con l’incarnazione e la croce. Ecco perché, insieme ai missionari della Consolata, prese la croce assieme ai popoli indigeni di Roraima.

Possiamo assicurarvi che dom Aldo è stato un vescovo conciliare, cioè ha sempre cercato di camminare con la coscienza della Chiesa del Popolo di Dio.

Dio gli ha concesso la grazia di essere un missionario in Africa per i popoli del Mozambico e qui in Brasile, a Roraima, con i popoli indigeni, schiavi e vittime del mondo coloniale. Quindi, egli ha incarnato la Costituzione pastorale Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, la tristezza e l’angoscia delle persone di oggi, specialmente dei poveri e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, la tristezza e le ansie dei discepoli di Cristo».

Gli attacchi delle élite

Nel 1967 papa Paolo VI scrisse l’enciclica Populorum Progressio, in cui affermava che la Chiesa ha l’obbligo di mettersi al servizio di tutti gli uomini e di tutta l’umanità, per aiutarli a passare da condizioni meno umane a più umane. Nel 1968 ebbe luogo la Conferenza di Medellín dell’episcopato latinoamericano e, nel 1972, la Chiesa amazzonica brasiliana tradusse il documento di Medellín con l’incontro di Santarém. Nello stesso anno, la Chiesa aveva creato il Consiglio missionario indigenista (Cimi)1. Con tutto questo movimento e i segnali dello Spirito, dom Aldo bevve il Vangelo della liberazione e della libertà umana.

Quando arrivò a Roraima, nel 1975, egli trovò un clima che contagiava la vita e la missione.

Dom Aldo, con i missionari della Chiesa di Roraima, divenne il migliore alleato dei popoli indigeni. Ecco perché venivano additati con disprezzo dall’élite locale che affermava che la Chiesa cattolica era «dannosa» per la società di Roraima. Ricordo le risposte di un vecchio indigeno catechista, quando fu intervistato da un giornalista su una stazione radio governativa. Il giornalista chiese: «Perché ci sono così tanti attacchi contro la Chiesa, contro i missionari? Ti hanno addestrato per i guerriglieri? Ti hanno distribuito armi?». Il vecchio catechista indigeno rispose con l’eleganza di un diplomatico: «Guarda, i missionari non hanno fatto quasi nulla per noi. Ci hanno aiutato a capire che siamo anche figli e figlie di Dio; che non dovremmo vergognarci della nostra lingua, perché quella è la lingua che Dio ci ha dato e dobbiamo coltivarla; che questa terra ci appartiene, perché i nostri antenati hanno vissuto qui per oltre tremila anni».

Il primo passo che dom Aldo fece fu di continuare il percorso che i missionari stavano seguendo: unire i popoli indigeni animando e sostenendo le assemblee dei tuxawa e l’organizzazione del Consiglio indigeno di Roraima (Cir).

Aveva un modo semplice e pratico per aiutare le comunità a capire l’importanza di unire le malocas di tutte le etnie indigene. Ne è un esempio quella che viene chiamata l’omelia delle bacchette: «Un ramo da solo è molto facile da spezzare, ma se metti insieme un fascio, questo non accadrà».

La missione aiutò le comunità a superare la maledizione del bestiame che invadeva e distruggeva i campi, con l’idea che «il veleno del serpente è anche l’antidoto». Dom Aldo, i missionari e gli indigeni trovarono nello stesso bestiame la cura: il famoso progetto «Una mucca per gli indios», con il sostegno del compianto cardinale Ersilio Tonini e poi di papa Giovanni Paolo II, oggi santo.

Dom Aldo cercò sempre di investire molto nella formazione dei leader indigeni. Tutte le comunità crebbero con una grande ricchezza di ministeri e servizi, i laici furono aiutati a scoprire la loro vocazione missionaria, le assemblee diocesane si susseguirono e la formazione dei laici decollò.

Dom Aldo era un uomo aperto oltre il suo tempo. Un uomo che accolse con favore l’esperienza di comunione che la Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani (Cnbb) aveva promosso a difesa della vita. Un uomo che segnò la regione amazzonica e la Chiesa in Brasile per la sua opzione in favore delle popolazioni indigene e l’impegno a prendersi cura dell’Amazzonia. Negli anni ‘90, lui e in gruppo di vescovi ad Assisi, terra di San Francesco, lanciarono la grande campagna: «Un grido per la vita in Amazzonia».

Precursore del Sinodo

Vorrei ricordare ciò che dom Aldo scrisse nella sua lettera pastorale quando divenne vescovo emerito: «Sono stato spiato, ho subito minacce, insulti, false testimonianze. Di fronte a queste accuse, ho quasi sempre risposto con silenzio e perdono […]. Per vent’anni politici, giornali e stazioni radio locali hanno attaccato la Chiesa di Roraima, lanciando contro di me e sui missionari della Consolata le critiche più velenose e le calunnie più infami […]. Quando partii per Roraima nel 1975, avevo solo il passaporto, il biglietto e il documento del papa, con cui ero stato nominato vescovo. Quando ho lasciato Roraima, non avevo più nemmeno quelli».

Con tutta tranquillità posso affermare che la sua lotta non fu vana: dom Aldo è stato un grande profeta, un fedele difensore delle popolazioni indigene e dei loro territori. Aveva già previsto ciò che il Sinodo per l’Amazzonia avrebbe affrontato nel 2019: difendere la terra significa difendere la vita. Posso affermare che il ministero episcopale di dom Aldo a capo della Chiesa di Roraima si è svolto in tempi difficili, di persecuzione aperta della Chiesa, di missionari che hanno fatto l’opzione preferenziale per i più poveri. Tempi di testardaggine profetica e coraggio evangelico.

Era un pastore, un profeta, un vero padre e fratello per i più deboli. Animatore delle comunità, protettore e difensore dei missionari che erano lì con loro.

Credo di poter sostenere, senza paura di sbagliare, che tutti i temi discussi dopo la convocazione, la preparazione e l’esecuzione del Sinodo dell’Amazzonia, dom Aldo li aveva già nel cuore e aveva sempre lavorato molto duramente per creare una Chiesa modellata sul volto dei popoli indigeni.

Egli aiutò a preservare i percorsi che Dio ha stabilito per l’umanità, sia a livello culturale che religioso; la sua pratica ci ha aiutato a salvare le strade che Dio ha stabilito per gli «ultimi». L’incontro con le popolazioni indigene ha aiutato la Chiesa di Roraima e del Brasile, a sentirsi più al servizio e samaritana.

Il percorso segnato da dom Aldo ha portato a percepire la bellezza di vivere in una pluralità culturale e a comprendere il modus vivendi degli altri, che è la grande ricchezza della Chiesa dell’Amazzonia. La sua azione ha aperto percorsi attraverso il dialogo, la riconciliazione, la cura dei più deboli, l’opzione per i fragili, il coraggio di denunciare i draghi della morte che divorano la vita, il rispetto e la comunione con le vite e i sogni degli ultimi.

Che dom Aldo ci aiuti a superare le tentazioni di discriminazione, xenofobia, omologazione e l’incapacità di avvicinarci alle popolazioni indigene!

Roque Paloschi

(1) Lo scorso 4 maggio il Cimi di dom Roque Paloschi è stato attaccato in maniera durissima (e vergognosa) in un comunicato ufficiale della Funai, l’organo indigenista oggi in mano a Bolsonaro e ai latifondisti, ovvero ai primi nemici dei popoli indigeni. La Funai ha anche restituito all’autore una serie di foto di Sebastião Salgado in risposta alla sua campagna internazionale in favore dei popoli indigeni e contro la dirigenza brasiliana. (P.M.)


Dal fiume Po al rio Branco

Dom Aldo, combattente «suo malgrado»

Lo ricordo così. Mite e pacato. La voce bassa, le parole quasi sussurrate. Il volto come scolpito nella pietra e lo sguardo austero, serioso, che all’improvviso si apriva in un sorriso appena accennato.

Dieci anni orsono ebbi il privilegio di raccogliere le sue memorie poi pubblicate nel libro «Roraima tra profezia e martirio: testimonianza di una Chiesa tra gli indios» (2010)1.

Una storia incredibile quella di Aldo Mongiano, nato nella seconda decade del Novecento in una valle piemontese da cui, per raggiungere la città della Fabbrica italiana automobili, il viaggiatore doveva utilizzare un calesse trainato da cavalli che lo conduceva alla stazione ferroviaria più vicina.

Nelle epoche precedenti, ricorda Mongiano nell’introduzione al libro, il viaggio era ancora più disagevole: «Era comune prendere un barcone e affidarsi a uomini robusti che spingessero il carico. Uno trascinava la barca facendo forza sul fondo sassoso del fiume con il remo, ed un altro, camminando sulla spiaggia, lo tirava con una corda legata alle spalle. Questa pratica, che avevo appreso da giovane osservando scene sul fiume che bagna il mio paese, sarebbe stata la metafora di tutta la mia vita». In Brasile, dom Aldo, come da lì in avanti sarebbe stato chiamato, arrivò dopo una lunga esperienza in Mozambico che aveva da poco conquistato l’indipendenza: «Non sapevo che, più tardi, mi sarei trovato coinvolto, mio malgrado, nel processo di emancipazione di un piccolo popolo oppresso dalle pratiche neocoloniali della società dominante». Mongiano confessa nelle sue memorie, di aver sempre agito – nelle particolari circostanze in cui si sarebbe trovato coinvolto – «suo malgrado». Malgrado la consapevolezza dei propri limiti e il senso di inadeguatezza che lo accompagnava.

Anche il ruolo di vescovo lo aveva accettato solo per non portarsi dietro per tutta la vita il peso «di non aver ascoltato la voce di Dio»: «Quando seppi che papa Paolo VI voleva affidarmi la guida della diocesi dell’allora Territorio federale di Roraima pensai alle mie limitate capacità, alla mia debole preparazione teologica». E all’America, così lontana culturalmente, così «moderna».

Sulla pista di atterraggio della capitale Boa Vista, lo accolse una bambina con in mano un mazzo di fiori e altre persone accorse a vedere il nuovo vescovo. La natura tropicale e l’indolenza della popolazione, la città vuota con l’unico semaforo sempre spento, gli diedero l’impressione di essere giunto in un luogo tranquillo.

L’illusione di serenità durò poco. Durante la prima visita in area indigena, dom Aldo scoprì che gli indios, che pure costituivano la maggioranza della popolazione erano schiavi dei fazendeiros che avevano invaso le loro terre e dipendenti dall’alcol. Nel 1977, nel corso di un’assemblea cui partecipò anche dom Tomás Balduíno della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile, i tuxawa (capi indigeni), fecero un’esposizione toccante della loro situazione: costretti a lavorare senza essere retribuiti; accusati di reati che non avevano commesso; forzati a lasciare le loro terre dopo aver visto le case e le piantagioni bruciate, si stavano convincendo del fatto che non restava loro che cessare di essere indios e diventare «Bianchi» oppure rassegnarsi a una vita da emarginati. Le autorità si mostravano indifferenti se non apertamente ostili. L’incontro con Tomás Balduíno e poi con Bartolomè Melià, gesuita sostenitore del popolo guaraní, furono decisivi: il vescovo si convinse che la Chiesa di Roraima doveva levare la propria voce in favore degli ultimi, gli indigeni, «i più poveri tra i poveri». Una scelta che comportò la nascita di tensioni con i vertici della Fondazione nazionale per gli indigeni (Funai) e con le autorità. Queste proibirono ai missionari di entrare in area indigena, mentre alcuni deputati furono autori di proposte di legge che, incentivando lo sfruttamento minerario, erano di natura genocida.

Nella memoria di dom Aldo, gli anni ‘80 furono i più burrascosi, ma anche i più belli. Furono gli anni della liberazione dalla dittatura militare, dell’instancabile lavoro di coscientizzazione degli indios, della rivendicazione delle terre e dell’identità indigena anche grazie al progetto visionario Uma Vaca para o Indio. Negli anni ‘90, l’impegno dei missionari della Consolata guidati dal loro vescovo a fianco degli indios del lavrado (savana) e degli Yanomami, determinò la reazione di vari settori del potere locale, le cui accuse trovavano ampio spazio anche sui media nazionali. Il vescovo Mongiano era additato un nemico del popolo di Roraima.

Nel 1996, anno in cui la terra Raposa Serra Sol («della Volpe e della Montagna del sole») venne riconosciuta come area indigena, dom Aldo lasciò la guida della diocesi per raggiunti limiti di età2.

Il senso della sua missione lo traccia lui stesso nell’epilogo del libro, citando la storia di quel marinaio che salva un bambino caduto in mare durante una tempesta: «Il comandante, alla sera, organizza una festa in suo onore. Ma il marinaio, pur grato per il riconoscimento, ammette: “Non l’avrei salvato se qualcun altro non mi avesse spinto”».

Silvia Zaccaria
(antropologa)

(1) Il pdf del libro è scaricabile dal sito della rivista.

(2) Gli successe Apparecido José Dias (1996-2004). Dom Apparecido era a quel tempo anche presidente del Cimi. Fondò Radio Roraima e il movimento Nós existimos. Strenuo difensore dei popoli indigeni fu oggetto come dom Aldo di attacchi personali.




Il secondo viaggio di Paolo (At 16,1 – 17,15)

testo di Angelo Fracchia |


Con il capitolo 16 degli Atti degli Apostoli, Luca, che si è preparato il terreno finora con grande attenzione, sembra sentirsi più libero di narrare secondo il gusto dei suoi ascoltatori. Aumenta il respiro del racconto, solleva il tono della lingua, peraltro piena di termini tecnici e precisi, soprattutto marinari e politici. Se teniamo conto che i titoli dei governanti cambiavano di città in città e di tempo in tempo, è ammirabile la correttezza con cui Luca li utilizza. Al centro della scena c’è Paolo, attorniato da tanti comprimari umani ma soprattutto spalleggiato dal vero protagonista, lo Spirito Santo.

Dopo aver sistemato le coordinate di fondo nei capitoli precedenti, Luca ci permette di guardare come crescono le nuove comunità, con quali attenzioni, interessi e conseguenze.

Nuovi collaboratori (At 16,1-5)

A colpirci è innanzitutto il fatto che persino Paolo non si muove mai da solo. Nonostante le tensioni con Barnaba sulla composizione della squadra (At 15,38-39), Paolo non parte da solo, ma con Sila, importante membro della comunità di Antiochia (At 15,22), per informare delle decisioni prese a Gerusalemme circa la circoncisione le chiese già fondate, per vagliarne lo stato di salute, e per procedere oltre. Attraversano la Siria, la cui capitale era Antiochia, poi la Cilicia, ossia la regione di Tarso, e da lì raggiungono Derbe e Listra. Nel primo viaggio (At 14,6-20) queste città sono state evangelizzate in ordine inverso, ma stavolta si decide di affrontare il più frequentato ma impegnativo passo delle Porte di Cilicia, alle spalle di Tarso.

Sembra essere a Listra che Paolo incontra Timoteo, suo fondamentale collaboratore da adesso in poi (cfr. At 18,5; 19,22; 20,4; e, nelle lettere, Rom 16,21; 1 Cor 4,17; 2 Cor 1,19; Fil 2,19, e altri passi ancora; non è un caso che due delle tre lettere «pastorali» siano indirizzate a lui).

Il caso di Timoteo è interessante. È figlio di una ebrea e di un «greco» (ossia, non ebreo) e, secondo la legge ebraica di allora, nel caso di matrimoni misti il figlio di una madre ebrea è ebreo e deve essere circonciso all’ottavo giorno, mentre nel caso inverso, di madre «gentile», si consiglia di attendere l’età adulta del figlio, perché sia lui a scegliere. Se deciderà di essere circonciso, dovrà rispettare la legge mosaica. Per Timoteo però questa norma non era rispettata: egli infatti era un ebreo, ma non circonciso. A sorpresa, è Paolo a decidere di farlo circoncidere.

Sembrerebbe paradossale: Paolo si era scontrato con la chiesa di Gerusalemme che pretendeva che i «greci» per diventare cristiani dovessero prima diventare ebrei (At 15,2), ma, nel caso di Timoteo, sembra quasi smentire se stesso. La ragione è spiegata da Luca stesso: «A motivo dei giudei che si trovavano in quelle regioni» (At 16,2). A muovere l’agire di Paolo, evidentemente, non sono i diritti o le leggi, come dirà in modo esplicito anche ai Corinzi, anni dopo (cfr. 1 Cor 8,13). Sa bene che la circoncisione non è indispensabile, ma sa anche che sull’incirconcisione di Timoteo si potrebbe concentrare una polemica che distoglierebbe l’attenzione dal Vangelo di Gesù. «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,19-22).  Al centro, per lui, ci sono comunque le persone e il Vangelo.

Un viaggio tormentato (At 16,6-10)

Dove stanno andando i quattro evangelizzatori (Paolo, Sila, Timoteo e Luca, che si è unito al gruppo, come si capisce dal fatto che nel racconto passa dal «loro» a «noi»)? L’impressione è che non lo sappiano.

Dopo aver toccato anche Iconio, ultima delle comunità fondate nel primo viaggio (At 13,51-14,6), il gruppo attraversa la Frigia e la Galazia con l’intento di scendere verso la regione dell’Asia, zona ricchissima di gente e di collegamenti, ma non ci riescono (anche più avanti Luca dirà che non riusciranno ad andare in un’altra zona dove avrebbero voluto, la Bitinia, meno popolata ma altrettanto strategica).

Perché non ci riescono ad andare nella regione dell’Asia dove c’è Efeso? Non lo sappiamo: può darsi che trovino le strade bloccate, o che si siano uniti a carovane che non sono dirette là, o che Paolo si ammali (è di questo che scrive in Gal 4,13-14? Non sappiamo), o che qualcuno abbia mosso obiezioni. Quello che Luca ci suggerisce è che il gruppo ha un progetto, e che è costretto a modificarlo. Anziché prendersela con la sorte, accolgono l’impedimento come suggerimento dello Spirito.

Il suggerimento dello Spirito a un certo punto arriva anche in una «visione», strumento che a noi non sembra affidabile o credibile, ma che per gli uomini di quel tempo evidentemente era un modo con cui Dio poteva parlare. È comunque significativo che anche questo suggerimento, che parrebbe abbastanza deciso, debba essere accolto e ragionato: «Ritenendo che Dio ci avesse chiamati…».

Non c’è mai, negli Atti, uno Spirito Santo che tratti i credenti come burattini. Impedisce e suggerisce, ma gli uomini sono collaboratori a tutti gli effetti, e devono acconsentire o muovere obiezioni. Infatti, più avanti quando verranno scacciati da Tessalonica, non proseguiranno lungo la via Egnazia, verso la Macedonia, dove parevano indirizzati (At 16,9-10), ma scenderanno a Sud.

In ogni caso, i discepoli interagiscono sempre da adulti con lo Spirito.

Filippi (At 16,12-40)

Il passaggio di Paolo e compagni a Filippi è fondamentale, per tante ragioni.

Intanto, sarà la comunità che darà a Paolo più soddisfazioni: tra le lettere paoline, l’unica scritta non per rispondere a problemi ma nel pieno del sollievo per le belle notizie che gli sono arrivate, è quella ai Filippesi (Fil 1,3-6), che tra l’altro lo avevano aiutato anche economicamente (Fil 4,15-16).

Poi, è la prima città in cui sappiamo che venga predicato il Vangelo al di fuori dell’Asia, e per di più si tratta di una colonia romana. Decisamente Cristo ha passato anche questa frontiera culturale.

Inoltre, la missione si apre sotto splendidi auspici. Al primo sabato passato in città, infatti, i quattro evangelizzatori cercano il luogo dove potrebbe essersi radunata la comunità ebraica. Come al solito, Paolo vuole annunciare innanzitutto agli Ebrei (At 13,46). A Filippi gli Ebrei però sono pochi e non hanno una sinagoga, quindi si radunano sulle rive di un fiume, per poter procedere alle abluzioni prima e dopo la preghiera. In luoghi del genere era ancora più facile che arrivassero non solo gli Ebrei veri e propri, ma anche dei simpatizzanti che potevano così sentir parlare della Bibbia.

Lidia e le altre donne

Tra questi c’è Lidia (At 16,14). Si tratta di una commerciante di prodotti di pregio, come la porpora che era un colorante preziosissimo. Anche se in realtà può darsi che non si trattasse della porpora ma di tessuti colorati con la porpora, e magari non quella più costosa della Fenicia ma il tipo più economico dell’Asia (prodotta intorno a Tiatira, di cui si dice che Lidia è originaria). Colorante o tessuti, era comunque un commercio di lusso. Lidia non solo si converte e viene battezzata seduta stante, ma «costringe» i missionari a lasciarsi ospitare in casa sua. Potrebbe stupirci tanta autonomia e libertà in una donna dell’antichità, e a ragione. Ma Lidia è una commerciante. Le figlie di commercianti di successo erano tra le poche donne che, se non avevano fratelli e magari non si sposavano (o restavano vedove presto), potevano aspirare a una certa autonomia di movimento ed economica, perché si sarebbero trovate a gestire la ditta di famiglia.

Non erano figure diffusissime, ma neppure troppo rare. Nelle prime comunità paoline troviamo diverse donne del genere, molto indipendenti: Cloe citata in 1 Cor 1,11 doveva probabilmente essere una commerciante come Lidia, e altrettanta importanza avrà Priscilla, moglie di Aquila (la conosceremo al capitolo 18 di Atti). E sarà una donna, Febe, a portare nella capitale dell’impero la delicatissima e complessa lettera di Paolo ai Romani (Rom 16,1-2: in quel tempo, chi portava delle missive doveva anche leggerle e spiegarle: evidentemente Febe non era una sprovveduta e l’autore se ne fidava). Anche se Paolo viene accusato di misoginia per un paio di passi delle sue lettere sicuramente mal riusciti, nelle sue comunità le donne godevano di importanza e rispetto. Poteva essere anche questo uno dei motivi dell’attrazione che il cristianesimo esercitava su persone che sapevano di valere molto, ma non erano valorizzate dalla società in cui vivevano.

Frustati per Cristo

A Filippi, poi, succede un episodio significativo. In tutte le città attraversate da Paolo accade qualcosa che respinge altrove gli evangelizzatori. A Filippi il problema è una serva che si riteneva fosse posseduta dallo spirito di Apollo, tanto da pronunciare oracoli che i suoi padroni vendevano. Paolo, mostrando poca pazienza (gli accadrà ancora… la Bibbia sa riconoscere i difetti dei suoi eroi), si stufa di sentirsela profetizzare dietro… e la guarisce. O meglio, per i lettori di Atti si tratta di una guarigione, ma per i padroni della donna è un disastro che pone fine a una fonte di guadagno. Ancora una volta il messaggio cristiano interviene, magari anche solo per noia, a valorizzare l’umano contro l’economico, e a essere perseguitato per questo.

I missionari vengono frustati (non flagellati, la frusta è una pena meno severa) e incarcerati. A liberarli interviene un misterioso terremoto, abbastanza forte da rompere le catene ma non da far crollare la prigione o da essere percepito dai capi della città. Il carceriere, vedendo le celle aperte, se ne dispera, ma poi si accorge che le persone a lui affidate sono ancora lì: l’esito è il battesimo tanto suo quanto della sua famiglia (ancora vita e dignità donate dal messaggio di Cristo).

Al mattino i capi della città, probabilmente convinti di aver dato una lezione sufficiente a vagabondi non pericolosi, vogliono lasciare liberi i discepoli, limitandosi a scacciarli dalla città.

Era una misura abbastanza diffusa per chi era ritenuto inoffensivo ma era stato accusato di qualche disordine ed era forestiero. Paolo ha però quello che sembra uno scatto d’orgoglio: «Sono cittadino romano, non me ne andrò senza le scuse». È la prima volta che sentiamo parlare negli Atti della sua cittadinanza, che gli concedeva molti privilegi, tra cui una protezione giuridica particolare. Coloro che lo hanno fatto frustare iniziano a sudare freddo: era lecito affibbiare una punizione senza processo, ma non a un cittadino romano. E chi avesse inflitto una pena ingiusta doveva subirla uguale. Eccoli allora arrivare al carcere a liberare personalmente, con molte scuse, i quattro discepoli. È davvero solo orgoglio, da parte di Paolo? Probabilmente no. È possibile che la sua scenata riabilitasse pubblicamente anche coloro che avevano creduto al suo annuncio, che non potranno quindi essere perseguitati alla leggera.

Altre tribolazioni

Le persecuzioni, in realtà, non finiscono. A Tessalonica sono alcuni ebrei a sobillare la città, prendendosela con colui che ospita Paolo e compagni (At 17,1-8), i quali sono costretti a ripartire, per Berea, dove fanno altri discepoli pronti anche, opportunamente, a controllare che le prove bibliche portate siano corrette (At 17,11). Quindi Paolo approda ad Atene (At 17,15), la grande capitale della cultura greca, anche se ormai decaduta.

Angelo Fracchia
(15-continua)




Nel segno del Mekong

testo e foto di Piergiorgio Pescali |


Il nuovo Laos

Un’apertura made in China

Vientiane (gennaio 2020, poco prima che il mondo si fermi per la pandemia). Il mercato notturno lungo il Mekong è affollato di turisti che, dopo aver fatto la rituale foto del tramonto sul fiume, si riversano tra le bancarelle spulciando tra magliette, borse, ciabatte e souvenir vari. I ristorantini lavorano a pieno ritmo offrendo piatti locali e internazionali, mentre i motorini sfrecciano fendendo nubi di fumo liberate delle griglie su cui vengono abbrustoliti pesci, cotiche di maiale, polli e salsicce. Sul Quai Fa Ngum, il lungofiume, i centri di massaggi – la maggior parte dei quali (è bene rimarcarlo) non offrono supplementi sessuali – fanno a gara per accaparrarsi i clienti.

La capitale del Laos, relativamente assopita durante il giorno, di notte si trasforma in un formicaio di brulicanti attività, ma rispetto alle città vietnamite, thailandesi e cambogiane, Vientiane rimane, comunque, un grande villaggio di frontiera.

L’isolamento della nazione dovuto alla sua posizione geografica, alla conformazione del territorio e all’esiguità della popolazione ha permesso al Laos di mantenere un fascino particolare nell’immaginario collettivo del viaggiatore. Scenari spettacolari immersi in una natura incontaminata, viaggi lungo i fiumi, minoranze etniche ancora relativamente isolate dall’infezione del turismo di massa e dei tour operator, sono stati per decenni le cornici ideali entro cui si organizzava una vacanza in questo paese del Sud Est asiatico.

Tutto, però, sta per cambiare in un modo così veloce che, probabilmente già nei prossimi anni, il Laos descritto oggi sarà una memoria relegata nei libri e nelle fotografie rimaste nei cassetti o nei nostri computer.

Un monaco passa sul ponte di bambù costruito sul fiume Nam Khan, a Luang Prabang. Foto: Piergiorgio Pescali.

Strade e ferrovie: l’attivismo cinese

Viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare i numerosi cantieri che stanno lavorando a quel progetto colossale voluto dalla Cina inserito in quel fronte di espansione economica denominato One belt, One road, da noi meglio conosciuto come «nuova Via della Seta». L’idea, è noto, è quella di collegare il cuore produttivo cinese con il resto del mondo (Asia, Europa, Africa, America Latina) attraverso la costruzione di una rete di infrastrutture che si diramano principalmente verso Sud e verso Ovest; un piano miliardario (si parla di mille miliardi) che vede la partecipazione di una sessantina di stati, tra cui anche l’Italia. Nonostante l’economia laotiana non sia sviluppata quanto quelle dei vicini, la nazione è entrata nel mirino di Pechino essenzialmente per la sua posizione geografica che la pone come crocevia obbligato sulla linea di passaggio delle grandi arterie di comunicazione tra la Cina, il Mar Cinese meridionale e lo Stretto di Malacca.

I grandi progetti di comunicazione che collegheranno Singapore a Kunming si sviluppano attraverso la costruzione di una superstrada a quattro corsie e di una ferrovia ad alta velocità, la Pan-asiatica, lungo sei paesi (Singapore, Malesia, Thailandia, Laos, Myanmar e Cina). Il tratto laotiano si dipanerà tra Vientiane e Boten per un totale di 414 km di cui il 47% nascosti in settantacinque tunnel. Iniziata nel dicembre 2016, l’intera opera dovrebbe essere terminata (Covid-19 permettendo) a tempo di record nel 2021 (a dicembre 2019 l’80% del tratto era già stato completato), mentre nel 2023 la ferrovia sarà collegata alla rete thailandese attraverso un nuovo ponte in fase di costruzione tra Thanaleng (all’altezza di Vientiane) e Nong Khai, in Thailandia1.

Il programma è tenacemente appoggiato dal governo tramite la figura di Lattanamany Khounnyvong che, oltre ad essere viceministro dei Lavori pubblici e dei Trasporti, occupa anche la posizione di presidente del Comitato di direzione della Laos-China Railway Construction Project, l’azienda statale (30% del governo laotiano e 70% del governo cinese) che sta costruendo la ferrovia e ne gestirà l’operatività.

Mercato di Luang Prabang. Foto: Piergiorgio Pescali.

La popolazione laotiana ha accolto tutto sommato favorevolmente il progetto, non solo perché nella nazione ogni forma di opposizione politica e sociale alle decisioni dell’Assemblea nazionale dominata dal Partito rivoluzionario popolare è ostacolata dal governo, ma anche per il fatto che sarà facilitato lo spostamento di persone e merci garantendo, almeno sulla carta, un miglioramento delle condizioni di vita. Nella novella Thi Pak Chai («Il rifugio del cuore»), lo scrittore Thongbay Photisane descrive bene l’atteggiamento che ho riscontrato nei villaggi toccati dal progetto sinolaotiano: «La notizia dell’arrivo dei lavoratori che costruivano la strada si sparse di bocca in bocca e in ogni casa del villaggio. I più anziani apprezzarono e furono contenti che l’unica strada esistente, ormai da diversi anni polverosa, sporca, fangosa e cosparsa di buche, sarebbe finalmente stata riparata e migliorata».

Del resto, già in questi anni le reti di comunicazione laotiane sono state oggetto di ampi investimenti che si sono favorevolmente ripercossi sull’economia. Le vie, oltre ad essere state potenziate, possono contare su una buona qualità del manto stradale tanto che il 65% dei villaggi ha un accesso carrozzabile per tutto l’anno e solo il 7,9% della popolazione vive in villaggi completamente isolati (nel 2005 era il 21%). I tempi di percorrenza si sono accorciati e anche il parco dei veicoli dei trasporti pubblici è sensibilmente migliorato rendendo i trasferimenti più confortevoli. Solo vent’anni fa, spostarsi da un luogo all’altro del paese era insicuro a causa del banditismo e della guerriglia etnica; agli occidentali veniva sconsigliato di viaggiare in strada da Vientiane a Luang Prabang o nelle aree abitate da minoranze etniche meno presidiate dall’esercito. I mezzi pubblici erano rari e affollati e molti passeggeri erano costretti a spostarsi pigiati all’interno di abitacoli fatiscenti o affrontare il viaggio fermamente aggrappati sui portapacchi posti sul tetto.

È ancora Thongbay Photisane a darci uno spaccato della nuova vita nei villaggi dopo l’arrivo delle strade: «Nel villaggio i lavori per la costruzione della nuova strada continuavano. Da mattina a sera si sentiva il rumore dei trattori, dei camion e delle ruspe. La strada, prima fangosa e piena di buche, divenne liscia e larga come mai prima d’allora. Gli abitanti del villaggio strinsero amicizia con i lavoratori e la strada, in precedenza silenziosa e polverosa, prese nuova vita nel modo più straordinario. La sera i lavoratori si riunivano e si rilassavano mangiando e bevendo la tradizionale bevanda alcolica laotiana. Le ragazze, che prima d’allora non si erano mai truccate, iniziarono a farsi belle dipingendo le loro labbra con rossetti».

È al di fuori del confini del Laos, invece, che il programma di sviluppo delle infrastrutture dei trasporti incontra una maggiore opposizione.

Per finanziare il progetto ferroviario, che costerà 6,7 miliardi di dollari, Vientiane ha dovuto chiedere un prestito di 480 milioni di dollari (2,8% del Pil) alla Eximbank cinese destando la preoccupazione degli istituti finanziari internazionali per l’aumento del debito pubblico, oggi pari al 65% del Pil.

Il governo è, inoltre, accusato di aver costretto 4.400 famiglie di 167 villaggi ad abbandonare le loro case confiscando 3.830 ettari di terreno, superiori alle reali esigenze richieste per la costruzione delle infrastrutture2 e contribuendo alla deforestazione del paese (se nel 1940 la superficie forestale del paese era il 70% del totale, e nel 1995 il 47%, oggi è solo il 40%)3. Lattanamany Khounnyvong ha dichiarato che gli appezzamenti espropriati saranno risarciti, ma i proprietari lamentano che i rimborsi ottenuti, 595-715 Usd (dollari Usa) per ettaro, sono di gran lunga inferiori al prezzo di mercato, valutato attorno ai 1.420 Usd4.

Tramonto sul Mekong a Champasak. Foto: Piergiorgio Pescali.

Turismo, tra idealismo e devastazione

Poi ci sono i turisti che, dai finestrini dei bus con l’aria condizionata, osservano perplessi l’avanzare dei lavori temendo che sia sfregiata quella parte di mondo che invece vorrebbero mantenere intatta per portare a casa selfie con gente rigorosamente vestita in abiti tradizionali. Mantenere il Laos, al pari di qualunque altra realtà classificata come «esotica», immutabile come un dipinto naïf e idolatrare modi di vita di popolazioni indigene è una costante presente in molte realtà del turismo sui generis.

Sono tanti gli occidentali imbevuti di un ecologismo new age che idealizzano le comunità etniche elevandole a modello di sviluppo alternativo da seguire per vivere in simbiosi con l’ambiente. Poco importa se, nella realtà, la maggioranza di queste comunità vede la natura in una doppia valenza, foriera di vita e di morte. Ben lontano dalle loro menti è il concetto proprio delle società industrializzate che identifica la natura unicamente come una «madre benigna». Quando si deve lottare ogni giorno per sopravvivere non si ha il tempo, la voglia e la forza di rispettare qualcosa che si ritiene, nel migliore dei casi, indifferente al futuro e al benessere della propria famiglia e della comunità.

Viaggiando in Laos tra queste popolazioni e con i mezzi locali è chiaramente visibile la mancanza di un concetto di rispetto dell’ecosistema secondo la nostra concezione occidentale. Dai finestrini dei bus, dalle barche che solcano i fiumi o dalle verande delle case in cui abitano queste popolazioni, viene gettato nell’ambiente di tutto: sacchetti di plastica, bottiglie di vetro, abiti consunti, copertoni, carcasse di moto, auto o addirittura tuc-tuc o minibus. Strade e fiumi sono costellati di rifiuti. E sono ancora queste popolazioni che cacciano o aiutano i bracconieri a stanare e uccidere animali le cui parti anatomiche sono ritenute miracolose per la medicina tradizionale. Insomma, l’idealismo proprio di alcuni movimenti primitivisti cozza violentemente contro una realtà ben differente da quella ingenuamente proposta.

Mercato a Luang Prabang. Foto di: Piergiorgio Pescali.

Vang Vieng è forse l’esempio più eclatante di questa doppia visione. Fino al 2012 era una cittadina devastata dal turismo giovanile: centinaia di migliaia di ragazzi muniti di zaino si riversavano nel villaggio facendo uso di stupefacenti e alcool per poi ridiscendere il fiume Nam Song a bordo di camere d’aria, tuffarsi nelle acque del fiume, lanciarsi lungo le zip-lines (speciali teleferiche a scopo ludico, ndr). I bar mettevano a disposizione le droghe più varie: da funghi allucinogeni all’oppio, dalle metamfetamine alla marijuana che, mescolate alla grande quantità di liquori offerti, formavano pericolosi cocktails.

La popolazione della cittadina non ne poteva più: il turismo e la presenza di questi backpackers, dopo aver distrutto la tranquillità e l’armonia sociale metteva a rischio lo stesso ecosistema. I rifiuti non si riuscivano a smaltire, i campi erano cosparsi di bottiglie, sacchetti di plastica, vestiti, cartacce. Il sistema sanitario locale era al collasso e il piccolo ospedale lavorava solo per salvare turisti in stato di coma alcolico, in overdose o che si erano feriti durante le loro bravate. Nei periodi di alta stagione le strutture ospedaliere dovevano curare tra i cinque e dieci turisti al giorno.

Nell’agosto 2012 le autorità laotiane decisero finalmente di dare un taglio a tutto questo: furono chiusi i bar più problematici e imposero direttive più stringenti per regolare la vita notturna ed escursionistica. Le zip-line più pericolose, quelle non in regola e i trampolini lungo il fiume vennero distrutti. Il tutto però sembra non sia bastato: ancora oggi ci sono siti5, che danno indicazioni su come sfruttare il turismo sessuale specificando in quali bar è possibile comprare droga.

Al mercato di Phonsavan. Foto: Piergiorgio Pescali.

Governo e Ong impegnati nello sviluppo

Al tempo stesso, però, c’è un’altra fetta, seppur minoritaria, di occidentali che prestano opera di volontariato per avviare programmi di sviluppo rurale. Uno di questi è Sae Lao6, un progetto fondato nel 2008 da Sengkeo Frichitthavong che cerca di aiutare la sostenibilità sociale e ambientale della zona di Vang Vieng, mentre un altro è l’Eefa (Equal education for all), progetto di una Ong che ha permesso a cinquecento ragazzi laotiani di frequentare classi di lingua inglese e ha avviato programmi di igiene dentale7.

In tutto il Laos diverse Ong lavorano per aiutare piccole comunità, ma non è un compito facile: il governo vuole avere sotto stretto controllo ogni attività connessa con enti stranieri e ogni visita ai luoghi dove operano le diverse organizzazioni deve essere approvata attraverso un lungo ed estenuante iter burocratico. È comunque anche grazie a questa cooperazione e a un’oculata selezione delle agenzie interessate a interventi nel paese, che l’«indice di sviluppo umano» è salito da 0,399 nel 1990 a 0,604 nel 20198.

Chiesa cattolica a Paksè. Foto: Piergiorgio Pescali.

Un indicatore ancora basso (secondo l’Onu il Laos si pone al 140° posto nella classifica mondiale), ma i successi della politica adottata dai governi succedutisi alla guida del paese dal 1975 a oggi sono evidenti. Tra il 1992 e il 2013 la fetta di laotiani sotto la linea di povertà è dimezzata passando dal 46 al 23,2% della popolazione9 e oggi l’economia è la tredicesima al mondo come ritmo di crescita10. Siamo comunque lontani dallo sradicamento di povertà e malnutrizione: il traguardo di un Pil che raggiungesse i 3.100 dollari pro capite prospettato qualche anno orsono, si è rivelato irraggiungibile. Secondo il computo della Banca mondiale, nel 2018 ogni laotiano contribuiva per 2.460 dollari alla ricchezza nazionale11. Inoltre, il benessere è estremamente segmentato sulla base di una rigida frammentazione etnica: due terzi di quella fetta di popolazione che sta sotto il livello di povertà appartengono alle minoranze nazionali e, tra queste, Mon-Khmer e Hmong sono le più colpite.

Come spesso accade nei paesi in via di sviluppo in questa parte del mondo, l’industria tessile è la calamita con cui si cercano di attirare investimenti stranieri: un centinaio di aziende, concentrate principalmente a Vientiane e Savannakhet, occupano circa trentamila persone, la maggioranza delle quali ragazze sotto i 25 anni12. Le condizioni di lavoro a cui esse sono sottoposte non raggiungono le devastanti realtà cambogiane e, a differenza di quanto accade nel vicino paese, un recente rapporto dell’International labour office (Ilo) delle Nazioni unite afferma che si sta assistendo a un lento, ma costante miglioramento nel trattamento all’interno dei reparti produttivi13. Insomma, contrariamente al liberismo economico selvaggio scelto dalla Cambogia, qui in Laos la presenza dello stato sembra farsi sentire.

Monaci a Ban Huay Xay aspettano di attraversare il confine verso la Thailandia. Foto: Piergiorgio Pescali.

La spinta e i costi delle dighe

Il motore principale con cui il presidente Bounnhang Vorachit vuole trainare l’economia nei prossimi decenni è quello energetico. Il Laos, assieme a Myanmar, Thailandia, Cambogia e Vietnam fa parte del basso bacino del Mekong14, un’area ricca di oro, metano, piombo, zinco, fosfato, potassio, gas, pietre preziose e abitata da sessantacinque milioni di persone, l’80% delle quali vive nelle campagne15.

Il territorio laotiano è una potenziale fonte di enorme ricchezza, soprattutto di energia idroelettrica. I milleottocento chilometri del Mekong che scorrono entro e lungo i confini del paese e le decine di altri affluenti potrebbero liberare milioni di watt di energia, un tesoro immenso che viene sempre più sfruttato in nome di uno sviluppo nazionale.

Secondo uno studio della Mekong River Commission16, nel 2020 lo sviluppo degli impianti idroelettrici sul fiume Mekong porterà alle casse dell’economia laotiana 21,1 miliardi di dollari che saliranno a 36,0 miliardi nel 204017,18. Queste cifre, però, non includono i costi che la nazione dovrà sostenere per fronteggiare i danni all’ambiente e alle microeconomie derivati da questa politica.

Lo sviluppo delle stazioni idroelettriche sta causando la veloce erosione degli argini dovuti sia alle innumerevoli cave, più o meno abusive, che sorgono lungo il corso dei fiumi, sia all’aumento dei sedimenti che, trattenuti dalle dighe, non riescono a scendere a valle. All’altezza di Pakse, nel Laos meridionale, i sedimenti portati a valle dal Mekong sono scesi da una media di 147 tonnellate per anno alle attuali 6619. Per fronteggiare il problema, il paese dovrà intervenire con progetti che, nel solo 2020, costeranno 228 milioni di dollari per salire a 990 milioni nel 204020. Il problema emerge in tutta la sua drammatica evidenza viaggiando lungo le vie idriche ancora percorribili dai battelli e dalle barche pubbliche o private21. I nuovi cantieri, per lo più cinesi, che innalzano dighe e centrali idroelettriche, sollevano le proteste di molti abitanti contro la dissennata politica del governo. La costruzione di sbarramenti idrici influisce pesantemente sulla vita quotidiana dei laotiani, e le tradizionali vie fluviali, solcate ogni giorno da centinaia di imbarcazioni, sono ormai interrotte o costringono ad allungare i tempi di trasferimento per aggirare gli sbarramenti. Decine di migliaia di contadini e pescatori sono stati costretti ad abbandonare i villaggi inondati dai bacini artificiali.

Cercatori d’oro – donne e bambini – lungo il Mekong. Foto: Piergiorgio Pescali.

Sono proprio le microeconomie che si sviluppano attorno alle dighe quelle che subiranno i danni maggiori. Il governo ha affermato che il 70,8% dell’energia prodotta in Laos viene esportata22, diretta per il 44% alla Thailandia, il 10% in Cambogia e il 15% in Vietnam23. I proventi di tale operazione non andranno però a beneficiare le comunità interessate e i danni economici e ambientali saranno immensi, specialmente nel lungo periodo.

La maggioranza della popolazione che vive lungo il bacino del Mekong è impiegata nell’agricoltura, in particolare nella coltivazione del riso24. I funzionari governativi, nel tentativo di rassicurare la popolazione che imbrigliare le acque dei fiumi consentirà di regolare piene e siccità stagionali così da avere più sicurezza nei raccolti e aumentare la produzione, si sono «dimenticati» di aggiungere che, a lungo andare, il suolo rischierà di inaridirsi a causa della mancanza di ricambio naturale dei sedimenti. Tra il 2007 e il 2020 il gettito dell’agricoltura sull’economia laotiana è aumentato del 7,5% (45,7 miliardi Usd nel 2020 contro i 42,5 nel 2007), molto meno rispetto a quello cambogiano e vietnamita nello stesso periodo (rispettivamente +105% e +21,2%)25.

Anche l’industria ittica, la seconda fonte di approvvigionamento alimentare ed economico delle popolazioni rivierasche, è in pericolo a causa delle chiuse. Il gettito economico di questa attività si è dimezzato rispetto al 2007, scendendo da 8,3 miliardi di dollari ai 4,7 attuali26. Le ditte costruttrici delle dighe non hanno approntato sistemi che consentano alla fauna di passare da un tratto all’altro dei fiumi interessati dagli sbarramenti, isolandone i diversi corsi e aumentando così il rischio di estinzione. L’intera popolazione degli ottantacinque delfini dell’Irrawaddy (Orcaella brevirostris) nell’arcipelago fluviale di Si Phan Don è minacciata dalla costruzione della diga di Don Sahong27, a un chilometro e mezzo dal confine cambogiano. Entro il 2040 la quantità di pesce nel Mekong diminuirà del 50% in Laos e questo, oltre a essere un problema economico per molte famiglie, aggraverà la malnutrizione visto che il pesce è il principale alimento che garantisce un’apporto proteico alle popolazioni insediatesi lungo i fiumi laotiani.

Infine, vi è anche un problema di sicurezza, di cui numerose agenzie internazionali da tempo hanno avvertito il governo centrale, senza successo. Il disastro di Xe Pian-Xe Namnoy, nella provincia di Champasak è stato solo il più grave (e neppure l’ultimo) di una serie di incidenti succedutisi negli anni. Il 23 luglio 2018 una delle otto dighe del complesso, formato da tre dighe principali e altre cinque ausiliarie che avrebbero plasmato un bacino artificiale alto 73 metri e lungo 1.600 metri, è crollata riversando migliaia di metri cubi di acqua su diciannove villaggi, uccidendo settantuno persone e colpendo anche quindicimila cambogiani della provincia di Stung Treng. Cinquemila persone vivono ancora in campi temporanei e il governo di Vientiane ha già avvisato che occorreranno almeno quattro o cinque anni prima che si possa trovare loro una sistemazione definitiva. Nel frattempo, alle famiglie delle settantuno vittime è stato dato un indennizzo una tantum di diecimila dollari e una fornitura di venti chilogrammi di riso al mese; a tutti gli altri, oltre alle derrate alimentari, vengono consegnati 60-75 dollari mensili28.

Costruzione di un ponte ferroviario sul Mekong. Il ponte fa parte della ferrovia che da Singapore giungerà a Kunming, in Cina, attraversando il Laos. Foto: Piergiorgio Pescali.

Le responsabilità dell’accaduto vengono rimpallate da una parte all’altra. L’impianto di Xe Pian-Xe Namnoy, data la sua complessità e l’elevato costo (1,02 miliardi di dollari), è stato costruito da una cordata di imprese: le sudcoreane SK Engineering & Construction (azionaria al 26%), la Korea Western Power (azionaria al 25%), la thailandese Ratchaburi Electricity Generating Holding (azionaria al 25%) e la laotiana Lao State Holding Enterprise (azionaria al 24%).

La commissione indipendente incaricata dal governo di far luce sul motivo dell’incidente ha concluso che il crollo è stato dovuto a un difetto di costruzione29, ma le aziende coinvolte ed appoggiate dalle quattro banche thailandesi finanziatrici del progetto30, hanno rigettato l’argomentazione finale riuscendo a riprendere i lavori e a concluderli alla fine del 2019.

Di fronte a tali situazioni l’atteggiamento del governo è decisamente ambiguo: al World Economic Forum of Asean, tenutosi nel settembre 2018, il primo ministro laotiano Thongloun Sisoulith, dopo aver affermato che il «Laos non potrà diventare la batteria dell’Asia perché la nostra capacità di sviluppo energetico è molto limitata rispetto alla richiesta dei paesi Asean nostri vicini», ha subito dopo specificato che la nazione «ha la capacità di aumentare il suo potenziale in termini di risorse idriche. Possiamo produrre una quantità di energia sufficiente per il Laos e che può essere esportata nei paesi limitrofi»31.

In linea con questo schema, la mappa delle centrali idroelettriche già presenti o programmate sui fiumi laotiani è impressionante: nel 2005 c’erano undici dighe con nove stazioni idroelettriche per una capacità installata di 679 megawatt32, nel 2015 la capacità aveva raggiunto i 3.894 MW33.  Nel maggio 2019 sessantatré stazioni idroelettriche fornivano 7.213 MW; altre 112 centrali erano in costruzione. A queste entro il 2040 se ne dovrebbero aggiungere 340, con un totale produttivo di 19.494 MW34.

L’alternativa, secondo il governo di Vientiane, è un ritorno al carbone più di quanto stia facendo oggi. Nel 2015 è entrata in funzione la centrale di Hongsa che ha quadruplicato la produzione di energia elettrica da carbone (da 1.055 chilotonnellate nel 2013 a 4.793 nel 2015)35.

Oggi l’energia prodotta dal paese è per il 14,9% derivata dal carbone e per l’85,1% dalle centrali idroelettriche, ma nel 2040 il divario diminuirà in un rapporto di 22 a 8836.

A Phonsavan, comunismo e capitalismo camminano insieme. Foto: Piergiorgio Pescali.

Il nuovo «Triangolo d’oro»

Ridiscendere i fiumi laotiani non è solo un modo per accorgersi dei cambiamenti che andranno ad influire sulla vita di sette milioni di persone, ma anche fare un tuffo nel passato. Sebbene oggi si usino ben altri canali, il Mekong è stato per decenni il punto di transito della droga proveniente dal leggendario «Triangolo d’oro». Oggi questa regione è più un retaggio per turisti, un punto geografico che riunisce in un unico vertice tre paesi: Thailandia, Laos e Myanmar. Il Laos ha creato una zona a economia speciale nella speranza di attirare miliardari cinesi con la costruzione di un casino e di alcuni hotel che si affacciano sul Mekong. Le uniche monete accettate, oltre ai dollari, sono il bath e lo yuan. I campi di oppio sono scomparsi da decenni spostandosi verso l’interno oppure, più semplicemente, sostituiti da fabbriche di metamfetamine, più facili da mimetizzare, preparare e da smerciare. Secondo un rapporto dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime) tra il 2013 e il 2018 la quantità d’oppio prodotta dal Myanmar si è ridotta del 40%, ma al tempo stesso sono aumentati i laboratori di produzione chimica artificiale di stupefacenti37.

Nei soli due mesi di febbraio e marzo 2018 nello stato Shan del Myanmar sono stati scoperti e distrutti sei laboratori di produzione di droghe sintetiche38, mentre nel 2018 in Asia Orientale e nel Sudest asiatico sono state sequestrate 116 tonnellate di metamfetamine, in aumento rispetto alle 82 tonnellate confiscate l’anno precedente39.

Il Laos è diventato terra di transito non solo delle droghe sintetiche dirette per la maggior parte verso la Thailandia, ma anche di prodotti usati per la sintesi di metamfetamine nei laboratori del Myanmar e della Cina e per il loro smercio. Efedrina, pseudoefedrina, 1-fenil-2-propanone (P-2-P) sono i reagenti più comunemente usati dai produttori. Dato che risulta sempre più difficile commerciare queste merci, i boss della droga hanno iniziato a produrle direttamente in Laos partendo da prodotti sino ad oggi non sorvegliati dalle squadre antidroga, come il 2-bromo-1-fenil-1-propanone (2-bromopropiofenone) o cianuro di sodio (NaCN).

Le metamfetamine stanno soppiantando le altre droghe: una pastiglia in Laos viene venduta sul mercato a due dollari. Non proprio conveniente, ma sicuramente meno costosa rispetto all’eroina (24 dollari al grammo). I sequestri di metamfetamine, dopo aver avuto un minimo storico nel 2016 (meno di tre milioni di pastiglie sequestrate), nel 2018 hanno raggiunto il massimo con 21 milioni di pillole intercettate40.

Battelli lungo il Mekong tra Ban Huay Xai e Luang Prabang. Foto: Piergiorgio Pescali.

L’oppio e la guerra del Vietnam

Il commercio di droga nell’area del Sudest asiatico è un’attività storicamente utilizzata nel bilancio economico delle popolazioni locali. Fino agli anni Sessanta la coltivazione dell’oppio era limitata al solo consumo interno, ma l’avvento al potere di Mao Zedong nel 1949 rivoluzionò involontariamente per sempre questo equilibrio. I ribelli del Kuomintang si rifugiarono in Birmania (oggi Myanmar) e, per finanziare la loro rivolta contro i comunisti, iniziarono a coltivare oppio aiutati dalla Cia. Il commercio si rivelò così redditizio che i servizi segreti statunitensi continuarono a incentivare la coltivazione sia nel Triangolo d’oro, ma soprattutto tra le popolazioni Hmong del Laos41.

Ben presto queste minoranze e la loro abilità nel lavorare il papavero da cui si ricavava l’oppio divennero una colonna portante nella guerra contro il Vietnam. Tra il 1964 e il 1973 l’Us Air Force condusse una serie di incursioni aeree, tenute segrete al Congresso, in appoggio al governo monarchico e in opposizione al Pathet Lao, il movimento di guerriglia di ispirazione socialista. In meno di dieci anni, un paese formalmente neutrale come il Laos fu squassato da 270 milioni di bombe lanciate durante l’arco di 580mila missioni42. Queste bombe lasciano ancora oggi un segno nella società laotiana, ma pochi se ne accorgono. Sembra quasi che il Laos non sia stato scalfito dalla storia che ha plasmato l’ex Indocina. Una storia drammatica, ma al tempo stesso affascinante perché fatta non solo di eccidi, guerre, colonialismo, ma anche di popoli che hanno saputo tenere testa a potenze mondiali politicamente e militarmente soverchianti. Chi va in Cambogia sarà avvolto dai ricordi e dalle testimonianze del periodo di Kampuchea Democratica; chi cammina in Vietnam troverà ovunque memorie della guerra che, fino al 1975, ha sconvolto il paese. Chi arriva in Laos, invece, non ha la sensazione di respirare il passato più recente, nonostante il paese sia stato pesantemente coinvolto nella guerra del Sudest asiatico sin dal 1964. Sembra che la storia, qui sia stata dimenticata.

I turisti passeggiano allegramente lungo le vie delle cittadine e dei villaggi, quasi non accorgendosi delle innumerevoli bandiere con la falce e martello che ricordano di essere, pur sempre, in un paese retto da un governo socialista.

Per percepire la storia del Laos bisogna abbandonare le tradizionali vie del turismo, deviando dalle rotte principali, e cercare nelle periferie delle città o nei villaggi più isolati. È allora che si incrociano le vicende più atroci, quelle fatte di bombardamenti segreti, di mine ancora inesplose che continuano a mietere vittime, di fabbriche di protesi, di sminatori che per 240 dollari al mese rischiano ogni giorno la loro vita.

Consiglio sempre a chi si reca in Laos, di visitare la Piana delle Giare prendendo, in partenza o in arrivo, un volo aereo. È dall’alto che si ha la chiara visione di cosa abbia significato, per questa nazione essere stata costantemente martellata da bombardamenti. La provincia di Xiangkhoang è una delle aree più colpite dalle incursioni e i crateri sono ancora ben visibili nella conformazione del territorio nonostante siano passati ormai quasi cinquant’anni dalla fine delle ostilità.

Un cartello indica il pericolo di esplosione sul luogo dove è stata identificata la presenza di un Uxo (un ordigno bellico inesploso) nella regione di Xiangkhouang. Foto di: Piergiorgio Pescali.

I pericolosi «ricordini» della guerra

Se il Vietnam ha ereditato il dramma dell’agente arancio e la Cambogia quello delle mine, il Laos sta ancora lottando contro gli ordigni che, raggiungendo inesplosi il terreno, oggi costituiscono un pericolo per la vita di migliaia di persone. Si stima che il 30% delle bombe lanciate durante le missioni aeree non abbia detonato; il che significa che il terreno, alla fine della guerra, era cosparso da almeno 80 milioni di ordigni pronti ad esplodere.

La situazione oggi non è molto più rosea: il governo laotiano ha valutato che 8.470 chilometri quadrati di superficie del paese sarebbero contaminati da bombe a grappolo (Cluster munition remnamnts, Cmr) e 87.000 da Uxo (Unexploded ordnance)43,44, ma solo nel 2021, al termine di un lavoro di ricerca che sta effettuando il Mag (Mines advisory group), si saprà nel dettaglio quanta superficie di territorio laotiano sia ancora contaminata. A oggi, meno dell’1% delle munizioni sono state distrutte. Gli ordigni causano danni non solo all’economia del paese, ma dissestano anche la pace e la convivenza sociale. Ampie aree agricole non possono essere coltivate a causa della probabile presenza di Uxo, quindi i contadini si trovano a dover dividere terreni con conseguenti discussioni e diatribe. Inoltre, vivere con la costante paura di incappare in una bomba inesplosa innalza la tensione sociale.

La bonifica del territorio è costosa e richiede sforzi immani sia da parte del governo laotiano che da parte della popolazione. Gli Stati Uniti, principali responsabili di questa devastazione, dal 1995 al 2016 hanno donato un totale di 169 milioni di dollari per programmi di bonifica e attività correlate45 a cui si sono aggiunti 90 milioni di dollari promessi da Obama durante la sua visita effettuata nel 201646. L’allora presidente Usa era stato particolarmente colpito dalla situazione laotiana affermando che «in nove anni, tra il 1964 e il 1973, gli Stati Uniti hanno lanciato più di due milioni di tonnellate di bombe sul Laos, più di quanto ne abbiamo lanciate su Germania e Giappone assieme nella Seconda guerra mondiale. Questo ha reso il Laos il paese più bombardato nella storia. Penso quindi che gli Stati Uniti hanno un obbligo morale nell’aiutare il Laos a guarire»47.

Tremila operatori suddivisi in nove organizzazioni internazionali e due battaglioni dell’esercito laotiano lavorano nel campo della bonifica del territorio e nei programmi di prevenzione e cura traumatica della popolazione48.

Questua mattutina dei monaci buddhisti a Ban Huay Xay. Foto: Piergiorgio Pescali.

La minaccia degli Uxo è data dal fatto che ognuno di essi ha un grado di pericolosità differente dovuto non solo al tipo e alla quantità di esplosivo contenuto (ci sono 186 diversi tipologie di Uxo in Laos)49, ma anche al grado di corrosione, alla profondità in cui si trovano nel terreno, alla condizione del dispositivo di innesco. Basta accendere un fuoco affinché un ordigno posto a meno di venticinque centimetri di profondità possa detonare50. È quindi indispensabile, oltre al lavoro di ricerca e disinnesco, programmare un’intensa opera di informazione presso scuole, villaggi, centri di aggregazione sociale. Nel 2012 Vientiane ha avviato Safe path forward 2 (Avanzamento del cammino di sicurezza 2), un programma che terminerà nel 2022 e che ha come obiettivo quello di ridurre le vittime (morti e feriti) da 300 a 75 mediante la bonifica di 200 chilometri quadrati di territorio all’anno51. Grazie a queste campagne e alla bonifica di terreni, gli incidenti e i morti avvenuti nel Laos tra il 2008 e il 2018 a causa degli Uxo è drasticamente diminuito passando da 302 vittime (di cui 99 morti) nel 2008 a 24 (di cui 3 morti) nel 201852.

Tutto questo, però ha un costo enorme: contro una stima di circa 50 milioni di dollari all’anno per bonificare la nazione, assistere e curare le vittime, garantire loro la sopravvivenza, il governo laotiano ne fornisce 15 milioni, contando per il rimanente sugli aiuti internazionali i quali, oltre che dagli Stati Uniti, arrivano da Irlanda, Unione Europea, Nuova Zelanda, Lussemburgo, Canada, Corea del Sud53.

La guerra, nel Sudest asiatico, non è ancora finita.

Piergiorgio Pescali

Questua mattutina a Ban Huay Xay. I monaci ringraziano un istituto bancario che ha donato soldi al locale monastero. Foto: Piergiorgio Pescali.


Note al testo

  • (1) https://laotiantimes.com/2017/02/20/everything-you-need-to-know-laos-china-railway/
  • (2) http://www.asianews.eu/content/compensation-payments-laos-china-railway-slated-completion-2019-85946
  • (3) World Bank Group, Lao People’s Democratic Republic Systematic Country Diagnostic, Priorities for Ending Poverty and Boosting Shared Prosperity – Capitolo 2. The nature of Lao Pdr’s growth and its constraints, pag. 11, 9 marzo 2017.
  • (4) Radio Free Asia, Families in Oudomxay province first to receive compensation from Lao-China Railway, 14 maggio 2018.
  • (5) https://adventureprime.com/vang-vieng-vice-guide-nightlife-drugs-girls/#Drugs
  • (6) https://www.saelaoproject.com/
  • (7) http://www.eefalaos.org/
  • (8) Human Development Report 2019, Inequalities in Human Development in the 21st Century – Lao People’s Democratic Republic, Capitolo 2 – Human Development Index (HDI) § 2.1 Lao People’s Democratic Republic’s HDI value and rank, pag. 3.
  • (9) World Bank Group, Lao People’s Democratic Republic Systematic Country Diagnostic, Priorities for Ending Poverty and Boosting Shared Prosperity – Capitolo 1, Country context, Box 1: MDG attainment and LDC graduation criteria, pag. 2, 9 marzo 2017.
  • (10) ibidem, Executive summary, pag. I, 9 marzo 2017.
  • (11) https://www.worldbank.org/en/country/lao/overview
  • (12) https://www.ilo.org/asia/media-centre/news/WCMS_358225/lang–en/index.htm
  • (13) International Labour Office (ILO), Improving the garment sector in Lao PDR: Compliance through inspection and dialogue – Independent final evaluation, giugno 2017.
  • (14) Il corso del Mekong è stato diviso in due bacini: l’Alto e il Basso bacino che complessivamente occupano una regione di 795mila chilometri quadrati. L’Alto bacino è l’area del fiume che scorre solo in territorio cinese per 1.995 km in tre diverse regioni: Tibet, i Tre Fiumi e il Bacino di Lancang e occupa il 25% dell’intero bacino.
  • (15) Jorge Soutullo, The Mekong River: geopolitics over development, hydropower and the environment, Capitolo 4 – Geographical relevance and natural resources of the Mekong River, European Parliament – Policy Department for External Relations, Novembre 2019, pag. 18.
  • (16) La Mekong River Commission (Commissione sul fiume Mekong) è un organismo transnazionale che comprende i governi di Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam per coordinare e promuovere uno sviluppo sostenibile del Mekong.
  • (17) Mekong River Commission, The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 21.
  • (18) Secondo la stessa ricerca, in Thailandia lo sviluppo sarà di 28,7 nel 2020 e di 81,1 nel 2040; in Cambogia di 6,6 miliardi USD nel 2020 e di 12,0 nel 2040; in Vietnam di 16,0 miliardi USD nel 2020 e di 31,7 nel 2040.
  • (19) Mekong River Commission, Integrated Water Resources Management-based – Basin Development Strategy 2016-2020 for the Lower Mekong Basin, Capitolo 2 – Development trends and long-termoutlook, §2.3 – Economic, social and environmental trends and outlook, pag. 30.
  • (20) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7 – Main scenario impact assessment results, § Cross-sector comparison, 26 dicembre 2017, pag. 25.

Venditrice di alimentari sul bus da Muang Khua a Oudom Xay. Foto: Piergiorgio Pescali.

  • (21) A causa delle dighe numerose tratte fluviali oggi non sono più coperte dai barconi.
  • (22) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Statistics 2018, ERIA Research Project Report 2018, Maggio 2018, Capitolo 2 – Energy Balance Table § Electricity, n. 19, Febbraio 2020, pag. 31.
  • (23) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 21.
  • (24) Il 15% del riso prodotto nel mondo proviene dal bacino del basso Mekong.
  • (25) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 23.
  • (26) Ibidem, pag. 22.
  • (27) La diga di Don Sahong è costruita dalla malese MegaFirst in joint venture con il governo laotiano.
  • (28) Pratch Rujivanarom, Special Report: Compensation talks begin for dam disaster victims, The Nation, 18 February 2019.
  • (29) Vientiane Times, Investigators: Dam collapse not a «force majeure» event, 29 May 2019.
  • (30) Le banche, tutte thailandesi, sono la Krung Thai Bank, l’Ayudhya Bank, la Thanachart Bank e la Export-Import Bank of Thailand.
  • (31) https://laotiantimes.com/2018/09/13/laos-pm-thongloun-confirms-hydropower-generation-policy/
  • (32) Lao News Agency, Laos Expects to Have100 Hydropower Plants by 2020, 6 Luglio 2017.
  • (33) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Outlook 2020, ERIA Research Project Report 2018 – Capitolo 1 – Introduction §1.2 Energy Supply – Demand Situation No 19, Febbraio 2020, pag. 3.
  • (34) Songxay Sengdara, Govt. hydro developers pave way for safe dam management, Vientiane Times, 19 June 2019.
  • (35) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Statistics 2018, ERIA Research Project Report 2018, Capitolo 1 – Primary Energy Data § Coal, Maggio 2018, pag. 2.
  • (36) ibidem, Capitolo 5 – Model Assumptions §5.3 Electricity Generation Technologies, No 19, Febbraio 2020, pag. 54.
  • (37) United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc), Synthetic Drugs in East and South-East Asia – Trends and Patterns od Amphetamine-type Stimulants and New Psychoactive Substances, § Regional trends: East and South-East Asia, Marzo 2019, pag. 3.

La biglietteria del battello pubblico da Nong Khiaw a Muang Khua. Foto: Piergiorgio Pescali.

  • (38) Central Committee for Drug Abuse Control (Myanmar) – CCDAC, Synthetic drug situation in Myanmar, rapporto al Global SMART Programme Regional Workshop, Chiang Rai, Thailandia, Agosto 2018.
  • (39) Ibidem, Synthetic Drugs in East and South-East Asia – Trends and Patterns od Amphetamine-type Stimulants and New Psychoactive Substances, § Regional trends: East and South-East Asia, Marzo 2019, pag. 1.
  • (40) Lao National Commission for Drugs Control and Supervision (Lcdc), Report of illicit drug seizures for 2018 and corresponding reports from previous years.
  • (41) «Triangolo d’oro» è il nome in codice dato dalla Cia alla regione a cavallo tra Thailandia, Birmania (oggi Myanmar) e Laos dove era concentrata la coltivazione e la produzione di oppio.
  • (42) Legacies of War, Unexploded Ordnance (UXO) in Laos: Background and Recommendation, pag. 1.
  • (43) Phoukhieo Chanthasomboune, Direttore del National Regulatory Authority, CCM intersessional meetings (Clearance and Risk Reduction session), Ginevra, 7 aprile 2014.
  • (44) Le bombe a grappolo, o CMR, erano lanciate per la loro capacità di penetrare tra il fogliame della giungla ed esplodere lanciando detriti in una vasta area colpendo il maggior numero possibile di nemici.
  • (45) U.S. Department of State, To Walk the Earth in Safety, 17th Edition, 18 dicembre 2018.
  • (46) I finanziamenti Usa sono principalmente diretti alle seguenti organizzazioni: Mines Advisory Group, HALO Trust, Norwegian People’s Aid, World Education, Health Leadership International, Spirit of Soccer, Geneva International Center for Humanitarian Demining, Janus Global Operations.
  • (47) Casa Bianca, Remarks by President Obama to the People of Laos, 6 settembre 2016.
  • (48) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 7.
  • (49) Landmine Action, Explosive remnants of war and mines other than anti-personnel mines, Global Survey 2003-2004, Marzo 2005, pag. 104.
  • (50) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 5.
  • (51) National Regulatory Authority, Safe Path Forward – II, 22 giugno 2012.
  • (52) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 5.
  • (53) Ibidem, pag. 14.

Contadina in una risaia a Don Khon, nelle isole Si Phan Don, sul Mekong. Foto: Piergiorgio Pescali.


Ha firmato questo dossier:

PIERGIORGIO PESCALI
Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

Monaci buddhisti a Huay Xai. Foto: Piergiorgio Pescali.




«Capisco le paure, il dolore, la solitudine»

testo di Giuliana Chiorrini |


Giuliana Chiorrini è la moglie di Carlo Urbani, il medico di Castelplanio (Ancona) morto nel 2003, a 46 anni, a causa del virus Sars-CoV. In queste pagine ricorda quei giorni drammatici e li mette a confronto con quelli di oggi, dominati dalla pandemia del Sars-CoV-2, «fratello» del virus che Carlo aveva individuato e combattuto. Perdendo la battaglia, ma segnando per sempre la strada.

Ricordo che la notizia arrivò in casa, a Castelplanio, a gennaio del 2000. Carlo ci informò che era stato contattato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per seguire un progetto in Vietnam come infettivologo ed epidemiologo.

Accettò il prestigioso incarico divenendo così responsabile dell’Oms per le malattie parassitarie in alcuni paesi del Sudest asiatico: oltre al Vietnam, la Cambogia, il Laos, la Thailandia, la Cina e le Filippine. Nel suo nuovo ruolo Carlo avrebbe dovuto coordinare le numerose agenzie di cooperazione internazionale e i ministeri della Sanità dei vari paesi. Al tempo, io ero incinta per la terza volta. Feci in tempo a partorire Maddalena (il 3 maggio) e a battezzarla. Il 28 luglio del 2000 partimmo per Hanoi, capitale del Vietnam. Per Carlo, per me e per i nostri tre figli – Tommaso, Luca e Maddalena – aveva inizio una nuova esperienza.

Furono due anni ricchi di soddisfazioni. Nonostante le grandi responsabilità che lo trattenevano lunghe giornate in ufficio davanti al computer, o lo impegnavano in viaggi e riunioni internazionali, Carlo era rimasto un medico appassionato del contatto con i malati e, proprio per questo, privilegiava le missioni sul campo, nelle comunità più bisognose. Era contento quando, insieme ad altri colleghi, partiva per qualche missione, rimanendo lontano da Hanoi per giorni o anche per settimane.

Poi, inaspettatamente e in pochi mesi, tutto cambiò. Ad Hanoi, arrivò un virus prima di allora sconosciuto, il Sars-CoV.

Carlo Urbani, amico e collaboratore di MC, all’ospedale pediatrico di Hanoi con un collega vietnamita. Foto: Carlo Scialdone.

Castelplanio, febbraio-maggio 2020. È arrivato un nuovo virus, «fratello» di quello che si è portato via Carlo, ma questa volta non si è fermato in Estremo Oriente: si è diffuso anche in Italia e in tutto il mondo.

Credo che a eventi come questo non si possa mai essere preparati, anche se l’esperienza di 17 anni fa forse – lo dico non da esperta ma da spettatrice – avrebbe dovuto insegnarci qualcosa di più. In queste settimane per me è stato un susseguirsi di ricordi, di sensazioni, di momenti vissuti con paura e angoscia. Nemmeno a farlo apposta, anche il periodo coincide.

Era il 26 febbraio 2003 quando, ad Hanoi, Carlo fu chiamato all’Ospedale francese (una struttura privata di piccole dimensioni, ndr) dove era ricoverato un paziente – un uomo d’affari americano di 48 anni – che aveva una patologia strana, sospetta. Carlo aveva già messo in atto tutte le procedure necessarie e adottato i provvedimenti e le precauzioni indispensabili, nel momento in cui si era reso conto che la situazione cominciava ad aggravarsi (come mostrano i messaggi inviati il 7 marzo 2003 all’Oms in cui descriveva in dettaglio ciò che stava accadendo in ospedale).

Quando lo scorso dicembre sono cominciate ad arrivare notizie dalla Cina di questo strano virus, il mio pensiero non poteva non tornare indietro nel tempo. Quando in televisione ho visto ospedali pieni di pazienti intubati che lottavano tra la vita e la morte, i medici e gli infermieri in prima linea ma spesso impotenti, sono stata invasa da tristezza, paura, angoscia.

Le stesse sensazioni provate 17 anni fa quando vissi l’esperienza in prima persona. Anche le parole sono spesso le stesse: ricordo che Carlo cercava di rassicurarci dicendo che tutto era sotto controllo, diceva che lui stesso era impegnato in prima linea nel tentativo di circoscrivere l’epidemia.

Oggi naturalmente vedo tutto con altri occhi, ma non per questo sono meno coinvolta, perché nelle ansie e nelle paure di persone e famiglie rivivo sensazioni e ricordi che al solo riemergere mi fanno rabbrividire.

Carlo Urbani a Oslo nel 1999 come presidente di «Medici senza frontiere»; in quell’anno all’organizzazione venne assegnato il Premio Nobel per la pace. Foto: archivio AICU.

Ripenso alle giornate frenetiche di Carlo, alle sue preoccupazioni, alle ore, alle notti trascorse in ospedale e negli uffici dell’Oms, per valutare e cercare di risolvere la grave situazione. Lui si era subito reso conto che qualcosa di strano stava accadendo e per questo motivo aveva allertato il sistema sanitario, il ministero della Salute vietnamita, il governo locale e la stessa Oms.

La sera tornava a casa stanco, sfinito e temeva di non riuscire più ad avere la situazione sotto controllo. Ricordo che una sera mi confidò: «Se non si riesce a fare qualcosa, a prendere provvedimenti, sarà una strage tra le persone che si ammaleranno. Sarà come la “spagnola” (l’influenza che fece tra i 50 e i 100 milioni di morti nel mondo tra il 1918 e il 1920, ndr)».

Nel frattempo, organizzava riunioni con l’ambasciatore italiano ad Hanoi, Luigi Solari, nel suo ufficio, con tutto il personale, per aggiornare sulla situazione. Le direttive erano quelle di oggi: stare assolutamente chiusi in casa. Passarono alcuni giorni e dopo essere riusciti a convincere il governo vietnamita a chiudere le frontiere e isolare il paese, l’11 marzo Carlo partì per Bangkok.

Durante il volo si manifestarono però i primi sintomi della malattia: febbre e tosse. Si rese subito conto della gravità della cosa, tanto da avvisare, al suo arrivo all’aeroporto, il personale medico: questo avrebbe dovuto stare distante e accompagnarlo in ospedale con le necessarie precauzioni.

Parlai con Carlo la sera, quando al telefono mi informò che – purtroppo – non stava bene ed era in ospedale.

Ricordo che ero fuori casa e che sentii mancare la terra sotto i piedi. Da quel momento cominciarono i giorni della preoccupazione, della paura e dell’impotenza. Stavo a casa con i miei figli pensando a cosa fare, a come si sarebbe potuta risolvere la situazione; alla salute di Carlo che sentivamo al telefono ogni giorno sempre più provato e affaticato, visto l’aggravarsi della malattia.

Comunque, a dispetto della situazione drammatica, Carlo ci rassicurava sempre. Ci diceva di non essere preoccupati, era sicuro che tutto si sarebbe risolto. I giorni trascorrevano, ma io non riuscivo più ad aspettare, perché, stando ad Hanoi, non potevo rendermi conto con esattezza della sua salute. Ero in contatto con la rappresentante dell’Oms, signora Pascale Brudon, che in quei giorni mi contattava cercando di rasserenarmi. A un certo punto le chiesi però di partire per raggiungere Carlo all’ospedale di Bangkok e, nel contempo, di mandare i miei figli in Italia, dato che essi non potevano vedere Carlo essendo lui in isolamento.

Deciso il piano, non ebbi il tempo di pensare a nulla. Né di salutare i tanti amici che avevamo nella capitale vietnamita e che anche dopo mi sarebbero stati molto vicini. In fretta e furia preparai le valigie mettendo dentro lo stretto necessario. In quel momento non sapevo che non saremmo più ritornati ad Hanoi.

Il solo desiderio era quello di poter vedere Carlo. I ragazzi ed io partimmo il 18 marzo, accompagnati in aeroporto dal personale dell’Oms. Arrivati a Bangkok, i miei figli sarebbero ripartiti il giorno dopo per l’Italia. Ricorderò sempre quel momento: la loro partenza da soli e io che li salutavo, con le lacrime agli occhi. Vedo ancora Tommaso, non ancora sedicenne, che si incammina con Maddalena, quasi tre anni, in braccio che piange, e Luca, tenuto per mano, disperato, che si gira a guardarmi mentre si allontanano. Una scena che rivedo spesso, soprattutto in questo periodo.

Un soldato vietnamita sparge disinfettante all’entrata dell’Ospedale Francese di Hanoi, considerato il focolaio della Sars in Vietnam (17 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.

I momenti successivi purtroppo non li ricordo molto bene. Troppo forti furono il dolore, la paura di non riuscire a farcela da sola. Il pensiero di dover raggiungere l’ospedale e vedere Carlo in brutte condizioni prendeva il sopravvento su tutto. Ma cercavo di farmi coraggio.

Sapevo che dovevo mettercela tutta, che Carlo sarebbe stato fiero di me, visto che mi incitava sempre a fare da sola e a non dipendere ogni volta da lui, come può capitare quando si vive in un paese straniero. I giorni successivi passarono tra l’ospedale e l’albergo dove alloggiavo. Quando andavo in ospedale, accompagnata dal personale dell’Oms di Bangkok, speravo di vedere Carlo migliorare, avere buone notizie dai medici. Purtroppo non era così.

Entravo nella sua stanza completamente protetta, ma la vestizione era sempre angosciante. Scoppiavo a piangere quando non ero sicura di aver eseguito tutte le procedure correttamente: dai calzari doppi, ai guanti, ai doppi camici, alla maschera, che mi faceva mancare l’aria. Ricordo che ero preoccupata di non riuscire a metterla nel modo corretto.

I medici non parlavano la mia lingua né il francese e, quindi, facevo fatica a capirli.

Una volta entrata, spesso chiedevo addirittura a Carlo di aiutarmi a sistemare quella maledetta maschera. Restavo poco tempo, anche perché negli ultimi giorni Carlo era molto affaticato. Si alzava sempre meno e la tosse era persistente. Durante quei giorni non mi fece mai capire la sua preoccupazione, mai mi parlò della paura di morire. Mi ripeteva solo che, piano piano, tutto si sarebbe sistemato. Voleva notizie dei figli, visto che non poteva più nemmeno parlarci. Poteva vederli in foto, che le infermiere avevano attaccato alla parete, su un cartellone. Erano giorni difficili e dolorosi. Poi la situazione peggiorò e i medici decisero di intubarlo. Mi spiegarono che era per farlo soffrire di meno e aiutarlo a superare quel momento. Era giovedì 27 marzo. Carlo era sedato e non si rendeva più conto di nulla.

Negli ultimi giorni della sua vita ebbi la fortuna di essergli al fianco, quando ancora riusciva a parlare, a collaborare con i medici. Ricordo che una volta lui chiese un bloc notes e una penna per scrivere alcune cose: consigli per i medici che erano in visita dentro la sua stanza. Spesso ebbi la chiara sensazione che lui si rendesse perfettamente conto di cosa lo aspettasse, perché aveva seguito i malati all’interno dell’Ospedale francese, aveva visto morire pazienti che facevano fatica a respirare e sapeva come si moriva in quelle circostanze, ma non disse mai nulla.

Soffriva molto per i dolori, ma anche per la consapevolezza che ormai era rimasto poco tempo. Quando un sacerdote si recò a trovarlo nella sua stanza, dopo un breve colloquio, gli disse: «Dalla vita ho avuto tutto, ho realizzato i miei sogni, ho fatto tanto, sono pronto… L’unica cosa che mi fa star male è dover lasciare i miei figli». Aveva capito che non ce l’avrebbe fatta a resistere ancora.

La mattina del 29 marzo, verso le 12, bussarono alla porta del mio albergo. Era il rappresentante dell’Oms di Bangkok. Capii subito cosa era successo.

Oggi, quando penso alle migliaia di malati costretti in ospedale da soli, senza avere un familiare accanto, mi rattristo subito perché i ricordi mi assalgono e perché ho provato sulla mia pelle cosa significa avere un proprio caro colpito da un virus come questo.

È terribile dover abbandonare qualcuno nella solitudine. È terribile la sensazione di sentirsi abbandonati dalle persone più care, non poter stringere la mano di chi, magari per una vita, ti è sempre stato accanto, il non poter scambiare una parola di conforto. Almeno in questo, Carlo ha avuto fortuna: prima di morire, ha potuto stringere la mano di qualcuno, scambiare due parole. Non è morto in solitudine.

Giuliana Chiorrini durante una celebrazione per la festa del Comitato di Castelplanio della Croce Rossa, di cui è presidente da otto anni. Foto: Vittorio Chiocca.

Subito dopo la sua morte, io ho cercato di reagire, ho avuto la forza di non mollare, ma di andare avanti nonostante le tante difficoltà. Inizialmente, ho trovato conforto anche nella fede, ma con il passare del tempo me ne sono allontanata. Con rabbia, in particolare nei momenti più difficili, di fronte a problemi che si presentavano più grandi delle mie capacità. Per un lungo periodo la mia fede è stata assente e io ho cercato conforto in altre cose.

La morte di Carlo ha avuto un’attenzione mediatica che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato. È servita ad affrontare il dolore della perdita, ci ha aiutati a continuare, ad andare avanti. Per due anni è stato un susseguirsi di eventi, cerimonie, inviti, premiazioni, libri. La famiglia era chiamata un po’ ovunque.

Allo stesso tempo, quell’attenzione ci ha forse troppo distratti, facendoci mancare i momenti della riflessione per capire davvero, per renderci conto che Carlo non era più con noi. C’è

stato poco tempo per elaborare il lutto e le conseguenze si sono viste a distanza di anni, quando si è fatta sentire, nella crescita della famiglia, la mancanza di un padre e anche di un marito.

Oggi, a distanza di 17 anni dagli eventi che hanno travolto la mia vita e quella dei miei figli,

davanti alla diffusione di questo nuovo virus, ho capito ancora meglio il ruolo avuto da Carlo, come medico, marito, padre. Ho capito quanto sia giusto ricordarlo attraverso Aicu (Associazione italiana Carlo Urbani, ndr), l’associazione nata dopo la sua morte e oggi presieduta da Tommaso.

È assieme ai miei figli e ad Aicu che da anni cerchiamo di far camminare i progetti di Carlo nel campo della prevenzione e cura delle malattie infettive e parassitarie e dell’accesso ai farmaci essenziali. Quanto i suoi sogni fossero giustificati lo stiamo vedendo con chiarezza in questi mesi.

Giuliana Chiorrini

Un ritratto di Carlo Urbani davanti al luogo dove il personale delle Nazioni Unite di Hanoi ha commemorato il medico italiano (8 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.




I virus e noi, convivenza inevitabile

testo di Rosanna Novara Topino |


Questa pandemia ha portato morti, malati, crisi generalizzate. E non è finita. Viste le caratteristiche del virus Sars-CoV-2, è meglio infatti non illuderci: un vaccino non pare dietro l’angolo.

Come se non fosse cambiato alcunché rispetto alle grandi epidemie del passato, e nonostante i traguardi raggiunti in campo medico, dall’inizio del 2020 il mondo si trova a fare i conti con una nuova pandemia di vaste proporzioni. Si chiama Covid-19, dove «Co» sta per corona, «vi», per virus, «d» per disease (malattia) e «19» per l’anno della prima manifestazione. È causata da un ceppo di coronavirus finora sconosciuto.

Quest’ultimo è stato inizialmente indicato come 2019-nCoV in quanto identificato il 31 dicembre 2019 nei campioni di lavaggio broncoalveolare di un paziente affetto da polmonite a eziologia sconosciuta nell’ospedale Jinyintan di Wuhan, nella regione dell’Hubei, in Cina. Successivamente, è stato però rinominato Sars-CoV-2, dopo che è stata rilevata una omologia di circa il 79,5% tra la sua sequenza genetica e quella del coronavirus che, tra il 2002 e il 2003, causò la epidemia di Sars (Severe acute respiratory syndrome).

In particolare, il nuovo coronavirus è classificato nel sottogenere Betacoronavirus Sarbecoronavirus. Oltre al già citato virus della Sars, il Sars-CoV, alla stessa famiglia appartiene anche il Mers-CoV, il responsabile della Mers (Middle east respiratory syndrome), che si verificò tra il 2012 e il 2015 in Medio Oriente.

I coronavirus sono una famiglia di virus, i cui primi esemplari vennero identificati a metà degli anni ’60 del secolo scorso e alcuni di questi, gli Alphacoronavirus, possono dare i comuni raffreddori, così come anche gravi infezioni del tratto respiratorio inferiore. Tali virus, oltre all’uomo, possono infettare alcuni animali tra cui uccelli e mammiferi, e hanno come cellule bersaglio primarie le cellule endoteliali dei vasi, causando un’infiammazione vascolare sistemica, e le cellule epiteliali degli apparati respiratorio e gastrointestinale.

Il «salto di specie»

La comparsa di questo, come di altri nuovi virus patogeni per l’uomo, presenti inizialmente solo negli animali è dovuta a un fenomeno noto come «spillover» o «salto di specie». Nel caso del Sars-CoV-2 c’è un’omologia del 96,2% con un coronavirus simile a quello della Sars, presente nel pipistrello a ferro di cavallo (BatCoV RaTG13). Questa omologia ci induce a pensare che tale pipistrello sia il principale serbatoio del virus. Si tratta, quindi, di una «zoonosi». Solitamente, il passaggio di un virus all’uomo da un animale serbatoio è favorito da un ospite di amplificazione, cioè un altro animale: nel caso della Sars è stato la civetta delle palme (non è il piccolo rapace da noi conosciuto, ma lo zibetto o mustang); nel caso della Mers è stato il cammello; nel caso della febbre emorragica di Marburg sono state le scimmie verdi importate dall’Uganda per una fabbrica di vaccini a Marburg in Germania. Nel caso dell’attuale coronavirus non è ancora stato identificato l’ospite intermedio anche se sono state fatte ipotesi relative a qualche specie di serpente, al pangolino o ai cani randagi. Il salto di specie tra animali, e da questi all’uomo, è frutto di mutazioni e adattamenti virali alla specie ospite favoriti dal tipo di genoma virale, cioè l’Rna. I virus a Rna – come i coronavirus, i filovirus dell’Ebola, i paramixovirus come Hendra e Nipah (rispettivamente agenti eziologici di una grave sindrome respiratoria soprattutto equina in Australia nel ’94 e di una forma di encefalite in Malesia nel ’98) – presentano mutazioni genetiche molto più frequentemente dei virus a Dna – come, per fare qualche esempio, l’Herpes virus o il Papilloma virus o quello del vaiolo (Poxvirus) -. I virus a Rna non possiedono, infatti, un efficiente sistema enzimatico di riparazione delle mutazioni, a differenza di quelli a Dna, che risultano molto più stabili.

Questo comporta due cose: i virus come i coronavirus sono molto più capaci di adattarsi a nuovi ospiti, tra cui l’uomo, ed è molto più difficile produrre un vaccino efficace nei loro confronti, perché le mutazioni genetiche del loro Rna si traducono in variazioni degli antigeni di superficie, verso i quali sono spesso diretti gli anticorpi stimolati dai vaccini. Per produrre un vaccino efficace contro questi virus diventa pertanto necessario riuscire a individuare al loro interno qualche molecola che risulti stabile nel tempo. Questa è la difficoltà incontrata nella produzione di vaccini efficaci a lungo termine per l’Aids e l’influenza, patologie provocate anch’esse da virus a Rna frequentemente mutanti. Quindi, l’attesa di un vaccino contro l’attuale pandemia sarà lunga, soprattutto in considerazione del fatto che non esiste ancora un vaccino nemmeno per la Sars del 2003.

Tampone per Covid-19. Autore: Prachatai.

La tramissione del virus

Il coronavirus dell’attuale pandemia, come già quello della Sars, si trasmette da uomo a uomo in tre diversi modi:

⚫︎ per via aerea, per mezzo di gocce di saliva (Flügge’s droplets) e dell’aerosol delle secrezioni delle vie aeree superiori, soprattutto in caso di tosse o starnuto, ma anche durante una conversazione tra persone vicine meno di 1,8 metri, che viene perciò indicata come distanza minima di sicurezza;

⚫︎ per contatto diretto ravvicinato, cioè con la stretta di mano, toccandosi successivamente occhi, naso e bocca con le mani; c’è, inoltre, la possibilità di contagiarsi toccando oggetti contaminati, che possono risultare tali fino a 48 ore nel caso dell’acciaio e 72 nel caso della plastica; secondo uno studio dell’Istituto superiore di sanità, la sopravvivenza del virus nell’ambiente dipende dalla temperatura e sarebbe di circa un giorno a 37°C, mentre potrebbe arrivare ad una settimana a 22°C;

⚫︎ per via oro-fecale; nei pazienti cinesi, una ricerca ha dimostrato una maggiore positività nei tamponi anali, rispetto a quelli orali in una fase tardiva dell’infezione, quindi si può pensare anche a questa via d’infezione; il virus, del resto, è stato trovato nelle fogne di Roma, Milano e Parigi.

Finora è stata esclusa la via di trasmissione materno-fetale e si pensa che i neonati positivi al virus, nati da madri positive, lo siano diventati solo dopo la nascita, per contatto diretto con la madre.

È stata recentemente rilevata la presenza del virus nel liquido lacrimale, del resto uno dei sintomi della Covid-19 è la presenza di congiuntivite, quindi questa potrebbe essere una fonte d’infezione.

Si pensa che il periodo d’incubazione sia variabile tra 2 e 14 giorni, con una media di 5 giorni. Le persone positive possono già trasmettere il virus nel periodo di incubazione, in assenza di sintomi.

I sintomi dell’infezione

Per quanto riguarda le manifestazioni dell’infezione, si va da quelle meno gravi, che indicano un interessamento delle alte vie respiratorie (febbre, tosse, cefalea, mal di gola, raffreddore, difficoltà respiratorie, perdita del gusto e dell’olfatto, diarrea, malessere generale per un breve periodo di tempo), a quelle più gravi, con interessamento delle basse vie respiratorie (come polmonite o broncopolmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale, meningoencefalite, problematiche cardiovascolari, tromboembolia generalizzata e polmonare in particolare, ictus, a seguito di alterazioni nella coagulazione del sangue come conseguenza di una eccessiva risposta infiammatoria da parte dell’organismo indotta dal virus, e infine morte).

Secondo le osservazioni condotte finora, l’80% circa della popolazione colpita dal virus risulta asintomatica o paucisintomatica (cioè senza o con pochi sintomi), mentre il 15% presenta una più grave sintomatologia con necessità di cure intensive con somministrazione di ossigeno e il 5% raggiunge uno stadio critico, che comporta la ventilazione polmonare. Va detto che molte delle persone risultate positive ma asintomatiche al momento del test, hanno successivamente sviluppato i sintomi della malattia.

Il tasso di letalità

Per quanto riguarda il tasso di letalità, è molto difficile dare un valore attendibile in corso di pandemia in quanto, finché non sarà terminata, non si può conoscere il totale delle morti causate dal virus. I numeri attualmente oscillano tra il 2 e il 5,7% dei positivi. Una delle principali difficoltà risiede nel fatto che molte morti per coronavirus non sono state finora prese in considerazione, perché avvenute in residenze per anziani (le cosiddette Rsa) dove ai pazienti non è stato fatto il tampone per accertare la positività al virus, nonostante i sintomi, a differenza delle persone ricoverate in strutture ospedaliere. Anche in quest’ultime peraltro si sono riscontrate delle morti di persone non testate per il coronavirus, ma con sintomatologia compatibile. Ciò di cui ci si sta rendendo conto, tardivamente purtroppo e in seguito a diverse indagini in corso da parte della magistratura italiana, è che la metà delle morti sono avvenute nelle case di riposo (fenomeno riscontrato anche nel resto d’Europa) e, secondo l’Istat, il numero dei decessi nei mesi di marzo e aprile in Italia sarebbe superiore di 10mila unità rispetto ai dati diffusi dalla Protezione civile, che al 14 maggio 2020 si attestano a 31.368 unità.

Facendo un paragone con la Sars e la Mers, sembrerebbe che la Covid-19 sia più infettiva, ma meno letale, dal momento che la Sars ebbe un tasso di letalità del 9,6% e la Mers del 34,4%.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte)

L’infografica mostra quando nasce e come si sviluppa una pandemia. Autore: Arimaslab per WWF Italia, 2020.


Dove, cosa, perché

La pandemia da Covid-19 causata dal virus Sars-CoV-2 si è manifestata per la prima volta in Cina, probabilmente nel mese di novembre 2019, diffondendosi poi in quasi tutti i paesi del mondo. In Italia, dopo due mesi in cui soprattutto le regioni del Nord sono state duramente colpite, si contano a decine di migliaia i morti e i malati. Da maggio si sta faticosamente passando da una prima fase di chiusura generalizzata, il cosiddetto «lockdown», ad una seconda fase di graduale ripresa delle attività. Tuttavia, non ci siamo ancora lasciati alle spalle la possibilità di contagio e gli ospedali sono ancora pieni. Ne scrivo in questo e in due successivi articoli, cercando di descrivere le principali caratteristiche del nuovo coronavirus responsabile di questo dramma.

(R.N.T.(

Nome e caratteristiche

Esterno e interno dei coronavirus

Si chiamano coronavirus per via del loro aspetto. Si tratta infatti di particelle sferiche sormontate da una specie di corona formata dall’insieme di proteine superficiali a forma di spuntone, o spike, come vengono chiamate. In realtà, ogni spuntone è un trimero formato da tre glicoproteine S, che si legano specificamente al recettore Ace2 (Angiotensin converting enzyme 2) presente sulle cellule endoteliali dei vasi sanguigni dei polmoni, dei reni, dell’intestino, del cuore e di altri organi, tra cui l’encefalo, l’esofago e il fegato. Il virus presenta un rivestimento o envelope, costituito da una membrana ereditata dalla cellula ospite dopo averla infettata. Oltre alla proteina spike, che fuoriesce dal rivestimento e forma la corona, il virus presenta la proteina M, che attraversa il rivestimento ed interagisce all’interno del virione con il complesso Rna-proteina. C’è poi il dimero emoagglutinina-esterasi (He), sempre nel rivestimento virale e con una importante funzione nel rilascio del virus all’interno della cellula ospite. Un’altra proteina virale, la E, aiuta la glicoproteina S, e perciò il virus, a legarsi al recettore Ace2 della cellula bersaglio. All’interno del virus si trova il suo genoma costituito da un singolo filamento di Rna a polarità positiva, delle dimensioni comprese tra 27 e 32 kb (chilobase), tra i più grandi conosciuti, che codifica per sette proteine virali ed è associato alla proteina N, la quale ne aumenta la stabilità. Il coronavirus possiede, inoltre, un enzima responsabile della sua moltiplicazione, la polimerasi nsp 12, contro la quale sembra funzionare il «Remdesivir», un farmaco antivirale nato per la cura dell’Ebola.

(R.N.T.)

I serbatoi dei virus zoonotici

Non è colpa di un pipistrello

I pipistrelli o chirotteri, che peraltro sono utilissimi al genere umano come insettivori (soprattutto nel contenimento della malaria, cibandosi in primis di zanzare), come impollinatori e per il loro guano altamente fertilizzante, purtroppo sono il principale serbatoio di virus, seguiti da primati e roditori. Essi sono presenti sulla Terra da molto prima dell’uomo. Comparvero più o meno tra 65 e 55 milioni di anni fa, quando i virus erano già presenti, mentre i primi ominidi si staccarono dalla linea evolutiva del gorilla solo 8 milioni di anni fa e 5 da quella dello scimpanzé, quindi i pipistrelli hanno avuto molto più tempo per adattarsi ai virus. Questo li ha portati a una sorta di tolleranza immunitaria, una specie di permeabilità virale. Oltretutto sono animali molto sociali (nello stesso sito possono esserci milioni di individui), rappresentano circa un quarto di tutti i mammiferi, con 1.116 specie conosciute, e sono caratterizzati dal volo, che consente loro di portare e contrarre virus su aree molto estese. I virus zoonotici portati dai pipistrelli sono maggiormente diffusi in alcune regioni asiatiche e nell’America centro-meridionale, mentre quelli portati dai primati sono tipici dell’America centrale, dell’Africa e del Sud-est asiatico e quelli trasmessi dai roditori sono principalmente distribuiti in certe aree dell’America del Nord e del Sud e dell’Africa centrale.

(R.N.T.)

L’infografica mostra i passaggi del Coronavirus dagli animali all’uomo; evidenziati in rosso, ci sono i tre virus più importanti. Autore: MDPI, Basel, 2020.